10 brevi lezioni di economia pubblica

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10 brevi lezioni di economia pubblica
I.N.I.S.E.
I.T.C. Germano Sommeiller
Roberto Collura
10 BREVI LEZIONI DI ECONOMIA
PUBBLICA PER PERCORSI DI
CITTADINANZA ATTIVA
2
INDICE
-
Prefazione
pag. 4
-
Introduzione
pag. 5
-
Lezione n. 1
- La scienza delle finanze (economia pubblica).
pag. 8
-
Lezione n. 2
- Cenni di storia di teoria dell’intervento pubblico in economia.
pag. 11
-
Lezione n. 3
- Le spese dello Stato.
pag. 17
-
Lezione n. 4
- Le entrate pubbliche.
pag. 21
-
Lezione n. 5
- L’imposta.
pag. 25
-
Lezione n. 6
- Il bilancio dello Stato.
pag. 29
-
Lezione n. 7
- La politica di bilancio.
pag. 33
-
Lezione n. 8
- Il disavanzo e il debito pubblico.
pag. 38
-
Lezione n. 9
- Lo Stato sociale.
pag. 44
-
Lezione n. 10 - Il federalismo fiscale.
pag. 48
3
PREFAZIONE.
In questi anni di grandi trasformazioni economico-sociali e di profonda crisi economica, l’Italia
sembra avere un “passo” di ripresa più lento, rispetto agli altri principali Paesi
capitalisticamente avanzati. I dati statistici ci dicono che forse il fattore principale che rallenta
la ripresa economica è il fardello del debito pubblico, che costa agli italiani in spesa in
interessi circa il 10% del PIL, e che è anche una pesante eredità da gestire a carico delle
famiglie, del sistema produttivo, e soprattutto delle future generazioni, che non hanno
usufruito della spesa pubblica e/o degli sgravi fiscali che hanno prodotto il debito pubblico,
ma che saranno coinvolte nel pagamento degli interessi e del suo rimborso.
Ma come è stato possibile che tutto ciò sia accaduto? A tal proposito sovviene alla mente una
ricerca condotta nei primi anni ’90 dall’Unione Industriale di Torino, in cui risultava che solo
l’8% degli studenti delle scuole medie superiori, al termine del percorso di studio, conosceva
le gravissime conseguenze economiche di elevati disavanzi e debiti pubblici. La situazione non
è di certo migliorata da allora; i recenti dati OCSE sulla literacy economico-finanziaria degli
studenti italiani (2012) hanno posto l’Italia tra gli ultimi posti tra i Paesi oggetto della ricerca.
Spinto da tutto ciò e ben conscio che dalla crisi economica di questi anni si esce solo con la
consapevole accettazione dei necessari sacrifici da parte di tutti, ho contatto l’associazione di
promozione sociale Istituto Nazionale per la Valutazione dell’Impatto Sociale dell’Economia
(I.N.I.S.E.) per sviluppare il progetto di divulgare formazione sull’economia pubblica a tutti gli
Istituti scolastici di scuola media superiore di Italia; l’ I.N.I.S.E. si sarebbe impegnata a
produrre il materiale formativo, e l’Istituto diretto dal sottoscritto a diffonderlo nel sistema
scolastico nazionale.
Tutto ciò credendo anche di fare una cosa che sarebbe risultata gradita ai tanti personaggi
illustri ed attori della teoria e prassi economica e politica che hanno frequentato l’Istituto:
Luigi Einaudi, Giuseppe Saragat, Wilfredo Pareto, Vittorio Valletta, Adriano Olivetti,…e molti
altri.
Le “brevi lezioni” sono state prodotte dal Presidente dell’I.N.I.S.E., Roberto Collura, a cui va il
mio più sentito ringraziamento, in quanto ha realizzato un testo scientificamente completo,
ma nello stesso tempo sintetico e divulgativo, dove per divulgativo si intende il suo significato
migliore e più nobile, ossia fruibile ed educativo per tutti.
