per diritto - Sauro Pipe

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per diritto - Sauro Pipe
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Gioacchino Sauro
Panchakarma e altri racconti
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Oggi nessun fatto come tale mi interessa più. Leggo
malvolentieri, rifuggo quasi il contatto con gli altri, e a poco a
poco mi sento attratto dalla vita solitaria, che mi consentirebbe
di seguire al meglio la mia disposizione interiore. Insomma:
sono un metafisico e non posso essere nient’altro
(per quante attività diverse io possa intraprendere con più o
meno successo), il che significa che il mio vero, serio interesse
va solo alla possibilità del mondo, non alla sua esistenza
particolare.
Hermann Keyserling
Diario di viaggio di un filosofo. L’India
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1. L’ontalgia del Professor Giulio Mapelli
Il professor Giulio Mapelli non era sempre stato grassoccio,
malinconico e torturato dai bruciori di stomaco. Solo qualche
anno prima era stato un uomo attraente e dinamico che soleva
definirsi, tutto sommato, appagato dalla vita.
Lui e Sandra, collega d’ateneo e brillante assistente di storia
dell’arte, si erano sposati molti anni prima persuasi che quello tra
scienza ed arte fosse un fertile connubio; e lo fu in effetti,
almeno dal punto di vista intellettuale, perché dal punto di vista
gonadico produsse un solo fagottino cui fu dato il nome di
Laura. Non che vi fossero problemi a letto, tutt’altro, ma
bastarono i primi mesi di allattamento e diverse notti passate in
bianco tra pianti isterici e appestanti pannolini perché i due si
rendessero conto che la Riproduzione Della Specie era un’attività
che non li entusiasmava.
Così non vi furono altri fagottini, e i tre, nel tempo, formarono
una famiglia adulta di cui, appunto, il professore era appagato.
Finché non comparvero i primi, inspiegabili, bruciori di
stomaco.
Per la verità, pur non confessandolo neanche a se stesso, il
professore cominciava a nutrire il sospetto che qualcosa non
andasse. Lo notava soprattutto nelle rare serate d’inverno in cui
stavano insieme a guardare la televisione. Si, perché era diventato
sempre più raro che si trovassero a condividere momenti
comuni, tutti e tre impegnati a fare cose che ritenevano troppo
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importanti per potervi rinunciare. E lui si sentiva un po’ solo.
Poco, davvero poco, tuttavia abbastanza per creare un’ombra nel
suo appagamento.
Poi, durante un soggiorno di studio in California, il professore
varcò inconsapevolmente il confine tra il piacere della
conoscenza e la stupida avidità dei sensi. Accettò lusingato la
corte di una studentessa di Chicago, una giovane Barbie in cerca
di esperienze erotiche con uomini maturi. Il guaio fu che oltre ad
andarci a letto - prima d’allora non aveva mai tradito Sandra credette di essersene invaghito. Una storia banale che terminò
nel giro di pochi mesi, ma che bastò a scavare tra lui, Sandra e
Laura, un abisso incolmabile.
Si era comportato come un uomo qualunque. Avrebbe dovuto
parlare di quell’ombra, cercare di capire. E invece. Anni e anni
sprecati nel coltivare ideali di cui non era stato all’altezza. Non
riuscì a consolarlo neppure la verità che fosse un male comune
alla maggior parte degli uomini. Tirò le somme e ne dedusse che
era diventato ciò che aveva sempre aborrito, nient’altro che un
banale borghese intellettuale del cazzo.
Da allora, il Professor Giulio Mapelli scivolò lentamente in un
profondo stato di prostrazione. Andò a vivere da solo,
abbandonò tutti i progetti di ricerca nei quali era coinvolto,
ingrassò e perse ogni interesse per la vita. Insomma, in poco
tempo divenne preda di quella bestia immonda che chiamiamo
angoscia di vivere.
“Vuole un po’ d’acqua?” gli chiese il dr Aricò, il suo
psicanalista, porgendogli un bicchiere riempito dalla brocca che
teneva sempre sul tavolo per i casi di emergenza.
La seduta stava terminando. Malgrado Mapelli non credesse
nella psicanalisi, si sottoponeva a quel rito tre volte la settimana
da ormai due anni.
“Il fatto è che va sempre peggio. Ho dolori dappertutto, un
braciere nello stomaco e una stanchezza cronica. Sono sfinito.”
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sussurrò Mapelli mettendosi seduto per portare alle labbra il
bicchiere.
“La paura è parte dei nostri istinti animali. Tutti abbiamo
paura, dobbiamo solo imparare a gestirla” disse il medico senza
convinzione.
“Mi scusi dottore, ma sente anche lei questa… puzza?” chiese
Mapelli con una smorfia eloquente del viso.
“Puzza? No…, direi di no. La donna delle pulizie si occupa
dello studio ogni mattina. Che genere di puzza… sente?”
“Lasci stare. In questo periodo mi perseguita dovunque io
vada. Sarà una forma allucinatoria” concluse Mapelli lasciando lo
psicanalista col naso per aria come un Pointer che cerca la preda.
Come tutte le precedenti, anche quella seduta gli aveva lasciato
solo un enorme vuoto allo stomaco e una sensazione di infinita
tristezza, una tristezza densa, untuosa. Uscendo in strada guardò
il cielo e sospirò. Era una giornata di fine estate, ancora calda e
rumorosa, meglio dire caotica. Tra poco sarebbero ricominciate
le lezioni all’università. La tristezza di Mapelli mutò: da untuosa
cominciò a diventare anche insopportabilmente appiccicosa.
Senza dubbio contribuì a quell’aggravamento umorale l'orda dei
vacanzieri stagionali che era tornata ad occupare la città, una
Palermo fino a poco tempo prima silenziosa e dolce come nelle
foto di cent'anni fa, riversandosi per le strade con i suoi mostri
tecnologici su quattro, tre e due ruote. Mapelli non aveva mai
voluto imparare a guidare, preferiva spostarsi in autobus, in
bicicletta o, quelle rare volte che aveva davvero molta fretta, in
taxi. Quello che per molti era ritenuto un handicap, per lui era
stata una scelta di libertà, una delle tante che aveva fatto quando
riteneva ancora di avere un ruolo attivo nella società e che ormai
si erano trasformate in mere abitudini, non diverse dal
macchiare con una goccia di latte freddo ogni caffè che
prendesse, o il preferire, d’estate, il lino al cotone.
Ansimante, in dieci minuti arrivò comunque davanti al portone
di casa, un palazzo di cinque piani costruito intorno agli anni
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cinquanta, dalle spesse mura e gli scalini alti. Pur abitandovi da
quattro anni, non aveva mai del tutto focalizzato le facce degli
altri inquilini e ogni volta che ne incontrava qualcuno in
ascensore, come gli stava succedendo proprio allora, si limitava a
farfugliare un cortese saluto e a guardare dritto davanti a sé.
Infatti, sugli inquilini che abitavano gli altri appartamenti non
avrebbe saputo dire niente, solo sparuti flash di vaga umanità.
Un giovanottone dai lunghi capelli rasta, un signore stempiato
con una borsa porta notebook a tracolla, una vecchia citroen
posteggiata sempre nello stesso posto da un gruppetto di
probabili studenti, un cane portato a pisciare sempre alla stessa
ora da una donna piccolina e sgraziata, una famiglia di operosi
cingalesi. Anche una famiglia di palermitani. Di quella avrebbe
potuto dire senz’altro di più perchè dopo il pranzo e la cena, la
signora, una sciatta grassona dagli untuosi capelli neri, sgrullava
la tovaglia da tavola al balcone mandando tutte le bricioline e le
sostanze organiche annesse nell’atrio comune. Durante questa
operazione il marito usciva con lei in balcone, si appoggiava alla
ringhiera a fumare una sigaretta e dava fiato alle trombe. Dal
rumore che producevano i figli, poi, si sarebbe detto che fossero
almeno quindici, ma non aveva mai visto più di tre diaboliche
teste spuntare dal balcone.
Appena entrato nel suo appartamento, il professor Giulio
Mapelli aprì il balcone e si buttò sulla sdraio che teneva fuori. I
bruciori allo stomaco erano aumentati, ma aveva finito le maalox
e aveva dimenticato di comprarle prima di salire a casa. Decise
che avrebbe preso un pò di bicarbonato, ma adesso voleva solo
riposare e godersi il vento che era decisamente girato a maestrale
portando con sé un po’ di frescura. Ciò gli provocò uno stato di
delizioso torpore. D’improvviso un flash mnemonico lo proiettò
verso quella che era stata la sua casa di campagna quando viveva
con la moglie Sandra e la figlia Laura. Ricordò come l’ex moglie
avesse reagito alla separazione intensificando gli impegni di
lavoro. Insomma, non aveva perso affatto la sua vivacità,
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piuttosto le era rimasta una vaga pena nel cuore e la delusione
per aver mal riposto la sua fiducia su un uomo così ordinario. Di
certo non si faceva mancare il sesso, di questo Mapelli era sicuro,
perchè era sempre stata una donna passionale e sessualmente
esigente. Il pensiero si spostò su Laura. Lei sembrò prendere la
separazione con indifferenza. Forse perchè era abituata alla sua
assenza. In quel momento era ad Amburgo per un progetto
Erasmus che l’avrebbe tenuta lontana da Palermo altri cinque
mesi. Ogni tanto lo chiamava, ma le loro telefonate erano
piuttosto scialbe, rituali. Come va? Tutto bene? Hai sentito la mamma?
Stai attenta. Non sono stato un buon padre – pensò - e forse non
lo sarò mai.
A rompere quella battaglia emozionale ci pensò il trillo del
telefono. Era Carmine, vecchio compagno di liceo, che gli
proponeva di raggiungerlo per la fine settimana nella sua casa al
mare.
“Dai Giulio, vieni! Qui è splendido. Cosa fai lì in città con
questo caldo?
“Sono 150 km, Carmine” rispose Mapelli.
“Ma ci metti al massimo due ore.”
“Tu non guardi i telegiornali.”
“Che vuoi dire? Che c’entrano i telegiornali adesso?”
“Ok. Immagina il quadro. Parto sabato mattina. Alla stazione
trovo lo sciopero dei treni e nessuno mi sa dire quando si potrà
partire. Tutto questo a quaranta gradi almeno. Lo sai, tutta quella
storia del riscaldamento della terra, il buco nell’ozono, l’effetto
serra, le piogge acide… Arrivo comunque da te che è già
pomeriggio inoltrato. Mi spoglio subito per una nuotata
rinfrescante e trovo l’acqua a vent’otto gradi centigradi, le
mucillaggini, le meduse, chiazze di petrolio scaricate da una
petroliera di passaggio nella notte e qualche stronzo galleggiante.
E mi va bene se non mi imbatto in un cadavere di
extracomunitario, un povero disgraziato che hanno buttato in
mare per salvarsi il culo dalla guardia costiera. Ok, andiamo
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avanti. Mi rompo le scatole e decido di fare una doccia
rinfrescante. Uscito dalla doccia decido di bere una lattina di
coca gelata, ma mi scoppia in faccia. Un nuovo Unabomber ha
deciso di colpire al sud, per emulazione, come quei coglioni che
lanciano sassi sulle macchine o bruciano le automobili
posteggiate sotto casa.”
“Ma...”
“Aspetta! Non ho finito. Allora mi porti in ospedale, ma c’è un
solo medico, tutti gli altri sono in ferie, è un giovane alle prime
armi e mi fotte la mano, mi becco la sindrome del legionario e la
sars perché il giovane galletto era stato in Thailandia per una
vacanza erotica. Quando comincio a pensare che le cose si
mettono male irrompe in ospedale un pazzo che si mette a
sparare in aria e mi prende in ostaggio. I medici gli hanno ucciso
la moglie per un’operazione d’appendicite e lui mi taglia
l’orecchio per dimostrare che fa sul serio. Vuole lì, subito, il
primario per tagliarli le palle. Vuoi che continui? Più avanti la
cosa si fa intrigante perché arrivano anche i terroristi di Al
Qaeda, una tromba d’aria estiva con fulmine su una giovane
turista che fuggiva sulla spiaggia per evitare l’aggressione di un
Pitbull abbandonato, un terremoto d’assestamento, un malato di
aids con una siringa in mano, un treno deragliato perché hanno
licenziato il casellante (troppe spese), e un nuovo presidente del
consiglio perché, nel frattempo, è caduto nuovamente il
governo.”
“Bravo, un bel pezzo di cabaret sullo psicopatico medio.
Divertente, davvero molto divertente. Vuol dire che non vieni?”
“Neanche se mi paghi.”
“Ok, allora vaffanculo Giulio” disse Carmine chiudendo la
telefonata.
“Grazie, amico mio, di cuore” rispose Mapelli al suono
continuo della linea interrotta.
Detto ciò, si diresse verso il frigorifero, dove un’enorme torta
gelato al cioccolato attendeva che il suo destino si compisse. Era
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già pentito di aver trattato così l’amico, in fondo era l’unica
persona rimastagli vicino malgrado tutto. Sarebbe bastato dirgli
che non era dell’umore adatto, ma non aveva resistito all’idea di
sfotterlo un pò. Perchè per Mapelli era un piacere sfottere
Carmine. Adorava la faccia che faceva ogni volta che cascava in
uno dei suoi scherzi e lo incuriosiva la sua tendenza a
sottomettersi allo sfottimento, come se se lo meritasse.
Carmine non si era mai sposato, non perchè non avesse
voluto, ma per la sua timidezza con le donne e un aspetto
assolutamente anonimo che lo avevano fatto passare tra cento
gonne senza poterne afferrare nessuna. Sin dal liceo era stato
basso di statura, stempiato e grassoccio. La sua faccia da giovane
seminarista non era cambiata negli anni e, malgrado avesse
superato anche lui i cinquanta, ne dimostrava non più di
trentacinque. Così un giorno decise di farsi crescere i baffi. Non
se ne accorse nessuno, nemmeno Mapelli. Fu allora che Carmine
si rassegnò definitivamente, tagliò i baffi, smise di cercare la
donna della sua vita e l’approvazione degli altri. Forse quella
decisione lo rese più triste, ma divenne più equilibrato e sereno.
Ogni volta che il suo lavoro di avvocato civilista glielo
consentiva si rifugiava nella casa al mare ereditata dai vecchi
genitori, una villetta su una spiaggia che d’estate diventava un
carnaio, ma che d’inverno conservava un fascino particolare.
“Sono stufo” disse Mapelli parlando da solo mentre si toglieva
mutande e pantaloni per indossare un pareo che era stato di sua
moglie. Libero da costrizioni, sentì il peso dei genitali. Il sudore
che evaporava creò una deliziosa brezza attorno ai suoi testicoli.
“Insomma, cosa non va in me? - continuò mentre si annodava
il pareo – Sono forse semplicemente inidoneo alla vita? Sono
troppo solo? Soffro di carenze affettive? Ho una scarsa
produzione di endorfine?” concluse mordendo avidamente la
fetta di torta che aveva poggiato sul tavolo.
Ad aggravare la situazione tornò quel puzzo, un odore
nauseabondo che lo perseguitava da settimane. Sentiva che ad
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ogni inspirazione, oltre ad ossigeno, azoto, tracce di gas inerti,
smog e veleni di diversa natura, nei suoi polmoni si insinuava
anche un componente estraneo, dall’odore leggermente acre ed il
sapore dolciastro. Era come se quell’odore passasse direttamente
al cervello e facesse scivolare sugli occhi un filtro grigio
inducendo uno stato emotivo ansioso ed il timore che qualcosa
di terribile stesse per succedere. Era il suo corpo che lo
avvertiva? Forse era arrivato il suo momento? Allora si soffermò
a calcolare quanto, statisticamente, gli restava da vivere. Se non
fosse rimasto vittima di un incidente, calcolando che fumava
venti sigarette al giorno, era ingrassato di almeno dodici chili,
soffriva di iperlipidemia, steatosi epatica, emorroidi, artrosi
cervicale, sinusite, gastrite, non faceva abbastanza moto e
mangiava male, gli restavano, forse, quindici anni.
C’era sempre il cancro, intendiamoci. Quello arriva lì
all’improvviso senza che nessuno l’abbia invitato, non bussa
neanche alla porta, lo stronzo.
Tutto sommato era altamente improbabile che fosse arrivata la
sua ora.
Questo pensiero lo consolò, e per festeggiare le rinnovate
aspettative di vita decise di mangiare un’altra fetta di torta gelato,
ma al primo morso sentì di nuovo quell’odore nauseabondo,
insopportabile, talmente disgustoso che sputò il bolo di torta nel
lavello vicino e buttò quella che rimaneva nella pattumiera. Uno
scatto d’ira lo risolse a mettere sottosopra la casa fino a quando
non avesse trovato l’origine del fetore. Gli ci volle un litro di
sudore per scoprire che i miasmi venefici provenivano da sotto
la poltrona. Era lì che lui aveva l'abitudine di spingere col piede
la piccola immondizia, briciole, resti di cibo, gatti di polvere.
“Qualche schifezza là sotto sta imputridendo” disse spingendo
di lato la poltrona. Ma lì sotto non c'erano bricioline di pane, né
torsoli di mela, e neppure il più piccolo pezzo di salame
smozzicato. Quello che vide fu un putrido tunnel che sembrava
non avere fine dentro cui un’intera umanità stava marcendo. Una
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fitta lancinante allo stomaco lo costrinse a piegarsi in due per il
dolore mentre le lacrime gli annebbiavano la vista e un sapore
metallico gli invadeva la bocca. Vincendo il dolore si stropicciò
gli occhi e si trascinò sull’orlo del tunnel dove fu risucchiato da
quel luogo senza tempo, una fossa di orrori in cui vide di tutto:
uno schiavo nero con i polsi sanguinanti profondamente incisi
dalle catene, un uomo scheletrico dentro un pigiama a strisce con
la stella di Davide al petto, un giovane asiatico con il cervello
spappolato, un bambino arabo con due orribili monconi al posto
delle gambe, un biondo soldato americano con le budella sparse
dappertutto, una donna stuprata con il ventre insanguinato, una
miriade di altre figure solo vagamente riconoscibili. Dappertutto
sangue e fetore, fango molle e appiccicoso, e lui che voleva
scappare ma restava sempre più invischiato in quella bolgia di
corpi che lo avvolgevano fino a soffocarlo, fino a quando uno di
questi gli parlò, un uomo dal volto coperto di fango, la barba
incolta e un basco sulla testa che gli diceva: bisogna essere... Ma
proprio in quel momento, urlando come un capretto sgozzato,
perse i sensi.
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2. Come una lasagna scotta
La cartella clinica rilasciata dal pronto soccorso diceva:
Sincope con perdita di coscienza alle 11.20 circa: rigidità
muscolare, sudorazione abbondante, pallore, ipotensione.
Seconda sincope alle 14.00, più lieve.
PA 80/30.
Lipotimia.
Anemia.
Ipotensione marcata.
AP 10.
Amilasi 30.
Glicemia 124.
Si pratica esplorazione rettale (negativa). Si invia a cardiologia
per un ecocardiogramma. Nessun danno apparente a carico del
cuore. Si trattiene in terapia intensiva in via precauzionale.
Diagnosi: emorragia interna?
“Professore - gli diceva la ragazza - si sente meglio ora?”
“Mi scusi, non credo di conoscerla” rispose Mapelli con un filo
di voce.
“Sono la sua dirimpettaia. Mi chiamo Chiara, non ci siamo mai
presentati prima. E’ stato l’urlo che ho sentito provenire dal suo
appartamento a spaventarmi; stavo giusto tornando
dall’università ed ero sul pianerottolo. Ho chiamato la Polizia e
allora… eccoci qua. Ah! La Polizia ha cercato di rintracciare i
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suoi parenti, mi hanno detto che sta per arrivare qualcuno di
loro.”
“Grazie – rispose Mapelli confuso - non sa quanto mi dispiace
di averle arrecato tanto disturbo”.
“Pensi solo a star meglio. Mi scusi, ma avrei lezione in facoltà.
Crede di poter restare da solo?”
“Certo. Grazie ancora.”
La vide andare via col suo zainetto ed i jeans a vita bassa che
lasciavano scoperta la schiena. Doveva avere la stessa età di
Laura, pensò.
“Ecco il mio Angelo – disse piano chiudendo gli occhi –
perché mai avranno deciso di salvarmi?”
Assorto in quel pensiero, gli occhi chiusi, sentiva in sottofondo
una donna che parlava ad un uomo, probabilmente disteso nel
letto accanto al suo:
“Ecco, guarda: ammacca due e poi pigreco. Io sento lo squillo e ti
chiamo, che tu non c’hai una lira nella scheda. Hai capito? Due
pigreco, uno squillo e chiudi.”
“Sicura sei che si chiama pigreco?”
“Ma si…, forse. Che cazzo te ne frega di come si chiama? Tu
fallo e basta!”
Mapelli, per nulla disturbato da quel dialogo di carattere
tipicamente ospedaliero, riposava sul letto, aprendo gli occhi
ogni tanto per dare uno sguardo al monitor verde. Cos’era
successo? – si chiese - Bisogna essere..., erano le parole sussurrate
dall’uomo col basco e la barba incolta… Era stata
un’allucinazione dovuta ad un’ipossia? Uno stato di pre-morte?
O aveva davvero visto quei cadaveri ed era stato sopraffatto dal
terrore? A tratti sentiva ancora quel fetore insopportabile e
sobbalzava al contatto casuale con la ringhiera del letto, come se
potesse trattarsi ancora del corpo martoriato di uno di quegli
uomini visti nella fossa. Ma c’era davvero la fossa? Doveva
saperlo al più presto, doveva esserne sicuro prima di poterlo
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raccontare, altrimenti avrebbero decretato il suo ingresso
ufficiale nel mondo dei pazzi.
Decise di mettersi seduto. Con la testa che gli girava, si guardò
attorno. Tutto sommato non era male quel posto. Certo non era
come in “E.R.”, quella serie televisiva americana che seguiva con
interesse, ma c’era un’atmosfera calma e pulita. Al posto della
bella infermiera, amante, a turno, del dr Ross, Green e
Vattelapesca, c’era una donnina obesa, pressoché nana e dai
capelli biondo-platino palesemente tinti, che esprimeva anche lei
una sua dignità ospedaliera. Non c’erano neanche quei medici
informali e incredibilmente geniali, piuttosto dei seri
professionisti impettiti, poco propensi al riso, ma efficienti e
sicuri di sé. Essere medici in Sicilia non è come esserlo in
America - pensò. Gli americani sembrano sempre voler
esorcizzare il dramma con la spavalderia, i siciliani lo
interiorizzano alla nascita, lo somatizzano. Per un siciliano il
dramma richiede una compenetrazione seriosa – concluse colto
da un capogiro violento che lo costrinse a distendersi.
Ore 2.45. Vomito e diarrea sanguinolenti (scura). Si richiede
consulenza immediata a Medicina, richiamo dei tecnici reperibili
e urgente gastroscopia.
3.30. Individuata una lacerazione al fondo dello stomaco di
probabile origine infiammatoria. L’emorragia sembra terminata.
Si tratta la parte localmente.
4.45. Ritorno al reparto. Ipotensione persistente. Si
somministra Dopamina, Glucosio, Mepral, tre sacche di sangue
zero negativo.
I reparti di terapia intensiva, durante la notte sono un
riecheggiare di beep a diverse tonalità e frequenze, un concertino
tecnologico niente male al quale qualche minimalista potrebbe
attingere per comporre cacofonie da propinare in serate di
musica sperimentale a spettatori masochisti in vena di novità. Il
concertino non si ferma mai, tra pompe che controllano il flusso
delle flebo, allarmi monitor, misuratori di pressione, rivelatori di
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aritmie. Solo il rumore dei condotti dell’aria forzata si interrompe
per qualche ora, a notte fonda fino all’alba.
L’ospedale cominciava appena a risvegliarsi quando
sopraggiunse Carmine. Cercò Mapelli con lo sguardo, lo trovò e
si sedette su una sedia claudicante presa lì vicino.
“Giulio, come ti senti?” gli chiese con un filo di voce.
“Non lo so – gli rispose Mapelli – credo che la definizione
giusta sia: come una lasagna scotta. Ma come hai fatto a sapere
che ero qui?”
“Una tua vicina di casa ha segnalato la cosa alla Polizia.”
“Questo lo so.”
“Hanno fatto presto ad arrivare a Sandra, a Laura e a tuo
padre, ma Sandra è a Berlino per una mostra e da lì andrà
direttamente a Stoccolma per una serie di conferenze, tua figlia è
ad Amburgo mentre tuo padre pare si trovi sulla sua barca tra la
Nuova Zelanda e l’Australia. Così Sandra mi ha chiesto se
potevo…”
“Capisco – disse Mapelli – mi dispiace. Hai dovuto lasciare la
tua casa al mare per colpa mia. Non so cosa dire…”
“Non preoccuparti, forse mi hai salvato da un terrorista.”
“Già, e non solo” concluse Mapelli sorridendo debolmente.
“Ma si può sapere com’è successo?” chiese Carmine.
“Non so se posso dirtelo.”
“Perchè?”
“Posso fidarmi di te?”
“Certo.”
“Sono caduto dentro una fossa.”
“Quale fossa? Dove?”
“Sotto la poltrona di casa mia.”
“Giulio, sii serio per favore.”
“Lo sapevo che non dovevo dirtelo.”
“Scusami, continua”
“Lo so, sembra folle, ma è quello che ricordo.”
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Mentre Mapelli raccontava a Carmine l’accaduto, gli ausiliari
passavano lo straccio in tutti i piani, gli infermieri eseguivano i
prelievi di routine, i medici di guardia dormivano ancora nelle
loro stanze. La donnina biondo-platino si stava preparando per
tornare a casa. In abiti civili perse la dignità ospedaliera e
ridiventò il mostriciattolo che era. A poco a poco subentrarono,
baldanzosi, i nuovi.
“Secondo te, come fanno ad avere questa verve alle sette del
mattino?” chiese Mapelli a Carmine concludendo il suo racconto.
“Come fai a pensare a certe cose in questo momento? Ti rendi
conto che ci stavi lasciando le penne? E questa storia della fossa
sotto la tua poltrona, poi. E’ stata di sicuro un’allucinazione, non
c’è altra spiegazione. Senti, ho chiamato Petrullo, te lo ricordi? E’
consulente in questo ospedale. Mi ha assicurato che prenderà in
mano la situazione. Bisogna andare in fondo a questa storia, è
ora che tu ti preoccupi di uscire da questo stato di prostrazione.
Hai capito?”
“Non è quel nostro vecchio compagno di liceo che somigliava
in modo impressionante ad Einstein? Quello che è diventato un
famoso cardiologo?
“Si, proprio lui.”
Dalle stanze cominciarono ad uscire i pazienti in grado di
camminare. Tra poco sarebbero cominciate le visite dei medici
del nuovo turno. Carmine raccolse le sue cose, fece un veloce
inventario di ciò di cui avrebbe avuto bisogno Mapelli per il suo
soggiorno obbligato e, andando via, promise di tornare nel
pomeriggio.
Mapelli si chiese che ore fossero. Cercò il suo orologio e lo
trovò nel cassetto del comodino a lato. Lo sfigmomanometro
automatico che aveva al braccio si mise in funzione.
PA 107/60. “Non male, posso farcela” si disse.
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3. Non mi dimentico di te
In verità, non è che il Notaio Alberto Maria Mapelli fosse il suo
vero padre. Era solo il ricco uomo che l’aveva adottato
cinquant’anni prima, per volere soprattutto di sua moglie,
Veronica Parri Lorena, sterile nobildonna deceduta dopo solo
cinque anni dalla realizzazione del suo desiderio di maternità, se
pur fittizia. Morta la donna, il Notaio si ritrovò un bambino di
sette anni da allevare senza nessuna voglia di farlo. Non per
cattiveria, no, solo che non era mai riuscito a creare con lui un
rapporto intimo, di sangue, come avviene normalmente con un
figlio proprio. Aveva ceduto alle pressanti richieste di adozione
della moglie solo per amor suo, per non continuare a vederla
depressa e malinconica ogni volta che le sue sorelle e i loro
bambini venivano a trovarla. In quelle occasioni i piccoli
giocavano per delle ore a rincorrersi nel giardino su cui si
affacciava il loro salone, e lei stava a guardarli tutto il tempo,
fingendo di ascoltare il cicaleccio delle sorelle, in realtà
concentrandosi sui movimenti incerti dei bimbi, sulla burrosità
dei loro braccini, sulle loro risate argentine. Approfittava di quei
momenti per riempire il suo cuore di quegli infantilismi che le
erano preclusi per poi viverne di rendita almeno per qualche
giorno. Ma poi tornava, inesorabile, la malinconia.
Quando il Notaio, quindi, si ritrovò solo con Giulio, non fu
capace d’altro che assicurargli ottimi studi e introdurlo in quegli
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ambienti che gli avrebbero assicurato una rete di amicizie
influenti nella maturità.
Così il bambino crebbe tra tate, cameriere e le bellissime
amanti del padre che non duravano mai oltre i sei mesi. Finché
un giorno, proprio quando Giulio aveva appena finito la
maturità, annunciò che si sarebbe ritirato dal lavoro. Aveva in
progetto un giro a vela intorno al mondo e riteneva che ormai il
ragazzo potesse benissimo fare a meno di lui. Fece le valigie e
partì con la sua ultima amante, una francese rimorchiata a
Montecarlo.
“Guarda che non mi dimentico di te, ok? - gli disse
guardandolo fisso negli occhi – è che sto invecchiando, e prima
di morire voglio girare il mondo su una barca a vela, lo voglio
vedere dal mare.”
“Si” si limitò a dire Giulio.
“Per qualunque problema rivolgiti all’avvocato Ferri, ci
penserà lui. Da quando suo padre è andato in pensione si occupa
lui di amministrare i beni di famiglia. Ho disposto che ti eroghi
un sostanzioso vitalizio finché non sarai indipendente e ti aiuterà
in qualunque attività tu voglia intraprendere.”
“Si.”
“Dai, diamoci un bacio.”
“Si.”
Negli ultimi trent’anni lo rivide solo altre quattro volte, ma
non gli fece mai mancare nulla. Adesso viveva in un’isola del
pacifico con una indigena che gli aveva dato un altro figlio, ma
passava più tempo a navigare che a terra. Dicevano di lui che
fosse diventato un uomo saggio e felice, ma di questo Giulio non
poteva essere sicuro. Nutriva per lui un profondo senso di
gratitudine e nessun altro particolare sentimento, o almeno così
gli sembrava.
Fu subito dopo la partenza del padre che, come per tutti i figli
adottati, arrivò anche per lui il momento di voler sapere chi
fossero i suoi veri genitori, cosa che non fu difficile appurare
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poiché suo padre e l’avvocato Ferri sapevano che prima o poi
sarebbe arrivato quel momento. Così, alla richiesta del ragazzo
Ferri lo convocò nel suo studio, lo fece sedere di fronte a lui,
prese un fascicolo verde dalla cassaforte e gli disse:
“Tuo padre si chiamava Vincenzo Scaturro, sparito dalla
circolazione a vent’otto anni, vittima della lupara bianca. Tua
madre, Rosalia Puccio, è stata trovata annegata sulla spiaggia
dell’Arenella. Aveva venticinque anni e pare facesse la vita. Di lei
c’è solo una foto del cadavere fatta dai carabinieri, non credo tu
voglia vederla. Niente fratelli” concluse Ferri chiudendo il
fascicolo.
“Preferirei vederla” disse Giulio risoluto.
Ferri inarcò le sopracciglia, lesse negli occhi del ragazzo una
determinazione che non avrebbe concesso repliche, riaprì il
fascicolo e gli porse la foto.
Una vecchia foto in bianco e nero, seppiata, di una donna
distesa sulla sabbia, seminuda, la faccia marmorea e le labbra
nere. Non provò orrore, piuttosto notò che somigliava a una
foto di Marlene Dietrich che teneva appesa nello studio. Era una
foto scattata quando lei aveva circa vent'anni: i capelli pettinati
all'indietro e le mani ad incorniciare il viso, guarda verso un
punto alla sua sinistra, i gomiti poggiati sul tavolo bianco. Chissà
cosa guardava, probabilmente l'indice di un'assistente del
fotografo.
“Grazie” disse restituendo la foto all’avvocato che lo stava
scrutando nel tentativo di carpire una qualche emozione.
“Tutto a posto?” gli chiese Ferri.
“Doveva essere una bella donna” rispose.
“Fosti consegnato all’orfanotrofio dai carabinieri e quasi subito
adottato. Tuo padre, qualche anno fa, mi pregò di indagare sui
tuoi veri genitori e di preparare un fascicolo. Prima o poi avresti
voluto sapere e riteneva fosse giusto aiutarti a farlo. E’ chiaro
che queste informazioni non dovrebbero stare nella mia
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cassaforte, ma tua madre finanziava l’orfanotrofio e allora è stato
usato un occhio di riguardo.”
“Ho altri parenti in vita?”
“Si potrebbe scoprire, ma ritenevo che non ti avrebbe
interessato saperlo.”
“E’ così, in effetti” rispose Giulio alzandosi dalla sedia.
“Hai bisogno di qualcosa? L’assegno mensile ti basta?”
“Si grazie, è fin troppo per le mie esigenze” concluse
salutandolo.
Questo cinico scherzo del destino evitò a Giulio la fase
successiva, l’urgente desiderio di conoscere, in carne ed ossa, i
veri genitori. La loro morte prematura lo liberò dallo strazio di
ricercare negli occhi, nei gesti, nell’intonazione della voce, il
perchè di quell’abbandono.
Ma qualcosa da allora cambiò. L’agiatezza in cui viveva non gli
sembrò più così naturale come lo era stata fino ad allora. Non
poteva fare a meno di chiedersi cosa sarebbe diventato se fosse
cresciuto con la sua vera famiglia. Forse uno di quei torvi
spacciatori che vedeva girare per le scuole. La nostra vita
dipendeva dunque dall’ambiente in cui si cresceva? Gli sembrò
che ci fosse qualcosa di profondamente ingiusto in quel
meccanismo. Non ci aveva mai pensato prima e gli sembrava un
pensiero sconvolgente. Si aprì così una porta che l’avrebbe
presto condotto verso concetti del tutto nuovi e suadenti:
conflitto di classe, sfruttamento, giustizia popolare, rivoluzione.
E l’università di quegli anni era la miglior palestra che si potesse
immaginare per un rivoluzionario in nuce. Occupazione,
autoriduzione, scontri con i fascisti, collettivi e autogestione
divennero presto la sua normalità. La grande villa in cui abitava
divenne un rifugio sicuro per tutti i compagni bisognosi di aiuto.
Comprò persino un ciclostile per stampare volantini e lo collocò
nel vecchio studio del padre. Nella sua mente era un modo per
sfruttare le risorse dei ricchi a favore dei poveri, un atto di reale
giustizia, lui era come Robin Hood, come Zorro. Ma poi scoprì
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Che Guevara, e gli sembrò che di fronte a lui quelle figure
letterarie svanissero come sabbia al vento. Di lui c’erano foto e
filmati, non semplici disegni sui libri o attori sul set. La sua vita
aveva un ideale dietro, non generici sentimenti umanitari.
