per diritto - Sauro Pipe
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per diritto - Sauro Pipe
1 2 Gioacchino Sauro Panchakarma e altri racconti 3 4 Oggi nessun fatto come tale mi interessa più. Leggo malvolentieri, rifuggo quasi il contatto con gli altri, e a poco a poco mi sento attratto dalla vita solitaria, che mi consentirebbe di seguire al meglio la mia disposizione interiore. Insomma: sono un metafisico e non posso essere nient’altro (per quante attività diverse io possa intraprendere con più o meno successo), il che significa che il mio vero, serio interesse va solo alla possibilità del mondo, non alla sua esistenza particolare. Hermann Keyserling Diario di viaggio di un filosofo. L’India 5 6 1. L’ontalgia del Professor Giulio Mapelli Il professor Giulio Mapelli non era sempre stato grassoccio, malinconico e torturato dai bruciori di stomaco. Solo qualche anno prima era stato un uomo attraente e dinamico che soleva definirsi, tutto sommato, appagato dalla vita. Lui e Sandra, collega d’ateneo e brillante assistente di storia dell’arte, si erano sposati molti anni prima persuasi che quello tra scienza ed arte fosse un fertile connubio; e lo fu in effetti, almeno dal punto di vista intellettuale, perché dal punto di vista gonadico produsse un solo fagottino cui fu dato il nome di Laura. Non che vi fossero problemi a letto, tutt’altro, ma bastarono i primi mesi di allattamento e diverse notti passate in bianco tra pianti isterici e appestanti pannolini perché i due si rendessero conto che la Riproduzione Della Specie era un’attività che non li entusiasmava. Così non vi furono altri fagottini, e i tre, nel tempo, formarono una famiglia adulta di cui, appunto, il professore era appagato. Finché non comparvero i primi, inspiegabili, bruciori di stomaco. Per la verità, pur non confessandolo neanche a se stesso, il professore cominciava a nutrire il sospetto che qualcosa non andasse. Lo notava soprattutto nelle rare serate d’inverno in cui stavano insieme a guardare la televisione. Si, perché era diventato sempre più raro che si trovassero a condividere momenti comuni, tutti e tre impegnati a fare cose che ritenevano troppo 7 importanti per potervi rinunciare. E lui si sentiva un po’ solo. Poco, davvero poco, tuttavia abbastanza per creare un’ombra nel suo appagamento. Poi, durante un soggiorno di studio in California, il professore varcò inconsapevolmente il confine tra il piacere della conoscenza e la stupida avidità dei sensi. Accettò lusingato la corte di una studentessa di Chicago, una giovane Barbie in cerca di esperienze erotiche con uomini maturi. Il guaio fu che oltre ad andarci a letto - prima d’allora non aveva mai tradito Sandra credette di essersene invaghito. Una storia banale che terminò nel giro di pochi mesi, ma che bastò a scavare tra lui, Sandra e Laura, un abisso incolmabile. Si era comportato come un uomo qualunque. Avrebbe dovuto parlare di quell’ombra, cercare di capire. E invece. Anni e anni sprecati nel coltivare ideali di cui non era stato all’altezza. Non riuscì a consolarlo neppure la verità che fosse un male comune alla maggior parte degli uomini. Tirò le somme e ne dedusse che era diventato ciò che aveva sempre aborrito, nient’altro che un banale borghese intellettuale del cazzo. Da allora, il Professor Giulio Mapelli scivolò lentamente in un profondo stato di prostrazione. Andò a vivere da solo, abbandonò tutti i progetti di ricerca nei quali era coinvolto, ingrassò e perse ogni interesse per la vita. Insomma, in poco tempo divenne preda di quella bestia immonda che chiamiamo angoscia di vivere. “Vuole un po’ d’acqua?” gli chiese il dr Aricò, il suo psicanalista, porgendogli un bicchiere riempito dalla brocca che teneva sempre sul tavolo per i casi di emergenza. La seduta stava terminando. Malgrado Mapelli non credesse nella psicanalisi, si sottoponeva a quel rito tre volte la settimana da ormai due anni. “Il fatto è che va sempre peggio. Ho dolori dappertutto, un braciere nello stomaco e una stanchezza cronica. Sono sfinito.” 8 sussurrò Mapelli mettendosi seduto per portare alle labbra il bicchiere. “La paura è parte dei nostri istinti animali. Tutti abbiamo paura, dobbiamo solo imparare a gestirla” disse il medico senza convinzione. “Mi scusi dottore, ma sente anche lei questa… puzza?” chiese Mapelli con una smorfia eloquente del viso. “Puzza? No…, direi di no. La donna delle pulizie si occupa dello studio ogni mattina. Che genere di puzza… sente?” “Lasci stare. In questo periodo mi perseguita dovunque io vada. Sarà una forma allucinatoria” concluse Mapelli lasciando lo psicanalista col naso per aria come un Pointer che cerca la preda. Come tutte le precedenti, anche quella seduta gli aveva lasciato solo un enorme vuoto allo stomaco e una sensazione di infinita tristezza, una tristezza densa, untuosa. Uscendo in strada guardò il cielo e sospirò. Era una giornata di fine estate, ancora calda e rumorosa, meglio dire caotica. Tra poco sarebbero ricominciate le lezioni all’università. La tristezza di Mapelli mutò: da untuosa cominciò a diventare anche insopportabilmente appiccicosa. Senza dubbio contribuì a quell’aggravamento umorale l'orda dei vacanzieri stagionali che era tornata ad occupare la città, una Palermo fino a poco tempo prima silenziosa e dolce come nelle foto di cent'anni fa, riversandosi per le strade con i suoi mostri tecnologici su quattro, tre e due ruote. Mapelli non aveva mai voluto imparare a guidare, preferiva spostarsi in autobus, in bicicletta o, quelle rare volte che aveva davvero molta fretta, in taxi. Quello che per molti era ritenuto un handicap, per lui era stata una scelta di libertà, una delle tante che aveva fatto quando riteneva ancora di avere un ruolo attivo nella società e che ormai si erano trasformate in mere abitudini, non diverse dal macchiare con una goccia di latte freddo ogni caffè che prendesse, o il preferire, d’estate, il lino al cotone. Ansimante, in dieci minuti arrivò comunque davanti al portone di casa, un palazzo di cinque piani costruito intorno agli anni 9 cinquanta, dalle spesse mura e gli scalini alti. Pur abitandovi da quattro anni, non aveva mai del tutto focalizzato le facce degli altri inquilini e ogni volta che ne incontrava qualcuno in ascensore, come gli stava succedendo proprio allora, si limitava a farfugliare un cortese saluto e a guardare dritto davanti a sé. Infatti, sugli inquilini che abitavano gli altri appartamenti non avrebbe saputo dire niente, solo sparuti flash di vaga umanità. Un giovanottone dai lunghi capelli rasta, un signore stempiato con una borsa porta notebook a tracolla, una vecchia citroen posteggiata sempre nello stesso posto da un gruppetto di probabili studenti, un cane portato a pisciare sempre alla stessa ora da una donna piccolina e sgraziata, una famiglia di operosi cingalesi. Anche una famiglia di palermitani. Di quella avrebbe potuto dire senz’altro di più perchè dopo il pranzo e la cena, la signora, una sciatta grassona dagli untuosi capelli neri, sgrullava la tovaglia da tavola al balcone mandando tutte le bricioline e le sostanze organiche annesse nell’atrio comune. Durante questa operazione il marito usciva con lei in balcone, si appoggiava alla ringhiera a fumare una sigaretta e dava fiato alle trombe. Dal rumore che producevano i figli, poi, si sarebbe detto che fossero almeno quindici, ma non aveva mai visto più di tre diaboliche teste spuntare dal balcone. Appena entrato nel suo appartamento, il professor Giulio Mapelli aprì il balcone e si buttò sulla sdraio che teneva fuori. I bruciori allo stomaco erano aumentati, ma aveva finito le maalox e aveva dimenticato di comprarle prima di salire a casa. Decise che avrebbe preso un pò di bicarbonato, ma adesso voleva solo riposare e godersi il vento che era decisamente girato a maestrale portando con sé un po’ di frescura. Ciò gli provocò uno stato di delizioso torpore. D’improvviso un flash mnemonico lo proiettò verso quella che era stata la sua casa di campagna quando viveva con la moglie Sandra e la figlia Laura. Ricordò come l’ex moglie avesse reagito alla separazione intensificando gli impegni di lavoro. Insomma, non aveva perso affatto la sua vivacità, 10 piuttosto le era rimasta una vaga pena nel cuore e la delusione per aver mal riposto la sua fiducia su un uomo così ordinario. Di certo non si faceva mancare il sesso, di questo Mapelli era sicuro, perchè era sempre stata una donna passionale e sessualmente esigente. Il pensiero si spostò su Laura. Lei sembrò prendere la separazione con indifferenza. Forse perchè era abituata alla sua assenza. In quel momento era ad Amburgo per un progetto Erasmus che l’avrebbe tenuta lontana da Palermo altri cinque mesi. Ogni tanto lo chiamava, ma le loro telefonate erano piuttosto scialbe, rituali. Come va? Tutto bene? Hai sentito la mamma? Stai attenta. Non sono stato un buon padre – pensò - e forse non lo sarò mai. A rompere quella battaglia emozionale ci pensò il trillo del telefono. Era Carmine, vecchio compagno di liceo, che gli proponeva di raggiungerlo per la fine settimana nella sua casa al mare. “Dai Giulio, vieni! Qui è splendido. Cosa fai lì in città con questo caldo? “Sono 150 km, Carmine” rispose Mapelli. “Ma ci metti al massimo due ore.” “Tu non guardi i telegiornali.” “Che vuoi dire? Che c’entrano i telegiornali adesso?” “Ok. Immagina il quadro. Parto sabato mattina. Alla stazione trovo lo sciopero dei treni e nessuno mi sa dire quando si potrà partire. Tutto questo a quaranta gradi almeno. Lo sai, tutta quella storia del riscaldamento della terra, il buco nell’ozono, l’effetto serra, le piogge acide… Arrivo comunque da te che è già pomeriggio inoltrato. Mi spoglio subito per una nuotata rinfrescante e trovo l’acqua a vent’otto gradi centigradi, le mucillaggini, le meduse, chiazze di petrolio scaricate da una petroliera di passaggio nella notte e qualche stronzo galleggiante. E mi va bene se non mi imbatto in un cadavere di extracomunitario, un povero disgraziato che hanno buttato in mare per salvarsi il culo dalla guardia costiera. Ok, andiamo 11 avanti. Mi rompo le scatole e decido di fare una doccia rinfrescante. Uscito dalla doccia decido di bere una lattina di coca gelata, ma mi scoppia in faccia. Un nuovo Unabomber ha deciso di colpire al sud, per emulazione, come quei coglioni che lanciano sassi sulle macchine o bruciano le automobili posteggiate sotto casa.” “Ma...” “Aspetta! Non ho finito. Allora mi porti in ospedale, ma c’è un solo medico, tutti gli altri sono in ferie, è un giovane alle prime armi e mi fotte la mano, mi becco la sindrome del legionario e la sars perché il giovane galletto era stato in Thailandia per una vacanza erotica. Quando comincio a pensare che le cose si mettono male irrompe in ospedale un pazzo che si mette a sparare in aria e mi prende in ostaggio. I medici gli hanno ucciso la moglie per un’operazione d’appendicite e lui mi taglia l’orecchio per dimostrare che fa sul serio. Vuole lì, subito, il primario per tagliarli le palle. Vuoi che continui? Più avanti la cosa si fa intrigante perché arrivano anche i terroristi di Al Qaeda, una tromba d’aria estiva con fulmine su una giovane turista che fuggiva sulla spiaggia per evitare l’aggressione di un Pitbull abbandonato, un terremoto d’assestamento, un malato di aids con una siringa in mano, un treno deragliato perché hanno licenziato il casellante (troppe spese), e un nuovo presidente del consiglio perché, nel frattempo, è caduto nuovamente il governo.” “Bravo, un bel pezzo di cabaret sullo psicopatico medio. Divertente, davvero molto divertente. Vuol dire che non vieni?” “Neanche se mi paghi.” “Ok, allora vaffanculo Giulio” disse Carmine chiudendo la telefonata. “Grazie, amico mio, di cuore” rispose Mapelli al suono continuo della linea interrotta. Detto ciò, si diresse verso il frigorifero, dove un’enorme torta gelato al cioccolato attendeva che il suo destino si compisse. Era 12 già pentito di aver trattato così l’amico, in fondo era l’unica persona rimastagli vicino malgrado tutto. Sarebbe bastato dirgli che non era dell’umore adatto, ma non aveva resistito all’idea di sfotterlo un pò. Perchè per Mapelli era un piacere sfottere Carmine. Adorava la faccia che faceva ogni volta che cascava in uno dei suoi scherzi e lo incuriosiva la sua tendenza a sottomettersi allo sfottimento, come se se lo meritasse. Carmine non si era mai sposato, non perchè non avesse voluto, ma per la sua timidezza con le donne e un aspetto assolutamente anonimo che lo avevano fatto passare tra cento gonne senza poterne afferrare nessuna. Sin dal liceo era stato basso di statura, stempiato e grassoccio. La sua faccia da giovane seminarista non era cambiata negli anni e, malgrado avesse superato anche lui i cinquanta, ne dimostrava non più di trentacinque. Così un giorno decise di farsi crescere i baffi. Non se ne accorse nessuno, nemmeno Mapelli. Fu allora che Carmine si rassegnò definitivamente, tagliò i baffi, smise di cercare la donna della sua vita e l’approvazione degli altri. Forse quella decisione lo rese più triste, ma divenne più equilibrato e sereno. Ogni volta che il suo lavoro di avvocato civilista glielo consentiva si rifugiava nella casa al mare ereditata dai vecchi genitori, una villetta su una spiaggia che d’estate diventava un carnaio, ma che d’inverno conservava un fascino particolare. “Sono stufo” disse Mapelli parlando da solo mentre si toglieva mutande e pantaloni per indossare un pareo che era stato di sua moglie. Libero da costrizioni, sentì il peso dei genitali. Il sudore che evaporava creò una deliziosa brezza attorno ai suoi testicoli. “Insomma, cosa non va in me? - continuò mentre si annodava il pareo – Sono forse semplicemente inidoneo alla vita? Sono troppo solo? Soffro di carenze affettive? Ho una scarsa produzione di endorfine?” concluse mordendo avidamente la fetta di torta che aveva poggiato sul tavolo. Ad aggravare la situazione tornò quel puzzo, un odore nauseabondo che lo perseguitava da settimane. Sentiva che ad 13 ogni inspirazione, oltre ad ossigeno, azoto, tracce di gas inerti, smog e veleni di diversa natura, nei suoi polmoni si insinuava anche un componente estraneo, dall’odore leggermente acre ed il sapore dolciastro. Era come se quell’odore passasse direttamente al cervello e facesse scivolare sugli occhi un filtro grigio inducendo uno stato emotivo ansioso ed il timore che qualcosa di terribile stesse per succedere. Era il suo corpo che lo avvertiva? Forse era arrivato il suo momento? Allora si soffermò a calcolare quanto, statisticamente, gli restava da vivere. Se non fosse rimasto vittima di un incidente, calcolando che fumava venti sigarette al giorno, era ingrassato di almeno dodici chili, soffriva di iperlipidemia, steatosi epatica, emorroidi, artrosi cervicale, sinusite, gastrite, non faceva abbastanza moto e mangiava male, gli restavano, forse, quindici anni. C’era sempre il cancro, intendiamoci. Quello arriva lì all’improvviso senza che nessuno l’abbia invitato, non bussa neanche alla porta, lo stronzo. Tutto sommato era altamente improbabile che fosse arrivata la sua ora. Questo pensiero lo consolò, e per festeggiare le rinnovate aspettative di vita decise di mangiare un’altra fetta di torta gelato, ma al primo morso sentì di nuovo quell’odore nauseabondo, insopportabile, talmente disgustoso che sputò il bolo di torta nel lavello vicino e buttò quella che rimaneva nella pattumiera. Uno scatto d’ira lo risolse a mettere sottosopra la casa fino a quando non avesse trovato l’origine del fetore. Gli ci volle un litro di sudore per scoprire che i miasmi venefici provenivano da sotto la poltrona. Era lì che lui aveva l'abitudine di spingere col piede la piccola immondizia, briciole, resti di cibo, gatti di polvere. “Qualche schifezza là sotto sta imputridendo” disse spingendo di lato la poltrona. Ma lì sotto non c'erano bricioline di pane, né torsoli di mela, e neppure il più piccolo pezzo di salame smozzicato. Quello che vide fu un putrido tunnel che sembrava non avere fine dentro cui un’intera umanità stava marcendo. Una 14 fitta lancinante allo stomaco lo costrinse a piegarsi in due per il dolore mentre le lacrime gli annebbiavano la vista e un sapore metallico gli invadeva la bocca. Vincendo il dolore si stropicciò gli occhi e si trascinò sull’orlo del tunnel dove fu risucchiato da quel luogo senza tempo, una fossa di orrori in cui vide di tutto: uno schiavo nero con i polsi sanguinanti profondamente incisi dalle catene, un uomo scheletrico dentro un pigiama a strisce con la stella di Davide al petto, un giovane asiatico con il cervello spappolato, un bambino arabo con due orribili monconi al posto delle gambe, un biondo soldato americano con le budella sparse dappertutto, una donna stuprata con il ventre insanguinato, una miriade di altre figure solo vagamente riconoscibili. Dappertutto sangue e fetore, fango molle e appiccicoso, e lui che voleva scappare ma restava sempre più invischiato in quella bolgia di corpi che lo avvolgevano fino a soffocarlo, fino a quando uno di questi gli parlò, un uomo dal volto coperto di fango, la barba incolta e un basco sulla testa che gli diceva: bisogna essere... Ma proprio in quel momento, urlando come un capretto sgozzato, perse i sensi. 15 2. Come una lasagna scotta La cartella clinica rilasciata dal pronto soccorso diceva: Sincope con perdita di coscienza alle 11.20 circa: rigidità muscolare, sudorazione abbondante, pallore, ipotensione. Seconda sincope alle 14.00, più lieve. PA 80/30. Lipotimia. Anemia. Ipotensione marcata. AP 10. Amilasi 30. Glicemia 124. Si pratica esplorazione rettale (negativa). Si invia a cardiologia per un ecocardiogramma. Nessun danno apparente a carico del cuore. Si trattiene in terapia intensiva in via precauzionale. Diagnosi: emorragia interna? “Professore - gli diceva la ragazza - si sente meglio ora?” “Mi scusi, non credo di conoscerla” rispose Mapelli con un filo di voce. “Sono la sua dirimpettaia. Mi chiamo Chiara, non ci siamo mai presentati prima. E’ stato l’urlo che ho sentito provenire dal suo appartamento a spaventarmi; stavo giusto tornando dall’università ed ero sul pianerottolo. Ho chiamato la Polizia e allora… eccoci qua. Ah! La Polizia ha cercato di rintracciare i 16 suoi parenti, mi hanno detto che sta per arrivare qualcuno di loro.” “Grazie – rispose Mapelli confuso - non sa quanto mi dispiace di averle arrecato tanto disturbo”. “Pensi solo a star meglio. Mi scusi, ma avrei lezione in facoltà. Crede di poter restare da solo?” “Certo. Grazie ancora.” La vide andare via col suo zainetto ed i jeans a vita bassa che lasciavano scoperta la schiena. Doveva avere la stessa età di Laura, pensò. “Ecco il mio Angelo – disse piano chiudendo gli occhi – perché mai avranno deciso di salvarmi?” Assorto in quel pensiero, gli occhi chiusi, sentiva in sottofondo una donna che parlava ad un uomo, probabilmente disteso nel letto accanto al suo: “Ecco, guarda: ammacca due e poi pigreco. Io sento lo squillo e ti chiamo, che tu non c’hai una lira nella scheda. Hai capito? Due pigreco, uno squillo e chiudi.” “Sicura sei che si chiama pigreco?” “Ma si…, forse. Che cazzo te ne frega di come si chiama? Tu fallo e basta!” Mapelli, per nulla disturbato da quel dialogo di carattere tipicamente ospedaliero, riposava sul letto, aprendo gli occhi ogni tanto per dare uno sguardo al monitor verde. Cos’era successo? – si chiese - Bisogna essere..., erano le parole sussurrate dall’uomo col basco e la barba incolta… Era stata un’allucinazione dovuta ad un’ipossia? Uno stato di pre-morte? O aveva davvero visto quei cadaveri ed era stato sopraffatto dal terrore? A tratti sentiva ancora quel fetore insopportabile e sobbalzava al contatto casuale con la ringhiera del letto, come se potesse trattarsi ancora del corpo martoriato di uno di quegli uomini visti nella fossa. Ma c’era davvero la fossa? Doveva saperlo al più presto, doveva esserne sicuro prima di poterlo 17 raccontare, altrimenti avrebbero decretato il suo ingresso ufficiale nel mondo dei pazzi. Decise di mettersi seduto. Con la testa che gli girava, si guardò attorno. Tutto sommato non era male quel posto. Certo non era come in “E.R.”, quella serie televisiva americana che seguiva con interesse, ma c’era un’atmosfera calma e pulita. Al posto della bella infermiera, amante, a turno, del dr Ross, Green e Vattelapesca, c’era una donnina obesa, pressoché nana e dai capelli biondo-platino palesemente tinti, che esprimeva anche lei una sua dignità ospedaliera. Non c’erano neanche quei medici informali e incredibilmente geniali, piuttosto dei seri professionisti impettiti, poco propensi al riso, ma efficienti e sicuri di sé. Essere medici in Sicilia non è come esserlo in America - pensò. Gli americani sembrano sempre voler esorcizzare il dramma con la spavalderia, i siciliani lo interiorizzano alla nascita, lo somatizzano. Per un siciliano il dramma richiede una compenetrazione seriosa – concluse colto da un capogiro violento che lo costrinse a distendersi. Ore 2.45. Vomito e diarrea sanguinolenti (scura). Si richiede consulenza immediata a Medicina, richiamo dei tecnici reperibili e urgente gastroscopia. 3.30. Individuata una lacerazione al fondo dello stomaco di probabile origine infiammatoria. L’emorragia sembra terminata. Si tratta la parte localmente. 4.45. Ritorno al reparto. Ipotensione persistente. Si somministra Dopamina, Glucosio, Mepral, tre sacche di sangue zero negativo. I reparti di terapia intensiva, durante la notte sono un riecheggiare di beep a diverse tonalità e frequenze, un concertino tecnologico niente male al quale qualche minimalista potrebbe attingere per comporre cacofonie da propinare in serate di musica sperimentale a spettatori masochisti in vena di novità. Il concertino non si ferma mai, tra pompe che controllano il flusso delle flebo, allarmi monitor, misuratori di pressione, rivelatori di 18 aritmie. Solo il rumore dei condotti dell’aria forzata si interrompe per qualche ora, a notte fonda fino all’alba. L’ospedale cominciava appena a risvegliarsi quando sopraggiunse Carmine. Cercò Mapelli con lo sguardo, lo trovò e si sedette su una sedia claudicante presa lì vicino. “Giulio, come ti senti?” gli chiese con un filo di voce. “Non lo so – gli rispose Mapelli – credo che la definizione giusta sia: come una lasagna scotta. Ma come hai fatto a sapere che ero qui?” “Una tua vicina di casa ha segnalato la cosa alla Polizia.” “Questo lo so.” “Hanno fatto presto ad arrivare a Sandra, a Laura e a tuo padre, ma Sandra è a Berlino per una mostra e da lì andrà direttamente a Stoccolma per una serie di conferenze, tua figlia è ad Amburgo mentre tuo padre pare si trovi sulla sua barca tra la Nuova Zelanda e l’Australia. Così Sandra mi ha chiesto se potevo…” “Capisco – disse Mapelli – mi dispiace. Hai dovuto lasciare la tua casa al mare per colpa mia. Non so cosa dire…” “Non preoccuparti, forse mi hai salvato da un terrorista.” “Già, e non solo” concluse Mapelli sorridendo debolmente. “Ma si può sapere com’è successo?” chiese Carmine. “Non so se posso dirtelo.” “Perchè?” “Posso fidarmi di te?” “Certo.” “Sono caduto dentro una fossa.” “Quale fossa? Dove?” “Sotto la poltrona di casa mia.” “Giulio, sii serio per favore.” “Lo sapevo che non dovevo dirtelo.” “Scusami, continua” “Lo so, sembra folle, ma è quello che ricordo.” 19 Mentre Mapelli raccontava a Carmine l’accaduto, gli ausiliari passavano lo straccio in tutti i piani, gli infermieri eseguivano i prelievi di routine, i medici di guardia dormivano ancora nelle loro stanze. La donnina biondo-platino si stava preparando per tornare a casa. In abiti civili perse la dignità ospedaliera e ridiventò il mostriciattolo che era. A poco a poco subentrarono, baldanzosi, i nuovi. “Secondo te, come fanno ad avere questa verve alle sette del mattino?” chiese Mapelli a Carmine concludendo il suo racconto. “Come fai a pensare a certe cose in questo momento? Ti rendi conto che ci stavi lasciando le penne? E questa storia della fossa sotto la tua poltrona, poi. E’ stata di sicuro un’allucinazione, non c’è altra spiegazione. Senti, ho chiamato Petrullo, te lo ricordi? E’ consulente in questo ospedale. Mi ha assicurato che prenderà in mano la situazione. Bisogna andare in fondo a questa storia, è ora che tu ti preoccupi di uscire da questo stato di prostrazione. Hai capito?” “Non è quel nostro vecchio compagno di liceo che somigliava in modo impressionante ad Einstein? Quello che è diventato un famoso cardiologo? “Si, proprio lui.” Dalle stanze cominciarono ad uscire i pazienti in grado di camminare. Tra poco sarebbero cominciate le visite dei medici del nuovo turno. Carmine raccolse le sue cose, fece un veloce inventario di ciò di cui avrebbe avuto bisogno Mapelli per il suo soggiorno obbligato e, andando via, promise di tornare nel pomeriggio. Mapelli si chiese che ore fossero. Cercò il suo orologio e lo trovò nel cassetto del comodino a lato. Lo sfigmomanometro automatico che aveva al braccio si mise in funzione. PA 107/60. “Non male, posso farcela” si disse. 20 3. Non mi dimentico di te In verità, non è che il Notaio Alberto Maria Mapelli fosse il suo vero padre. Era solo il ricco uomo che l’aveva adottato cinquant’anni prima, per volere soprattutto di sua moglie, Veronica Parri Lorena, sterile nobildonna deceduta dopo solo cinque anni dalla realizzazione del suo desiderio di maternità, se pur fittizia. Morta la donna, il Notaio si ritrovò un bambino di sette anni da allevare senza nessuna voglia di farlo. Non per cattiveria, no, solo che non era mai riuscito a creare con lui un rapporto intimo, di sangue, come avviene normalmente con un figlio proprio. Aveva ceduto alle pressanti richieste di adozione della moglie solo per amor suo, per non continuare a vederla depressa e malinconica ogni volta che le sue sorelle e i loro bambini venivano a trovarla. In quelle occasioni i piccoli giocavano per delle ore a rincorrersi nel giardino su cui si affacciava il loro salone, e lei stava a guardarli tutto il tempo, fingendo di ascoltare il cicaleccio delle sorelle, in realtà concentrandosi sui movimenti incerti dei bimbi, sulla burrosità dei loro braccini, sulle loro risate argentine. Approfittava di quei momenti per riempire il suo cuore di quegli infantilismi che le erano preclusi per poi viverne di rendita almeno per qualche giorno. Ma poi tornava, inesorabile, la malinconia. Quando il Notaio, quindi, si ritrovò solo con Giulio, non fu capace d’altro che assicurargli ottimi studi e introdurlo in quegli 21 ambienti che gli avrebbero assicurato una rete di amicizie influenti nella maturità. Così il bambino crebbe tra tate, cameriere e le bellissime amanti del padre che non duravano mai oltre i sei mesi. Finché un giorno, proprio quando Giulio aveva appena finito la maturità, annunciò che si sarebbe ritirato dal lavoro. Aveva in progetto un giro a vela intorno al mondo e riteneva che ormai il ragazzo potesse benissimo fare a meno di lui. Fece le valigie e partì con la sua ultima amante, una francese rimorchiata a Montecarlo. “Guarda che non mi dimentico di te, ok? - gli disse guardandolo fisso negli occhi – è che sto invecchiando, e prima di morire voglio girare il mondo su una barca a vela, lo voglio vedere dal mare.” “Si” si limitò a dire Giulio. “Per qualunque problema rivolgiti all’avvocato Ferri, ci penserà lui. Da quando suo padre è andato in pensione si occupa lui di amministrare i beni di famiglia. Ho disposto che ti eroghi un sostanzioso vitalizio finché non sarai indipendente e ti aiuterà in qualunque attività tu voglia intraprendere.” “Si.” “Dai, diamoci un bacio.” “Si.” Negli ultimi trent’anni lo rivide solo altre quattro volte, ma non gli fece mai mancare nulla. Adesso viveva in un’isola del pacifico con una indigena che gli aveva dato un altro figlio, ma passava più tempo a navigare che a terra. Dicevano di lui che fosse diventato un uomo saggio e felice, ma di questo Giulio non poteva essere sicuro. Nutriva per lui un profondo senso di gratitudine e nessun altro particolare sentimento, o almeno così gli sembrava. Fu subito dopo la partenza del padre che, come per tutti i figli adottati, arrivò anche per lui il momento di voler sapere chi fossero i suoi veri genitori, cosa che non fu difficile appurare 22 poiché suo padre e l’avvocato Ferri sapevano che prima o poi sarebbe arrivato quel momento. Così, alla richiesta del ragazzo Ferri lo convocò nel suo studio, lo fece sedere di fronte a lui, prese un fascicolo verde dalla cassaforte e gli disse: “Tuo padre si chiamava Vincenzo Scaturro, sparito dalla circolazione a vent’otto anni, vittima della lupara bianca. Tua madre, Rosalia Puccio, è stata trovata annegata sulla spiaggia dell’Arenella. Aveva venticinque anni e pare facesse la vita. Di lei c’è solo una foto del cadavere fatta dai carabinieri, non credo tu voglia vederla. Niente fratelli” concluse Ferri chiudendo il fascicolo. “Preferirei vederla” disse Giulio risoluto. Ferri inarcò le sopracciglia, lesse negli occhi del ragazzo una determinazione che non avrebbe concesso repliche, riaprì il fascicolo e gli porse la foto. Una vecchia foto in bianco e nero, seppiata, di una donna distesa sulla sabbia, seminuda, la faccia marmorea e le labbra nere. Non provò orrore, piuttosto notò che somigliava a una foto di Marlene Dietrich che teneva appesa nello studio. Era una foto scattata quando lei aveva circa vent'anni: i capelli pettinati all'indietro e le mani ad incorniciare il viso, guarda verso un punto alla sua sinistra, i gomiti poggiati sul tavolo bianco. Chissà cosa guardava, probabilmente l'indice di un'assistente del fotografo. “Grazie” disse restituendo la foto all’avvocato che lo stava scrutando nel tentativo di carpire una qualche emozione. “Tutto a posto?” gli chiese Ferri. “Doveva essere una bella donna” rispose. “Fosti consegnato all’orfanotrofio dai carabinieri e quasi subito adottato. Tuo padre, qualche anno fa, mi pregò di indagare sui tuoi veri genitori e di preparare un fascicolo. Prima o poi avresti voluto sapere e riteneva fosse giusto aiutarti a farlo. E’ chiaro che queste informazioni non dovrebbero stare nella mia 23 cassaforte, ma tua madre finanziava l’orfanotrofio e allora è stato usato un occhio di riguardo.” “Ho altri parenti in vita?” “Si potrebbe scoprire, ma ritenevo che non ti avrebbe interessato saperlo.” “E’ così, in effetti” rispose Giulio alzandosi dalla sedia. “Hai bisogno di qualcosa? L’assegno mensile ti basta?” “Si grazie, è fin troppo per le mie esigenze” concluse salutandolo. Questo cinico scherzo del destino evitò a Giulio la fase successiva, l’urgente desiderio di conoscere, in carne ed ossa, i veri genitori. La loro morte prematura lo liberò dallo strazio di ricercare negli occhi, nei gesti, nell’intonazione della voce, il perchè di quell’abbandono. Ma qualcosa da allora cambiò. L’agiatezza in cui viveva non gli sembrò più così naturale come lo era stata fino ad allora. Non poteva fare a meno di chiedersi cosa sarebbe diventato se fosse cresciuto con la sua vera famiglia. Forse uno di quei torvi spacciatori che vedeva girare per le scuole. La nostra vita dipendeva dunque dall’ambiente in cui si cresceva? Gli sembrò che ci fosse qualcosa di profondamente ingiusto in quel meccanismo. Non ci aveva mai pensato prima e gli sembrava un pensiero sconvolgente. Si aprì così una porta che l’avrebbe presto condotto verso concetti del tutto nuovi e suadenti: conflitto di classe, sfruttamento, giustizia popolare, rivoluzione. E l’università di quegli anni era la miglior palestra che si potesse immaginare per un rivoluzionario in nuce. Occupazione, autoriduzione, scontri con i fascisti, collettivi e autogestione divennero presto la sua normalità. La grande villa in cui abitava divenne un rifugio sicuro per tutti i compagni bisognosi di aiuto. Comprò persino un ciclostile per stampare volantini e lo collocò nel vecchio studio del padre. Nella sua mente era un modo per sfruttare le risorse dei ricchi a favore dei poveri, un atto di reale giustizia, lui era come Robin Hood, come Zorro. Ma poi scoprì 24 Che Guevara, e gli sembrò che di fronte a lui quelle figure letterarie svanissero come sabbia al vento. Di lui c’erano foto e filmati, non semplici disegni sui libri o attori sul set. La sua vita aveva un ideale dietro, non generici sentimenti umanitari. Malgrado la febbre rivoluzionaria che lo aveva invaso in quegli anni, Giulio fu un ottimo studente universitario. Ferri gli fece sapere che poteva fare quello che riteneva più giusto, gli aumentò persino l’assegno mensile, ma sugli studi non transigeva. Se non avesse superato gli esami universitari l’erogazione dell’assegno, per ordine espresso di suo padre, sarebbe stato interrotta. E lui, da bravo rivoluzionario, si impegnò nello studio più degli altri non facendo mai uso delle conoscenze che la sua condizione lo portava ad avere. Fu una sera d’inverno che conobbe Sandra. Faceva parte del collettivo dell’Accademia di Belle Arti e venne a casa sua con altra gente per stampare un volantino su arte e potere. Non fu un buon inizio. Lei, figlia di semplici impiegati dello stato, pensava di lui che fosse solo un figlio di papà che giocava a fare il rivoluzionario. “E’ facile con una casa così parlare di povertà!” gli disse un giorno, proprio quando lui aveva appena finito di parlare con enfasi della situazione in Vietnam. Giulio non seppe rispondere, fu come se un dardo avvelenato lo avesse colpito direttamente al cervello, ma le parole di Sandra ebbero un effetto immediato. Lasciò la villa, prese in affitto una camera insieme ad altri studenti, si mise a lavorare come cameriere in un ristorante. Non usava più il denaro dell’assegno mensile che andava così a finire, inutilizzato, sul suo conto corrente. Il suo orgoglio gli imponeva di dimostrare a quella ragazza che poteva fare a meno di tutto e di tutti. Non fu facile, era solo l’orgoglio che gli impedì di accettare un ripensamento caldeggiato da Ferri. Questi usò tutti gli argomenti possibili per convincerlo a ripensarci. “Per colpa tua dovremo licenziare la cameriera ed il giardiniere. Ci hai pensato?” gli disse. 