Sono certo che, grazie a queste “brevi lezioni”, che hanno spaziato in modo problematico e
più teso a suscitare domande che ad ottenere risposte, su tutte le principali problematiche del
ruolo dello Stato nell’ambito del settore economico, coloro che affronteranno questo percorso
di cittadinanza attiva, al loro termine, saranno cittadini più consapevoli e attenti alla politica.
Torino, 18 settembre 2014
Il Dirigente Scolastico dell’I.T.C. Germano Sommeiller
Giovanni Paciariello
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INTRODUZIONE.
Questo breve testo nasce da una semplice constatazione: la conoscenza di pochi e
certamente non complessi concetti della teoria economica possono cambiare il rapporto che il
cittadino ha con la società civile e con lo Stato, consentendo in tal modo una più consapevole
ed attiva compartecipazione alla costruzione di un futuro migliore per sé e per la collettività.
Il Papa Paolo VI affermava che “la politica è la forma più alta della carità”. Si tratta di
un’affermazione di indubbia e trasversale verità; una politica orientata al bene delle persone e
dell’interesse pubblico genera maggiore occupazione, maggiore giustizia sociale, maggiore
sicurezza, pace, ….
Le azioni della politica coinvolgono (e a volte determinano) le condizioni di vita di moltitudini
di persone. I danni di una “cattiva politica” possono essere enormi e di lungo e travagliato
recupero.
Ma in democrazia la classe politica e l’azione programmatica condotta sono l’espressione delle
scelte del popolo; in ultima istanza in società democratiche la qualità della politica è data
dalla capacità dei cittadini di valutare consapevolmente la proposta politica dei
partiti/movimenti politici, nei suoi effetti di breve-medio-lungo periodo.
Per fare ciò la cittadinanza deve avere un adeguato livello di conoscenza dei meccanismi
economici, ed in particolare di quelli relativi all’economia pubblica. Ma ad esempio i dati
OCSE-PISA rivelano che gli studenti italiani sono al penultimo posto per la literacy economicofinanziaria.
Questo lavoro vuol pertanto contribuire alla costituzione di uno dei fondamentali presupposti
della cittadinanza attiva, ossia la diffusione in forma semplice e sintetizzata di alcune
fondamentali questioni di economia pubblica a favore di tutti gli studenti delle scuole medie
superiori di Italia, affinché le giovani generazioni possano comprendere alcune questioni
cruciali del benessere collettivo e le modalità, a volte non facili, per preservarlo e svilupparlo,
nella convinzione che un sacrificio consapevolmente vissuto non è più solo considerato
negativamente, ma anche una scommessa per un futuro migliore.
Ma prima di iniziare la trattazione delle dieci brevi lezioni, alcune brevissime considerazioni su
alcune importanti questioni macroeconomiche.
Infatti affrontare i temi dell’economia pubblica richiederebbe un preliminare studio delle
principali questioni macroeconomiche, ma per comprendere questo breve manuale di
economia pubblica è sufficiente rammentare quanto segue.
L’ inflazione è l’aumento generalizzato dei prezzi; ha i seguenti effetti negativi:
- riduce il potere di acquisto delle famiglie con reddito fisso;
- riduce le esportazioni e fa aumentare le importazioni, a causa della minore
convenienza dei manufatti e servizi nazionali, contribuendo al calo della produzione,
dell’occupazione, e allo squilibrio dei conti con l’estero;
- fa aumentare i tassi di interesse, in quanto i risparmiatori per concedere in prestito il
proprio risparmio pretendono un maggiore tasso di interesse, che compensi la perdita
del potere di acquisto della moneta, determinato dall’inflazione; l’aumento dei tassi di
interesse deprime gli investimenti privati (per via del maggiore costo da sopportare
per finanziare con indebitamento gli investimenti), e pertanto anche l’occupazione.
