4 novembre 1918 - Storia Storie Pordenone

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4 novembre 1918 - Storia Storie Pordenone
4 novembre 1918: termina il grande massacro.
di Francesco Cecchini
Il 4 novembre 1918 sancì ufficialmente la vittoria di alcuni
eserciti su altri. Il giorno prima a villa Giusti, a Padova, era
stata firmato l’armistizio fra l’Italia e i suoi alleati con l’impero
austro-ungarico. Va sottolineato che la cosiddetta riscossa
di Vittorio Veneto esistette solo sulla carta in quanto non ci
fu nessun assalto, nessuno sfondamento. L’esercito italiano
avanzò perché quello austriaco si stava ritirando,
impossibilitato a continuare una guerra irrimediabilmente
perduta. Il generale Armando Diaz informato di un’avanzata
che non aveva né previsto – né ordinato e neppure sapeva
come si stava sviluppando – dovette esaminare le carte
geografiche per sapere dov’era Vittorio Veneto. Ferruccio
Parri, allora ufficiale nell’Alto Comando testimoniò che Diaz
esclamò in dialetto napoletano: «Addò sta stu cazzo ‘e
Vittorio Veneto?».
I popoli che uscirono da anni di Grande Massacro furono i
veri sconfitti, tutti. Per quello italiano la disfatta fu feroce per
i morti in battaglia, la prigionia, le malattie, la vita tremenda
delle donne e dei bambini, la fame, l’esodo, il saccheggio e
gli stupri dopo Caporetto, le fucilazioni e le decimazioni.
Il 4 novembre dovrebbe essere decretato giorno di lutto
nazionale per rispetto di un’ intera generazione di
giovani che sono stati stati trucidati senza sapere bene
il perché nelle nevi delle Alpi, nelle pietre del Carso e
nella pianura del Piave.
I MORTI
Morti nella battaglia sul Podgora
Su un totale di 63 milioni di uomini mobilitati, 8 milioni e
mezzo furono i soldati morti. I civili furono circa un milione. Il
contributo di sangue dell’Italia in 3 anni di guerra fu di quasi
700.000 soldati morti – ma non esiste una contabilità
precisa- e oltre un milione e mezzo di mutilati e feriti.
Centinaia di morti quindi per ogni giorno di guerra. Un’intera
generazione fu distrutta. L’impatto sulle comunità locali fu
devastante sconvolgendo le famiglie e la demografia stessa.
La battaglia di Gorizia, un massacro particolarmente
assurdo in una guerra assurda, può essere considerata il
simbolo di quanto accadde. La battaglia avvenne fra il 9 e il
10 agosto 1916: in poche ore costò la vita a 1.759 ufficiali e
50.000 soldati italiani e a 862 ufficiali e 40.000 soldati
austriaci. La canzone «Gorizia tu sei maledetta» venne
cantata per la prima volta da fanti che entrarono in città
dopo l’immenso prezzo di sangue. Esprimeva un forte
sentimento antimilitarista: chi veniva sorpreso a cantarla
rischiava la fucilazione. Eccone alcuni versi.
O Gorizia tu sei maledetta per ogni cuore che sente
coscienza dolorosa ci la partenza E il ritorno per molti non
fu.
PRIGIONIA
Prigionieri italiani a Cividale
Una delle pagine meno conosciute del Grande Massacro
riguarda i prigionieri italiana, le cui sofferenze furono e sono
un’infamia per l’Italia. Gabriele D’Annunzio li chiamò con
una frase oltraggiosa: «Imboscati d’Oltralpe». Nei campi di
prigionia finirono circa 600.000 italiani, la metà dei quali
catturati dopo Caporetto. Ne morirono 100mila ma anche in
questo caso la contabilità è approssimativa. Le cause delle
morti furono la fame, il freddo e le malattie, principalmente
la tubercolosi. I campi di prigionia furono Mauthausen
Sigmundsherberg, Theresienstadt, Rastatt e Celje. In questi
due ultimi visse lo scrittore Carlo Emilio Gadda che raccontò
la sua esperienza nel «Giornale di guerra e prigionia» e in
«Taccuino di Caporetto», descrivendo la fame, le condizioni
terribili dei prigionieri, la tubercolosi, la morte di tanti. Va
detto che Gadda era uno dei 20.000 ufficiali che potevano
godere di condizioni più accettabili, con maggiori possibilità
di sopravvivenza. La condizione di prigioniero di guerra era
giudicata da Cadorna e dai vertici militari un fatto negativo
se non una scelta voluta. E il successore di Cadorna –
Armando Diaz – non mutò opinione. In pratica i Comandi
Supremi assimilarono di fatto i prigionieri con i disertori e
con l’ accordo del governo fecero mancare qualsiasi aiuto,
sabotando anche le iniziative della Croce Rossa.