25 “Non posso tornare indietro, è una questione di coerenza” gli rispose. Ferri ci rinunciò, d’altronde il ragazzo era vicino alla laurea e aveva una media che gli avrebbe garantito il massimo dei voti con la lode, i patti erano rispettati. Qualche mese dopo rivide Sandra ad una mostra di Guttuso, e stavolta fu subito amore. 26 4. Vita da ospedale La salute di Mapelli migliorò di giorno in giorno. Fu presto trasportato dalla terapia intensiva al reparto di medicina generale. Si trattava di una struttura vecchia e malridotta un tempo riservata ai malati di tubercolosi ma che, proprio per questo, possedeva delle ampie verande che si affacciavano su un boschetto di pini secolari. Si abituò presto ai ritmi ospedalieri e allo squallore dell’ambiente, arrivando addirittura a fare comunella con gli altri tre malati ricoverati nella sua stessa stanza. Insieme passavano alcune ore in veranda, fumando una sigaretta di nascosto tra un’iniezione e l’altra e parlando di ernie, colecisti e ulcere. Ma spesso le discussioni divagavano sulla vita fuori da quelle mura. Il signor Lo Presti, per esempio, era un pensionato dall’aspetto burbero ma estremamente gradevole. Conduceva una lotta senza quartiere verso tutto ciò che era tecnologico e moderno. Si vantava di possedere ancora un televisore in bianco e nero e un accendino a benzina, ma più di ogni altra cosa odiava i telefoni cellulari. “Non lo comprerò mai! Ce l’ho detto mille volte a mia moglie. Già non lo sopporto a casa! C’ho ancora quello con la ruota per fare i numeri e lo tengo solo per i figli, sapete com’è!” diceva rosso in faccia. Il signor Lo Presti raccontava che siccome nel primo pomeriggio telefonava sempre qualcuno che aveva qualcosa di interessantissimo da vendere, lui semplicemente lo staccava. E 27 così si risparmiava offerte di contratti telefonici imperdibili, cassette di prodotti tipici calabresi, prove gratuite di fantastici aspirapolvere sui tappeti di casa, improbabili carte di credito con possibilità di pagamenti rateali, assicurazioni contro ogni tipo di infortuni, etc., etc. Ma non si limitava a staccare la spina, sollevava la cornetta dalla sua sede lasciandola penzolare verso il pavimento. Avrebbe potuto poggiarla, più correttamente, sul piano del mobiletto dove risiedeva stabilmente l’apparecchio, ma amava godere della vista di quella cornetta esanime, come un corpo abbandonato, svenuto, svuotato di vitalità, privo di coscienza. In qualche modo umanizzava l’apparecchio, come fanno in molti con i computer. Il signor Quattrocchi invece, ricoverato per un’ernia recidiva, era un pescatore che nel tempo libero costruiva piccoli modelli di barche di sua invenzione. Chiese alla moglie di portargli l’album con le foto delle sue creazioni per farle vedere ai suoi nuovi amici. Con quelle foto passarono un intero pomeriggio parlando di palamiti, lenze e reti, di come il pesce ormai scarseggiasse e di che fine avremmo fatto andando avanti così. Zù Carmelo invece, così si faceva chiamare da tutti, parlava poco e niente, ma era affabile e cordiale. Diceva di possedere una friggitoria di panelle e crocchè poco fuori città, in un luogo imprecisato, verso Tommaso Natale. Nessuno osò approfondire la cosa, ma tutti capirono che gli affari di Zù Carmelo non avevano niente a che fare con la ristorazione. Aveva un grosso tatuaggio sul petto, si sarebbe detto un drago, ma era di scarsa fattura, di quelli che ci si fa a vicenda in carcere. Fu il primo a lasciare la tribù. Vennero a prenderlo due giovanottoni in occhiali scuri che presentò come suoi figli. Si sbarbò per bene, indossò un vestito scuro che gli avevano portato “i figli” e salutò tutti baciandoli sulle guance. Lasciò il suo numero di cellulare pregandoli di chiamarlo se avessero avuto bisogno di qualcosa, di qualunque cosa – disse – non si sa mai nella vita. 28 Quella consueta vita d’ospedale aiutò Mapelli a sottrarsi all’ansia di vivere. Paradossalmente, nell’ambiente ritenuto meno adatto aveva trovato quel calore umano di cui aveva bisogno. Per Mapelli non era una novità che gli uomini diventassero migliori quando si trovavano a condividere un dramma, come gli esiti di una guerra o di un disastro naturale, ma non aveva mai pensato che persino nella malattia gli uomini avessero la possibilità di percepire la loro esistenza non più come individui ma come specie umana, e perciò sviluppassero una forma di solidarietà spontanea. Quindi, smise presto di meravigliarsi per quei gesti caritatevoli - aspetti professore, l’aiuto ad alzarsi - o anche semplicemente gentili - l’assaggi professore, come fa lo spezzatino mia moglie nessuno - che si scambiavano i quattro durante le tediose giornate d’ospedale. Persino Carmine fu contagiato da quell’atmosfera e nei giorni seguenti si preoccupò di portare giornali e riviste per tutti. Un giorno arrivò persino con un vassoio di dolcini e un termos di caffè, ma della cosa si accorse il medico di guardia che gli sequestrò il malloppo e lo sgridò come fosse un assassino. Finché una mattina Mapelli vide arrivare, con il suo caratteristico passo marziale, il dottor Petrullo, sempre più somigliante al vecchio Einstein. “Ciao Giulio, vengo da un colloquio con il medico che ti ha esaminato. Stai tranquillo, adesso è tutto a posto. Sei qui da troppo tempo per le casse della Sanità e non vedono l’ora di liberare il posto. Vuoi andare a casa?” “ Io non ci sarei neanche venuto.” “Bene, Carmine aspettava una mia telefonata per venirti a prendere. Gli dico che sarai pronto fra tre ore.” “Tre ore? Perché così tanto?” “Perché prima devi fare un salto a Psichiatria. C’è un carissimo collega che ti aspetta. Si chiama De Santis, al secondo piano.” “Che ci devo andare a fare dallo Psichiatra?” 29 “Carmine mi ha parlato della tua fossa sotto la poltrona. Non ho capito se è stata un’allucinazione dovuta al malessere o se sei proprio fuori di testa. Vogliamo vederci chiaro.” “Senti, vado già da uno psicanalista, se fossi pazzo l’avrebbe già capito, non ti pare? E poi quella non è stata un’allucinazione.” “Allora insisti! Non uscirai da qui senza aver visto prima De Santis – disse Petrullo risoluto – rassegnati.” De Santis lo aspettava in ambulatorio. Per la verità si trovava per metà, quella inferiore, dentro l’ambulatorio, l’altra metà era protesa fuori dalla finestra a fumare una sigaretta. Quando arrivò, Mapelli diede dei piccoli colpi di tosse per farsi notare, ma solo la simulazione di una sonora scatarrata riuscì ad attirare l’attenzione dello psichiatra. Questi girò lo sguardo verso l’interno della stanza e disse con tono di sfida: “Ha intenzione di denunciarmi?” “Perché dovrei?” rispose Mapelli. “Ormai bisogna diffidare di chiunque – rispose lui – fumi una sigaretta alla finestra e ti etichettano come assassino.” Spense la cicca schiacciandola sul muro esterno, la buttò fuori verso l’ignoto e si sedette alla poltrona. “Guardi che per me la poteva anche finire, la sigaretta” disse Mapelli stringendosi nelle spalle. “Bah! – rispose lui – tanto non c’è piacere a fumare così. Mi dica.” Mapelli si presentò. “Ah! Lei è l’amico di Petrullo. Quello della fossa di cadaveri, giusto?” “Già, il pazzo.” “Non dica così, pi cortesia. Ci sono cristiani che vedono comunisti dappertutto, con tanto di colbacco e denti affilati pronti a mangiarisi ogni picciriddo gli capiti a tiro. Lei crede che questi siano tutti pazzi?” “E chi dice niente?” 30 “Bene. Vedo che lei è un uomo prudente, difficile che sia anche pazzo. Mi parlerebbe di questa fossa di cadaveri?” Mapelli gli raccontò la storia con dovizia di particolari, poi fu sottoposto ad alcuni test ed infine dovette fare una sintesi degli ultimi mesi della sua vita. Dopo attese il verdetto. Per tutto quel tempo la faccia di De Santis non aveva fatto una grinza. Mapelli lo guardò con attenzione: la testa era grossa, capelli bianchi folti e disordinati, prominenti borse sotto gli occhi di un comune color castano, il naso grosso e bitorzoluto, la bocca con una perenne piega verso il basso, guance flosce che accentuavano la piega della bocca, collo pressoché assente e doppio mento. Le orecchie erano enormi e pelose. Al di sotto di tutto questo, solo il camice bianco con una penna bic al taschino. Un uomo che trasmetteva solo fastidio verso tutto quello che lo circondava, uomini e cose. “Sono pazzo, dottore?” chiese Mapelli tra il serio e il faceto. “Lei non è pazzo – disse De Santis – è solo un coacervo di sensi di colpa, infelicità, rimorsi e manie. Esattamente come quasi tutti, oggi.” “Ciò prova che non ho avuto un’allucinazione.” “No, no... Dimostra solo che lei rientra nella categoria degli stressati. Che minchia le interessa se ha avuto un’allucinazione che l’ha portato ad una emorragia, o un’emorragia che l’ha portato ad un’allucinazione? La diagnosi è comunque stress. E’ così che chiamiamo l’infelicità, oggi. Non c’è cura, si rassegni, ma se vuole le prescrivo uno psicofarmaco che la rincoglionisce.” “No grazie. Preferisco essere un infelice consapevole.” “Perfetto. Vediamo se adesso mi posso fumare una sicaretta in pace” disse De Santis alzandosi e prendendo una sigaretta da un cassetto della scrivania. Mapelli andò via con il foglietto in mano che testimoniava la sua adesione all’Esercito degli Stressati, il salvacondotto per uscire dall’ospedale. Petrullo lo lesse con attenzione e poi disse: 31 “Giulio, devi stare attento. Prenditi una vacanza, vai da qualche parte e sii scrupoloso nella cura che ti hanno prescritto.” “Grazie, ci penserò. Carmine?” “Sarà giù che ti aspetta.” Carmine fu bravissimo, non chiese niente che lo potesse mettere a disagio. Cercò piuttosto di essere gradevole e di creare un’atmosfera serena, rilassata. “Fai presto Carmine, devo pisciare” gli disse Mapelli tenendosi la patta. “Ma non potevi farla in Ospedale?” “Ce la faccio, non ti preoccupare, ma fai presto.” A casa aspettò che finisse in bagno e poi gli chiese se avesse bisogno di qualcosa. “No grazie, Carmine. Ti chiamo più tardi, magari.” “Io resto ancora qualche giorno qui, poi andrò di nuovo al mare. Davvero non vuoi venire? Ti farebbe bene.” “Ci penserò, grazie.” rispose Mapelli dirigendosi verso la poltrona. “Non c’è nulla sotto – lo anticipò Carmine – ho già controllato mentre pisciavi.” “Certo, certo, volevo solo sedermi” disse Mapelli, ma non appena Carmine richiuse la porta dietro di sé non potè fare a meno di spostare lentamente, con cautela, la poltrona incriminata. Non c’era davvero nulla, neanche l’infinitesimale traccia di una fossa, solo la piattezza polverosa del consunto pavimento di marmo. Controllò minuziosamente le fessure tra i mattoni trovandovi solo lo sporco accumulato negli anni e, ancora, qualche briciolina di pane raffermo. Annusò l’aria, più volte. Niente. Solo odore di chiuso. Fece un giro delle stanze e controllò se c’erano messaggi nella segreteria telefonica. Uno era di Sandra: Scusa per la mia assenza, ma di certo Carmine ti avrà detto che non ce la faccio proprio a venire. Per favore non distruggerti la vita. Manda tutto a 32 quel paese e parti per un pò. Hai bisogno di svagarti, di uscire da quella casa. Devo andare adesso. Ti voglio bene. Ciao. Il secondo era di Laura: Ciao pà. Se avessi un cellulare non avrei bisogno di lasciarti messaggi in segreteria. Stai bene? Mi chiami quando esci dall’ospedale? Il terzo era di Ferri: Giulio caro, so che stai meglio, scusami ma non sono potuto venire a trovarti. Sono al mare con la famiglia, a Pantelleria. Sono riuscito ad informare tuo padre. Ti saluta e ti augura ogni bene. Dice che se ce bisogno lui viene. Fammi sapere. L’ultimo era dell’università: Professore, sono Luisa. Quando pensa di tornare? Il Direttore del Dipartimento ha bisogno di sapere qualcosa per completare la programmazione dell’attività didattica. Appena può, chiami per favore. Tutto qui, ma sufficiente a farlo decidere per un lungo viaggio lontano da tutto e da tutti. 33 5. Verso Oriente Circa un mese dopo, sfidando coraggiosamente le sue paure, Mapelli era seduto di fronte al gate 14 dell’aeroporto Roma Fiumicino, imbarco previsto per New Dheli: trenta minuti. Alla fine si era deciso, andava in India. Aveva parlato col direttore del dipartimento, un uomo comprensivo, soprattutto perchè la rinuncia di Mapelli alla ricerca scientifica ed il suo defilarsi dalle attività del dipartimento, gli avevano lasciato campo libero nella carriera. Si, perchè se Mapelli non fosse entrato in depressione, quel posto sarebbe stato senz’altro suo. Gli disse chiaramente che avrebbe preso un periodo di malattia e che aveva fatto richiesta per un anno sabbatico. “Non preoccuparti Giulio, devi pensare innanzitutto alla tua salute, qui ci arrangeremo.” La felicità che trasparì dai suoi occhi mentre diceva quelle parole aveva quasi indotto Mapelli a ripensarci. Ma fu un attimo, un residuo di spirito di competizione che fece presto a sparire. Fu il dottor Aricò, il suo psicanalista, a consigliargli di andare in India da un certo dottor Amrutras, un medico ayurvedico. “Vada da lui – gli aveva detto Aricò – vedrà che ne avrà un gran beneficio. La sottoporrà ad un Panchakarma, una sorta di purificazione fisica e spirituale che la farà tornare come nuovo.” “Tutto questo è terribilmente banale, dottore. Non le sembra uno stereotipo andare in India per uno con i miei problemi? Sa 34 quanta gente conosco che l’ha fatto? Ex compagni di università, pseudo-rivoluzionari delusi. Non sarà certo un santone a restituirmi la serenità. E tanto meno la salute. E poi non c’ho mai creduto a queste cose” disse Mapelli irritato. “Intanto Amrutras non è affatto un santone, è un fine conoscitore della natura umana e un ottimo medico, se pur ayurvedico. Sono certo che lo troverà interessante, e in ogni caso qualche mese di evasione non può che farle bene. La sua clinica è una piccola oasi di pace; anche se non dovesse avere benefici fisici, di sicuro si riposerà, lontano dal caos di questa città.” “Ma se per la paura non vado neanche al mare dal mio amico Carmine, riesce a immaginare cosa significhi per me arrivare fino in India?” “Proprio per questo deve farlo. Cominci ad affrontare le sue paure. In passato lei è stato un buon viaggiatore, non c’è nulla che le impedisca di tornare ad esserlo. Le darò delle pastiglie che l’aiuteranno ad affrontare il viaggio ed i primi giorni lì, stia tranquillo. Si fidi di me.” Così Mapelli cedette alla proposta, in fondo non aveva nulla da perdere. Negli ultimi giorni prima della partenza aveva preso contatti con un assistente di Amrutras via e-mail. Aveva anche cercato su internet qualche notizia della sua clinica. Trovò decine di siti di cliniche ayurvediche che offrivano il connubio curaturismo. Scorreva le foto di alberghi lussuosissimi, spiagge incantevoli, suadenti massaggiatrici al lavoro su obesi occidentali, immagini sacre con sfondi dai colori vivaci, ma nessuna fonte portava alla clinica di Amrutras. Provò con diversi motori di ricerca finché gli apparve un link che rimandava ad un elenco di medici occidentali che avevano collaborato col medico indiano presso l’Università di Dheli. Gli sembrò un buon segno, e così decise di partire: aereo alle sei del mattino per Roma, colazione al bar dell’aeroporto, acquisto di giornali e lettura. Erano ormai le 13.30 e aveva già letto sia il quotidiano che la rivista settimanale patinata con un lungo servizio sulla relazione tra riscaldamento 35 della terra e disastri ecologici. Gli rimaneva solo la settimana enigmistica, ma voleva conservarla per le defecazioni mattutine dei prossimi giorni. Il pensiero della defecazione gli ricordò che sarebbe stato meglio svuotare la vescica prima d’imbarcarsi, e così prese decisamente la via delle toilette trascinandosi dietro il bagaglio a mano. Quando aprì la porta di uno dei tanti bagni, si ritrovò di fronte uno chassid seduto sul water, uno di quegli ebrei ortodossi in redingote nera e camicia bianca di almeno due misure più grande, i boccoli che scendono da sotto il cappellaccio come stelle filanti tristi. L’uomo aveva chiaramente dimenticato di chiudere la porta, ma non sembrava affatto preoccupato della cosa. Leggeva un libretto nero rilegato in cuoio come se nulla fosse. Non era un spettacolo gradevole. Certo, un uomo che caca non è comunque un gran spettacolo, ma un ebreo ortodosso, con quell’aspetto originale, è quanto meno curioso. Così Mapelli non ebbe la prontezza, diremmo meglio la gentilezza, di chiedergli immediatamente scusa. Restò lì a guardarlo a bocca aperta mentre il tipo gli rivolse appena uno sguardo indifferente. Fu solo quando questi tuonò una sonora scoreggia che Mapelli si riebbe dallo stupore. Chiese scusa con una flebile vocina rauca, richiuse la porta e imboccò la toilette adiacente, aperta e chiaramente senza nessuno dentro. Quando tornò verso il suo gate, notò altri chassidim che attendevano il volo per Tel Aviv, qualche metro più avanti del suo. Pensò che se avesse incontrato in ascensore un danzatore di Katakali bardato per lo spettacolo, non avrebbe provato lo stesso stupore. Per lui la questione non era nuova ed era di natura squisitamente estetica, non certo religiosa. Tutti quei vestiti neri gli evocavano pensieri di morte, gli sembravano titolari di pompe funebri riuniti per un congresso. Provava la stessa sensazione quando incontrava preti cristiani, anche se la consuetudine della loro vista attutiva notevolmente l’effetto. Anche loro si vestivano di nero, ma se i cattolici portavano una tunica che li faceva 36 somigliare più a corvi diabolici che a becchini, i protestanti sembravano decisamente eleganti e mostravano sempre un fare cordiale, fresco. Gli ortodossi invece, erano così pieni di ori, crocifissi e copricapo sontuosi che il loro anacronismo suscitava solo indifferenza. Gli chassid erano un’altra cosa. I boccoli che uscivano dal cappellaccio potevano sembrare trasgressivi rispetto al resto, eppure, paradossalmente, quella nota stonata amplificava l’effetto funereo. Questo pensava Mapelli, un po’ vergognato per aver fatto quelle riflessioni dato che si trattava di ebrei, popolo perseguitato da sempre. Certo è che non gli erano mai stati simpatici, ma non l’avrebbe mai dichiarato in pubblico per non essere stupidamente accusato di antisemitismo. In realtà non gli erano mai stati simpatici i religiosi in generale. Aderiva senza riserve a coloro che, nei secoli, avevano dichiarato che la religione, con i suoi limiti spazio-temporali, potesse solo dividere gli uomini in ulteriori categorie. Manteneva una certa perplessità, invece, su coloro che affermavano che la spiritualità li univa tutti nella comune ricerca di un significato oltre la vita, qualunque questo fosse. Con questa motivazione molti erano partiti verso l’India, poiché questa incarnava nell’immaginario collettivo occidentale il concetto stesso di spiritualità. La voce gracchiante dell’altoparlante che annunciava l’inizio dell’imbarco interruppe i suoi pensieri e gli fece ricordare che stava per affrontare una di quelle cose che, fino a poco tempo prima, non si sarebbe mai più sognato di fare: prendere un aereo. Non appena la tensione innescò l’attesa tachicardia, inghiottì due compresse di calmante interamente vegetale, inforcò gli occhiali da sole e si avviò risoluto verso l’imbarco, deciso a vincere ogni strategia che tutte le cellule del suo corpo avrebbero messo in atto per farlo tornare a casa, al sicuro. Appena seduto sulla poltrona dell’aereo che gli era stata assegnata, prese dal bagaglio a mano un libro che aveva comprato per l’occasione: “Diario di viaggio di un filosofo. L’India” di un certo Hermann Keyserling. Mapelli non capiva 37 nulla di filosofia, né aveva mai sentito parlare di quell’autore, ma l’aveva acquistato perchè il titolo gli sembrava adatto al viaggio che stava compiendo. Rilesse il bugiardino sul retro copertina: diario orientale di un occidentale che cerca a tutti i costi di restare tale. Perfetto – si disse – proprio quando i motori cominciarono a salire di giri, all’unisono con i battiti del suo cuore. Poggiò il libro sulle gambe tremanti, chiuse gli occhi e si preparò alla folle corsa sulla pista. Una volta in quota capì che non avrebbe potuto leggere neanche una riga di quel libro, che non sarebbe stato in grado di fare assolutamente nulla. Girò la testa verso il finestrino e rimase a guardare le nuvole, atterrito e immobile. Provò a guardare il film che proiettarono un’ora dopo, provò anche a mangiare qualcosa dal vassoio che avevano distribuito le hostess, ma la tensione gli annebbiava leggermente la vista e gli chiudeva lo stomaco. L’unica cosa che funzionò fu una massiccia dose di alcune delle compresse prescritte dal suo psicanalista che lo stroncarono definitivamente, tanto che, atterrato a Nuova Delhi, dovettero svegliarlo energicamente quando già tutti i passeggeri erano scesi dall’aereo. Mapelli scese barcollando la scaletta aggredito da una nuvola di tiepido smog umido che lo stordì ulteriormente. Tutte le complicate procedure di ingresso in India furono eseguite in uno stato di dormiveglia, compresa l’uscita verso la sala in cui centinaia di agguerriti uomini agitavano cartelli con nomi di tour operator o singole persone. Tra questi vi erano gli “indipendenti” a caccia dei nuovi arrivati più ingenui. Di questi personaggi si raccontavano cose terribili, uomini senza scrupoli capaci di rubarti anche i calzini e depositarti in uno dei tanti vicoli della Old Delhi e, naturalmente, furono proprio questi a farsi avanti per primi. L’effetto dei calmanti che gli impedivano di rispondere lucidamente alle incessanti sollecitazioni che gli arrivavano da tutti i lati, fece in modo che si creasse in breve una vera e propria ressa per la contesa delle sue valigie poiché il vincitore avrebbe avuto il diritto di ritenersi automaticamente 38 assunto. Fu allora che intervenne la polizia aeroportuale che, esibendo gli sfollagente, disperse i contendenti. Uno dei poliziotti, evidentemente il capo, un omone con grandi baffi a manubrio, gli chiese: “What’s your name? What’s your hotel?” “Cosa?” chiese Mapelli in italiano. “Do you speak English?” chiese l’omone alzando la voce e sparandogli in faccia qualche schizzo di saliva. “Yes” rispose lui riprendendosi un po’. “What’s your name? What’s your hotel?” ripetè l’omone. In quel momento intervenne un uomo che aveva raccolto da terra uno dei cartellini che, nella foga, si era staccato dai bagagli di Mapelli. “You are Mr Mapelli, from Italy?” “Yes! Yes! I’m” rispose lui con la faccia di un naufrago allo stremo che vede la salvezza insperata presentarsi sottoforma di un confortevole canotto. Si trattava dell’autista mandatogli dall’albergo che aveva vanamente atteso, col suo bravo cartello con su scritto Mr Mapelli, che qualcuno si facesse avanti. Mapelli si scusò con tutti per la sua negligenza, si disse mortificato per quanto era avvenuto e, ricevuta una pacca sulla spalla dall’omone, seguì l’autista verso l’esterno. Solo quando fu finalmente seduto sull’automobile cominciò veramente a svegliarsi, forse aiutato dall’aria fresca della notte che gli soffiava direttamente sul viso da una bocchetta posta sul tettuccio dell’auto. “Ha fatto buono viaggio, Signore?” gli chiese educatamente l’autista in un inglese dallo strano accento a cui Mapelli dovette presto abituarsi. “Non lo so, per la verità ho dormito tutto il tempo. Ma visto che sono ancora vivo, direi di si, ho fatto un buon viaggio” rispose. “Lei prima volta Delhi?” “Si.” 39 “Oooh! Lei piacerà molto” disse l’autista ridendo. “Spero in senso buono” ribattè Mapelli quasi sottovoce. “Cosa Signore?” chiese l’uomo allungando la testa verso di lui. “Dicevo: ne sono sicuro” preferì rispondere Mapelli alzando la voce. Ci volle una buona mezz’ora prima che l’automobile arrivasse in albergo. Durante il tragitto Mapelli cercava di carpire qualcosa della città dalle immagini che scorrevano dal finestrino, una prima sensazione, un qualche parallelismo con luoghi già conosciuti, un odore particolare. Di certo non ebbe nessuna sensazione esotica come quelle descritte dai viaggiatori che visitarono l’India un secolo prima. Delhi sembrava una caotica metropoli come tante altre, sporca e puzzolente. L’unica cosa che gli diede una qualche emozione fu vedere i primi indiani vestiti all’orientale. Persino l’evidente pantomima per turisti inscenata dal portiere dell’albergo che, vestito in abito regale rajasthano con tanto di turbante e bastone decorato, gli apriva solennemente la porta dell’albergo, lo incuriosì. Un tempo era sempre così, la prima volta di ogni cosa lo emozionava, anche la più banale. Gli fece piacere, quindi, riscoprire quella infantile sensazione, seppure limitata ai pochi secondi che gli ci vollero per raggiungere la hall. La sua stanza d’albergo era anonima come tutte le stanze di un cinque stelle in qualunque parte del mondo. Per principio odiava i cinque stelle, ma non era mai stato in India e voleva ambientarsi gradualmente alla nuova situazione. Aveva capito che la clinica del dr Amrutras non possedeva nessuna delle comodità occidentali e preferì disabituarsi lentamente all’idea di una fresca doccia o di un buon ristorante. Le immersioni per le vie caotiche di Dheli, alternate all’ambiente ovattato dell’albergo, l’avrebbero aiutato a raggiungere l’obiettivo. L’albergo era prenotato per soli cinque giorni, il tempo necessario a smaltire il jet lag, prendere confidenza con il continente indiano e decidere con che mezzo arrivare dal dr Amrutras. 40 Ci vollero quattordici ore di sonno profondo e un’intera giornata di ozio perché si riprendesse del tutto. Gironzolò per l’albergo godendosi l’attività frenetica degli addetti alla hall e l’umanità cosmopolita che partiva e arrivava come api in un’arnia, businnes men di Taiwan, Hong Kong, Shangai, Macao, americani, inglesi ed europei, gruppi di coreani e giapponesi in viaggio turistico. Passeggiò dinoccolandosi per i giardini interni in stile rajasthano, con fontane, corsi d’acqua e cespugli fioriti, sorseggiò il the nella Akbar tea room tra orchidee, profumi d’incenso e discrete cameriere in coloratissimi sari. Fu lì che conobbe il Signor Venturi, un florido sessantenne piemontese residente a Delhi da ormai ventidue anni insieme alla moglie inglese. L’uomo si occupava di import-export di sete pregiate e pashmine. Quel giorno si trovava lì per incontrare un uomo d’affari di Kuala Lampur, un vecchio cliente che veniva regolarmente a Delhi per rifornirsi di sete. Il malese era in ritardo e Venturi, intuito che Mapelli fosse italiano, gli offrì una sigaretta. “Disturbo?” esordì in italiano allungandogli elegantemente il pacchetto. “Per niente, grazie - rispose Mapelli portandosi la sigaretta al naso incuriosito dall’odore forte e gradevole – cos’è quest’aroma? E’ inebriante.” “E’ una Gudam Garam, una sigaretta indonesiana a base di tabacco e chiodi di garofano. Stia attento, è fortissima, l’aspiri con delicatezza.” “Come ha capito che sono italiano?” chiese Mapelli. “Dall’accento del suo inglese nel chiedere il tè alla cameriera, dal suo modo di vestire e da tanti altri piccoli particolari che indicano la provenienza di ognuno di noi. Siamo globalizzati, dicono, ma allo stesso tempo portiamo il marchio della terra in cui siamo cresciuti. Non crede?” “Beh! Io non l’avrei mai presa per un italiano.” 41 “Infatti io vivo qui da molto tempo ormai, e qui è come se fossi rinato e, quindi, ricresciuto.” “Già, dicono che l’India faccia quest’effetto” disse Mapelli. “Lo dicono di tanti posti, in realtà. Credo che sia solo una questione di predisposizione mentale. Quando si va via verso una terra lontana e molto diversa dalla propria, in qualche modo si è pronti a rinascere. Può essere l’India, l’Africa o l’Australia, ma l’effetto è uguale. Ciò non ci esime dal restare legati alla terra che ci ha visto nascere, come a un cordone ombelicale perenne.” Raffinato, ma banale, pensò Mapelli. In effetti, più andava avanti la discussione più il professore consolidava la prima impressione avuta da quell’uomo che, parlando, gesticolava con eleganza mettendo in evidenza un grosso anello con una pietra dura sull’affusolata mano destra. Aveva l’aspetto di un colono dei primi del novecento, un amante dell’esotico, senza dubbio di vasta cultura e apparentemente aperto alle diversità, ma probabilmente un razzista nell’anima e del tutto inconsapevole di esserlo. Mapelli soffocò le considerazioni che gli si affollavano nel cervello. Che ne sai tu? Non lo conosci affatto, si diceva, smettila di fare il solito criticone e cerca semplicemente di ascoltare. Con questa nuova predisposizione d’animo ascoltò Venturi parlare a lungo di Delhi, dei suoi affari e del suo desiderio di “rinascere” nuovamente trasferendosi in Vietnam con la moglie per la loro vecchiaia. “Perché in Vietnam?” chiese Mapelli. “Non ho motivi razionali da addurre, ho solo la percezione che io e mia moglie abbiamo già vissuto lì in una nostra vita precedente.” Per un attimo credette di non aver sentito bene. Lo guardò meglio. Aveva la faccia di chi aveva appena fatto una rivelazione importante e si aspettava una reazione di ammirata meraviglia. Recitava una parte, ma ormai c’era talmente dentro che non se ne rendeva conto. 42 “Sono appena arrivato in India, lei è la prima persona con cui intavolo una discussione e già sento parlare di reincarnazione” disse Mapelli con un sorriso scettico. “Oh! Qui dovrà abituarsi a un altro modo di confrontarsi con i misteri dell’universo. Lo sa che la data di matrimonio viene decisa da un astrologo? – disse Venturi ridendo di cuore – Se vuole trovarsi bene qui non si opponga, non sia scettico. Lasci da parte tutti i preconcetti occidentali e viva l’attimo lasciando che l’India le si riveli in tutta la sua originalità. Si lasci incantare dai sari colorati delle donne, dagli idoli a quattro e sei braccia, dagli odori forti dei curry, ma, soprattutto prenda con curiosità qualunque cosa le dicano, ci sono molte verità che le apriranno la mente, per quanto incredibili le possano sembrare. Ma lei, piuttosto, cosa fa qui? E’ un turista? Affari?” Mapelli non gli disse niente del vero scopo del suo viaggio. Se ne vergognava un po’, sapeva che non c’era nulla di originale in quello che stava facendo, che non c’era nulla di originale nella sua vita. Quell’uomo era brillante, deciso, e aveva fatto nella sua vita quello che voleva. Cominciava a stargli antipatico. “No, niente affari. Avevo del tempo libero ed ero curioso di visitare l’India. Starò qualche giorno a Delhi, poi andrò un po’ in giro, forse verso sud” rispose. Fu allora che Venturi gli raccomandò una guida locale, Mina, che gli avrebbe fatto conoscere Delhi in pochi giorni come nessun altro. “Parla benissimo la nostra lingua ed è una donna di grande cultura. E’ divorziata, cosa grave da queste parti, ma piuttosto che isolarsi dal mondo come si usa qui, ha rivoluzionato la sua vita imparando l’italiano e scegliendo di mettersi a lavorare. Ora fa da guida a turisti e uomini d’affari italiani. Le piacerà.” Mapelli accettò di buon grado il numero telefonico di Mina, ringraziò Venturi e si ritirò in camera con una scusa. 