Malgrado la febbre rivoluzionaria che lo aveva invaso in quegli
anni, Giulio fu un ottimo studente universitario. Ferri gli fece
sapere che poteva fare quello che riteneva più giusto, gli
aumentò persino l’assegno mensile, ma sugli studi non
transigeva. Se non avesse superato gli esami universitari
l’erogazione dell’assegno, per ordine espresso di suo padre,
sarebbe stato interrotta. E lui, da bravo rivoluzionario, si
impegnò nello studio più degli altri non facendo mai uso delle
conoscenze che la sua condizione lo portava ad avere.
Fu una sera d’inverno che conobbe Sandra. Faceva parte del
collettivo dell’Accademia di Belle Arti e venne a casa sua con
altra gente per stampare un volantino su arte e potere.
Non fu un buon inizio. Lei, figlia di semplici impiegati dello
stato, pensava di lui che fosse solo un figlio di papà che giocava a
fare il rivoluzionario.
“E’ facile con una casa così parlare di povertà!” gli disse un
giorno, proprio quando lui aveva appena finito di parlare con
enfasi della situazione in Vietnam. Giulio non seppe rispondere,
fu come se un dardo avvelenato lo avesse colpito direttamente al
cervello, ma le parole di Sandra ebbero un effetto immediato.
Lasciò la villa, prese in affitto una camera insieme ad altri
studenti, si mise a lavorare come cameriere in un ristorante. Non
usava più il denaro dell’assegno mensile che andava così a finire,
inutilizzato, sul suo conto corrente. Il suo orgoglio gli imponeva
di dimostrare a quella ragazza che poteva fare a meno di tutto e
di tutti. Non fu facile, era solo l’orgoglio che gli impedì di
accettare un ripensamento caldeggiato da Ferri. Questi usò tutti
gli argomenti possibili per convincerlo a ripensarci.
“Per colpa tua dovremo licenziare la cameriera ed il giardiniere.
Ci hai pensato?” gli disse.
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“Non posso tornare indietro, è una questione di coerenza” gli
rispose.
Ferri ci rinunciò, d’altronde il ragazzo era vicino alla laurea e
aveva una media che gli avrebbe garantito il massimo dei voti
con la lode, i patti erano rispettati.
Qualche mese dopo rivide Sandra ad una mostra di Guttuso, e
stavolta fu subito amore.
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4. Vita da ospedale
La salute di Mapelli migliorò di giorno in giorno. Fu presto
trasportato dalla terapia intensiva al reparto di medicina generale.
Si trattava di una struttura vecchia e malridotta un tempo
riservata ai malati di tubercolosi ma che, proprio per questo,
possedeva delle ampie verande che si affacciavano su un
boschetto di pini secolari. Si abituò presto ai ritmi ospedalieri e
allo squallore dell’ambiente, arrivando addirittura a fare
comunella con gli altri tre malati ricoverati nella sua stessa
stanza. Insieme passavano alcune ore in veranda, fumando una
sigaretta di nascosto tra un’iniezione e l’altra e parlando di ernie,
colecisti e ulcere. Ma spesso le discussioni divagavano sulla vita
fuori da quelle mura. Il signor Lo Presti, per esempio, era un
pensionato dall’aspetto burbero ma estremamente gradevole.
Conduceva una lotta senza quartiere verso tutto ciò che era
tecnologico e moderno. Si vantava di possedere ancora un
televisore in bianco e nero e un accendino a benzina, ma più di
ogni altra cosa odiava i telefoni cellulari.
“Non lo comprerò mai! Ce l’ho detto mille volte a mia moglie.
Già non lo sopporto a casa! C’ho ancora quello con la ruota per
fare i numeri e lo tengo solo per i figli, sapete com’è!” diceva
rosso in faccia.
Il signor Lo Presti raccontava che siccome nel primo
pomeriggio telefonava sempre qualcuno che aveva qualcosa di
interessantissimo da vendere, lui semplicemente lo staccava. E
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così si risparmiava offerte di contratti telefonici imperdibili,
cassette di prodotti tipici calabresi, prove gratuite di fantastici
aspirapolvere sui tappeti di casa, improbabili carte di credito con
possibilità di pagamenti rateali, assicurazioni contro ogni tipo di
infortuni, etc., etc. Ma non si limitava a staccare la spina,
sollevava la cornetta dalla sua sede lasciandola penzolare verso il
pavimento. Avrebbe potuto poggiarla, più correttamente, sul
piano del mobiletto dove risiedeva stabilmente l’apparecchio, ma
amava godere della vista di quella cornetta esanime, come un
corpo abbandonato, svenuto, svuotato di vitalità, privo di
coscienza. In qualche modo umanizzava l’apparecchio, come
fanno in molti con i computer.
Il signor Quattrocchi invece, ricoverato per un’ernia recidiva,
era un pescatore che nel tempo libero costruiva piccoli modelli
di barche di sua invenzione. Chiese alla moglie di portargli
l’album con le foto delle sue creazioni per farle vedere ai suoi
nuovi amici. Con quelle foto passarono un intero pomeriggio
parlando di palamiti, lenze e reti, di come il pesce ormai
scarseggiasse e di che fine avremmo fatto andando avanti così.
Zù Carmelo invece, così si faceva chiamare da tutti, parlava
poco e niente, ma era affabile e cordiale. Diceva di possedere
una friggitoria di panelle e crocchè poco fuori città, in un luogo
imprecisato, verso Tommaso Natale. Nessuno osò approfondire la
cosa, ma tutti capirono che gli affari di Zù Carmelo non avevano
niente a che fare con la ristorazione. Aveva un grosso tatuaggio
sul petto, si sarebbe detto un drago, ma era di scarsa fattura, di
quelli che ci si fa a vicenda in carcere. Fu il primo a lasciare la
tribù. Vennero a prenderlo due giovanottoni in occhiali scuri che
presentò come suoi figli. Si sbarbò per bene, indossò un vestito
scuro che gli avevano portato “i figli” e salutò tutti baciandoli
sulle guance. Lasciò il suo numero di cellulare pregandoli di
chiamarlo se avessero avuto bisogno di qualcosa, di qualunque cosa
– disse – non si sa mai nella vita.
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Quella consueta vita d’ospedale aiutò Mapelli a sottrarsi
all’ansia di vivere. Paradossalmente, nell’ambiente ritenuto meno
adatto aveva trovato quel calore umano di cui aveva bisogno. Per
Mapelli non era una novità che gli uomini diventassero migliori
quando si trovavano a condividere un dramma, come gli esiti di
una guerra o di un disastro naturale, ma non aveva mai pensato
che persino nella malattia gli uomini avessero la possibilità di
percepire la loro esistenza non più come individui ma come
specie umana, e perciò sviluppassero una forma di solidarietà
spontanea. Quindi, smise presto di meravigliarsi per quei gesti
caritatevoli - aspetti professore, l’aiuto ad alzarsi - o anche
semplicemente gentili - l’assaggi professore, come fa lo spezzatino mia
moglie nessuno - che si scambiavano i quattro durante le tediose
giornate d’ospedale. Persino Carmine fu contagiato da
quell’atmosfera e nei giorni seguenti si preoccupò di portare
giornali e riviste per tutti. Un giorno arrivò persino con un
vassoio di dolcini e un termos di caffè, ma della cosa si accorse il
medico di guardia che gli sequestrò il malloppo e lo sgridò come
fosse un assassino.
Finché una mattina Mapelli vide arrivare, con il suo
caratteristico passo marziale, il dottor Petrullo, sempre più
somigliante al vecchio Einstein.
“Ciao Giulio, vengo da un colloquio con il medico che ti ha
esaminato. Stai tranquillo, adesso è tutto a posto. Sei qui da
troppo tempo per le casse della Sanità e non vedono l’ora di
liberare il posto. Vuoi andare a casa?”
“ Io non ci sarei neanche venuto.”
“Bene, Carmine aspettava una mia telefonata per venirti a
prendere. Gli dico che sarai pronto fra tre ore.”
“Tre ore? Perché così tanto?”
“Perché prima devi fare un salto a Psichiatria. C’è un carissimo
collega che ti aspetta. Si chiama De Santis, al secondo piano.”
“Che ci devo andare a fare dallo Psichiatra?”
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“Carmine mi ha parlato della tua fossa sotto la poltrona. Non
ho capito se è stata un’allucinazione dovuta al malessere o se sei
proprio fuori di testa. Vogliamo vederci chiaro.”
“Senti, vado già da uno psicanalista, se fossi pazzo l’avrebbe
già capito, non ti pare? E poi quella non è stata
un’allucinazione.”
“Allora insisti! Non uscirai da qui senza aver visto prima De
Santis – disse Petrullo risoluto – rassegnati.”
De Santis lo aspettava in ambulatorio. Per la verità si trovava
per metà, quella inferiore, dentro l’ambulatorio, l’altra metà era
protesa fuori dalla finestra a fumare una sigaretta. Quando
arrivò, Mapelli diede dei piccoli colpi di tosse per farsi notare,
ma solo la simulazione di una sonora scatarrata riuscì ad attirare
l’attenzione dello psichiatra. Questi girò lo sguardo verso
l’interno della stanza e disse con tono di sfida:
“Ha intenzione di denunciarmi?”
“Perché dovrei?” rispose Mapelli.
“Ormai bisogna diffidare di chiunque – rispose lui – fumi una
sigaretta alla finestra e ti etichettano come assassino.”
Spense la cicca schiacciandola sul muro esterno, la buttò fuori
verso l’ignoto e si sedette alla poltrona.
“Guardi che per me la poteva anche finire, la sigaretta” disse
Mapelli stringendosi nelle spalle.
“Bah! – rispose lui – tanto non c’è piacere a fumare così. Mi
dica.”
Mapelli si presentò.
“Ah! Lei è l’amico di Petrullo. Quello della fossa di cadaveri,
giusto?”
“Già, il pazzo.”
“Non dica così, pi cortesia. Ci sono cristiani che vedono
comunisti dappertutto, con tanto di colbacco e denti affilati
pronti a mangiarisi ogni picciriddo gli capiti a tiro. Lei crede che
questi siano tutti pazzi?”
“E chi dice niente?”
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“Bene. Vedo che lei è un uomo prudente, difficile che sia
anche pazzo. Mi parlerebbe di questa fossa di cadaveri?”
Mapelli gli raccontò la storia con dovizia di particolari, poi fu
sottoposto ad alcuni test ed infine dovette fare una sintesi degli
ultimi mesi della sua vita. Dopo attese il verdetto. Per tutto quel
tempo la faccia di De Santis non aveva fatto una grinza. Mapelli
lo guardò con attenzione: la testa era grossa, capelli bianchi folti
e disordinati, prominenti borse sotto gli occhi di un comune
color castano, il naso grosso e bitorzoluto, la bocca con una
perenne piega verso il basso, guance flosce che accentuavano la
piega della bocca, collo pressoché assente e doppio mento. Le
orecchie erano enormi e pelose. Al di sotto di tutto questo, solo
il camice bianco con una penna bic al taschino. Un uomo che
trasmetteva solo fastidio verso tutto quello che lo circondava,
uomini e cose.
“Sono pazzo, dottore?” chiese Mapelli tra il serio e il faceto.
“Lei non è pazzo – disse De Santis – è solo un coacervo di
sensi di colpa, infelicità, rimorsi e manie. Esattamente come
quasi tutti, oggi.”
“Ciò prova che non ho avuto un’allucinazione.”
“No, no... Dimostra solo che lei rientra nella categoria degli
stressati. Che minchia le interessa se ha avuto un’allucinazione che
l’ha portato ad una emorragia, o un’emorragia che l’ha portato ad
un’allucinazione? La diagnosi è comunque stress. E’ così che
chiamiamo l’infelicità, oggi. Non c’è cura, si rassegni, ma se
vuole le prescrivo uno psicofarmaco che la rincoglionisce.”
“No grazie. Preferisco essere un infelice consapevole.”
“Perfetto. Vediamo se adesso mi posso fumare una sicaretta in
pace” disse De Santis alzandosi e prendendo una sigaretta da un
cassetto della scrivania.
Mapelli andò via con il foglietto in mano che testimoniava la
sua adesione all’Esercito degli Stressati, il salvacondotto per
uscire dall’ospedale. Petrullo lo lesse con attenzione e poi disse:
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“Giulio, devi stare attento. Prenditi una vacanza, vai da
qualche parte e sii scrupoloso nella cura che ti hanno prescritto.”
“Grazie, ci penserò. Carmine?”
“Sarà giù che ti aspetta.”
Carmine fu bravissimo, non chiese niente che lo potesse
mettere a disagio. Cercò piuttosto di essere gradevole e di creare
un’atmosfera serena, rilassata.
“Fai presto Carmine, devo pisciare” gli disse Mapelli tenendosi
la patta.
“Ma non potevi farla in Ospedale?”
“Ce la faccio, non ti preoccupare, ma fai presto.”
A casa aspettò che finisse in bagno e poi gli chiese se avesse
bisogno di qualcosa.
“No grazie, Carmine. Ti chiamo più tardi, magari.”
“Io resto ancora qualche giorno qui, poi andrò di nuovo al
mare. Davvero non vuoi venire? Ti farebbe bene.”
“Ci penserò, grazie.” rispose Mapelli dirigendosi verso la
poltrona.
“Non c’è nulla sotto – lo anticipò Carmine – ho già controllato
mentre pisciavi.”
“Certo, certo, volevo solo sedermi” disse Mapelli, ma non
appena Carmine richiuse la porta dietro di sé non potè fare a
meno di spostare lentamente, con cautela, la poltrona
incriminata. Non c’era davvero nulla, neanche l’infinitesimale
traccia di una fossa, solo la piattezza polverosa del consunto
pavimento di marmo. Controllò minuziosamente le fessure tra i
mattoni trovandovi solo lo sporco accumulato negli anni e,
ancora, qualche briciolina di pane raffermo. Annusò l’aria, più
volte. Niente. Solo odore di chiuso. Fece un giro delle stanze e
controllò se c’erano messaggi nella segreteria telefonica. Uno era
di Sandra:
Scusa per la mia assenza, ma di certo Carmine ti avrà detto che non ce la
faccio proprio a venire. Per favore non distruggerti la vita. Manda tutto a
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quel paese e parti per un pò. Hai bisogno di svagarti, di uscire da quella
casa. Devo andare adesso. Ti voglio bene. Ciao.
Il secondo era di Laura:
Ciao pà. Se avessi un cellulare non avrei bisogno di lasciarti messaggi in
segreteria. Stai bene? Mi chiami quando esci dall’ospedale?
Il terzo era di Ferri:
Giulio caro, so che stai meglio, scusami ma non sono potuto venire a
trovarti. Sono al mare con la famiglia, a Pantelleria. Sono riuscito ad
informare tuo padre. Ti saluta e ti augura ogni bene. Dice che se ce bisogno
lui viene. Fammi sapere.
L’ultimo era dell’università:
Professore, sono Luisa. Quando pensa di tornare? Il Direttore del
Dipartimento ha bisogno di sapere qualcosa per completare la
programmazione dell’attività didattica. Appena può, chiami per favore.
Tutto qui, ma sufficiente a farlo decidere per un lungo viaggio
lontano da tutto e da tutti.
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5. Verso Oriente
Circa un mese dopo, sfidando coraggiosamente le sue paure,
Mapelli era seduto di fronte al gate 14 dell’aeroporto Roma
Fiumicino, imbarco previsto per New Dheli: trenta minuti. Alla
fine si era deciso, andava in India.
Aveva parlato col direttore del dipartimento, un uomo
comprensivo, soprattutto perchè la rinuncia di Mapelli alla
ricerca scientifica ed il suo defilarsi dalle attività del dipartimento,
gli avevano lasciato campo libero nella carriera. Si, perchè se
Mapelli non fosse entrato in depressione, quel posto sarebbe
stato senz’altro suo. Gli disse chiaramente che avrebbe preso un
periodo di malattia e che aveva fatto richiesta per un anno
sabbatico.
“Non preoccuparti Giulio, devi pensare innanzitutto alla tua
salute, qui ci arrangeremo.”
La felicità che trasparì dai suoi occhi mentre diceva quelle
parole aveva quasi indotto Mapelli a ripensarci. Ma fu un attimo,
un residuo di spirito di competizione che fece presto a sparire.
Fu il dottor Aricò, il suo psicanalista, a consigliargli di andare
in India da un certo dottor Amrutras, un medico ayurvedico.
“Vada da lui – gli aveva detto Aricò – vedrà che ne avrà un
gran beneficio. La sottoporrà ad un Panchakarma, una sorta di
purificazione fisica e spirituale che la farà tornare come nuovo.”
“Tutto questo è terribilmente banale, dottore. Non le sembra
uno stereotipo andare in India per uno con i miei problemi? Sa
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quanta gente conosco che l’ha fatto? Ex compagni di università,
pseudo-rivoluzionari delusi. Non sarà certo un santone a
restituirmi la serenità. E tanto meno la salute. E poi non c’ho
mai creduto a queste cose” disse Mapelli irritato.
“Intanto Amrutras non è affatto un santone, è un fine
conoscitore della natura umana e un ottimo medico, se pur
ayurvedico. Sono certo che lo troverà interessante, e in ogni caso
qualche mese di evasione non può che farle bene. La sua clinica
è una piccola oasi di pace; anche se non dovesse avere benefici
fisici, di sicuro si riposerà, lontano dal caos di questa città.”
“Ma se per la paura non vado neanche al mare dal mio amico
Carmine, riesce a immaginare cosa significhi per me arrivare fino
in India?”
“Proprio per questo deve farlo. Cominci ad affrontare le sue
paure. In passato lei è stato un buon viaggiatore, non c’è nulla
che le impedisca di tornare ad esserlo. Le darò delle pastiglie che
l’aiuteranno ad affrontare il viaggio ed i primi giorni lì, stia
tranquillo. Si fidi di me.”
Così Mapelli cedette alla proposta, in fondo non aveva nulla da
perdere. Negli ultimi giorni prima della partenza aveva preso
contatti con un assistente di Amrutras via e-mail. Aveva anche
cercato su internet qualche notizia della sua clinica. Trovò decine
di siti di cliniche ayurvediche che offrivano il connubio curaturismo. Scorreva le foto di alberghi lussuosissimi, spiagge
incantevoli, suadenti massaggiatrici al lavoro su obesi occidentali,
immagini sacre con sfondi dai colori vivaci, ma nessuna fonte
portava alla clinica di Amrutras. Provò con diversi motori di
ricerca finché gli apparve un link che rimandava ad un elenco di
medici occidentali che avevano collaborato col medico indiano
presso l’Università di Dheli. Gli sembrò un buon segno, e così
decise di partire: aereo alle sei del mattino per Roma, colazione al
bar dell’aeroporto, acquisto di giornali e lettura. Erano ormai le
13.30 e aveva già letto sia il quotidiano che la rivista settimanale
patinata con un lungo servizio sulla relazione tra riscaldamento
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della terra e disastri ecologici. Gli rimaneva solo la settimana
enigmistica, ma voleva conservarla per le defecazioni mattutine
dei prossimi giorni. Il pensiero della defecazione gli ricordò che
sarebbe stato meglio svuotare la vescica prima d’imbarcarsi, e
così prese decisamente la via delle toilette trascinandosi dietro il
bagaglio a mano.
Quando aprì la porta di uno dei tanti bagni, si ritrovò di fronte
uno chassid seduto sul water, uno di quegli ebrei ortodossi in
redingote nera e camicia bianca di almeno due misure più grande, i
boccoli che scendono da sotto il cappellaccio come stelle filanti
tristi. L’uomo aveva chiaramente dimenticato di chiudere la
porta, ma non sembrava affatto preoccupato della cosa. Leggeva
un libretto nero rilegato in cuoio come se nulla fosse. Non era
un spettacolo gradevole. Certo, un uomo che caca non è
comunque un gran spettacolo, ma un ebreo ortodosso, con
quell’aspetto originale, è quanto meno curioso. Così Mapelli non
ebbe la prontezza, diremmo meglio la gentilezza, di chiedergli
immediatamente scusa. Restò lì a guardarlo a bocca aperta
mentre il tipo gli rivolse appena uno sguardo indifferente. Fu
solo quando questi tuonò una sonora scoreggia che Mapelli si
riebbe dallo stupore. Chiese scusa con una flebile vocina rauca,
richiuse la porta e imboccò la toilette adiacente, aperta e
chiaramente senza nessuno dentro.
Quando tornò verso il suo gate, notò altri chassidim che
attendevano il volo per Tel Aviv, qualche metro più avanti del
suo. Pensò che se avesse incontrato in ascensore un danzatore di
Katakali bardato per lo spettacolo, non avrebbe provato lo stesso
stupore. Per lui la questione non era nuova ed era di natura
squisitamente estetica, non certo religiosa. Tutti quei vestiti neri
gli evocavano pensieri di morte, gli sembravano titolari di pompe
funebri riuniti per un congresso. Provava la stessa sensazione
quando incontrava preti cristiani, anche se la consuetudine della
loro vista attutiva notevolmente l’effetto. Anche loro si vestivano
di nero, ma se i cattolici portavano una tunica che li faceva
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somigliare più a corvi diabolici che a becchini, i protestanti
sembravano decisamente eleganti e mostravano sempre un fare
cordiale, fresco. Gli ortodossi invece, erano così pieni di ori,
crocifissi e copricapo sontuosi che il loro anacronismo suscitava
solo indifferenza. Gli chassid erano un’altra cosa. I boccoli che
uscivano dal cappellaccio potevano sembrare trasgressivi rispetto
al resto, eppure, paradossalmente, quella nota stonata
amplificava l’effetto funereo. Questo pensava Mapelli, un po’
vergognato per aver fatto quelle riflessioni dato che si trattava di
ebrei, popolo perseguitato da sempre. Certo è che non gli erano
mai stati simpatici, ma non l’avrebbe mai dichiarato in pubblico
per non essere stupidamente accusato di antisemitismo. In realtà
non gli erano mai stati simpatici i religiosi in generale. Aderiva
senza riserve a coloro che, nei secoli, avevano dichiarato che la
religione, con i suoi limiti spazio-temporali, potesse solo dividere
gli uomini in ulteriori categorie. Manteneva una certa perplessità,
invece, su coloro che affermavano che la spiritualità li univa tutti
nella comune ricerca di un significato oltre la vita, qualunque
questo fosse. Con questa motivazione molti erano partiti verso
l’India, poiché questa incarnava nell’immaginario collettivo
occidentale il concetto stesso di spiritualità.
La voce gracchiante dell’altoparlante che annunciava l’inizio
dell’imbarco interruppe i suoi pensieri e gli fece ricordare che
stava per affrontare una di quelle cose che, fino a poco tempo
prima, non si sarebbe mai più sognato di fare: prendere un aereo.
Non appena la tensione innescò l’attesa tachicardia, inghiottì due
compresse di calmante interamente vegetale, inforcò gli occhiali
da sole e si avviò risoluto verso l’imbarco, deciso a vincere ogni
strategia che tutte le cellule del suo corpo avrebbero messo in
atto per farlo tornare a casa, al sicuro.
Appena seduto sulla poltrona dell’aereo che gli era stata
assegnata, prese dal bagaglio a mano un libro che aveva
comprato per l’occasione: “Diario di viaggio di un filosofo.
L’India” di un certo Hermann Keyserling. Mapelli non capiva
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nulla di filosofia, né aveva mai sentito parlare di quell’autore, ma
l’aveva acquistato perchè il titolo gli sembrava adatto al viaggio
che stava compiendo. Rilesse il bugiardino sul retro copertina:
diario orientale di un occidentale che cerca a tutti i costi di restare tale.
Perfetto – si disse – proprio quando i motori cominciarono a
salire di giri, all’unisono con i battiti del suo cuore. Poggiò il libro
sulle gambe tremanti, chiuse gli occhi e si preparò alla folle corsa
sulla pista. Una volta in quota capì che non avrebbe potuto
leggere neanche una riga di quel libro, che non sarebbe stato in
grado di fare assolutamente nulla. Girò la testa verso il finestrino
e rimase a guardare le nuvole, atterrito e immobile. Provò a
guardare il film che proiettarono un’ora dopo, provò anche a
mangiare qualcosa dal vassoio che avevano distribuito le hostess,
ma la tensione gli annebbiava leggermente la vista e gli chiudeva
lo stomaco. L’unica cosa che funzionò fu una massiccia dose di
alcune delle compresse prescritte dal suo psicanalista che lo
stroncarono definitivamente, tanto che, atterrato a Nuova Delhi,
dovettero svegliarlo energicamente quando già tutti i passeggeri
erano scesi dall’aereo.
Mapelli scese barcollando la scaletta aggredito da una nuvola di
tiepido smog umido che lo stordì ulteriormente. Tutte le
complicate procedure di ingresso in India furono eseguite in uno
stato di dormiveglia, compresa l’uscita verso la sala in cui
centinaia di agguerriti uomini agitavano cartelli con nomi di tour
operator o singole persone. Tra questi vi erano gli “indipendenti”
a caccia dei nuovi arrivati più ingenui. Di questi personaggi si
raccontavano cose terribili, uomini senza scrupoli capaci di
rubarti anche i calzini e depositarti in uno dei tanti vicoli della
Old Delhi e, naturalmente, furono proprio questi a farsi avanti
per primi. L’effetto dei calmanti che gli impedivano di
rispondere lucidamente alle incessanti sollecitazioni che gli
arrivavano da tutti i lati, fece in modo che si creasse in breve una
vera e propria ressa per la contesa delle sue valigie poiché il
vincitore avrebbe avuto il diritto di ritenersi automaticamente
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assunto. Fu allora che intervenne la polizia aeroportuale che,
esibendo gli sfollagente, disperse i contendenti. Uno dei
poliziotti, evidentemente il capo, un omone con grandi baffi a
manubrio, gli chiese:
“What’s your name? What’s your hotel?”
“Cosa?” chiese Mapelli in italiano.
“Do you speak English?” chiese l’omone alzando la voce e
sparandogli in faccia qualche schizzo di saliva.
“Yes” rispose lui riprendendosi un po’.
“What’s your name? What’s your hotel?” ripetè l’omone.
In quel momento intervenne un uomo che aveva raccolto da
terra uno dei cartellini che, nella foga, si era staccato dai bagagli
di Mapelli.
“You are Mr Mapelli, from Italy?”
“Yes! Yes! I’m” rispose lui con la faccia di un naufrago allo
stremo che vede la salvezza insperata presentarsi sottoforma di
un confortevole canotto. Si trattava dell’autista mandatogli
dall’albergo che aveva vanamente atteso, col suo bravo cartello
con su scritto Mr Mapelli, che qualcuno si facesse avanti.
Mapelli si scusò con tutti per la sua negligenza, si disse
mortificato per quanto era avvenuto e, ricevuta una pacca sulla
spalla dall’omone, seguì l’autista verso l’esterno. Solo quando fu
finalmente seduto sull’automobile cominciò veramente a
svegliarsi, forse aiutato dall’aria fresca della notte che gli soffiava
direttamente sul viso da una bocchetta posta sul tettuccio
dell’auto.
“Ha fatto buono viaggio, Signore?” gli chiese educatamente
l’autista in un inglese dallo strano accento a cui Mapelli dovette
presto abituarsi.
“Non lo so, per la verità ho dormito tutto il tempo. Ma visto
che sono ancora vivo, direi di si, ho fatto un buon viaggio”
rispose.
“Lei prima volta Delhi?”
“Si.”
39
“Oooh! Lei piacerà molto” disse l’autista ridendo.
“Spero in senso buono” ribattè Mapelli quasi sottovoce.
“Cosa Signore?” chiese l’uomo allungando la testa verso di lui.
“Dicevo: ne sono sicuro” preferì rispondere Mapelli alzando la
voce.
Ci volle una buona mezz’ora prima che l’automobile arrivasse
in albergo. Durante il tragitto Mapelli cercava di carpire qualcosa
della città dalle immagini che scorrevano dal finestrino, una
prima sensazione, un qualche parallelismo con luoghi già
conosciuti, un odore particolare. Di certo non ebbe nessuna
sensazione esotica come quelle descritte dai viaggiatori che
visitarono l’India un secolo prima. Delhi sembrava una caotica
metropoli come tante altre, sporca e puzzolente. L’unica cosa
che gli diede una qualche emozione fu vedere i primi indiani
vestiti all’orientale. Persino l’evidente pantomima per turisti
inscenata dal portiere dell’albergo che, vestito in abito regale
rajasthano con tanto di turbante e bastone decorato, gli apriva
solennemente la porta dell’albergo, lo incuriosì. Un tempo era
sempre così, la prima volta di ogni cosa lo emozionava, anche la
più banale. Gli fece piacere, quindi, riscoprire quella infantile
sensazione, seppure limitata ai pochi secondi che gli ci vollero
per raggiungere la hall.
La sua stanza d’albergo era anonima come tutte le stanze di un
cinque stelle in qualunque parte del mondo. Per principio odiava
i cinque stelle, ma non era mai stato in India e voleva
ambientarsi gradualmente alla nuova situazione. Aveva capito
che la clinica del dr Amrutras non possedeva nessuna delle
comodità occidentali e preferì disabituarsi lentamente all’idea di
una fresca doccia o di un buon ristorante. Le immersioni per le
vie caotiche di Dheli, alternate all’ambiente ovattato dell’albergo,
l’avrebbero aiutato a raggiungere l’obiettivo. L’albergo era
prenotato per soli cinque giorni, il tempo necessario a smaltire il
jet lag, prendere confidenza con il continente indiano e decidere
con che mezzo arrivare dal dr Amrutras.
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Ci vollero quattordici ore di sonno profondo e un’intera
giornata di ozio perché si riprendesse del tutto. Gironzolò per
l’albergo godendosi l’attività frenetica degli addetti alla hall e
l’umanità cosmopolita che partiva e arrivava come api in
un’arnia, businnes men di Taiwan, Hong Kong, Shangai, Macao,
americani, inglesi ed europei, gruppi di coreani e giapponesi in
viaggio turistico. Passeggiò dinoccolandosi per i giardini interni
in stile rajasthano, con fontane, corsi d’acqua e cespugli fioriti,
sorseggiò il the nella Akbar tea room tra orchidee, profumi
d’incenso e discrete cameriere in coloratissimi sari.
Fu lì che conobbe il Signor Venturi, un florido sessantenne
piemontese residente a Delhi da ormai ventidue anni insieme alla
moglie inglese. L’uomo si occupava di import-export di sete
pregiate e pashmine. Quel giorno si trovava lì per incontrare un
uomo d’affari di Kuala Lampur, un vecchio cliente che veniva
regolarmente a Delhi per rifornirsi di sete. Il malese era in ritardo
e Venturi, intuito che Mapelli fosse italiano, gli offrì una
sigaretta.
“Disturbo?” esordì in italiano allungandogli elegantemente il
pacchetto.
“Per niente, grazie - rispose Mapelli portandosi la sigaretta al
naso incuriosito dall’odore forte e gradevole – cos’è
quest’aroma? E’ inebriante.”
“E’ una Gudam Garam, una sigaretta indonesiana a base di
tabacco e chiodi di garofano. Stia attento, è fortissima, l’aspiri
con delicatezza.”
“Come ha capito che sono italiano?” chiese Mapelli.
“Dall’accento del suo inglese nel chiedere il tè alla cameriera,
dal suo modo di vestire e da tanti altri piccoli particolari che
indicano la provenienza di ognuno di noi. Siamo globalizzati,
dicono, ma allo stesso tempo portiamo il marchio della terra in
cui siamo cresciuti. Non crede?”
“Beh! Io non l’avrei mai presa per un italiano.”
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“Infatti io vivo qui da molto tempo ormai, e qui è come se
fossi rinato e, quindi, ricresciuto.”
“Già, dicono che l’India faccia quest’effetto” disse Mapelli.
“Lo dicono di tanti posti, in realtà. Credo che sia solo una
questione di predisposizione mentale. Quando si va via verso
una terra lontana e molto diversa dalla propria, in qualche modo
si è pronti a rinascere. Può essere l’India, l’Africa o l’Australia,
ma l’effetto è uguale. Ciò non ci esime dal restare legati alla terra
che ci ha visto nascere, come a un cordone ombelicale perenne.”
Raffinato, ma banale, pensò Mapelli. In effetti, più andava
avanti la discussione più il professore consolidava la prima
impressione avuta da quell’uomo che, parlando, gesticolava con
eleganza mettendo in evidenza un grosso anello con una pietra
dura sull’affusolata mano destra. Aveva l’aspetto di un colono
dei primi del novecento, un amante dell’esotico, senza dubbio di
vasta cultura e apparentemente aperto alle diversità, ma
probabilmente un razzista nell’anima e del tutto inconsapevole di
esserlo. Mapelli soffocò le considerazioni che gli si affollavano
nel cervello. Che ne sai tu? Non lo conosci affatto, si diceva, smettila di
fare il solito criticone e cerca semplicemente di ascoltare. Con questa
nuova predisposizione d’animo ascoltò Venturi parlare a lungo
di Delhi, dei suoi affari e del suo desiderio di “rinascere”
nuovamente trasferendosi in Vietnam con la moglie per la loro
vecchiaia.
“Perché in Vietnam?” chiese Mapelli.
“Non ho motivi razionali da addurre, ho solo la percezione
che io e mia moglie abbiamo già vissuto lì in una nostra vita
precedente.”
Per un attimo credette di non aver sentito bene. Lo guardò
meglio. Aveva la faccia di chi aveva appena fatto una rivelazione
importante e si aspettava una reazione di ammirata meraviglia.
Recitava una parte, ma ormai c’era talmente dentro che non se
ne rendeva conto.
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“Sono appena arrivato in India, lei è la prima persona con cui
intavolo una discussione e già sento parlare di reincarnazione”
disse Mapelli con un sorriso scettico.
“Oh! Qui dovrà abituarsi a un altro modo di confrontarsi con i
misteri dell’universo. Lo sa che la data di matrimonio viene
decisa da un astrologo? – disse Venturi ridendo di cuore – Se
vuole trovarsi bene qui non si opponga, non sia scettico. Lasci da
parte tutti i preconcetti occidentali e viva l’attimo lasciando che
l’India le si riveli in tutta la sua originalità. Si lasci incantare dai
sari colorati delle donne, dagli idoli a quattro e sei braccia, dagli
odori forti dei curry, ma, soprattutto prenda con curiosità
qualunque cosa le dicano, ci sono molte verità che le apriranno la
mente, per quanto incredibili le possano sembrare. Ma lei,
piuttosto, cosa fa qui? E’ un turista? Affari?”
Mapelli non gli disse niente del vero scopo del suo viaggio. Se
ne vergognava un po’, sapeva che non c’era nulla di originale in
quello che stava facendo, che non c’era nulla di originale nella
sua vita. Quell’uomo era brillante, deciso, e aveva fatto nella sua
vita quello che voleva. Cominciava a stargli antipatico.
“No, niente affari. Avevo del tempo libero ed ero curioso di
visitare l’India. Starò qualche giorno a Delhi, poi andrò un po’ in
giro, forse verso sud” rispose.
Fu allora che Venturi gli raccomandò una guida locale, Mina,
che gli avrebbe fatto conoscere Delhi in pochi giorni come
nessun altro.
