Luigi Banes sentì che presto sarebbe mor- to

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Luigi Banes sentì che presto sarebbe mor- to
Luigi Banes sentì che presto sarebbe morto, Ricky Matta si innamorò e suo fratello
Antonio si amputò due dita della mano. Era
convinto di avere un melanoma tra l’indice e
il medio. Ricky non andò subito in ospedale, raggiunse gli altri alla sala biliardo. Era per
domenica 9 novembre, ore sei e trentacinque.
Mancavano due giorni, le previsioni dicevano
non avrebbe piovuto.
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Ricky Matta abitava in un appartamento di cinquantaquattro metri quadri a Cologno Monzese, pensionati
rattrappiti sulle panchine, parcheggi con il disco orario,
tralicci dell’alta tensione tra le case, passeggini tramandati
di figlio in figlio, casi di leucemia oltre la media. Ci abitava
con il padre Luciano, un vita in fabbrica ma ancora vivo
nonostante i reality show. E con il fratello Antonio di
cinque anni più grande, ancora vivo nonostante l’eroina.
La madre se ne era andata dodici anni prima, una notte
piena di luna, al mattino non era dove avrebbe dovuto
essere, a rifare le coperte a un letto testiera in ottone. Sul
tavolino in sala un biglietto, quest’uomo non è il mio, non
cercatemi. Facevano finta di non crederci, ma lo sapevano sarebbe successo, lo diceva da quando era possibile ricordarlo, sposarti è stato un errore, a quest’ora sarei stata
qualcuno, avrei finito gli studi e allora sì che le cose sarebbero andate nel modo giusto, tu e i tuoi occhi azzurri del
cazzo, lo dice la storia, noi donne ci facciamo fregare così
e poi passiamo la vita a rimpiangerlo. Guardarono fuori
dalla porta le scale vuote e dalla finestra le strade che
passavano, nessuno, suo padre che faceva l’indifferente
come se la cosa fosse accaduta nel monolocale accanto.
Bevvero caffè senza latte, aveva portato via l’ultimo mezzo litro insieme a qualche ricordo appeso alle pareti e dimenticato lì, non imbiancavano da quando ci si erano sta10
biliti. Due stanze più cucina e un cesso con incrostazioni
di merda impossibili da togliere. Un lampadario otto luci
ma una sola lampadina a forma di candela, odore di fritto
su giacche e cappotti, un divano due posti messo in un
angolo come una spider da rottamare, da piccoli lui e Antonio si stringevano pur di starci in quattro, un televisore
che perdeva i colori e che trasmetteva ancora film con
indiani indegni dei bianchi che insegnavano loro cos’era
la civiltà. Libri ovunque, anche dentro gli armadi biancolaccati, lei che li voleva portare alla Caritas, così facciamo
ordine e spazio per i piumini, lui che conservava persino
quelli di quando alle elementari, una vecchia grammatica
cui mancava il sedicesimo centrale, la virgola non si mette tra soggetto e verbo, e l’enciclopedia piante e animali
ancora ricoperta di plastica blu trasparente, le figure quasi
tutte ritagliate.
Maestro, dell’anno 2008 il dieci novembre è il suo compleanno
come tutti adesso sanno. Ottant’anni senza affanni. C’è chi sostiene
che è una bella età, credo per carità. A me fa pensare che lei sia
vicino alle porte della morte, mi fa pensare ai suoi grandi occhiali
appoggiati non su fioriti davanzali ma dentro una bieca bacheca
il giorno che le dedicheranno un museo, ingresso tot euro come al
Colosseo. Che continuerà a vivere nelle sue opere voglio che nessuno
me lo venga a dire, lei non può morire ma solo comporre colonne
sonore per ognuna delle nostre ore. Maestro, lunedì la chiamerò per
dirle i miei più puri auguri, intanto spero lei ami gli animali come
lo spero per i suoi orchestrali.
Sua madre gli mancava. Ogni tanto ripensava a lei e
ai suoi capelli come ricci di mare, il naso una vela che si
gonfiava al passaggio dell’aria. Quando tornava da scuola
era già pronto in tavola, frittata con qualcosa la maggior
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parte delle volte, mangia Riccardo che è caldo. Non sapeva cucinare che poche cose, il sugo al pomodoro era
sangue secco e la pasta si trasformava in colla, ma aveva
letto che l’olio extravergine di oliva si ossida a una temperatura più alta e lo preferiva all’olio di semi. La ricordava
solo in due posti, in casa e al mercato a fare la spesa, non
al mare, eppure non c’era estate in cui non andassero a
Loano, i bagni i penultimi prima del canale di scolo, la
cabina quella in comune, la vernice color nuvola che si
staccava a scaglie dal legno corrotto dal sale, e poi i polpi
catturati e sbattuti sugli scogli, i granchi succhiati vivi, i
gamberi che soffocavano nelle reti, le aragoste bruciate
vive nell’acqua bollente, una volta Antonio era stato sorpreso mentre si faceva una sega su un bikini. In casa sua
madre stava sempre a pulire, la radio che trasmetteva canzoni in milanese, Pepp va pian e roba così e lui che andava
in giro per la casa cantando o mia bela madunina te se propri
na’ cretina. Lei che lo rimproverava, non si dicono queste
cose non sta bene, poi si fermava a fissare l’orologio con
le lancette a forma di posate appeso sopra la lavastoviglie.