43 6. In giro per Delhi Mina era una donna decisamente interessante. In lei convivevano l’austerità dei Moghul rajasthani, intrepidi guerrieri e saggi imperatori, e la dolcezza di uno Shiva Nataraja, lo Shiva a quattro braccia che attraverso una sinuosa danza manifesta tutto l’universo. Quel tiepido pomeriggio, nella hall dell’albergo, Mapelli la vide per la prima volta avvolta in un sari che evocava la leggerezza ed i colori di una farfalla, ma con uno sguardo che esprimeva l’orgoglio di essere indiana di fronte a uno straniero. Parlava con l’uomo alla reception che le indicava il divano sul quale Mapelli aspettava leggendo un depliant su Delhi. “Signor Mapelli?” chiese lei gentilmente tendendogli la mano. “Lieto di conoscerla” rispose lui un po’ impacciato. “Benvenuto in India. Vuole seguirmi alla macchina?” disse Mina recitando con professionalità la sua parte. La seguì fino all’automobile, una classica Ambassador nera. Al posto di guida c’era un uomo con un turbante nero come l’automobile ed una barba impeccabile. Mina si sedette davanti con l’autista. Era una donna matura che conservava tracce evidenti di una bellezza giovanile al di là della norma. I tratti del viso ed il colore della pelle erano tipicamente indiani, così come un certo modo sinuoso di muovere le mani e la testa che accompagnava le parole. Ogni tanto, nell’enfasi del discorso, si girava verso di lui dandogli la 44 possibilità di guardarla meglio in viso. Ebbe l’impressione che i suoi occhi esprimessero un’ambiguità di sentimenti: oltre i guizzi argentei dell’orgoglio vi era un fondo di gialla tristezza, di malinconia odorosa di rosmarino. Mapelli, sorpreso, si chiese come mai avesse usato quei parallelismi con colori e odori per descrivere quella sconosciuta poiché non era certo sua consuetudine ma, piuttosto che far vagare la mente alla ricerca di una risposta plausibile a quella stravagante novità, preferì tornare a concentrarsi su di lei. Dopo i convenevoli di rito, Mina si lanciò in una classica descrizione di Delhi e dell’India in generale, palesemente imbastita per turisti generici. Evidentemente, non conoscendolo, preferì non sbilanciarsi in nessun modo e limitarsi a captare i feedback che Mapelli avrebbe certamente lanciato durante il giro. Non le ci volle molto per capire che aveva davanti un uomo privo di entusiasmi e che ascoltava solo per cortesia i suoi excursus storici sulla città. Si accorse anche che era più interessato alla nuca di lei che alle descrizioni architettoniche di ciò che scorreva attraverso i finestrini. Che uno straniero qualunque snobbasse quelle meraviglie non poteva tollerarlo, così decise di stanarlo provocandolo. “Come mai ha scelto di visitare l’India?” Mapelli, così come aveva fatto con Venturi, decise di inscenare la storia del viaggiatore senza meta. “Curiosità, direi” rispose. “Che cosa la incuriosisce in particolare? Cazzo. E ora? – pensò. “Forse la diversità” gli venne, ottimo argomento. “Vuole capire in cosa gli indiani sono diversi da voi occidentali?” chiese Mina incalzandolo. Insiste. Va bene – si disse – se vuoi la guerra, guerra sia. La diversità era uno degli argomenti che lo aveva sempre interessato sin da quando era un giovane liceale, non sarebbe stato difficile imbastire una discussione coerente. 45 “Non esattamente, che siamo diversi non c’è dubbio. Guardavo il suo autista, ad esempio. Parla l’italiano? – lei fece cenno di no col capo – Allora posso parlare liberamente. E’ un bell’esemplare d’uomo. E’ un Sikh, vero? Anche in Italia sono arrivati i Sikh. Pare che siano bravissimi allevatori di bestiame. Si sono sistemati al nord Italia. Vanno in motoretta ed i loro turbanti hanno creato un problema serio. Da noi il casco è obbligatorio, lo sapeva? Beh, hanno costretto i sindaci delle città che li ospitano ad accettare che mettessero i caschi sopra i turbanti rendendoli praticamente inutili, dato che non si possono allacciare al mento. Tanta caparbietà nel pretendere rispetto per le loro convinzioni religiose è commovente. Ma il punto è un altro: per quanto la loro diversità reggerà? Nutro il sospetto che la prossima generazione di Sikh nata in Italia rinnegherà l’uso del turbante. Mi chiedo se ciò non stia già avvenendo qui.” “Scusi se la interrompo, ma siamo vicini al Lal Qila, il Forte Rosso. Vuole visitarlo?” La storia sulla diversità funzionò. Mina si convinse di avere a che fare con un uomo pensante e che la sua aria distratta era normale per i tipi così. Passò, quindi, dallo schema descrittivo per turisti generici a quello per visitatori consapevoli riuscendo a catturare l’attenzione di Mapelli per tutto il giro che aveva programmato. Dopo il Forte Rosso, lo portò a visitare la Jama Masijd, la moschea del venerdì, e il complesso monumentale del Qtub Minar, un minareto alto settantatrè metri. Era la Delhi dei Moghul, quella araba, quella austera ed elegante, la parte regale di Mina. Dovunque si andasse c’erano folle oceaniche di gente impegnata a guadagnarsi da vivere, come i barbieri all’aperto che, tra venditori di tutto l’immaginabile, tagliavano i capelli ai loro avventori dopo averli fatti accomodare su una seggiola di legno davanti ad un mozzicone di specchio. O semplicemente cercavano di far passare il tempo, come quegli uomini di tutte le età che dormivano sotto un albero o distesi in un prato mentre 46 attorno a loro sfrecciavano miriadi di automobili, motorette, biciclette, risciò e camion strombazzanti con scritto sul retro suona il clacson per favore. Eppure, malgrado la sua fobia per la folla e l’avversione per il traffico, gli sembrò quasi che tutto quel marasma fosse naturale, che non potesse che essere così, probabilmente per l’idea dell’India che si era formata nella sua testa leggendo la guida della Lonely. Un umidiccio tramonto aranciato pose fine al giro turistico. Fu allora che Mina chiese a Mapelli se intendeva tornare in albergo per la cena o continuare la serata in un ristorante tipico. Lui optò di buon grado per la cena fuori. Così si diedero appuntamento per le venti, nello stesso posto dove l’autista Sikh fece scendere Mina, nei dintorni di Connaught Place. Poi l’auto si diresse verso l’albergo di Mapelli dove il Sikh attese dormendo in auto il suo ritorno, fresco di doccia e con indosso una camicia pulita e un informale vestito di cotone chiaro. Appena in auto, Mapelli si sorprese ad avere voglia di chiacchierare con l’autista. Si stava evidentemente rilassando, forse stava addirittura seguendo il consiglio di abbandonarsi all’India. Prima d’allora, infatti, forse per un eccesso di timidezza, non si era mai soffermato a chiacchierare con l’autista di un taxi, di un autobus o di un qualunque altro mezzo di trasporto gli fosse capitato di usare nella vita. Sorrise alla piacevole novità e si lanciò in un’animata discussione in inglese sulle usanze Sikh. Scoprì così che sotto il turbante c’era una specie di calza che conteneva lunghissimi capelli neri che agli uomini è vietato tagliare, e che i lunghi capelli e la barba simboleggiano il desiderio di santità di chi si impegna nel cammino verso la rettitudine. L’autista gli consigliò di visitare il tempio di Bangla Sahib Gurdwara, il principale luogo di culto Sikh a Delhi, ricordandogli di coprirsi il capo e di togliersi scarpe e calze prima di entrare. Arrivarono al luogo dell’appuntamento con qualche minuto d’anticipo e Mapelli ne approfittò per fumarsi una sigaretta nei 47 dintorni della macchina. Il via vai della gente non era affatto diminuito. Diciassette milioni di abitanti si muovevano incessantemente dentro l’area metropolitana della città. Un veloce calcolo e ricavò che Delhi era grande almeno come venticinque Palermo. Aspirava il fumo e sentiva entrare nei polmoni anche i gas di scarico che impregnavano l’aria, la stessa puzza che aveva respirato a Bangkok, a Il Cairo o a Città del Messico durante i suoi viaggi giovanili con Sandra. Spegnendo la sigaretta notò che dall’altra parte della strada una ressa di uomini attendeva di entrare in un cinema. Si avvicinò per guardare meglio l’enorme cartellone che pubblicizzava il film. Dipinto completamente a mano, vi erano gli ingredienti ed i volti che avrebbero dato luogo allo spettacolo. Un soldato ferito a morte veniva sorretto dal compagno più fortunato, lo sguardo sconvolto dalla paura. A lato un uomo e una donna, giovani e belli, lo sguardo sognante. Alle loro spalle troneggiava il cattivo, la cui malvagità era sottolineata da baffi e sopracciglia particolarmente folti e da uno sguardo infuocato, demoniaco. “Le interessano le storie Bollywoodiane?” sentì alle sue spalle. Era Mina, senza sari, solo un largo vestito verde bottiglia e un foulard di seta arancione, a parte i numerosi bracciali, anelli, orecchini e collane che tutte le indiane, sin da bambine, indossano. Aveva anche un bindi sulla fronte, un piccolo pallino di velluto rosso tra le sopracciglia. “E’ indubbiamente un fenomeno interessante. Ho letto e visto diverse cose sulla vostra industria cinematografica.” “Dovrebbe vedere cosa succede dentro le sale! - disse lei ridendo di cuore – La gente parteggia per il buono e arriva persino a lanciare le scarpe sullo schermo quando appare il cattivo.” “Era così anche da noi, molti anni fa. Succedevano cose anche più strane. Ricordo un cinema, Bomboniera si chiamava, in cui la gente che stava sui palchi in alto amava sputare verso quelli che stavano nella sala in basso. Giocavano ad una specie di tiro a 48 segno. La cosa dava luogo a risse spaventose e non di rado si vedeva baluginare nel buio la lama di un coltello.” Così, tra un aneddoto e l’altro sull’universalità dei comportamenti dell’animale uomo in condizioni ambientali simili (la Old Delhi di oggi gli ricordava, a tratti, la Palermo degli anni sessanta), arrivarono al ristorante scelto da Mina dove alcuni musicisti eseguivano canti devozionali dal vivo. Durante la cena lei si preoccupò sempre di spiegare cosa stavano mangiando e come venivano preparati i cibi, almeno fino a quando Mapelli le disse: “Mina, svesta i panni della guida per favore. Si goda la cena.” “Ok. Ascolti questo allora. Ho riflettuto sulla storia della diversità.” disse prendendo del riso basmati dalla ciotola. “Davvero? E cosa ne pensa?” “Come le ho più volte detto oggi visitando Delhi, abbiamo avuto diversi dominatori, portatori di culture e identità che noi, come fosse la cosa più naturale del mondo, abbiamo assorbito senza difficoltà integrandole con le nostre. Perché, al contrario di quello che si pensa, l’India ha una forte radice eterodossa che solo oggi qualche intellettuale particolarmente illuminato sta cercando di mettere in evidenza. Ecco, forse questa è la nostra vera diversità, un coacervo di culture e religioni diverse che non consentono una definizione univoca di “India”. Ma oggi siamo nell’era dell’economia globale che sta divorando tutto quello che incontra sulla sua strada. Multinazionali, network internazionali, corporation, sono conquistatori spietati, senza volto. Di fronte a questo mostro invincibile non so dirle se saremo capaci di mantenere la nostra identità. Certo è che molti di voi occidentali continuano a venire qui per cambiare la loro, di identità. Qualcosa vorrà dire.” “Pensa che Venturi sia uno di questi? Mi ha detto che vuole andare in Vietnam perché è certo di aver trascorso lì una vita precedente.” 49 “Forse. Non lo conosco abbastanza per dare un giudizio. Ma di sicuro troverà molti occidentali negli ashram sparsi per l’India.” “Cosa sono questi sciaram?” “Si dice ashram, sono luoghi dove uno yogi insegna ai suoi discepoli la via per la liberazione. Oggi sono pieni di uomini e donne biondi con gli occhi azzurri.” “E’ il segno della crisi di valori che affligge le società industriali. Ma questo è un discorso vecchio, pensi alla new age. Per me è solo un nuovo, fruttuosissimo, business.” “Ha già deciso dove andare dopo Delhi?” chiese Mina un po’ stanca di quelle chiacchiere. “Senta Mina – disse Mapelli imbarazzato – in realtà non sono qui per turismo. Avrei preferito che lei non lo sapesse perché me ne vergogno un pochino, ma sono uno di quegli occidentali che viene in India a cercare un pò di pace. Banale, vero? Il fatto è, come forse avrà capito, che non ci credo. In realtà non credo più a nulla. Sono stato molto male in Italia e qualcuno mi ha consigliato di andare in una clinica ayurvedica per riprendermi. Al punto in cui sono, non ho nulla da perdere e così ho deciso di provare, ma sono assolutamente scettico” concluse con un gesto netto della mano. “Non ha niente di cui vergognarsi, cercare la propria felicità è dovere di ogni essere vivente. Ma il suo scetticismo rischia di vanificare ogni esperienza che le capiterà di fare. Si abbandoni, lasci che i suoi schemi mentali crollino per dare spazio al nuovo” disse lei per nulla sorpresa da quella rivelazione. Mapelli non disse niente, avrebbe preferito essere deriso per la sua stupidità piuttosto che sentirsi consolato, e in ogni caso sapeva già cosa aspettarsi da quelle sterili chiacchiere, il classico duetto tra l’uno che svela il suo tormento e l’altro che cerca di consolarlo con ricette di vita prese in prestito da qualche libro, o dalle parole di qualche sant’uomo. Si rimproverò di non aver saputo resistere al silenzio, di aver condiviso le sue debolezze con un’estranea, ma, diversamente dal solito, ciò non influì sul 50 suo umore che rimase allegro e ciarliero, al contrario di Mina che cominciava a dare segni di evidente stanchezza. La cena andò avanti accompagnata dall’ipnotizzante suono dei canti mistici che si diffondeva nell’aria fino a quando Mapelli non potè più ignorare i pur composti sbadigli di Mina. “Mi sembra piuttosto stanca. Vuole andare via?” chiese Mapelli. “E’ un po’ tardi, in effetti, le spiace?” rispose lei non riuscendo a trattenere l’ennesimo sbadiglio. Mapelli si affrettò a pagare il conto e, offrendole il braccio con un gesto volutamente comico, l’accompagnò all’automobile. L’autista ripetè il percorso già fatto nel pomeriggio lasciando prima Mina e poi lui. “Ma lei non riposa mai?” chiese Mapelli all’autista prima di uscire dall’automobile. “Certo, dormo in macchina, tra una pausa e l’altra. E’ una questione di abitudine.” “Good night” disse Mapelli chiudendo lo sportello. “Good night” rispose lui, il turbante ancora perfettamente a posto come quando era venuto a prenderlo quella mattina. Il giorno dopo Mina volle fargli conoscere la Delhi commerciale. Lo portò in giro per i mercati, da Chandni Chowk a Kaori Baoli. Ad ogni nuovo vicolo lei affrontava la folla districandosi con perizia, mentre lui la seguiva come un’ombra per paura di perdersi o di essere rapinato, e anche perché starle attaccato era l’unico modo per sentire la sua voce che parlava di spezie, tessuti o gioielli. Ogni tanto Mapelli veniva avvicinato da un mendicante o da uno storpio che chiedeva l’elemosina. Mina gli insegnò come fare a liberarsene. “Se anche solo li guarda negli occhi per un attimo, loro penseranno che sarà possibile avere di più di un semplice sguardo. Non li guardi, si comporti come se non esistessero e andranno subito via” disse lei tranquilla. 51 “Ma è terribile! – rispose lui stupefatto da tanta indifferenza come si fa ad ignorare un uomo senza gambe che si trascina su un carrellino fino a toccarti una caviglia per attirare la tua attenzione?” Come si fa coi bambini quando non riescono a capire le cose più elementari, Mina alzò gli occhi al cielo, sospirò e, con tono conciliante, gli disse: “Preghi che con le sue azioni riesca in questa vita a migliorare il suo karma, non si addolori per la condizione di quegli uomini, è così che dev’essere.” “Vuole scherzare?” “Affatto. Gli indiani non considerano fare la carità come un dovere. Per essi i poveri e gli storpi occupano il posto che la legge karmica gli ha riservato in questa vita. Provi ad andare in una chiesa cristiana qui a Delhi, troverà una lunga fila di mendicanti. Sanno che per i cristiani la carità è una virtù da perseguire e loro, semplicemente, ne approfittano. Piuttosto – concluse - andiamo di là, ci sono le pashmine. Vorrà portarne una a sua moglie, no?” “Non tocchiamo quest’argomento” disse lui rabbuiandosi. “Divorziato?” “Separato. Molto separato” rispose lui “Beh! Non si rabbui, io sono divorziata e vivo lo stesso. Anzi, forse sto addirittura meglio.” “Buon per lei” concluse lui fermandosi davanti ad un negozio di pashmine. “Ci ha ripensato?” chiese lei sorridendogli. “No, ma vorrei regalarla ad una ragazza che mi ha salvato la vita” disse pensando a Chiara. “Venga dentro, la consiglio io” gli disse invitandolo ad entrare. La mattina andò avanti così, tra spintoni, profumi inebrianti e olezzi insopportabili, guadi di rivoli di acqua putrida, slalom tra uomini distesi per terra a dormire, puzzolenti motorette cariche di mercanzia e vecchi che pisciavano sui muri. Per pranzo 52 preferirono mangiare una fetta di pizza in piedi e poi si sedettero a riposare un po’ su una panchina del Lodi Garden. “Come vive una donna divorziata in India?” chiese lui tirando una boccata di fumo. “Nelle grandi città, è una cosa possibile, ma ancora adesso nelle campagne, come in passato, non c’è futuro per una donna divorziata. Peggio che mai se vedova. Un tempo le vedove si facevano bruciare, vive, insieme ai cadaveri dei mariti. Oggi è considerato un reato dalla legge, ma gli uomini ci sono rimasti un po’ male.” “E’ terribile.” “Già. Ma da quando le donne hanno cominciato a studiare, le cose sono andate diversamente. Può suonare strano ad un turista, ma ha riflettuto sul fatto che l’India è la più grande democrazia del mondo?” “No, confesso di no. Ma, se posso essere sincero, vedo più anarchia che democrazia” disse Mapelli ironico. “Non si faccia abbindolare da questa apparente disorganizzazione sociale, non c’entra niente con la democrazia. Piuttosto è vero che l’India ha un forte problema di disuguaglianze sociali. Ma è l’ignoranza che fa ritenere all’occidente che la democrazia sia una sua esclusiva creazione, un modello unico che va esportato in tutto il mondo.” Doveva essere un argomento che le stava particolarmente a cuore, lo si notava dal rossore che cominciava ad apparire sulle sue gote, dall’enfasi con la quale sottolineava alcune parole e dal tono della voce che stava crescendo di volume. “L’india ha avuto esempi regali in Ashoka e Akbar - continuò due imperatori illuminati che hanno fatto della tolleranza un modello politico di sviluppo sociale. L’enorme mole di drammi in sanscrito, poesie, prose e canti che mettono in ridicolo le persecuzioni originate da una mentalità ristretta costellano la storia dell’India. Persino nei testi sacri c’è spazio per le tesi agnostiche e ateistiche. Ha visto che enorme varietà di gente 53 abbiamo incontrato oggi? Ognuno vive la propria vita, dorme in strada o vende gioielli, percorre la via della santità o lavora per lo stato. E tutti hanno diritto alla loro vita, persino le vacche!” concluse Mina con un gesto enfatico della mano a sottolineare l’importanza del suo discorso. “Ma se avete addirittura diviso la società in caste!” esclamò Mapelli provocatoriamente, intenerito da quella donna così determinata a mettere in evidenza l’ignoranza dello straniero sulle cose della sua terra. “Le caste sono state abolite da tempo” rispose lei con sufficienza. “Veramente stamattina, mentre aspettavo il suo autista, ho letto i giornali locali, e ho trovato una decina di pagine dedicate agli annunci matrimoniali. Mi sembra che siano divisi per caste, no?” Colpita – pensò Mapelli, ma lei parò il colpo reagendo: “Le usanze sono dure a morire, lo ammetto. Ma ciò che importa è che non siano avallate dalla legge. E’ una cosa complicata. Non penserà di capire tutto dell’India in una sola vita? Piuttosto, le consiglierò alcuni libri di scrittrici indiane, da loro potrà imparare molte cose sull’India e gli indiani – concluse lei alzandosi dalla panchina – che ne dice di andare un altro pò in giro?” Il suo sorriso di miele mise fine alla disputa. L’orgogliosa Moghul lasciò il campo allo Shiva danzante. Arrivò così il momento di Gandhi. Forse Mina lo scelse per le discussioni avute al Lodi Garden. Probabilmente voleva dimostrare a Mapelli le sue ragioni sulla democraticità dell’India colpendolo allo stomaco. E, in effetti, ripercorrere i passi impressi nel cemento che Gandhi compì prima di essere assassinato fu un’esperienza carica di emozioni. Al Gandhi Smriti tolsero le scarpe e si fermarono al pilastro che segna il punto in cui fu ucciso. Lì Mina pregò con le mani giunte a toccare la fronte e Mapelli, non riuscendo a pregare da decenni, 54 si limitò ad abbassare rispettosamente il capo. Visitarono il museo dove erano ricostruiti, attraverso infantili diorami, i momenti più importanti della vita del Mahatma. Stettero in silenzio per quasi tutto il tempo della visita, fu solo all’uscita che Mina gli chiese se era stanco o volesse continuare. “Vorrei vedere qualcos’altro, ma devo anche pensare ad organizzare la mia partenza.” “Beh! Ha ancora un altro giorno, no? E poi non mi ha ancora detto dove andrà.” Lui gli porse l’indirizzo della clinica di Amrutras che teneva nel taschino della giacca. Lei lo lesse e sorrise. “Non poteva scegliere meglio. E’ un famoso medico e un sant’uomo. Facciamo così, adesso la porto al Lotus Temple, un altro esempio di democrazia indiana – sottolineò con un sorriso sornione - e poi, se vuole, penso io ad organizzarle il viaggio fino in clinica. Ok?” “Perfetto. E domani?” “Sono con un gruppo organizzato. Li porto a vedere una cerimonia per il compleanno di un vecchio Maharaja. Le interessa?” “Veramente no, ma non avrei di meglio da fare.” “Ok, domattina passerà l’autista a prenderla. Adesso andiamo.” La visita al Lotus Temple fu sfiancante. Sembrava che tutto il mondo si fosse dato appuntamento lì. Una fila di centinaia di persone era in attesa di lasciare le proprie scarpe in un deposito lungo il viale che conduceva al tempio. In una originale costruzione all’ingresso, una serie di cartelloni spiegava che quello era un luogo di preghiera per tutti i religiosi del mondo. Ve ne erano altri sette, e tutti si ispiravano alla fede Baha'i, religione mondiale indipendente che proclama l'unicità di Dio e propugna il principio dell'unità dell'intera razza umana. Per il tempio indiano fu scelto il fiore di loto perché veniva considerato come il simbolo della manifestazione dell’unico Dio. 55 “Benché le sue radici attecchiscano nella melma e nella sporcizia, il loto emerge a fiord’acqua e la sua purezza rimane incontaminata. Nel poema epico Mahabharata, Brahma, il diocreatore, ha come appellativo colui che è nato nel loto. Il mito trae origine dal racconto in cui si narra come Brahma sia sorto da un fior di loto spuntato dall’ombelico di Vishnù, mentre questi era assorto in meditazione” diceva Mina indicandogli l’enorme costruzione. Mapelli ripensò agli chassidim incontrati in aeroporto e alle sue opinioni sulla religione e la spiritualità. Un tempio all’unico Dio non sarebbe mai sorto in Italia, né in Israele o in un qualunque paese musulmano ortodosso. “Stupidi” disse tra sé e sé. “Ha detto qualcosa?” chiese Mina. “Mi scusi, stavo riflettendo sulle religioni.” “Beh, mi sembra il posto adatto.” “Sa, dove vivo io c’è una folta presenza di immigrati cingalesi. Hanno anche aperto diversi negozi e ristoranti tipici. Alcuni di loro espongono tranquillamente insieme Cristo, dei Indù e Santa Rosalia, la patrona della mia città.” “Di dov’è lei, esattamente?” “Di Palermo, in Sicilia.” “Non so dove sia Palermo, ma della Sicilia ho sentito parlare. Alcuni Maharaja, nei primi del novecento, hanno abbellito i loro palazzi con ceramiche provenienti dalla Sicilia.” “Davvero?” “Certo.” “Beh, la Sicilia dei primi del novecento era frequentata dalle famiglie reali di mezzo mondo e da influenti aristocratici amanti dell’arte, del clima mite e delle lussuose feste. Molte famiglie nobili siciliane dilapidarono le loro ricchezze per fare bella figura con gli stranieri. Non mi stupirebbe se anche un Maharaja ne avesse approfittato” concluse Mapelli sorridendo. 56 Dopo un’estenuante attesa, arrivò il loro turno e poterono finalmente entrare nel tempio. L’originale costruzione sembra galleggiare su nove specchi d’acqua, uno per ogni petalo del loto. Dentro non vi era nessuna icona o simbolo, solo le nude pareti di marmo italiano. Malgrado vi fossero dentro alcune centinaia di persone, si sentiva solo lo strusciare dei piedi sul pavimento. Sostarono pochi minuti in cui Mina pregò, come aveva fatto al Gandhi Smriti, a occhi chiusi con le mani giunte mentre Mapelli apprezzava la frescura prodotta dall’acqua che circondava la costruzione perché, malgrado si fosse ormai a novembre, quel giorno si sfioravano i 30 gradi. Uscendo, si avviarono verso l’automobile dove il Sikh dormiva a bocca aperta. “Adesso, non le sembra che l’India sia la democrazia più grande del mondo?” disse Mina entrando in macchina e svegliando il Sikh con una scrollatina alla spalla sinistra. “In questo momento riesco a pensare solo al mio letto in albergo” rispose massaggiandosi la schiena dolorante. “Allora è proprio vero, lei non crede a niente, è un inguaribile scettico.” “Le confiderò un segreto. In realtà mi imbarazza sostare in luoghi di preghiera. Non so dirle il perché. Ma le giuro che provo emozioni intense, anche se non lo dimostro.” “Scommetto che lei non ama ballare” disse lei sicura. “Come fa a saperlo?” “Pregare e ballare sono due manifestazioni irrazionali, che partono dal cuore. Lei esercita un controllo costante sulle sue emozioni, non si lascia andare mai” disse facendo cenno all’autista che si poteva partire. “Dice?” “E’ solo una mia opinione, non le dia molta importanza” concluse lei scivolando sul sedile fino a poggiare la testa sullo schienale. Chiuse gli occhi per un po’. 57 Di nuovo il tramonto stava calando su Delhi e sul viso perplesso di Mapelli, ammutolito dalle affermazioni di Mina. “E’ una questione di Ego” riprese lei improvvisamente dando un suono ai pensieri che, evidentemente, non avevano smesso di frullargli per la testa. Gli raccontò che un eminente psicanalista indiano di scuola freudiana sosteneva che gli orientali hanno un Ego praticamente nullo. Così, tra l’Es, la parte inconscia della persona, ed il Super Ego, l’ente censore, non vi sarebbe praticamente niente. Dal momento che l’Ego è l’individuo e, quindi, nega l’Assoluto, per un indiano l’unico Ego da perseguire è l’Ego Cosmico, l’Unità di tutte le cose. “Se io e te siamo, all’origine, una sola cosa – disse Mina con enfasi - anelare di tornare all’Assoluto vuol dire che non ci dev’essere né io né tu, non ci dev’essere, appunto, Ego.” “Non sono sicuro di aver capito bene. Potrebbe ripetere?” domandò Mapelli stordito da quella sventagliata di inaspettata psico-filosofia. Mina sorrise, si scusò e cercò di fargli degli esempi. Gli fece notare che nella cultura occidentale l’individuo, quella parte della psiche umana che i freudiani chiamavano Ego, è fortemente sviluppato. Così la carriera, la proprietà privata, la realizzazione individuale vengono tenuti in gran considerazione, addirittura incentivati e protetti dalla legge. Ciò da luogo a strutture sociali organizzate e regolate perché questi principi basilari vengano rispettati da tutti. In India, migliaia di secoli di condizionamento all’estirpazione dell’Ego hanno prodotto una società all’apparenza caotica che incanta, e allo stesso tempo inorridisce, l’occidentale che vi mette piede. “Se non ho una mia individualità – continuò scandendo bene le parole - posso essere portata a ritenere che non ho responsabilità per ciò che mi succede attorno, e non hanno senso regole sociali che mi impongano come vivere. In realtà la società indiana ha una enorme quantità di regole, ma si tratta di regole che riguardano lo spirito, la realizzazione del sé, quella 58 parte eterna che dimora nei diversi corpi che la ospitano, di reincarnazione in reincarnazione, da non confondere con l’Ego.” “Interessante - disse Mapelli – non ne avevo idea. Ma lei ha studiato filosofia?” “Si, anche, dopo il divorzio. Le chiedo scusa per la mia prolissità, ma pensavo che l’argomento potesse interessarla.” “Non parli di prolissità a me, la prego. Ieri a cena sono riuscito a sfiancarla.” “Allora la prenda come una rivincita – disse lei ridendo – in ogni caso stasera non le darò la possibilità di fare il bis, si va a nanna presto, domani ci aspettano molte ore di viaggio.” 59 7. Turisti e Maharaja La mattina dopo Mapelli attendeva l’autista leggendo un quotidiano italiano vecchio di tre giorni. Nessuna novità di rilievo: governo e opposizione si accusavano reciprocamente di disonestà portando ad esempio fatti vecchi e risaputi. Poi c’erano le ondate di freddo eccezionali con i consueti allarmi della Protezione Civile, intercettazioni telefoniche che producevano animatissimi dibattiti sulle televisioni, una nuova edizione del Grande Fratello. Ebbe appena il tempo di dare uno sguardo alle notizie sportive dove un giornalista raccontava, con evidente sarcasmo, di una Inter ancora alla ricerca di un modulo di gioco efficace, che si sentì chiamare dall’autista Sikh. Era il terzo giorno che lo incontrava e ancora non conosceva il suo nome. Glielo chiese. “Ashoka, come l’imperatore” – rispose lui, e avviò il motore dell’Ambassador. Ancora Ashoka. Dopo la discussione avuta il giorno prima con Mina, Mapelli aveva cercato informazioni su di lui sfogliando la guida Lonely che si era portato dall’Italia. Gli indiani lo veneravano ancora come l’imperatore che aveva fatto sua l'idea di Buddha per cui ogni azione ha delle conseguenze corrispondenti alla natura di quell'azione, e se si vuole creare un mondo buono e giusto l'unico modo è attraverso azioni buone e giuste. “E’ stato un grande uomo l’imperatore, eh?” disse Mapelli all’autista a scopo di sfruculìo. 