“Parla benissimo la nostra lingua ed è una donna di grande
cultura. E’ divorziata, cosa grave da queste parti, ma piuttosto
che isolarsi dal mondo come si usa qui, ha rivoluzionato la sua
vita imparando l’italiano e scegliendo di mettersi a lavorare. Ora
fa da guida a turisti e uomini d’affari italiani. Le piacerà.”
Mapelli accettò di buon grado il numero telefonico di Mina,
ringraziò Venturi e si ritirò in camera con una scusa.
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6. In giro per Delhi
Mina era una donna decisamente interessante. In lei convivevano
l’austerità dei Moghul rajasthani, intrepidi guerrieri e saggi
imperatori, e la dolcezza di uno Shiva Nataraja, lo Shiva a quattro
braccia che attraverso una sinuosa danza manifesta tutto
l’universo.
Quel tiepido pomeriggio, nella hall dell’albergo, Mapelli la vide
per la prima volta avvolta in un sari che evocava la leggerezza ed
i colori di una farfalla, ma con uno sguardo che esprimeva
l’orgoglio di essere indiana di fronte a uno straniero. Parlava con
l’uomo alla reception che le indicava il divano sul quale Mapelli
aspettava leggendo un depliant su Delhi.
“Signor Mapelli?” chiese lei gentilmente tendendogli la mano.
“Lieto di conoscerla” rispose lui un po’ impacciato.
“Benvenuto in India. Vuole seguirmi alla macchina?” disse
Mina recitando con professionalità la sua parte.
La seguì fino all’automobile, una classica Ambassador nera. Al
posto di guida c’era un uomo con un turbante nero come
l’automobile ed una barba impeccabile.
Mina si sedette davanti con l’autista. Era una donna matura
che conservava tracce evidenti di una bellezza giovanile al di là
della norma. I tratti del viso ed il colore della pelle erano
tipicamente indiani, così come un certo modo sinuoso di
muovere le mani e la testa che accompagnava le parole. Ogni
tanto, nell’enfasi del discorso, si girava verso di lui dandogli la
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possibilità di guardarla meglio in viso. Ebbe l’impressione che i
suoi occhi esprimessero un’ambiguità di sentimenti: oltre i guizzi
argentei dell’orgoglio vi era un fondo di gialla tristezza, di
malinconia odorosa di rosmarino. Mapelli, sorpreso, si chiese
come mai avesse usato quei parallelismi con colori e odori per
descrivere quella sconosciuta poiché non era certo sua
consuetudine ma, piuttosto che far vagare la mente alla ricerca di
una risposta plausibile a quella stravagante novità, preferì tornare
a concentrarsi su di lei.
Dopo i convenevoli di rito, Mina si lanciò in una classica
descrizione di Delhi e dell’India in generale, palesemente
imbastita per turisti generici. Evidentemente, non conoscendolo,
preferì non sbilanciarsi in nessun modo e limitarsi a captare i
feedback che Mapelli avrebbe certamente lanciato durante il giro.
Non le ci volle molto per capire che aveva davanti un uomo
privo di entusiasmi e che ascoltava solo per cortesia i suoi
excursus storici sulla città. Si accorse anche che era più interessato
alla nuca di lei che alle descrizioni architettoniche di ciò che
scorreva attraverso i finestrini. Che uno straniero qualunque
snobbasse quelle meraviglie non poteva tollerarlo, così decise di
stanarlo provocandolo.
“Come mai ha scelto di visitare l’India?”
Mapelli, così come aveva fatto con Venturi, decise di inscenare
la storia del viaggiatore senza meta.
“Curiosità, direi” rispose.
“Che cosa la incuriosisce in particolare?
Cazzo. E ora? – pensò.
“Forse la diversità” gli venne, ottimo argomento.
“Vuole capire in cosa gli indiani sono diversi da voi
occidentali?” chiese Mina incalzandolo.
Insiste. Va bene – si disse – se vuoi la guerra, guerra sia. La diversità
era uno degli argomenti che lo aveva sempre interessato sin da
quando era un giovane liceale, non sarebbe stato difficile
imbastire una discussione coerente.
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“Non esattamente, che siamo diversi non c’è dubbio.
Guardavo il suo autista, ad esempio. Parla l’italiano? – lei fece
cenno di no col capo – Allora posso parlare liberamente. E’ un
bell’esemplare d’uomo. E’ un Sikh, vero? Anche in Italia sono
arrivati i Sikh. Pare che siano bravissimi allevatori di bestiame. Si
sono sistemati al nord Italia. Vanno in motoretta ed i loro
turbanti hanno creato un problema serio. Da noi il casco è
obbligatorio, lo sapeva? Beh, hanno costretto i sindaci delle città
che li ospitano ad accettare che mettessero i caschi sopra i
turbanti rendendoli praticamente inutili, dato che non si possono
allacciare al mento. Tanta caparbietà nel pretendere rispetto per
le loro convinzioni religiose è commovente. Ma il punto è un
altro: per quanto la loro diversità reggerà? Nutro il sospetto che
la prossima generazione di Sikh nata in Italia rinnegherà l’uso del
turbante. Mi chiedo se ciò non stia già avvenendo qui.”
“Scusi se la interrompo, ma siamo vicini al Lal Qila, il Forte
Rosso. Vuole visitarlo?”
La storia sulla diversità funzionò. Mina si convinse di avere a
che fare con un uomo pensante e che la sua aria distratta era
normale per i tipi così. Passò, quindi, dallo schema descrittivo
per turisti generici a quello per visitatori consapevoli riuscendo a
catturare l’attenzione di Mapelli per tutto il giro che aveva
programmato. Dopo il Forte Rosso, lo portò a visitare la Jama
Masijd, la moschea del venerdì, e il complesso monumentale del
Qtub Minar, un minareto alto settantatrè metri. Era la Delhi dei
Moghul, quella araba, quella austera ed elegante, la parte regale di
Mina.
Dovunque si andasse c’erano folle oceaniche di gente
impegnata a guadagnarsi da vivere, come i barbieri all’aperto che,
tra venditori di tutto l’immaginabile, tagliavano i capelli ai loro
avventori dopo averli fatti accomodare su una seggiola di legno
davanti ad un mozzicone di specchio. O semplicemente
cercavano di far passare il tempo, come quegli uomini di tutte le
età che dormivano sotto un albero o distesi in un prato mentre
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attorno a loro sfrecciavano miriadi di automobili, motorette,
biciclette, risciò e camion strombazzanti con scritto sul retro
suona il clacson per favore. Eppure, malgrado la sua fobia per la folla
e l’avversione per il traffico, gli sembrò quasi che tutto quel
marasma fosse naturale, che non potesse che essere così,
probabilmente per l’idea dell’India che si era formata nella sua
testa leggendo la guida della Lonely.
Un umidiccio tramonto aranciato pose fine al giro turistico. Fu
allora che Mina chiese a Mapelli se intendeva tornare in albergo
per la cena o continuare la serata in un ristorante tipico. Lui optò
di buon grado per la cena fuori. Così si diedero appuntamento
per le venti, nello stesso posto dove l’autista Sikh fece scendere
Mina, nei dintorni di Connaught Place. Poi l’auto si diresse verso
l’albergo di Mapelli dove il Sikh attese dormendo in auto il suo
ritorno, fresco di doccia e con indosso una camicia pulita e un
informale vestito di cotone chiaro.
Appena in auto, Mapelli si sorprese ad avere voglia di
chiacchierare con l’autista. Si stava evidentemente rilassando,
forse stava addirittura seguendo il consiglio di abbandonarsi
all’India. Prima d’allora, infatti, forse per un eccesso di timidezza,
non si era mai soffermato a chiacchierare con l’autista di un taxi,
di un autobus o di un qualunque altro mezzo di trasporto gli
fosse capitato di usare nella vita. Sorrise alla piacevole novità e si
lanciò in un’animata discussione in inglese sulle usanze Sikh.
Scoprì così che sotto il turbante c’era una specie di calza che
conteneva lunghissimi capelli neri che agli uomini è vietato
tagliare, e che i lunghi capelli e la barba simboleggiano il
desiderio di santità di chi si impegna nel cammino verso la
rettitudine. L’autista gli consigliò di visitare il tempio di Bangla
Sahib Gurdwara, il principale luogo di culto Sikh a Delhi,
ricordandogli di coprirsi il capo e di togliersi scarpe e calze prima
di entrare.
Arrivarono al luogo dell’appuntamento con qualche minuto
d’anticipo e Mapelli ne approfittò per fumarsi una sigaretta nei
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dintorni della macchina. Il via vai della gente non era affatto
diminuito. Diciassette milioni di abitanti si muovevano
incessantemente dentro l’area metropolitana della città. Un
veloce calcolo e ricavò che Delhi era grande almeno come
venticinque Palermo. Aspirava il fumo e sentiva entrare nei
polmoni anche i gas di scarico che impregnavano l’aria, la stessa
puzza che aveva respirato a Bangkok, a Il Cairo o a Città del
Messico durante i suoi viaggi giovanili con Sandra. Spegnendo la
sigaretta notò che dall’altra parte della strada una ressa di uomini
attendeva di entrare in un cinema. Si avvicinò per guardare
meglio l’enorme cartellone che pubblicizzava il film. Dipinto
completamente a mano, vi erano gli ingredienti ed i volti che
avrebbero dato luogo allo spettacolo. Un soldato ferito a morte
veniva sorretto dal compagno più fortunato, lo sguardo
sconvolto dalla paura. A lato un uomo e una donna, giovani e
belli, lo sguardo sognante. Alle loro spalle troneggiava il cattivo,
la cui malvagità era sottolineata da baffi e sopracciglia
particolarmente folti e da uno sguardo infuocato, demoniaco.
“Le interessano le storie Bollywoodiane?” sentì alle sue spalle.
Era Mina, senza sari, solo un largo vestito verde bottiglia e un
foulard di seta arancione, a parte i numerosi bracciali, anelli,
orecchini e collane che tutte le indiane, sin da bambine,
indossano. Aveva anche un bindi sulla fronte, un piccolo pallino
di velluto rosso tra le sopracciglia.
“E’ indubbiamente un fenomeno interessante. Ho letto e visto
diverse cose sulla vostra industria cinematografica.”
“Dovrebbe vedere cosa succede dentro le sale! - disse lei
ridendo di cuore – La gente parteggia per il buono e arriva
persino a lanciare le scarpe sullo schermo quando appare il
cattivo.”
“Era così anche da noi, molti anni fa. Succedevano cose anche
più strane. Ricordo un cinema, Bomboniera si chiamava, in cui la
gente che stava sui palchi in alto amava sputare verso quelli che
stavano nella sala in basso. Giocavano ad una specie di tiro a
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segno. La cosa dava luogo a risse spaventose e non di rado si
vedeva baluginare nel buio la lama di un coltello.”
Così, tra un aneddoto e l’altro sull’universalità dei
comportamenti dell’animale uomo in condizioni ambientali simili
(la Old Delhi di oggi gli ricordava, a tratti, la Palermo degli anni
sessanta), arrivarono al ristorante scelto da Mina dove alcuni
musicisti eseguivano canti devozionali dal vivo. Durante la cena
lei si preoccupò sempre di spiegare cosa stavano mangiando e
come venivano preparati i cibi, almeno fino a quando Mapelli le
disse:
“Mina, svesta i panni della guida per favore. Si goda la cena.”
“Ok. Ascolti questo allora. Ho riflettuto sulla storia della
diversità.” disse prendendo del riso basmati dalla ciotola.
“Davvero? E cosa ne pensa?”
“Come le ho più volte detto oggi visitando Delhi, abbiamo
avuto diversi dominatori, portatori di culture e identità che noi,
come fosse la cosa più naturale del mondo, abbiamo assorbito
senza difficoltà integrandole con le nostre. Perché, al contrario di
quello che si pensa, l’India ha una forte radice eterodossa che
solo oggi qualche intellettuale particolarmente illuminato sta
cercando di mettere in evidenza. Ecco, forse questa è la nostra
vera diversità, un coacervo di culture e religioni diverse che non
consentono una definizione univoca di “India”. Ma oggi siamo
nell’era dell’economia globale che sta divorando tutto quello che
incontra sulla sua strada. Multinazionali, network internazionali,
corporation, sono conquistatori spietati, senza volto. Di fronte a
questo mostro invincibile non so dirle se saremo capaci di
mantenere la nostra identità. Certo è che molti di voi occidentali
continuano a venire qui per cambiare la loro, di identità.
Qualcosa vorrà dire.”
“Pensa che Venturi sia uno di questi? Mi ha detto che vuole
andare in Vietnam perché è certo di aver trascorso lì una vita
precedente.”
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“Forse. Non lo conosco abbastanza per dare un giudizio. Ma
di sicuro troverà molti occidentali negli ashram sparsi per l’India.”
“Cosa sono questi sciaram?”
“Si dice ashram, sono luoghi dove uno yogi insegna ai suoi
discepoli la via per la liberazione. Oggi sono pieni di uomini e
donne biondi con gli occhi azzurri.”
“E’ il segno della crisi di valori che affligge le società
industriali. Ma questo è un discorso vecchio, pensi alla new age.
Per me è solo un nuovo, fruttuosissimo, business.”
“Ha già deciso dove andare dopo Delhi?” chiese Mina un po’
stanca di quelle chiacchiere.
“Senta Mina – disse Mapelli imbarazzato – in realtà non sono
qui per turismo. Avrei preferito che lei non lo sapesse perché me
ne vergogno un pochino, ma sono uno di quegli occidentali che
viene in India a cercare un pò di pace. Banale, vero? Il fatto è,
come forse avrà capito, che non ci credo. In realtà non credo più
a nulla. Sono stato molto male in Italia e qualcuno mi ha
consigliato di andare in una clinica ayurvedica per riprendermi.
Al punto in cui sono, non ho nulla da perdere e così ho deciso di
provare, ma sono assolutamente scettico” concluse con un gesto
netto della mano.
“Non ha niente di cui vergognarsi, cercare la propria felicità è
dovere di ogni essere vivente. Ma il suo scetticismo rischia di
vanificare ogni esperienza che le capiterà di fare. Si abbandoni,
lasci che i suoi schemi mentali crollino per dare spazio al nuovo”
disse lei per nulla sorpresa da quella rivelazione.
Mapelli non disse niente, avrebbe preferito essere deriso per la
sua stupidità piuttosto che sentirsi consolato, e in ogni caso
sapeva già cosa aspettarsi da quelle sterili chiacchiere, il classico
duetto tra l’uno che svela il suo tormento e l’altro che cerca di
consolarlo con ricette di vita prese in prestito da qualche libro, o
dalle parole di qualche sant’uomo. Si rimproverò di non aver
saputo resistere al silenzio, di aver condiviso le sue debolezze
con un’estranea, ma, diversamente dal solito, ciò non influì sul
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suo umore che rimase allegro e ciarliero, al contrario di Mina che
cominciava a dare segni di evidente stanchezza.
La cena andò avanti accompagnata dall’ipnotizzante suono dei
canti mistici che si diffondeva nell’aria fino a quando Mapelli
non potè più ignorare i pur composti sbadigli di Mina.
“Mi sembra piuttosto stanca. Vuole andare via?” chiese
Mapelli.
“E’ un po’ tardi, in effetti, le spiace?” rispose lei non riuscendo
a trattenere l’ennesimo sbadiglio.
Mapelli si affrettò a pagare il conto e, offrendole il braccio con
un gesto volutamente comico, l’accompagnò all’automobile.
L’autista ripetè il percorso già fatto nel pomeriggio lasciando
prima Mina e poi lui.
“Ma lei non riposa mai?” chiese Mapelli all’autista prima di
uscire dall’automobile.
“Certo, dormo in macchina, tra una pausa e l’altra. E’ una
questione di abitudine.”
“Good night” disse Mapelli chiudendo lo sportello.
“Good night” rispose lui, il turbante ancora perfettamente a
posto come quando era venuto a prenderlo quella mattina.
Il giorno dopo Mina volle fargli conoscere la Delhi
commerciale. Lo portò in giro per i mercati, da Chandni Chowk
a Kaori Baoli. Ad ogni nuovo vicolo lei affrontava la folla
districandosi con perizia, mentre lui la seguiva come un’ombra
per paura di perdersi o di essere rapinato, e anche perché starle
attaccato era l’unico modo per sentire la sua voce che parlava di
spezie, tessuti o gioielli. Ogni tanto Mapelli veniva avvicinato da
un mendicante o da uno storpio che chiedeva l’elemosina. Mina
gli insegnò come fare a liberarsene.
“Se anche solo li guarda negli occhi per un attimo, loro
penseranno che sarà possibile avere di più di un semplice
sguardo. Non li guardi, si comporti come se non esistessero e
andranno subito via” disse lei tranquilla.
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“Ma è terribile! – rispose lui stupefatto da tanta indifferenza come si fa ad ignorare un uomo senza gambe che si trascina su
un carrellino fino a toccarti una caviglia per attirare la tua
attenzione?”
Come si fa coi bambini quando non riescono a capire le cose
più elementari, Mina alzò gli occhi al cielo, sospirò e, con tono
conciliante, gli disse:
“Preghi che con le sue azioni riesca in questa vita a migliorare
il suo karma, non si addolori per la condizione di quegli uomini,
è così che dev’essere.”
“Vuole scherzare?”
“Affatto. Gli indiani non considerano fare la carità come un
dovere. Per essi i poveri e gli storpi occupano il posto che la
legge karmica gli ha riservato in questa vita. Provi ad andare in
una chiesa cristiana qui a Delhi, troverà una lunga fila di
mendicanti. Sanno che per i cristiani la carità è una virtù da
perseguire e loro, semplicemente, ne approfittano. Piuttosto –
concluse - andiamo di là, ci sono le pashmine. Vorrà portarne
una a sua moglie, no?”
“Non tocchiamo quest’argomento” disse lui rabbuiandosi.
“Divorziato?”
“Separato. Molto separato” rispose lui
“Beh! Non si rabbui, io sono divorziata e vivo lo stesso. Anzi,
forse sto addirittura meglio.”
“Buon per lei” concluse lui fermandosi davanti ad un negozio
di pashmine.
“Ci ha ripensato?” chiese lei sorridendogli.
“No, ma vorrei regalarla ad una ragazza che mi ha salvato la
vita” disse pensando a Chiara.
“Venga dentro, la consiglio io” gli disse invitandolo ad entrare.
La mattina andò avanti così, tra spintoni, profumi inebrianti e
olezzi insopportabili, guadi di rivoli di acqua putrida, slalom tra
uomini distesi per terra a dormire, puzzolenti motorette cariche
di mercanzia e vecchi che pisciavano sui muri. Per pranzo
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preferirono mangiare una fetta di pizza in piedi e poi si sedettero
a riposare un po’ su una panchina del Lodi Garden.
“Come vive una donna divorziata in India?” chiese lui tirando
una boccata di fumo.
“Nelle grandi città, è una cosa possibile, ma ancora adesso
nelle campagne, come in passato, non c’è futuro per una donna
divorziata. Peggio che mai se vedova. Un tempo le vedove si
facevano bruciare, vive, insieme ai cadaveri dei mariti. Oggi è
considerato un reato dalla legge, ma gli uomini ci sono rimasti un
po’ male.”
“E’ terribile.”
“Già. Ma da quando le donne hanno cominciato a studiare, le
cose sono andate diversamente. Può suonare strano ad un
turista, ma ha riflettuto sul fatto che l’India è la più grande
democrazia del mondo?”
“No, confesso di no. Ma, se posso essere sincero, vedo più
anarchia che democrazia” disse Mapelli ironico.
“Non si faccia abbindolare da questa apparente
disorganizzazione sociale, non c’entra niente con la democrazia.
Piuttosto è vero che l’India ha un forte problema di
disuguaglianze sociali. Ma è l’ignoranza che fa ritenere
all’occidente che la democrazia sia una sua esclusiva creazione,
un modello unico che va esportato in tutto il mondo.”
Doveva essere un argomento che le stava particolarmente a
cuore, lo si notava dal rossore che cominciava ad apparire sulle
sue gote, dall’enfasi con la quale sottolineava alcune parole e dal
tono della voce che stava crescendo di volume.
“L’india ha avuto esempi regali in Ashoka e Akbar - continuò due imperatori illuminati che hanno fatto della tolleranza un
modello politico di sviluppo sociale. L’enorme mole di drammi
in sanscrito, poesie, prose e canti che mettono in ridicolo le
persecuzioni originate da una mentalità ristretta costellano la
storia dell’India. Persino nei testi sacri c’è spazio per le tesi
agnostiche e ateistiche. Ha visto che enorme varietà di gente
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abbiamo incontrato oggi? Ognuno vive la propria vita, dorme in
strada o vende gioielli, percorre la via della santità o lavora per lo
stato. E tutti hanno diritto alla loro vita, persino le vacche!”
concluse Mina con un gesto enfatico della mano a sottolineare
l’importanza del suo discorso.
“Ma se avete addirittura diviso la società in caste!” esclamò
Mapelli provocatoriamente, intenerito da quella donna così
determinata a mettere in evidenza l’ignoranza dello straniero
sulle cose della sua terra.
“Le caste sono state abolite da tempo” rispose lei con
sufficienza.
“Veramente stamattina, mentre aspettavo il suo autista, ho
letto i giornali locali, e ho trovato una decina di pagine dedicate
agli annunci matrimoniali. Mi sembra che siano divisi per caste,
no?”
Colpita – pensò Mapelli, ma lei parò il colpo reagendo:
“Le usanze sono dure a morire, lo ammetto. Ma ciò che
importa è che non siano avallate dalla legge. E’ una cosa
complicata. Non penserà di capire tutto dell’India in una sola
vita? Piuttosto, le consiglierò alcuni libri di scrittrici indiane, da
loro potrà imparare molte cose sull’India e gli indiani – concluse
lei alzandosi dalla panchina – che ne dice di andare un altro pò in
giro?”
Il suo sorriso di miele mise fine alla disputa. L’orgogliosa
Moghul lasciò il campo allo Shiva danzante.
Arrivò così il momento di Gandhi. Forse Mina lo scelse per le
discussioni avute al Lodi Garden. Probabilmente voleva
dimostrare a Mapelli le sue ragioni sulla democraticità dell’India
colpendolo allo stomaco. E, in effetti, ripercorrere i passi
impressi nel cemento che Gandhi compì prima di essere
assassinato fu un’esperienza carica di emozioni. Al Gandhi
Smriti tolsero le scarpe e si fermarono al pilastro che segna il
punto in cui fu ucciso. Lì Mina pregò con le mani giunte a
toccare la fronte e Mapelli, non riuscendo a pregare da decenni,
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si limitò ad abbassare rispettosamente il capo. Visitarono il
museo dove erano ricostruiti, attraverso infantili diorami, i
momenti più importanti della vita del Mahatma. Stettero in
silenzio per quasi tutto il tempo della visita, fu solo all’uscita che
Mina gli chiese se era stanco o volesse continuare.
“Vorrei vedere qualcos’altro, ma devo anche pensare ad
organizzare la mia partenza.”
“Beh! Ha ancora un altro giorno, no? E poi non mi ha ancora
detto dove andrà.”
Lui gli porse l’indirizzo della clinica di Amrutras che teneva nel
taschino della giacca. Lei lo lesse e sorrise.
“Non poteva scegliere meglio. E’ un famoso medico e un
sant’uomo. Facciamo così, adesso la porto al Lotus Temple, un
altro esempio di democrazia indiana – sottolineò con un sorriso
sornione - e poi, se vuole, penso io ad organizzarle il viaggio fino
in clinica. Ok?”
“Perfetto. E domani?”
“Sono con un gruppo organizzato. Li porto a vedere una
cerimonia per il compleanno di un vecchio Maharaja. Le
interessa?”
“Veramente no, ma non avrei di meglio da fare.”
“Ok, domattina passerà l’autista a prenderla. Adesso
andiamo.”
La visita al Lotus Temple fu sfiancante. Sembrava che tutto il
mondo si fosse dato appuntamento lì. Una fila di centinaia di
persone era in attesa di lasciare le proprie scarpe in un deposito
lungo il viale che conduceva al tempio. In una originale
costruzione all’ingresso, una serie di cartelloni spiegava che
quello era un luogo di preghiera per tutti i religiosi del mondo.
Ve ne erano altri sette, e tutti si ispiravano alla fede Baha'i,
religione mondiale indipendente che proclama l'unicità di Dio e
propugna il principio dell'unità dell'intera razza umana. Per il
tempio indiano fu scelto il fiore di loto perché veniva
considerato come il simbolo della manifestazione dell’unico Dio.
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“Benché le sue radici attecchiscano nella melma e nella
sporcizia, il loto emerge a fiord’acqua e la sua purezza rimane
incontaminata. Nel poema epico Mahabharata, Brahma, il diocreatore, ha come appellativo colui che è nato nel loto. Il mito trae
origine dal racconto in cui si narra come Brahma sia sorto da un
fior di loto spuntato dall’ombelico di Vishnù, mentre questi era
assorto in meditazione” diceva Mina indicandogli l’enorme
costruzione.
Mapelli ripensò agli chassidim incontrati in aeroporto e alle sue
opinioni sulla religione e la spiritualità. Un tempio all’unico Dio
non sarebbe mai sorto in Italia, né in Israele o in un qualunque
paese musulmano ortodosso.
“Stupidi” disse tra sé e sé.
“Ha detto qualcosa?” chiese Mina.
“Mi scusi, stavo riflettendo sulle religioni.”
“Beh, mi sembra il posto adatto.”
“Sa, dove vivo io c’è una folta presenza di immigrati cingalesi.
Hanno anche aperto diversi negozi e ristoranti tipici. Alcuni di
loro espongono tranquillamente insieme Cristo, dei Indù e Santa
Rosalia, la patrona della mia città.”
“Di dov’è lei, esattamente?”
“Di Palermo, in Sicilia.”
“Non so dove sia Palermo, ma della Sicilia ho sentito parlare.
Alcuni Maharaja, nei primi del novecento, hanno abbellito i loro
palazzi con ceramiche provenienti dalla Sicilia.”
“Davvero?”
“Certo.”
“Beh, la Sicilia dei primi del novecento era frequentata dalle
famiglie reali di mezzo mondo e da influenti aristocratici amanti
dell’arte, del clima mite e delle lussuose feste. Molte famiglie
nobili siciliane dilapidarono le loro ricchezze per fare bella figura
con gli stranieri. Non mi stupirebbe se anche un Maharaja ne
avesse approfittato” concluse Mapelli sorridendo.
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Dopo un’estenuante attesa, arrivò il loro turno e poterono
finalmente entrare nel tempio. L’originale costruzione sembra
galleggiare su nove specchi d’acqua, uno per ogni petalo del loto.
Dentro non vi era nessuna icona o simbolo, solo le nude pareti
di marmo italiano. Malgrado vi fossero dentro alcune centinaia di
persone, si sentiva solo lo strusciare dei piedi sul pavimento.
Sostarono pochi minuti in cui Mina pregò, come aveva fatto al
Gandhi Smriti, a occhi chiusi con le mani giunte mentre Mapelli
apprezzava la frescura prodotta dall’acqua che circondava la
costruzione perché, malgrado si fosse ormai a novembre, quel
giorno si sfioravano i 30 gradi.
Uscendo, si avviarono verso l’automobile dove il Sikh dormiva
a bocca aperta.
“Adesso, non le sembra che l’India sia la democrazia più
grande del mondo?” disse Mina entrando in macchina e
svegliando il Sikh con una scrollatina alla spalla sinistra.
“In questo momento riesco a pensare solo al mio letto in
albergo” rispose massaggiandosi la schiena dolorante.
“Allora è proprio vero, lei non crede a niente, è un inguaribile
scettico.”
“Le confiderò un segreto. In realtà mi imbarazza sostare in
luoghi di preghiera. Non so dirle il perché. Ma le giuro che provo
emozioni intense, anche se non lo dimostro.”
“Scommetto che lei non ama ballare” disse lei sicura.
“Come fa a saperlo?”
“Pregare e ballare sono due manifestazioni irrazionali, che
partono dal cuore. Lei esercita un controllo costante sulle sue
emozioni, non si lascia andare mai” disse facendo cenno
all’autista che si poteva partire.
“Dice?”
“E’ solo una mia opinione, non le dia molta importanza”
concluse lei scivolando sul sedile fino a poggiare la testa sullo
schienale. Chiuse gli occhi per un po’.
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Di nuovo il tramonto stava calando su Delhi e sul viso
perplesso di Mapelli, ammutolito dalle affermazioni di Mina.
“E’ una questione di Ego” riprese lei improvvisamente dando
un suono ai pensieri che, evidentemente, non avevano smesso di
frullargli per la testa. Gli raccontò che un eminente psicanalista
indiano di scuola freudiana sosteneva che gli orientali hanno un
Ego praticamente nullo. Così, tra l’Es, la parte inconscia della
persona, ed il Super Ego, l’ente censore, non vi sarebbe
praticamente niente. Dal momento che l’Ego è l’individuo e,
quindi, nega l’Assoluto, per un indiano l’unico Ego da perseguire
è l’Ego Cosmico, l’Unità di tutte le cose.
“Se io e te siamo, all’origine, una sola cosa – disse Mina con
enfasi - anelare di tornare all’Assoluto vuol dire che non ci
dev’essere né io né tu, non ci dev’essere, appunto, Ego.”
“Non sono sicuro di aver capito bene. Potrebbe ripetere?”
domandò Mapelli stordito da quella sventagliata di inaspettata
psico-filosofia.
Mina sorrise, si scusò e cercò di fargli degli esempi. Gli fece
notare che nella cultura occidentale l’individuo, quella parte della
psiche umana che i freudiani chiamavano Ego, è fortemente
sviluppato. Così la carriera, la proprietà privata, la realizzazione
individuale vengono tenuti in gran considerazione, addirittura
incentivati e protetti dalla legge. Ciò da luogo a strutture sociali
organizzate e regolate perché questi principi basilari vengano
rispettati da tutti. In India, migliaia di secoli di condizionamento
all’estirpazione dell’Ego hanno prodotto una società
all’apparenza caotica che incanta, e allo stesso tempo inorridisce,
l’occidentale che vi mette piede.
“Se non ho una mia individualità – continuò scandendo bene
le parole - posso essere portata a ritenere che non ho
responsabilità per ciò che mi succede attorno, e non hanno
senso regole sociali che mi impongano come vivere. In realtà la
società indiana ha una enorme quantità di regole, ma si tratta di
regole che riguardano lo spirito, la realizzazione del sé, quella
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parte eterna che dimora nei diversi corpi che la ospitano, di
reincarnazione in reincarnazione, da non confondere con l’Ego.”
“Interessante - disse Mapelli – non ne avevo idea. Ma lei ha
studiato filosofia?”
“Si, anche, dopo il divorzio. Le chiedo scusa per la mia
prolissità, ma pensavo che l’argomento potesse interessarla.”
“Non parli di prolissità a me, la prego. Ieri a cena sono riuscito
a sfiancarla.”
“Allora la prenda come una rivincita – disse lei ridendo – in
ogni caso stasera non le darò la possibilità di fare il bis, si va a
nanna presto, domani ci aspettano molte ore di viaggio.”
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7. Turisti e Maharaja
La mattina dopo Mapelli attendeva l’autista leggendo un
quotidiano italiano vecchio di tre giorni. Nessuna novità di
rilievo: governo e opposizione si accusavano reciprocamente di
disonestà portando ad esempio fatti vecchi e risaputi. Poi c’erano
le ondate di freddo eccezionali con i consueti allarmi della
Protezione Civile, intercettazioni telefoniche che producevano
animatissimi dibattiti sulle televisioni, una nuova edizione del
Grande Fratello. Ebbe appena il tempo di dare uno sguardo alle
notizie sportive dove un giornalista raccontava, con evidente
sarcasmo, di una Inter ancora alla ricerca di un modulo di gioco
efficace, che si sentì chiamare dall’autista Sikh.
Era il terzo giorno che lo incontrava e ancora non conosceva il
suo nome. Glielo chiese. “Ashoka, come l’imperatore” – rispose
lui, e avviò il motore dell’Ambassador.
Ancora Ashoka. Dopo la discussione avuta il giorno prima con
Mina, Mapelli aveva cercato informazioni su di lui sfogliando la
guida Lonely che si era portato dall’Italia. Gli indiani lo
veneravano ancora come l’imperatore che aveva fatto sua l'idea
di Buddha per cui ogni azione ha delle conseguenze
corrispondenti alla natura di quell'azione, e se si vuole creare un
mondo buono e giusto l'unico modo è attraverso azioni buone e
giuste.
“E’ stato un grande uomo l’imperatore, eh?” disse Mapelli
all’autista a scopo di sfruculìo.
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“Eh già! – abboccò subito lui - i politici oggi sono senza
morale, pensano che l'aumento della ricchezza debba essere
l’unico obiettivo di un governo. In questo modo, finché i
cittadini sono presi dal fare soldi e divertirsi, non
s'interesseranno mai di problemi morali. Altro che Ashoka!”
concluse dondolando sconsolato la testa.
A Mapelli venne da ridere pensando che i tassisti si
lamentavano dovunque e comunque, avessero un turbante in
testa o una coppola, parlassero cinese o francese. Forse perché
giravano tutto il giorno guardando il mondo dal parabrezza
come fosse un televisore e ogni corsa diventava un telegiornale
che dice sempre le stesse cose, comunque mai niente di buono.
Decise di non alimentare oltre quella discussione. Pronunciò un
già conclusivo e sottolineò l’intenzione riprendendo a leggere il
giornale italiano che si era portato dietro.
Mezz’ora dopo l’automobile si fermò nel parcheggio di un
lussuosissimo hotel dove Mina li stava aspettando accanto al
pullman che li avrebbe portati a destinazione. Per la prima volta
la vide in abiti occidentali: jeans, camicia e un leggero maglione
di cotone, i capelli corvini tenuti indietro da una semplice
fascetta elastica colorata. Si salutarono in fretta e lo invitò a salire
sul mezzo dove trenta sconosciuti turisti erano già al loro posto.
Appena il pullman partì, Mina prese il microfono in mano e
esordì con un ciao mondo! in inglese, tracciò per grandi linee il loro
itinerario e partì con una disquisizione sulla dinastia Moghul.
Nel giro di pochi minuti, Mapelli si appisolò sulla scomoda
poltrona, complice il sole che entrava dal finestrino che innescò
un soporifero effetto lucertola. Si svegliò, ignaro delle gesta
militari che avevano portato i Moghul a dominare l’India del
nord per diversi secoli, quando il pullman si fermò per una prima
sosta in un’area di servizio.
Fu la prima vera occasione di conoscenza dei compagni di
viaggio: due coppie di tedeschi attempati, un gruppo di giovani
spagnoli casinisti, un gruppone di ricchi coreani, una famiglia di
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piemontesi e una donna sola dall’aria di esperta viaggiatrice,
probabilmente inglese.
Dopo la fila per i bagni, fece un giro tra i banconi su cui era
esposta la consueta paccottiglia per turisti. I commessi
tallonavano speranzosi i potenziali acquirenti invitandoli a
constatare di persona la qualità delle meravigliose cianfrusaglie in
vendita. I primi ad abboccare furono i coreani, seguiti dai
tedeschi e dagli spagnoli, cosicché in pochi minuti si creò una
tipica atmosfera da bazar. Le esasperanti contrattazioni in un
inglese pressoché incomprensibile convinsero i restii ad uscire
fuori in attesa di ripartire. Fu allora che la famigliola di
piemontesi ritenne giunto il momento di stabilire un contatto
con l’unico italiano presente.