Le cause dell’inflazione possono essere:
- aumento della domanda aggregata, non supportato da celere adeguamento
dell’attività produttiva; ciò normalmente capita quando gli impianti sono utilizzati già
al massimo della capacità produttiva;
- aumento dei costi di produzione (aumento del costo delle materie prime, del lavoro,
dell’indebitamento);
5
-
aumento dell’offerta di moneta in circolazione da parte della Banca Centrale, che
genera maggiori disponibilità per i consumi e gli investimenti, in particolare modo
facendo diminuire i tassi di interesse (essendo aumentata l’offerta di moneta), e
attraverso ciò con l’incremento dei consumi a credito e degli investimenti privati; la
maggiore domanda aggregata che ne consegue fa aumentare a sua volta l’inflazione.
Un altro grave problema relativo ad un sistema economico è lo squilibrio dei conti con
l’estero; un saldo negativo della bilancia dei pagamenti genera due importanti conseguenze:
- il Paese patisce la riduzione delle riserve valutarie, necessarie per acquistare manufatti
e servizi all’estero;
- il quantitativo di moneta nazionale domandato sui mercati valutari da parte dei
soggetti esteri per acquistare manufatti, servizi, e prodotti finanziari nazionali, è
minore della moneta offerta sugli stessi mercati dagli operatori nazionali per
acquistare manufatti, servizi, e prodotti finanziari esteri; ne consegue la svalutazione
del cambio, ossia la perdita del valore della moneta nazionale rispetto al valore delle
monete estere; la svalutazione del cambio, se di significativa entità, rende più costose
le importazioni, generando inflazione, e parallelamente fa crescere i tassi di interesse,
in quanto i capitali finanziari (nazionali ed internazionali) non vengono trasferiti in altri
Paesi, solo a fronte di un sensibile aumento dei tassi di interessi, a titolo di
compensazione della perdita di valore a livello internazionale della moneta nazionale.
Appare evidente che è una necessità della politica economica di un Paese intervenire sulle
cause inflazionistiche al fine di evitare i gravi effetti sopra elencati.
I principali strumenti di intervento della politica economica sono:
- la politica di bilancio;
- la politica economica.
Entrambe, sebbene con meccanismi diversi, agiscono sui livelli della domanda aggregata; le
politiche economiche espansive operano per l’aumento della domanda aggregata per favorire
la ripresa della produzione e dell’occupazione; quelle restrittive operano per la riduzione della
domanda aggregata, in modo tale da contrastare l’inflazione e lo squilibrio dei conti con
l’estero.
Un’ altra preventiva considerazione: in Italia i costi impropri della politica sono stati calcolati
pari a circa 30 miliardi di euro (tra questo tipo di costi sono inclusi anche gli sprechi, la
corruzione, e le inefficienze pubblici); l’evasione fiscale è stata stimata pari a circa 180
miliardi di euro; il debito pubblico è stato stimato nel 2013 pari a 2.069 miliardi di euro. La
CGIA di Mestre ha calcolato che in Italia la pressione tributaria sulle imprese si attesta su
circa il 68% (20 punti percentuali in più rispetto alla pressione tributaria sulle imprese
tedesche), mentre l’ISTAT rileva che la pressione fiscale media in Italia è pari al 43,8% del
PIL, di quasi il 3% superiore alla media dei Paesi dell’Unione Europea.
La lotta ai costi impropri della politica, degli sprechi, della corruzione è sicuramente doverosa
ed anche di possibile applicazione, ma di entità molto distante dalla somma da recuperare per
la soluzione del problema del debito pubblico. Parallelamente la lotta all’evasione fiscale,
considerati i dati sopra esposti, richiede anche una contestuale diminuzione della pressione
tributaria al fine di garantire la competitività internazionale delle imprese nazionali, che rende
molto teorica la cifra sopra indicata.
Ne consegue che da sola la lotta all’evasione fiscale, sebbene di fondamentale importanza,
non può essere determinante per la riduzione dell’importante debito pubblico italiano.