60 “Eh già! – abboccò subito lui - i politici oggi sono senza morale, pensano che l'aumento della ricchezza debba essere l’unico obiettivo di un governo. In questo modo, finché i cittadini sono presi dal fare soldi e divertirsi, non s'interesseranno mai di problemi morali. Altro che Ashoka!” concluse dondolando sconsolato la testa. A Mapelli venne da ridere pensando che i tassisti si lamentavano dovunque e comunque, avessero un turbante in testa o una coppola, parlassero cinese o francese. Forse perché giravano tutto il giorno guardando il mondo dal parabrezza come fosse un televisore e ogni corsa diventava un telegiornale che dice sempre le stesse cose, comunque mai niente di buono. Decise di non alimentare oltre quella discussione. Pronunciò un già conclusivo e sottolineò l’intenzione riprendendo a leggere il giornale italiano che si era portato dietro. Mezz’ora dopo l’automobile si fermò nel parcheggio di un lussuosissimo hotel dove Mina li stava aspettando accanto al pullman che li avrebbe portati a destinazione. Per la prima volta la vide in abiti occidentali: jeans, camicia e un leggero maglione di cotone, i capelli corvini tenuti indietro da una semplice fascetta elastica colorata. Si salutarono in fretta e lo invitò a salire sul mezzo dove trenta sconosciuti turisti erano già al loro posto. Appena il pullman partì, Mina prese il microfono in mano e esordì con un ciao mondo! in inglese, tracciò per grandi linee il loro itinerario e partì con una disquisizione sulla dinastia Moghul. Nel giro di pochi minuti, Mapelli si appisolò sulla scomoda poltrona, complice il sole che entrava dal finestrino che innescò un soporifero effetto lucertola. Si svegliò, ignaro delle gesta militari che avevano portato i Moghul a dominare l’India del nord per diversi secoli, quando il pullman si fermò per una prima sosta in un’area di servizio. Fu la prima vera occasione di conoscenza dei compagni di viaggio: due coppie di tedeschi attempati, un gruppo di giovani spagnoli casinisti, un gruppone di ricchi coreani, una famiglia di 61 piemontesi e una donna sola dall’aria di esperta viaggiatrice, probabilmente inglese. Dopo la fila per i bagni, fece un giro tra i banconi su cui era esposta la consueta paccottiglia per turisti. I commessi tallonavano speranzosi i potenziali acquirenti invitandoli a constatare di persona la qualità delle meravigliose cianfrusaglie in vendita. I primi ad abboccare furono i coreani, seguiti dai tedeschi e dagli spagnoli, cosicché in pochi minuti si creò una tipica atmosfera da bazar. Le esasperanti contrattazioni in un inglese pressoché incomprensibile convinsero i restii ad uscire fuori in attesa di ripartire. Fu allora che la famigliola di piemontesi ritenne giunto il momento di stabilire un contatto con l’unico italiano presente. “Lei è italiano, vero?” chiese l’uomo occhialuto e pelato che doveva essere il capofamiglia. Mapelli assentì sperando, come aveva fatto Venturi, che non gli facesse la fatidica domanda: di dove? Mapelli sapeva per esperienza che dichiararsi siciliani in genere portava, tra gli italiani del nord, a due tipi di reazione. Nella prima gli interlocutori avrebbero esclamato immediatamente Ah! Stupenda la Sicilia, ci sono stato in vacanza! Che luoghi meravigliosi! E i siciliani poi, che popolo cordiale! Mi sono trovato benissimo! Oppure sarebbe calato un leggero disagio, seguito da un lungo silenzio che in genere si concludeva con un bella la Sicilia che in realtà significava: e tu che ci fai qui? E’ proprio vero che infestate il mondo, bastardi mafiosi. Bianco o nero, mirabilia o repulsione, ma tutt’e due reazioni figlie della stessa madre, la diffidenza. Perchè i primi pensavano che in fondo era meglio tenersi buoni dei potenziali scansafatiche assassini, e i secondi che invece era meglio stabilire da subito le distanze. Il guaio era che Mapelli li capiva, perchè chi vedeva in televisione le immagini degli arresti di quegli insignificanti omini indicati come terribili capi mafia non poteva crederci, davvero non poteva credere che un’intera regione fosse soggiogata dalla 62 feroce avidità di quei nanerottoli ignoranti, e si convinceva che in realtà ai siciliani andava bene così. Poteva sembrare, a chi fosse nato lontano dalla Sicilia, che i siciliani non anelassero alla libertà, ma che desiderassero solo un protettore, fosse un padre, un onorevole, un barone o un mafioso che, insieme a Dio, li rassicurasse. Come biasimarli? Era un meccanismo comprensibile, un pò come l’esotismo degli occidentali nei confronti dell’India. Cos’era l’India per gli occidentali? La rigogliosa giungla di Kipling, il calore e la polvere di Yvori, l’originalità di Gandhi, lo sballo nelle spiagge di Goa, la sporcizia di Salam Bombay. E il guaio era che gli indiani avevano finito per credere di essere come venivano rappresentati, così come i siciliani si era convinti davvero di essere, in fondo, scansafatiche e un pò disonesti. Mapelli stava per rispondere alla fatidica domanda – italiano di dove? - quando gli venne in mente un programma serale che una televisione palermitana mandava in onda settimanalmente e che lui seguiva con curiosità. Non certo per le notizie ed i servizi che mandava in onda, quanto per una sorta di curiosità socioantropologica per quella sindrome chiamata “sicilianità”, che non finiva mai di stupirlo, e che la trasmissione incarnava in tutte le possibili sfaccettature conosciute, andando, a volte, ben al di là, lasciando intravedere potenzialità ancora inesplorate dell’indole dei siciliani, razza bastarda capace di produrre geni di incomparabile bellezza insieme a terribili mostri davanti ai quali Jack lo squartatore impallidiva. Il conduttore era un tale Professore Cutò, uomo maturo dalla voce calda e con una netta inflessione dialettale, profondo conoscitore dei fatti di Sicilia e noto frequentatore di ristoranti tipici e circoli aristocratici palermitani. La sua faccia compariva spesso nei giornali locali a corredo di articoli sull’origine della parola mafia, il crollo di un’importante torre araba, un caso di malasanità usato come spunto per parlare dei fasti della Palermo di cento anni prima, quando aristocratici 63 inglesi e Zar russi la sceglievano per viverci o farci le vacanze. Cutò concludeva sempre i suoi articoli o le quotidiane apparizioni televisive chiedendosi come poteva essersi ridotta così una città dai simili trascorsi, la città fenicia, greca, romana, la città araba delle mille moschee, la sede del primo parlamento al mondo, quel crogiolo di culture che era stata la corte di Federico II. E lì giù con la litania della Sicilia martoriata, insanguinata, terra di conquista, buttana della storia che passa di mano in mano, da un esercito di invasori all’altro, e che da ognuno non ha imparato altro che la violenza, il cinismo, il sopruso e l’arte del privilegio… Cos’è diventata oggi questa nostra Sicilia? Qual è la vera Sicilia, quella delle mille moschee o quella dei sanguinari feudatari? Quella della tolleranza di Federico II o quella dei Prefetti piemontesi ignoranti e oppressori? Convivono le due anime, come quelle di Falcone e di Riina, parallele e con la prima condannata a soccombere sempre per via di un istinto irrefrenabile che la porta, pur sapendo di non poter mai vincere, ad opporsi fino alla morte! Questi i toni. Eppure, ogni volta che poteva, Mapelli si sottoponeva a quella retorica ammuffita cercando di capire qualcosa di più del posto dove era nato e viveva. E soprattutto cercava di accumulare sufficienti motivazioni che lo portassero, prima o poi, ad andare via senza rimpianti, in piena coscienza, come aveva fatto suo padre. “Sono siciliano, di Palermo” rispose alla fine. “Bella la Sicilia” disse l’uomo senza tradire nessuna emozione particolare. “Già” rispose lui rassegnato. “Noi siamo piemontesi, di Torino” continuò l’uomo. “Ah! Stupenda Torino, ci sono stato in vacanza! Che luoghi meravigliosi! E i piemontesi poi, che popolo cordiale! Mi sono trovato benissimo, altro che polenta e bagna cauda, nient’altro che stupidi luoghi comuni!” rispose Mapelli veemente. L’uomo non se l’aspettava, ebbe un impeto d’orgoglio e decise di concedergli un’informazione che a lui doveva sembrare di vitale importanza: 64 “Piacere, ragionier Bondi, faccio il commercialista.” Decise addirittura di presentargli tutta la famiglia. Il figlio, un’esatta riproduzione giovanile del padre, si era da poco diplomato ed era subito stato inserito nell’azienda di famiglia. Il ragioniere sottolineò la cosa dando una pacca sulla spalla del giovane con evidente orgoglio. Poi completò le presentazioni indicando la figlia, una grassa ragazza dai capelli rossi che ricordava tanto la fidanzata di Shrek, l’orco verde di un film di successo, studentessa al quarto anno di liceo, e la moglie, un’esatta riproduzione invecchiata della figlia, che si dichiarò orgogliosamente casalinga. Mapelli ebbe appena il tempo di accennare gentilmente le sue generalità che il suono del clacson richiamò la comitiva al pullman. Felice della cosa, si affrettò a tornare al suo posto augurando un buon proseguimento di viaggio ai Bondi. Fu praticamente l’ultima volta che si parlarono, con evidente gioia di ambedue le parti. Mapelli non potè fare a meno di sorridere vedendoli dirigersi in fila per uno, secondo la naturale gerarchia familiare, verso il pullman. Si muovevano in sincrono, con l’andatura dei pinguini in migrazione: culo stretto, piedi a novanta gradi, rigidi come bastoni. Non ci posso credere – si disse – sembrano finti. Il Maharaja compiva il suo settantesimo compleanno. Era uso in India che i Maharaja festeggiassero i compleanni pubblicamente offrendo alla popolazione del cibo per ricambiare gli auguri che la gente gli porgeva personalmente. Ci vollero tre ore per arrivare al palazzo del Maharaja che si trovava poco fuori una piccola cittadina di cui Mapelli non capì il nome. Si trattava di una costruzione armoniosa in stile rajput e moghul che si affacciava su un lago artificiale fiancheggiato da due splendidi padiglioni. Sia il palazzo che il lago erano circondati da un curatissimo giardino con numerose fontane zampillanti. Centinaia di persone erano in fila lungo il padiglione di sinistra, in attesa di entrare nella sala reale dove il Maharaja in persona li 65 attendeva seduto all’indiana su enormi cuscini. Mina raccontò che il Maharaja non abitava più lì da diversi anni, ma in occasione del suo compleanno il palazzo, ormai un museo per i turisti di passaggio, lo riaccoglieva come legittimo proprietario. Mapelli notò una particolare attenzione nei riguardi dei turisti occidentali. La gente li invitava a scavalcarli nella fila con un sorriso d’incoraggiamento accompagnato da un gesto gentile della mano e il solito dondolio della testa. Mina disse che era un gesto di riguardo verso gli stranieri e li esortò ad approfittarne. “Non vorrà davvero farmi entrare lì dentro?” chiese lui impaurito. “Vuole perdere l’occasione di vedere un Maharaja in carne ed ossa?” “Ma non saprei cosa dirgli!” disse lui terrorizzato. “Mi segua e faccia quel che faccio io. Vedrà che non la mangia” disse lei divertita. La cosa fu, in effetti, meno complicata di quanto poteva sembrare. Il festeggiato, un vecchio panciuto con tanto di barba e turbante riccamente vestito come si addice ad un Maharaja, lo degnò appena di uno sguardo. Bastò imitare l’inchino a mani giunte che Mina aveva poco prima eseguito elegantemente, e la cosa finì lì. “Ha visto? E’ un rito molto semplice che non prevede atti di cannibalismo” disse lei appena fuori dalla sala avviandosi verso uno spiazzo dove una banda vestita alla maniera circense, suonava musiche dalla chiara origine inglese. Tra gli strumenti c’era persino una cornamusa suonata da un sikh particolarmente alto. Proprio di fronte alla banda sostava una bellissima Bentley rossa decappottabile, l’auto con la quale il Maharaja era venuto alla festa e che era appartenuta a suo padre. Si spostarono tra la folla che aveva già reso omaggio al festeggiato e che stava, con evidente piacere, approfittando del sontuoso buffet organizzato sotto un enorme tendone ornato di petali di fiori. C’era gente di tutte le estrazioni sociali. La maggior parte delle famiglie aveva 66 più di cinque figli, in una potè contarne sicuramente otto, ma probabilmente ce n’era qualcun altro perso tra i vassoi in cerca di un ennesimo Samosa. Mina gli porse un piattino di frutta mista. Masticando una fettina di mango girò lo sguardo attorno a sé. Notò due eleganti donne cariche di gioielli che parlavano tra loro sorridendo e leccandosi voluttuosamente le dita untuose. Sullo sfondo, il sole alto non riusciva a disperdere il sottile strato di umidità che aleggiava sul paesaggio. Un soffio di vento fece aderire i sari delle donne ai loro esili corpi. Mapelli ebbe un fremito ai genitali. Erano anni che non gli succedeva. L’odore di fritto, curry e chutney gli sembrò meraviglioso e un fremito più forte gli percorse i testicoli. La voce di Mina interruppe quell’attimo di ritrovata vitalità. Era ora di andare. Vide i Bondi rimettersi gerarchicamente in fila. Non avevano assaggiato niente, neanche una misera banana. 67 8. Vittima della civiltà moderna La mattina dopo, sceso nella hall per pagare il conto, intravide Mina sorseggiare il suo tè seduta al bar dell’albergo. La raggiunse. Si sedette e ordinò un caffè. “Abbiamo cinque minuti, vero?” le chiese. “Dieci, al massimo” rispose. Fu particolarmente galante con lei, lesto a versarle altro tè, a porgerle lo zucchero e qualsiasi altra cosa potesse servirle. A tratti assunse un atteggiamento da cicisbeo che divertì Mina. “Mi mancherà il suo sorriso - disse lui portando la tazza alle labbra - e mi mancherà questo lusso.” “Si ricrederà presto” rispose lei sorridendo. “Lo crede davvero?” “Certo! Finora è stato un semplice turista, adesso diventerà un vero viaggiatore. E’ un bel salto di qualità!” “Non so se ne ho la stoffa.” “Amrutras sarà una rivelazione tale da farle passare queste preoccupazioni” disse alzandosi. Lo lasciò in aeroporto, davanti al chek-in, stringendogli calorosamente la mano. Lui gli porse una busta chiusa con il suo compenso più una lauta mancia. “Grazie di tutto. Magari al ritorno la chiamo” le disse. Lei piegò la testa come ad assentire, gli augurò buon viaggio e si allontanò verso l’uscita. 68 La seguì con lo sguardo. Decisamente quella donna gli piaceva. Se solo fosse stato più intraprendente, avrebbe potuto tentare il colpaccio. Peccato. Seguendo i maturi glutei di Mina che si muovevano sotto il vestito sentì tornare il fremito al basso ventre. Sorrise, contento che l’evento si fosse ripetuto. Era un segno tangibile di desiderio, e se si torna a desiderare si torna a vivere – pensò. Un breve volo lo portò verso Jaiphur, dove un altro autista l’aspettava fuori dall’aeroporto. Era un uomo grosso e dalla pelle più scura di quelli che aveva incontrato fino ad allora. Parlava un inglese elementare, appena sufficiente a capirsi. Il tragitto in macchina fino alla clinica si rivelò lungo e difficile. Era chiaro che ci si era ormai addentrati nell’India rurale, con le strade male asfaltate e strette, i villaggi di paglia e fango lungo la strada e le pile di sterco di vacca messe a seccare sugli usci. Alcune produttrici di quell’indispensabile combustibile riposavano solennemente di traverso alla strada incuranti delle automobili. L’autista considerava tutto questo come assolutamente normale. Ad ogni vacca incontrata si limitava a frenare più o meno bruscamente e ad aggirare l’ostacolo, senza mai dare segni di nervosismo, neanche un semplice sbuffo. E le vacche sembravano consapevoli dei privilegi loro assegnati, altere trasformatrici primordiali adibite ad arricchire la terra con la loro preziosa merda e a dare fuoco dove la legna era una rarità. In quei luoghi sperduti la roboante automobile, il più evidente simbolo del progresso scientifico, doveva ancora inchinarsi alla placida lentezza di una banale vacca, magra, stupida e puzzolente, ma adorata come un dio. Molte vacche dopo apparve il cartello dipinto a mano che indicava l’ingresso alla clinica. Mapelli scese dall’automobile, pagò l’autista e giunse le mani per salutarlo. Prese le valigie e si voltò varcando l’ingresso. Percepì un inizio d’ansia che somatizzò prontamente con una leggera fitta al pancreas che l’accompagnò per tutto il breve 69 vialetto che conduceva a quella che doveva essere la sala di accoglienza della clinica. Si presentò ad un uomo con indosso solo un dhoti e una maglietta bianca. Il dr Amrutras non era nel suo studio. L’uomo gli riferì che era dovuto correre al capezzale di un paziente e che sarebbe arrivato presto. Lo fece accomodare all’ombra di uno spettacolare ficus dalle maestose radici aeree, offrendogli tè e dolcini. In quella mezz’ora d’attesa ebbe il tempo di riaversi dal viaggio e di prendere confidenza con la nuova situazione. Tutta la clinica sembrava svilupparsi attorno allo spiazzo centrale dominato dal ficus alla cui ombra stava sorseggiando il tè. Su quello spazio centrale si affacciavano diverse costruzioni in legno, tra cui una a due piani. Tutt’attorno cresceva un rigoglioso giardino, dentro cui si intravedevano i tetti di alcuni piccoli lodge, rustici ed essenziali. Infine, un vialetto contornato da siepi conduceva ad una graziosa e austera casa, con una piccola veranda esterna piena di fiori. Avrebbe scoperto in seguito che quella era la residenza di Amrutras e che viveva accudito da una giovane donna, la sua allieva prediletta. Su tutto dominava un silenzio rotto solo dal canto degli uccelli e il fremito delle foglie al vento. Ogni tanto qualcuno usciva da una porta, attraversava lo spiazzo e entrava in un’altra porta, oppure spariva inghiottito dal giardino. Di certo non si poteva dire che ci fosse confusione. Mapelli inspirò profondamente chiudendo gli occhi. Si chiese se avesse fatto la cosa giusta. Di certo era un posto tranquillo, ma lo colse la paura dell’adattamento ad una realtà così distante dalla sua. Non ebbe il tempo di approfondire quell’accenno di ripensamento perchè aprendo gli occhi vide un anziano uomo procedere in sella ad un piccolo asino al cui seguito ve n’era un altro, carico di borse e pacchettini. Fu il primo incontro con Amrutras, subito accolto dai suoi assistenti che l’aiutarono a scendere dal suo originale mezzo di locomozione prendendo in carico i bagagli con estrema delicatezza. Amrutras portava un Kurtà Pijama e sandali di cuoio. Aveva i lunghi capelli bianchi 70 raccolti in un codino ritorto sulla sommità della testa, una candida barba bianca e diversi anelli alle dita, tutti corredati da splendide pietre preziose: ambra, corallo fossile, lapislazzuli. Quando i suoi assistenti gli fecero cenno, lui si diresse verso Mapelli con un’andatura ferma ed elastica. Se il viso rugoso dimostrava tutti i suoi settantotto anni, il corpo si muoveva come se ne avesse trenta di meno. Mapelli si alzò dalla sedia e rispose al saluto a mani giunte pronunciando il rituale Namasté che gli aveva insegnato Mina. Amrutras lo fissò con intensità. Mapelli stava cominciando a parlare quando con un cenno gli intimò il silenzio e gli mise una mano sul capo. Poi lo accarezzò sulla guancia, gli sorrise e gli fece cenno di seguirlo. Si formò così una piccola processione: davanti Amrutras, dietro Mapelli e subito dopo tre giovani assistenti, o almeno questo sembrò che fossero, due uomini e una donna. La processione si sciolse dentro l’ambulatorio dove l’ospite fu posto al centro della stanza e invitato a spogliarsi, mentre Amrutras gli girava attorno scrutando ogni centimetro della sua pelle. Alla fine gli si parò davanti, gli scrutò le palpebre, la lingua, i denti e le mani. Poi gli prese il polso e pose tre dita sulla parte interna, come auscultandolo. Chiuse gli occhi e si concentrò profondamente. Ogni tanto aggiustava la posizione delle dita sul polso e richiudeva gli occhi. Quando fu soddisfatto assentì col quel caratteristico dondolio della testa che Mapelli aveva ormai imparato a riconoscere. Andò alla scrivania, si sedette, fece cenno agli assistenti di aiutare l’ospite a rivestirsi e cominciò a scrivere qualcosa. In un silenzio rotto solo dal rumore della penna sulla carta, passò un buon quarto d’ora prima che Amrutras, in un buon inglese, dicesse qualcosa: “Lei è la classica vittima di quella che chiamano civiltà moderna: mente debole e confusa, fisico intossicato e vulnerabile, corpo emotivo disequilibrato e instabile. Il suo fegato è un serbatoio di tossine. Di sicuro soffre di ulcera gastrica e depressione.” 71 Mapelli fece un gesto in direzione delle sue valigie rimaste fuori. Pensò di mostrargli la cartella clinica del suo ricovero in ospedale, ma non riuscì a dire una parola, stordito dalla precisione della diagnosi. Come faceva a dire quelle cose se non l’aveva mai visto prima? Non aveva neanche chiesto se esistevano referti sulla sua condizione di salute. Rimase con la bocca aperta e la mano a indicare le valigie. “Vuole dirmi qualcosa?” gli chiese il medico gentilmente. “I referti medici... li ho in valigia, ma non le direbbero nulla di diverso” si limitò a dire Mapelli ricomponendosi. “Non si preoccupi, li esaminerò con calma” rispose lui. Poi continuò dicendogli che sugli squilibri fisici era possibile intervenire con rimedi ayurvedici, un’alimentazione adeguata, massaggi e bagni aromatizzati, mentre per quelli psichici ed emozionali bisognava ricorrere allo yoga e alla meditazione. “Ma si ricordi che l’evoluzione di un uomo comincia dalla mente. Quando una mente si apre all’evoluzione, ad essa seguiranno un maggior benessere fisico e un miglior equilibrio emozionale. Bisogna prima risvegliare la mente” concluse. “Ci vorrà molto tempo?” chiese Mapelli timidamente. Amrutras rispose che ci sarebbero voluti almeno tre mesi per ristabilire un equilibrio minimo. Da lì in poi sarebbe dipeso tutto da lui. Poteva rientrare in una routine che l’avrebbe presto ricondotto ad uno stato di squilibrio, oppure rendere permanenti i cambiamenti modificando il suo stile di vita. Se avesse scelto di rimanere, avrebbe potuto dormire nella foresteria al prezzo di venti dollari al giorno, trattamenti e pasti compresi. Accettò senza riserve. Fu condotto alla casetta di legno posta a sud del giardino, anch’essa con la sua piccola veranda e gli innumerevoli fiori. Cominciò così la sua avventura dentro l’Universo di Amrutras. 72 9. L’Universo di Amrutras Panchakarma. Esotica parola che evocava arcane pratiche magiche, in realtà un trattamento di purificazione cellulare diverso per ogni persona, perchè ogni persona ha un suo tridosha, un proprio peculiare equilibrio tra i cinque elementi che costituiscono l’universo e, quindi, anche l’uomo. Sin dal primo giorno di trattamento, cominciò a dischiudersi davanti agli occhi di Mapelli un affascinante universo alieno. Disteso seminudo su un lettino, guardava Amrutras in piedi accanto a lui spiegargli come sarebbe stata la sua vita nei prossimi tre mesi. I primi tre giorni avrebbe seguito un digiuno rotto solo da alcune tisane e l’assunzione di erbe lassative. Successivamente avrebbe cominciato la giornata con un generoso clistere e una colazione leggerissima a base di semi di sesamo o ghee, burro chiarificato. Per tutto il periodo di permanenza in clinica, invece, sarebbe stato massaggiato con oli aromatizzati. Ai massaggi si sarebbero alternati trattamenti diversi che Amrutras enunciava con i loro originali nomi in sanscrito: sneehana, virechana, abhyanga, ecc., e che Mapelli rinunciò subito a memorizzare. A parte la sgradevole prospettiva di doversi infilare in culo la cannula del clistere, fino a quel momento sembrò a Mapelli che il programma dei trattamenti fosse tutto sommato allettante. Il suo entusiasmo scemò un poco quando seppe che la sveglia sarebbe stata all’alba, il pranzo a mezzogiorno e la cena alle sei della sera, 73 con pasti frugali per lo più a base di riso, lenticchie, soia verde, verdure varie, frutta e acqua. Così come ci si sarebbe preoccupati di purificare il corpo, bisognava purificare anche la mente. A ciò sarebbero serviti, ogni pomeriggio, le sessioni di yoga e meditazione. Infine, avrebbe dovuto assumere quotidianamente i cosiddetti “rimedi”, misture a base vegetale e minerale preparate all’istante, pestate in un grande mortaio e dosate su un vecchio bilancino, necessari a ricostituire il giusto equilibrio tra i suoi dosha. Così, da quel giorno, ogni mattina Mapelli venne sottoposto alle lunghissime abluzioni e ai delicatissimi massaggi con oli aromatici che gli aveva preannunciato il medico. Gli assistenti di Amrutras erano silenziosi ed efficienti. Tutto quello che facevano assumeva un’aura rituale. Ogni volta che potevano sostituivano alle parole una gestualità delicata ed efficace, come se volessero preservare la sacralità delle loro azioni dalla vacuità del discorso. Così, piuttosto che chiedergli di stendersi, lo invitavano a farlo con un gesto sinuoso di ambedue le braccia. E lui si stendeva con la delicatezza imposta dalla situazione, abbandonandosi completamente alla loro abilità. A volte qualcuno preparava una mistura di oli aromatici scaldandoli in un vaso di terracotta, poi la mistura gli veniva lentamente versata sulla fronte e da lì colava dentro un contenitore posto sotto il suo capo da dove veniva recuperata per essere di nuovo versata. Altre volte lo massaggiavano con oli tiepidi e profumatissimi, dai piedi alla faccia, soffermandosi a lungo su ogni arto, muscolo e articolazione, e Mapelli entrava in uno stato di benessere tale che spesso si addormentava. A parte la colazione, tutti gli ospiti della clinica che erano lì per il panchakarma consumavano i pasti nei propri lodge, quelle piccole casettine di legno immerse nel verde che aveva intravisto al suo arrivo, composti da due camere, una con un letto, un comodino, una sedia e un’asta fissata all’angolo tra due pareti che fungeva da armadio aperto, l’altra con un semplice tavolo, due 74 sedie e una poltrona di corda. Il bagno era all’esterno, un casotto in muratura con le pareti piastrellate fino al tetto in cui il water consisteva in un semplice buco sul pavimento fortemente inclinato. Per la doccia c’era un secchio, bastava riempirlo dal rubinetto che spuntava da una parete e versarselo addosso, l’acqua sarebbe defluita verso il buco-water. Gli ospiti temporanei, invece, alloggiavano nella casetta di legno a due piani lungo il cui perimetro correvano ariose verande. La struttura poteva ospitare non più di dodici ammalati, sei donne e sei uomini, ed era sempre piena. A volte Mapelli li vedeva consumare i loro pasti in veranda, poco prima del tramonto, e allora il silenzio della clinica veniva interrotto dal loro chiacchierio e dalle loro risate. Seppe poi che non pagavano nulla, chi poteva lasciava un’offerta, ma quasi tutte le spese venivano coperte da ricchi benefattori indiani che volevano scontare presto il loro karma su questa terra. La paura di non riuscire a reggere quella vita spartana, priva delle comodità alle quali era abituato, si manifestò solo come un leggero disagio, soprattutto quando la mattina doveva riuscire a centrare il buco sul pavimento del bagno reggendosi solo sulle gambe. Si abituò presto, invece, ai ritmi basati sulla luce del giorno, alla doccia col secchio e alla durezza del letto. Trovò addirittura intriganti i pomeriggi di yoga e meditazione riservati a chi seguiva il panchakarma. Quelle sedute pomeridiane erano anche l’occasione per incontrare gli altri due ospiti della clinica che erano lì a quello scopo: Mr Banajiri, un ricco uomo d’affari indiano, e Muriel, una giovane canadese che, fosse pesata cinquanta chili meno, si sarebbe potuta senz’altro definire attraente. Gli incontri pomeridiani erano guidati dagli assistenti di Amrutras, tra cui la misteriosa giovane allieva, ma a volte era lo stesso Amrutras che conduceva le meditazioni. Quelle diventavano occasioni particolari, poiché il vecchio medico dispensava sempre una qualche occasione di riflessione, come avvenne quel pomeriggio una settimana dopo il suo arrivo. 75 “Salute, felicità e santità sono le tre condizioni che caratterizzano l’uomo – esordì Amrutras dopo essersi comodamente seduto all’indiana su una pedana poco più alta del pavimento - le prime due ci sono date, per diritto, alla nascita. La santità è una condizione che possiamo raggiungere solo se lo desideriamo, se siamo pronti per essa e se ci dedichiamo, con abnegazione, al suo raggiungimento.” Il ditino scettico di Mapelli si alzò a chiedere la parola. “Mi scusi, ma se avessi avuto salute e felicità per diritto di nascita non sarei mai venuto qui, non esisterebbero le malattie, gli psicanalisti non sarebbero nelle classifiche dei professionisti con i redditi più alti, la gente non si butterebbe dai ponti con una pietra al collo” disse Mapelli infastidito da quelle parole per lui senza senso. “La vita che conduce è quella che desidera? – rispose lui sereno - Qualcuno le vieta di realizzare i suoi desideri? I limiti che crede di avere le sono imposti o sono sue creazioni mentali? Lo sa che il suo corpo ha la capacità di auto-ripararsi se lei lo mette nelle condizioni di farlo?” “E il cancro? Anche quello posso riparare?” “Il cancro è una reazione estrema del suo corpo quando non ne può più di essere maltrattato.” “Esistono le malattie genetiche.” “Quello è un problema legato alla legge del Karma. Ma non pretenda di capire tutto subito, lasci solo che la sua mente si apra ad altre possibilità di interpretazione dell’Universo. Soprattutto non creda solo a ciò che vedono i suoi occhi, esistono altre realtà che la sua mente “vede” ma che scarta perché non le conosce.” “Esistono prove a supporto di questa teoria?” insisté Mapelli. “Il misticismo non si basa su teorie, è un’esperienza empirica che si basa sulla ricerca individuale. Se si riesce a risvegliare tutti i nostri sensi, e badi bene non sono cinque come le avranno certamente insegnato, ma diciotto come imparerà, si possono percepire piani dell’universo che altrimenti ci saranno negati. 76 Sono cose di cui si può discutere come stiamo facendo noi adesso, ma la “prova” può trovarla solo attraverso l’esperienza individuale, magari sotto la guida di qualcuno che le può indicare quali tecniche utilizzare per raggiungere lo scopo, proprio come sto cercando di fare io” concluse Amrutras con un tono della voce che non ammetteva altre repliche. Chiuso il discorso. Amrutras chiuse gli occhi dando così il segnale per l’inizio del canto dell’OM, lasciando Mapelli con altre mille obiezioni inespresse. Tutte le sedute cominciavano con l’OM, una forma di concentrazione efficacissima che traeva ispirazione dal suono della creazione, gli dissero, e che i cristiani avevano trasformato, nel tempo, in Amen. La sera spesso sostava nella veranda del suo piccolo lodge, seduto su una sgangherata sedia, in mano una tazza con un intruglio che doveva bere prima di andare a letto. A volte, invece, preferiva leggere disteso sul letto i libri degli sconosciuti autori indiani che Mina gli aveva imposto di comprare a Delhi, quasi tutte donne dai nomi odorosi di spezie. Man mano che li leggeva, lo prendeva la strana impressione che vi fossero dei parallelismi tra la letteratura indiana e quella latinoamericana, e ne restava sorpreso poiché non riusciva a cogliere l’origine di quella sensazione. Ma nel consigliarlo sui libri da portare con sé in clinica, Mina non aveva trascurato gli aspetti storicofilosofico-religiosi, così gli fece acquistare anche Tagore e un libro sull’India “magica” che difficilmente avrebbe letto, ma che aveva comprato per compiacere Mina. Le giornate trascorrevano in uno stato di serenità assoluta, ritmate da quelle attività fuori dal tempo di cui Mapelli cominciava a sentire i benefici effetti. Nel giro di poche settimane perse diversi chili e cominciò a sentirsi più agile ed elastico. Le fitte al fegato diminuirono quasi fino a scomparire e il desiderio di fumare si fece meno impellente (fumava solo qualche sigaretta dopo i pasti, di nascosto). La pelle stava 77 assumendo un colorito roseo e gli occhi, dal giallo bilioso di quando era arrivato, cominciarono a diventare luminosi. Se da quelle pratiche il fisico stava traendo indubbi benefici, la mente, invece, entrò in uno stato conflittuale. Nei rari pomeriggi in cui Amrutras conduceva la meditazione e gli esercizi di yoga, Mapelli si opponeva inconsciamente al tentativo di sconvolgere il mondo familiare in cui per cinquantadue anni si era mosso. Era comprensibilmente difficile per un razionale professore di chimica organica seguire quelle discussioni con serenità. Abituato a concedere l’etichetta di “verità” solo a ciò che era universalmente ripetibile, non riusciva a concepire l’esistenza di verità percepibili solo attraverso i sensi, fossero anche diciotto e non cinque. Ma non era forse anche quella una questione di diversità? Decise così di assumere un atteggiamento rispettoso per quel mondo a lui totalmente sconosciuto. In fondo ciò che diceva Amrutras proveniva da una documentata cultura millenaria e, visto che ormai c’era, tanto valeva imparare qualcosa di nuovo, senza stare lì a rompere i coglioni con continue obiezioni. E poi non l’aveva certo invitato Amrutras, diventare suo paziente era stata una sua libera scelta. Nell’Universo di Amrutras l’uomo era sulla terra per compiere un cammino di consapevolezza. Il ciclo di reincarnazioni cui ogni uomo è sottoposto per innumerevoli vite, ha il solo scopo di consentire l’elevazione spirituale dell’essere ospitato dai diversi corpi, affinché questo possa raggiungere uno stato di coscienza cosmica e liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni, il Samsara. Lo scopo finale era dunque la comprensione di tutte le cose e uno stato permanente di divinità. Per aiutare questo processo esistevano una serie di pratiche codificate dalle scritture sacre e affinate dall’esperienza millenaria degli yogi. Ma non tutti potevano avere accesso a questa conoscenza, bisognava essere pronti a riceverla, e il solo fatto che lui si trovasse lì, in quel momento, testimoniava, secondo Amrutras, che nelle sue vite precedenti si era preparato a questo. 