“Lei è italiano, vero?” chiese l’uomo occhialuto e pelato che
doveva essere il capofamiglia.
Mapelli assentì sperando, come aveva fatto Venturi, che non
gli facesse la fatidica domanda: di dove?
Mapelli sapeva per esperienza che dichiararsi siciliani in genere
portava, tra gli italiani del nord, a due tipi di reazione. Nella
prima gli interlocutori avrebbero esclamato immediatamente Ah!
Stupenda la Sicilia, ci sono stato in vacanza! Che luoghi meravigliosi! E i
siciliani poi, che popolo cordiale! Mi sono trovato benissimo! Oppure
sarebbe calato un leggero disagio, seguito da un lungo silenzio
che in genere si concludeva con un bella la Sicilia che in realtà
significava: e tu che ci fai qui? E’ proprio vero che infestate il mondo,
bastardi mafiosi. Bianco o nero, mirabilia o repulsione, ma tutt’e
due reazioni figlie della stessa madre, la diffidenza. Perchè i primi
pensavano che in fondo era meglio tenersi buoni dei potenziali
scansafatiche assassini, e i secondi che invece era meglio stabilire
da subito le distanze.
Il guaio era che Mapelli li capiva, perchè chi vedeva in
televisione le immagini degli arresti di quegli insignificanti omini
indicati come terribili capi mafia non poteva crederci, davvero
non poteva credere che un’intera regione fosse soggiogata dalla
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feroce avidità di quei nanerottoli ignoranti, e si convinceva che in
realtà ai siciliani andava bene così. Poteva sembrare, a chi fosse
nato lontano dalla Sicilia, che i siciliani non anelassero alla
libertà, ma che desiderassero solo un protettore, fosse un padre,
un onorevole, un barone o un mafioso che, insieme a Dio, li
rassicurasse. Come biasimarli? Era un meccanismo
comprensibile, un pò come l’esotismo degli occidentali nei
confronti dell’India. Cos’era l’India per gli occidentali? La
rigogliosa giungla di Kipling, il calore e la polvere di Yvori,
l’originalità di Gandhi, lo sballo nelle spiagge di Goa, la sporcizia
di Salam Bombay. E il guaio era che gli indiani avevano finito
per credere di essere come venivano rappresentati, così come i
siciliani si era convinti davvero di essere, in fondo, scansafatiche
e un pò disonesti.
Mapelli stava per rispondere alla fatidica domanda – italiano di
dove? - quando gli venne in mente un programma serale che una
televisione palermitana mandava in onda settimanalmente e che
lui seguiva con curiosità. Non certo per le notizie ed i servizi che
mandava in onda, quanto per una sorta di curiosità socioantropologica per quella sindrome chiamata “sicilianità”, che non
finiva mai di stupirlo, e che la trasmissione incarnava in tutte le
possibili sfaccettature conosciute, andando, a volte, ben al di là,
lasciando intravedere potenzialità ancora inesplorate dell’indole
dei siciliani, razza bastarda capace di produrre geni di
incomparabile bellezza insieme a terribili mostri davanti ai quali
Jack lo squartatore impallidiva.
Il conduttore era un tale Professore Cutò, uomo maturo dalla
voce calda e con una netta inflessione dialettale, profondo
conoscitore dei fatti di Sicilia e noto frequentatore di ristoranti
tipici e circoli aristocratici palermitani.
La sua faccia compariva spesso nei giornali locali a corredo di
articoli sull’origine della parola mafia, il crollo di un’importante
torre araba, un caso di malasanità usato come spunto per parlare
dei fasti della Palermo di cento anni prima, quando aristocratici
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inglesi e Zar russi la sceglievano per viverci o farci le vacanze.
Cutò concludeva sempre i suoi articoli o le quotidiane
apparizioni televisive chiedendosi come poteva essersi ridotta
così una città dai simili trascorsi, la città fenicia, greca, romana, la
città araba delle mille moschee, la sede del primo parlamento al
mondo, quel crogiolo di culture che era stata la corte di Federico
II. E lì giù con la litania della Sicilia martoriata, insanguinata, terra di
conquista, buttana della storia che passa di mano in mano, da un esercito di
invasori all’altro, e che da ognuno non ha imparato altro che la violenza, il
cinismo, il sopruso e l’arte del privilegio… Cos’è diventata oggi questa
nostra Sicilia? Qual è la vera Sicilia, quella delle mille moschee o quella dei
sanguinari feudatari? Quella della tolleranza di Federico II o quella dei
Prefetti piemontesi ignoranti e oppressori? Convivono le due anime, come
quelle di Falcone e di Riina, parallele e con la prima condannata a
soccombere sempre per via di un istinto irrefrenabile che la porta, pur
sapendo di non poter mai vincere, ad opporsi fino alla morte!
Questi i toni. Eppure, ogni volta che poteva, Mapelli si
sottoponeva a quella retorica ammuffita cercando di capire
qualcosa di più del posto dove era nato e viveva. E soprattutto
cercava di accumulare sufficienti motivazioni che lo portassero,
prima o poi, ad andare via senza rimpianti, in piena coscienza,
come aveva fatto suo padre.
“Sono siciliano, di Palermo” rispose alla fine.
“Bella la Sicilia” disse l’uomo senza tradire nessuna emozione
particolare.
“Già” rispose lui rassegnato.
“Noi siamo piemontesi, di Torino” continuò l’uomo.
“Ah! Stupenda Torino, ci sono stato in vacanza! Che luoghi
meravigliosi! E i piemontesi poi, che popolo cordiale! Mi sono
trovato benissimo, altro che polenta e bagna cauda, nient’altro che
stupidi luoghi comuni!” rispose Mapelli veemente.
L’uomo non se l’aspettava, ebbe un impeto d’orgoglio e decise
di concedergli un’informazione che a lui doveva sembrare di
vitale importanza:
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“Piacere, ragionier Bondi, faccio il commercialista.”
Decise addirittura di presentargli tutta la famiglia. Il figlio,
un’esatta riproduzione giovanile del padre, si era da poco
diplomato ed era subito stato inserito nell’azienda di famiglia. Il
ragioniere sottolineò la cosa dando una pacca sulla spalla del
giovane con evidente orgoglio. Poi completò le presentazioni
indicando la figlia, una grassa ragazza dai capelli rossi che
ricordava tanto la fidanzata di Shrek, l’orco verde di un film di
successo, studentessa al quarto anno di liceo, e la moglie,
un’esatta riproduzione invecchiata della figlia, che si dichiarò
orgogliosamente casalinga.
Mapelli ebbe appena il tempo di accennare gentilmente le sue
generalità che il suono del clacson richiamò la comitiva al
pullman. Felice della cosa, si affrettò a tornare al suo posto
augurando un buon proseguimento di viaggio ai Bondi. Fu
praticamente l’ultima volta che si parlarono, con evidente gioia di
ambedue le parti. Mapelli non potè fare a meno di sorridere
vedendoli dirigersi in fila per uno, secondo la naturale gerarchia
familiare, verso il pullman. Si muovevano in sincrono, con
l’andatura dei pinguini in migrazione: culo stretto, piedi a
novanta gradi, rigidi come bastoni.
Non ci posso credere – si disse – sembrano finti.
Il Maharaja compiva il suo settantesimo compleanno. Era uso
in India che i Maharaja festeggiassero i compleanni
pubblicamente offrendo alla popolazione del cibo per ricambiare
gli auguri che la gente gli porgeva personalmente. Ci vollero tre
ore per arrivare al palazzo del Maharaja che si trovava poco fuori
una piccola cittadina di cui Mapelli non capì il nome. Si trattava
di una costruzione armoniosa in stile rajput e moghul che si
affacciava su un lago artificiale fiancheggiato da due splendidi
padiglioni. Sia il palazzo che il lago erano circondati da un
curatissimo giardino con numerose fontane zampillanti.
Centinaia di persone erano in fila lungo il padiglione di sinistra,
in attesa di entrare nella sala reale dove il Maharaja in persona li
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attendeva seduto all’indiana su enormi cuscini. Mina raccontò
che il Maharaja non abitava più lì da diversi anni, ma in
occasione del suo compleanno il palazzo, ormai un museo per i
turisti di passaggio, lo riaccoglieva come legittimo proprietario.
Mapelli notò una particolare attenzione nei riguardi dei turisti
occidentali. La gente li invitava a scavalcarli nella fila con un
sorriso d’incoraggiamento accompagnato da un gesto gentile
della mano e il solito dondolio della testa. Mina disse che era un
gesto di riguardo verso gli stranieri e li esortò ad approfittarne.
“Non vorrà davvero farmi entrare lì dentro?” chiese lui
impaurito.
“Vuole perdere l’occasione di vedere un Maharaja in carne ed
ossa?”
“Ma non saprei cosa dirgli!” disse lui terrorizzato.
“Mi segua e faccia quel che faccio io. Vedrà che non la
mangia” disse lei divertita.
La cosa fu, in effetti, meno complicata di quanto poteva
sembrare. Il festeggiato, un vecchio panciuto con tanto di barba
e turbante riccamente vestito come si addice ad un Maharaja, lo
degnò appena di uno sguardo. Bastò imitare l’inchino a mani
giunte che Mina aveva poco prima eseguito elegantemente, e la
cosa finì lì.
“Ha visto? E’ un rito molto semplice che non prevede atti di
cannibalismo” disse lei appena fuori dalla sala avviandosi verso
uno spiazzo dove una banda vestita alla maniera circense,
suonava musiche dalla chiara origine inglese. Tra gli strumenti
c’era persino una cornamusa suonata da un sikh particolarmente
alto. Proprio di fronte alla banda sostava una bellissima Bentley
rossa decappottabile, l’auto con la quale il Maharaja era venuto
alla festa e che era appartenuta a suo padre. Si spostarono tra la
folla che aveva già reso omaggio al festeggiato e che stava, con
evidente piacere, approfittando del sontuoso buffet organizzato
sotto un enorme tendone ornato di petali di fiori. C’era gente di
tutte le estrazioni sociali. La maggior parte delle famiglie aveva
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più di cinque figli, in una potè contarne sicuramente otto, ma
probabilmente ce n’era qualcun altro perso tra i vassoi in cerca di
un ennesimo Samosa.
Mina gli porse un piattino di frutta mista. Masticando una
fettina di mango girò lo sguardo attorno a sé. Notò due eleganti
donne cariche di gioielli che parlavano tra loro sorridendo e
leccandosi voluttuosamente le dita untuose. Sullo sfondo, il sole
alto non riusciva a disperdere il sottile strato di umidità che
aleggiava sul paesaggio. Un soffio di vento fece aderire i sari
delle donne ai loro esili corpi. Mapelli ebbe un fremito ai genitali.
Erano anni che non gli succedeva. L’odore di fritto, curry e
chutney gli sembrò meraviglioso e un fremito più forte gli
percorse i testicoli. La voce di Mina interruppe quell’attimo di
ritrovata vitalità. Era ora di andare. Vide i Bondi rimettersi
gerarchicamente in fila. Non avevano assaggiato niente, neanche
una misera banana.
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8. Vittima della civiltà moderna
La mattina dopo, sceso nella hall per pagare il conto, intravide
Mina sorseggiare il suo tè seduta al bar dell’albergo. La raggiunse.
Si sedette e ordinò un caffè.
“Abbiamo cinque minuti, vero?” le chiese.
“Dieci, al massimo” rispose.
Fu particolarmente galante con lei, lesto a versarle altro tè, a
porgerle lo zucchero e qualsiasi altra cosa potesse servirle. A
tratti assunse un atteggiamento da cicisbeo che divertì Mina.
“Mi mancherà il suo sorriso - disse lui portando la tazza alle
labbra - e mi mancherà questo lusso.”
“Si ricrederà presto” rispose lei sorridendo.
“Lo crede davvero?”
“Certo! Finora è stato un semplice turista, adesso diventerà un
vero viaggiatore. E’ un bel salto di qualità!”
“Non so se ne ho la stoffa.”
“Amrutras sarà una rivelazione tale da farle passare queste
preoccupazioni” disse alzandosi.
Lo lasciò in aeroporto, davanti al chek-in, stringendogli
calorosamente la mano. Lui gli porse una busta chiusa con il suo
compenso più una lauta mancia.
“Grazie di tutto. Magari al ritorno la chiamo” le disse.
Lei piegò la testa come ad assentire, gli augurò buon viaggio e
si allontanò verso l’uscita.
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La seguì con lo sguardo. Decisamente quella donna gli piaceva.
Se solo fosse stato più intraprendente, avrebbe potuto tentare il
colpaccio. Peccato. Seguendo i maturi glutei di Mina che si
muovevano sotto il vestito sentì tornare il fremito al basso
ventre. Sorrise, contento che l’evento si fosse ripetuto. Era un
segno tangibile di desiderio, e se si torna a desiderare si torna a
vivere – pensò.
Un breve volo lo portò verso Jaiphur, dove un altro autista
l’aspettava fuori dall’aeroporto. Era un uomo grosso e dalla pelle
più scura di quelli che aveva incontrato fino ad allora. Parlava un
inglese elementare, appena sufficiente a capirsi. Il tragitto in
macchina fino alla clinica si rivelò lungo e difficile. Era chiaro
che ci si era ormai addentrati nell’India rurale, con le strade male
asfaltate e strette, i villaggi di paglia e fango lungo la strada e le
pile di sterco di vacca messe a seccare sugli usci. Alcune
produttrici di quell’indispensabile combustibile riposavano
solennemente di traverso alla strada incuranti delle automobili.
L’autista considerava tutto questo come assolutamente normale.
Ad ogni vacca incontrata si limitava a frenare più o meno
bruscamente e ad aggirare l’ostacolo, senza mai dare segni di
nervosismo, neanche un semplice sbuffo. E le vacche
sembravano consapevoli dei privilegi loro assegnati, altere
trasformatrici primordiali adibite ad arricchire la terra con la loro
preziosa merda e a dare fuoco dove la legna era una rarità. In
quei luoghi sperduti la roboante automobile, il più evidente
simbolo del progresso scientifico, doveva ancora inchinarsi alla
placida lentezza di una banale vacca, magra, stupida e
puzzolente, ma adorata come un dio.
Molte vacche dopo apparve il cartello dipinto a mano che
indicava l’ingresso alla clinica. Mapelli scese dall’automobile,
pagò l’autista e giunse le mani per salutarlo. Prese le valigie e si
voltò varcando l’ingresso.
Percepì un inizio d’ansia che somatizzò prontamente con una
leggera fitta al pancreas che l’accompagnò per tutto il breve
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vialetto che conduceva a quella che doveva essere la sala di
accoglienza della clinica. Si presentò ad un uomo con indosso
solo un dhoti e una maglietta bianca. Il dr Amrutras non era nel
suo studio. L’uomo gli riferì che era dovuto correre al capezzale
di un paziente e che sarebbe arrivato presto. Lo fece accomodare
all’ombra di uno spettacolare ficus dalle maestose radici aeree,
offrendogli tè e dolcini.
In quella mezz’ora d’attesa ebbe il tempo di riaversi dal viaggio
e di prendere confidenza con la nuova situazione. Tutta la clinica
sembrava svilupparsi attorno allo spiazzo centrale dominato dal
ficus alla cui ombra stava sorseggiando il tè. Su quello spazio
centrale si affacciavano diverse costruzioni in legno, tra cui una a
due piani. Tutt’attorno cresceva un rigoglioso giardino, dentro
cui si intravedevano i tetti di alcuni piccoli lodge, rustici ed
essenziali. Infine, un vialetto contornato da siepi conduceva ad
una graziosa e austera casa, con una piccola veranda esterna
piena di fiori. Avrebbe scoperto in seguito che quella era la
residenza di Amrutras e che viveva accudito da una giovane
donna, la sua allieva prediletta. Su tutto dominava un silenzio
rotto solo dal canto degli uccelli e il fremito delle foglie al vento.
Ogni tanto qualcuno usciva da una porta, attraversava lo spiazzo
e entrava in un’altra porta, oppure spariva inghiottito dal
giardino. Di certo non si poteva dire che ci fosse confusione.
Mapelli inspirò profondamente chiudendo gli occhi. Si chiese
se avesse fatto la cosa giusta. Di certo era un posto tranquillo,
ma lo colse la paura dell’adattamento ad una realtà così distante
dalla sua. Non ebbe il tempo di approfondire quell’accenno di
ripensamento perchè aprendo gli occhi vide un anziano uomo
procedere in sella ad un piccolo asino al cui seguito ve n’era un
altro, carico di borse e pacchettini. Fu il primo incontro con
Amrutras, subito accolto dai suoi assistenti che l’aiutarono a
scendere dal suo originale mezzo di locomozione prendendo in
carico i bagagli con estrema delicatezza. Amrutras portava un
Kurtà Pijama e sandali di cuoio. Aveva i lunghi capelli bianchi
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raccolti in un codino ritorto sulla sommità della testa, una
candida barba bianca e diversi anelli alle dita, tutti corredati da
splendide pietre preziose: ambra, corallo fossile, lapislazzuli.
Quando i suoi assistenti gli fecero cenno, lui si diresse verso
Mapelli con un’andatura ferma ed elastica. Se il viso rugoso
dimostrava tutti i suoi settantotto anni, il corpo si muoveva
come se ne avesse trenta di meno. Mapelli si alzò dalla sedia e
rispose al saluto a mani giunte pronunciando il rituale Namasté
che gli aveva insegnato Mina. Amrutras lo fissò con intensità.
Mapelli stava cominciando a parlare quando con un cenno gli
intimò il silenzio e gli mise una mano sul capo. Poi lo accarezzò
sulla guancia, gli sorrise e gli fece cenno di seguirlo. Si formò
così una piccola processione: davanti Amrutras, dietro Mapelli e
subito dopo tre giovani assistenti, o almeno questo sembrò che
fossero, due uomini e una donna. La processione si sciolse
dentro l’ambulatorio dove l’ospite fu posto al centro della stanza
e invitato a spogliarsi, mentre Amrutras gli girava attorno
scrutando ogni centimetro della sua pelle. Alla fine gli si parò
davanti, gli scrutò le palpebre, la lingua, i denti e le mani. Poi gli
prese il polso e pose tre dita sulla parte interna, come
auscultandolo. Chiuse gli occhi e si concentrò profondamente.
Ogni tanto aggiustava la posizione delle dita sul polso e
richiudeva gli occhi. Quando fu soddisfatto assentì col quel
caratteristico dondolio della testa che Mapelli aveva ormai
imparato a riconoscere. Andò alla scrivania, si sedette, fece
cenno agli assistenti di aiutare l’ospite a rivestirsi e cominciò a
scrivere qualcosa. In un silenzio rotto solo dal rumore della
penna sulla carta, passò un buon quarto d’ora prima che
Amrutras, in un buon inglese, dicesse qualcosa:
“Lei è la classica vittima di quella che chiamano civiltà
moderna: mente debole e confusa, fisico intossicato e
vulnerabile, corpo emotivo disequilibrato e instabile. Il suo
fegato è un serbatoio di tossine. Di sicuro soffre di ulcera
gastrica e depressione.”
71
Mapelli fece un gesto in direzione delle sue valigie rimaste
fuori. Pensò di mostrargli la cartella clinica del suo ricovero in
ospedale, ma non riuscì a dire una parola, stordito dalla
precisione della diagnosi. Come faceva a dire quelle cose se non
l’aveva mai visto prima? Non aveva neanche chiesto se
esistevano referti sulla sua condizione di salute. Rimase con la
bocca aperta e la mano a indicare le valigie.
“Vuole dirmi qualcosa?” gli chiese il medico gentilmente.
“I referti medici... li ho in valigia, ma non le direbbero nulla di
diverso” si limitò a dire Mapelli ricomponendosi.
“Non si preoccupi, li esaminerò con calma” rispose lui.
Poi continuò dicendogli che sugli squilibri fisici era possibile
intervenire con rimedi ayurvedici, un’alimentazione adeguata,
massaggi e bagni aromatizzati, mentre per quelli psichici ed
emozionali bisognava ricorrere allo yoga e alla meditazione.
“Ma si ricordi che l’evoluzione di un uomo comincia dalla
mente. Quando una mente si apre all’evoluzione, ad essa
seguiranno un maggior benessere fisico e un miglior equilibrio
emozionale. Bisogna prima risvegliare la mente” concluse.
“Ci vorrà molto tempo?” chiese Mapelli timidamente.
Amrutras rispose che ci sarebbero voluti almeno tre mesi per
ristabilire un equilibrio minimo. Da lì in poi sarebbe dipeso tutto
da lui. Poteva rientrare in una routine che l’avrebbe presto
ricondotto ad uno stato di squilibrio, oppure rendere permanenti
i cambiamenti modificando il suo stile di vita. Se avesse scelto di
rimanere, avrebbe potuto dormire nella foresteria al prezzo di
venti dollari al giorno, trattamenti e pasti compresi.
Accettò senza riserve.
Fu condotto alla casetta di legno posta a sud del giardino,
anch’essa con la sua piccola veranda e gli innumerevoli fiori.
Cominciò così la sua avventura dentro l’Universo di Amrutras.
72
9. L’Universo di Amrutras
Panchakarma. Esotica parola che evocava arcane pratiche
magiche, in realtà un trattamento di purificazione cellulare
diverso per ogni persona, perchè ogni persona ha un suo tridosha,
un proprio peculiare equilibrio tra i cinque elementi che
costituiscono l’universo e, quindi, anche l’uomo.
Sin dal primo giorno di trattamento, cominciò a dischiudersi
davanti agli occhi di Mapelli un affascinante universo alieno.
Disteso seminudo su un lettino, guardava Amrutras in piedi
accanto a lui spiegargli come sarebbe stata la sua vita nei
prossimi tre mesi.
I primi tre giorni avrebbe seguito un digiuno rotto solo da
alcune tisane e l’assunzione di erbe lassative. Successivamente
avrebbe cominciato la giornata con un generoso clistere e una
colazione leggerissima a base di semi di sesamo o ghee, burro
chiarificato. Per tutto il periodo di permanenza in clinica, invece,
sarebbe stato massaggiato con oli aromatizzati. Ai massaggi si
sarebbero alternati trattamenti diversi che Amrutras enunciava
con i loro originali nomi in sanscrito: sneehana, virechana, abhyanga,
ecc., e che Mapelli rinunciò subito a memorizzare.
A parte la sgradevole prospettiva di doversi infilare in culo la
cannula del clistere, fino a quel momento sembrò a Mapelli che il
programma dei trattamenti fosse tutto sommato allettante. Il suo
entusiasmo scemò un poco quando seppe che la sveglia sarebbe
stata all’alba, il pranzo a mezzogiorno e la cena alle sei della sera,
73
con pasti frugali per lo più a base di riso, lenticchie, soia verde,
verdure varie, frutta e acqua.
Così come ci si sarebbe preoccupati di purificare il corpo,
bisognava purificare anche la mente. A ciò sarebbero serviti, ogni
pomeriggio, le sessioni di yoga e meditazione. Infine, avrebbe
dovuto assumere quotidianamente i cosiddetti “rimedi”, misture
a base vegetale e minerale preparate all’istante, pestate in un
grande mortaio e dosate su un vecchio bilancino, necessari a
ricostituire il giusto equilibrio tra i suoi dosha. Così, da quel
giorno, ogni mattina Mapelli venne sottoposto alle lunghissime
abluzioni e ai delicatissimi massaggi con oli aromatici che gli
aveva preannunciato il medico.
Gli assistenti di Amrutras erano silenziosi ed efficienti. Tutto
quello che facevano assumeva un’aura rituale. Ogni volta che
potevano sostituivano alle parole una gestualità delicata ed
efficace, come se volessero preservare la sacralità delle loro
azioni dalla vacuità del discorso. Così, piuttosto che chiedergli di
stendersi, lo invitavano a farlo con un gesto sinuoso di ambedue
le braccia. E lui si stendeva con la delicatezza imposta dalla
situazione, abbandonandosi completamente alla loro abilità. A
volte qualcuno preparava una mistura di oli aromatici scaldandoli
in un vaso di terracotta, poi la mistura gli veniva lentamente
versata sulla fronte e da lì colava dentro un contenitore posto
sotto il suo capo da dove veniva recuperata per essere di nuovo
versata. Altre volte lo massaggiavano con oli tiepidi e
profumatissimi, dai piedi alla faccia, soffermandosi a lungo su
ogni arto, muscolo e articolazione, e Mapelli entrava in uno stato
di benessere tale che spesso si addormentava.
A parte la colazione, tutti gli ospiti della clinica che erano lì per
il panchakarma consumavano i pasti nei propri lodge, quelle
piccole casettine di legno immerse nel verde che aveva intravisto
al suo arrivo, composti da due camere, una con un letto, un
comodino, una sedia e un’asta fissata all’angolo tra due pareti che
fungeva da armadio aperto, l’altra con un semplice tavolo, due
74
sedie e una poltrona di corda. Il bagno era all’esterno, un casotto
in muratura con le pareti piastrellate fino al tetto in cui il water
consisteva in un semplice buco sul pavimento fortemente
inclinato. Per la doccia c’era un secchio, bastava riempirlo dal
rubinetto che spuntava da una parete e versarselo addosso,
l’acqua sarebbe defluita verso il buco-water.
Gli ospiti temporanei, invece, alloggiavano nella casetta di
legno a due piani lungo il cui perimetro correvano ariose
verande. La struttura poteva ospitare non più di dodici ammalati,
sei donne e sei uomini, ed era sempre piena. A volte Mapelli li
vedeva consumare i loro pasti in veranda, poco prima del
tramonto, e allora il silenzio della clinica veniva interrotto dal
loro chiacchierio e dalle loro risate. Seppe poi che non pagavano
nulla, chi poteva lasciava un’offerta, ma quasi tutte le spese
venivano coperte da ricchi benefattori indiani che volevano
scontare presto il loro karma su questa terra.
La paura di non riuscire a reggere quella vita spartana, priva
delle comodità alle quali era abituato, si manifestò solo come un
leggero disagio, soprattutto quando la mattina doveva riuscire a
centrare il buco sul pavimento del bagno reggendosi solo sulle
gambe. Si abituò presto, invece, ai ritmi basati sulla luce del
giorno, alla doccia col secchio e alla durezza del letto. Trovò
addirittura intriganti i pomeriggi di yoga e meditazione riservati a
chi seguiva il panchakarma. Quelle sedute pomeridiane erano
anche l’occasione per incontrare gli altri due ospiti della clinica
che erano lì a quello scopo: Mr Banajiri, un ricco uomo d’affari
indiano, e Muriel, una giovane canadese che, fosse pesata
cinquanta chili meno, si sarebbe potuta senz’altro definire
attraente. Gli incontri pomeridiani erano guidati dagli assistenti
di Amrutras, tra cui la misteriosa giovane allieva, ma a volte era
lo stesso Amrutras che conduceva le meditazioni. Quelle
diventavano occasioni particolari, poiché il vecchio medico
dispensava sempre una qualche occasione di riflessione, come
avvenne quel pomeriggio una settimana dopo il suo arrivo.
75
“Salute, felicità e santità sono le tre condizioni che
caratterizzano l’uomo – esordì Amrutras dopo essersi
comodamente seduto all’indiana su una pedana poco più alta del
pavimento - le prime due ci sono date, per diritto, alla nascita. La
santità è una condizione che possiamo raggiungere solo se lo
desideriamo, se siamo pronti per essa e se ci dedichiamo, con
abnegazione, al suo raggiungimento.”
Il ditino scettico di Mapelli si alzò a chiedere la parola.
“Mi scusi, ma se avessi avuto salute e felicità per diritto di
nascita non sarei mai venuto qui, non esisterebbero le malattie,
gli psicanalisti non sarebbero nelle classifiche dei professionisti
con i redditi più alti, la gente non si butterebbe dai ponti con una
pietra al collo” disse Mapelli infastidito da quelle parole per lui
senza senso.
“La vita che conduce è quella che desidera? – rispose lui
sereno - Qualcuno le vieta di realizzare i suoi desideri? I limiti
che crede di avere le sono imposti o sono sue creazioni mentali?
Lo sa che il suo corpo ha la capacità di auto-ripararsi se lei lo
mette nelle condizioni di farlo?”
“E il cancro? Anche quello posso riparare?”
“Il cancro è una reazione estrema del suo corpo quando non
ne può più di essere maltrattato.”
“Esistono le malattie genetiche.”
“Quello è un problema legato alla legge del Karma. Ma non
pretenda di capire tutto subito, lasci solo che la sua mente si apra
ad altre possibilità di interpretazione dell’Universo. Soprattutto
non creda solo a ciò che vedono i suoi occhi, esistono altre realtà
che la sua mente “vede” ma che scarta perché non le conosce.”
“Esistono prove a supporto di questa teoria?” insisté Mapelli.
“Il misticismo non si basa su teorie, è un’esperienza empirica
che si basa sulla ricerca individuale. Se si riesce a risvegliare tutti i
nostri sensi, e badi bene non sono cinque come le avranno
certamente insegnato, ma diciotto come imparerà, si possono
percepire piani dell’universo che altrimenti ci saranno negati.
76
Sono cose di cui si può discutere come stiamo facendo noi
adesso, ma la “prova” può trovarla solo attraverso l’esperienza
individuale, magari sotto la guida di qualcuno che le può indicare
quali tecniche utilizzare per raggiungere lo scopo, proprio come
sto cercando di fare io” concluse Amrutras con un tono della
voce che non ammetteva altre repliche.
Chiuso il discorso. Amrutras chiuse gli occhi dando così il
segnale per l’inizio del canto dell’OM, lasciando Mapelli con altre
mille obiezioni inespresse. Tutte le sedute cominciavano con
l’OM, una forma di concentrazione efficacissima che traeva
ispirazione dal suono della creazione, gli dissero, e che i cristiani
avevano trasformato, nel tempo, in Amen.
La sera spesso sostava nella veranda del suo piccolo lodge,
seduto su una sgangherata sedia, in mano una tazza con un
intruglio che doveva bere prima di andare a letto. A volte,
invece, preferiva leggere disteso sul letto i libri degli sconosciuti
autori indiani che Mina gli aveva imposto di comprare a Delhi,
quasi tutte donne dai nomi odorosi di spezie. Man mano che li
leggeva, lo prendeva la strana impressione che vi fossero dei
parallelismi tra la letteratura indiana e quella latinoamericana, e
ne restava sorpreso poiché non riusciva a cogliere l’origine di
quella sensazione. Ma nel consigliarlo sui libri da portare con sé
in clinica, Mina non aveva trascurato gli aspetti storicofilosofico-religiosi, così gli fece acquistare anche Tagore e un
libro sull’India “magica” che difficilmente avrebbe letto, ma che
aveva comprato per compiacere Mina.
Le giornate trascorrevano in uno stato di serenità assoluta,
ritmate da quelle attività fuori dal tempo di cui Mapelli
cominciava a sentire i benefici effetti. Nel giro di poche
settimane perse diversi chili e cominciò a sentirsi più agile ed
elastico. Le fitte al fegato diminuirono quasi fino a scomparire e
il desiderio di fumare si fece meno impellente (fumava solo
qualche sigaretta dopo i pasti, di nascosto). La pelle stava
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assumendo un colorito roseo e gli occhi, dal giallo bilioso di
quando era arrivato, cominciarono a diventare luminosi.
Se da quelle pratiche il fisico stava traendo indubbi benefici, la
mente, invece, entrò in uno stato conflittuale. Nei rari pomeriggi
in cui Amrutras conduceva la meditazione e gli esercizi di yoga,
Mapelli si opponeva inconsciamente al tentativo di sconvolgere il
mondo familiare in cui per cinquantadue anni si era mosso. Era
comprensibilmente difficile per un razionale professore di
chimica organica seguire quelle discussioni con serenità. Abituato
a concedere l’etichetta di “verità” solo a ciò che era
universalmente ripetibile, non riusciva a concepire l’esistenza di
verità percepibili solo attraverso i sensi, fossero anche diciotto e
non cinque. Ma non era forse anche quella una questione di
diversità? Decise così di assumere un atteggiamento rispettoso
per quel mondo a lui totalmente sconosciuto. In fondo ciò che
diceva Amrutras proveniva da una documentata cultura
millenaria e, visto che ormai c’era, tanto valeva imparare
qualcosa di nuovo, senza stare lì a rompere i coglioni con
continue obiezioni. E poi non l’aveva certo invitato Amrutras,
diventare suo paziente era stata una sua libera scelta.
Nell’Universo di Amrutras l’uomo era sulla terra per compiere
un cammino di consapevolezza. Il ciclo di reincarnazioni cui
ogni uomo è sottoposto per innumerevoli vite, ha il solo scopo
di consentire l’elevazione spirituale dell’essere ospitato dai diversi
corpi, affinché questo possa raggiungere uno stato di coscienza
cosmica e liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni, il Samsara. Lo
scopo finale era dunque la comprensione di tutte le cose e uno
stato permanente di divinità. Per aiutare questo processo
esistevano una serie di pratiche codificate dalle scritture sacre e
affinate dall’esperienza millenaria degli yogi. Ma non tutti
potevano avere accesso a questa conoscenza, bisognava essere
pronti a riceverla, e il solo fatto che lui si trovasse lì, in quel
momento, testimoniava, secondo Amrutras, che nelle sue vite
precedenti si era preparato a questo.
78
“Perchè non ricordo nulla delle mie vite precedenti?” chiese un
giorno Mapelli, stavolta senza nessun accenno di polemica.
“Perchè non ha ancora imparato ad accedere alla sua mente
superiore. La quasi totalità dell’umanità vive nel Chitta, lo stato
inferiore della mente, quello dominato dall’inconscio e dal
subconscio. Sprazzi di Manas, lo stato di coscienza di sé,
illuminano il suo cammino, ma per arrivare alla coscienza
cosmica la strada è molto lunga. Ho letto che in occidente alcuni
psicanalisti praticano la cosiddetta “regressione ipnotica”, una
tecnica che consente di accedere ad alcune informazioni non
coscienti delle proprie vite passate, ma ne so troppo poco per
dare un giudizio” rispose Amrutras.
Gli esercizi di yoga si basavano su particolari posture fisiche ed
il controllo della respirazione. Bisognava mantenere il fisico in
buona salute “perchè il corpo è lo scrigno dentro cui dimora il
vero sè, ed il respiro è l’essenza stessa della vita” - diceva
Amrutras. Nasciamo con un respiro e moriamo per assenza di
respiro. Solo l’osservazione di questo semplice fatto dovrebbe
bastare a farci capire che tutta la nostra attività vitale dipende dal
respiro. Amrutras sosteneva che esistono alcune centinaia di
modi per respirare e che ognuno di questi induce un particolare
stato di coscienza poiché influisce diversamente sulla frequenza
cellulare.
“Riflettete su questo: ogni volta che inspirate fate entrare
dentro di voi un frammento di universo e, viceversa, quando
espirate date qualcosa di voi all’universo” - diceva.
Il concetto era scientificamente corretto, ma se si coglieva il
lato spirituale di quelle parole, quella semplice constatazione
assurgeva lo status di rivelazione.