Se il tempo stava per cambiare ora aspettava succedesse,
poi riprendeva a strofinare.
Quando Ricky entrò nel bar di piazzale Bacone la prima cosa che vide fu la foto di Ratzinger con una freccetta
piantata in fronte, sullo sfondo una valle quale non si
sa, comunque degli alberi e dei sassi alti tremila e rotti
metri.
«Ricky, cazzo, sono le otto. Sei in ritardo di un’ora. Antonio dov’è?»
Bruno soffriva d’insonnia e non aveva l’orecchio sinistro, spappolato in un frontale. Claudio guidava come
Ryan O’Neal in quel film e si vestiva sempre in tuta, ogni
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volta la stessa oppure ne aveva più di una. Giovanni aveva due lauree e i denti ricoperti di tartaro, colpa della salivazione. E poi c’era Sara, gli occhi molto più lunghi del
normale, le mancavano diciannove diottrie da uno e tredici dall’altro, la chiamavano Miss Magoo.
«Non viene. Oggi pomeriggio è uscito dal lavoro, è tornato a casa e si è amputato due dita della mano, il motivo
lo sapete».
«Porca puttana. Come sta?»
«Non l’ho ancora visto, ma di sicuro sopravvive».
Intorno una decina di biliardi, prostitute con le tette
a terra, immigrati che mangiano pezzi di pizza fredda,
mozziconi di sigaretta dentro bottiglie di birra, macchie
di vita impossibili da cancellare. Bruno e Claudio con la
stecca in mano, il panno verde strappato al centro.
«E adesso come facciamo?»
«Non cambia nulla, saremo in cinque invece che in sei.
Tutto procede esattamente come prima».
Andarono in uno stanzino sul retro, poca luce, sui muri
il compendio della simbologia fallica e numeri di cellulare di gay in svendita, ragni con zampe mozze. Odore di vomito, preservativi usati, la testa imbalsamata di
un’antilope, su un tavolino di vetro graffiato un paio di
scarpe rotte da uomo, le stringhe ancora buone. Ricky li
tranquillizzò, era tutto a posto, furgone, parrucche e baffi
finti, passamontagna, bomboletta narcotizzante caricata
a protossido d’azoto, pistola calibro 38. Ognuno si sarebbe attenuto ai compiti e non ci sarebbero stati problemi.
Maestro, mi scusi se mi esprimo in rima o per concetti assonanti
come canti. Non so cosa farci, mi viene naturale come un madrigale.
Ho sempre sognato di fare il paroliere e non il panettiere, di scrivere
i testi delle canzoni e di seguire le ispirazioni. È che trovo fantastico
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che qualcuno ripeta ipnotizzato parole che un altro ha ipotizzato.
Il ritornello, non importa se bello, è l’estrema forma di concetto
semplificato per le masse che pagano le tasse.
Sul letto coi capelli bagnati, Giulia leggeva dei labrador cui infilavano sacchetti di cocaina liquida nel ventre
per superare i controlli negli aeroporti, poi prese Nabokov, Lolita era ancora fuoco che non si spegne. Squillò il
cellulare, Ricky. Lo aveva conosciuto nel pomeriggio, lei
dentro i grandi magazzini che vuole provarsi un completo intimo, del tipo che piace agli uomini. Il giorno prima
aveva dato l’ultimo esame di psicologia, sviluppo della
socializzazione, e adesso la tesi che nessun avrebbe letto,
ma tanto. Si meritava qualcosa di nuovo e poi la sera fuori
a festeggiare, il fidanzato che non le ha nemmeno detto
brava, certe volte sei proprio un bastardo. Vide che la osservava da qualche minuto, non male, quelli con l’aria da
randagio le sono sempre piaciuti e quando viene a dirle
ciao, lei dice ciao. Il fidanzato forse è il caso di mollarlo,
sono insieme da due anni e le piacerebbe cominciare a
parlare di una casa e del colore delle tende, lui non ne
vuol sapere, ha solo in mente l’Esame di Stato che non
riesce a superare e quando lei gliene parla non si fa trovare per giorni. Giulia, occhi come nei mosaici di Ravenna,
porta sempre le autoreggenti, ha il sangue dolce che attira
le zanzare, soffre di vaginite e pensa a come sia possibile
che le cose vadano a finire bene se è proprio alla fine che
si muore.