78 “Perchè non ricordo nulla delle mie vite precedenti?” chiese un giorno Mapelli, stavolta senza nessun accenno di polemica. “Perchè non ha ancora imparato ad accedere alla sua mente superiore. La quasi totalità dell’umanità vive nel Chitta, lo stato inferiore della mente, quello dominato dall’inconscio e dal subconscio. Sprazzi di Manas, lo stato di coscienza di sé, illuminano il suo cammino, ma per arrivare alla coscienza cosmica la strada è molto lunga. Ho letto che in occidente alcuni psicanalisti praticano la cosiddetta “regressione ipnotica”, una tecnica che consente di accedere ad alcune informazioni non coscienti delle proprie vite passate, ma ne so troppo poco per dare un giudizio” rispose Amrutras. Gli esercizi di yoga si basavano su particolari posture fisiche ed il controllo della respirazione. Bisognava mantenere il fisico in buona salute “perchè il corpo è lo scrigno dentro cui dimora il vero sè, ed il respiro è l’essenza stessa della vita” - diceva Amrutras. Nasciamo con un respiro e moriamo per assenza di respiro. Solo l’osservazione di questo semplice fatto dovrebbe bastare a farci capire che tutta la nostra attività vitale dipende dal respiro. Amrutras sosteneva che esistono alcune centinaia di modi per respirare e che ognuno di questi induce un particolare stato di coscienza poiché influisce diversamente sulla frequenza cellulare. “Riflettete su questo: ogni volta che inspirate fate entrare dentro di voi un frammento di universo e, viceversa, quando espirate date qualcosa di voi all’universo” - diceva. Il concetto era scientificamente corretto, ma se si coglieva il lato spirituale di quelle parole, quella semplice constatazione assurgeva lo status di rivelazione. Altre volte Amrutras si lasciava andare a discussioni sulle più recenti scoperte scientifiche che avvaloravano le tesi sostenute dal misticismo orientale. Erano i momenti più belli per Mapelli perchè ritrovava i codici del suo sapere e perchè aumentavano la stima che cominciava a provare verso quel bizzarro uomo che 79 non sembrava affatto mummificato sulle sue posizioni, piuttosto dimostrava grande apertura verso tutto quello che potesse aiutare l’uomo a comprendere, attingendo dai campi più disparati del sapere. Così dedicò un intero pomeriggio a parlare di olismo, sistemi complessi, paradigmi olografici, dualismo interazionista, strutture dissipative e campi morfogenetici, con una semplicità tale da fare invidia a un divulgatore navigato. Si soffermava sulle teorie solo il tempo necessario a spiegarne i concetti base, usando parole d’uso comune e numerosi esempi pratici. Talvolta si divertiva a raccontare un aneddoto particolarmente divertente, come fece quando parlò della sincronicità di Jung, descrivendo il suo burrascoso ultimo incontro con Freud. Per seguirlo non era necessario capirne di scienza, il suo scopo era dimostrare che il mondo intero si muoveva verso la stessa direzione, seppur con tempi e modalità diverse: la comprensione del tutto interconnesso. Mapelli chiese ad Amrutras come mai queste scoperte fossero così poco conosciute dalla gente e se riteneva che vi fosse una qualche forma di ostracismo del mondo scientifico verso tutto ciò che potesse mettere in discussione lo status quo. No, rispose lui, era solo una questione di linguaggio. Vi era un interessante parallelismo tra il linguaggio della scienza moderna, in particolare della meccanica quantistica, e il linguaggio del misticismo. Ambedue richiedono una conoscenza specifica e codici interpretativi esclusivi. Ciò li rende astrusi per il grande pubblico e, di conseguenza, la loro diffusione tra la massa è molto difficile. Come spiegare correttamente il concetto di Trinità del Divino? E come quello di relatività secondo Einstein? Spesso i tentativi di volgarizzazione sono destinati a fallire o a creare falsi miti. La cosa ricordava a Mapelli le lezioni di catechismo della sua infanzia, in cui si imparavano delle semplici prescrizioni da seguire senza comprenderne il significato. Ma mentre era impossibile, per chiunque non fosse un Fisico, assistere alla scissione di un nucleo atomico in particelle elementari, 80 qualunque uomo si applichi con disciplina potrà imparare a sentire la circolazione di energia nel proprio corpo, individuarne i blocchi e sperimentare come possa indirizzarla a suo piacimento. Mr Banajiri e Muriel non sembravano particolarmente stupiti dalle parole di Amrutras. Se ne stavano tranquillamente nella posizione del loto, gli occhi semichiusi, ad ascoltare senza porre mai una domanda né sollevare un dubbio. Sembravano spugne adagiate sul fondo dell’Oceano Indiano. Ma forse, pensò, erano solo più abituati di lui a quei discorsi, pronti ad abbandonarsi a qualcuno cui riconoscevano un’autorità indiscussa. Era, quello del Maestro, uno dei temi che maggiormente irritavano Mapelli. Sapeva che nella cultura orientale il Maestro è un’entità sacra, un traghettatore indispensabile verso la conoscenza, i cui metodi, a volte spietati, non sono mai messi in dubbio. In occidente, invece, era il superamento del Maestro la prova inconfutabile del successo personale, ed era ciò a cui si tendeva. Le mattine dei giorni dispari, mentre gli ospiti della clinica si sottoponevano ai massaggi, Amrutras riceveva i pazienti esterni. Già all’alba si formava una lunga fila di gente di tutte le estrazioni sociali che, seduta per terra, aspettava il proprio turno. Qualcuno portava con sé analisi cliniche, radiografie e tac eseguite in ospedale, dato che Amrutras li incoraggiava ad usare le scoperte della medicina occidentale. Riteneva che l’evoluzione umana non potesse fare a meno della sinergia tra le culture, e si dispiaceva quando veniva a sapere che in ospedale alcuni medici sconsigliavano ai propri pazienti di consultarsi con lui. “Se è corretto sostenere che esiste una sola verità, è stupido ritenere che esista una sola interpretazione di essa – disse durante uno dei pomeriggi di meditazione – e ciò vale particolarmente per le religioni. Immaginate Dio come un immenso lago al quale si abbeverano tutti. Ognuno, a seconda del punto in cui sceglie di abbeverarsi, avrà un paesaggio diverso da contemplare e, 81 quindi, un’idea diversa dello stesso lago e una diversa verità da sostenere. Ma il lago è uno, sempre lo stesso.” “Quindi basta spostarsi per scoprire che il paesaggio cambia” disse Mapelli. “Appunto. E scoprire che esistono molte altre interpretazioni dell’unica verità, e tutte ugualmente vere” concluse Amrutras con l’indice alzato davanti al suo naso, un sorriso compiaciuto allo sguardo ebete di Mapelli che aveva perso il filo del discorso. Si, perché Mapelli, nel profondo del suo cuore, non aveva ancora deciso se considerare quell’uomo un emerito cialtrone o un autentico illuminato. In ogni caso, mal sopportava l’evidenza del fascino delle sue parole e il suo innegabile carisma. Sentiva che le sue difese razionali non riuscivano a contrastare la suadenza di quei ragionamenti, perché l’Universo di Amrutras cominciava a sembrargli migliore del suo. 82 10. La ricerca spirituale di Muriel Una mattina, a colazione, Mapelli seppe che gli ospiti della clinica avrebbero avuto un giorno di totale libertà. Niente massaggi, né yoga, solo i “rimedi” da assumere regolarmente, probabilmente una pausa prevista dal trattamento. Amrutras comunicò loro che, se avessero voluto approfittarne, lo sgangherato pulmino che la clinica usava per i rifornimenti alimentari li avrebbe portati nella vicina cittadina. Mapelli accettò con entusiasmo la proposta. Voleva telefonare in Italia e sgambettare un pò in giro. Preparò velocemente uno zainetto con le sue cose, indossò dei pantaloncini e una maglietta e si avviò verso il pulmino. Lì trovo Muriel, la giovane canadese, già seduta dietro, gli enormi glutei ad occupare buona parte del sedile. Davanti stavano l’autista e un giovane inserviente, un ragazzino vivacissimo che sembrava possedere il dono dell’ubiquità. Durante le giornate in clinica lo si vedeva correre a portare gli oli caldi ai massaggiatori, poco dopo in una stanzetta intento a preparare un unguento verde, e ancora a pranzo a distribuire sorridente il cibo per i lodge. Mapelli aveva maturato una spontanea simpatia per lui, e gli chiese cosa andasse a fare in città. “Ne approfitto per stare un pò con mia nonna” rispose contento. “E’ da tanto che lavori per Amrutras?” gli domandò Mapelli. 83 “Cinque anni. E’ stata mia nonna a convincere Guruji a prendermi con sé” rispose lui orgoglioso. Muriel gli chiese come si chiamasse: Vidur, rispose, era il nome di un avo paterno, morto durante gli scontri tra musulmani e indù, prima della creazione del Pakistan. Vidur era un ragazzino dai grandi occhi scuri ed il corpo agile e snello da furetto. Indossava sempre un paio di pantaloncini color kaki e una maglietta rossa che lavava di sera, ogni tre giorni, per poterseli rimettere, un pò umidi, l’indomani. Ai piedi portava delle infradito di plastica due misure più grandi del necessario, ma ciò non gli impediva di correre tutto il giorno come se indossasse comode scarpe da tennis. Le parole di Vidur risuonavano allegre nell’abitacolo del pulmino creando un’atmosfera da gita scolastica e, nel giro di dieci minuti, la discrezione ed il silenzio che la clinica induceva a considerare come indispensabile all’efficacia della cura, fu del tutto dimenticata. Man mano che il pulmino si avvicinava alla cittadina, tra tutti i viaggiatori sgorgò senza nessuno sforzo una discussione leggera e piacevole, proprio come quella che ci si auspica possa avvenire tra compagni di viaggio appena conosciutisi. Commentarono la bellezza del paesaggio e l’austerità della natura, risero di gusto quando Vidur indicò loro alcuni uomini defecare a lato della strada senza nessuna vergogna. La cittadina sembrava uscita da un documentario di Rossellini sull’India rurale degli anni cinquanta: poca gente in giro, un pulitore d’orecchie, una coppia di santoni rasta, gli immancabili questuanti e alcuni mercanti di frutta che animavano i vicoletti del centro. Non mancavano pittoreschi viaggiatori occidentali, quasi tutti giovani alti e magri, lunghi capelli biondi, vestiti alla hippy. Si ricordò degli Ashram nominati da Mina. In effetti, aveva letto nella Lonely, quel luogo aveva a che fare con qualcosa di sacro, ma non ricordava cosa. Si diedero appuntamento con l’autista mentre Vidur scompariva veloce tra i vicoli, poi Muriel 84 acquistò dei samosa in una piccola friggitoria ambulante, ne offrì a Mapelli e si inoltrarono in un vicolo che sbucava su un laghetto. Lì videro alcuni santoni distribuire la Puja, una specie di benedizione che si concludeva con l’applicazione sulla fronte di un piccolo bolo di riso e polvere di sandalo. Muriel pagò un santone per averla mentre Mapelli si godeva lo spettacolo. Terminato il rito, Muriel si sedette accanto a lui. “E’ bello qui, vero?” disse sorridendo. “Si, è molto esotico” rispose lui tranquillo. “Sei sposato?” chiese lei senza preamboli. “Separato. E tu?” “No. Ma mi piacerebbe.” “C’è sempre tempo.” “Nessuno sposerebbe una balena come me.” “Ma no, sei solo un pò in carne” disse lui per consolarla. “Lo pensi davvero?” “Certo. E poi sei anche molto bella” disse facendo finta di studiare il suo viso. “Grazie, sei molto gentile. Comunque ho già perso quattro chili da quando sono qui.” Muriel raccontò che era stata da Amrutras altre due volte negli ultimi cinque anni. Amava viaggiare ed era un’attivista di Greenpeace. La sua famiglia era molto ricca e lei, dopo gli studi, aveva scelto di non lavorare, ma di dedicare la sua esistenza alla salvaguardia della natura ed alla ricerca del suo vero sé. “E l’hai trovato?” chiese lui ironico. Lei lo guardò intensamente, poi il suo sguardo scese alla patta dei pantaloni e disse lascivamente: “Lo sto ancora cercando.” Mapelli arrossì, girò lo sguardo verso il laghetto proprio mentre uno stormo di aironi volava in formazione da una riva all’altra. Pensò alla semplicità della natura umana. L’unica cosa che riuscì a dire fu che doveva andare a cercare un telefono per chiamare l’Italia. Lasciò una Muriel speranzosa sulla riva del lago 85 e si avviò verso il centro dove trovò subito un international phone dotato di collegamento internet. Non c’era da meravigliarsi. In India c’erano internet points dappertutto, in particolare nei luoghi frequentati da viaggiatori misticheggianti o grupponi in tour. Decise che era meglio mandare qualche e-mail che telefonare. Controllò se c’era qualcosa per lui e trovò solo cinquantadue spam che pubblicizzavano riproduzioni fedeli di rolex, viagra, pomate ritardanti e proposte di investimenti imperdibili. Selezionò i messaggi, premette “elimina”, confermò l’operazione e si accinse a scrivere una brevissima mail a Sandra – Sto bene. Ciao - e una lunga descrizione della clinica a Laura che si concludeva con un patetico papà ti vuole bene. Stava per andare via quando gli venne in mente Carmine e una vecchia parodia che amavano inscenare al telefono quando erano compagni di liceo. Buttarla sul comico gli sembrò un buon modo per rassicurare l’amico sul suo stato di salute, così si concentrò un attimo e iniziò a scrivere: messaggio dall’astronave del capitano Spencer alla base UNO sulla terra. Il nostro viaggio verso la nebulosa di Feton continua tra mille difficoltà, ma lo spirito dell’equipaggio è buono. Siamo pronti ad affrontare qualsiasi pericolo. Abbiamo incontrato diverse entità aliene che hanno messo a dura prova la nostra integrità mentale, ma le abbiamo affrontate con onore e lealtà, sempre pronti a creare nuove alleanze nel rispetto delle reciproche diversità. Se solo potessimo avere un buon piatto di spaghetti e un bicchiere di vino rosso! Viva la Federazione. Firmato: capitano Spencer. Inviò la mail, disconnesse il collegamento e andò a pagare le poche rupie previste. C’era stato un tempo che tra loro, appassionati di Star Trek, comunicavano solo così. Fu un tempo felice, il tempo del cazzeggio ad oltranza fine a se stesso. Con un accenno di sorriso stampato sulle labbra passò il resto del tempo a ciondolare per i vicoli affollati fino all’ora dell’appuntamento. Il pulmino era già al suo posto con tutti i componenti la comitiva dentro. Salì, salutò tutti e si lasciò sprofondare sul sedile. Muriel gli dedicò un sorriso 86 particolarmente dolce, per un attimo sembrò addirittura che volesse carezzargli la mano, ma non lo fece, piuttosto poggiò la testa al finestrino: sembrava godere di quella gente che spruzzava di colore i polverosi vicoli della cittadina. Quella stessa notte, mentre Mapelli dormiva sognando Amrutras che gli praticava una trapanazione al cranio, Muriel entrò nel suo lodge, si distese accanto a lui e cominciò ad accarezzargli i testicoli. Prima che si rendesse conto della cosa, Muriel aveva approfittato dell’erezione riflessa prendendogli in bocca l’orgoglioso muscolo risvegliatosi, non senza sorpresa, dal letargo cui sembrava ormai condannato per l’eternità, malgrado i flebili segnali di vita manifestati alla festa del Maharaja. Mapelli aprì gli occhi, sollevò appena la testa e capì che non stava sognando Amrutras che tentava di evirarlo, ma erano i denti di Muriel che lo mordevano delicatamente. Per un attimo pensò di chiederle di smettere, ma lei prese a far roteare la lingua sul prepuzio e, allora, ogni resistenza cadde. Tra rivoli di sudore e rotoli di cellulite si presero con foga animale due, tre, quattro volte, davanti e di dietro, di sopra e di sotto, fino a lasciarsi andare, sfiniti, l’uno accanto all’altra. “Scusami per prima, per la foga ti stavo schiacciando” disse lei ansimando ancora. “Quando? Mentre eri sopra?” chiese lui. “No, quando mi prendevi da dietro e ho perso l’equilibrio sedendomi su di te.” “Ah! In effetti sento un pò di dolore alle ginocchia” disse lui minimizzando la cosa. “Era un pò che non lo facevo - disse lei sospirando di soddisfazione – almeno due mesi.” “Ma dai! Anch’io! Che coincidenza interessante” disse lui mentendo spudoratamente. “Mi è piaciuto quando mi hai leccata, sai? Se non fossi sfinita ti chiederei di farlo di nuovo.” 87 “Grazie, in effetti è la cosa che mi riesce meglio. Non sono mai stato bravo nelle grandi manovre, preferisco concentrarmi su una cosa e lavorare di fino.” “Senti, anche se sono sfinita vorrei che mi leccassi ancora un pò” disse lei sorniona. Lui le sorrise, le spalancò le grosse cosce burrose, inspirò l’odore acidulo del suo sesso, si fece spazio tra la folta peluria fino a scoprire le grandi labbra simili a fettine di manzo, trovò il clitoride arrossato dalle fatiche amorose e cominciò a leccarlo, delicatamente. “Ogni volta che ne lecco uno mi viene in mente uno spicchio di mandarino umido” disse tra una lappata e l’altra. Continuò, sfiorandola appena, fino all’atteso urletto di godimento, poi le richiuse le fettine di manzo, le pettinò i peli con le dita facendoli convergere verso la fessura, le richiuse le burrose cosce, si distese accanto a lei e si addormentò. All’alba si svegliò solo. Di lei rimase solo l’enorme impronta sul materasso. Dopo quella notte ci furono altri due incontri infuocati da cui Mapelli uscì definitivamente distrutto. A bloccarlo fu una lombalgia che si beccò quando, preso dalla foga, tentò di sollevare Muriel dal fondo schiena per penetrarla più profondamente. Rimase fermo tre giorni durante i quali gli vennero sospesi i massaggi e gli fu prescritto riposo assoluto. Il quarto giorno si presentò al lodge Amrutras in persona con la sua giovane assistente, gli praticò con le dita una decisa pressione in alcuni punti della schiena e poi gli chiese di provare a camminare. Il dolore si sentiva appena. “Bene. Domani potrà riprendere i trattamenti. Per qualche giorno ancora eviti comunque sforzi repentini, come ad esempio, quelli che si compiono facendo sesso.” “Sesso? – rispose lui arrossendo – non vedo come...” “Il mio era solo un esempio – lo interruppe Amrutras togliendolo dall’imbarazzo – dovrà invece intensificare lo yoga, in particolare alcune posture per rafforzare i muscoli della 88 schiena. Le insegnerà Abha” – disse indicando la giovane assistente. Quando quella stessa sera Muriel si ripresentò, Mapelli le disse che non poteva rischiare di saltare altri trattamenti. Niente penetrazioni, solo sesso orale. Lei sembrò accontentarsi per qualche altra notte fino a quando non resistette alla tentazione di cavalcarlo mettendosi dentro il famoso muscolo ormai passato dall’orgoglio alla vanità. Ma al primo movimento di lei si sentì nell’aria un lieve crac, un rumore simile ad una patatina fritta quando viene stritolata tra i denti. Lei si immobilizzò immediatamente, come fosse diventata una statua, lo sguardo terrorizzato. Lui spalancò gli occhi e disse: “Sono stato io?” “Non lo so, ma sarà meglio fermarsi” Si alzò delicatamente sulle cosce e, non appena il suo peso sgravò il corpo di Mapelli, si risentì lo stesso sinistro crac. “Si, sono stato io” disse lui sospirando. “Hai dolore?” Chiese lei con un filo di voce. “No. Magari qualcosa si è spostata e adesso si è rimessa a posto. Provo a muovermi.” Si mosse come fosse stato di cristallo, ma non successe nulla, nessun nuovo crac né alcun dolore. “Vuoi che ti faccia venire lo stesso?” chiese lei, ma il vanitoso muscolo era ormai ridotto ad una misera polpetta. “Grazie, ma credo sia meglio lasciar stare” rispose lui a disagio. E così, le notti di sesso sfrenato finirono. Muriel non si fece più vedere e Mapelli ebbe addirittura l’impressione di vederla sgattaiolare, una notte di luna piena, nel lodge di Mr Banajiri. 89 11. Mr Banajiri e il kamasutra Un tempo i brahmini si rifiutavano di parlare ai curiosi viaggiatori occidentali che si recavano in India per conoscere il misticismo indù. Consideravano la cosa come un fastidio da evitare accuratamente poiché ritenevano che, per quanti sforzi fossero disposti a fare, quegli uomini dalla carnagione trasparente non avrebbero potuto capire. Quei pochi che accettavano di farsi intervistare lo facevano con un atteggiamento paternalistico, giocando con l’intervistatore come il gatto col topo. Mr Banajiri adottava verso ogni straniero lo stesso atteggiamento di superiorità. Ricco uomo d’affari di Calcutta, si recava da Amrutras ogni volta che poteva. Si trovava in quella fase della vita in cui un buon induista avrebbe dovuto abbandonare gradualmente la famiglia ed il lavoro per dedicarsi alla vita spirituale. Teoricamente, appena pronto avrebbe dovuto lasciare il mondo per recarsi, in solitudine, nella foresta alla ricerca di sè e prepararsi ad una morte dignitosa. Ma questa era letteratura. Nella realtà ciò avveniva raramente e solo i più illuminati si limitavano a frequentare periodicamente gli ashram di maestri come Amrutras. Piuttosto alto di statura, asciutto e olivastro di pelle, portava un bel paio di baffi che curava con evidente affetto. Girava per la clinica con indosso kurta pijama bianchi sempre ben puliti e in ordine. 90 I rapporti tra Mapelli e Mr Banajiri si limitavano ad un educato good morning la mattina e ad un altrettanto educato good night la sera, almeno fino a quando l’indiano non ebbe bisogno di lui, cosa che avvenne una sera in cui Mapelli stava fumando una delle sue ultime sigarette italiane sul retro del lodge, nascosto tra i cespugli. Non appena sentì bussare alla sua porta gli andò di traverso il fumo e, preso dal panico di essere scoperto, spense subito il corpo del reato e si lanciò di corsa, rosso in viso e tossendo come un bue, ad aprire. “Posso aiutarla?” gli chiese Mr Banajiri vedendolo in quelle difficoltà. “Mi scusi – rispose Mapelli tra un colpo di tosse e l’altro – adesso passa.” Gli fece cenno di accomodarsi all’interno, ma Mr Banajiri preferì sedersi in veranda dove aspettò che Mapelli finisse di bere un bicchiere d’acqua e si riprendesse dalla crisi. “Vuole che torni in un altro momento?” domandò. “La prego rimanga – rispose lui – mi sono affogato come uno stupido inghiottendo la mia stessa saliva. Posso fare qualcosa per lei?” L’indiano si lasciò andare ad una interminabile serie di scuse, si classificò come inopportuno e invadente, ma alcuni eventi imprevisti l’avevano costretto ad approfittare della pazienza di Mapelli nella speranza che potesse bonariamente aiutarlo a risolvere il problema. Fu con evidente disagio che riuscì finalmente ad esporre la questione: si trattava di Muriel. Da quando aveva smesso di frequentare il letto di Mapelli non aveva più lasciato in pace Mr Banajiri. Sapeva della loro breve relazione non perché li avesse spiati, per carità! Non pensasse questo di lui, ma perché era stata lei ad accennarglielo. Adesso la canadese pretendeva di provare con un vero indiano tutte le posizioni del Kamasutra. Erano giunti solo alla quinta e Banajiri già non ce la faceva più. 91 “Anche se mi mantengo in forma, ho comunque i miei sessant’anni. E poi questa donna mi distrae dal panchakarma e dai miei esercizi spirituali. La prego, mi dica come ha fatto a liberarsi di lei!” chiese quasi inginocchiandosi a Mapelli. “Il mio caso è diverso dal suo – rispose Mapelli – io ho ceduto strutturalmente, non mi sono potuto muovere per qualche giorno, quanto è bastato perché lei cercasse altrove di soddisfare la sua ricerca del sé. D’altra parte devo concordare con Muriel che non c’è niente di meglio di un vero indiano per provare il Kamasutra” concluse accennando un sorriso colpevole. “La prego, non mi prenda in giro! – lo supplicò l’indiano - lei è un occidentale, saprà meglio di me come si fa a rifiutare le prestazioni sessuali di una canadese in calore senza ferire il suo orgoglio!” “Come avrebbe fatto con un’indiana?” gli chiese Mapelli. “Con un’indiana tutto questo non sarebbe mai successo, almeno non con queste modalità!” rispose lui quasi risentito. “Non so come funzioni con le indiane, ma non credo che lei possa uscire da questa situazione senza ferirla. A meno che…” “A meno che, cosa?” chiese lui pendendo dalle sue labbra. Mapelli volle godere un po’ di quella situazione d’attesa. Guardò Banajiri, gli occhi cerchiati dalle fatiche erotiche, gli angoli delle labbra pietosamente rivolti verso il basso, le braccia abbandonate lungo i fianchi. “A meno che, cosa?” ripetè l’indiano con più enfasi. “Le conceda ancora una notte d’amore. Scelga una posizione complicata, di quelle a testa in giù o cose simili, poi faccia finta di farsi male alla schiena, e il gioco è fatto. Certo, dovrà stare qualche giorno a letto, ma ne vale la pena” concluse Mapelli soddisfatto. “Non vorrei che la cosa si ritorcesse contro di lei. Potrebbe tornare all’attacco.” “Stia tranquillo, mi sembra il tipo sempre a caccia di novità. E’ più probabile che provi a insidiare qualche energico 92 massaggiatore, e non può che andarle meglio che con noi due, non crede?” Risero della battuta. Banajiri si rilassò. Accettò persino una tisana allo zenzero. “Pensavo che la ricerca spirituale escludesse i rapporti sessuali” disse Mapelli curioso. “Perchè mai?” – rispose lui – il sesso può essere uno dei veicoli più efficaci per trovare il divino. Conosce il tantrismo?” gli chiese. “Si, dimenticavo” rispose Mapelli ricordandosi di aver letto qualcosa sulla Lonely. Parlarono un pò di tantrismo e jainismo, un’altra originale derivazione dall’induismo i cui seguaci giravano per strada con una benda alla bocca per non uccidere moscerini e microrganismi presenti nell’aria. Ma la discussione si interruppe presto, Mr Banajiri non voleva fare tardi perchè da lì a poco Muriel sarebbe sgattaiolata nel suo letto e lui voleva essere pronto per la sceneggiata. “Vada, vada, ne parleremo un’altra volta” disse Mapelli incoraggiandolo con un gesto delle mani. Lui fece qualche passo, poi si girò a guardarlo e gli fece un sorriso complice, come un ragazzino che si accinge a fare una marachella. L’indomani non lo videro a colazione. Vidur raccontò loro che Mr Banajiri sarebbe rimasto a letto qualche giorno per uno strappo muscolare. Mapelli guardò Muriel e l’apostrofò con l’indice teso. Lei allargò le braccia, sconsolata. Nelle serate successive Mapelli andò a trovare spesso Mr Banajiri il quale, da quando condividevano il segreto di Muriel, sembrava aver superato la diffidenza iniziale verso lo straniero. Per lo più discutevano amabilmente sorseggiando tisane, ma a volte capitava di avventurarsi in accesi confronti su temi come la situazione politico-economica in cui si trovava il mondo all’alba del terzo millennio. A tale proposito Banajiri sosteneva che il tramonto dell’imperialismo occidentale fosse vicino. Segnali 93 chiari indicavano che l’India e la Cina avrebbero sovvertito le gerarchie economiche mondiali e che ad essi presto si sarebbe affiancata l’Africa. Pur trovandosi spesso d’accordo con lui, Mapelli mal tollerava il tono usato dall’indiano. Un certo esibizionismo culturale lo induceva ad una saccenza lapidaria e bigotta. Come quando si lasciò andare a disquisizioni filosofiche sulle origini della cultura occidentale. “I primi filosofi greci, dalla Scuola di Mileto ad Eraclito, avevano avuto diversi contatti con l’Oriente. Recenti scavi archeologici ce lo dimostrano. La loro rudimentale filosofia non era altro che una mera rielaborazione dell’idea propria del mondo orientale, e cioè che l’Uno e il Tutto, lo Spirito e la Materia, coincidessero. Solo successivamente si affermò la convinzione che le due cose fossero distinte, e da lì nacquero le premesse per una concezione del mondo suicida che ha generato, nei secoli, fenomeni tipicamente occidentali come la distruzione cieca della natura e dei suoi equilibri” concluse soddisfatto Banajiri. “Non è che voi siete messi meglio in fatto di inquinamento, anzi” disse Mapelli provocandolo. Ma era inutile insistere, quando la discussione raggiungeva livelli di vivacità eccessiva, Banajiri chiudeva gli occhi e quando li riapriva assumeva un fare paternalistico e accondiscendente. Tutto il suo corpo sembrava dire non capirai mai. D’altra parte Mapelli non era da meno, durante quelle discussioni finiva per pensare di Banajiri le cose più terribili, come stupido brahmino o fottuto indiano del cazzo. Ma a parte questi momenti di tensione, tra i due si era stabilito un rapporto cordiale e, anche se non lo avrebbero mai ammesso, di curiosità reciproca. In fondo era da quasi un secolo che gli uomini tentavano di trovare una sintesi tra Oriente e Occidente. I discorsi di Amrutras sulla fisica delle particelle elementari ed i parallelismi con il misticismo orientale non erano casuali. Era un fatto che mentre in Occidente si diffondevano sempre di più pratiche tese a recuperare una 94 dimensione più spirituale della vita, dall’Oriente venivano i migliori tecnici informatici del mondo. Probabilmente quella sintesi era in corso di realizzazione – si diceva Mapelli discretamente e senza accordi preordinati. Probabilmente l’umanità non poteva che percorrere quella strada, suo malgrado e più o meno consapevolmente. D’altra parte, se la globalizzazione economica sembrava risolversi in una sottomissione del mondo all’impero delle corporation e delle multinazionali, era anche vero che portava con sé alcuni effetti collaterali che avrebbero potuto scardinare, alle radici, i principi stessi dell’Occidente. Tra questi, la contaminazione culturale poteva rivelarsi la più decisiva, perchè nel tempo si sarebbero mostrate più forti le culture capaci di fare della contaminazione un valore aggiunto. Era già avvenuto in Giappone molti anni prima, e ora stava avvenendo in Cina come in India. Gli incontri serali tra i due finirono improvvisamente, così com’erano cominciati, senza un motivo apparente. Mapelli pensò che probabilmente si era esaurita la vena di curiosità che li aveva attratti o che forse, da quando si erano accorti che Muriel aveva messo gli occhi su un giovane massaggiatore keralese dalla pelle particolarmente scura e, almeno a giudicare dal volume della protuberanza sul davanti del perizoma, sessualmente esagerato, semplicemente non trovarono più niente che li potesse legare, neanche un banale segreto condiviso come l’odore del sesso di una donna. 95 12. Vidur e il curry di melanzane “Vidur, puoi farmi un favore?” chiese Mapelli al ragazzo proprio mentre questi gli passava velocemente davanti, semisommerso da un grosso sacco caricato sulle spalle che stava portando chissà dove. “Certo signore” gli rispose lui posando agilmente il sacco per terra. “Ho bisogno di spedire questa lettera. Puoi occupartene tu appena vai al villaggio?” “Va bene” rispose cacciandosi la lettera e le rupie che Mapelli gli aveva messo in mano nella tasca posteriore dei pantaloncini. Stava per rimettersi il sacco in spalla quando Mapelli lo fermò di nuovo. “Aspetta. Sai tenere un segreto?” gli chiese guardandosi attorno. “So essere più muto di una statua, signore.” “Vorrei un pacchetto di sigarette, di qualunque marca, purché non siano al mentolo” disse dandogli altre rupie di nascosto. “Le ho qui con me. Ne tengo una scorta per gli ammalati che non possono muoversi. Le rivendo guadagnandoci qualcosa. Le piacciono le bidi?” “Sono al mentolo?” “No signore, solo tabacco.” “Vada per le bidi.” “Gliele porto stasera, quando tutti vanno a dormire.” 