Altre volte Amrutras si lasciava andare a discussioni sulle più
recenti scoperte scientifiche che avvaloravano le tesi sostenute
dal misticismo orientale. Erano i momenti più belli per Mapelli
perchè ritrovava i codici del suo sapere e perchè aumentavano la
stima che cominciava a provare verso quel bizzarro uomo che
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non sembrava affatto mummificato sulle sue posizioni, piuttosto
dimostrava grande apertura verso tutto quello che potesse
aiutare l’uomo a comprendere, attingendo dai campi più disparati
del sapere.
Così dedicò un intero pomeriggio a parlare di olismo, sistemi
complessi, paradigmi olografici, dualismo interazionista, strutture
dissipative e campi morfogenetici, con una semplicità tale da fare
invidia a un divulgatore navigato. Si soffermava sulle teorie solo
il tempo necessario a spiegarne i concetti base, usando parole
d’uso comune e numerosi esempi pratici. Talvolta si divertiva a
raccontare un aneddoto particolarmente divertente, come fece
quando parlò della sincronicità di Jung, descrivendo il suo
burrascoso ultimo incontro con Freud. Per seguirlo non era
necessario capirne di scienza, il suo scopo era dimostrare che il
mondo intero si muoveva verso la stessa direzione, seppur con
tempi e modalità diverse: la comprensione del tutto interconnesso.
Mapelli chiese ad Amrutras come mai queste scoperte fossero
così poco conosciute dalla gente e se riteneva che vi fosse una
qualche forma di ostracismo del mondo scientifico verso tutto
ciò che potesse mettere in discussione lo status quo. No, rispose
lui, era solo una questione di linguaggio. Vi era un interessante
parallelismo tra il linguaggio della scienza moderna, in particolare
della meccanica quantistica, e il linguaggio del misticismo.
Ambedue richiedono una conoscenza specifica e codici
interpretativi esclusivi. Ciò li rende astrusi per il grande pubblico
e, di conseguenza, la loro diffusione tra la massa è molto difficile.
Come spiegare correttamente il concetto di Trinità del Divino? E
come quello di relatività secondo Einstein? Spesso i tentativi di
volgarizzazione sono destinati a fallire o a creare falsi miti. La
cosa ricordava a Mapelli le lezioni di catechismo della sua
infanzia, in cui si imparavano delle semplici prescrizioni da
seguire senza comprenderne il significato. Ma mentre era
impossibile, per chiunque non fosse un Fisico, assistere alla
scissione di un nucleo atomico in particelle elementari,
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qualunque uomo si applichi con disciplina potrà imparare a
sentire la circolazione di energia nel proprio corpo, individuarne
i blocchi e sperimentare come possa indirizzarla a suo
piacimento.
Mr Banajiri e Muriel non sembravano particolarmente stupiti
dalle parole di Amrutras. Se ne stavano tranquillamente nella
posizione del loto, gli occhi semichiusi, ad ascoltare senza porre
mai una domanda né sollevare un dubbio. Sembravano spugne
adagiate sul fondo dell’Oceano Indiano. Ma forse, pensò, erano
solo più abituati di lui a quei discorsi, pronti ad abbandonarsi a
qualcuno cui riconoscevano un’autorità indiscussa. Era, quello
del Maestro, uno dei temi che maggiormente irritavano Mapelli.
Sapeva che nella cultura orientale il Maestro è un’entità sacra, un
traghettatore indispensabile verso la conoscenza, i cui metodi, a
volte spietati, non sono mai messi in dubbio. In occidente,
invece, era il superamento del Maestro la prova inconfutabile del
successo personale, ed era ciò a cui si tendeva.
Le mattine dei giorni dispari, mentre gli ospiti della clinica si
sottoponevano ai massaggi, Amrutras riceveva i pazienti esterni.
Già all’alba si formava una lunga fila di gente di tutte le
estrazioni sociali che, seduta per terra, aspettava il proprio turno.
Qualcuno portava con sé analisi cliniche, radiografie e tac
eseguite in ospedale, dato che Amrutras li incoraggiava ad usare
le scoperte della medicina occidentale. Riteneva che l’evoluzione
umana non potesse fare a meno della sinergia tra le culture, e si
dispiaceva quando veniva a sapere che in ospedale alcuni medici
sconsigliavano ai propri pazienti di consultarsi con lui.
“Se è corretto sostenere che esiste una sola verità, è stupido
ritenere che esista una sola interpretazione di essa – disse durante
uno dei pomeriggi di meditazione – e ciò vale particolarmente
per le religioni. Immaginate Dio come un immenso lago al quale
si abbeverano tutti. Ognuno, a seconda del punto in cui sceglie
di abbeverarsi, avrà un paesaggio diverso da contemplare e,
81
quindi, un’idea diversa dello stesso lago e una diversa verità da
sostenere. Ma il lago è uno, sempre lo stesso.”
“Quindi basta spostarsi per scoprire che il paesaggio cambia”
disse Mapelli.
“Appunto. E scoprire che esistono molte altre interpretazioni
dell’unica verità, e tutte ugualmente vere” concluse Amrutras
con l’indice alzato davanti al suo naso, un sorriso compiaciuto
allo sguardo ebete di Mapelli che aveva perso il filo del discorso.
Si, perché Mapelli, nel profondo del suo cuore, non aveva
ancora deciso se considerare quell’uomo un emerito cialtrone o
un autentico illuminato. In ogni caso, mal sopportava l’evidenza
del fascino delle sue parole e il suo innegabile carisma. Sentiva
che le sue difese razionali non riuscivano a contrastare la
suadenza di quei ragionamenti, perché l’Universo di Amrutras
cominciava a sembrargli migliore del suo.
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10. La ricerca spirituale di Muriel
Una mattina, a colazione, Mapelli seppe che gli ospiti della
clinica avrebbero avuto un giorno di totale libertà. Niente
massaggi, né yoga, solo i “rimedi” da assumere regolarmente,
probabilmente una pausa prevista dal trattamento. Amrutras
comunicò loro che, se avessero voluto approfittarne, lo
sgangherato pulmino che la clinica usava per i rifornimenti
alimentari li avrebbe portati nella vicina cittadina. Mapelli accettò
con entusiasmo la proposta. Voleva telefonare in Italia e
sgambettare un pò in giro. Preparò velocemente uno zainetto
con le sue cose, indossò dei pantaloncini e una maglietta e si
avviò verso il pulmino. Lì trovo Muriel, la giovane canadese, già
seduta dietro, gli enormi glutei ad occupare buona parte del
sedile. Davanti stavano l’autista e un giovane inserviente, un
ragazzino vivacissimo che sembrava possedere il dono
dell’ubiquità. Durante le giornate in clinica lo si vedeva correre a
portare gli oli caldi ai massaggiatori, poco dopo in una stanzetta
intento a preparare un unguento verde, e ancora a pranzo a
distribuire sorridente il cibo per i lodge. Mapelli aveva maturato
una spontanea simpatia per lui, e gli chiese cosa andasse a fare in
città.
“Ne approfitto per stare un pò con mia nonna” rispose
contento.
“E’ da tanto che lavori per Amrutras?” gli domandò Mapelli.
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“Cinque anni. E’ stata mia nonna a convincere Guruji a
prendermi con sé” rispose lui orgoglioso.
Muriel gli chiese come si chiamasse: Vidur, rispose, era il nome
di un avo paterno, morto durante gli scontri tra musulmani e
indù, prima della creazione del Pakistan.
Vidur era un ragazzino dai grandi occhi scuri ed il corpo agile e
snello da furetto. Indossava sempre un paio di pantaloncini color
kaki e una maglietta rossa che lavava di sera, ogni tre giorni, per
poterseli rimettere, un pò umidi, l’indomani. Ai piedi portava
delle infradito di plastica due misure più grandi del necessario,
ma ciò non gli impediva di correre tutto il giorno come se
indossasse comode scarpe da tennis. Le parole di Vidur
risuonavano allegre nell’abitacolo del pulmino creando
un’atmosfera da gita scolastica e, nel giro di dieci minuti, la
discrezione ed il silenzio che la clinica induceva a considerare
come indispensabile all’efficacia della cura, fu del tutto
dimenticata. Man mano che il pulmino si avvicinava alla
cittadina, tra tutti i viaggiatori sgorgò senza nessuno sforzo una
discussione leggera e piacevole, proprio come quella che ci si
auspica possa avvenire tra compagni di viaggio appena
conosciutisi. Commentarono la bellezza del paesaggio e
l’austerità della natura, risero di gusto quando Vidur indicò loro
alcuni uomini defecare a lato della strada senza nessuna
vergogna.
La cittadina sembrava uscita da un documentario di Rossellini
sull’India rurale degli anni cinquanta: poca gente in giro, un
pulitore d’orecchie, una coppia di santoni rasta, gli immancabili
questuanti e alcuni mercanti di frutta che animavano i vicoletti
del centro. Non mancavano pittoreschi viaggiatori occidentali,
quasi tutti giovani alti e magri, lunghi capelli biondi, vestiti alla
hippy. Si ricordò degli Ashram nominati da Mina. In effetti, aveva
letto nella Lonely, quel luogo aveva a che fare con qualcosa di
sacro, ma non ricordava cosa. Si diedero appuntamento con
l’autista mentre Vidur scompariva veloce tra i vicoli, poi Muriel
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acquistò dei samosa in una piccola friggitoria ambulante, ne offrì
a Mapelli e si inoltrarono in un vicolo che sbucava su un
laghetto. Lì videro alcuni santoni distribuire la Puja, una specie di
benedizione che si concludeva con l’applicazione sulla fronte di
un piccolo bolo di riso e polvere di sandalo. Muriel pagò un
santone per averla mentre Mapelli si godeva lo spettacolo.
Terminato il rito, Muriel si sedette accanto a lui.
“E’ bello qui, vero?” disse sorridendo.
“Si, è molto esotico” rispose lui tranquillo.
“Sei sposato?” chiese lei senza preamboli.
“Separato. E tu?”
“No. Ma mi piacerebbe.”
“C’è sempre tempo.”
“Nessuno sposerebbe una balena come me.”
“Ma no, sei solo un pò in carne” disse lui per consolarla.
“Lo pensi davvero?”
“Certo. E poi sei anche molto bella” disse facendo finta di
studiare il suo viso.
“Grazie, sei molto gentile. Comunque ho già perso quattro
chili da quando sono qui.”
Muriel raccontò che era stata da Amrutras altre due volte negli
ultimi cinque anni. Amava viaggiare ed era un’attivista di
Greenpeace. La sua famiglia era molto ricca e lei, dopo gli studi,
aveva scelto di non lavorare, ma di dedicare la sua esistenza alla
salvaguardia della natura ed alla ricerca del suo vero sé.
“E l’hai trovato?” chiese lui ironico.
Lei lo guardò intensamente, poi il suo sguardo scese alla patta
dei pantaloni e disse lascivamente:
“Lo sto ancora cercando.”
Mapelli arrossì, girò lo sguardo verso il laghetto proprio
mentre uno stormo di aironi volava in formazione da una riva
all’altra. Pensò alla semplicità della natura umana. L’unica cosa
che riuscì a dire fu che doveva andare a cercare un telefono per
chiamare l’Italia. Lasciò una Muriel speranzosa sulla riva del lago
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e si avviò verso il centro dove trovò subito un international phone
dotato di collegamento internet. Non c’era da meravigliarsi. In
India c’erano internet points dappertutto, in particolare nei luoghi
frequentati da viaggiatori misticheggianti o grupponi in tour.
Decise che era meglio mandare qualche e-mail che telefonare.
Controllò se c’era qualcosa per lui e trovò solo cinquantadue
spam che pubblicizzavano riproduzioni fedeli di rolex, viagra,
pomate ritardanti e proposte di investimenti imperdibili.
Selezionò i messaggi, premette “elimina”, confermò l’operazione
e si accinse a scrivere una brevissima mail a Sandra – Sto bene.
Ciao - e una lunga descrizione della clinica a Laura che si
concludeva con un patetico papà ti vuole bene. Stava per andare via
quando gli venne in mente Carmine e una vecchia parodia che
amavano inscenare al telefono quando erano compagni di liceo.
Buttarla sul comico gli sembrò un buon modo per rassicurare
l’amico sul suo stato di salute, così si concentrò un attimo e
iniziò a scrivere: messaggio dall’astronave del capitano Spencer alla base
UNO sulla terra. Il nostro viaggio verso la nebulosa di Feton continua tra
mille difficoltà, ma lo spirito dell’equipaggio è buono. Siamo pronti ad
affrontare qualsiasi pericolo. Abbiamo incontrato diverse entità aliene che
hanno messo a dura prova la nostra integrità mentale, ma le abbiamo
affrontate con onore e lealtà, sempre pronti a creare nuove alleanze nel
rispetto delle reciproche diversità. Se solo potessimo avere un buon piatto di
spaghetti e un bicchiere di vino rosso! Viva la Federazione. Firmato:
capitano Spencer.
Inviò la mail, disconnesse il collegamento e andò a pagare le
poche rupie previste. C’era stato un tempo che tra loro,
appassionati di Star Trek, comunicavano solo così. Fu un tempo
felice, il tempo del cazzeggio ad oltranza fine a se stesso.
Con un accenno di sorriso stampato sulle labbra passò il resto
del tempo a ciondolare per i vicoli affollati fino all’ora
dell’appuntamento. Il pulmino era già al suo posto con tutti i
componenti la comitiva dentro. Salì, salutò tutti e si lasciò
sprofondare sul sedile. Muriel gli dedicò un sorriso
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particolarmente dolce, per un attimo sembrò addirittura che
volesse carezzargli la mano, ma non lo fece, piuttosto poggiò la
testa al finestrino: sembrava godere di quella gente che spruzzava
di colore i polverosi vicoli della cittadina.
Quella stessa notte, mentre Mapelli dormiva sognando
Amrutras che gli praticava una trapanazione al cranio, Muriel
entrò nel suo lodge, si distese accanto a lui e cominciò ad
accarezzargli i testicoli. Prima che si rendesse conto della cosa,
Muriel aveva approfittato dell’erezione riflessa prendendogli in
bocca l’orgoglioso muscolo risvegliatosi, non senza sorpresa, dal
letargo cui sembrava ormai condannato per l’eternità, malgrado i
flebili segnali di vita manifestati alla festa del Maharaja. Mapelli
aprì gli occhi, sollevò appena la testa e capì che non stava
sognando Amrutras che tentava di evirarlo, ma erano i denti di
Muriel che lo mordevano delicatamente. Per un attimo pensò di
chiederle di smettere, ma lei prese a far roteare la lingua sul
prepuzio e, allora, ogni resistenza cadde. Tra rivoli di sudore e
rotoli di cellulite si presero con foga animale due, tre, quattro
volte, davanti e di dietro, di sopra e di sotto, fino a lasciarsi
andare, sfiniti, l’uno accanto all’altra.
“Scusami per prima, per la foga ti stavo schiacciando” disse lei
ansimando ancora.
“Quando? Mentre eri sopra?” chiese lui.
“No, quando mi prendevi da dietro e ho perso l’equilibrio
sedendomi su di te.”
“Ah! In effetti sento un pò di dolore alle ginocchia” disse lui
minimizzando la cosa.
“Era un pò che non lo facevo - disse lei sospirando di
soddisfazione – almeno due mesi.”
“Ma dai! Anch’io! Che coincidenza interessante” disse lui
mentendo spudoratamente.
“Mi è piaciuto quando mi hai leccata, sai? Se non fossi sfinita ti
chiederei di farlo di nuovo.”
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“Grazie, in effetti è la cosa che mi riesce meglio. Non sono
mai stato bravo nelle grandi manovre, preferisco concentrarmi
su una cosa e lavorare di fino.”
“Senti, anche se sono sfinita vorrei che mi leccassi ancora un
pò” disse lei sorniona.
Lui le sorrise, le spalancò le grosse cosce burrose, inspirò
l’odore acidulo del suo sesso, si fece spazio tra la folta peluria
fino a scoprire le grandi labbra simili a fettine di manzo, trovò il
clitoride arrossato dalle fatiche amorose e cominciò a leccarlo,
delicatamente.
“Ogni volta che ne lecco uno mi viene in mente uno spicchio
di mandarino umido” disse tra una lappata e l’altra.
Continuò, sfiorandola appena, fino all’atteso urletto di
godimento, poi le richiuse le fettine di manzo, le pettinò i peli
con le dita facendoli convergere verso la fessura, le richiuse le
burrose cosce, si distese accanto a lei e si addormentò. All’alba si
svegliò solo. Di lei rimase solo l’enorme impronta sul materasso.
Dopo quella notte ci furono altri due incontri infuocati da cui
Mapelli uscì definitivamente distrutto. A bloccarlo fu una
lombalgia che si beccò quando, preso dalla foga, tentò di
sollevare Muriel dal fondo schiena per penetrarla più
profondamente. Rimase fermo tre giorni durante i quali gli
vennero sospesi i massaggi e gli fu prescritto riposo assoluto. Il
quarto giorno si presentò al lodge Amrutras in persona con la
sua giovane assistente, gli praticò con le dita una decisa pressione
in alcuni punti della schiena e poi gli chiese di provare a
camminare. Il dolore si sentiva appena.
“Bene. Domani potrà riprendere i trattamenti. Per qualche
giorno ancora eviti comunque sforzi repentini, come ad esempio,
quelli che si compiono facendo sesso.”
“Sesso? – rispose lui arrossendo – non vedo come...”
“Il mio era solo un esempio – lo interruppe Amrutras
togliendolo dall’imbarazzo – dovrà invece intensificare lo yoga,
in particolare alcune posture per rafforzare i muscoli della
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schiena. Le insegnerà Abha” – disse indicando la giovane
assistente.
Quando quella stessa sera Muriel si ripresentò, Mapelli le disse
che non poteva rischiare di saltare altri trattamenti. Niente
penetrazioni, solo sesso orale. Lei sembrò accontentarsi per
qualche altra notte fino a quando non resistette alla tentazione di
cavalcarlo mettendosi dentro il famoso muscolo ormai passato
dall’orgoglio alla vanità. Ma al primo movimento di lei si sentì
nell’aria un lieve crac, un rumore simile ad una patatina fritta
quando viene stritolata tra i denti. Lei si immobilizzò
immediatamente, come fosse diventata una statua, lo sguardo
terrorizzato. Lui spalancò gli occhi e disse:
“Sono stato io?”
“Non lo so, ma sarà meglio fermarsi”
Si alzò delicatamente sulle cosce e, non appena il suo peso
sgravò il corpo di Mapelli, si risentì lo stesso sinistro crac.
“Si, sono stato io” disse lui sospirando.
“Hai dolore?” Chiese lei con un filo di voce.
“No. Magari qualcosa si è spostata e adesso si è rimessa a
posto. Provo a muovermi.”
Si mosse come fosse stato di cristallo, ma non successe nulla,
nessun nuovo crac né alcun dolore.
“Vuoi che ti faccia venire lo stesso?” chiese lei, ma il vanitoso
muscolo era ormai ridotto ad una misera polpetta.
“Grazie, ma credo sia meglio lasciar stare” rispose lui a disagio.
E così, le notti di sesso sfrenato finirono. Muriel non si fece
più vedere e Mapelli ebbe addirittura l’impressione di vederla
sgattaiolare, una notte di luna piena, nel lodge di Mr Banajiri.
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11. Mr Banajiri e il kamasutra
Un tempo i brahmini si rifiutavano di parlare ai curiosi
viaggiatori occidentali che si recavano in India per conoscere il
misticismo indù. Consideravano la cosa come un fastidio da
evitare accuratamente poiché ritenevano che, per quanti sforzi
fossero disposti a fare, quegli uomini dalla carnagione
trasparente non avrebbero potuto capire. Quei pochi che
accettavano di farsi intervistare lo facevano con un
atteggiamento paternalistico, giocando con l’intervistatore come
il gatto col topo. Mr Banajiri adottava verso ogni straniero lo
stesso atteggiamento di superiorità.
Ricco uomo d’affari di Calcutta, si recava da Amrutras ogni
volta che poteva. Si trovava in quella fase della vita in cui un
buon induista avrebbe dovuto abbandonare gradualmente la
famiglia ed il lavoro per dedicarsi alla vita spirituale.
Teoricamente, appena pronto avrebbe dovuto lasciare il mondo
per recarsi, in solitudine, nella foresta alla ricerca di sè e
prepararsi ad una morte dignitosa.
Ma questa era letteratura. Nella realtà ciò avveniva raramente e
solo i più illuminati si limitavano a frequentare periodicamente
gli ashram di maestri come Amrutras.
Piuttosto alto di statura, asciutto e olivastro di pelle, portava
un bel paio di baffi che curava con evidente affetto. Girava per la
clinica con indosso kurta pijama bianchi sempre ben puliti e in
ordine.
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I rapporti tra Mapelli e Mr Banajiri si limitavano ad un educato
good morning la mattina e ad un altrettanto educato good night la
sera, almeno fino a quando l’indiano non ebbe bisogno di lui,
cosa che avvenne una sera in cui Mapelli stava fumando una
delle sue ultime sigarette italiane sul retro del lodge, nascosto tra
i cespugli. Non appena sentì bussare alla sua porta gli andò di
traverso il fumo e, preso dal panico di essere scoperto, spense
subito il corpo del reato e si lanciò di corsa, rosso in viso e
tossendo come un bue, ad aprire.
“Posso aiutarla?” gli chiese Mr Banajiri vedendolo in quelle
difficoltà.
“Mi scusi – rispose Mapelli tra un colpo di tosse e l’altro –
adesso passa.”
Gli fece cenno di accomodarsi all’interno, ma Mr Banajiri
preferì sedersi in veranda dove aspettò che Mapelli finisse di bere
un bicchiere d’acqua e si riprendesse dalla crisi.
“Vuole che torni in un altro momento?” domandò.
“La prego rimanga – rispose lui – mi sono affogato come uno
stupido inghiottendo la mia stessa saliva. Posso fare qualcosa per
lei?”
L’indiano si lasciò andare ad una interminabile serie di scuse, si
classificò come inopportuno e invadente, ma alcuni eventi
imprevisti l’avevano costretto ad approfittare della pazienza di
Mapelli nella speranza che potesse bonariamente aiutarlo a
risolvere il problema. Fu con evidente disagio che riuscì
finalmente ad esporre la questione: si trattava di Muriel. Da
quando aveva smesso di frequentare il letto di Mapelli non aveva
più lasciato in pace Mr Banajiri. Sapeva della loro breve relazione
non perché li avesse spiati, per carità! Non pensasse questo di lui,
ma perché era stata lei ad accennarglielo. Adesso la canadese
pretendeva di provare con un vero indiano tutte le posizioni del
Kamasutra. Erano giunti solo alla quinta e Banajiri già non ce la
faceva più.
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“Anche se mi mantengo in forma, ho comunque i miei
sessant’anni. E poi questa donna mi distrae dal panchakarma e
dai miei esercizi spirituali. La prego, mi dica come ha fatto a
liberarsi di lei!” chiese quasi inginocchiandosi a Mapelli.
“Il mio caso è diverso dal suo – rispose Mapelli – io ho ceduto
strutturalmente, non mi sono potuto muovere per qualche
giorno, quanto è bastato perché lei cercasse altrove di soddisfare
la sua ricerca del sé. D’altra parte devo concordare con Muriel
che non c’è niente di meglio di un vero indiano per provare il
Kamasutra” concluse accennando un sorriso colpevole.
“La prego, non mi prenda in giro! – lo supplicò l’indiano - lei è
un occidentale, saprà meglio di me come si fa a rifiutare le
prestazioni sessuali di una canadese in calore senza ferire il suo
orgoglio!”
“Come avrebbe fatto con un’indiana?” gli chiese Mapelli.
“Con un’indiana tutto questo non sarebbe mai successo,
almeno non con queste modalità!” rispose lui quasi risentito.
“Non so come funzioni con le indiane, ma non credo che lei
possa uscire da questa situazione senza ferirla. A meno che…”
“A meno che, cosa?” chiese lui pendendo dalle sue labbra.
Mapelli volle godere un po’ di quella situazione d’attesa.
Guardò Banajiri, gli occhi cerchiati dalle fatiche erotiche, gli
angoli delle labbra pietosamente rivolti verso il basso, le braccia
abbandonate lungo i fianchi.
“A meno che, cosa?” ripetè l’indiano con più enfasi.
“Le conceda ancora una notte d’amore. Scelga una posizione
complicata, di quelle a testa in giù o cose simili, poi faccia finta di
farsi male alla schiena, e il gioco è fatto. Certo, dovrà stare
qualche giorno a letto, ma ne vale la pena” concluse Mapelli
soddisfatto.
“Non vorrei che la cosa si ritorcesse contro di lei. Potrebbe
tornare all’attacco.”
“Stia tranquillo, mi sembra il tipo sempre a caccia di novità. E’
più probabile che provi a insidiare qualche energico
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massaggiatore, e non può che andarle meglio che con noi due,
non crede?”
Risero della battuta. Banajiri si rilassò. Accettò persino una
tisana allo zenzero.
“Pensavo che la ricerca spirituale escludesse i rapporti sessuali”
disse Mapelli curioso.
“Perchè mai?” – rispose lui – il sesso può essere uno dei
veicoli più efficaci per trovare il divino. Conosce il tantrismo?”
gli chiese.
“Si, dimenticavo” rispose Mapelli ricordandosi di aver letto
qualcosa sulla Lonely.
Parlarono un pò di tantrismo e jainismo, un’altra originale
derivazione dall’induismo i cui seguaci giravano per strada con
una benda alla bocca per non uccidere moscerini e
microrganismi presenti nell’aria. Ma la discussione si interruppe
presto, Mr Banajiri non voleva fare tardi perchè da lì a poco
Muriel sarebbe sgattaiolata nel suo letto e lui voleva essere
pronto per la sceneggiata.
“Vada, vada, ne parleremo un’altra volta” disse Mapelli
incoraggiandolo con un gesto delle mani. Lui fece qualche passo,
poi si girò a guardarlo e gli fece un sorriso complice, come un
ragazzino che si accinge a fare una marachella.
L’indomani non lo videro a colazione. Vidur raccontò loro che
Mr Banajiri sarebbe rimasto a letto qualche giorno per uno
strappo muscolare. Mapelli guardò Muriel e l’apostrofò con
l’indice teso. Lei allargò le braccia, sconsolata.
Nelle serate successive Mapelli andò a trovare spesso Mr
Banajiri il quale, da quando condividevano il segreto di Muriel,
sembrava aver superato la diffidenza iniziale verso lo straniero.
Per lo più discutevano amabilmente sorseggiando tisane, ma a
volte capitava di avventurarsi in accesi confronti su temi come la
situazione politico-economica in cui si trovava il mondo all’alba
del terzo millennio. A tale proposito Banajiri sosteneva che il
tramonto dell’imperialismo occidentale fosse vicino. Segnali
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chiari indicavano che l’India e la Cina avrebbero sovvertito le
gerarchie economiche mondiali e che ad essi presto si sarebbe
affiancata l’Africa. Pur trovandosi spesso d’accordo con lui,
Mapelli mal tollerava il tono usato dall’indiano. Un certo
esibizionismo culturale lo induceva ad una saccenza lapidaria e
bigotta. Come quando si lasciò andare a disquisizioni filosofiche
sulle origini della cultura occidentale.
“I primi filosofi greci, dalla Scuola di Mileto ad Eraclito,
avevano avuto diversi contatti con l’Oriente. Recenti scavi
archeologici ce lo dimostrano. La loro rudimentale filosofia non
era altro che una mera rielaborazione dell’idea propria del
mondo orientale, e cioè che l’Uno e il Tutto, lo Spirito e la
Materia, coincidessero. Solo successivamente si affermò la
convinzione che le due cose fossero distinte, e da lì nacquero le
premesse per una concezione del mondo suicida che ha
generato, nei secoli, fenomeni tipicamente occidentali come la
distruzione cieca della natura e dei suoi equilibri” concluse
soddisfatto Banajiri.
“Non è che voi siete messi meglio in fatto di inquinamento,
anzi” disse Mapelli provocandolo.
Ma era inutile insistere, quando la discussione raggiungeva
livelli di vivacità eccessiva, Banajiri chiudeva gli occhi e quando li
riapriva assumeva un fare paternalistico e accondiscendente.
Tutto il suo corpo sembrava dire non capirai mai. D’altra parte
Mapelli non era da meno, durante quelle discussioni finiva per
pensare di Banajiri le cose più terribili, come stupido brahmino o
fottuto indiano del cazzo. Ma a parte questi momenti di tensione, tra
i due si era stabilito un rapporto cordiale e, anche se non lo
avrebbero mai ammesso, di curiosità reciproca. In fondo era da
quasi un secolo che gli uomini tentavano di trovare una sintesi
tra Oriente e Occidente. I discorsi di Amrutras sulla fisica delle
particelle elementari ed i parallelismi con il misticismo orientale
non erano casuali. Era un fatto che mentre in Occidente si
diffondevano sempre di più pratiche tese a recuperare una
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dimensione più spirituale della vita, dall’Oriente venivano i
migliori tecnici informatici del mondo. Probabilmente quella
sintesi era in corso di realizzazione – si diceva Mapelli discretamente e senza accordi preordinati. Probabilmente
l’umanità non poteva che percorrere quella strada, suo malgrado
e più o meno consapevolmente. D’altra parte, se la
globalizzazione economica sembrava risolversi in una
sottomissione del mondo all’impero delle corporation e delle
multinazionali, era anche vero che portava con sé alcuni effetti
collaterali che avrebbero potuto scardinare, alle radici, i principi
stessi dell’Occidente. Tra questi, la contaminazione culturale
poteva rivelarsi la più decisiva, perchè nel tempo si sarebbero
mostrate più forti le culture capaci di fare della contaminazione
un valore aggiunto. Era già avvenuto in Giappone molti anni
prima, e ora stava avvenendo in Cina come in India.
Gli incontri serali tra i due finirono improvvisamente, così
com’erano cominciati, senza un motivo apparente. Mapelli pensò
che probabilmente si era esaurita la vena di curiosità che li aveva
attratti o che forse, da quando si erano accorti che Muriel aveva
messo gli occhi su un giovane massaggiatore keralese dalla pelle
particolarmente scura e, almeno a giudicare dal volume della
protuberanza sul davanti del perizoma, sessualmente esagerato,
semplicemente non trovarono più niente che li potesse legare,
neanche un banale segreto condiviso come l’odore del sesso di
una donna.
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12. Vidur e il curry di melanzane
“Vidur, puoi farmi un favore?” chiese Mapelli al ragazzo proprio
mentre questi gli passava velocemente davanti, semisommerso
da un grosso sacco caricato sulle spalle che stava portando chissà
dove.
“Certo signore” gli rispose lui posando agilmente il sacco per
terra.
“Ho bisogno di spedire questa lettera. Puoi occupartene tu
appena vai al villaggio?”
“Va bene” rispose cacciandosi la lettera e le rupie che Mapelli
gli aveva messo in mano nella tasca posteriore dei pantaloncini.
Stava per rimettersi il sacco in spalla quando Mapelli lo fermò di
nuovo.
“Aspetta. Sai tenere un segreto?” gli chiese guardandosi
attorno.
“So essere più muto di una statua, signore.”
“Vorrei un pacchetto di sigarette, di qualunque marca, purché
non siano al mentolo” disse dandogli altre rupie di nascosto.
“Le ho qui con me. Ne tengo una scorta per gli ammalati che
non possono muoversi. Le rivendo guadagnandoci qualcosa. Le
piacciono le bidi?”
“Sono al mentolo?”
“No signore, solo tabacco.”
“Vada per le bidi.”
“Gliele porto stasera, quando tutti vanno a dormire.”
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“Grazie. Acqua in bocca, mi raccomando.”
Man mano che trascorrevano i giorni, tra Mapelli e Vidur
nacque una simpatia che li avrebbe portati lontano. A volte,
dopo cena, quando le attività della clinica subivano un naturale
rallentamento, si poteva vederli sostare una mezz’ora su una
vicina collinetta a chiacchierare del più e del meno. Da lì si
godeva il panorama su tutta la vallata circostante fino alla
macchia indistinta della non lontana cittadina. Il ragazzo aveva
sempre qualche curiosità da soddisfare sulla frenetica vita in una
città occidentale, una realtà per lui lontanissima intravista solo su
foto di riviste e qualche sfuggente immagine televisiva. Per
Mapelli, invece, quegli incontri sortivano l’effetto di mitigare la
nostalgia delle lunghe chiacchierate che faceva con Laura quando
questa aveva l’età di Vidur, un’abitudine alla quale aveva
rinunciato da tempo ma che gli aveva lasciato come una lontana
sensazione di perdita, una tenue mancanza, che non l’aveva più
abbandonato.
Durante quelle gradevoli discussioni, Mapelli apprese che
Vidur era nato dodici anni prima nella vicina cittadina. Aveva
perso i suoi genitori all’età di sei anni, travolti da un camion
mentre tornavano a casa dai campi. Di loro conservava una
memoria confusa, né c’erano foto che lo potessero aiutare a
ricordare. A parte qualche immagine sfuocata che ogni tanto
emergeva nei sogni di bambino, l’unica memoria di loro
riecheggiava nei racconti della nonna. Poche cose per la verità,
solamente il ritratto di due persone che avevano imparato ad
amarsi e rispettarsi fino alla fine, malgrado il loro matrimonio
fosse stato combinato quando erano ancora dei bambini. La
nonna descriveva il padre come un uomo allegro e svagato che
andava a lavorare all’alba fischiettando e tornava la sera stanco,
ma sempre pronto ad una battuta di spirito. La madre veniva
raccontata come un’infaticabile lavoratrice, sempre premurosa e
affettuosa nei riguardi di tutti. I due coltivavano un piccolo orto
che bastava appena a sfamare la famigliola, ma con le rupie che
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la madre guadagnava togliendo il malocchio alla gente, riuscivano
in qualche modo ad andare avanti. L’arte di togliere il malocchio
l’aveva appresa da giovane, da una sua zia, prima che questa
morisse di tifo. Il padre era seguace di Amrutras e, ogni volta che
poteva, l’aiutava a raccogliere erbe e cortecce per la clinica
contribuendo così anche lui ad arrotondare il loro misero
reddito.
Morti i genitori, lui e la nonna si ritrovarono soli. Provarono a
coltivare l’orto abbandonato, ma i risultati furono talmente scarsi
che dovettero prendere un bracciante che costava quasi quanto
tutto quello che riuscivano a vendere al mercato. Un uomo, un
parente lontano che viveva a Delhi, consigliò di mandare a
lavorare Vidur in una fabbrica in città dove si costruivano scarpe
per l’America, almeno così si diceva. Avrebbe dovuto incollare le
suole alle scarpe per una paga di poche rupie al giorno più il
pranzo, una manciata di riso e dhal, ma almeno ci sarebbe stata
una bocca in meno da sfamare. La nonna, risoluta, si rifiutò di
mandare Vidur a Delhi. Aveva sentito parlare di quelle fabbriche
di schiavi e di quanti, partiti pieni di speranze, non fossero mai
più tornati, morti prematuramente o persi per le strade della città
a chiedere l’elemosina. Fu solo allora che chiese aiuto ad
Amrutras che, non avendo dimenticato la devozione del padre di
Vidur, assunse il bambino come sguattero.