MALATTIE
Vita di trincea.
Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra …
(da «I fiumi» di Giuseppe Ungaretti)
Il Grande Massacro fu innanzitutto una guerra di trincea.
Vere e proprie ecatombi a cielo aperto che si ricorrevano
per centinaia di chilometri, tane dove i soldati vissero per 4
anni ammassati uno addosso agli altri. Oltre la guerra poco
distante, uomini con diverse uniformi dovevano combattere
fame e sete, pioggia e melma, la pazzia sempre in agguato,
topi, cimici e scarafaggi. Alcuni erano presi da cancrene che
mangiavano i corpi. La trincea produceva malattie e poi
epidemie che colpivano sia i militari che i civili. Poi arrivò la
“spagnola” che nel 1918 fece strage su una popolazione
indebolita ma già dal 1915 si erano diffusi tifo, polmoniti,
febbri ed altro.
FAME
Aspettando pane
A Valdobbiadene, cittadina della Marca trevigiana in una
lapide che ricorda il tributo di sangue si può leggere:
«Cittadini uccisi da proiettili n. 51 – Cittadini morti per fame
n. 484». Da dati ufficiali sappiamo che i soldati di
Valdobbiadene morti in combattimento furono 214 e durante
l’esodo per cause varie, malattie in genere altri 129. I
numeri quindi dicono che la causa maggiore di morte fu la
mancanza di cibo. La fame durante il Grande Massacro è
raccontata in dettaglio da Francesco Jori nel libro «Ne
uccise più la fame. La Guerra della gente comune nel
Triveneto».
DONNE E BAMBINI
La guerra sconvolse anche la vita delle donne che pagarono
un alto prezzo durante il Grande Massacro. Dovettero
rimpiazzare in molte funzioni gli uomini partiti per il fronte,
soprattutto operaie nelle fabbriche a produrre per lo più
materiali bellici. Ma andarono anche al fronte come
crocerossine o portatrici. Nelle retrovie furono prostitute per
“consolare” i combattenti. Dopo Caporetto furono profughe.
Vale la pena sottolineare la vicenda delle donne italiane
internate in quel periodo. Fra le migliaia di civili e italiani
internati, soprattutto nel Sud, dall’esercito italiano durante il
Grande Massacro molte furono le donne. Come gli uomini,
furono accusate di spionaggio o di sentimenti anti-patriottici.
Dopo la prima fase della guerra – caratterizzata da un gran
numero di internamenti femminili, soprattutto nei territori
occupati dall’esercito italiano – la caccia al “nemico interno”
crebbe durante il periodo 1917-1918, al fine di garantire la
sicurezza di fronte a un gran numero di donne sospettate e
internate come spie nemiche pur senza indizi di
colpevolezza. E analizzando le cause di internamento
femminile troviamo innanzitutto stereotipi anti-femminili. Le
memorie di un maestra di Grado, Antonia Fonzari, hanno il
titolo «Ricordi amari».
Bambini e ragazzi (cioè sotto i 14 anni) erano allora 12
milioni: vissero la guerra come figlie e figli, sorelle e fratelli
di quei soldati che combattevano. Soffrirono il Grande
Massacro in tutte le situazioni: famiglia, scuola e luoghi di
lavoro. Fra i civili che morirono durante il Grande Massacro
vi sono anche molti bambini.
DOPO CAPORETTO, ESODO, SACCHEGGIO E STUPRI
La ritirata di Caporetto.
La sconfitta di Caporetto fu un disastro che ancora richiede
giustizia storica. La causa fu l’incapacità militare dei generali
dello Stato Maggiore che sacrificarono decine di migliaia di
uomini che poi accusarono di essere vigliacchi. Ma non
solo. Oltre l’interpretazione militare ufficiale (che tralascio) vi
fu una “versione” politica. Come scrisse il comunista Emilio
Greco nella rivista «Stato Operaio», alcuni anni dopo:
«Caporetto fu una rivolta disperata e senza meta… Si ripete
comunemente che fu una sconfitta militare. Ma questa
interpretazione è semplicistica: Caporetto è stata
un’insurrezione del popolo che non riuscì di raggiungere e
spezzare lo stato». In Russia con un partito bolscevico,
comunista, il rifiuto di massa del Grande Massacro divenne
rivoluzione.
Indubbiamente dietro il disastro di Caporetto vi furono
entrambi i fattori: incapacità militare dell’Alto Comando e
rigetto collettivo dei soldati a farsi assurdamente uccidere.
Dopo la rotta di Caporetto circa 600.000 civili – provenienti
prevalentemente dalle provincie di Treviso, Venezia e Udine
– furono costretti ad abbandonare improvvisamente il
territorio invaso o minacciato da vicino dall’esercito austroungarico dando vita alla più grande tragedia civile collettiva
che interessò la popolazione durante il Grande Massacro.