96 “Grazie. Acqua in bocca, mi raccomando.” Man mano che trascorrevano i giorni, tra Mapelli e Vidur nacque una simpatia che li avrebbe portati lontano. A volte, dopo cena, quando le attività della clinica subivano un naturale rallentamento, si poteva vederli sostare una mezz’ora su una vicina collinetta a chiacchierare del più e del meno. Da lì si godeva il panorama su tutta la vallata circostante fino alla macchia indistinta della non lontana cittadina. Il ragazzo aveva sempre qualche curiosità da soddisfare sulla frenetica vita in una città occidentale, una realtà per lui lontanissima intravista solo su foto di riviste e qualche sfuggente immagine televisiva. Per Mapelli, invece, quegli incontri sortivano l’effetto di mitigare la nostalgia delle lunghe chiacchierate che faceva con Laura quando questa aveva l’età di Vidur, un’abitudine alla quale aveva rinunciato da tempo ma che gli aveva lasciato come una lontana sensazione di perdita, una tenue mancanza, che non l’aveva più abbandonato. Durante quelle gradevoli discussioni, Mapelli apprese che Vidur era nato dodici anni prima nella vicina cittadina. Aveva perso i suoi genitori all’età di sei anni, travolti da un camion mentre tornavano a casa dai campi. Di loro conservava una memoria confusa, né c’erano foto che lo potessero aiutare a ricordare. A parte qualche immagine sfuocata che ogni tanto emergeva nei sogni di bambino, l’unica memoria di loro riecheggiava nei racconti della nonna. Poche cose per la verità, solamente il ritratto di due persone che avevano imparato ad amarsi e rispettarsi fino alla fine, malgrado il loro matrimonio fosse stato combinato quando erano ancora dei bambini. La nonna descriveva il padre come un uomo allegro e svagato che andava a lavorare all’alba fischiettando e tornava la sera stanco, ma sempre pronto ad una battuta di spirito. La madre veniva raccontata come un’infaticabile lavoratrice, sempre premurosa e affettuosa nei riguardi di tutti. I due coltivavano un piccolo orto che bastava appena a sfamare la famigliola, ma con le rupie che 97 la madre guadagnava togliendo il malocchio alla gente, riuscivano in qualche modo ad andare avanti. L’arte di togliere il malocchio l’aveva appresa da giovane, da una sua zia, prima che questa morisse di tifo. Il padre era seguace di Amrutras e, ogni volta che poteva, l’aiutava a raccogliere erbe e cortecce per la clinica contribuendo così anche lui ad arrotondare il loro misero reddito. Morti i genitori, lui e la nonna si ritrovarono soli. Provarono a coltivare l’orto abbandonato, ma i risultati furono talmente scarsi che dovettero prendere un bracciante che costava quasi quanto tutto quello che riuscivano a vendere al mercato. Un uomo, un parente lontano che viveva a Delhi, consigliò di mandare a lavorare Vidur in una fabbrica in città dove si costruivano scarpe per l’America, almeno così si diceva. Avrebbe dovuto incollare le suole alle scarpe per una paga di poche rupie al giorno più il pranzo, una manciata di riso e dhal, ma almeno ci sarebbe stata una bocca in meno da sfamare. La nonna, risoluta, si rifiutò di mandare Vidur a Delhi. Aveva sentito parlare di quelle fabbriche di schiavi e di quanti, partiti pieni di speranze, non fossero mai più tornati, morti prematuramente o persi per le strade della città a chiedere l’elemosina. Fu solo allora che chiese aiuto ad Amrutras che, non avendo dimenticato la devozione del padre di Vidur, assunse il bambino come sguattero. Vidur aveva presto imparato l’inglese ed i suoi compiti erano cresciuti di responsabilità negli anni, così, dalla pulizia dei lodge passò, pian piano, ad aiutare gli uomini che preparavano i rimedi. Il suo sogno, confessò a Mapelli, era quello di diventare un medico ayurvedico, proprio come Amrutras. “Dovresti andare a scuola” gli disse una sera Mapelli. “Abha mi insegna delle cose, ma non ho tempo per frequentare una scuola. Ne farò a meno” gli rispose lui. “Ma se potessi, ti piacerebbe andare?” rilanciò Mapelli. “La nonna dice che non bisogna desiderare ciò che non si può avere, ma si può lavorare per diventare bravi in qualcosa” 98 concluse lui giocando a disegnare ghirigori sul terreno col piede scalzo. Mapelli colse una nota stridente tra quel gesto infantile e la rassegnazione delle sue parole. “Tu sei stato a scuola?” chiese Vidur. “Si. Ci insegno.” “Cosa?” “Chimica organica.” “A che serve?” gli chiese il ragazzino. La domanda risvegliò in Mapelli il piglio dell’insegnante, cosa che lo portò a lasciarsi andare ad un’articolata descrizione di atomi di carbonio, molecole complesse e sintesi clorofilliane. Solo un buon quarto d’ora dopo si accorse dallo sguardo spento del ragazzo che si era lasciato prendere la mano. “Scusa, forse sono stato poco chiaro” disse mortificato. “Lascia stare – rispose Vidur – un giorno forse lo capirò da me.” Mapelli avvertì una stretta al cuore. Non era neanche capace di spiegare ad un ragazzino come si guadagnava da vivere. “Mi piacerebbe conoscere tua nonna” gli venne spontaneo dire, senza averci pensato prima. Si sorprese per la sua indiscrezione, ma ne trasse una sensazione gradevole che dissipò la stretta. “Perché?” chiese Vidur. “Dev’essere una donna interessante” rispose Mapelli. “Vieni con me domani, andrò al mercato per le provviste e poi dalla nonna a farle visita.” “Dici sul serio?” “Certo.” “Ma io non volevo… non voglio disturbare.” “Beh, non sei obbligato a venire.” “Ok. Chiederò ad Amrutras di lasciarmi andare.” Fu così che l’indomani Mapelli si trovò di fronte Hamsa, la nonna di Vidur, una straordinaria cinquantenne seduta all’indiana su un letto di corda. La donna indossava un logoro sari color carminio ben pulito e ordinato. Portava un anello alla narice, 99 braccialetti e diverse cavigliere colorate ai piedi. La pelle scura risaltava il suo sorriso candido e la dolcezza degli inconsueti occhi verdi. I capelli appena screziati dal bianco del tempo erano raccolti in una lunga treccia trattata con olio profumato. L’unica stanza nella quale viveva odorava di spezie, oli aromatici e vapori di cibo. La cucina di argilla occupava un angolo della stanza, poche pentole di rame appese alla parete affumicata, qualche stoviglia di legno e un sacco con del riso. Sulla parete opposta, immagini di Shiva e Ganesh con un altarino apparecchiato da dove qualche fiore e un incenso diffondevano nell’aria i loro profumi. La luce nella stanza entrava solo da una piccola finestra senza vetri e dalla porta d’ingresso che dava direttamente sul vicolo sterrato, percorso in tutta la sua lunghezza da un solco dentro cui scorreva la fognatura a cielo aperto. Attorno misere casupole, galline, maiali, bambini seminudi che giocavano tra loro, pile di tortini di merda di vacca fatta asciugare al sole. Vidur si rivolse alla nonna nell’idioma locale, una parlata veloce e vibrante, chinandosi e baciarle i piedi, una forma di rispetto ancora in uso in India verso gli anziani. Lei gli prese la testa tra le mani e lo baciò in fronte. Mapelli capì dai gesti che Vidur gli stava presentando lo straniero. Quando la donna alzò lo sguardo verso di lui, Mapelli non trovò altro modo per presentarsi che congiungere le mani e chinare il capo verso di lei. Seguì una breve conversazione mediata dalla traduzione di Vidur in cui la donna gli disse che Vidur gli aveva spesso parlato di lui e che sperava che la malattia che l’aveva portato fino in India non fosse grave. “Sembrerebbe trattarsi di una malattia dello spirito” disse alla donna. “Mia nonna dice che tutte le malattie vengono dallo spirito” tradusse Vidur mentre lei lo guardava attentamente. 100 “Già, comincio a crederci anch’io – confermò Mapelli mestamente – lei, invece, ha un aspetto molto sano. Al mio paese la scambierebbero per tua madre.” “Dice che sei molto gentile – riprese a tradurre Vidur - ma è che qui le donne si sposano molto presto. Lei ebbe mia madre a quattordici anni, poi suo marito morì durante gli scontri con i musulmani e non ha più avuto altri uomini.” Subentrarono una serie di sorrisi ebeti, di quelli che si fanno quando non si sa come comportarsi. Mapelli avrebbe voluto farle tante domande, ma non sapeva fino a che punto fosse opportuno spingersi. D’altra parte anche Hamsa non sapeva come era meglio comportarsi con un occidentale istruito, per di più maschio. Fu Vidur a toglierli da quella situazione. “Perchè non rimani a pranzo con noi?” gli disse. “Non vorrei creare imbarazzo” rispose lui timidamente. Seguì un’altra veloce conversazione tra nipote e nonna. “Mia nonna dice che se ti piace il curry di melanzane sarebbe onorata se accettassi.” “Grazie, accetto con piacere” concluse lui chinando il capo verso Hamsa. Così, mentre la donna si accingeva a cucinare, Mapelli propose a Vidur di accompagnarlo a comprare dei dolci, un modo per ricambiare la gentilezza. Trovarono dei rasgullah squisiti e ben freddi, sorta di palline di latte acido, farina e sciroppo. Tornando verso casa fecero un giro, cercando di far passare il tempo necessario a Hamsa per preparare il pasto. Si erano inoltrati in una zona a ridosso del lago, quando in fondo ad un vicolo Mapelli vide sulla riva alcuni uomini battere vigorosamente dei panni su delle pietre inclinate ai bordi di vasche di cemento. Le vasche erano tante quante gli uomini che vi lavoravano. Alle loro spalle lunghissime file di panni stesi ed un gruppetto di giovani ragazzi che stendevano o ritiravano i panni riponendoli in grandi cesti. Vidur notò la sorpresa negli occhi di Mapelli. Gli disse che quelli erano i Dhobi, lavandai senza casta che si tramandavano 101 quel mestiere di generazione in generazione. Conosceva uno che faceva quel lavoro, ma adesso il figlio ne aveva rilevato i clienti perché le sue mani non erano più buone. Col tempo – gli disse le dita si trasformavano in monconi contorti devastati dai dolori artritici e dai detersivi. Vidur ne aveva avuto pena e ne parlò ad Amrutras che gli insegnò a preparare un unguento per mitigare il dolore. “E’ stato il mio primo paziente”, gli disse Vidur orgoglioso. “Se non imparano ad usare le lavatrici non sarà neanche l’ultimo” concluse Mapelli. Tornati a casa di Hamsa, per la prima volta da quando era in India Mapelli provò il particolare gusto di mangiare con le mani. Superato il disagio iniziale, l’esperienza fu addirittura divertente. Hamsa e Vidur ridevano di lui, del suo modo goffo di portare il riso intinto nel curry alla bocca e dei rivoli di sugo che gli scendevano fino ai gomiti. Allora lei gli mostrava la maniera corretta di farlo, così, pian piano, riuscì a imparare a non sporcarsi il braccio e a non far cadere il riso dappertutto. Durante tutto il pranzo Mapelli represse la sua voglia di fare domande. Malgrado l’atmosfera allegra che si era instaurata, sentiva che la sua curiosità avrebbe potuto mettere in imbarazzo la donna. Così si limitò a chiederle qualcosa sulla preparazione del curry di melanzane. Per il resto parlò solo lui, per lo più di amenità che servissero a manifestare il suo gradimento per l’invito ricevuto. Poi disse che, tornato in Italia, avrebbe insegnato a sua figlia a mangiare con le mani così da farle gustare meglio i cibi. Aveva una figlia? - chiese lei. L’argomento sembrò svincolarla dalla riservatezza tenuta fino ad allora, così Mapelli le parlò brevemente di Laura. “Mia nonna dice che in India è difficile vivere per le donne” disse Vidur traducendo le parole di Hamsa. Il tono della sua voce stava perdendo la dolcezza posseduta sino ad allora. Cominciava a farsi spazio un accenno di durezza amplificato dagli occhi che dal verde mare assunsero una tinta castana. Evidentemente, 102 quello della condizione delle donne in India era per Hamsa un argomento delicato. Mapelli seppe che Hamsa stava cercando di creare, assieme ad altre donne, una cooperativa femminile per la produzione di Sari ricamati ed altri prodotti tessili. La cooperativa aveva tra i suoi obiettivi anche quello di dare alle donne un minimo di istruzione scolastica e, nel tempo, la possibilità di accedere ad un finanziamento senza interessi per poter acquistare gli strumenti minimi necessari a creare o mandare avanti l’attività artigianale. “Mia nonna dice che qui le donne sono considerate un peso per la famiglia e non possono sposarsi se non hanno una dote da portare con loro. Se poi si è nubili, divorziate o vedove praticamente vieni estromesso dalla comunità. Con la cooperativa, invece, le donne potranno unire le loro forze e diventare economicamente indipendenti. Col tempo la gente imparerà ad apprezzarne anche l’intelligenza.” Mapelli ascoltò con interesse annuendo fino a quando la donna sembrò aver concluso. “Dille che sono sicuro che le cose cambieranno, anche se ci vorrà del tempo” disse Mapelli a Vidur senza staccare lo sguardo da Hamsa. “Si scusa con te per aver parlato tanto” tradusse Vidur. “Dille che è stato un onore per me averla conosciuta.” Andarono via con la promessa che, se Amrutras avesse acconsentito, avrebbero pranzato un’altra volta insieme perché Hamsa voleva sapere come vivevano le donne in Italia. Mapelli rispose che un uomo non può essere un testimone credibile su come vivono le donne, ma garantì che avrebbe fatto il possibile. Sulla strada per la clinica strani gorgoglii scaturivano dalle sue viscere. Poi subentrò un fastidioso dolore allo stomaco e l’urgenza di andare in bagno. Fece appena in tempo ad accovacciarsi sul buco. Piegato sulle gambe, gli vennero in mente i giochi da bambino con il pongo, quando l’amichetta del cuore gli preparava pizzette colorate che lui doveva far finta di 103 ingurgitare con grande piacere. Un giorno lei venne con un sacchetto di pastiglie colorate. Lui ne assaggiò una e la trovò particolarmente amara, ma per non dispiacerla ne mangiò una decina. Finirono tutt’e due all’ospedale. Lei aveva saccheggiato il cassetto dei medicinali, attratta dai colori delle diverse pillole. Anche adesso non gli era andata meglio: non subì nessuna lavanda gastrica, ma si beccò una diarrea che lo torturò per due giorni, accompagnata da una fastidiosa febbricola debilitante. 104 13. L’Universo di Amrutras si espande “Attraverso specifiche tecniche di respirazione possiamo modificare la stato vibratorio delle nostre cellule cerebrali e renderle così capaci di entrare in altri stati di coscienza” stava dicendo Amrutras un pomeriggio in cui i suoi numerosi impegni lo lasciarono libero di guidare la meditazione. Sedeva nella posizione del loto, a sinistra un vassoio con tè e acqua e a destra Abha, la sua fedele assistente, bella come un fiore. In un angolo un bastoncino d’incenso bruciava inondando di fumo profumato una piccola statua di Shiva. Davanti a loro sedevano i tre ospiti della clinica e alcuni indiani venuti da villaggi vicini per ascoltare le parole di Guruji. “Questi differenti stati di coscienza ci proiettano in altre dimensioni di comprensione della realtà. Per esempio, gli schizofrenici hanno esperienze reali, ma ne sono vittime perché non sono in grado di gestirle coscientemente. Un mistico, in fondo, non è altro che uno schizofrenico consapevole.” Poi raccontò di uno scienziato di nome Laszlo, delle sue idee sul vuoto, e di come sostenesse che questo rappresenti una vera e propria dimensione. In questo immenso vuoto emergono e ritornano i quanti, particelle elementari della materia. “Secondo Laszlo – disse - il vuoto sarebbe una sorta di superfluido che conserva la memoria di ogni informazione dell’universo, la matrice stessa della coscienza universale in cui ogni informazione risuona e viene registrata. Attraverso questo 105 vuoto ogni particella ed essere vivente sono in costante relazione reciproca con l’universo. Ora, ogni essere umano è un’antenna in grado di entrare in risonanza con l’universo. E’ ciò che gli yogi sperimentano direttamente attraverso la meditazione. Vi racconterei la storia della scimmia Macaca Fuscata, ma adesso devo proprio lasciarvi. Magari un’altra volta” concluse Amrutras lasciando Abha a guidare la seduta di yoga. Quella sera, tornando verso il suo lodge Mapelli aveva in testa solo la Macaca Fuscata a cui aveva accennato Amrutras. Cos’altro si celava dietro quella scimmia? Una settimana dopo Mapelli si sottopose ad visita di controllo. Intanto Mr Banajiri preparava le valigie per tornare a Bombai. Mapelli lo aveva salutato la sera prima ed ora si stava godendo i colori di un’alba che sembrava preannunciare una giornata nitida e tiepida. Le silhouette degli alberi si stagliavano sul disco solare che emergeva velocemente dall’orizzonte. Mapelli cercò di immaginare cosa potesse passare per la mente di un ufficiale inglese di cent’anni prima, appena arrivato da Londra, di fronte a quello spettacolo. Immaginò la moglie dell’uomo disperata all’idea di dover rinunciare alle comodità ed alla vita di società. Poteva quasi vedere i loro figli rincorrersi tra i ficus vestiti di stoffe troppo pesanti per quel clima, incuriositi dal colore della pelle dei loro coetanei indiani. I suoi pensieri furono interrotti da un uomo venuto per prelevargli un campione di sangue. L’uomo gli disse che avrebbe portato il campione all’ospedale più vicino, a cinquanta chilometri da lì, per le analisi di base. Più tardi fu spogliato all’ombra di un ficus e ricoperto di un fango dalla particolare consistenza. Lo lasciarono, seduto su uno sgabello, ad asciugare al vento tiepido del primo mattino. Quando il fango cominciò a creparsi lo lavarono inondandolo di secchiate d’acqua, poi controllarono la sua pelle centimetro per centimetro segnando con un pennarello alcune macchie che si erano formate apparentemente dal nulla. Fu solo allora che si 106 vide Amrutras. Il medico gli girò attorno, toccò le macchie, ne osservò bene la forma e la colorazione, poi lo pregò di seguirlo nel suo studio. Arrivati lì auscultò i dosha dal polso, gli guardò la lingua e l’interno delle palpebre e poi fece chiamare i suoi assistenti. Parlò con essi per lungo tempo indicando loro le macchie che si erano formate sulla pelle. Quando ebbe finito mandò via tutti e si rivolse a Mapelli. “Mi scusi per l’attesa, ma ogni occasione è buona per imparare nuove cose. Abbia pazienza ancora un poco, vorrei scrivere alcune osservazioni prima che mi passino di mente.” Mapelli fece un cenno del capo e si predispose all’attesa. Automaticamente lo sguardo andò in giro per la stanza a scrutare tra gli scaffali di libri e pergamene, strane pietre e polveri colorate, idoli di misure e materiali diversi, mortai e coralli fossili. Dovunque regnava la polvere, uno spesso strato a volte corrotto da qualche recente ditata. Ma non era sporcizia, era la polvere della campagna indiana che inesorabilmente si infilava dappertutto. I lodge venivano spolverati ogni giorno, un riguardo verso gli ospiti della clinica, ma Amrutras vietava l’ingresso al suo studio a chiunque. Lo sguardo si spostò sul vecchio saggio, chino sul foglio dove stava appuntando con una scrittura minuta le sue osservazioni. Dalla concentrazione con la quale eseguiva quel semplice compito emergeva tutto il suo carisma, mentre il delicato movimento della mano che incideva sul foglio le sue riflessioni esprimeva l’amore per la sua missione. Quando ebbe finito di scrivere, Amrutras disse che era contento dei risultati fin lì ottenuti. C’era stato un efficace smaltimento di tossine accumulate negli anni, un evidente dimagrimento, un miglioramento della tonicità muscolare e dell’elasticità articolare. Trovava un Mapelli meno esposto alle emozioni incontrollate, più sereno e distaccato. Era sicuro che le analisi avrebbero confermato un miglioramento delle funzioni epatiche e una riduzione della componente lipidica nel sangue. Il mese 107 successivo sarebbe servito a rendere stabili quelle condizioni fissando nella memoria cellulare gli schemi mentali acquisiti. “Avremo un nuovo ospite domani” disse Amrutras cambiando discorso. “Davvero? Indiano o straniero?” – chiese Mapelli “Italiano, come lei. Occuperà il lodge lasciato libero da Mr Banajiri.” 108 14. Il mistero della Macaca Fuscata Che l’italiano in arrivo fosse Carmine, Mapelli non avrebbe mai potuto immaginarlo. E infatti, fino a quando non lo ebbe ad un metro da lui si rifiutò di crederci. “Visto che non vieni al mare da me, vengo io in India da te. Buon Natale, amico mio” disse Carmine ridendo, le braccia tese a chiedere un abbraccio. Mapelli non ebbe la forza di dire niente, si limitò ad abbracciare l’amico ed a reprimere efficacemente la commozione, poi l’accompagnò al lodge che era stato di Mr Banajiri ascoltando il resoconto dettagliato della sua decisione di andarlo a trovare in India, il faticoso viaggio fino alla clinica e la sua felicità di aver preso quella decisione. “Mi sono detto: magari preferirebbe non avere nessuno accanto proprio quando sta cercando di distrarsi. Mi sono risposto: in tal caso andrò da qualche altra parte, l’India è grande ed io non la conosco. E poi erano vent’anni che non facevo un viaggio. Ah! Ti ho portato un panettone” concluse Carmine. Mapelli gli confessò che vederlo gli aveva provocato una contrazione delle viscere, l’effetto di una comprensibile dicotomia interiore tra la contentezza di averlo lì e la paura che si portasse dietro il dolore legato a casa, quella puzza che l’aveva stroncato. Ma lo rassicurò che la cosa era subito passata, nessuna puzza, solo il leggero olezzo del viaggiatore intercontinentale – 109 disse ridendo. E poi non si era neanche reso conto che si fosse già a Natale. “Amrutras sapeva, vero?” gli chiese Mapelli. “Si - rispose Carmine - mi è stato molto utile nell’organizzare la cosa. Sembra una persona fuori dal comune. Non vedo l’ora di conoscerlo, ci siamo solo parlati al telefono.” “Lo è. Te ne accorgerai presto.” Nei giorni successivi Carmine ebbe diverse occasioni di incontro con Amrutras. Pur non seguendo i trattamenti cui si sottoponeva Mapelli, ogni tanto si godeva un massaggio o partecipava alle sedute di yoga e meditazione pomeridiane. Lui e Amrutras si piacquero subito e Mapelli scoprì il lato ludico del medico che sembrava esaltarsi quando c’era Carmine. Si scambiavano battute del tipo: “Dottore, dovrebbe far costruire una piscina in questo posto, avrebbe molti più clienti!” E Amrutras rispondeva: “Ci verrebbero solo quelli come lei, non sarebbe un grande acquisto per la clinica” E lì giù a scambiarsi pacche sulle spalle mentre Mapelli li guardava stupefatto. La compagnia di Carmine era così gradevole per Amrutras che una sera furono addirittura invitati a cena nel suo lodge. Fu una serata molto piacevole. Al contrario di quanto aveva visto nello studio del medico, in casa non c’era un granello di polvere, tutto era pulito e in ordine. Oltre alla cucina dove Abha stava perfezionando i profumati manicaretti che avrebbero allietato i loro stomaci (per quella sera, ma solo per quella sera, Amrutras dispensò Mapelli dalla consueta dieta), la casa aveva solo altri due ambienti. In uno vi era un basso salottino con le pareti ricoperte di librerie, uno stereo e una piccola televisione satellitare, nell’altro si intuiva la presenza della camera da letto, separata dal resto della casa solo da una tenda riccamente decorata con motivi induisti. Fuori c’era la veranda esterna, completamente avvolta da rampicanti. Nell’aria c’era un 110 delizioso odore di incenso, probabilmente muschio bianco – pensò Mapelli. Sedettero all’indiana sui bassi divani mentre Abha poneva le scodelle con i diversi cibi sul tavolino al centro. La ragazza era più bella che mai. Si era truccata per gli ospiti, solo del semplice kajal agli occhi e un pò di terra indiana sul viso, ma sufficiente ad esaltare ancora di più il suo fascino. Quando ebbe finito si sedette accanto ad Amrutras aggiustandosi delicatamente il sari. Mentre i due indiani mangiavano con le mani, agli ospiti furono offerte delle posate. “Se anche noi italiani mangiassimo con le mani chissà quanto detersivo si risparmierebbe!” – disse Carmine ridendo. “So che il professore ha già provato quest’esperienza. Perchè non ci prova anche lei?” disse Amrutras. Ci provò, e andò com’era andata a Mapelli, così, tra il serio ed il faceto, la cena andò avanti. Fu quando arrivarono al panettone che aveva portato Carmine dall’Italia che Mapelli chiese della scimmia a cui Amrutras aveva accennato qualche giorno prima. “Già, la Macaca Fuscata” disse Amrutras sorridendo. E si mise a raccontare. “Nel 1952, su un’isoletta giapponese abitata da una colonia di queste scimmie, alcuni etologi lasciarono delle patate dolci sulla spiaggia. Volevano capire come avrebbero reagito le scimmie di fronte ad un cibo sconosciuto. Da diversi punti d’osservazione i ricercatori potevano vedere le scimmie scrutare con curiosità ciò che era evidentemente del buon cibo, ma che non osavano mangiare per via della sabbia che ricopriva i tuberi. Fu una giovane scimmietta, Imo, che trovò la soluzione: andò a lavarla al fiume e la mangiò. La tecnica si diffuse nell’isola abbastanza velocemente, ma sorprendentemente vi fu un’inversione della normale tendenza di trasmissione della conoscenza, non più dagli anziani ai giovani, ma al contrario. Sei anni dopo tutte le giovani scimmie avevano adottato la nuova tecnica, ma i soli adulti che la praticavano erano quelli che l’avevano imparata dai 111 figli. Poi, una mattina, improvvisamente un certo numero di scimmie si mise a lavare i tuberi nell’acqua di mare. Imo aveva scoperto che il sale rendeva più buone le patate. Incredibilmente, già al tramonto tutte le scimmie lavavano le patate con l’acqua di mare. Nell’arco di un solo giorno la nuova informazione era diventata patrimonio comune. Cos’era successo? Si era superata una certa “massa critica” di individui a conoscenza della nuova tecnica, dedussero gli scienziati, e ciò aveva indotto repentinamente l’adozione del nuovo comportamento da parte dell’intera comunità. Ancora più incredibile fu per gli etologi scoprire che, ripetendo l’esperimento in isole vicine, il fenomeno si manifestava, da subito, in modo assolutamente spontaneo, senza che fosse necessario apprendere. “Questo esperimento stimolò la comunità scientifica a cercare spiegazioni plausibili – disse Amrutras – ma ciò che conta è che l’esperimento accrebbe il sospetto che esistesse una interconnessione tra tutte le cose di questo universo e che il principio di causa-effetto era ormai superato.” “Il vuto di Laszlo?” chiese Mapelli. “Alcuni parlano anche di Sincronicità o Acasualità. Jung diceva il sincronicismo è il pregiudizio dell’Est, la casualità è il moderno pregiudizio dell’Ovest. Ma basta adesso, è ora che la nostra Abha ci canti qualcosa” concluse Amrutras. La voce cristallina di Abha, accompagnata dal suono ipnotico del sitar, portò Mapelli lontano dalle parole di Amrutras. Si sentiva come un Maharaja a corte, deliziato dai cibi, dalle discussioni filosofiche, dagli aromi degli incensi e dal dolce canto delle sue concubine. Ma sapeva, con rammarico, che non avrebbe potuto godere delle grazie di Abha. Si ritirò insieme a Carmine non appena questa ebbe finito il suo breve concerto. Fu una notte difficile, combattuta tra i pensieri sulla Macaca Fuscata e l’immagine di Abha nuda che danzava alla luna, e che si risolse solo a notte fonda. Una splendida notte indiana, tiepida e vellutata, odorosa di gelsomino. 112 15. Sulla via del ritorno Quando non restavano che sette giorni alla partenza, parve a Mapelli di cominciare a percepire un fremito di paura per l’imminente separazione. Dopo ciò che aveva passato negli ultimi anni, quella piccola comunità di estranei gli sembrò quanto di più simile potesse esserci ad una famiglia. Il desiderio di fissare il più possibile nella memoria il loro ricordo lo portò a spiarli, come fosse un guardone. Muriel, ad esempio. Sembrava aver tratto beneficio dall’atmosfera che aleggiava in clinica. A guardarla bene, doveva aver perso almeno venti chili e, a giudicare dagli sguardi che si scambiava col suo giovane stallone, forse aveva davvero trovato il suo sé. Carmine, invece, malgrado la dieta imposta dalla clinica a tutti i suoi ospiti, sembrava addirittura ingrassato. Le sue gote avevano preso il colore delle ciliege e si esercitava ogni giorno con i pranayama imparati nei pomeriggi di yoga. La mattina, mentre gli altri si sottoponevano ai consueti massaggi, lui sedeva all’indiana nella veranda del suo lodge, chiudeva gli occhi e cominciava gli esercizi appena imparati. “Stai attento che se continui così l’India scioglierà anche il tuo di cervello” gli diceva Mapelli sfottendolo, e l’amico si limitava ad alzare, austeramente, il dito medio senza parlare. Anche per Mapelli era arrivato ormai il momento di fare un bilancio dell’esperienza indiana. In tanti gli avevano consigliato di partire per ritrovare salute e serenità. Avevano avuto ragione? 113 Beh, certamente la sua salute era migliorata. Era dimagrito di otto chili perdendo quasi del tutto la pappagorgia, non aveva più sentito quei fastidiosi spilli che ogni tanto si divertivano a trafiggergli il fegato, niente più emorroidi esibizioniste né braci nello stomaco. Persino gli scricchiolii alle articolazioni erano regrediti a flebili echi di sottofondo e le analisi del sangue dell’ultimo controllo avevano dato risultati confortanti. Insomma, si sentiva di affermare che il panchakarma aveva funzionato. Ma se oltre alla salute avesse acquistato anche un po’ di serenità, non si sentiva di affermarlo. Di sicuro le tecniche apprese attraverso lo yoga si erano rivelate un valido strumento di controllo dell’emotività. La meditazione, poi, gli aveva aperto un mondo sconosciuto di infinite potenzialità. Si, tutto sommato un po’ più sereno di quando era arrivato lo era. Se non altro non viveva più una condizione di paura e ansia permanente. Ma sapeva anche che alle sue attuali condizioni aveva contribuito la lontananza da casa. Cosa sarebbe successo al ritorno? Si immaginò nel suo squallido appartamento, il tempo cadenzato da riti stantii odorosi di polvere e naftalina, le sedute dallo psicanalista, le lunghe letture serali alla timida luce dell’abat jour della sua camera da letto. Cosa avrebbe fatto appena l’angoscia l’avesse stretto alla gola? Un po’ di yoga? Qualche pranayama? Una mezz’oretta di meditazione? No, probabilmente avrebbe fumato una sigaretta aspettando che si facesse vivo il bruciore allo stomaco. E venne il giorno della partenza. Tra abbracci, baci e pacche sulle spalle, i due si stavano dirigendo al pulmino che li avrebbe accompagnati alla stazione da dove un ipotetico treno per Delhi doveva, prima o poi, passare. Stavolta non c’era Mina ad organizzare tutto. Durante il breve tragitto Amrutras si dilungò in raccomandazioni di natura salutistica, Abha si limitò ad un namastè accompagnato da un timido sorriso, Muriel li baciò entrambi vigorosamente e Vidur li abbracciò con affettuosa irruenza. Quando finalmente il pulmino partì strombazzando, 114 una nuvola di fumo e polvere li avvolse mentre l’autista cantava accompagnando con la testa le strette curve della stradina che li avrebbe portati alla stazione ferroviaria. Mapelli, asciugandosi furtivamente una lacrima, guardava dal finestrino il paesaggio ormai così familiare. I sari delle donne che creavano ipnotiche macchie di colore stagliandosi sul verde dei campi coltivati, le casupole di fango dai tetti di paglia, i panetti di merda di vacca messi ad essiccare al sole, il sottile strato di nebbia che sostava a pochi metri da terra per tutto l’orizzonte, le solitarie chiome dei grandi alberi che si stagliavano su di essa. Desiderò che quel momento si scolpisse nitidamente nella sua memoria. Per questo chiuse gli occhi e si concentrò sugli odori. Com’era l’odore dell’India? Oleoso e pungente, pensò, profumato di aromi ancestrali. Piscio e gelsomino. Fritto e sandalo. Fogna e pachuli. Brutto e bello convivono apertamente. Come Shiva e Visnù, l’uno che distrugge e l’altro che conserva, due aspetti dello stesso Dio. Un Dio così al di sopra di tutto che delega a Brahma la creazione. Le divagazioni mapelliane proseguirono sul treno che li avrebbe condotti a Delhi. Tra la folla di uomini donne e bambini, vide uno yogi meditare ad occhi chiusi, apparentemente indifferente al caos umano attorno a lui. Quando un bambino gli pestò involontariamente un piede, lo spinse rabbiosamente a terra inveendo contro di lui ed i suoi genitori. La scena lasciò interdetto Mapelli. Aveva già notato che gli indiani non identificavano la spiritualità con la bontà. Gli occidentali pretendono che un prete sia anche buono. Per gli yogi è Santo colui che arriva ad esprimere tutto il proprio potenziale. Niente bene e male, niente peccato. Ricordò le parole di Amrutras durante una discussione sulle religioni e lo yoga. Deve sapere che un maestro di yoga non ha nulla a che vedere con la religione. Egli non persegue obiettivi come la ricerca di Dio, la carità, la solidarietà umana, ecc. Egli persegue esclusivamente la propria liberazione: il Moksha. Ciò può sembrarle egoistico, ma se cerca di vedere la questione 115 dal punto di vista “universale” le sembrerà un atteggiamento coerente. Potremmo addirittura considerare i maestri di yoga come i primi rivoluzionari della storia, in quanto sono volontariamente usciti dal “sistema” in cerca della propria liberazione. E’ per questo che il maestro vede le religioni come utili all’umanità, ma solo come mezzi di elevazione spirituale, mai come fini, in quanto anch’esse sono prodotti del sistema. “Come va? Sei piuttosto silenzioso” gli chiese Carmine interrompendo il flusso dei suoi pensieri. “Ho un po’ di fame, ma non oso mangiare nulla di ciò che si vende in questo treno.” “Avremmo dovuto farci preparare qualcosa in clinica. Quanto pensi che manchi per Delhi?” “Viaggiamo da due ore. Ce ne vorranno almeno altre sei.” “Beh, ci rifaremo stasera in albergo. E’ un cinque stelle, vero?” “Si. E’ lo stesso albergo che ho preso all’andata. Dopo tre mesi di vita ascetica ho voglia di un po’ di lusso.” Il primo lusso che si concessero appena arrivati in albergo, dopo una lunga doccia rinfrescante, fu un aperitivo ghiacciato dall’improbabile colore blu cobalto. Tra il periodo in ospedale e i tre mesi di dieta vegetariana e acqua, Mapelli non beveva alcool da tempo immemorabile, perciò ne gustò particolarmente il sapore caldo e pungente. D’altra parte Amrutras non gli aveva specificatamente vietato le sostanze alcoliche, in realtà non gli aveva vietato nessun alimento, gli raccomandò solamente la moderazione in tutto, la preferenza verso gli alimenti freschi, possibilmente di giornata, e un digiuno di ventiquattro ore ogni tanto. Certo, gli fece tutta una disquisizione sulle proteine di origine animale e vegetale insistendo sul concetto che fosse più sano assumerle dai vegetali piuttosto che dai cadaveri, ma mai accennò al divieto di consumare una succosa bistecca al sangue. Dipende solo da lei, si ricordi. Il nostro corpo fisico ha il solo scopo di portare in giro il nostro vero sé, ma proprio per questo è importante, ed il suo benessere dipende in gran parte da ciò che mangiamo. Malgrado avesse imposto nella sua clinica una dieta alimentare rigidamente 116 ayurvedica, sapeva bene che per un occidentale di città sarebbe stato impossibile alimentarsi allo stesso modo. Si limitava perciò a prescrivere il rispetto di alcuni principi basilari. Quando si trovarono, quindi, seduti al tavolo del ristorante, Mapelli non provò nessun particolare senso di colpa nell’ordinare un piatto unico di maiale tandoori, riso bianco e insalata, né ebbe difficoltà a limitarsi solo a quello, per nulla disturbato dalla visione porcina di Carmine che ordinò due antipasti, primo, secondo, due contorni, frutta e diversi tipi di dolce, il tutto irrorato da una buona bottiglia di vino rosso francese. Piuttosto, condivise con piacere un bicchiere di cognac a fine pasto per avere la scusa di fumare una sigaretta prima di andare a letto. Il giorno dopo erano già svegli poco prima dell’alba, ancora sintonizzati sui ritmi amrutrasiani. Non potendo accedere alla sala riservata alle colazioni prima delle sette, decisero di praticare un pò di pranayama sulle panchine del giardino interno. “Non ti vergogni un pò? Se ci vede qualcuno?” Era meglio farlo in camera” disse Carmine a voce bassa guardandosi intorno. “Parli come se dovessi fare sesso. Cosa vuoi che un pranayama all’alba possa scandalizzare un indiano? Dai, dai, cominciamo” rispose Mapelli divertito. Effettivamente i due furono oggetto di divertimento per un cameriere che li osservava da una vetrata poco lontano. Scuotendo la testa, una pila di piatti in mano, si accingeva ad apparecchiare i tavoli per la colazione degli ospiti. Man mano che arrivavano i suoi colleghi, gli indicava con un cenno della testa quei due scemi seduti all’indiana sulle panchine in giardino intenti a inspirare ed espirare come tori inferociti. Si formò presto un capannello che si sciolse solo all’arrivo del caposala che urlando e agitando le braccia come fosse in un pollaio, riportò l’ordine. Il rumore indusse i due ad aprire gli occhi e 117 guardarsi intorno, ma non scorgendo nessuno ripresero presto la loro pratica. Avevano a disposizione l’intera giornata. L’aereo che li avrebbe riportati in Italia partiva alle tre del mattino. Decisero così di trascorrere quelle ultime ore tra bagni in piscina, caffè, aperitivi al bar dell’albergo e letture con pisolino sulle sdraio del meraviglioso giardino. Mapelli propose di chiamare Mina per un’ultima cenetta nella città vecchia, ma la donna si trovava a diversi chilometri da Delhi con un gruppo di uomini d’affari taiwanesi e sarebbe rientrata solo l’indomani. Si salutarono cordialmente augurandosi buona fortuna. 