Vidur aveva presto imparato l’inglese ed i suoi compiti erano
cresciuti di responsabilità negli anni, così, dalla pulizia dei lodge
passò, pian piano, ad aiutare gli uomini che preparavano i rimedi.
Il suo sogno, confessò a Mapelli, era quello di diventare un
medico ayurvedico, proprio come Amrutras.
“Dovresti andare a scuola” gli disse una sera Mapelli.
“Abha mi insegna delle cose, ma non ho tempo per
frequentare una scuola. Ne farò a meno” gli rispose lui.
“Ma se potessi, ti piacerebbe andare?” rilanciò Mapelli.
“La nonna dice che non bisogna desiderare ciò che non si può
avere, ma si può lavorare per diventare bravi in qualcosa”
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concluse lui giocando a disegnare ghirigori sul terreno col piede
scalzo. Mapelli colse una nota stridente tra quel gesto infantile e
la rassegnazione delle sue parole.
“Tu sei stato a scuola?” chiese Vidur.
“Si. Ci insegno.”
“Cosa?”
“Chimica organica.”
“A che serve?” gli chiese il ragazzino.
La domanda risvegliò in Mapelli il piglio dell’insegnante, cosa
che lo portò a lasciarsi andare ad un’articolata descrizione di
atomi di carbonio, molecole complesse e sintesi clorofilliane.
Solo un buon quarto d’ora dopo si accorse dallo sguardo spento
del ragazzo che si era lasciato prendere la mano.
“Scusa, forse sono stato poco chiaro” disse mortificato.
“Lascia stare – rispose Vidur – un giorno forse lo capirò da
me.”
Mapelli avvertì una stretta al cuore. Non era neanche capace di
spiegare ad un ragazzino come si guadagnava da vivere. “Mi
piacerebbe conoscere tua nonna” gli venne spontaneo dire,
senza averci pensato prima. Si sorprese per la sua indiscrezione,
ma ne trasse una sensazione gradevole che dissipò la stretta.
“Perché?” chiese Vidur.
“Dev’essere una donna interessante” rispose Mapelli.
“Vieni con me domani, andrò al mercato per le provviste e poi
dalla nonna a farle visita.”
“Dici sul serio?”
“Certo.”
“Ma io non volevo… non voglio disturbare.”
“Beh, non sei obbligato a venire.”
“Ok. Chiederò ad Amrutras di lasciarmi andare.”
Fu così che l’indomani Mapelli si trovò di fronte Hamsa, la
nonna di Vidur, una straordinaria cinquantenne seduta all’indiana
su un letto di corda. La donna indossava un logoro sari color
carminio ben pulito e ordinato. Portava un anello alla narice,
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braccialetti e diverse cavigliere colorate ai piedi. La pelle scura
risaltava il suo sorriso candido e la dolcezza degli inconsueti
occhi verdi. I capelli appena screziati dal bianco del tempo erano
raccolti in una lunga treccia trattata con olio profumato.
L’unica stanza nella quale viveva odorava di spezie, oli
aromatici e vapori di cibo. La cucina di argilla occupava un
angolo della stanza, poche pentole di rame appese alla parete
affumicata, qualche stoviglia di legno e un sacco con del riso.
Sulla parete opposta, immagini di Shiva e Ganesh con un altarino
apparecchiato da dove qualche fiore e un incenso diffondevano
nell’aria i loro profumi. La luce nella stanza entrava solo da una
piccola finestra senza vetri e dalla porta d’ingresso che dava
direttamente sul vicolo sterrato, percorso in tutta la sua
lunghezza da un solco dentro cui scorreva la fognatura a cielo
aperto. Attorno misere casupole, galline, maiali, bambini
seminudi che giocavano tra loro, pile di tortini di merda di vacca
fatta asciugare al sole.
Vidur si rivolse alla nonna nell’idioma locale, una parlata
veloce e vibrante, chinandosi e baciarle i piedi, una forma di
rispetto ancora in uso in India verso gli anziani. Lei gli prese la
testa tra le mani e lo baciò in fronte. Mapelli capì dai gesti che
Vidur gli stava presentando lo straniero. Quando la donna alzò
lo sguardo verso di lui, Mapelli non trovò altro modo per
presentarsi che congiungere le mani e chinare il capo verso di lei.
Seguì una breve conversazione mediata dalla traduzione di Vidur
in cui la donna gli disse che Vidur gli aveva spesso parlato di lui e
che sperava che la malattia che l’aveva portato fino in India non
fosse grave.
“Sembrerebbe trattarsi di una malattia dello spirito” disse alla
donna.
“Mia nonna dice che tutte le malattie vengono dallo spirito”
tradusse Vidur mentre lei lo guardava attentamente.
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“Già, comincio a crederci anch’io – confermò Mapelli
mestamente – lei, invece, ha un aspetto molto sano. Al mio
paese la scambierebbero per tua madre.”
“Dice che sei molto gentile – riprese a tradurre Vidur - ma è
che qui le donne si sposano molto presto. Lei ebbe mia madre a
quattordici anni, poi suo marito morì durante gli scontri con i
musulmani e non ha più avuto altri uomini.”
Subentrarono una serie di sorrisi ebeti, di quelli che si fanno
quando non si sa come comportarsi. Mapelli avrebbe voluto farle
tante domande, ma non sapeva fino a che punto fosse
opportuno spingersi. D’altra parte anche Hamsa non sapeva
come era meglio comportarsi con un occidentale istruito, per di
più maschio. Fu Vidur a toglierli da quella situazione.
“Perchè non rimani a pranzo con noi?” gli disse.
“Non vorrei creare imbarazzo” rispose lui timidamente.
Seguì un’altra veloce conversazione tra nipote e nonna.
“Mia nonna dice che se ti piace il curry di melanzane sarebbe
onorata se accettassi.”
“Grazie, accetto con piacere” concluse lui chinando il capo
verso Hamsa.
Così, mentre la donna si accingeva a cucinare, Mapelli propose
a Vidur di accompagnarlo a comprare dei dolci, un modo per
ricambiare la gentilezza. Trovarono dei rasgullah squisiti e ben
freddi, sorta di palline di latte acido, farina e sciroppo. Tornando
verso casa fecero un giro, cercando di far passare il tempo
necessario a Hamsa per preparare il pasto. Si erano inoltrati in
una zona a ridosso del lago, quando in fondo ad un vicolo
Mapelli vide sulla riva alcuni uomini battere vigorosamente dei
panni su delle pietre inclinate ai bordi di vasche di cemento. Le
vasche erano tante quante gli uomini che vi lavoravano. Alle loro
spalle lunghissime file di panni stesi ed un gruppetto di giovani
ragazzi che stendevano o ritiravano i panni riponendoli in grandi
cesti. Vidur notò la sorpresa negli occhi di Mapelli. Gli disse che
quelli erano i Dhobi, lavandai senza casta che si tramandavano
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quel mestiere di generazione in generazione. Conosceva uno che
faceva quel lavoro, ma adesso il figlio ne aveva rilevato i clienti
perché le sue mani non erano più buone. Col tempo – gli disse le dita si trasformavano in monconi contorti devastati dai dolori
artritici e dai detersivi. Vidur ne aveva avuto pena e ne parlò ad
Amrutras che gli insegnò a preparare un unguento per mitigare il
dolore.
“E’ stato il mio primo paziente”, gli disse Vidur orgoglioso.
“Se non imparano ad usare le lavatrici non sarà neanche
l’ultimo” concluse Mapelli.
Tornati a casa di Hamsa, per la prima volta da quando era in
India Mapelli provò il particolare gusto di mangiare con le mani.
Superato il disagio iniziale, l’esperienza fu addirittura divertente.
Hamsa e Vidur ridevano di lui, del suo modo goffo di portare il
riso intinto nel curry alla bocca e dei rivoli di sugo che gli
scendevano fino ai gomiti. Allora lei gli mostrava la maniera
corretta di farlo, così, pian piano, riuscì a imparare a non
sporcarsi il braccio e a non far cadere il riso dappertutto.
Durante tutto il pranzo Mapelli represse la sua voglia di fare
domande. Malgrado l’atmosfera allegra che si era instaurata,
sentiva che la sua curiosità avrebbe potuto mettere in imbarazzo
la donna. Così si limitò a chiederle qualcosa sulla preparazione
del curry di melanzane. Per il resto parlò solo lui, per lo più di
amenità che servissero a manifestare il suo gradimento per
l’invito ricevuto. Poi disse che, tornato in Italia, avrebbe
insegnato a sua figlia a mangiare con le mani così da farle gustare
meglio i cibi. Aveva una figlia? - chiese lei. L’argomento sembrò
svincolarla dalla riservatezza tenuta fino ad allora, così Mapelli le
parlò brevemente di Laura.
“Mia nonna dice che in India è difficile vivere per le donne”
disse Vidur traducendo le parole di Hamsa. Il tono della sua voce
stava perdendo la dolcezza posseduta sino ad allora. Cominciava
a farsi spazio un accenno di durezza amplificato dagli occhi che
dal verde mare assunsero una tinta castana. Evidentemente,
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quello della condizione delle donne in India era per Hamsa un
argomento delicato. Mapelli seppe che Hamsa stava cercando di
creare, assieme ad altre donne, una cooperativa femminile per la
produzione di Sari ricamati ed altri prodotti tessili. La
cooperativa aveva tra i suoi obiettivi anche quello di dare alle
donne un minimo di istruzione scolastica e, nel tempo, la
possibilità di accedere ad un finanziamento senza interessi per
poter acquistare gli strumenti minimi necessari a creare o
mandare avanti l’attività artigianale.
“Mia nonna dice che qui le donne sono considerate un peso
per la famiglia e non possono sposarsi se non hanno una dote da
portare con loro. Se poi si è nubili, divorziate o vedove
praticamente vieni estromesso dalla comunità. Con la
cooperativa, invece, le donne potranno unire le loro forze e
diventare economicamente indipendenti. Col tempo la gente
imparerà ad apprezzarne anche l’intelligenza.”
Mapelli ascoltò con interesse annuendo fino a quando la
donna sembrò aver concluso.
“Dille che sono sicuro che le cose cambieranno, anche se ci
vorrà del tempo” disse Mapelli a Vidur senza staccare lo sguardo
da Hamsa.
“Si scusa con te per aver parlato tanto” tradusse Vidur.
“Dille che è stato un onore per me averla conosciuta.”
Andarono via con la promessa che, se Amrutras avesse
acconsentito, avrebbero pranzato un’altra volta insieme perché
Hamsa voleva sapere come vivevano le donne in Italia. Mapelli
rispose che un uomo non può essere un testimone credibile su
come vivono le donne, ma garantì che avrebbe fatto il possibile.
Sulla strada per la clinica strani gorgoglii scaturivano dalle sue
viscere. Poi subentrò un fastidioso dolore allo stomaco e
l’urgenza di andare in bagno. Fece appena in tempo ad
accovacciarsi sul buco. Piegato sulle gambe, gli vennero in mente
i giochi da bambino con il pongo, quando l’amichetta del cuore
gli preparava pizzette colorate che lui doveva far finta di
103
ingurgitare con grande piacere. Un giorno lei venne con un
sacchetto di pastiglie colorate. Lui ne assaggiò una e la trovò
particolarmente amara, ma per non dispiacerla ne mangiò una
decina. Finirono tutt’e due all’ospedale. Lei aveva saccheggiato il
cassetto dei medicinali, attratta dai colori delle diverse pillole.
Anche adesso non gli era andata meglio: non subì nessuna
lavanda gastrica, ma si beccò una diarrea che lo torturò per due
giorni, accompagnata da una fastidiosa febbricola debilitante.
104
13. L’Universo di Amrutras si espande
“Attraverso specifiche tecniche di respirazione possiamo
modificare la stato vibratorio delle nostre cellule cerebrali e
renderle così capaci di entrare in altri stati di coscienza” stava
dicendo Amrutras un pomeriggio in cui i suoi numerosi impegni
lo lasciarono libero di guidare la meditazione.
Sedeva nella posizione del loto, a sinistra un vassoio con tè e
acqua e a destra Abha, la sua fedele assistente, bella come un
fiore. In un angolo un bastoncino d’incenso bruciava inondando
di fumo profumato una piccola statua di Shiva. Davanti a loro
sedevano i tre ospiti della clinica e alcuni indiani venuti da
villaggi vicini per ascoltare le parole di Guruji.
“Questi differenti stati di coscienza ci proiettano in altre
dimensioni di comprensione della realtà. Per esempio, gli
schizofrenici hanno esperienze reali, ma ne sono vittime perché
non sono in grado di gestirle coscientemente. Un mistico, in
fondo, non è altro che uno schizofrenico consapevole.”
Poi raccontò di uno scienziato di nome Laszlo, delle sue idee
sul vuoto, e di come sostenesse che questo rappresenti una vera e
propria dimensione. In questo immenso vuoto emergono e
ritornano i quanti, particelle elementari della materia.
“Secondo Laszlo – disse - il vuoto sarebbe una sorta di
superfluido che conserva la memoria di ogni informazione
dell’universo, la matrice stessa della coscienza universale in cui
ogni informazione risuona e viene registrata. Attraverso questo
105
vuoto ogni particella ed essere vivente sono in costante relazione
reciproca con l’universo. Ora, ogni essere umano è un’antenna in
grado di entrare in risonanza con l’universo. E’ ciò che gli yogi
sperimentano direttamente attraverso la meditazione. Vi
racconterei la storia della scimmia Macaca Fuscata, ma adesso
devo proprio lasciarvi. Magari un’altra volta” concluse Amrutras
lasciando Abha a guidare la seduta di yoga.
Quella sera, tornando verso il suo lodge Mapelli aveva in testa
solo la Macaca Fuscata a cui aveva accennato Amrutras.
Cos’altro si celava dietro quella scimmia?
Una settimana dopo Mapelli si sottopose ad visita di controllo.
Intanto Mr Banajiri preparava le valigie per tornare a Bombai.
Mapelli lo aveva salutato la sera prima ed ora si stava godendo i
colori di un’alba che sembrava preannunciare una giornata nitida
e tiepida. Le silhouette degli alberi si stagliavano sul disco solare
che emergeva velocemente dall’orizzonte. Mapelli cercò di
immaginare cosa potesse passare per la mente di un ufficiale
inglese di cent’anni prima, appena arrivato da Londra, di fronte a
quello spettacolo. Immaginò la moglie dell’uomo disperata
all’idea di dover rinunciare alle comodità ed alla vita di società.
Poteva quasi vedere i loro figli rincorrersi tra i ficus vestiti di
stoffe troppo pesanti per quel clima, incuriositi dal colore della
pelle dei loro coetanei indiani.
I suoi pensieri furono interrotti da un uomo venuto per
prelevargli un campione di sangue. L’uomo gli disse che avrebbe
portato il campione all’ospedale più vicino, a cinquanta
chilometri da lì, per le analisi di base.
Più tardi fu spogliato all’ombra di un ficus e ricoperto di un
fango dalla particolare consistenza. Lo lasciarono, seduto su uno
sgabello, ad asciugare al vento tiepido del primo mattino.
Quando il fango cominciò a creparsi lo lavarono inondandolo di
secchiate d’acqua, poi controllarono la sua pelle centimetro per
centimetro segnando con un pennarello alcune macchie che si
erano formate apparentemente dal nulla. Fu solo allora che si
106
vide Amrutras. Il medico gli girò attorno, toccò le macchie, ne
osservò bene la forma e la colorazione, poi lo pregò di seguirlo
nel suo studio. Arrivati lì auscultò i dosha dal polso, gli guardò la
lingua e l’interno delle palpebre e poi fece chiamare i suoi
assistenti. Parlò con essi per lungo tempo indicando loro le
macchie che si erano formate sulla pelle. Quando ebbe finito
mandò via tutti e si rivolse a Mapelli.
“Mi scusi per l’attesa, ma ogni occasione è buona per imparare
nuove cose. Abbia pazienza ancora un poco, vorrei scrivere
alcune osservazioni prima che mi passino di mente.”
Mapelli fece un cenno del capo e si predispose all’attesa.
Automaticamente lo sguardo andò in giro per la stanza a scrutare
tra gli scaffali di libri e pergamene, strane pietre e polveri
colorate, idoli di misure e materiali diversi, mortai e coralli fossili.
Dovunque regnava la polvere, uno spesso strato a volte corrotto
da qualche recente ditata. Ma non era sporcizia, era la polvere
della campagna indiana che inesorabilmente si infilava
dappertutto. I lodge venivano spolverati ogni giorno, un
riguardo verso gli ospiti della clinica, ma Amrutras vietava
l’ingresso al suo studio a chiunque. Lo sguardo si spostò sul
vecchio saggio, chino sul foglio dove stava appuntando con una
scrittura minuta le sue osservazioni. Dalla concentrazione con la
quale eseguiva quel semplice compito emergeva tutto il suo
carisma, mentre il delicato movimento della mano che incideva
sul foglio le sue riflessioni esprimeva l’amore per la sua missione.
Quando ebbe finito di scrivere, Amrutras disse che era contento
dei risultati fin lì ottenuti. C’era stato un efficace smaltimento di
tossine accumulate negli anni, un evidente dimagrimento, un
miglioramento della tonicità muscolare e dell’elasticità articolare.
Trovava un Mapelli meno esposto alle emozioni incontrollate,
più sereno e distaccato. Era sicuro che le analisi avrebbero
confermato un miglioramento delle funzioni epatiche e una
riduzione della componente lipidica nel sangue. Il mese
107
successivo sarebbe servito a rendere stabili quelle condizioni
fissando nella memoria cellulare gli schemi mentali acquisiti.
“Avremo un nuovo ospite domani” disse Amrutras cambiando
discorso.
“Davvero? Indiano o straniero?” – chiese Mapelli
“Italiano, come lei. Occuperà il lodge lasciato libero da Mr
Banajiri.”
108
14. Il mistero della Macaca Fuscata
Che l’italiano in arrivo fosse Carmine, Mapelli non avrebbe mai
potuto immaginarlo. E infatti, fino a quando non lo ebbe ad un
metro da lui si rifiutò di crederci.
“Visto che non vieni al mare da me, vengo io in India da te.
Buon Natale, amico mio” disse Carmine ridendo, le braccia tese
a chiedere un abbraccio.
Mapelli non ebbe la forza di dire niente, si limitò ad
abbracciare l’amico ed a reprimere efficacemente la
commozione, poi l’accompagnò al lodge che era stato di Mr
Banajiri ascoltando il resoconto dettagliato della sua decisione di
andarlo a trovare in India, il faticoso viaggio fino alla clinica e la
sua felicità di aver preso quella decisione.
“Mi sono detto: magari preferirebbe non avere nessuno
accanto proprio quando sta cercando di distrarsi. Mi sono
risposto: in tal caso andrò da qualche altra parte, l’India è grande
ed io non la conosco. E poi erano vent’anni che non facevo un
viaggio. Ah! Ti ho portato un panettone” concluse Carmine.
Mapelli gli confessò che vederlo gli aveva provocato una
contrazione delle viscere, l’effetto di una comprensibile
dicotomia interiore tra la contentezza di averlo lì e la paura che si
portasse dietro il dolore legato a casa, quella puzza che l’aveva
stroncato. Ma lo rassicurò che la cosa era subito passata, nessuna
puzza, solo il leggero olezzo del viaggiatore intercontinentale –
109
disse ridendo. E poi non si era neanche reso conto che si fosse
già a Natale.
“Amrutras sapeva, vero?” gli chiese Mapelli.
“Si - rispose Carmine - mi è stato molto utile nell’organizzare
la cosa. Sembra una persona fuori dal comune. Non vedo l’ora di
conoscerlo, ci siamo solo parlati al telefono.”
“Lo è. Te ne accorgerai presto.”
Nei giorni successivi Carmine ebbe diverse occasioni di
incontro con Amrutras. Pur non seguendo i trattamenti cui si
sottoponeva Mapelli, ogni tanto si godeva un massaggio o
partecipava alle sedute di yoga e meditazione pomeridiane. Lui e
Amrutras si piacquero subito e Mapelli scoprì il lato ludico del
medico che sembrava esaltarsi quando c’era Carmine. Si
scambiavano battute del tipo:
“Dottore, dovrebbe far costruire una piscina in questo posto,
avrebbe molti più clienti!”
E Amrutras rispondeva:
“Ci verrebbero solo quelli come lei, non sarebbe un grande
acquisto per la clinica”
E lì giù a scambiarsi pacche sulle spalle mentre Mapelli li
guardava stupefatto. La compagnia di Carmine era così
gradevole per Amrutras che una sera furono addirittura invitati a
cena nel suo lodge. Fu una serata molto piacevole. Al contrario
di quanto aveva visto nello studio del medico, in casa non c’era
un granello di polvere, tutto era pulito e in ordine. Oltre alla
cucina dove Abha stava perfezionando i profumati manicaretti
che avrebbero allietato i loro stomaci (per quella sera, ma solo
per quella sera, Amrutras dispensò Mapelli dalla consueta dieta),
la casa aveva solo altri due ambienti. In uno vi era un basso
salottino con le pareti ricoperte di librerie, uno stereo e una
piccola televisione satellitare, nell’altro si intuiva la presenza della
camera da letto, separata dal resto della casa solo da una tenda
riccamente decorata con motivi induisti. Fuori c’era la veranda
esterna, completamente avvolta da rampicanti. Nell’aria c’era un
110
delizioso odore di incenso, probabilmente muschio bianco –
pensò Mapelli.
Sedettero all’indiana sui bassi divani mentre Abha poneva le
scodelle con i diversi cibi sul tavolino al centro. La ragazza era
più bella che mai. Si era truccata per gli ospiti, solo del semplice
kajal agli occhi e un pò di terra indiana sul viso, ma sufficiente ad
esaltare ancora di più il suo fascino. Quando ebbe finito si
sedette accanto ad Amrutras aggiustandosi delicatamente il sari.
Mentre i due indiani mangiavano con le mani, agli ospiti furono
offerte delle posate.
“Se anche noi italiani mangiassimo con le mani chissà quanto
detersivo si risparmierebbe!” – disse Carmine ridendo.
“So che il professore ha già provato quest’esperienza. Perchè
non ci prova anche lei?” disse Amrutras.
Ci provò, e andò com’era andata a Mapelli, così, tra il serio ed
il faceto, la cena andò avanti. Fu quando arrivarono al panettone
che aveva portato Carmine dall’Italia che Mapelli chiese della
scimmia a cui Amrutras aveva accennato qualche giorno prima.
“Già, la Macaca Fuscata” disse Amrutras sorridendo. E si mise
a raccontare.
“Nel 1952, su un’isoletta giapponese abitata da una colonia di
queste scimmie, alcuni etologi lasciarono delle patate dolci sulla
spiaggia. Volevano capire come avrebbero reagito le scimmie di
fronte ad un cibo sconosciuto. Da diversi punti d’osservazione i
ricercatori potevano vedere le scimmie scrutare con curiosità ciò
che era evidentemente del buon cibo, ma che non osavano
mangiare per via della sabbia che ricopriva i tuberi. Fu una
giovane scimmietta, Imo, che trovò la soluzione: andò a lavarla al
fiume e la mangiò. La tecnica si diffuse nell’isola abbastanza
velocemente, ma sorprendentemente vi fu un’inversione della
normale tendenza di trasmissione della conoscenza, non più
dagli anziani ai giovani, ma al contrario. Sei anni dopo tutte le
giovani scimmie avevano adottato la nuova tecnica, ma i soli
adulti che la praticavano erano quelli che l’avevano imparata dai
111
figli. Poi, una mattina, improvvisamente un certo numero di
scimmie si mise a lavare i tuberi nell’acqua di mare. Imo aveva
scoperto che il sale rendeva più buone le patate. Incredibilmente,
già al tramonto tutte le scimmie lavavano le patate con l’acqua di
mare. Nell’arco di un solo giorno la nuova informazione era
diventata patrimonio comune. Cos’era successo? Si era superata
una certa “massa critica” di individui a conoscenza della nuova
tecnica, dedussero gli scienziati, e ciò aveva indotto
repentinamente l’adozione del nuovo comportamento da parte
dell’intera comunità. Ancora più incredibile fu per gli etologi
scoprire che, ripetendo l’esperimento in isole vicine, il fenomeno
si manifestava, da subito, in modo assolutamente spontaneo,
senza che fosse necessario apprendere.
“Questo esperimento stimolò la comunità scientifica a cercare
spiegazioni plausibili – disse Amrutras – ma ciò che conta è che
l’esperimento accrebbe il sospetto che esistesse una
interconnessione tra tutte le cose di questo universo e che il
principio di causa-effetto era ormai superato.”
“Il vuto di Laszlo?” chiese Mapelli.
“Alcuni parlano anche di Sincronicità o Acasualità. Jung diceva
il sincronicismo è il pregiudizio dell’Est, la casualità è il moderno
pregiudizio dell’Ovest. Ma basta adesso, è ora che la nostra Abha ci
canti qualcosa” concluse Amrutras.
La voce cristallina di Abha, accompagnata dal suono ipnotico
del sitar, portò Mapelli lontano dalle parole di Amrutras. Si
sentiva come un Maharaja a corte, deliziato dai cibi, dalle
discussioni filosofiche, dagli aromi degli incensi e dal dolce canto
delle sue concubine. Ma sapeva, con rammarico, che non
avrebbe potuto godere delle grazie di Abha. Si ritirò insieme a
Carmine non appena questa ebbe finito il suo breve concerto. Fu
una notte difficile, combattuta tra i pensieri sulla Macaca Fuscata
e l’immagine di Abha nuda che danzava alla luna, e che si risolse
solo a notte fonda. Una splendida notte indiana, tiepida e
vellutata, odorosa di gelsomino.
112
15. Sulla via del ritorno
Quando non restavano che sette giorni alla partenza, parve a
Mapelli di cominciare a percepire un fremito di paura per
l’imminente separazione. Dopo ciò che aveva passato negli
ultimi anni, quella piccola comunità di estranei gli sembrò quanto
di più simile potesse esserci ad una famiglia. Il desiderio di fissare
il più possibile nella memoria il loro ricordo lo portò a spiarli,
come fosse un guardone. Muriel, ad esempio. Sembrava aver
tratto beneficio dall’atmosfera che aleggiava in clinica. A
guardarla bene, doveva aver perso almeno venti chili e, a
giudicare dagli sguardi che si scambiava col suo giovane stallone,
forse aveva davvero trovato il suo sé.
Carmine, invece, malgrado la dieta imposta dalla clinica a tutti i
suoi ospiti, sembrava addirittura ingrassato. Le sue gote avevano
preso il colore delle ciliege e si esercitava ogni giorno con i
pranayama imparati nei pomeriggi di yoga. La mattina, mentre gli
altri si sottoponevano ai consueti massaggi, lui sedeva all’indiana
nella veranda del suo lodge, chiudeva gli occhi e cominciava gli
esercizi appena imparati.
“Stai attento che se continui così l’India scioglierà anche il tuo
di cervello” gli diceva Mapelli sfottendolo, e l’amico si limitava
ad alzare, austeramente, il dito medio senza parlare.
Anche per Mapelli era arrivato ormai il momento di fare un
bilancio dell’esperienza indiana. In tanti gli avevano consigliato
di partire per ritrovare salute e serenità. Avevano avuto ragione?
113
Beh, certamente la sua salute era migliorata. Era dimagrito di
otto chili perdendo quasi del tutto la pappagorgia, non aveva più
sentito quei fastidiosi spilli che ogni tanto si divertivano a
trafiggergli il fegato, niente più emorroidi esibizioniste né braci
nello stomaco. Persino gli scricchiolii alle articolazioni erano
regrediti a flebili echi di sottofondo e le analisi del sangue
dell’ultimo controllo avevano dato risultati confortanti.
Insomma, si sentiva di affermare che il panchakarma aveva
funzionato. Ma se oltre alla salute avesse acquistato anche un po’
di serenità, non si sentiva di affermarlo. Di sicuro le tecniche
apprese attraverso lo yoga si erano rivelate un valido strumento
di controllo dell’emotività. La meditazione, poi, gli aveva aperto
un mondo sconosciuto di infinite potenzialità. Si, tutto sommato
un po’ più sereno di quando era arrivato lo era. Se non altro non
viveva più una condizione di paura e ansia permanente. Ma
sapeva anche che alle sue attuali condizioni aveva contribuito la
lontananza da casa. Cosa sarebbe successo al ritorno? Si
immaginò nel suo squallido appartamento, il tempo cadenzato da
riti stantii odorosi di polvere e naftalina, le sedute dallo
psicanalista, le lunghe letture serali alla timida luce dell’abat jour
della sua camera da letto. Cosa avrebbe fatto appena l’angoscia
l’avesse stretto alla gola? Un po’ di yoga? Qualche pranayama?
Una mezz’oretta di meditazione? No, probabilmente avrebbe
fumato una sigaretta aspettando che si facesse vivo il bruciore
allo stomaco.
E venne il giorno della partenza. Tra abbracci, baci e pacche
sulle spalle, i due si stavano dirigendo al pulmino che li avrebbe
accompagnati alla stazione da dove un ipotetico treno per Delhi
doveva, prima o poi, passare. Stavolta non c’era Mina ad
organizzare tutto. Durante il breve tragitto Amrutras si dilungò
in raccomandazioni di natura salutistica, Abha si limitò ad un
namastè accompagnato da un timido sorriso, Muriel li baciò
entrambi vigorosamente e Vidur li abbracciò con affettuosa
irruenza. Quando finalmente il pulmino partì strombazzando,
114
una nuvola di fumo e polvere li avvolse mentre l’autista cantava
accompagnando con la testa le strette curve della stradina che li
avrebbe portati alla stazione ferroviaria. Mapelli, asciugandosi
furtivamente una lacrima, guardava dal finestrino il paesaggio
ormai così familiare. I sari delle donne che creavano ipnotiche
macchie di colore stagliandosi sul verde dei campi coltivati, le
casupole di fango dai tetti di paglia, i panetti di merda di vacca
messi ad essiccare al sole, il sottile strato di nebbia che sostava a
pochi metri da terra per tutto l’orizzonte, le solitarie chiome dei
grandi alberi che si stagliavano su di essa. Desiderò che quel
momento si scolpisse nitidamente nella sua memoria. Per questo
chiuse gli occhi e si concentrò sugli odori. Com’era l’odore
dell’India? Oleoso e pungente, pensò, profumato di aromi
ancestrali. Piscio e gelsomino. Fritto e sandalo. Fogna e pachuli.
Brutto e bello convivono apertamente. Come Shiva e Visnù,
l’uno che distrugge e l’altro che conserva, due aspetti dello stesso
Dio. Un Dio così al di sopra di tutto che delega a Brahma la
creazione.
Le divagazioni mapelliane proseguirono sul treno che li
avrebbe condotti a Delhi. Tra la folla di uomini donne e
bambini, vide uno yogi meditare ad occhi chiusi, apparentemente
indifferente al caos umano attorno a lui. Quando un bambino gli
pestò involontariamente un piede, lo spinse rabbiosamente a
terra inveendo contro di lui ed i suoi genitori. La scena lasciò
interdetto Mapelli. Aveva già notato che gli indiani non
identificavano la spiritualità con la bontà. Gli occidentali
pretendono che un prete sia anche buono. Per gli yogi è Santo colui
che arriva ad esprimere tutto il proprio potenziale. Niente bene e
male, niente peccato. Ricordò le parole di Amrutras durante una
discussione sulle religioni e lo yoga.
Deve sapere che un maestro di yoga non ha nulla a che vedere con la
religione. Egli non persegue obiettivi come la ricerca di Dio, la carità, la
solidarietà umana, ecc. Egli persegue esclusivamente la propria liberazione:
il Moksha. Ciò può sembrarle egoistico, ma se cerca di vedere la questione
115
dal punto di vista “universale” le sembrerà un atteggiamento coerente.
Potremmo addirittura considerare i maestri di yoga come i primi
rivoluzionari della storia, in quanto sono volontariamente usciti dal
“sistema” in cerca della propria liberazione. E’ per questo che il maestro
vede le religioni come utili all’umanità, ma solo come mezzi di elevazione
spirituale, mai come fini, in quanto anch’esse sono prodotti del sistema.
“Come va? Sei piuttosto silenzioso” gli chiese Carmine
interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
“Ho un po’ di fame, ma non oso mangiare nulla di ciò che si
vende in questo treno.”
“Avremmo dovuto farci preparare qualcosa in clinica. Quanto
pensi che manchi per Delhi?”
“Viaggiamo da due ore. Ce ne vorranno almeno altre sei.”
“Beh, ci rifaremo stasera in albergo. E’ un cinque stelle, vero?”
“Si. E’ lo stesso albergo che ho preso all’andata. Dopo tre mesi
di vita ascetica ho voglia di un po’ di lusso.”
Il primo lusso che si concessero appena arrivati in albergo,
dopo una lunga doccia rinfrescante, fu un aperitivo ghiacciato
dall’improbabile colore blu cobalto. Tra il periodo in ospedale e i
tre mesi di dieta vegetariana e acqua, Mapelli non beveva alcool
da tempo immemorabile, perciò ne gustò particolarmente il
sapore caldo e pungente. D’altra parte Amrutras non gli aveva
specificatamente vietato le sostanze alcoliche, in realtà non gli
aveva vietato nessun alimento, gli raccomandò solamente la
moderazione in tutto, la preferenza verso gli alimenti freschi,
possibilmente di giornata, e un digiuno di ventiquattro ore ogni
tanto. Certo, gli fece tutta una disquisizione sulle proteine di
origine animale e vegetale insistendo sul concetto che fosse più
sano assumerle dai vegetali piuttosto che dai cadaveri, ma mai
accennò al divieto di consumare una succosa bistecca al sangue.
Dipende solo da lei, si ricordi. Il nostro corpo fisico ha il solo scopo di
portare in giro il nostro vero sé, ma proprio per questo è importante, ed il suo
benessere dipende in gran parte da ciò che mangiamo. Malgrado avesse
imposto nella sua clinica una dieta alimentare rigidamente
116
ayurvedica, sapeva bene che per un occidentale di città sarebbe
stato impossibile alimentarsi allo stesso modo. Si limitava perciò
a prescrivere il rispetto di alcuni principi basilari.
Quando si trovarono, quindi, seduti al tavolo del ristorante,
Mapelli non provò nessun particolare senso di colpa
nell’ordinare un piatto unico di maiale tandoori, riso bianco e
insalata, né ebbe difficoltà a limitarsi solo a quello, per nulla
disturbato dalla visione porcina di Carmine che ordinò due
antipasti, primo, secondo, due contorni, frutta e diversi tipi di
dolce, il tutto irrorato da una buona bottiglia di vino rosso
francese. Piuttosto, condivise con piacere un bicchiere di cognac
a fine pasto per avere la scusa di fumare una sigaretta prima di
andare a letto.
Il giorno dopo erano già svegli poco prima dell’alba, ancora
sintonizzati sui ritmi amrutrasiani. Non potendo accedere alla
sala riservata alle colazioni prima delle sette, decisero di praticare
un pò di pranayama sulle panchine del giardino interno.
“Non ti vergogni un pò? Se ci vede qualcuno?” Era meglio
farlo in camera” disse Carmine a voce bassa guardandosi
intorno.
“Parli come se dovessi fare sesso. Cosa vuoi che un pranayama
all’alba possa scandalizzare un indiano? Dai, dai, cominciamo”
rispose Mapelli divertito.