Fu “la Caporetto delle famiglie”. Ci furono ovviamente atti di
vandalismo e la devastazione aumentò a causa dei
saccheggi perpetrati dai soldati di von Below, che entrarono
vincitori in città e paesi presentandosi talora con il volto più
crudele e violento dei saccheggiatori.
Il sito «Vecchia Conegliano e dintorni» racconta
l’occupazione di Castel Roganzuolo, una frazione del
comune di San Fior in provincia di Treviso: «I soldati
germanici e austro-ungarici non si accontentavano di dare
sfogo alla fame repressa: uccidevano il bestiame, ne
consumavano una parte e lasciavano l’altra marcire nella
strada; gettavano il grano sotto le zampe dei cavalli; si
ubriacavano direttamente alle botti e non si davano
nemmeno il disturbo di tapparle dopo essersene serviti,
sicché il vino scorreva per le cantine. Il saccheggio
metodico non lasciò intatta alcuna casa e la popolazione
venne ridotta alla fame. Si racconta che in certi paesi la
gente raccattava perfino gli escrementi dei cavalli, nella
affannosa ricerca di qualche chicco di granoturco per
sfamarsi. I pochi beni e la vita stessa degli abitanti erano
quotidianamente appesi ad un esile filo. Ogni notte c’era il
rischio che un gruppo di soldati penetrasse a forza in casa:
alla ricerca di cibo o per violentare le donne che vi
abitavano. Oltre allo stupro notturno, le donne erano spesso
oggetto di forme di violenza più “meditate”. Povere madri,
spesso profughe, che si recavano presso qualche comando
locale allo scopo di ottenere un lasciapassare o una tessera
annonaria, venivano costrette dagli ufficiali a subire lo sfogo
delle loro basse passioni per ottenere ciò di cui avevano
assoluto bisogno».
Lo «stupro del Belgio» fu all’inizio uno slogan per raccontare
l’invasione tedesca, nel 1914, di quel Paese neutrale ma le
atrocità – compresi gli stupri commessi dall’esercito del
Kaiser – gli hanno dato un significato letterale, reale. Dopo
Caporetto anche le donne dei territori invasi dagli
austroungarici divennero bottino di guerra; come del resto
accade per tutti gli eserciti vittoriosi. Ecco una fonte
d’informazione diciamo “ufficiale”: si formò in Italia, dopo il
Grande Massacro, una Commissione d’inchiesta sui crimini
compiuti dall’invasore dopo Caporetto. I suoi lavori si
conclusero con la pubblicazione del volume «Il martirio delle
terre invase», nel quale si parlava anche dei numerosi stupri
subiti da donne italiane. In seguito, la “Reale Commissione
d’Inchiesta” pubblicò ben sette volumi fra il 1920 e il 1921: si
tratta delle «Relazioni della Reale Commissione d’inchiesta
sulle violazioni dei diritti delle genti commesse dal nemico».
Il IV volume dedicava un intero capitolo alla ricostruzione
delle violenze carnali inflitte a donne italiane da parte dei
militari dell’esercito austroungarico: si tratta del capitolo
“Delitti contro l’onore femminile.” L’argomento era
ripreso nel VI volume, al cui interno si riportavano
documenti, testimonianze, aneddoti.
I soli casi accertati di stupro da parte degli invasori furono
735 ma la relazione medesima ammetteva che ve ne erano
stati moltissimi altri che erano “sfuggiti” anzitutto per
vergogna delle vittime e delle loro famiglie.
Gli stupri erano sovente accompagnati da violenze d’altro
tipo. Spesso i mariti o i padri vennero assassinati durante le
aggressioni sessuali, specie se cercavano di difendere le
donne ma perfino in assenza di reazione. In altri casi furono
le donne a venire uccise dopo lo stupro: 53 subito dopo,
mentre altre 40 morirono giorni od anche mesi dopo, in
conseguenza delle violenze. Molte altre furono contagiate
da malattie veneree. Le violenze avvenivano abitualmente a
mano armata e in gruppo e riguardarono donne d’ogni età:
dalle bambine sino a vecchie ottuagenarie. Sovente le madri
furono violentate davanti ai propri figli.
Vale la pena segnalare il lavoro di Michele Strazza «Senza
via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali» del Consiglio
Regionale della Basilicata 2010 (200 pagine)
[http://www.ildialogo.org/Allegati/Stupri_di_Guerra.pdf] che esamina anche il
tema delle violenze sessuali compiute da militari austroungarici.
FUCILAZIONI E DECIMAZIONI
Lapide in onore dei decimati e fucilati della Brigata
Catanzaro.