118 16. Keif Fuori pioveva. Una pioggia fitta e sporca che durava ormai da due giorni. La speranza era che quella incessante cascata d’acqua riuscisse a trascinare con sé le polveri sottili che incombevano sulla città da oltre tre mesi e che targhe alterne e chiusure al traffico non erano riuscite a ridurre. Dalle montagne che abbracciavano ai margini la città si poteva vedere quella cappa di smog marroncino stazionare sul golfo, inamovibile, come fosse sempre esistita. Ma non era sempre esistita. Nei ricordi dei palermitani c’erano inverni miti e cieli azzurri e l’aria tersa che portava l’odore del mare fino a piazza Massimo. Un anno dopo il suo viaggio in India, Mapelli stava leggendo seduto alla sua scrivania. Era una lettera di Vidur, arrivata insieme ad un pacchetto contenente alcune scatoline di rimedi ayurvedici. Da quando Mapelli era partito, Amrutras provvedeva regolarmente ad inviargli le polverine magiche che avrebbero dovuto aiutarlo a mantenere un livello di tossine accettabile, e Vidur ne approfittava per scrivergli qualche parola. Cose semplici, come la sua vita. Mapelli richiuse la lettera e la conservò nel cassetto insieme alle altre, poi rigirò tra le mani le scatoline con le etichette scritte a mano ormai così familiari: Aampachak, Anulom, Rasnadi guggul. Le portò al naso per sentirne l’odore intenso e ripose anche quelle in un cassetto della scrivania. 119 Erano le dieci e trenta e non aveva nulla da fare prima delle undici, ora in cui sarebbero arrivati i ragazzi per la lezione di chimica organica. Erano ormai due mesi che Mapelli dava lezioni private a Chiara, l’angelica dirimpettaia che lo salvò dalla morte, e ad alcuni suoi colleghi, tutti studenti di agraria. Mapelli non si faceva pagare, diceva a Chiara che la vita non ha prezzo e che tanto non aveva di meglio da fare. Le lezioni così assumevano un aspetto informale, tra fumanti tazze di tè, formule sulla biosintesi degli acidi grassi e disquisizioni sulla vita, seduti sul tappeto come tuareg in un’oasi. Quel gesto di disponibilità verso Chiara gli diede l’inaspettata occasione di scoprire un diverso modo d’insegnare. Niente aule ad anfiteatro che creavano quella distanza incolmabile tra studenti e docenti, niente seriose atmosfere accademiche, niente lotte intestine tra le baronie dei vari dipartimenti. Per questo aveva rinnovato l’anno sabbatico. Sentiva quel mondo ancora troppo distante da sé per ritornarvi, ma le lezioni con Chiara gli permisero di non rinunciare al piacere dell’insegnamento. Gli venne voglia di fumare. La represse. Aveva smesso da un mese e non voleva ricascarci. Quella era una fase delicata, se avesse ceduto ora, quel minimo di autostima faticosamente raggiunta sarebbe andata a farsi fottere. E non voleva certo riprendere con la psicoanalisi. Il dottor Aricò c’era rimasto un pò male quando gli aveva comunicato la sua decisione di smettere. Chissà perché. Avrebbe dovuto essere contento, in fondo era stato lui a indicargli la clinica in India. “E’ proprio sicuro?” gli disse. “Vorrei provare a farcela da solo” rispose lui. “Come vuole – disse Aricò storcendo la bocca – se ha bisogno sa dove trovarmi.” Forse con i soldi delle sedute ci pagava il college americano al figlio, o forse era davvero convinto che da solo non ce l’avrebbe fatta. Mapelli non ebbe modo di saperlo mai, né era interessato a scoprirlo. Adesso la sua vita aveva altri ritmi. 120 Nelle giornate migliori si svegliava all’alba: un’ora di yoga e pranayama, colazione abbondante, bagno e auto-massaggio con olio di sesamo, un’ora di un buon libro, lezione di chimica organica nei giorni dispari, pranzo leggerissimo. Poi faceva sempre un riposino e, dopo il caffè, si concedeva un’altra ora di lettura seguita da una passeggiata per la città, in cerca di quelle sorprese che solo la strada può concedere. La sera preferiva cenare fuori, con Carmine, altri vecchi amici o anche da solo, tornare a casa presto, guardare un telegiornale e andare a letto. Non perdeva mai una mostra o una conferenza interessante, un film meritevole. Indubbiamente qualcosa era cambiato. Ma gli capitava ancora di non avere voglia di alzarsi presto, di non praticare yoga per diversi giorni di fila o di andare a letto tardi, magari un pò brillo. Una o due volte la settimana riusciva a pranzare con Laura. Gli sballavano un pò i ritmi, magari saltava il riposino, non di più, perchè lei aveva sempre poco tempo e “un casino di cose da fare”. C’era la palestra, le materie da preparare, il fidanzato geloso, un corso d’inglese pomeridiano. Nei fine settimana andava spesso in montagna con un’associazione d’ambientalisti, oppure alla partita di calcio col fidanzato. Di Sandra parlavano poco, giusto il necessario. E’ fuori per una settimana, non ricordo dove. Sta bene. Mi ha chiesto di te. Beh, si è fatto tardi pà, devo proprio andare. Ciao, ti voglio bene. Ciao amore, non dimenticare giovedì, stessa ora. Ma era già troppo lontana per sentire. In tutti quegli anni non aveva rivisto Sandra che due o tre volte, sempre di fretta. La fretta sembrava dominare i precari rapporti tra loro tre. Era il modo migliore per sfuggire alle parole, al racconto, all’anima. Pazienza – si diceva Mapelli – vuol dire che dev’essere così. Forse, prima o poi questa espiazione finirà, fatti trovare pronto. Ma, a parte i vacui rapporti familiari, il professor Mapelli negli ultimi mesi aveva faticosamente cercato di dare alla sua vita un 121 ritmo fluido, togliendo progressivamente spazio a ciò che non gli importava veramente, a favore di quello che poteva dare più qualità alla sua esistenza. Non era facile per la sua mente, diventata negli anni così fragile e incostante. Né d’altra parte intendeva soggiogare la sua vita a una ferrea disciplina mentale. Voleva solo raggiungere un maggior rispetto per se stesso rinunciando agli eccessi inutili o indotti, e poter godere con una maggiore consapevolezza delle follie umane. Gli era capitato più volte di parlarne con Carmine. “Lo stato mentale che cerchi di descrivere mi fa venire in mente la definizione della parola araba Keif. Vediamo se mi ricordo… assaporare l’esistenza animale senza le molestie della conversazione, senza le spiacevolezze della memoria né la vanità del pensiero” gli aveva detto Carmine durante una di quelle conversazioni. “E’ bellissima” rispose Mapelli stupito. “Beh! Certo che Amrutras ti ha aiutato molto.” “E’ solo che prima di conoscerlo pensavo che l’umanità non avesse alternative. La scelta sembrava limitata tra un Universo dominato da Dio e un altro dominato dal caso. Ambedue le scelte mi sembravano inconsistenti, infantili, a volte persino ridicole. Invece, l’idea che l’Universo possa davvero essere come lo descrive lui mi rasserena.” “Ma non ci credi.” “Per credere ci vuole fede, ma ciò che importa è che potrebbe essere così. Diciamo che rimango un agnostico, ma che ciò che potrebbe aspettarmi alla mia morte mi sembra più interessante di prima” concluse Mapelli. Le undici. Puntuale come sempre, Chiara bussò alla porta. In un quarto d’ora erano tutti seduti sul tappeto, le tazze di tè fumanti su un vassoio posto al centro ed i libri aperti al paragrafo “composti eterociclici pentatomici saturi”. 122 Erano bravi ragazzi. A parte Chiara, colei che Mapelli considerava il suo inconsapevole angelo custode, venivano a lezione Fabio, un ingenuo ragazzone ancora pieno di brufoli, Saverio, il fidanzato di Chiara, occhi vispi e fisico atletico, e Giovanna, un’intellettuale in nuce, sempre vestita in modo variopinto ed originale che aderiva al gruppo di “stop mafia”, un raro esempio di partecipazione spontanea in una città addormentata. Erano tutti fuorisede, liberi perciò di gestire le loro giornate e, soprattutto, le loro serate. Una volta lo invitarono persino ad una festa a casa di una loro amica dove si prometteva “birra a fiumi e musica sparata” - come gli dissero per invogliarlo. Lui ebbe la decenza di declinare l’invito con una scusa inventata al momento, ma fu lusingato che ci avessero pensato. I ragazzi lo chiamavano per nome. A volte anche “prof”, a seconda dell’umore della giornata. Lui considerava la cosa come una sincera accettazione, e perciò la apprezzava. “Allora ragazzi, sono stato chiaro?” disse concludendo la lezione. “Direi di si, prof” rispose Fabio. “Faremo un esamone” confermò Chiara. Gli altri due si limitarono ad annuire con un movimento eloquente della testa. “Quando avete l’esame?” “Il mese prossimo” rispose Giovanna. “Ok. Per allora saremo pronti” disse tranquillo Mapelli. I ragazzi andarono via lasciandosi dietro una scia di freschezza, almeno questo sentiva Mapelli ogni volta che finiva la lezione. Non che li invidiasse, questo no, in realtà non aveva mai provato il desiderio di tornare indietro nella sua vita e si era chiesto più volte come mai. Razionalmente, questo poteva voler dire solo due cose: una giovinezza da dimenticare, oppure una gran fiducia nel futuro. In realtà sentiva che né l’una, né l’altra ipotesi, erano vere. Aveva avuto una giovinezza difficile, questo si, ma anche 123 molto fortunata. Chi non ha avuto una giovinezza difficile? Ogni processo di crescita implica per sua natura delle difficoltà, ma le sue non erano certo state determinanti. Non la pensava così il suo ex psicanalista, il quale riteneva piuttosto che il vuoto familiare l’avesse marchiato a vita facendone un tipo cronicamente affetto da malinconia. E allora? – si diceva Mapelli – se anche questo fosse l’effetto del vuoto familiare, non dovrei semplicemente accettarlo? No, la verità è che sono stato un fortunato – concludeva. E Laura? Come avrebbe reagito lei al vuoto familiare? Non c’era modo di scoprirlo adesso, ma di certo nel suo futuro di donna ci avrebbe dovuto fare i conti. D’altra parte sapeva anche di non nutrire nessuna particolare fiducia nel futuro. O meglio, era nel suo futuro che non nutriva speranze. In quello dell’umanità, chissà perché poi, vedeva grandi cose, ma si era rassegnato all’idea di essere nato nel momento sbagliato. Se un viaggiatore del tempo fosse venuto a proporgli di seguirlo nel futuro, non ci avrebbe pensato due volte, l’avrebbe seguito ad occhi chiusi. Forse era per questo che amava tanto la fantascienza. Squillò il telefono. Alzò la cornetta e disse: “Qui è l’astronave del comandante Spencer, in viaggio verso la nebulosa di Fetron, con chi ho il piacere di parlare?” “Mi scusi comandante se disturbo le complesse operazioni di avvicinamento alla sua nebulosa, sono Carmine, non è che per caso ha a bordo un umano che corrisponde al nome di Giulio Mapelli?” “La sua incursione su questo canale radio è alquanto inopportuna, abbiamo i Prot alle calcagna e non dobbiamo lasciare tracce sonore della nostra presenza.” “Allora perché ha risposto?” “La sua è una buona domanda. Arguta, direi. Forse è meglio che le passi l’umano che ha chiesto.” “Grazie comandante, e … occhio ai Prot.” 124 “Ciao, sono Giulio. Scusa per il comandante, ma qui a bordo cominciamo a sospettare che non ci sia più con la testa. Sai, sono cinquantadue anni che viaggia per lo spazio senza mai tornare sulla terra.” “Capisco. Ti va del buon pesce stasera?” “Sicuro.” “Ci vediamo al solito posto alle otto.” “Ok. Passo e chiudo.” “Passo e chiudo. E salutami quel rincoglionito del comandante Spencer.” “Ok, ne sarà felice. Passo e richiudo.” 125 17. Ma sei proprio tu? Seduto di fronte al Trionfo della Morte, Mapelli pensava ad Amrutras ed alle sue divagazioni sulla reincarnazione. Quel giorno aveva pranzato con Laura, il solito veloce spuntino. Dopo non era tornato a casa, aveva preferito anticipare la sua passeggiata, una lunga camminata che l’aveva portato fino a Palazzo Abatellis e, essendosi ormai convinto dopo l’esperienza indiana che nulla succede per caso, pensò che il busto marmoreo di Eleonora d’Aragona desiderasse essere ammirata qualche minuto da lui: perchè la nobildonna sapeva quanto l’ammirasse ed evidentemente ne era compiaciuta. Almeno questo credeva Mapelli, così come si era ormai convinto che in qualche vita precedente l’avesse conosciuta. Niente di serio, per carità, magari ad una festa da ballo o in qualche avvenimento pubblico. Fatto sta che i suoi tratti gli erano in qualche modo familiari. Così, dopo averla ammirata lungamente ed aver rinnovato la sua devozione per lei, si diresse nella sala sopraelevata dalla quale si poteva ammirare in tutta la sua maestosità il “trionfo della morte”, quadro di un anonimo del XV secolo. Gli occhi fissi sul terribile cavallo e la mente al samsara, il ciclo delle reincarnazioni, si sentì chiamare: “Giulio, ma sei proprio tu?” “Sandra! Ciao!” rispose lui sorpreso da quella inaspettata apparizione. Si alzò per baciarle discretamente la guancia e ricevette invece un caloroso abbraccio. 126 “E’ incredibile, ma vengo dalla sala di Eleonora e ho pensato a te e alla tua devozione per lei. Ed eccoti qui! Sono con un gruppo di professori australiani.” “Io sono solo a passeggio. Ti trovo bene. Sei bellissima.” “Grazie, ma non è un buon periodo.” “Lo so, Laura mi ha detto di tua madre.” “Soffriva da mesi” disse lei con gli occhi lucidi. “Mi spiace” rispose lui prendendole la mano. “Senti, adesso devo scappare. Starò ferma in città per un bel pò, ho da sistemare le cose di mia madre. Ti andrebbe di cenare insieme una di queste sere?” disse piegando la testa di lato. Sul momento lui non fu certo di aver capito bene. Gli stava chiedendo di vedersi? “Vuoi dire proprio a cena?” le chiese timidamente. “Beh, di solito si cena a cena” rispose lei sorridendo. Sapeva di averlo spiazzato e, sadicamente, un pò se ne compiaceva. “Scusa, sono un pò...” “Confuso, lo so. Se non ti senti posso capirlo.” “Al contrario, ne sono felice. A casa mia?” “Ti chiamo appena posso.” Si riabbracciarono, poi lei si allontanò girandosi a salutarlo ancora con un veloce gesto della mano. Ancora stordito, tornò a sedersi di fronte al quadro. Davanti a lui a questo punto c’era solo un’enorme macchia di colori indistinti. Guardava, ma non vedeva, la mente completamente assorbita dalla ricerca di un indizio, un segno che gli desse una spiegazione plausibile a quello che era successo. Forse anche lei si sentiva sola. E poi era morta sua madre. Quell’invito non significava nulla, era solo un momento di debolezza. Una volta riavutasi dallo sconforto di sicuro avrebbe telefonato per disdire la cena. D’improvviso rintracciò nella memoria il profumo inebriante della crema che Sandra usava spalmarsi sulle cosce dopo la doccia e la sacralità rituale che metteva nell’indossare le sue autoreggenti nere. Le immagini di loro due che facevano 127 l’amore sul prato di fronte la loro casa di campagna prima che nascesse Laura cominciarono a scorrere nella sua mente. Se si fosse lasciato avviluppare ancora da quell’ondata di rimpianto, avrebbe passato un pomeriggio terribile. Resistette, si divincolò, respinse energicamente quel frammento di vita passata e tornò a concentrarsi sul quadro. Gli sembrò, per un attimo, che lo scheletrico cavallo lo stesse guardando. E tu che vuoi? – disse piano – pensa ai fatti tuoi. Si alzò e se ne andò. Una settimana dopo i due erano a cena a casa di Mapelli. Spiluccando dai piatti, si raccontarono ciò che erano stati in quei lunghi anni di assenza. Lei parlò della sua vita accademica e dei tanti viaggi in giro per il mondo per mostre e conferenze, lui della recente esperienza indiana, della fluidità ritrovata, delle lezioni che teneva ai ragazzi e di come avesse ritrovato il piacere di insegnare, di rendersi utile. Sembravano gli attori di un testo teatrale dell’avanguardia americana, con quell’unica luce che scendeva dal tetto fino al piccolo tavolo apparecchiato a illuminare la scena come fosse uno spot sapientemente piazzato da un abile regista, solo la cucina come sfondo alla scena, quasi a sottolineare l’intimità tra due esseri che si conoscevano bene e che parlavano, ridendo o rabbuiandosi sull’onda delle emozioni che il fiume di parole suscitava. Il vino li aiutò a superare i momenti più difficili, quelli in cui cominciarono a rendersi conto che non avrebbero potuto evitare di parlare del passato in comune, che prima o poi la memoria avrebbe avuto il sopravvento. E fu lei per prima, come sempre, a prendere l’iniziativa. “Stai con qualcuno?” “Chi, io? Vuoi scherzare?” rispose lui ridendo. “Perchè? Sarebbe normale.” “No, non dopo di te” disse lui tranquillamente portandosi una forchettata di dolce alla bocca. Lei non riuscì a dire niente, sorpresa dalla sincerità di quell’affermazione. 128 “Tu, piuttosto? - chiese lui masticando – ho più volte chiesto a Laura ma ho sempre trovato un muro di gomma davanti a me.” “Ho avuto diverse storie. Lei di certo l’ha capito, ma non le ho mai dato la possibilità di esserne assolutamente sicura. Niente presentazioni né telefonate a casa. Una è durata due anni, con un pittore austriaco che era venuto a vivere nell’esotica Sicilia in cerca di ispirazione, ma è finita da parecchio. Ora sono sola.” “Felicemente?” “Direi meglio: serenamente.” Lo disse con un falso sorriso, storcendo un pò la bocca. Si alzò a prendere la frutta. “E tu sei felice?” gli chiese posando le mele sul tavolo. “No, ma so che potrei.” “Che vuoi dire?” “Che credo di aver capito che non ci sono preclusioni alla felicità, per nessuno. Che a volte l’infelicità è una scelta. Che dietro questa scelta si possono nascondere semplici meschinità. Che ci vuole un’intelligenza machiavellica per costruire minuziosamente le condizioni necessarie ed indispensabili a che si realizzi la propria infelicità. E forse è per questo che è così rara tra coloro che consideriamo ignoranti. Che dipende, in buona parte, da noi, da come ci porgiamo alla vita. Insomma, sono propenso a credere che la vita si adegui a quello che vuoi essere.” “La pensavi così, un tempo - disse lei – voglio dire, prima di stare male”. I suoi occhi esprimevano compassione, forse anche un pò d’amore. “Davvero? Non me ne ricordo più.” “Per questo mi innamorai di te.” “Di questo mi ricordo bene.” Versò un altro pò di vino per tutti e due, un modo per non dover guardarla direttamente negli occhi che adesso lo imbarazzavano. Non era più abituato a quella luce. “Hai sofferto molto in questi anni, vero?” disse lei. 129 “Credo di essermelo meritato. Quello che fai ti ritorna con gli interessi. Gli indiani lo chiamano karma, è una legge infallibile.” Per la prima volta in tutta la serata non trovarono più niente da dire, ma non fu un silenzio imbarazzante, piuttosto un salto di qualità nella comunicazione: il sentimento sostituì le parole, si sentirono senza nessun rancore, nessuna recriminazione, soltanto una profonda comprensione reciproca. Lei gli prese la mano, la guardò, l’accarezzò, se la portò al viso chiudendo gli occhi. Stette così per un pò, poi riaprì gli occhi e disse: “Si è fatto tardi.” “E’ stata una bella serata.” “Si.” “Ti rivedo?” “Sentiamoci” disse alzandosi. L’abbracciò sul pianerottolo proprio mentre Chiara usciva dall’ascensore, di ritorno dalle solite scorribande notturne. “Lascio aperta la porta?” chiese imbarazzata. “Si, grazie” rispose Mapelli. Sandra entrò nell’ascensore, diede la buonanotte a entrambi e sparì lentamente versò il basso. “E’ un bel pezzo di femmina! E’ una conquista dell’ultima ora?” gli chiese subdola. “Vai a letto, insolente” gli rispose lui dandole una pacca sul culo. “Notte, macho” fece lei strizzandogli l’occhio mentre apriva la porta. Mapelli andò a letto con un senso di leggerezza che non provava da molti anni. Lavò i denti, mise il pigiama, si raggomitolò sotto le coperte e si addormentò subito. Di sicuro sognò, ma al mattino non ricordava nulla. 130 18. L’isola della pienezza Sonnecchiavano, nudi sul letto, come due amanti qualsiasi dopo aver fatto l’amore. Mapelli aprì gli occhi, girò lo sguardo e vide il viso di Sandra poggiato sul cuscino, il respiro pesante, la bocca leggermente aperta. Le sarà piaciuto? - si chiedeva. Quando riaprirà gli occhi, cosa vedrò in essi? La malcelata delusione di chi ha appena ingoiato la classica minestra riscaldata, oppure la gioia di chi riscopre il piacere della pienezza? Sperò che lei non aprisse gli occhi ancora per un pò, che gli desse la possibilità di godere ancora di quella sospensione temporale in cui tutto era ancora possibile, nel bene e nel male. Sandra contrasse i muscoli della faccia, mugolò e si girò dall’altra parte. Un gesto tipico di lei che conosceva benissimo. Significava che voleva riposare ancora un pò. Si girò sul letto lentamente, aiutandosi con gli avambracci per non sollecitare troppo la schiena, il suo punto debole. C’era voluto un mese di cene e romantiche passeggiate prima che si decidessero a farlo, spaventati com’erano dalle possibili conseguenze. Per questo avevano tenuto Laura all’oscuro di tutto, ricominciando a frequentarsi nella convinzione che due ex, dopo tanti anni di distacco, non potessero essere sicuri di riuscire a convertire i loro vecchi sentimenti in una tranquilla amicizia. E infatti si resero presto conto che non sarebbe stato così, né, 131 d’altronde, fecero nulla per fermarsi quando cominciarono a capirlo. Era stato un mese gradevole. Chiara e gli altri ragazzi superarono tutti l’esame, anche se alcuni meno brillantemente di altri. Mapelli, da ex professore, non si stupì. Sapeva che sul voto contavano molti fattori che poco avevano a che fare con l’intelligenza. Per festeggiare andarono una sera in un piccolo borgo marinaro fuori città a mangiare spaghetti alle vongole e cozze scoppiate. Poi andarono sugli scogli a guardare il mare in tempesta fino a quando uno starnuto di Mapelli suscitò un coro di voci preoccupate per la sua salute. Per quanto lui insistesse per restare un altro pò, lo trascinarono di peso fino all’automobile e lo accompagnarono fin dentro casa dove gli prepararono una tisana calda contro i raffreddori. Quelle amorevoli attenzioni nei suoi riguardi lo commossero. Si fece vergognosamente coccolare arrivando persino a fingere altri starnuti. Andarono via solo quando si convinsero di aver fatto tutto quanto fosse necessario per evitargli un malore. In quei giorni ricevette anche un’inaspettata cartolina di suo padre che lo invitava a raggiungerlo. Perchè non vieni? E’ troppo tempo che non ci vediamo ed io sto invecchiando in fretta – diceva. Chissà perchè non era mai andato a trovarlo, era sempre stato lui a raggiungerlo in Italia, quando doveva mettere a posto qualche vecchia questione economica o quando venne a conoscere Laura, una settimana dopo la sua nascita. Aveva anche avuto notizie fresche dall’India: la cooperativa di Hamsa aveva iniziato a produrre sari per un negozio di Bombay e presto avrebbero avviato anche la produzione di altri prodotti tessili. Sandra, invece, aveva dovuto risolvere tutte le penose trafile che seguono la morte di un genitore, compreso lo smantellamento della casa in cui l’anziana donna viveva da sola. Aveva annullato tutti i suoi viaggi di lavoro lasciando spazio solo alle lezioni che continuavano ad impegnarla durante la settimana. 132 Mapelli tornò a guardarla. Seguì le curve del suo corpo nudo disteso sul letto, dalla testa fino ai piedi. La immaginò come un’isola, le lenzuola a riprodurre le onde del mare che la lambivano. Aveva sempre avuto delle belle natiche. Ed i fianchi stretti. Quella mattina non aveva avuto lezione, si erano visti a mezzogiorno per un aperitivo in un bar del centro. Era bastato che i loro sguardi si incrociassero per capire che sarebbe finita così. Avevano cominciato a fare l’amore molto prima di finire a letto, spogliandosi con gli occhi mentre bevevano dai bicchieri colmi di liquido colorato che il barman gli servì al tavolo. “Hai da fare a pranzo? - aveva chiesto lei – Laura è a studiare da una sua collega.” “No. Vuoi venire da me? Possiamo farci un’insalata” rispose lui.” Ma non ci fu nessuna insalata. Tornò a guardare il corpo disteso di Sandra. Individuò il golfo di quella meravigliosa isola: le gambe leggermente ripiegate. I piedi, invece, erano due promontori paralleli proiettati verso il mare. Seguì le curve risalendo verso la testa. Arrivò al passo che formava il fianco, tra le due alture del bacino e del busto. Poco più giù trovò la fossetta della schiena, ben marcata, a formare una V che sembrava sfrontatamente indicargli la via per l’oblio, quella fessura tra i glutei che gli riaccese il desiderio. Vi mise dentro la lingua, delicatamente. Sandra si mosse appena, quel tanto che gli potesse rendere più facile quello che stava facendo. Il respiro le si fece più veloce, rantolò come un gatto, poi si girò a prendergli il viso tra le mani e lui potè guardarla negli occhi. Allora vide la gioia della pienezza e la baciò. Con gratitudine. Dopo vennero strani giorni e mille domande. La necessità di reimpostare le esistenze di tre individui provocò sbalzi d’umore frequenti, e discussioni interminabili. Capirono presto che sia loro che Laura avevano bisogno di un periodo di riadattamento, una sorta di rieducazione alla vita familiare. 133 Saggiamente, ripresero la vita di sempre, dedicandosi tutti i momenti migliori con serenità, senza l’affanno dell’urgenza. Pian piano, scoprirono che il tempo aveva cambiato molte cose. Per esempio, lei, che non aveva mai sopportato l’ordine, adesso si comportava come un sergente maggiore in caserma rimettendo a posto ogni cosa e lavando e asciugando i piatti dopo ogni pasto insieme. Lui, invece, aveva imparato ad apprezzare la cioccolata, prima d’allora odiata a morte. Per non parlare di Laura che per Giulio era poco più di un’aliena. A parte i veloci pasti in trattoria che gli avevano dato una vaga idea di cosa le piacesse mangiare, per il resto poteva dire di non conoscere sua figlia. Lui, semplicemente, non l’aveva vista crescere. D’altra parte Laura non aveva manifestato particolare entusiasmo alla notizia del ritorno insieme dei suoi genitori, quasi avesse paura che la nuova condizione potesse mettere in pericolo la sua indipendenza. Così dovettero in parte conoscersi di nuovo, quel tanto che diede ai loro momenti insieme il piacere della scoperta. Ma godettero senz’altro di più nel ritrovare le unicità che nessun tempo può cambiare in un essere umano e che rappresentano, per l’altro, quelle certezze che rendono la vita più scorrevole, meno imprevedibile. Tornarono spesso in quella che era stata la loro casa di campagna. Giulio non vi era più stato da quando vi aveva vissuto per un pò durante la loro separazione. Sandra ci era andata una volta l’anno, il tempo di dare una ripulita e occuparsi di qualche riparazione. Laura, invece, ci aveva organizzato qualche festa con gli amici ambientalisti. Ormai non c’era più il prato all’inglese su cui aveva fatto tante volte l’amore, solo erbacce e cespugli e alberi da frutto trascurati da anni. Ma la casa era vivibile, accogliente e allegra come allora, posta sulla collina quasi fosse una terrazza panoramica sui monti circostanti. Lì continuarono a raccontarsi gli anni di separazione, ad arricchire di particolari quelle cose che non avevano avuto il tempo di dirsi, a meglio delineare i contorni delle loro diverse 134 esistenze. Così Vidur, Hamsa ed Amrutras divennero nella mente di Sandra persone con un viso ed una personalità, non più solo nomi esotici di entità astratte. Fu una sorpresa per Giulio, invece, scoprire che Sandra parlasse solo delle cose che aveva fatto e mai delle persone. “E’ solo che non ho conosciuto persone interessanti – disse lei una mattina quando Giulio le fece notare la cosa – e gli amanti non lo sono quasi mai.” “E il pittore austriaco?” “La solitudine ti porta a fare stupidate. Di lui non mi è rimasto niente. Ancora adesso lo trovo incredibile, ma è così. Stai con una persona due anni e non ti lascia niente.” “Anch’io ho avuto un’amante per solitudine, una sola” disse lui ridendo. “Davvero? Non me ne hai parlato! Dai racconta” fece lei curiosa. Gli raccontò di Muriel, della sua ricerca del sé e di come si fosse spaccato la schiena l’ultima notte di sesso. Finirono per ridere con le lacrime, l’una addosso all’altro fino a quando lei disse: “Poverina però, ti sei approfittato di una donna in cerca di risposte” “No, no – rispose lui – è lei che si è approfittata di un pover’uomo in difficoltà!” E continuò raccontandogli di Mr Banajiri e dell’aitante massaggiatore indiano. A volte, quando erano in campagna, spesso senza Laura che aveva sempre qualcosa di importante da fare in città, andava a trovarli Carmine, felice di poterli rivedere insieme. Mai a mani vuote, si presentava con pesce fresco da arrostire alla brace, dolci presi nella migliore pasticceria di Palermo e bottiglie di vino pregiato. Malgrado ci fosse ancora freddo, la primavera era dietro l’angolo, così Sandra preferiva apparecchiare fuori, sotto la veranda, mentre i due uomini armeggiavano con la brace ed i 135 pesci da pulire. Erano serate tenere, senza tensioni di nessuna natura, tra persone mature che cercavano dalla vita piaceri semplici, come la visione di un infuocato tramonto arancione o il delizioso aroma del pesce che sfrigola sulla brace. Quando arrivò la primavera, Sandra dovette partire per due settimane, e fu solo allora che si accorse di quanto si fosse di nuovo legato a lei. La compagnia di Carmine o dei ragazzi che andavano a trovarlo a casa non riuscivano a colmare il vuoto della sua assenza. Solo Laura riusciva a mitigare quella sensazione, forse perchè aveva cominciato a stare un pò di più con lui. “Il mio lavoro non mi sembra più importante come prima. E’ grave?” gli disse Sandra, una sera al telefono. “No. Lavorare è solo un modo per guadagnarsi il pane. I fortunati come te non se ne accorgono perchè fanno ciò che avrebbero voluto fare comunque, a prescindere dall’urgenza dello stipendio. Ma ci sono un milione di cose più importanti del lavoro” rispose lui. “Torno presto.” “Lo so.” “Baciami.” “Lo sto facendo.” 136 19. La paura di Laura “No pà, stasera sono al centro sociale occupato – gli stava dicendo Laura al telefono – stiamo preparando uno spettacolo teatrale sulla pena di morte. Magari domani.” “Potremmo cenare fuori e poi andare al cinema” disse Giulio. “Senti, ma che è sta fregola adesso di vedersi continuamente? sbottò lei agitata – sono contenta che tu e la mamma siate tornati insieme, lo dico sul serio, ma spero non penserete di impormi un nido familiare che non c’è mai stato. Abbiamo sempre corso da soli, tutti e tre, ed è troppo tardi per cambiare le cose.” “Si può benissimo correre da soli e volersi bene” rispose lui arrabbiato. “Chi ti dice che non te ne voglia? O che non voglia bene alla mamma? Non è una questione di amore. Tu dovresti capirlo meglio di chiunque altro. Ma hai mai riflettuto un attimo su questa famiglia? Il nonno se n’è andato che eri ancora giovane. E non è neanche il tuo vero padre. La mamma è sempre in giro o all’università. Tu te ne sei andato che ero una ragazzina. Ho dovuto arrangiarmi come hai fatto tu. E adesso volete che mi trasformi improvvisamente in una figlia devota, tutta casa e chiesa.” “Hai avuto i nonni materni.” “Sai che meraviglia crescere fuori da casa tua!” “Senti Laura, adesso sei agitata, non possiamo parlarne meglio domani? Vengo io a casa, quando vuoi, quando hai tempo.” 