Ricky chiamò Giulia appena fuori dal bar, aria fredda, nebbia in autostrada, la primavera è ancora lontana,
le giornate tornano ad allungarsi dal ventuno dicembre.
Quel pomeriggio, dentro la Rinascente a comprarsi un
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paio di pantaloni, la vede sulle scale mobili, la segue,
guarda che roba. Cappotto corto, calze nere velate, scarpe col tacco, capelli di un biondo ritoccato. Le sue labbra,
l’anatomia del bacio. Si ferma davanti all’intimo, lui poco
dietro.
«Ciao».
«Ciao».
«Ti dovrebbe stare bene».
«Tu dici?»
«Dico che ti vorrei conoscere. Io sono Ricky».
«Giulia».
Intorno commesse che annunciano di volersi mettere
a dieta, i capelli fili di alluminio dove infilare mollette con
il segno zodiacale e che belli i colli di pelliccia di cane e
gatto su quei giacconi appena arrivati dalla Cina, devono
essere così caldi. Ricky tornò a casa con il suo numero, ti
chiamo stasera se va bene. Se era vero che i numeri sostenevano l’ordine del mondo allora quello di Giulia avrebbe sorretto lui fino all’ora di cena. Era nato il 23 marzo di
trentacinque anni prima, subito dopo mezzanotte, c’era
chi aveva detto che l’orologio andava avanti e voleva scrivere 22. Sua madre si oppose, era certa di sapere quali
erano i primi attimi di vista di suo figlio. Aveva ragione, la
matematica non è un’opinione, però l’uso della litote non
gli era mai piaciuto e avrebbe preferito sapere cos’era invece di cosa non era.
Maestro, non avevo otto anni quando vidi il figlio del vicino dare
fuoco a un micino. Con la coda avvolta in uno straccio imbevuto di
benzina cercava di spegnersi nell’acqua marina. Lo trovai bruciato
sotto una sdraio color azzurro marinaio, gli occhi vetro striato da
ogni torto passato, come bara un cassonetto della spazzatura pieno
di verdura. Mi sentii tradito e da mio padre corsi invelenito. Gli
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chiesi di uccidere quell’essere grasso come un masso e quindi crudele
come il fiele. Mi rispose che i ragazzi si divertono a torturare e di
tornare a giocare. Non solo mio padre con la sua calvizie non seppe
dirmi il perché di quelle sevizie, ma si sbagliava, la violenza non è
dentro i ragazzi anche se pazzi, è dentro quegli uomini che vedono
nei più deboli la dimostrazione della propria frustrazione.
All’ospedale, camera oscura dove si sviluppano i primi
e gli ultimi fotogrammi di vita, Ricky aveva un cugino che
faceva il turno di notte in terapia intensiva e lo fece entrare, letti nei corridoi, zoccoli bianchi, respiri risucchiati.
Pensava fosse il sosia di Bela Lugosi, ma aveva sempre
avuto paura di dirglielo, temeva che un giorno gli potesse
chiedere di seppellirlo con il mantello di Dracula.
«Come sta?»
«È ancora sotto sedativi, ma meglio».
«Diagnosi?»
«Disturbo dell’identità di integrità fisica».
«Ovvero?»
«Vede il suo corpo come un nemico da distruggere.
L’eroina ha fatto il resto, ne aveva fin sopra i capelli,
quando esce di qui dovete convincerlo a entrare in un
centro di recupero da tossicodipendenze».
«E per le dita?»
«Niente da fare, non è stato possibile riattaccargliele, le
ha buttate nel cesso».
Era impazzito dopo che l’eroina gli aveva messo la vita
in folle. Da mesi credeva di avere un melanoma in espansione tra l’indice e il medio della mano destra, la colpa era
dei raggi ultravioletti e non andava in giro senza prima
averle fasciate, la sera toglieva la garza e le ricopriva di
una crema alle erbe ordinata via internet in Brasile che
puzzava di cibo lasciato in frigorifero da settimane. Non
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erano bastate dodici visite e tre biopsie per convincerlo
che era tutto a posto, la sera tornava a casa tranquillo, il
mattino dopo si alzava dicendo di avere un tumore e che
sarebbe morto presto, non riusciva a lavare il nero sotto
le unghie. Nessuno sapeva che due settimane prima si era
comprato un tronchesino e che lo teneva nascosto sotto
il materasso insieme alla roba.
Quando chiamò Giulia, Ricky aveva le mani sudate nonostante il freddo. Gli capitava quando stava per innamorarsi. Era successo solo due volte, la prima a diciannove
anni e lei aveva le tette così piccole che non si vedevano
nemmeno, foruncoli. L’aveva conosciuta sotto il ponte
della ferrovia della Centrale che cercava di che farsi.