La rivolta dei fanti della brigata Catanzaro a Santa Maria la
Longa (importante base logistica del III Corpo d’Armata) a
metà luglio del 1917 fu probabilmente l’episodio più noto e
significativo di rifiuto collettivo della guerra verificatosi
nell’esercito italiano durante il Grande Massacro. Era
domenica e nei baraccamenti posti nelle immediate
vicinanze del paese friulano stavano trascorrendo un
periodo di riposo i fanti della “Brigata Catanzaro”, costituita
dal 141° e 142° Reggimento Fanteria. I soldati erano sfiniti
per il lungo tempo trascorso in prima linea e era previsto – e
promesso – per loro un periodo di riposo nelle retrovie. Ma
un fonogramma, giunto nella tarda serata, richiamò in
trincea la Brigata. Esplose una protesta anche violenta. Si
sparò e si lanciarono bombe a mano. Si presero di mira le
baracche degli ufficiali e anche chi tenta di fare da paciere.
Alcuni militari si portano nei pressi dell’abitazione del conte
di Colloredo Mels, dove si pensa risieda il “poeta-soldato”
Gabriele D’Annunzio, sparando colpi di fucile all’indirizzo
dell’abitazione. Vi furono morti e feriti. La rivolta proseguì
per quasi tutta la notte fino all’arrivo di una Compagnia di
Carabinieri: quattro automitragliatrici, due autocannoni e
reparti della cavalleria. Sedata la ribellione, il Comandante
della Brigata ordinò immediatamente la fucilazione di
quattro soldati, scoperti in mano armi con le canne dei fucili
ancora calde. Avvenne poi la decimazione del resto della
Compagnia. All’alba del 16 luglio, oltre i 4 già fucilati,
vennero decimati altri 12 (ufficialmente ma è probabile
fossero di più) passati per le armi a ridosso del muro di cinta
del cimitero di Santa Cecilia e posti in una fossa comune.
E OGGI?
Su questo blog è partita (da Daniele Barbieri, Davide Lifodi
e Francesco Cecchini) una campagna per riabilitare i
decimati e i fucilati durante il Grande Massacro. Il record
pesante – di essere al primo posto in questa orrenda pratica
– è dell’Italia. In un esercito di 4 milioni e 200 mila soldati al
fronte infatti ne vennero “giustiziati” (senza alcuna giustizia
ovviamente) circa 1000 secondo i dati noti ma
probabilmente molti di più. Fra di loro ci sono anche i
decimati estratti a sorte da reparti ritenuti codardi o disertori
e passati per le armi «per dare l’esempio». Il centenario del
Grande Massacro deve essere un’occasione per fare i conti
con questa pagina dolorosa della storia nazionale che n on
a caso è stata rimossa dalla memoria e dalla coscienza
collettiva.
L’appello per la riabilitazione è stato pubblicato in questo
blog; per aderire bisogna scrivere a questo indirizzo:
[email protected].
Se vi può interessare ragionare pubblicamente sul Grande
Massacro e sulla richiesta di riabilitazione tenete presente
che Daniele Barbieri e Francesca Negretti hanno preparato
una «lettura a due voci» intitolata «Ancora prigionieri della
guerra» con immagini e suoni montati dal centro sociale
«Brigata 36» di Imola. Il testo parte dalle bugie che ancora
ci dicono, 100 anni dopo, sul macello che fu chiamato
«prima guerra mondiale» per arrivare all’oggi: un esercizio
di memoria contro il militarismo e i nazionalismi che – come
avvoltoi – si riaffacciano ai giorni nostri.
10 libri (fra i tanti) per approfondire i temi del Grande
Massacro 1915-1918:
«Storia politica della della grande guerra 1915-1918» di
P. Melograni, Laterza, 1972.
«La Grande Guerra degli Italiani» di Antonio Gibelli, RCS,
2014.
«La guerra di Giovanni» di Edoardo Pittalis, Edizioni
Biblioteca Dell’Immagine, Pordenone, 2013.
«Ne uccise più la fame» di Francesco Jori, Edizioni
Biblioteca Dell’Immagine, Pordenone, 2014.
«Rosso e nero» di Renzo de Felice, Baldini e Castoldi,
1995.
«Il popolo bambino» di Antonio Gibelli, Einaudi, 2005
«Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra» di
Giovanna Procacci, Editori Riuniti,1992.
«Italiane al lavoro 1915-1920» di B. Curli, Marsilio, 1998.
«Crescere in tempo di guerra. Il lavoro e la protesta dei
ragazzi in Italia, 1915-1918» di B. Bianchi, Cafoscarina,
1995
«Plotone d’esecuzione. I processi della prima guerra
mondiale» di E. Forcella e A. Monticone, Laterza, 1968.