Effettivamente i due furono oggetto di divertimento per un
cameriere che li osservava da una vetrata poco lontano.
Scuotendo la testa, una pila di piatti in mano, si accingeva ad
apparecchiare i tavoli per la colazione degli ospiti. Man mano che
arrivavano i suoi colleghi, gli indicava con un cenno della testa
quei due scemi seduti all’indiana sulle panchine in giardino
intenti a inspirare ed espirare come tori inferociti. Si formò
presto un capannello che si sciolse solo all’arrivo del caposala
che urlando e agitando le braccia come fosse in un pollaio,
riportò l’ordine. Il rumore indusse i due ad aprire gli occhi e
117
guardarsi intorno, ma non scorgendo nessuno ripresero presto la
loro pratica.
Avevano a disposizione l’intera giornata. L’aereo che li avrebbe
riportati in Italia partiva alle tre del mattino. Decisero così di
trascorrere quelle ultime ore tra bagni in piscina, caffè, aperitivi
al bar dell’albergo e letture con pisolino sulle sdraio del
meraviglioso giardino. Mapelli propose di chiamare Mina per
un’ultima cenetta nella città vecchia, ma la donna si trovava a
diversi chilometri da Delhi con un gruppo di uomini d’affari
taiwanesi e sarebbe rientrata solo l’indomani. Si salutarono
cordialmente augurandosi buona fortuna.
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16. Keif
Fuori pioveva. Una pioggia fitta e sporca che durava ormai da
due giorni. La speranza era che quella incessante cascata d’acqua
riuscisse a trascinare con sé le polveri sottili che incombevano sulla
città da oltre tre mesi e che targhe alterne e chiusure al traffico
non erano riuscite a ridurre. Dalle montagne che abbracciavano
ai margini la città si poteva vedere quella cappa di smog
marroncino stazionare sul golfo, inamovibile, come fosse sempre
esistita.
Ma non era sempre esistita. Nei ricordi dei palermitani c’erano
inverni miti e cieli azzurri e l’aria tersa che portava l’odore del
mare fino a piazza Massimo.
Un anno dopo il suo viaggio in India, Mapelli stava leggendo
seduto alla sua scrivania. Era una lettera di Vidur, arrivata
insieme ad un pacchetto contenente alcune scatoline di rimedi
ayurvedici. Da quando Mapelli era partito, Amrutras provvedeva
regolarmente ad inviargli le polverine magiche che avrebbero
dovuto aiutarlo a mantenere un livello di tossine accettabile, e
Vidur ne approfittava per scrivergli qualche parola. Cose
semplici, come la sua vita.
Mapelli richiuse la lettera e la conservò nel cassetto insieme alle
altre, poi rigirò tra le mani le scatoline con le etichette scritte a
mano ormai così familiari: Aampachak, Anulom, Rasnadi guggul. Le
portò al naso per sentirne l’odore intenso e ripose anche quelle
in un cassetto della scrivania.
119
Erano le dieci e trenta e non aveva nulla da fare prima delle
undici, ora in cui sarebbero arrivati i ragazzi per la lezione di
chimica organica. Erano ormai due mesi che Mapelli dava lezioni
private a Chiara, l’angelica dirimpettaia che lo salvò dalla morte,
e ad alcuni suoi colleghi, tutti studenti di agraria. Mapelli non si
faceva pagare, diceva a Chiara che la vita non ha prezzo e che
tanto non aveva di meglio da fare. Le lezioni così assumevano un
aspetto informale, tra fumanti tazze di tè, formule sulla biosintesi
degli acidi grassi e disquisizioni sulla vita, seduti sul tappeto
come tuareg in un’oasi.
Quel gesto di disponibilità verso Chiara gli diede l’inaspettata
occasione di scoprire un diverso modo d’insegnare. Niente aule
ad anfiteatro che creavano quella distanza incolmabile tra
studenti e docenti, niente seriose atmosfere accademiche, niente
lotte intestine tra le baronie dei vari dipartimenti. Per questo
aveva rinnovato l’anno sabbatico. Sentiva quel mondo ancora
troppo distante da sé per ritornarvi, ma le lezioni con Chiara gli
permisero di non rinunciare al piacere dell’insegnamento.
Gli venne voglia di fumare. La represse. Aveva smesso da un
mese e non voleva ricascarci. Quella era una fase delicata, se
avesse ceduto ora, quel minimo di autostima faticosamente
raggiunta sarebbe andata a farsi fottere. E non voleva certo
riprendere con la psicoanalisi. Il dottor Aricò c’era rimasto un pò
male quando gli aveva comunicato la sua decisione di smettere.
Chissà perché. Avrebbe dovuto essere contento, in fondo era
stato lui a indicargli la clinica in India.
“E’ proprio sicuro?” gli disse.
“Vorrei provare a farcela da solo” rispose lui.
“Come vuole – disse Aricò storcendo la bocca – se ha bisogno
sa dove trovarmi.”
Forse con i soldi delle sedute ci pagava il college americano al
figlio, o forse era davvero convinto che da solo non ce l’avrebbe
fatta. Mapelli non ebbe modo di saperlo mai, né era interessato a
scoprirlo. Adesso la sua vita aveva altri ritmi.
120
Nelle giornate migliori si svegliava all’alba: un’ora di yoga e
pranayama, colazione abbondante, bagno e auto-massaggio con
olio di sesamo, un’ora di un buon libro, lezione di chimica
organica nei giorni dispari, pranzo leggerissimo. Poi faceva
sempre un riposino e, dopo il caffè, si concedeva un’altra ora di
lettura seguita da una passeggiata per la città, in cerca di quelle
sorprese che solo la strada può concedere. La sera preferiva
cenare fuori, con Carmine, altri vecchi amici o anche da solo,
tornare a casa presto, guardare un telegiornale e andare a letto.
Non perdeva mai una mostra o una conferenza interessante, un
film meritevole. Indubbiamente qualcosa era cambiato. Ma gli
capitava ancora di non avere voglia di alzarsi presto, di non
praticare yoga per diversi giorni di fila o di andare a letto tardi,
magari un pò brillo.
Una o due volte la settimana riusciva a pranzare con Laura. Gli
sballavano un pò i ritmi, magari saltava il riposino, non di più,
perchè lei aveva sempre poco tempo e “un casino di cose da
fare”. C’era la palestra, le materie da preparare, il fidanzato
geloso, un corso d’inglese pomeridiano. Nei fine settimana
andava spesso in montagna con un’associazione d’ambientalisti,
oppure alla partita di calcio col fidanzato. Di Sandra parlavano
poco, giusto il necessario. E’ fuori per una settimana, non
ricordo dove. Sta bene. Mi ha chiesto di te. Beh, si è fatto tardi
pà, devo proprio andare. Ciao, ti voglio bene. Ciao amore, non
dimenticare giovedì, stessa ora. Ma era già troppo lontana per
sentire.
In tutti quegli anni non aveva rivisto Sandra che due o tre
volte, sempre di fretta. La fretta sembrava dominare i precari
rapporti tra loro tre. Era il modo migliore per sfuggire alle
parole, al racconto, all’anima. Pazienza – si diceva Mapelli – vuol
dire che dev’essere così. Forse, prima o poi questa espiazione
finirà, fatti trovare pronto.
Ma, a parte i vacui rapporti familiari, il professor Mapelli negli
ultimi mesi aveva faticosamente cercato di dare alla sua vita un
121
ritmo fluido, togliendo progressivamente spazio a ciò che non gli
importava veramente, a favore di quello che poteva dare più
qualità alla sua esistenza. Non era facile per la sua mente,
diventata negli anni così fragile e incostante. Né d’altra parte
intendeva soggiogare la sua vita a una ferrea disciplina mentale.
Voleva solo raggiungere un maggior rispetto per se stesso
rinunciando agli eccessi inutili o indotti, e poter godere con una
maggiore consapevolezza delle follie umane. Gli era capitato più
volte di parlarne con Carmine.
“Lo stato mentale che cerchi di descrivere mi fa venire in
mente la definizione della parola araba Keif. Vediamo se mi
ricordo… assaporare l’esistenza animale senza le molestie della
conversazione, senza le spiacevolezze della memoria né la vanità del
pensiero” gli aveva detto Carmine durante una di quelle
conversazioni.
“E’ bellissima” rispose Mapelli stupito.
“Beh! Certo che Amrutras ti ha aiutato molto.”
“E’ solo che prima di conoscerlo pensavo che l’umanità non
avesse alternative. La scelta sembrava limitata tra un Universo
dominato da Dio e un altro dominato dal caso. Ambedue le
scelte mi sembravano inconsistenti, infantili, a volte persino
ridicole. Invece, l’idea che l’Universo possa davvero essere come
lo descrive lui mi rasserena.”
“Ma non ci credi.”
“Per credere ci vuole fede, ma ciò che importa è che potrebbe
essere così. Diciamo che rimango un agnostico, ma che ciò che
potrebbe aspettarmi alla mia morte mi sembra più interessante di
prima” concluse Mapelli.
Le undici.
Puntuale come sempre, Chiara bussò alla porta.
In un quarto d’ora erano tutti seduti sul tappeto, le tazze di tè
fumanti su un vassoio posto al centro ed i libri aperti al
paragrafo “composti eterociclici pentatomici saturi”.
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Erano bravi ragazzi. A parte Chiara, colei che Mapelli
considerava il suo inconsapevole angelo custode, venivano a
lezione Fabio, un ingenuo ragazzone ancora pieno di brufoli,
Saverio, il fidanzato di Chiara, occhi vispi e fisico atletico, e
Giovanna, un’intellettuale in nuce, sempre vestita in modo
variopinto ed originale che aderiva al gruppo di “stop mafia”, un
raro esempio di partecipazione spontanea in una città
addormentata.
Erano tutti fuorisede, liberi perciò di gestire le loro giornate e,
soprattutto, le loro serate. Una volta lo invitarono persino ad una
festa a casa di una loro amica dove si prometteva “birra a fiumi e
musica sparata” - come gli dissero per invogliarlo. Lui ebbe la
decenza di declinare l’invito con una scusa inventata al
momento, ma fu lusingato che ci avessero pensato.
I ragazzi lo chiamavano per nome. A volte anche “prof”, a
seconda dell’umore della giornata. Lui considerava la cosa come
una sincera accettazione, e perciò la apprezzava.
“Allora ragazzi, sono stato chiaro?” disse concludendo la
lezione.
“Direi di si, prof” rispose Fabio.
“Faremo un esamone” confermò Chiara.
Gli altri due si limitarono ad annuire con un movimento
eloquente della testa.
“Quando avete l’esame?”
“Il mese prossimo” rispose Giovanna.
“Ok. Per allora saremo pronti” disse tranquillo Mapelli.
I ragazzi andarono via lasciandosi dietro una scia di freschezza,
almeno questo sentiva Mapelli ogni volta che finiva la lezione.
Non che li invidiasse, questo no, in realtà non aveva mai provato
il desiderio di tornare indietro nella sua vita e si era chiesto più
volte come mai. Razionalmente, questo poteva voler dire solo
due cose: una giovinezza da dimenticare, oppure una gran fiducia
nel futuro. In realtà sentiva che né l’una, né l’altra ipotesi, erano
vere. Aveva avuto una giovinezza difficile, questo si, ma anche
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molto fortunata. Chi non ha avuto una giovinezza difficile? Ogni
processo di crescita implica per sua natura delle difficoltà, ma le
sue non erano certo state determinanti. Non la pensava così il
suo ex psicanalista, il quale riteneva piuttosto che il vuoto
familiare l’avesse marchiato a vita facendone un tipo
cronicamente affetto da malinconia. E allora? – si diceva Mapelli
– se anche questo fosse l’effetto del vuoto familiare, non dovrei
semplicemente accettarlo? No, la verità è che sono stato un
fortunato – concludeva. E Laura? Come avrebbe reagito lei al
vuoto familiare? Non c’era modo di scoprirlo adesso, ma di certo
nel suo futuro di donna ci avrebbe dovuto fare i conti.
D’altra parte sapeva anche di non nutrire nessuna particolare
fiducia nel futuro. O meglio, era nel suo futuro che non nutriva
speranze. In quello dell’umanità, chissà perché poi, vedeva
grandi cose, ma si era rassegnato all’idea di essere nato nel
momento sbagliato. Se un viaggiatore del tempo fosse venuto a
proporgli di seguirlo nel futuro, non ci avrebbe pensato due
volte, l’avrebbe seguito ad occhi chiusi. Forse era per questo che
amava tanto la fantascienza.
Squillò il telefono. Alzò la cornetta e disse:
“Qui è l’astronave del comandante Spencer, in viaggio verso la
nebulosa di Fetron, con chi ho il piacere di parlare?”
“Mi scusi comandante se disturbo le complesse operazioni di
avvicinamento alla sua nebulosa, sono Carmine, non è che per
caso ha a bordo un umano che corrisponde al nome di Giulio
Mapelli?”
“La sua incursione su questo canale radio è alquanto
inopportuna, abbiamo i Prot alle calcagna e non dobbiamo
lasciare tracce sonore della nostra presenza.”
“Allora perché ha risposto?”
“La sua è una buona domanda. Arguta, direi. Forse è meglio
che le passi l’umano che ha chiesto.”
“Grazie comandante, e … occhio ai Prot.”
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“Ciao, sono Giulio. Scusa per il comandante, ma qui a bordo
cominciamo a sospettare che non ci sia più con la testa. Sai, sono
cinquantadue anni che viaggia per lo spazio senza mai tornare
sulla terra.”
“Capisco. Ti va del buon pesce stasera?”
“Sicuro.”
“Ci vediamo al solito posto alle otto.”
“Ok. Passo e chiudo.”
“Passo e chiudo. E salutami quel rincoglionito del comandante
Spencer.”
“Ok, ne sarà felice. Passo e richiudo.”
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17. Ma sei proprio tu?
Seduto di fronte al Trionfo della Morte, Mapelli pensava ad
Amrutras ed alle sue divagazioni sulla reincarnazione. Quel
giorno aveva pranzato con Laura, il solito veloce spuntino.
Dopo non era tornato a casa, aveva preferito anticipare la sua
passeggiata, una lunga camminata che l’aveva portato fino a
Palazzo Abatellis e, essendosi ormai convinto dopo l’esperienza
indiana che nulla succede per caso, pensò che il busto marmoreo
di Eleonora d’Aragona desiderasse essere ammirata qualche
minuto da lui: perchè la nobildonna sapeva quanto l’ammirasse
ed evidentemente ne era compiaciuta. Almeno questo credeva
Mapelli, così come si era ormai convinto che in qualche vita
precedente l’avesse conosciuta. Niente di serio, per carità, magari
ad una festa da ballo o in qualche avvenimento pubblico. Fatto
sta che i suoi tratti gli erano in qualche modo familiari. Così,
dopo averla ammirata lungamente ed aver rinnovato la sua
devozione per lei, si diresse nella sala sopraelevata dalla quale si
poteva ammirare in tutta la sua maestosità il “trionfo della
morte”, quadro di un anonimo del XV secolo. Gli occhi fissi sul
terribile cavallo e la mente al samsara, il ciclo delle reincarnazioni,
si sentì chiamare:
“Giulio, ma sei proprio tu?”
“Sandra! Ciao!” rispose lui sorpreso da quella inaspettata
apparizione. Si alzò per baciarle discretamente la guancia e
ricevette invece un caloroso abbraccio.
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“E’ incredibile, ma vengo dalla sala di Eleonora e ho pensato a
te e alla tua devozione per lei. Ed eccoti qui! Sono con un
gruppo di professori australiani.”
“Io sono solo a passeggio. Ti trovo bene. Sei bellissima.”
“Grazie, ma non è un buon periodo.”
“Lo so, Laura mi ha detto di tua madre.”
“Soffriva da mesi” disse lei con gli occhi lucidi.
“Mi spiace” rispose lui prendendole la mano.
“Senti, adesso devo scappare. Starò ferma in città per un bel
pò, ho da sistemare le cose di mia madre. Ti andrebbe di cenare
insieme una di queste sere?” disse piegando la testa di lato.
Sul momento lui non fu certo di aver capito bene. Gli stava
chiedendo di vedersi?
“Vuoi dire proprio a cena?” le chiese timidamente.
“Beh, di solito si cena a cena” rispose lei sorridendo. Sapeva di
averlo spiazzato e, sadicamente, un pò se ne compiaceva.
“Scusa, sono un pò...”
“Confuso, lo so. Se non ti senti posso capirlo.”
“Al contrario, ne sono felice. A casa mia?”
“Ti chiamo appena posso.”
Si riabbracciarono, poi lei si allontanò girandosi a salutarlo
ancora con un veloce gesto della mano.
Ancora stordito, tornò a sedersi di fronte al quadro. Davanti a
lui a questo punto c’era solo un’enorme macchia di colori
indistinti. Guardava, ma non vedeva, la mente completamente
assorbita dalla ricerca di un indizio, un segno che gli desse una
spiegazione plausibile a quello che era successo. Forse anche lei
si sentiva sola. E poi era morta sua madre. Quell’invito non
significava nulla, era solo un momento di debolezza. Una volta
riavutasi dallo sconforto di sicuro avrebbe telefonato per disdire
la cena. D’improvviso rintracciò nella memoria il profumo
inebriante della crema che Sandra usava spalmarsi sulle cosce
dopo la doccia e la sacralità rituale che metteva nell’indossare le
sue autoreggenti nere. Le immagini di loro due che facevano
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l’amore sul prato di fronte la loro casa di campagna prima che
nascesse Laura cominciarono a scorrere nella sua mente. Se si
fosse lasciato avviluppare ancora da quell’ondata di rimpianto,
avrebbe passato un pomeriggio terribile. Resistette, si divincolò,
respinse energicamente quel frammento di vita passata e tornò a
concentrarsi sul quadro. Gli sembrò, per un attimo, che lo
scheletrico cavallo lo stesse guardando. E tu che vuoi? – disse
piano – pensa ai fatti tuoi. Si alzò e se ne andò.
Una settimana dopo i due erano a cena a casa di Mapelli.
Spiluccando dai piatti, si raccontarono ciò che erano stati in quei
lunghi anni di assenza. Lei parlò della sua vita accademica e dei
tanti viaggi in giro per il mondo per mostre e conferenze, lui
della recente esperienza indiana, della fluidità ritrovata, delle
lezioni che teneva ai ragazzi e di come avesse ritrovato il piacere
di insegnare, di rendersi utile. Sembravano gli attori di un testo
teatrale dell’avanguardia americana, con quell’unica luce che
scendeva dal tetto fino al piccolo tavolo apparecchiato a
illuminare la scena come fosse uno spot sapientemente piazzato
da un abile regista, solo la cucina come sfondo alla scena, quasi a
sottolineare l’intimità tra due esseri che si conoscevano bene e
che parlavano, ridendo o rabbuiandosi sull’onda delle emozioni
che il fiume di parole suscitava.
Il vino li aiutò a superare i momenti più difficili, quelli in cui
cominciarono a rendersi conto che non avrebbero potuto evitare
di parlare del passato in comune, che prima o poi la memoria
avrebbe avuto il sopravvento. E fu lei per prima, come sempre, a
prendere l’iniziativa.
“Stai con qualcuno?”
“Chi, io? Vuoi scherzare?” rispose lui ridendo.
“Perchè? Sarebbe normale.”
“No, non dopo di te” disse lui tranquillamente portandosi una
forchettata di dolce alla bocca.
Lei non riuscì a dire niente, sorpresa dalla sincerità di
quell’affermazione.
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“Tu, piuttosto? - chiese lui masticando – ho più volte chiesto a
Laura ma ho sempre trovato un muro di gomma davanti a me.”
“Ho avuto diverse storie. Lei di certo l’ha capito, ma non le ho
mai dato la possibilità di esserne assolutamente sicura. Niente
presentazioni né telefonate a casa. Una è durata due anni, con un
pittore austriaco che era venuto a vivere nell’esotica Sicilia in
cerca di ispirazione, ma è finita da parecchio. Ora sono sola.”
“Felicemente?”
“Direi meglio: serenamente.”
Lo disse con un falso sorriso, storcendo un pò la bocca. Si alzò
a prendere la frutta.
“E tu sei felice?” gli chiese posando le mele sul tavolo.
“No, ma so che potrei.”
“Che vuoi dire?”
“Che credo di aver capito che non ci sono preclusioni alla
felicità, per nessuno. Che a volte l’infelicità è una scelta. Che
dietro questa scelta si possono nascondere semplici meschinità.
Che ci vuole un’intelligenza machiavellica per costruire
minuziosamente le condizioni necessarie ed indispensabili a che
si realizzi la propria infelicità. E forse è per questo che è così rara
tra coloro che consideriamo ignoranti. Che dipende, in buona
parte, da noi, da come ci porgiamo alla vita. Insomma, sono
propenso a credere che la vita si adegui a quello che vuoi essere.”
“La pensavi così, un tempo - disse lei – voglio dire, prima di
stare male”. I suoi occhi esprimevano compassione, forse anche
un pò d’amore.
“Davvero? Non me ne ricordo più.”
“Per questo mi innamorai di te.”
“Di questo mi ricordo bene.”
Versò un altro pò di vino per tutti e due, un modo per non
dover guardarla direttamente negli occhi che adesso lo
imbarazzavano. Non era più abituato a quella luce.
“Hai sofferto molto in questi anni, vero?” disse lei.
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“Credo di essermelo meritato. Quello che fai ti ritorna con gli
interessi. Gli indiani lo chiamano karma, è una legge infallibile.”
Per la prima volta in tutta la serata non trovarono più niente da
dire, ma non fu un silenzio imbarazzante, piuttosto un salto di
qualità nella comunicazione: il sentimento sostituì le parole, si
sentirono senza nessun rancore, nessuna recriminazione, soltanto
una profonda comprensione reciproca.
Lei gli prese la mano, la guardò, l’accarezzò, se la portò al viso
chiudendo gli occhi. Stette così per un pò, poi riaprì gli occhi e
disse:
“Si è fatto tardi.”
“E’ stata una bella serata.”
“Si.”
“Ti rivedo?”
“Sentiamoci” disse alzandosi.
L’abbracciò sul pianerottolo proprio mentre Chiara usciva
dall’ascensore, di ritorno dalle solite scorribande notturne.
“Lascio aperta la porta?” chiese imbarazzata.
“Si, grazie” rispose Mapelli.
Sandra entrò nell’ascensore, diede la buonanotte a entrambi e
sparì lentamente versò il basso.
“E’ un bel pezzo di femmina! E’ una conquista dell’ultima
ora?” gli chiese subdola.
“Vai a letto, insolente” gli rispose lui dandole una pacca sul
culo.
“Notte, macho” fece lei strizzandogli l’occhio mentre apriva la
porta.
Mapelli andò a letto con un senso di leggerezza che non
provava da molti anni. Lavò i denti, mise il pigiama, si
raggomitolò sotto le coperte e si addormentò subito. Di sicuro
sognò, ma al mattino non ricordava nulla.
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18. L’isola della pienezza
Sonnecchiavano, nudi sul letto, come due amanti qualsiasi dopo
aver fatto l’amore.
Mapelli aprì gli occhi, girò lo sguardo e vide il viso di Sandra
poggiato sul cuscino, il respiro pesante, la bocca leggermente
aperta. Le sarà piaciuto? - si chiedeva. Quando riaprirà gli occhi,
cosa vedrò in essi? La malcelata delusione di chi ha appena
ingoiato la classica minestra riscaldata, oppure la gioia di chi
riscopre il piacere della pienezza? Sperò che lei non aprisse gli
occhi ancora per un pò, che gli desse la possibilità di godere
ancora di quella sospensione temporale in cui tutto era ancora
possibile, nel bene e nel male.
Sandra contrasse i muscoli della faccia, mugolò e si girò
dall’altra parte. Un gesto tipico di lei che conosceva benissimo.
Significava che voleva riposare ancora un pò. Si girò sul letto
lentamente, aiutandosi con gli avambracci per non sollecitare
troppo la schiena, il suo punto debole.
C’era voluto un mese di cene e romantiche passeggiate prima
che si decidessero a farlo, spaventati com’erano dalle possibili
conseguenze. Per questo avevano tenuto Laura all’oscuro di
tutto, ricominciando a frequentarsi nella convinzione che due ex,
dopo tanti anni di distacco, non potessero essere sicuri di riuscire
a convertire i loro vecchi sentimenti in una tranquilla amicizia. E
infatti si resero presto conto che non sarebbe stato così, né,
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d’altronde, fecero nulla per fermarsi quando cominciarono a
capirlo.
Era stato un mese gradevole. Chiara e gli altri ragazzi
superarono tutti l’esame, anche se alcuni meno brillantemente di
altri. Mapelli, da ex professore, non si stupì. Sapeva che sul voto
contavano molti fattori che poco avevano a che fare con
l’intelligenza. Per festeggiare andarono una sera in un piccolo
borgo marinaro fuori città a mangiare spaghetti alle vongole e
cozze scoppiate. Poi andarono sugli scogli a guardare il mare in
tempesta fino a quando uno starnuto di Mapelli suscitò un coro
di voci preoccupate per la sua salute. Per quanto lui insistesse per
restare un altro pò, lo trascinarono di peso fino all’automobile e
lo accompagnarono fin dentro casa dove gli prepararono una
tisana calda contro i raffreddori. Quelle amorevoli attenzioni nei
suoi riguardi lo commossero. Si fece vergognosamente coccolare
arrivando persino a fingere altri starnuti. Andarono via solo
quando si convinsero di aver fatto tutto quanto fosse necessario
per evitargli un malore.
In quei giorni ricevette anche un’inaspettata cartolina di suo
padre che lo invitava a raggiungerlo. Perchè non vieni? E’ troppo
tempo che non ci vediamo ed io sto invecchiando in fretta – diceva. Chissà
perchè non era mai andato a trovarlo, era sempre stato lui a
raggiungerlo in Italia, quando doveva mettere a posto qualche
vecchia questione economica o quando venne a conoscere
Laura, una settimana dopo la sua nascita.
Aveva anche avuto notizie fresche dall’India: la cooperativa di
Hamsa aveva iniziato a produrre sari per un negozio di Bombay
e presto avrebbero avviato anche la produzione di altri prodotti
tessili.
Sandra, invece, aveva dovuto risolvere tutte le penose trafile
che seguono la morte di un genitore, compreso lo
smantellamento della casa in cui l’anziana donna viveva da sola.
Aveva annullato tutti i suoi viaggi di lavoro lasciando spazio solo
alle lezioni che continuavano ad impegnarla durante la settimana.
132
Mapelli tornò a guardarla. Seguì le curve del suo corpo nudo
disteso sul letto, dalla testa fino ai piedi. La immaginò come
un’isola, le lenzuola a riprodurre le onde del mare che la
lambivano. Aveva sempre avuto delle belle natiche. Ed i fianchi
stretti. Quella mattina non aveva avuto lezione, si erano visti a
mezzogiorno per un aperitivo in un bar del centro. Era bastato
che i loro sguardi si incrociassero per capire che sarebbe finita
così. Avevano cominciato a fare l’amore molto prima di finire a
letto, spogliandosi con gli occhi mentre bevevano dai bicchieri
colmi di liquido colorato che il barman gli servì al tavolo.
“Hai da fare a pranzo? - aveva chiesto lei – Laura è a studiare
da una sua collega.”
“No. Vuoi venire da me? Possiamo farci un’insalata” rispose
lui.”
Ma non ci fu nessuna insalata.
Tornò a guardare il corpo disteso di Sandra. Individuò il golfo
di quella meravigliosa isola: le gambe leggermente ripiegate. I
piedi, invece, erano due promontori paralleli proiettati verso il
mare. Seguì le curve risalendo verso la testa. Arrivò al passo che
formava il fianco, tra le due alture del bacino e del busto. Poco
più giù trovò la fossetta della schiena, ben marcata, a formare
una V che sembrava sfrontatamente indicargli la via per l’oblio,
quella fessura tra i glutei che gli riaccese il desiderio. Vi mise
dentro la lingua, delicatamente. Sandra si mosse appena, quel
tanto che gli potesse rendere più facile quello che stava facendo.
Il respiro le si fece più veloce, rantolò come un gatto, poi si girò
a prendergli il viso tra le mani e lui potè guardarla negli occhi.
Allora vide la gioia della pienezza e la baciò. Con gratitudine.
Dopo vennero strani giorni e mille domande. La necessità di
reimpostare le esistenze di tre individui provocò sbalzi d’umore
frequenti, e discussioni interminabili. Capirono presto che sia
loro che Laura avevano bisogno di un periodo di riadattamento,
una sorta di rieducazione alla vita familiare.
133
Saggiamente, ripresero la vita di sempre, dedicandosi tutti i
momenti migliori con serenità, senza l’affanno dell’urgenza. Pian
piano, scoprirono che il tempo aveva cambiato molte cose. Per
esempio, lei, che non aveva mai sopportato l’ordine, adesso si
comportava come un sergente maggiore in caserma rimettendo a
posto ogni cosa e lavando e asciugando i piatti dopo ogni pasto
insieme. Lui, invece, aveva imparato ad apprezzare la cioccolata,
prima d’allora odiata a morte. Per non parlare di Laura che per
Giulio era poco più di un’aliena. A parte i veloci pasti in trattoria
che gli avevano dato una vaga idea di cosa le piacesse mangiare,
per il resto poteva dire di non conoscere sua figlia. Lui,
semplicemente, non l’aveva vista crescere. D’altra parte Laura
non aveva manifestato particolare entusiasmo alla notizia del
ritorno insieme dei suoi genitori, quasi avesse paura che la nuova
condizione potesse mettere in pericolo la sua indipendenza. Così
dovettero in parte conoscersi di nuovo, quel tanto che diede ai
loro momenti insieme il piacere della scoperta. Ma godettero
senz’altro di più nel ritrovare le unicità che nessun tempo può
cambiare in un essere umano e che rappresentano, per l’altro,
quelle certezze che rendono la vita più scorrevole, meno
imprevedibile.
Tornarono spesso in quella che era stata la loro casa di
campagna. Giulio non vi era più stato da quando vi aveva vissuto
per un pò durante la loro separazione. Sandra ci era andata una
volta l’anno, il tempo di dare una ripulita e occuparsi di qualche
riparazione. Laura, invece, ci aveva organizzato qualche festa con
gli amici ambientalisti.
Ormai non c’era più il prato all’inglese su cui aveva fatto tante
volte l’amore, solo erbacce e cespugli e alberi da frutto trascurati
da anni. Ma la casa era vivibile, accogliente e allegra come allora,
posta sulla collina quasi fosse una terrazza panoramica sui monti
circostanti. Lì continuarono a raccontarsi gli anni di separazione,
ad arricchire di particolari quelle cose che non avevano avuto il
tempo di dirsi, a meglio delineare i contorni delle loro diverse
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esistenze. Così Vidur, Hamsa ed Amrutras divennero nella
mente di Sandra persone con un viso ed una personalità, non più
solo nomi esotici di entità astratte. Fu una sorpresa per Giulio,
invece, scoprire che Sandra parlasse solo delle cose che aveva
fatto e mai delle persone.
“E’ solo che non ho conosciuto persone interessanti – disse lei
una mattina quando Giulio le fece notare la cosa – e gli amanti
non lo sono quasi mai.”
“E il pittore austriaco?”
“La solitudine ti porta a fare stupidate. Di lui non mi è rimasto
niente. Ancora adesso lo trovo incredibile, ma è così. Stai con
una persona due anni e non ti lascia niente.”
“Anch’io ho avuto un’amante per solitudine, una sola” disse
lui ridendo.
“Davvero? Non me ne hai parlato! Dai racconta” fece lei
curiosa.
Gli raccontò di Muriel, della sua ricerca del sé e di come si
fosse spaccato la schiena l’ultima notte di sesso. Finirono per
ridere con le lacrime, l’una addosso all’altro fino a quando lei
disse:
“Poverina però, ti sei approfittato di una donna in cerca di
risposte”
“No, no – rispose lui – è lei che si è approfittata di un
pover’uomo in difficoltà!”
E continuò raccontandogli di Mr Banajiri e dell’aitante
massaggiatore indiano.
A volte, quando erano in campagna, spesso senza Laura che
aveva sempre qualcosa di importante da fare in città, andava a
trovarli Carmine, felice di poterli rivedere insieme. Mai a mani
vuote, si presentava con pesce fresco da arrostire alla brace, dolci
presi nella migliore pasticceria di Palermo e bottiglie di vino
pregiato. Malgrado ci fosse ancora freddo, la primavera era
dietro l’angolo, così Sandra preferiva apparecchiare fuori, sotto la
veranda, mentre i due uomini armeggiavano con la brace ed i
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pesci da pulire. Erano serate tenere, senza tensioni di nessuna
natura, tra persone mature che cercavano dalla vita piaceri
semplici, come la visione di un infuocato tramonto arancione o il
delizioso aroma del pesce che sfrigola sulla brace.
Quando arrivò la primavera, Sandra dovette partire per due
settimane, e fu solo allora che si accorse di quanto si fosse di
nuovo legato a lei.
La compagnia di Carmine o dei ragazzi che andavano a
trovarlo a casa non riuscivano a colmare il vuoto della sua
assenza. Solo Laura riusciva a mitigare quella sensazione, forse
perchè aveva cominciato a stare un pò di più con lui.
“Il mio lavoro non mi sembra più importante come prima. E’
grave?” gli disse Sandra, una sera al telefono.
“No. Lavorare è solo un modo per guadagnarsi il pane. I
fortunati come te non se ne accorgono perchè fanno ciò che
avrebbero voluto fare comunque, a prescindere dall’urgenza
dello stipendio. Ma ci sono un milione di cose più importanti del
lavoro” rispose lui.
“Torno presto.”
“Lo so.”
“Baciami.”
“Lo sto facendo.”
136
19. La paura di Laura
“No pà, stasera sono al centro sociale occupato – gli stava
dicendo Laura al telefono – stiamo preparando uno spettacolo
teatrale sulla pena di morte. Magari domani.”
“Potremmo cenare fuori e poi andare al cinema” disse Giulio.
“Senti, ma che è sta fregola adesso di vedersi continuamente? sbottò lei agitata – sono contenta che tu e la mamma siate tornati
insieme, lo dico sul serio, ma spero non penserete di impormi un
nido familiare che non c’è mai stato. Abbiamo sempre corso da
soli, tutti e tre, ed è troppo tardi per cambiare le cose.”
“Si può benissimo correre da soli e volersi bene” rispose lui
arrabbiato.
“Chi ti dice che non te ne voglia? O che non voglia bene alla
mamma? Non è una questione di amore. Tu dovresti capirlo
meglio di chiunque altro. Ma hai mai riflettuto un attimo su
questa famiglia? Il nonno se n’è andato che eri ancora giovane. E
non è neanche il tuo vero padre. La mamma è sempre in giro o
all’università. Tu te ne sei andato che ero una ragazzina. Ho
dovuto arrangiarmi come hai fatto tu. E adesso volete che mi
trasformi improvvisamente in una figlia devota, tutta casa e
chiesa.”
“Hai avuto i nonni materni.”
“Sai che meraviglia crescere fuori da casa tua!”
“Senti Laura, adesso sei agitata, non possiamo parlarne meglio
domani? Vengo io a casa, quando vuoi, quando hai tempo.”