In altri termini la doverosa e necessaria lotta agli sprechi, alla corruzione, alle inefficienze del
settore pubblico, e all’evasione fiscale non può risolvere il problema dell’attuale debito
pubblico italiano; è anche necessario il consapevole, responsabile, e lungimirante impegno di
tutti i soggetti e portatori di interessi della società civile.
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Infine una semplice considerazione: i cittadini e le imprese non sono pregiudizialmente ostili
al pagamento dei tributi; gli oneri tributari diventano “odiosi” a due condizioni:
- il peso tributario impedisce la “sopravvivenza” delle famiglie e/o imprese;
- la spesa pubblica finanziata con i tributi è di scarsa qualità e non in grado di soddisfare
i bisogni dei cittadini e delle imprese.
Tanto premesso, ora si può partire per il viaggio che, speriamo ci renderà cittadini più
consapevoli e responsabili….
Questo lavoro è dedicato ai Giovani e alle Nuove Generazioni, ed in particolare ai miei figli
Federico e Riccardo, nella speranza e nella convinzione che preserveranno e rafforzeranno ciò
che di buono hanno ereditato dalle precedenti generazioni, rimediando agli errori del passato,
ed operando per un Mondo migliore.
Il Presidente dell’ I.N.I.S.E.
Roberto Collura
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LEZIONE N. 1
La Scienza delle Finanze (Economia Pubblica)
1 – L’oggetto della disciplina.
La Scienza delle Finanze, più recentemente definita Economia Pubblica, è la disciplina
che studia l’ intervento del settore pubblico (Stato, Regioni, Comuni, altri Enti pubblici
territoriali, Enti pubblici non territoriali,….) nell’ambito economico, rilevandone effetti e
conseguenze, cercando di offrire ai decisori politici e ai cittadini strumenti di valutazione e di
miglioramento del predetto intervento (ossia valide teorie) per garantire il soddisfacimento
dei principali bisogni sociali ed individuali (ad esempio cura della salute, istruzione,
pensioni,…), stabilità economica, e sviluppo economico e dell’occupazione.
In sintesi l’oggetto di studio dell’Economia Pubblica è dato principalmente da:
- gli effetti economici del sistema tributario internazionale, comunitario, nazionale e
locale sulle scelte degli operatori economici (famiglie, imprese,…);
- gli effetti economici della spesa pubblica;
- gli effetti economici del sistema produttivo pubblico (imprese pubbliche, aziende
municipalizzate,…)
Storicamente la struttura statale si è organizzata e sviluppata sulla base delle seguenti
necessità sociali:
- garantire la sicurezza del Territorio e della popolazione da aggressioni esterne
(principalmente attraverso le Forze Armate);
- garantire la sicurezza interna e la civile convivenza da atti di violenza (principalmente
attraverso le forze dell’ordine e la giurisdizione penale);
- garantire corretti rapporti tra la popolazione (principalmente attraverso
l’amministrazione della giustizia);
- garantire l’esecuzione di grandi opere pubbliche, utili alla collettività, ma richiedenti
ingenti investimenti e capitali, tali da scoraggiare gli investimenti privati (si pensi alle
grandi opere idriche, stradali,….).
Nell’età contemporanea il settore pubblico ha allargato dal punto di vista economico il suo
ambito di azione, assumendo le seguenti importanti funzioni:
- intervenire direttamente nel settore produttivo attraverso le imprese pubbliche per
aumentare il livello di concorrenza dei mercati, sopperire alla carenza di investimenti
produttivi privati, dare avvio allo sviluppo economico di aree economicamente
depresse;
- intervenire nelle fasi del ciclo economico, per abbreviare la durata delle fasi negative,
ampliare la durata di quelle di crescita economica, ed operare per l’equilibrio della
bilancia dei pagamenti e del cambio della valuta nazionale;
- intervenire per ridistribuire la ricchezza prodotta secondo criteri non solo economici,
ma anche sociali, politici, e valoriali, principalmente attraverso il prelievo fiscale sui
redditi delle imprese e dei contribuenti benestanti, per utilizzare le risorse prelevate
per beni e servizi a favore dei ceti meno abbienti e/o non più adatti al lavoro (uno
Stato che si assume questa funzione è definito Stato Sociale, conosciuto anche come
Welfare State).