137 In quelle due settimane senza Sandra, il tono delle loro conversazioni era sempre più degenerato. Improvvisamente, la Laura svagata e distante si era fatta rabbiosa, come un animale che teme per il suo territorio. Giulio cercava di farsene una ragione, era normale che Laura avesse quelle reazioni – si diceva – non aveva torto, ma come fare a trovare la chiave d’ingresso al suo cuore, a mitigare le sue paure, a spegnere quella rabbia che aveva in corpo? Giulio non ne aveva parlato con Sandra durante le loro conversazioni telefoniche. Voleva in tutti i modi tenerla distante da quel momento di difficoltà, voleva che pensasse che tutto stava andando bene. Almeno fino a quando fosse rimasta via da Palermo. Poi avrebbero trovato insieme un modo per affrontare la nuova situazione. E invece fu Carmine a dargli una mano. In tutti quegli anni l’amico non aveva mai smesso di frequentare Sandra e Laura. Per la ragazza era uno di famiglia, sempre disponibile a darle una mano, un consiglio appropriato, una parola consolatoria. Giulio ne era stato persino geloso. Pensò addirittura che fosse diventato l’amante di Sandra, poi, quando alla sua richiesta di spiegazioni Carmine lo mandò a fare in culo, scartò la bizzarra ipotesi. Ma continuò a non tollerare i racconti della figlia su quanto fosse meraviglioso lo zio Carmi. Carmine non fece niente di eclatante, semplicemente si interpose tra i contendenti, come è logico fare quando questi comunicano ormai su piani differenti. Fu l’inviato ONU della famiglia e, una parolina conciliante qui, una carezza là, riuscì a calmare le acque tra i due. Convinse Laura che non era intenzione di Giulio proiettarla indietro nell’infanzia. Lei era ormai una ragazza matura che i suoi genitori avevano imparato a stimare per le sue qualità. Certo, a volte un pò spigolosa e rispostiera. Forse un pò troppo distaccata. Ma aveva le sue ragioni, Carmine ne era convinto. Avrebbe dovuto avere un pò di pazienza con suo padre, era un uomo che aveva sofferto molto negli ultimi tempi e aveva fatto un sacco di cazzate. Ma non era 138 cattivo, no, solo confuso, e gli voleva davvero tanto bene. Di certo non era sua intenzione irrompere nella vita di Laura come un invasore indesiderato, voleva solo starle un pò più vicino, imparare a conoscerla meglio. Recuperare, non facesse quella brutta faccia, non era mica una parolaccia, si, recuperare il tempo perduto. E poi adesso stava molto meglio, se gliene avesse dato la possibilità se ne sarebbe accorta da sola. Era tornato ad essere un uomo, come dire, interiormente ricco. Durante quel discorso la ragazza pianse, come pianse anche Giulio quando fu il suo turno. Carmine gli disse che la ragazza era solo spaventata. Capisci, ormai si era costruita una vita sua in cui credeva non ci potesse essere spazio per una vera famiglia, e adesso teme di poter essere di nuovo illusa. Si, sembra dura e distante, ma in realtà ti vuole bene, è solo un modo per tenere lontana un’altra possibile delusione. Ha bisogno di certezze, e di tempo. Adesso smettila di piangere che c’hai la tua età, sei tu che devi dimostrare saggezza, per lei è ancora presto. Così, qualche giorno dopo, Laura e Giulio riuscirono a vedersi a cena senza litigare. Dopo non andarono al cinema, avevano troppe cose da dirsi, ma se le dissero con calma, anche le cose più crude, senza la cinica volontà di farsi male. Naturalmente non potevano capirsi, ma cominciarono a percorrere il lungo cammino dell’accettazione reciproca, il pilastro su cui si basa ogni vero rapporto d’amore. Decisero che tutte le cose che si erano detti sarebbero rimaste un segreto tra loro due, anche perchè molte di quelle cose riguardavano Sandra. E così fu. Quando Sandra tornò dal suo viaggio di lavoro li trovò come li aveva lasciati, solo un pò più simpatici. Giulio era andato a prenderla in aeroporto. Adesso lei stava disfacendo le valigie mentre aspettavano Laura per cenare insieme. “Sei uscito spesso con Laura?” gli chiese lei. “Poco.” 139 “Dovremmo fare più cose insieme” disse lei propositiva. “Penso sia meglio lasciare che sia lei a volerlo” replicò lui facendo finta di non staccare gli occhi dal giornale che stava leggendo, mentre in realtà la scrutava con la coda dell’occhio per carpire la reazione alle sue parole. “Dici?” chiese lei interrompendo quello che stava facendo. Portò la mano al fianco e si mise a guardare un punto imprecisato sulla parete di fronte. “Che c’è?” chiese lui vedendola così concentrata. “Niente. Credo che tu abbia ragione” concluse lei tornando a disfare le valigie. Ma si fermò di nuovo e lo raggiunse alla poltrona sedendosi a cavalcioni su di lui. “L’India ti ha fatto bene. Stai diventando un vecchio saggio. Ed io ho voglia di fare l’amore con te. Ora” gli disse cominciando a sbottonargli i pantaloni. “Dovrai aspettare stasera – fece lui fermandola – ricordi? Siamo due genitori che aspettano la loro figlia per cenare. Non vorrai farti trovare nel bel mezzo di un amplesso?” “Va bene - disse lei alzandosi – ma stasera non mi sfuggirai” concluse agitando l’indice dietro gli occhi famelici. 140 20. Funerale a Nuku Hiva Pochi giorni dopo il ritorno a Palermo di Sandra, Giulio ricevette un telegramma dell’Alto Commissariato per le Isole Polinesiane che gli comunicava che suo padre, Mr Alberto Carlo Maria Mapelli era disperso in mare da due giorni al largo di Nuku Hiva, isola dell’arcipelago delle Marchesi, e che le ricerche erano ancora in corso. Il telegramma si chiudeva assicurandogli tutta l’assistenza necessaria qualora avesse deciso di recarsi sul posto. Giulio rigirò a lungo tra le mani il telegramma senza avvertire nessuna particolare emozione, piuttosto la sua attenzione fu catturata da particolari insignificanti come lo strano colore della carta, l’elegante bollo sull’intestazione nella busta, che fosse scritto in inglese piuttosto che in francese. Nuku Hiva era l’isola dove suo padre abitava da anni. Faceva parte delle terre francesi d’oltremare, come del resto tutte le isole Marchesi. Chiamò Sandra, certo che parlare con lei l’avrebbe indotto a una qualche decisione circa il da farsi. “Ciao Sandra. Il vecchio notaio è disperso tra le onde del Pacifico, me l’hanno appena comunicato” disse senza toni particolari. “Vuoi dire tuo padre?” “Proprio lui, ho ricevuto un telegramma da Papeete.” “E che si fa adesso?” gli chiese ansiosa. “Non saprei. In ogni caso la mia presenza lì sarebbe del tutto inutile.” 141 “Ma hai potuto parlare con qualcuno? Che ne so... la donna con cui vive?” “Non ha neanche il telefono! E poi credo parli solo francese.” “Beh! Qualcosa bisognerà pur fare” disse lei. “Manderò un telegramma di risposta e poi vedremo” concluse arricciando le labbra. “Ci vediamo a pranzo e ne parliamo meglio.” “Si. Ciao” concluse lui capendo che la telefonata non aveva sortito l’effetto desiderato. Ripose il telefono sul tavolo e tirò fuori da uno scaffale della libreria l’atlante. Trovò subito l’arcipelago delle Marchesi perchè, da quando suo padre aveva scelto quel posto per vivere, ogni tanto se lo guardava. Nuku Hiva era così piccola che sulla carta si poteva a malapena leggere solo il nome su un puntino bianco, tutt’attorno una distesa infinita di azzurro, macchiettata da decine di altri puntini bianchi, solo quelli più importanti. Pensò di chiamare l’avvocato Ferri. Malgrado fosse vicino ai settant’anni, era ancora l’amministratore dei beni del padre. La notizia lo sconvolse, lasciando interdetto Giulio. Il legame che univa quei due uomini era sempre stato un mistero per lui, si occupava dei suoi beni con una cura sorprendente, come se ci fosse una stima consolidata e un affetto fraterno per l’uomo, al di là dell’incarico formale. Dovette consolarlo, giungendo a dirgli che gli avevano assicurato che c’erano fondate speranze di rintracciarlo. Una bugia come un’altra pur di interrompere quella penosa situazione. “Tienimi informato, ti prego” gli disse tirando col naso. “Stia tranquillo, lo farò” rispose Giulio chiudendo la telefonata. Trascorse la giornata come fosse intontito. L’unica reazione tangibile all’accaduto era solo una leggera sensazione di vuoto all’altezza del plesso solare, come quando percepisci d’istinto che da quel momento in poi l’ordine delle cose non sarà più lo stesso e comincia a fare capolino l’ansia di dover creare un nuovo 142 ordine, la preoccupazione di decidere da cosa cominciare e a cosa dare priorità. Non era un problema materiale, non poteva esserlo dato che l’assenza di suo padre era già nell’ordine delle cose, ma era questo che sentiva. A sera, andando a letto, gli venne in mente Amrutras che, accarezzandosi la folta barba bianca durante uno dei pomeriggi di meditazione, aveva detto: Alcuni scienziati si sono chiesti se la realtà che percepiamo sia in effetti quella che vediamo. Così hanno sottoposto alcuni volontari ad un interessante esperimento. Monitorando costantemente l’attività cerebrale, hanno chiesto loro di guardare un oggetto e poi, in un momento diverso, di pensarlo solamente. L’esperimento ha dimostrato che nell’uno o nell’altro caso, venivano attivate le stesse zone del cervello. Non abbiamo, dunque, bisogno di vedere, col solo pensiero possiamo creare la realtà. Pensate quale potere possiede la mente! Il giorno dopo arrivò un altro telegramma. La barca di suo padre era stata trovata vicino l’isola di Ua Huka, poco distante da Nuku Hiva. Del corpo nessuna traccia, ma sembrava ormai evidente che fosse caduto in mare. A meno che non si fosse arenato su una delle isole attorno, non c’erano speranze di trovarlo nell’Oceano. E invece fu trovato ventiquattr’ore dopo da un gruppo di turisti che passeggiavano proprio sulla spiaggia di Ua Huka, riverso sulla sabbia come se prendesse tranquillamente il sole di spalle. L’ultimo telegramma chiedeva se avesse intenzione di assistere al funerale, in tal caso l’avrebbero aspettato. Partì insieme a Ferri, una decisione obbligata poiché l’avvocato era l’unico a conoscenza degli affari di suo padre. Fu un viaggio lunghissimo, dall’altra parte del mondo. C’erano tante questioni da sistemare, gli diceva Ferri durante la traversata oceanica che li avrebbe portati prima a New York e poi a Papeete. I beni del padre ammontavano a circa cinquanta milioni di euro, per la maggior parte palazzi e appartamenti affittati in diverse parti del mondo, oltre a consistenti cifre investite in azioni. “Che ne faceva di tutti questi soldi?” gli chiese Giulio. 143 “A parte quello che gli serviva per vivere, una bazzecola nel complesso, tutti i ricavi venivano devoluti in aiuti a gente che ne aveva bisogno.” “Beneficenza?” disse Giulio interdetto. “A lui non piaceva questo termine. Tuo padre era una persona eccezionale” rispose lui commosso. “E perché non se ne sapeva niente?” “Era una sua precisa volontà. Quando decise di ritirarsi dal lavoro, aveva già le idee chiare sul suo futuro. Diceva di aver scoperto che il segreto di una vita felice sta tutto nella semplicità e nella capacità di donare. Non voleva però correre il rischio di essere identificato con l’ipocrita riccone che fa beneficenza. La sua era una scelta più profonda, spirituale direi, e come tale doveva rimanere un fatto intimo, non pubblico. Era orgoglioso di te, sai? Apprezzava moltissimo il tuo stile di vita. Avresti potuto fare la vita del figlio di papà, e invece ti sei voluto fare da solo.” In quelle lunghe ore d’aereo la figura di suo padre si dispiegò ai suoi occhi come una farfalla appena nata, quando, uscita dal bozzolo, pompa i liquidi vitali nelle ali perchè possano mostrare tutta la loro maestosità e farle spiccare il primo volo. Il grande assente, l’uomo che lui aveva sempre considerato come un campione di egoismo, si riproponeva in una nuova luce, una luce addirittura accecante per la sua energia. Ma quando hai sempre pensato a qualcuno in un modo, non puoi improvvisamente cambiare lo schema mentale che gli hai costruito attorno. Così Giulio aveva costantemente l’impressione che Ferri gli parlasse di qualcun’altro. Pur recependo razionalmente l’informazione, non riusciva a farla propria, ad interiorizzarla e a costruirci attorno tutte le emozioni ed i sentimenti che ne avrebbero reso possibile l’acquisizione come definitivamente vera. Durante lo scalo a Papeete, Ferri gli disse che, dopo il funerale, avrebbero dovuto ritornarci dal momento che il Consolato Onorario Italiano si trovava lì. Il padre aveva depositato il 144 testamento presso l’ufficio notarile. Mentre aspettavano il volo per le Marchesi, notò che non c’era nulla di esotico in quel posto. A parte un negozietto di artigianato locale che vendeva collane di conchiglie e fiori, avrebbe potuto essere un qualunque aeroporto occidentale. Ma a Taiohae, il villaggio principale di Nuku Hiva posto su una baia contornata da maestose montagne, sentì distintamente di essere in Polinesia, l’eden sulla terra. La gendarmerie locale lo aspettava per scortarlo fino alla casa di suo padre, una semplice abitazione piena di sculture in legno e un grande giardino attorno. Conobbe così Amandine, la donna che gli aveva dato Julie, una ragazzina di dieci anni dai tipici tratti polinesiani che del padre aveva preso solo gli occhi. Amandine l’abbracciò piangendo, mentre la piccola Julie lo baciò compostamente sulle guance. Amandine parlava convulsamente in francese, mostrandogli foto del padre a pesca, in giardino, con la figlia in braccio. Ogni tanto interrompeva quel fiume di parole incomprensibili portando le mani al cielo invocando Dio. Giulio non conosceva il francese, così si limitava a consolare la donna annuendo gravemente. La piccola Julie, invece, seduta sul divano, intesseva una corona di fiori mentre grossi lacrimoni le scendevano silenziosamente sulle guance. Quando ebbe finito gliela mise al collo e l’abbracciò dicendogli in italiano: sono felice di averti conosciuto, una frase che suo padre le aveva fatto imparare a memoria per il giorno in cui avrebbe incontrato il fratello italiano. A quelle semplici parole, così com’era venuta, quella strana sensazione di vuoto che lo aveva disturbato sin dall’arrivo del primo telegramma, improvvisamente sparì. Strinse più forte a sé Julie, percepì la tenerezza di quell’esile corpicino e si sciolse in un pianto silenzioso, calde lacrime che gli solcavano il viso e gli bagnavano le labbra. Si staccò da lei, le prese il viso tra le mani e le disse: “Anch’io sono felice di averti conosciuto.” L’indomani, al funerale, fu sorpreso dalla quantità di gente venuta a salutare per l’ultima volta il vecchio notaio. In piedi, 145 Amandine e Julie a fianco, di fronte alla bara pronta per essere calata nella fossa, Giulio fu permeato da un panorama che non avrebbe più dimenticato. L’isola vulcanica era percorsa da affilate cime di un verde rigogliosissimo, mentre l’imponente costa frastagliata era a tratti interrotta da piccole baie battute dalle correnti. Sapeva che era stata l’isola preferita da Stevenson e che al suo interno vi erano cascate prodigiose. Uomini e donne attorno a lui mostravano tatuaggi complessi, simboli arcaici di una civiltà ormai completamente perduta. Mentre la gente del villaggio intonava un melodioso canto polinesiano, nell’aria fluttuava un penetrante profumo di fiori. Adesso poteva capire quell’uomo e la sua scelta. Non aveva mai cercato di fingersi il padre che non era, ma era stato responsabile e generoso come il migliore dei padri. Se avesse dovuto scegliere la sua morte avrebbe scelto di sicuro questa – si disse. Finito il canto ringraziò tutti limitandosi a pronunciare due volte merci, poi calarono la bara nella fossa. Il canto riprese fino a quando la fossa non fu ricoperta di terra e non vi fu piantata sopra una croce di legno. La comunità locale si era impegnata a sostituirla, non appena fosse arrivata da Papeete, con una di marmo sulla quale sarebbe stata incisa un’iscrizione nell’idioma locale, una sorta di preghiera al mare perché accogliesse l’anima di quell’uomo saggio e buono. Rimase lì altri due giorni. Dovette accettare molti inviti e ascoltare lunghi racconti sulle imprese di suo padre. A pescate miracolose con gli amici si alternavano sorprendenti donazioni alla scuola, a cooperative locali per la lavorazione della copra, o il reperimento di fondi per la costruzione di un molo per i pescatori. Dicevano che questo avvenisse grazie a certe lettere che scriveva a fondazioni di beneficenza francesi. Non ci volle molto a capire che dietro quelle fantomatiche fondazioni ci fosse solo lui. 146 Quando ripartì per Papeete c’era una piccola folla a salutarlo. L’ultima cosa che gli disse Amandine fu che era suo desiderio che tornasse a prendere la barca del padre. “Sarà meglio ricordo di padre” gli disse in uno stentato italiano. “Falla mettere in secco. Magari un giorno vengo a prenderla” gli rispose baciandola sulle guance. Poi abbracciò Julie promettendole che le avrebbe scritto presto. Un’anziana gli mise al collo la caratteristica collana di fiori e poi tutti aspettarono, agitando le mani, che la barca che lo avrebbe portato in aeroporto sparisse oltre il capo della baia di Taiohae. Al Consolato onorario italiano di Papeete per i territori amministrati in Oceania c’era un giovane funzionario ad aspettarli. All’apertura del testamento non risultò nessun particolare privilegio, ripartizione secondo le quote legittime stabilite dalla legge e un vitalizio per Amandine. Una nota finale pregava Giulio di non interrompere il flusso delle donazioni, anzi, lo spingeva a cercare nuove opportunità di aiuto lì dove avesse ritenuto più opportuno. “Mi aiuterà?” chiese a Ferri. “Conta su di me” gli rispose l’avvocato, felice che Giulio si stesse dimostrando all’altezza del padre. 147 21. La Spectre della solidarietà Al ritorno a Palermo Giulio fu assorbito completamente dalla disamina dei documenti che Ferri sciorinava sul tavolo come fossero carte da gioco manovrate da un abile pokerista: beni ereditati sparsi per il mondo, valore attuale, valore delle rendite, beneficiari di donazioni, progetti per nuove donazioni. Lunghi elenchi di numeri che Giulio faceva fatica a correlare a una costellazione di piccoli interventi che obbedivano al principio della reale utilità. Parlare di beneficenza era tabù, ogni donazione era mirata a sostenere le attività di comunità povere ma laboriose che andavano in controtendenza rispetto all’economia globale e che, senza un sostegno, non avrebbero avuto speranza di sopravvivere, realtà portatrici di culture e valori umani altrimenti destinati a sparire. Era un progetto umile e invisibile, ma estremamente efficace; semplicità e capacità di donare che assumevano forma di progetto, senza nessuna velleità di voler cambiare il mondo, quanto piuttosto di preservarlo nelle sue manifestazioni qualitativamente più genuine. Un gesto solidale, certo non rivoluzionario. Anche se tra le carte di suo padre, diverse agende dove annotava idee per nuove donazioni, listati di cifre e sintetiche riflessioni, aveva trovato questo scritto: a. Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti. b. Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano. 148 c. Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli). d. Ci sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene tanto peggio per gli sfruttatori. e. Ci sono degli intellettuali, gli intellettuali impegnati, che considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati. Lo riconobbe subito. Si trattava di uno scritto di Pasolini che faceva parte di un discorso, un intervento ad un congresso radicale che non fece in tempo a leggere perchè sarebbe morto due giorni prima. Che ci faceva Pasolini nell’agenda di suo padre? Lo chiese a Ferri. Quello allargò le braccia non sapendo cosa dirgli. “Tuo padre non aveva posizioni politiche precise, ma leggeva di tutto. Avrà trovato quello scritto particolarmente interessante. In effetti lo è” concluse Ferri rileggendolo con attenzione. “Certo che lo è! – esclamò Giulio – ma questo è troppo!” “Che vuoi dire?” chiese Ferri stupito per quella reazione. “Non si può per una vita dare un’immagine di sé e poi, morendo, stravolgerla a tal punto. Non è... giusto!” concluse Giulio sempre più alterato. “Calmati Giulio. Dovrai fartene una ragione. Nella maturità ha scelto di non fare rumore attorno a sé. Cambiava ogni giorno sempre di più, ma lo sapeva solo lui. Chi gli stava accanto poteva solo cogliere una luce differente nei suoi occhi, tutto qui. Vogliamo continuare adesso?” chiosò Ferri. Nei giorni seguenti Ferri lo informò che periodicamente faceva eseguire delle indagini per verificare l’impatto delle donazioni sulla qualità della vita di chi le aveva ricevute. Tranne rari casi, i 149 risultati erano generalmente positivi. Naturalmente, perchè tutto il meccanismo potesse funzionare era necessario far fruttare al meglio i beni. Per far questo Ferri si avvaleva di diversi referenti che, messi al corrente delle finalità di quelle operazioni commerciali, venivano selezionati negli anni per la loro capacità e una spontanea vocazione alla solidarietà. In effetti si sorprese nel constatare che le parcelle professionali fossero di modesta entità, di certo molto al di sotto della norma. Una vera e propria Spectre della solidarietà. Quando la disamina dei documenti fu finalmente conclusa, Giulio non ebbe difficoltà ad accettare le nuove donazioni che Ferri aveva proposto, chiese solo che fossero aggiunte alla lista la clinica di Amrutras, la cooperativa di Hamsa e due o tre attività che alcuni giovani intraprendenti stavano mettendo in piedi a Palermo. Era certo che ne avrebbero fatto un buon uso. Naturalmente avrebbe mantenuto l’anonimato, nel rispetto dello stile imposto dal padre. Ad Amrutras e Hamsa avrebbe detto che una fondazione italiana trovava lodevoli le loro attività ed era ben felice di finanziarle. “Piuttosto bisognerà cominciare a pensare ad un mio sostituto” gli disse Ferri la sera in cui si concluse quella lunga maratona. “Perchè mai? Gli chiese Giulio interdetto. “Sto superando la settantina, non sono mica eterno. Se una mattina non mi sveglio più, chi manderà avanti tutto questo?” “Ha già qualche nome?” “No.” “Io forse si” disse Mapelli lisciandosi il mento pensieroso. Già fu un problema far capire a Carmine cosa si nascondesse dietro l’immagine consolidata del vecchio patrigno egoista, figurarsi convincerlo che proprio lui era la persona adatta a succedere a Ferri quando questi avrebbe dovuto lasciare. Per quanto gli avesse strappato solo la disponibilità ad affiancare Ferri per capire di che si trattava e si fosse sentito dire ripetutamente che 150 non gli assicurava niente, che ne avrebbero riparlato meglio man mano che la cosa andava avanti, Giulio aveva colto negli occhi dell’amico un lampo di interesse per quella strana attività. “Ma perchè non te ne occupi direttamente tu?” gli chiese Carmine. “Vuoi scherzare?” “Perchè?” “Perchè non ne capisco niente di tutte le carte che mi ha fatto veder Ferri. E poi non sono più un uomo d’azione, sto meglio nelle retrovie.” “Tutto suo padre - disse Carmine – sei proprio sicuro d’essere stato adottato?” “Assolutamente” Con grande soddisfazione di Giulio, la vita riprese normalmente. Aveva fatto tutto ciò che c’era da fare, adesso voleva solo stare un pò di più con Sandra e riordinare le idee. La bella stagione era ormai arrivata e, dopo anni di estati lontano dalle spiagge, riprese ad andare al mare. Mentre Sandra raccoglieva conchiglie sulla spiaggia, lui leggeva il giornale sdraiato sotto l’ombrellone. Poi facevano il bagno insieme, dopo una breve nuotata si scambiavano un po’ di tenerezze e, mentre lui faceva il morto a galla, lei si divertiva a passargli sotto, tappandosi il naso con le dita. A volte restavano a cena fuori in qualche trattoria lì vicino a mangiare pesce fresco e bere vino gelato. Poi a casa, se non erano troppo stanchi, facevano l’amore. 151 22. Epilogo: quindici anni dopo Com’è normale nella vita, negli anni a venire ci furono momenti felici e altri dolorosi. Sandra andò in pensione, ma non smise mai di occuparsi di arte. Veniva ancora invitata a tenere conferenze e, ogni volta che poteva, andava in giro per mostre. Giulio ebbe il privilegio, almeno così le diceva facendola stizzire, di assistere in prima fila allo spettacolo del suo corpo che cambiava. “Considero ogni tua ruga, ogni nuovo cuscinetto di cellulite un regalo alla mia vita” le diceva. Lei si limitava a guardarlo come si guarda un pazzo, ma poi finiva per abbracciarlo teneramente scuotendo la testa, in fondo lusingata da quell’uomo che non aveva mai smesso di adularla contro ogni evidenza. In tutti quegli anni Sandra godette sempre di ottima salute, piena d’energie e voglia di fare. Anche il suo carattere, come il suo corpo, si smussò, divenendo più tenero e indulgente. Amò Giulio con schiettezza, a viso aperto. Cosa che presupponeva anche grandi litigate, ma mai incomprensioni. Laura studiò medicina, si specializzò in America e divenne uno dei migliori chirurghi del Boston Medical Center. Sposò un newyorkese che Giulio e Sandra trovavano antipaticissimo, un collega medico che le diede due bambini, un maschio e una femmina che parlavano solo inglese. Lui riteneva che l’italiano fosse una lingua morta, non aveva senso sprecare neuroni per 152 impararla. All’inizio passavano le vacanze insieme, in Italia o in America, perchè i nonni potessero stare un pò con i nipotini, ma erano sempre giorni di tensione in cui Laura doveva fare i salti mortali per evitare discussioni spiacevoli tra i genitori ed il marito. Così, nel tempo, lei prese l’abitudine di passare un pò delle sue vacanze senza il marito, insieme ai genitori e ai figli, in una delle tante isole che circondano la Sicilia. Vidur era ormai il responsabile della clinica per la raccolta delle materie prime e la preparazione dei rimedi. Abha aveva preso il posto che era stato di Amrutras. Le donazioni della fantomatica fondazione italiana avevano consentito un discreto ampliamento della struttura e la creazione di un laboratorio per le analisi del sangue. Giulio tornò più volte a trovarli e a sottoporsi a panchakarma purificatori. In quelle occasioni, a volte accompagnato da Sandra, potè conoscere la giovane moglie di Vidur e i suoi numerosi figli. Abha, invece, non volle sposarsi mai, preferendo dedicare interamente la sua vita ai malati. Pur conservando la sua eccezionale bellezza, finì per assumere l’aspetto di una severa sacerdotessa, gravata dalla responsabilità di preservare quel sapere antico dall’oblio del mondo. Amrutras morì serenamente nel suo letto, preannunciando l’ora della sua morte con un giorno d’anticipo. Il suo corpo rimase esposto per una settimana senza dare alcun accenno di disfacimento. Ciò fu considerato come un segno della sua avvenuta liberazione dal ciclo delle reincarnazioni. Per questo non fu cremato, ma seppellito in un piccolo mausoleo sotto il ficus della clinica. Da allora in molti si recavano ogni anno in pellegrinaggio presso la sua tomba, disturbando un po’ le attività della clinica, ma contribuendo a diffonderne il nome. Hamsa riuscì a far decollare la cooperativa diventando uno scomodo modello per le donne delle regioni limitrofe. Non cedette mai alle lusinghe della politica e, per questo, la sua vita era sempre in pericolo, ma la cosa non sembrava preoccuparla affatto. A chi le chiedeva se avesse paura di essere uccisa 153 rispondeva che avrebbe preferito morire piuttosto che rinunciare alla sua nuova vita. Ferri lasciò questa terra un caldo pomeriggio d’agosto. Al suo funerale vennero strani personaggi che nessuno conosceva, tranne Giulio e Carmine. Alcuni erano stranieri e la cosa mise in moto una serie infinita di illazioni sulla reale attività dell’avvocato. Voci che si spensero presto, non più di una settimana dopo la sua sepoltura. Giulio gli fu accanto fino alla fine, un’agonia lunga e dolorosa che certo non meritava. Non ci fu il problema della sua successione. Carmine aveva sposato l’idea che fu di Mapelli padre già da diverso tempo e, di fatto, negli ultimi due anni era stato lui ad occuparsi praticamente di tutto. Il suo nuovo lavoro lo entusiasmava, a guardarlo dietro la sua scrivania mentre dispensava ordini alle banche o leggeva il resoconto di qualche agente sembrava davvero il capo della Spectre. Solo che al contrario del dr Ernst Stavo Blofeld dei film di 007, lui lavorava con un particolare sorriso stampato in faccia che non lasciava dubbi sulla bontà di ciò che stava facendo. In verità Giulio sapeva che parte della responsabilità di quel sorriso era di Elisabeth, una vedova irlandese che il suo amico aveva conosciuto durante un viaggio di piacere e con la quale conviveva ormai da diversi anni. Amandine si era sposata con un simpatico grassone polinesiano. Con l’aiuto dell’eredità della figlia, aveva costruito uno splendido resort e lo gestiva insieme a lui. Julie aveva studiato in Francia laureandosi in lettere. Scriveva romanzi e spesso incontrava Giulio e Sandra. Malgrado la differenza d’età, le due donne erano diventate ottime amiche e, quando potevano, passavano un pò di tempo insieme, a visitare mostre in giro per l’Europa. E il professor Giulio Mapelli? Il suo fisico pagava i molti anni di eccessi, ma lo yoga ed i panchakarma in India riuscirono a limitare i danni ed a conservarlo in discrete condizioni. Si sarebbe detto un 154 interessante uomo maturo, allegro e pacioso con le persone che amava, riservato ma cordiale con il resto del mondo. Si ritirò tardi dall’insegnamento, dedicandosi completamente alla didattica e rifiutandosi sino alla fine di assumere l’incarico di direttore del dipartimento. Qualcuno adombrò l’ipotesi che lo spaventassero le responsabilità. Lui glielo lasciò credere. Tra gli studenti, le sue lezioni divennero leggendarie. A volte, mentre spiegava la formula di un composto organico, chiedeva agli studenti di chiudere gli occhi e di provare a vedere ciò di cui parlavano. Chi ci riusciva, non l’avrebbe più dimenticato. Catturava l’attenzione dei ragazzi con aneddoti ed immagini che l’aiutavano a raggiungere il suo obiettivo: trasmettere l’emozione della bellezza del mondo infinitesimale, il ritmo della danza che elettroni e atomi inscenavano incessantemente per dar luogo alla realtà che conosciamo. A volte ripensava alla separazione con Sandra e agli anni di infelicità che seguirono. Non ebbe mai una sensazione di estraneità da quel periodo, al contrario lo ricordava benissimo, perché era comunque parte integrante di sé. In certi giorni gli capitava addirittura di percepire nell’aria qualche molecola di quella puzza che l’aveva portato così vicino alla morte. Quello non era stato un altro Giulio, era uno dei tanti possibili Giulio che la sua anima ospitava. Se era tornato a confrontarsi serenamente con la vita lo doveva ad Amrutras e a suo padre. L’uno gli aveva ridato speranza, l’altro gli aveva dato l’occasione per tornare ad agire nel mondo. Occasioni. La vita era fatta di occasioni – diceva - un succedersi di possibilità reali o ipotetiche che possiamo cogliere o no, quasi sempre guidati dall’istinto, a volte come imposte da misteriose forze al di fuori di noi. L’amore di Sandra non sarebbe tornato se lui non fosse uscito, ormai diversi anni fa, da quel tunnel di umanità che imputridiva sotto la sua vecchia poltrona, da quel puzzo sempre pronto a tornare se avesse abbassato la guardia, l’olezzo del senso di 155 colpa, la colpa di non essere stato capace di fare niente per rendere un pò migliore il mondo. Ma l’amore era tornato, perchè lui se ne era dimostrato degno. E quell’amore adesso gli riempiva la vita più di ogni altra cosa. E poi ormai si era convinto che la morte non li avrebbe separati. Si sarebbero reincarnati, prima o poi, e con un altro corpo si sarebbero riamati. Per questo non temeva più di morire. Il giorno del loro trentottesimo anniversario di matrimonio, Giulio e Sandra festeggiarono con una cenetta in un antico ristorante del centro. Erano entrambi ad un passo dai settant’anni, ma i loro volti esprimevano la serenità di chi non è in conflitto con la vita. “Che progetti hai per i prossimi giorni?” le chiese prendendole la mano. “Non ho programmi precisi. Qualche rinvaso. Ho alcune piantine di cycas che hanno bisogno di più spazio per crescere. Perché?” “Avrei un’idea” “Quale?” “Pensavo che potremmo andare a Nuku Hiva, a prendere la barca di mio padre. Sono decenni che aspetta.” “E chi starebbe al timone?” “Uno skipper amico di Amandine attende una mia conferma” “E’ un viaggio lungo e faticoso.” “Si , ma pensa alle meraviglie che potremo vedere.” Lei ci pensò un po’ martoriando col cucchiaino la mousse di cioccolato che aveva nel piatto. Poi girò lo sguardo fuori dalla grande vetrata che dava sul giardino del ristorante. Notò che alcuni alberi stavano cominciando a perdere le foglie. Ne seguì una scivolare lentamente verso il suolo fino a quando il bordo della vetrata non la fece scomparire dalla sua vista. Si girò verso di lui che ancora le teneva la mano e gli disse: “D’accordo. Ma prima finisco i rinvasi.” 156 157