«Hai un acido?»
«Non ne ho bisogno. I viaggi li faccio ancora a piedi».
Sopra di loro rumore di treni, odore di freni, scale mobili fuori servizio, annunci di ritardi, c’è sempre gente che
torna da dove è andata o che va da dove non tornerà.
«Dove ti piacerebbe andare?»
«Dove ti posso ritrovare».
Belle le sue dita lunghe, sulle unghie lo smalto viola
aveva sempre delle crepe, ma troppi gli anni passati a inseguirla con gli occhi tristi. Una volta l’aspettò sotto casa,
voleva farle una sorpresa, lei tornò con un altro, le piacevano quelli con la barba e lui non se ne era mai accorto,
avrebbe persino detto il contrario. Sei anni dopo Marina
ci fu Chiara. Insegnava inglese ai corsi del Comune la sera
dalle otto alle dieci, lui arrivava qualche minuto prima per
vederla uscire in minigonna e orecchini a cerchio. I capelli corti sotto le orecchie, ventotto anni e quanto amava gli
animali. Glielo disse la prima sera che uscirono, li adoro
specialmente i cani, faceva caldo e si stava in maglietta,
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sudore sotto le sue ascelle rasate. Vegetariana sin da bambina, mangiava formaggio solo se con latte di soia, rifiutava la pizza se la farina era impastata con lo strutto, non
comprava Adidas, Lotto o Nike rivestite di pelle strappata ai canguri. Un giorno tamponò un poliziotto, lui le
disse che dava la caccia a chi organizzava combattimenti
tra pitbull, si sposarono che Ricky non si era ancora reso
conto di essere stato lasciato. Ogni tanto lo chiama.
«Ricky, sono Chiara, come stai?»
Lui butta giù, ma vai a fare in culo, e si lava la faccia con
l’acqua gelata. E adesso Giulia che risponde.
«Ciao Ricky».
«Ciao Giulia».
L’amore l’aveva immaginato così ma adesso ne aveva
paura, i sentimenti sono un precipitato di ottimismo, ti
illudono di vivere il tempo eterno.
Maestro, è ora che per tutto questo dolore agli animali qualcuno
venga perseguito e poi punito. Non so perché lo dico a lei, ma sento
che di lei mi posso fidare perché la sua musica è come fissare le onde
del mare, ti fa calmare. Le confesso che la prima volta che ci pensai era maggio e pensai a Roberto Baggio, cacciatore e di stragi in
Argentina autore. E pure buddista, ma troppo famoso, troppo in
vista, peccato, di quel gonzo ne avrei fatto volentieri un bonzo.
Ricky si avvicinò al fratello, era sveglio. Con la mano
sollevata ricordava una statua greca recuperata in mare, le
dita di marmo per sempre sotto la sabbia.
«Come stai?»
«Il dolore è passato e ho fermato la metastasi».
«Certo».
«Al lavoro cosa dicono?»
«Oggi è venerdì, lo sapranno lunedì».
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Da nove anni lavoravano alla Bilift di Paderno Dugnano, il padre prima di loro. Antonio ai carrelli controbilanciati, Ricky a quelli da interno. Sveglia presto, mezz’ora
d’auto, in fabbrica otto – dodici tredici – diciassette, in
mensa si sta stretti e i rigatoni sempre stracotti, quando
si esce ci si sente ancora in tuta ed ecco che la giornata se
n’è andata, è passata dall’altro lato della terra, è già storia
da ascoltare ai telegiornali della sera, non ne trascorre una
senza che muoia qualcuno di famoso, figurati quanti di
quelli che nessuno conosce.
«Mi spiace per domenica, forse è meglio rimandare».
«Ho appena visto gli altri. Abbiamo deciso di andare
avanti, sono tutti d’accordo. Faremo a meno di te, non
possiamo aspettarti».
«In ogni caso non so se sarei più utile come prima».
«L’hai detto».
Il primo giorno di lavoro Antonio corse il rischio di
perdere un occhio, una vite era schizzata da sotto una
pressa e l’aveva colpito sopra l’arcata sopraccigliare, cinque punti e una cicatrice che spostava la simmetria del
volto.
«Ricky».
«Dimmi Antonio».
«Mi sento come se vi avessi tradito, come se avessi tradito gli animali che avevo giurato di difendere. Ma l’anno prossimo andiamo tutti a Siena a prendere a calci nei
denti quelli del palio».
«Non solo, andiamo a Ferrara, Asti, Enna, da tutti quei
bastardi che con il loro palio ammazzano cavalli in nome
della loro tradizione di merda, ma la tradizione gliela ricacciamo in gola a forza. Ora però tu pensa solo a stare
tranquillo».
Antonio chiuse gli occhi, Ricky gli diede un bacio in
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