In altri termini le funzioni dello Stato si evolvono dal soddisfacimento di bisogni collettivi,
quali la sicurezza, le grandi opere infrastrutturali,…anche al soddisfacimento di bisogni
individuali, sebbene di rilevanza collettiva: la tutela del diritto alla salute e a livelli minimi
garantiti di cure sanitarie, un periodo minimo di istruzione, il diritto alla pensione al termine
della vita lavorativa del cittadino, il diritto ad un reddito minimo garantito nel caso di
impossibilità lavorativa per inabilità,…..
Cosa ha determinato l’ampliarsi delle funzioni dello Stato? Principalmente i seguenti
fenomeni:
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-
-
-
-
l’innovazione tecnologica, che ha reso necessario per le imprese la disponibilità di
lavoratori sempre più istruiti (da ciò l’esigenza di un sistema pubblico di istruzione e
formazione professionale);
l’esigenza di ampliare il numero dei consumatori per favorire il pieno utilizzo della
capacità produttiva delle imprese, migliorando la condizione economica dei ceti meno
abbienti;
l’esigenza di evitare rivolte, sommosse e rivoluzioni da parte della crescente
popolazione, sempre più difficile da controllare esclusivamente con strumenti
repressivi;
l’affermarsi in alcuni Paesi del sistema democratico, per cui i partiti politici hanno
promesso per fini elettorali una serie di benefici a favore dell’elettorato.
Analisi positiva e normativa. L’analisi condotta dagli studiosi di economia pubblica si
sudditi in due grandi macrocategorie:
- l’analisi positiva è lo studio descrittivo di come il settore pubblico interviene
concretamente nel settore privato;
- l’analisi normativa, è invece lo studio finalizzato alla produzione di teorie e proposte
per massimizzare l’efficacia e l’efficienza dell’intervento pubblico in economia.
2 – Economia privata ed economia pubblica.
L’economia privata si differenzia profondamente dall’economia pubblica.
I soggetti economici privati hanno come fondamentale finalità quella di massimizzare le
proprie scelte di consumo, risparmio, investimento… In particolare la principale finalità
delle imprese è quella di massimizzare i profitti.
La finalità dell’intervento pubblico in economia è invece quella di far sviluppare nel
complesso il sistema economico, di favorire la stabilità economica, la crescita
dell’occupazione, l’equilibrio dei conti con l’estero e la stabilità del cambio. Il settore
pubblico si impegna anche a garantire ai cittadini alcuni beni di merito (merit goods):
istruzione e formazione professionale, cure mediche, pensioni, assistenza sociale
I soggetti economici privati impiegano principalmente risorse finanziarie acquisite attraverso il
lavoro, le
rendite, l’attività di impresa; il settore pubblico acquisisce le risorse finanziarie
principalmente attraverso il prelievo tributario.
In altri termini i soggetti economici acquisiscono le proprie risorse economiche principalmente
attraverso libere negoziazioni; gli Enti pubblici soprattutto attraverso il potere impositivo
tributario.
3 - Le relazioni dell’ Economia Pubblica con le altre discipline.
L’economia pubblica ha ampie relazioni con varie discipline.
Ovviamente l’economia pubblica non può prescindere
macroeconomia, nonché dalla politica economica.
dalla
microeconomia
e
della
Parallelamente l’economia pubblica deve relazionarsi necessariamente con la scienza politica,
il diritto costituzionale, il diritto pubblico, il diritto amministrativo, il diritto penale, e
soprattutto il diritto tributario (ossia l’insieme di norme che regolano i prelievi coattivi di
risorse a favore dello Stato e di altri Enti pubblici).