137
In quelle due settimane senza Sandra, il tono delle loro
conversazioni era sempre più degenerato. Improvvisamente, la
Laura svagata e distante si era fatta rabbiosa, come un animale
che teme per il suo territorio. Giulio cercava di farsene una
ragione, era normale che Laura avesse quelle reazioni – si diceva
– non aveva torto, ma come fare a trovare la chiave d’ingresso al
suo cuore, a mitigare le sue paure, a spegnere quella rabbia che
aveva in corpo? Giulio non ne aveva parlato con Sandra durante
le loro conversazioni telefoniche. Voleva in tutti i modi tenerla
distante da quel momento di difficoltà, voleva che pensasse che
tutto stava andando bene. Almeno fino a quando fosse rimasta
via da Palermo. Poi avrebbero trovato insieme un modo per
affrontare la nuova situazione.
E invece fu Carmine a dargli una mano.
In tutti quegli anni l’amico non aveva mai smesso di
frequentare Sandra e Laura. Per la ragazza era uno di famiglia,
sempre disponibile a darle una mano, un consiglio appropriato,
una parola consolatoria. Giulio ne era stato persino geloso.
Pensò addirittura che fosse diventato l’amante di Sandra, poi,
quando alla sua richiesta di spiegazioni Carmine lo mandò a fare
in culo, scartò la bizzarra ipotesi. Ma continuò a non tollerare i
racconti della figlia su quanto fosse meraviglioso lo zio Carmi.
Carmine non fece niente di eclatante, semplicemente si
interpose tra i contendenti, come è logico fare quando questi
comunicano ormai su piani differenti. Fu l’inviato ONU della
famiglia e, una parolina conciliante qui, una carezza là, riuscì a
calmare le acque tra i due. Convinse Laura che non era
intenzione di Giulio proiettarla indietro nell’infanzia. Lei era
ormai una ragazza matura che i suoi genitori avevano imparato a
stimare per le sue qualità. Certo, a volte un pò spigolosa e
rispostiera. Forse un pò troppo distaccata. Ma aveva le sue ragioni,
Carmine ne era convinto. Avrebbe dovuto avere un pò di
pazienza con suo padre, era un uomo che aveva sofferto molto
negli ultimi tempi e aveva fatto un sacco di cazzate. Ma non era
138
cattivo, no, solo confuso, e gli voleva davvero tanto bene. Di
certo non era sua intenzione irrompere nella vita di Laura come
un invasore indesiderato, voleva solo starle un pò più vicino,
imparare a conoscerla meglio. Recuperare, non facesse quella
brutta faccia, non era mica una parolaccia, si, recuperare il tempo
perduto. E poi adesso stava molto meglio, se gliene avesse dato
la possibilità se ne sarebbe accorta da sola. Era tornato ad essere
un uomo, come dire, interiormente ricco.
Durante quel discorso la ragazza pianse, come pianse anche
Giulio quando fu il suo turno. Carmine gli disse che la ragazza
era solo spaventata. Capisci, ormai si era costruita una vita sua in
cui credeva non ci potesse essere spazio per una vera famiglia, e
adesso teme di poter essere di nuovo illusa. Si, sembra dura e
distante, ma in realtà ti vuole bene, è solo un modo per tenere
lontana un’altra possibile delusione. Ha bisogno di certezze, e di
tempo. Adesso smettila di piangere che c’hai la tua età, sei tu che
devi dimostrare saggezza, per lei è ancora presto.
Così, qualche giorno dopo, Laura e Giulio riuscirono a vedersi
a cena senza litigare. Dopo non andarono al cinema, avevano
troppe cose da dirsi, ma se le dissero con calma, anche le cose
più crude, senza la cinica volontà di farsi male. Naturalmente
non potevano capirsi, ma cominciarono a percorrere il lungo
cammino dell’accettazione reciproca, il pilastro su cui si basa
ogni vero rapporto d’amore.
Decisero che tutte le cose che si erano detti sarebbero rimaste
un segreto tra loro due, anche perchè molte di quelle cose
riguardavano Sandra. E così fu. Quando Sandra tornò dal suo
viaggio di lavoro li trovò come li aveva lasciati, solo un pò più
simpatici.
Giulio era andato a prenderla in aeroporto. Adesso lei stava
disfacendo le valigie mentre aspettavano Laura per cenare
insieme.
“Sei uscito spesso con Laura?” gli chiese lei.
“Poco.”
139
“Dovremmo fare più cose insieme” disse lei propositiva.
“Penso sia meglio lasciare che sia lei a volerlo” replicò lui
facendo finta di non staccare gli occhi dal giornale che stava
leggendo, mentre in realtà la scrutava con la coda dell’occhio per
carpire la reazione alle sue parole.
“Dici?” chiese lei interrompendo quello che stava facendo.
Portò la mano al fianco e si mise a guardare un punto
imprecisato sulla parete di fronte.
“Che c’è?” chiese lui vedendola così concentrata.
“Niente. Credo che tu abbia ragione” concluse lei tornando a
disfare le valigie. Ma si fermò di nuovo e lo raggiunse alla
poltrona sedendosi a cavalcioni su di lui.
“L’India ti ha fatto bene. Stai diventando un vecchio saggio.
Ed io ho voglia di fare l’amore con te. Ora” gli disse
cominciando a sbottonargli i pantaloni.
“Dovrai aspettare stasera – fece lui fermandola – ricordi?
Siamo due genitori che aspettano la loro figlia per cenare. Non
vorrai farti trovare nel bel mezzo di un amplesso?”
“Va bene - disse lei alzandosi – ma stasera non mi sfuggirai”
concluse agitando l’indice dietro gli occhi famelici.
140
20. Funerale a Nuku Hiva
Pochi giorni dopo il ritorno a Palermo di Sandra, Giulio ricevette
un telegramma dell’Alto Commissariato per le Isole Polinesiane
che gli comunicava che suo padre, Mr Alberto Carlo Maria
Mapelli era disperso in mare da due giorni al largo di Nuku Hiva,
isola dell’arcipelago delle Marchesi, e che le ricerche erano
ancora in corso. Il telegramma si chiudeva assicurandogli tutta
l’assistenza necessaria qualora avesse deciso di recarsi sul posto.
Giulio rigirò a lungo tra le mani il telegramma senza avvertire
nessuna particolare emozione, piuttosto la sua attenzione fu
catturata da particolari insignificanti come lo strano colore della
carta, l’elegante bollo sull’intestazione nella busta, che fosse
scritto in inglese piuttosto che in francese. Nuku Hiva era l’isola
dove suo padre abitava da anni. Faceva parte delle terre francesi
d’oltremare, come del resto tutte le isole Marchesi.
Chiamò Sandra, certo che parlare con lei l’avrebbe indotto a
una qualche decisione circa il da farsi.
“Ciao Sandra. Il vecchio notaio è disperso tra le onde del
Pacifico, me l’hanno appena comunicato” disse senza toni
particolari.
“Vuoi dire tuo padre?”
“Proprio lui, ho ricevuto un telegramma da Papeete.”
“E che si fa adesso?” gli chiese ansiosa.
“Non saprei. In ogni caso la mia presenza lì sarebbe del tutto
inutile.”
141
“Ma hai potuto parlare con qualcuno? Che ne so... la donna
con cui vive?”
“Non ha neanche il telefono! E poi credo parli solo francese.”
“Beh! Qualcosa bisognerà pur fare” disse lei.
“Manderò un telegramma di risposta e poi vedremo” concluse
arricciando le labbra.
“Ci vediamo a pranzo e ne parliamo meglio.”
“Si. Ciao” concluse lui capendo che la telefonata non aveva
sortito l’effetto desiderato.
Ripose il telefono sul tavolo e tirò fuori da uno scaffale della
libreria l’atlante. Trovò subito l’arcipelago delle Marchesi perchè,
da quando suo padre aveva scelto quel posto per vivere, ogni
tanto se lo guardava. Nuku Hiva era così piccola che sulla carta si
poteva a malapena leggere solo il nome su un puntino bianco,
tutt’attorno una distesa infinita di azzurro, macchiettata da
decine di altri puntini bianchi, solo quelli più importanti.
Pensò di chiamare l’avvocato Ferri. Malgrado fosse vicino ai
settant’anni, era ancora l’amministratore dei beni del padre. La
notizia lo sconvolse, lasciando interdetto Giulio. Il legame che
univa quei due uomini era sempre stato un mistero per lui, si
occupava dei suoi beni con una cura sorprendente, come se ci
fosse una stima consolidata e un affetto fraterno per l’uomo, al
di là dell’incarico formale. Dovette consolarlo, giungendo a dirgli
che gli avevano assicurato che c’erano fondate speranze di
rintracciarlo. Una bugia come un’altra pur di interrompere quella
penosa situazione.
“Tienimi informato, ti prego” gli disse tirando col naso.
“Stia tranquillo, lo farò” rispose Giulio chiudendo la
telefonata.
Trascorse la giornata come fosse intontito. L’unica reazione
tangibile all’accaduto era solo una leggera sensazione di vuoto
all’altezza del plesso solare, come quando percepisci d’istinto che
da quel momento in poi l’ordine delle cose non sarà più lo stesso
e comincia a fare capolino l’ansia di dover creare un nuovo
142
ordine, la preoccupazione di decidere da cosa cominciare e a
cosa dare priorità. Non era un problema materiale, non poteva
esserlo dato che l’assenza di suo padre era già nell’ordine delle
cose, ma era questo che sentiva. A sera, andando a letto, gli
venne in mente Amrutras che, accarezzandosi la folta barba
bianca durante uno dei pomeriggi di meditazione, aveva detto:
Alcuni scienziati si sono chiesti se la realtà che percepiamo sia in effetti
quella che vediamo. Così hanno sottoposto alcuni volontari ad un
interessante esperimento. Monitorando costantemente l’attività cerebrale,
hanno chiesto loro di guardare un oggetto e poi, in un momento diverso, di
pensarlo solamente. L’esperimento ha dimostrato che nell’uno o nell’altro
caso, venivano attivate le stesse zone del cervello. Non abbiamo, dunque,
bisogno di vedere, col solo pensiero possiamo creare la realtà. Pensate quale
potere possiede la mente!
Il giorno dopo arrivò un altro telegramma. La barca di suo
padre era stata trovata vicino l’isola di Ua Huka, poco distante da
Nuku Hiva. Del corpo nessuna traccia, ma sembrava ormai
evidente che fosse caduto in mare. A meno che non si fosse
arenato su una delle isole attorno, non c’erano speranze di
trovarlo nell’Oceano. E invece fu trovato ventiquattr’ore dopo
da un gruppo di turisti che passeggiavano proprio sulla spiaggia
di Ua Huka, riverso sulla sabbia come se prendesse
tranquillamente il sole di spalle. L’ultimo telegramma chiedeva se
avesse intenzione di assistere al funerale, in tal caso l’avrebbero
aspettato.
Partì insieme a Ferri, una decisione obbligata poiché l’avvocato
era l’unico a conoscenza degli affari di suo padre. Fu un viaggio
lunghissimo, dall’altra parte del mondo. C’erano tante questioni
da sistemare, gli diceva Ferri durante la traversata oceanica che li
avrebbe portati prima a New York e poi a Papeete. I beni del
padre ammontavano a circa cinquanta milioni di euro, per la
maggior parte palazzi e appartamenti affittati in diverse parti del
mondo, oltre a consistenti cifre investite in azioni.
“Che ne faceva di tutti questi soldi?” gli chiese Giulio.
143
“A parte quello che gli serviva per vivere, una bazzecola nel
complesso, tutti i ricavi venivano devoluti in aiuti a gente che ne
aveva bisogno.”
“Beneficenza?” disse Giulio interdetto.
“A lui non piaceva questo termine. Tuo padre era una persona
eccezionale” rispose lui commosso.
“E perché non se ne sapeva niente?”
“Era una sua precisa volontà. Quando decise di ritirarsi dal
lavoro, aveva già le idee chiare sul suo futuro. Diceva di aver
scoperto che il segreto di una vita felice sta tutto nella semplicità
e nella capacità di donare. Non voleva però correre il rischio di
essere identificato con l’ipocrita riccone che fa beneficenza. La
sua era una scelta più profonda, spirituale direi, e come tale
doveva rimanere un fatto intimo, non pubblico. Era orgoglioso
di te, sai? Apprezzava moltissimo il tuo stile di vita. Avresti
potuto fare la vita del figlio di papà, e invece ti sei voluto fare da
solo.”
In quelle lunghe ore d’aereo la figura di suo padre si dispiegò ai
suoi occhi come una farfalla appena nata, quando, uscita dal
bozzolo, pompa i liquidi vitali nelle ali perchè possano mostrare
tutta la loro maestosità e farle spiccare il primo volo. Il grande
assente, l’uomo che lui aveva sempre considerato come un
campione di egoismo, si riproponeva in una nuova luce, una luce
addirittura accecante per la sua energia. Ma quando hai sempre
pensato a qualcuno in un modo, non puoi improvvisamente
cambiare lo schema mentale che gli hai costruito attorno. Così
Giulio aveva costantemente l’impressione che Ferri gli parlasse
di qualcun’altro. Pur recependo razionalmente l’informazione,
non riusciva a farla propria, ad interiorizzarla e a costruirci attorno
tutte le emozioni ed i sentimenti che ne avrebbero reso possibile
l’acquisizione come definitivamente vera.
Durante lo scalo a Papeete, Ferri gli disse che, dopo il funerale,
avrebbero dovuto ritornarci dal momento che il Consolato
Onorario Italiano si trovava lì. Il padre aveva depositato il
144
testamento presso l’ufficio notarile. Mentre aspettavano il volo
per le Marchesi, notò che non c’era nulla di esotico in quel
posto. A parte un negozietto di artigianato locale che vendeva
collane di conchiglie e fiori, avrebbe potuto essere un qualunque
aeroporto occidentale. Ma a Taiohae, il villaggio principale di
Nuku Hiva posto su una baia contornata da maestose montagne,
sentì distintamente di essere in Polinesia, l’eden sulla terra. La
gendarmerie locale lo aspettava per scortarlo fino alla casa di suo
padre, una semplice abitazione piena di sculture in legno e un
grande giardino attorno. Conobbe così Amandine, la donna che
gli aveva dato Julie, una ragazzina di dieci anni dai tipici tratti
polinesiani che del padre aveva preso solo gli occhi. Amandine
l’abbracciò piangendo, mentre la piccola Julie lo baciò
compostamente sulle guance. Amandine parlava convulsamente
in francese, mostrandogli foto del padre a pesca, in giardino, con
la figlia in braccio. Ogni tanto interrompeva quel fiume di parole
incomprensibili portando le mani al cielo invocando Dio. Giulio
non conosceva il francese, così si limitava a consolare la donna
annuendo gravemente. La piccola Julie, invece, seduta sul
divano, intesseva una corona di fiori mentre grossi lacrimoni le
scendevano silenziosamente sulle guance. Quando ebbe finito
gliela mise al collo e l’abbracciò dicendogli in italiano: sono felice di
averti conosciuto, una frase che suo padre le aveva fatto imparare a
memoria per il giorno in cui avrebbe incontrato il fratello
italiano. A quelle semplici parole, così com’era venuta, quella
strana sensazione di vuoto che lo aveva disturbato sin dall’arrivo
del primo telegramma, improvvisamente sparì. Strinse più forte a
sé Julie, percepì la tenerezza di quell’esile corpicino e si sciolse in
un pianto silenzioso, calde lacrime che gli solcavano il viso e gli
bagnavano le labbra. Si staccò da lei, le prese il viso tra le mani e
le disse:
“Anch’io sono felice di averti conosciuto.”
L’indomani, al funerale, fu sorpreso dalla quantità di gente
venuta a salutare per l’ultima volta il vecchio notaio. In piedi,
145
Amandine e Julie a fianco, di fronte alla bara pronta per essere
calata nella fossa, Giulio fu permeato da un panorama che non
avrebbe più dimenticato. L’isola vulcanica era percorsa da affilate
cime di un verde rigogliosissimo, mentre l’imponente costa
frastagliata era a tratti interrotta da piccole baie battute dalle
correnti. Sapeva che era stata l’isola preferita da Stevenson e che
al suo interno vi erano cascate prodigiose. Uomini e donne
attorno a lui mostravano tatuaggi complessi, simboli arcaici di
una civiltà ormai completamente perduta. Mentre la gente del
villaggio intonava un melodioso canto polinesiano, nell’aria
fluttuava un penetrante profumo di fiori. Adesso poteva capire
quell’uomo e la sua scelta. Non aveva mai cercato di fingersi il
padre che non era, ma era stato responsabile e generoso come il
migliore dei padri. Se avesse dovuto scegliere la sua morte
avrebbe scelto di sicuro questa – si disse.
Finito il canto ringraziò tutti limitandosi a pronunciare due
volte merci, poi calarono la bara nella fossa. Il canto riprese fino a
quando la fossa non fu ricoperta di terra e non vi fu piantata
sopra una croce di legno. La comunità locale si era impegnata a
sostituirla, non appena fosse arrivata da Papeete, con una di
marmo sulla quale sarebbe stata incisa un’iscrizione nell’idioma
locale, una sorta di preghiera al mare perché accogliesse l’anima
di quell’uomo saggio e buono.
Rimase lì altri due giorni. Dovette accettare molti inviti e
ascoltare lunghi racconti sulle imprese di suo padre. A pescate
miracolose con gli amici si alternavano sorprendenti donazioni
alla scuola, a cooperative locali per la lavorazione della copra, o il
reperimento di fondi per la costruzione di un molo per i
pescatori. Dicevano che questo avvenisse grazie a certe lettere
che scriveva a fondazioni di beneficenza francesi. Non ci volle
molto a capire che dietro quelle fantomatiche fondazioni ci fosse
solo lui.
146
Quando ripartì per Papeete c’era una piccola folla a salutarlo.
L’ultima cosa che gli disse Amandine fu che era suo desiderio
che tornasse a prendere la barca del padre.
“Sarà meglio ricordo di padre” gli disse in uno stentato
italiano.
“Falla mettere in secco. Magari un giorno vengo a prenderla”
gli rispose baciandola sulle guance.
Poi abbracciò Julie promettendole che le avrebbe scritto
presto. Un’anziana gli mise al collo la caratteristica collana di
fiori e poi tutti aspettarono, agitando le mani, che la barca che lo
avrebbe portato in aeroporto sparisse oltre il capo della baia di
Taiohae.
Al Consolato onorario italiano di Papeete per i territori
amministrati in Oceania c’era un giovane funzionario ad
aspettarli. All’apertura del testamento non risultò nessun
particolare privilegio, ripartizione secondo le quote legittime
stabilite dalla legge e un vitalizio per Amandine. Una nota finale
pregava Giulio di non interrompere il flusso delle donazioni,
anzi, lo spingeva a cercare nuove opportunità di aiuto lì dove
avesse ritenuto più opportuno.
“Mi aiuterà?” chiese a Ferri.
“Conta su di me” gli rispose l’avvocato, felice che Giulio si
stesse dimostrando all’altezza del padre.
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21. La Spectre della solidarietà
Al ritorno a Palermo Giulio fu assorbito completamente dalla
disamina dei documenti che Ferri sciorinava sul tavolo come
fossero carte da gioco manovrate da un abile pokerista: beni
ereditati sparsi per il mondo, valore attuale, valore delle rendite,
beneficiari di donazioni, progetti per nuove donazioni. Lunghi
elenchi di numeri che Giulio faceva fatica a correlare a una
costellazione di piccoli interventi che obbedivano al principio
della reale utilità. Parlare di beneficenza era tabù, ogni donazione
era mirata a sostenere le attività di comunità povere ma laboriose
che andavano in controtendenza rispetto all’economia globale e
che, senza un sostegno, non avrebbero avuto speranza di
sopravvivere, realtà portatrici di culture e valori umani altrimenti
destinati a sparire. Era un progetto umile e invisibile, ma
estremamente efficace; semplicità e capacità di donare che
assumevano forma di progetto, senza nessuna velleità di voler
cambiare il mondo, quanto piuttosto di preservarlo nelle sue
manifestazioni qualitativamente più genuine. Un gesto solidale,
certo non rivoluzionario. Anche se tra le carte di suo padre,
diverse agende dove annotava idee per nuove donazioni, listati di
cifre e sintetiche riflessioni, aveva trovato questo scritto:
a. Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti.
b. Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti,
non li pretendono o addirittura ci rinunciano.
148
c. Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i
diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli).
d. Ci sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene
tanto peggio per gli sfruttatori.
e. Ci sono degli intellettuali, gli intellettuali impegnati, che considerano
dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che
hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti
ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso
a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori
da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici
sono gli sfruttati.
Lo riconobbe subito. Si trattava di uno scritto di Pasolini che
faceva parte di un discorso, un intervento ad un congresso
radicale che non fece in tempo a leggere perchè sarebbe morto
due giorni prima. Che ci faceva Pasolini nell’agenda di suo
padre? Lo chiese a Ferri. Quello allargò le braccia non sapendo
cosa dirgli.
“Tuo padre non aveva posizioni politiche precise, ma leggeva
di tutto. Avrà trovato quello scritto particolarmente interessante.
In effetti lo è” concluse Ferri rileggendolo con attenzione.
“Certo che lo è! – esclamò Giulio – ma questo è troppo!”
“Che vuoi dire?” chiese Ferri stupito per quella reazione.
“Non si può per una vita dare un’immagine di sé e poi,
morendo, stravolgerla a tal punto. Non è... giusto!” concluse
Giulio sempre più alterato.
“Calmati Giulio. Dovrai fartene una ragione. Nella maturità ha
scelto di non fare rumore attorno a sé. Cambiava ogni giorno
sempre di più, ma lo sapeva solo lui. Chi gli stava accanto poteva
solo cogliere una luce differente nei suoi occhi, tutto qui.
Vogliamo continuare adesso?” chiosò Ferri.
Nei giorni seguenti Ferri lo informò che periodicamente faceva
eseguire delle indagini per verificare l’impatto delle donazioni
sulla qualità della vita di chi le aveva ricevute. Tranne rari casi, i
149
risultati erano generalmente positivi. Naturalmente, perchè tutto
il meccanismo potesse funzionare era necessario far fruttare al
meglio i beni. Per far questo Ferri si avvaleva di diversi referenti
che, messi al corrente delle finalità di quelle operazioni
commerciali, venivano selezionati negli anni per la loro capacità
e una spontanea vocazione alla solidarietà. In effetti si sorprese
nel constatare che le parcelle professionali fossero di modesta
entità, di certo molto al di sotto della norma. Una vera e propria
Spectre della solidarietà.
Quando la disamina dei documenti fu finalmente conclusa,
Giulio non ebbe difficoltà ad accettare le nuove donazioni che
Ferri aveva proposto, chiese solo che fossero aggiunte alla lista la
clinica di Amrutras, la cooperativa di Hamsa e due o tre attività
che alcuni giovani intraprendenti stavano mettendo in piedi a
Palermo. Era certo che ne avrebbero fatto un buon uso.
Naturalmente avrebbe mantenuto l’anonimato, nel rispetto dello
stile imposto dal padre. Ad Amrutras e Hamsa avrebbe detto che
una fondazione italiana trovava lodevoli le loro attività ed era
ben felice di finanziarle.
“Piuttosto bisognerà cominciare a pensare ad un mio
sostituto” gli disse Ferri la sera in cui si concluse quella lunga
maratona.
“Perchè mai? Gli chiese Giulio interdetto.
“Sto superando la settantina, non sono mica eterno. Se una
mattina non mi sveglio più, chi manderà avanti tutto questo?”
“Ha già qualche nome?”
“No.”
“Io forse si” disse Mapelli lisciandosi il mento pensieroso.
Già fu un problema far capire a Carmine cosa si nascondesse
dietro l’immagine consolidata del vecchio patrigno egoista, figurarsi
convincerlo che proprio lui era la persona adatta a succedere a
Ferri quando questi avrebbe dovuto lasciare. Per quanto gli
avesse strappato solo la disponibilità ad affiancare Ferri per
capire di che si trattava e si fosse sentito dire ripetutamente che
150
non gli assicurava niente, che ne avrebbero riparlato meglio man
mano che la cosa andava avanti, Giulio aveva colto negli occhi
dell’amico un lampo di interesse per quella strana attività.
“Ma perchè non te ne occupi direttamente tu?” gli chiese
Carmine.
“Vuoi scherzare?”
“Perchè?”
“Perchè non ne capisco niente di tutte le carte che mi ha fatto
veder Ferri. E poi non sono più un uomo d’azione, sto meglio
nelle retrovie.”
“Tutto suo padre - disse Carmine – sei proprio sicuro d’essere
stato adottato?”
“Assolutamente”
Con grande soddisfazione di Giulio, la vita riprese
normalmente. Aveva fatto tutto ciò che c’era da fare, adesso
voleva solo stare un pò di più con Sandra e riordinare le idee. La
bella stagione era ormai arrivata e, dopo anni di estati lontano
dalle spiagge, riprese ad andare al mare. Mentre Sandra
raccoglieva conchiglie sulla spiaggia, lui leggeva il giornale
sdraiato sotto l’ombrellone. Poi facevano il bagno insieme, dopo
una breve nuotata si scambiavano un po’ di tenerezze e, mentre
lui faceva il morto a galla, lei si divertiva a passargli sotto,
tappandosi il naso con le dita. A volte restavano a cena fuori in
qualche trattoria lì vicino a mangiare pesce fresco e bere vino
gelato. Poi a casa, se non erano troppo stanchi, facevano
l’amore.
151
22. Epilogo: quindici anni dopo
Com’è normale nella vita, negli anni a venire ci furono momenti
felici e altri dolorosi.
Sandra andò in pensione, ma non smise mai di occuparsi di
arte. Veniva ancora invitata a tenere conferenze e, ogni volta che
poteva, andava in giro per mostre. Giulio ebbe il privilegio,
almeno così le diceva facendola stizzire, di assistere in prima fila
allo spettacolo del suo corpo che cambiava.
“Considero ogni tua ruga, ogni nuovo cuscinetto di cellulite un
regalo alla mia vita” le diceva.
Lei si limitava a guardarlo come si guarda un pazzo, ma poi
finiva per abbracciarlo teneramente scuotendo la testa, in fondo
lusingata da quell’uomo che non aveva mai smesso di adularla
contro ogni evidenza.
In tutti quegli anni Sandra godette sempre di ottima salute,
piena d’energie e voglia di fare. Anche il suo carattere, come il
suo corpo, si smussò, divenendo più tenero e indulgente. Amò
Giulio con schiettezza, a viso aperto. Cosa che presupponeva
anche grandi litigate, ma mai incomprensioni.
Laura studiò medicina, si specializzò in America e divenne uno
dei migliori chirurghi del Boston Medical Center. Sposò un
newyorkese che Giulio e Sandra trovavano antipaticissimo, un
collega medico che le diede due bambini, un maschio e una
femmina che parlavano solo inglese. Lui riteneva che l’italiano
fosse una lingua morta, non aveva senso sprecare neuroni per
152
impararla. All’inizio passavano le vacanze insieme, in Italia o in
America, perchè i nonni potessero stare un pò con i nipotini, ma
erano sempre giorni di tensione in cui Laura doveva fare i salti
mortali per evitare discussioni spiacevoli tra i genitori ed il
marito. Così, nel tempo, lei prese l’abitudine di passare un pò
delle sue vacanze senza il marito, insieme ai genitori e ai figli, in
una delle tante isole che circondano la Sicilia.
Vidur era ormai il responsabile della clinica per la raccolta delle
materie prime e la preparazione dei rimedi. Abha aveva preso il
posto che era stato di Amrutras. Le donazioni della fantomatica
fondazione italiana avevano consentito un discreto ampliamento
della struttura e la creazione di un laboratorio per le analisi del
sangue. Giulio tornò più volte a trovarli e a sottoporsi a
panchakarma purificatori. In quelle occasioni, a volte
accompagnato da Sandra, potè conoscere la giovane moglie di
Vidur e i suoi numerosi figli. Abha, invece, non volle sposarsi
mai, preferendo dedicare interamente la sua vita ai malati. Pur
conservando la sua eccezionale bellezza, finì per assumere
l’aspetto di una severa sacerdotessa, gravata dalla responsabilità
di preservare quel sapere antico dall’oblio del mondo.
Amrutras morì serenamente nel suo letto, preannunciando
l’ora della sua morte con un giorno d’anticipo. Il suo corpo
rimase esposto per una settimana senza dare alcun accenno di
disfacimento. Ciò fu considerato come un segno della sua
avvenuta liberazione dal ciclo delle reincarnazioni. Per questo
non fu cremato, ma seppellito in un piccolo mausoleo sotto il
ficus della clinica. Da allora in molti si recavano ogni anno in
pellegrinaggio presso la sua tomba, disturbando un po’ le attività
della clinica, ma contribuendo a diffonderne il nome.
Hamsa riuscì a far decollare la cooperativa diventando uno
scomodo modello per le donne delle regioni limitrofe. Non
cedette mai alle lusinghe della politica e, per questo, la sua vita
era sempre in pericolo, ma la cosa non sembrava preoccuparla
affatto. A chi le chiedeva se avesse paura di essere uccisa
153
rispondeva che avrebbe preferito morire piuttosto che rinunciare
alla sua nuova vita.
Ferri lasciò questa terra un caldo pomeriggio d’agosto. Al suo
funerale vennero strani personaggi che nessuno conosceva,
tranne Giulio e Carmine. Alcuni erano stranieri e la cosa mise in
moto una serie infinita di illazioni sulla reale attività
dell’avvocato. Voci che si spensero presto, non più di una
settimana dopo la sua sepoltura. Giulio gli fu accanto fino alla
fine, un’agonia lunga e dolorosa che certo non meritava.
Non ci fu il problema della sua successione. Carmine aveva
sposato l’idea che fu di Mapelli padre già da diverso tempo e, di
fatto, negli ultimi due anni era stato lui ad occuparsi
praticamente di tutto. Il suo nuovo lavoro lo entusiasmava, a
guardarlo dietro la sua scrivania mentre dispensava ordini alle
banche o leggeva il resoconto di qualche agente sembrava
davvero il capo della Spectre. Solo che al contrario del dr Ernst
Stavo Blofeld dei film di 007, lui lavorava con un particolare
sorriso stampato in faccia che non lasciava dubbi sulla bontà di
ciò che stava facendo. In verità Giulio sapeva che parte della
responsabilità di quel sorriso era di Elisabeth, una vedova
irlandese che il suo amico aveva conosciuto durante un viaggio
di piacere e con la quale conviveva ormai da diversi anni.
Amandine si era sposata con un simpatico grassone
polinesiano. Con l’aiuto dell’eredità della figlia, aveva costruito
uno splendido resort e lo gestiva insieme a lui. Julie aveva studiato
in Francia laureandosi in lettere. Scriveva romanzi e spesso
incontrava Giulio e Sandra. Malgrado la differenza d’età, le due
donne erano diventate ottime amiche e, quando potevano,
passavano un pò di tempo insieme, a visitare mostre in giro per
l’Europa.
E il professor Giulio Mapelli?
Il suo fisico pagava i molti anni di eccessi, ma lo yoga ed i
panchakarma in India riuscirono a limitare i danni ed a
conservarlo in discrete condizioni. Si sarebbe detto un
154
interessante uomo maturo, allegro e pacioso con le persone che
amava, riservato ma cordiale con il resto del mondo. Si ritirò
tardi dall’insegnamento, dedicandosi completamente alla
didattica e rifiutandosi sino alla fine di assumere l’incarico di
direttore del dipartimento. Qualcuno adombrò l’ipotesi che lo
spaventassero le responsabilità. Lui glielo lasciò credere. Tra gli
studenti, le sue lezioni divennero leggendarie. A volte, mentre
spiegava la formula di un composto organico, chiedeva agli
studenti di chiudere gli occhi e di provare a vedere ciò di cui
parlavano. Chi ci riusciva, non l’avrebbe più dimenticato.
Catturava l’attenzione dei ragazzi con aneddoti ed immagini che
l’aiutavano a raggiungere il suo obiettivo: trasmettere l’emozione
della bellezza del mondo infinitesimale, il ritmo della danza che
elettroni e atomi inscenavano incessantemente per dar luogo alla
realtà che conosciamo.
A volte ripensava alla separazione con Sandra e agli anni di
infelicità che seguirono. Non ebbe mai una sensazione di
estraneità da quel periodo, al contrario lo ricordava benissimo,
perché era comunque parte integrante di sé. In certi giorni gli
capitava addirittura di percepire nell’aria qualche molecola di
quella puzza che l’aveva portato così vicino alla morte. Quello
non era stato un altro Giulio, era uno dei tanti possibili Giulio
che la sua anima ospitava. Se era tornato a confrontarsi
serenamente con la vita lo doveva ad Amrutras e a suo padre.
L’uno gli aveva ridato speranza, l’altro gli aveva dato l’occasione
per tornare ad agire nel mondo. Occasioni. La vita era fatta di
occasioni – diceva - un succedersi di possibilità reali o ipotetiche
che possiamo cogliere o no, quasi sempre guidati dall’istinto, a
volte come imposte da misteriose forze al di fuori di noi.
L’amore di Sandra non sarebbe tornato se lui non fosse uscito,
ormai diversi anni fa, da quel tunnel di umanità che imputridiva
sotto la sua vecchia poltrona, da quel puzzo sempre pronto a
tornare se avesse abbassato la guardia, l’olezzo del senso di
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colpa, la colpa di non essere stato capace di fare niente per
rendere un pò migliore il mondo.
Ma l’amore era tornato, perchè lui se ne era dimostrato degno.
E quell’amore adesso gli riempiva la vita più di ogni altra cosa. E
poi ormai si era convinto che la morte non li avrebbe separati. Si
sarebbero reincarnati, prima o poi, e con un altro corpo si
sarebbero riamati. Per questo non temeva più di morire.
Il giorno del loro trentottesimo anniversario di matrimonio,
Giulio e Sandra festeggiarono con una cenetta in un antico
ristorante del centro. Erano entrambi ad un passo dai
settant’anni, ma i loro volti esprimevano la serenità di chi non è
in conflitto con la vita.
“Che progetti hai per i prossimi giorni?” le chiese prendendole
la mano.
“Non ho programmi precisi. Qualche rinvaso. Ho alcune
piantine di cycas che hanno bisogno di più spazio per crescere.
Perché?”
“Avrei un’idea”
“Quale?”
“Pensavo che potremmo andare a Nuku Hiva, a prendere la
barca di mio padre. Sono decenni che aspetta.”
“E chi starebbe al timone?”
“Uno skipper amico di Amandine attende una mia conferma”
“E’ un viaggio lungo e faticoso.”
“Si , ma pensa alle meraviglie che potremo vedere.”
Lei ci pensò un po’ martoriando col cucchiaino la mousse di
cioccolato che aveva nel piatto. Poi girò lo sguardo fuori dalla
grande vetrata che dava sul giardino del ristorante. Notò che
alcuni alberi stavano cominciando a perdere le foglie. Ne seguì
una scivolare lentamente verso il suolo fino a quando il bordo
della vetrata non la fece scomparire dalla sua vista. Si girò verso
di lui che ancora le teneva la mano e gli disse:
“D’accordo. Ma prima finisco i rinvasi.”
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