Inoltre non bisogna trascurare la sociologia, ed in particolare la sociologia fiscale, ossia lo
studio delle variazioni della spesa pubblica e delle entrate tributarie in relazione ai mutamenti
demografici, sociali, culturali e politici.
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Completano il quadro la matematica e la statistica per la quantificazione e previsione degli
effetti dell’intervento del settore pubblico in economia.
4 – I soggetti pubblici.
L’ economia pubblica ha come principali attori gli Enti pubblici. Gli Enti pubblici presentano
alcune caratteristiche specifiche, tra cui:
- la loro istituzione deve essere prevista per legge;
- il reclutamento del personale deve avvenire per pubblico concorso;
- i rapporti con i soggetti terzi sono regolati da un vincolante inter procedimentale e
deliberativo;
- i ricorsi giurisdizionali contro gli atti degli Enti pubblici normalmente deve essere
indirizzati ai Tribunali amministrativi.
Il principale Ente pubblico è lo Stato; lo Stato italiano riconosce altri livelli territoriali di
governo tra cui le Regioni, i Comuni, le Città Metropolitane (le Province sono in fase di
cancellazione).
Oltre gli Enti pubblici territoriali (che si sostanziano come Enti di governo generale su un
determinato Territorio), sussistono Enti funzionali, ossia destinati a svolgere alcuni specifici
compiti, come ad esempio l’INPS (Ente previdenziale, erogatore delle pensioni e di altre
benefici ai soggetti indicati dalla normativa come beneficiari), le ASL (Aziende Sanitarie
Locali),…
Il decreto legislativo n. 165/2001 all’art. 1,comma 2, dà una esaustiva definizione di
amministrazioni pubbliche (a cui si rimanda), indicando gli Enti di appartenenza: Stato,
Regioni, Provincie, Comuni, Città Metropolitane, Comunità montane, le Università, le Camere
di Commercio, gli Enti pubblici non economici,…; a questi Enti, per avere un’idea complessiva
di tutto il settore pubblico nel suo complesso, occorre aggiungere il sistema delle imprese
pubbliche o partecipate dagli Enti pubblici (ad esempio le aziende municipalizzate erogatrici di
energia elettrica, acqua potabile,…).
Non tutti gli Enti pubblici hanno potere tributario impositivo; i principali Enti pubblici titolari
del potere impositivo sono lo Stato, le Regioni, i Comuni, e l’INPS (attraverso il prelievo dei
contributi dalle imprese e dai lavoratori).
Gli Enti pubblici possiedono un patrimonio, giuridicamente suddiviso tra demanio (non
cedibile), patrimonio non disponibile (cedibile solo dopo un preciso iter burocratico),
patrimonio disponibile (liberamente cedibile). Gli Enti pubblici hanno in alcuni casi
partecipazioni di quote nelle imprese.
Un sistema economico in cui sono presenti imprese private ed imprese con capitale pubblico è
definito sistema capitalistico misto.
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LEZIONE N. 2
Cenni di storia di teoria dell’intervento pubblico in economia.
1 – Introduzione.
Pochi argomenti hanno avuto e continuano ad avere nell’ambito politico-economico-sociale
l’importanza di questioni come l’ambito e l’ampiezza dell’intervento pubblico dell’economia, il
ruolo della politica economica circa la stabilizzazione del ciclo economico e lo sviluppo del
sistema produttivo e dell’occupazione, e il ruolo dell’intervento pubblico nella redistribuzione
del reddito e nell’ offerta dei beni meritori (i c.d. merit good, ossia i beni che l’autorità oilitica
ritiene che i cittadini debbano consumare, a prescindere dalla loro domanda; ad esempio
l’istruzione è un bene meritorio, imposto dallo Stato attraverso l’obbligo scolastico, che
costringe alla frequenza scolastica gli studenti fino al 16^ anno di età, indipendentemente
dalla volontà degli studenti e delle loro famiglie.
Si tratta di questioni che dividono i partiti politici in due grandi macroaree: i partiti politici
liberisti, che hanno come programma politico la riduzione al minimo possibile del settore
pubblico nel sistema economico, e quelli interventisti, che al contrario ne riconoscono la
necessità, sebbene con differenze al loro interno circa l’ampiezza dello stesso.
I programmi politici dei predetti partiti politici si fondano sull’adesione ad un certo filone di
pensiero economico piuttosto che di un altro; pertanto appaiono chiari due aspetti:
- la teoria economica incide sensibilmente sul benessere economico-sociale-politico dei
cittadini;
- l’esercizio consapevole del diritto di voto presuppone lo studio diffuso della teoria
economica, ed in particolare di quella relativa all’economia pubblica.
Tanto premesso si passano ad esaminare le principali teorie economiche sul ruolo
dell’intervento pubblico nel settore dell’economia.
2 - La scuola classica.
La moderna teoria economica nasce con Adam Smith (1723-1790), il cui pensiero, insieme a
quello dell’altro grande economista David Ricardo (1772-1823), costituisce l’ossatura della
corrente di pensiero economica definita scuola classica.
La Scuola Classica è liberista, in quanto gli economisti ad essa aderenti ritenevano che i
meccanismi di mercato automaticamente garantissero l’equilibrio tra domanda ed offerta dei
beni prodotti (la legge della mano invisibile del mercato), e il massimo della produzione
possibile (la legge degli sbocchi di Say). Parallelamente ogni politica redistributiva avrebbe
avuto l’effetto di deprimere i salari al livello di sussistenza, in quanto le migliorate condizioni
economiche delle masse avrebbero determinato un incremento demografico, che aumentando
l’offerta di lavoro, avrebbe generato un calo dei salari, fino a ridurre nuovamente il trend
demografico, a causa delle peggiorate condizioni economiche.
In sintesi per gli economisti classici:
- nel libero mercato (sistema capitalistico) non esiste sovrapproduzione nel medio-lungo
periodo, perché il sistema dei prezzi consente di eguagliare la domanda all’offerta dei
beni; ad esempio se un bene è stato prodotto in quantità minore rispetto a quello
richiesto dei consumatori, avvengono, secondo il modello classico, due fenomeni:
l’eccesso di domanda sull’offerta genera l’aumento dei prezzi, che a sua volta riduce la
domanda e parallelamente stimola le imprese ad una maggiore produzione, con il
risultato di eguagliare in breve tempo la domanda all’offerta;
- il sistema capitalistico consente la massima occupazione possibile dei fattori produttivi,
in quanto per la famosa legge degli sbocchi di Say è l’offerta che genera la domanda;
- il reddito delle classi lavoratrici non può essere nel medio-lungo periodo maggiore del
salario di sussistenza, per questioni demografiche.
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Dato il quadro sopra esposto appare evidente che gli economisti classici considerassero
nocivo ogni forma di intervento pubblico in un sistema economico che spontaneamente
garantiva l’ottimale soddisfacimento dei bisogni materiali e la maggiore occupazione possibile
dei fattori produttivi, essendo d’altra parte evidente che il settore pubblico non poteva
migliorare il benessere economico delle classi meno abbienti.
Per quanto detto, lo Stato deve esclusivamente svolgere i seguenti compiti:
1)
2)
3)
4)
la difesa dei confini per mezzo dell’esercito;
la difesa dell’ordine interno per mezzo delle forze dell’ordine;
l’amministrazione della giustizia;
sviluppare le grandi opere pubbliche infrastrutturali necessarie allo sviluppo
economico (strade, ferrovie, porti,…), in quanto tipologia di investimenti non
sostenibili e/o non redditizi nel breve periodo per i capitali privati.
Per finanziare la spesa pubblica è auspicabile che il prelievo fiscale gravi sulle rendite. Infatti i
salari non possono essere tassati perché sono già al livello di sussistenza; qualora fossero
tassati, i salari dovrebbero essere aumentati per garantire la sopravvivenza fisica dei
lavoratori e quindi di fatto l’imposta
sarebbe pagata
dai capitalisti-imprenditori.
Parallelamente non è opportuno tassare i profitti perché in tal caso diminuisce la possibilità di
realizzare investimenti e quindi rallenta il processo di accumulazione del capitale che
consente la crescita della ricchezza prodotta e dell’occupazione. Ne consegue che la
tassazione della rendita è la più auspicabile perché è quella che crea minori conseguenze
negative.
3 – La teoria neoclassica.
Gli economisti neoclassici (A. Marshall, C. Pigou, K.Wicksell, …), collocabili storicamente tra
la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento ripresero quanto sostenuto dagli
economisti classici, dando alle loro dimostrazioni un maggiore rigore formale attraverso lo
strumento della matematica.
In particolare da un punto di vista formale, e con particolari condizioni, il libero mercato è in
grado di garantire l’equilibrio tra la domanda e l’offerta di tutti i beni prodotti; d’altra parte il
sistema capitalistico è equo in quanto ogni fattore produttivo è retribuito secondo l’apporto
dato alla produzione.
Anche in questo caso l’intervento del settore pubblico non può che essere nocivo perché
interverrebbe in un sistema che funziona in modo efficace, efficiente, ed autoregolante.
A differenza degli economisti classici, gli economisti neoclassici riconoscono la necessità
dell’intervento del settore pubblico nel caso dei cosidetti “fallimenti del mercato”.
1) Ad esempio vi sono beni non concorrenziali (ossia il consumo di un soggetto di un
determinato bene con riduce la possibilità di consumo dello stesso bene da parte di un
altro soggetto), e non escludibili (ossia beni per cui è difficile se non impossibile
escludere dal loro consumo i soggetti non disposti a pagare alcun prezzo). Si pensi ad
un grande parco naturalistico: il consumo del bene “parco naturale” non è
concorrenziale ed è difficilmente escludibile. Appare chiaro che nessun imprenditore
privato investirebbe a queste condizioni nel parco naturalistico, per cui, data
l’importanza del bene in oggetto, deve intervenire il settore pubblico.
2) Il settore pubblico è altrettanto importante nel caso in cui il mercato assuma la
forma di oligopolio o monopolio, per cui le imprese possono, data la scarsa
concorrenza, praticare una politica di alti prezzi ai danni del consumatore; in tal caso
il settore pubblico deve allargare il numero di imprese concorrenti attraverso le
imprese pubbliche; in alternativa (o come strumento complementare) le autorità
pubbliche devono vigilare sulla correttezza dei comportamenti delle imprese,
applicando quanto previsto da opportune legislazioni antimonopolistiche.
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3) L’intervento pubblico è anche necessario per gestire i cosìdetti monopoli naturali; si ha
un monopolio naturale quando grazie alle economie di scala è possibile vendere i beni
prodotti ad un prezzo inferiore a quello che si avrebbe in un mercato di concorrenza
perfetta; in tal caso è pertanto conveniente mantenere la condizione di monopolio, ma
ovviamente non può essere gestito da imprenditori privati, in quanto approfitterebbero
della condizione di supremazia sul mercato.
4) Il settore pubblico deve anche incentivare le imprese che producono esternalità
positive (ad esempio le imprese innovative che diffondono con il loro esempio e anche
non volontariamente, modelli organizzativi più efficaci ed efficienti a beneficio delle
imprese imitatrici ), e scoraggiare/regolarizzare la produzione delle imprese che
producono esternalità negative (ad esempio imprese inquinanti, che danneggiano
l’ambiente).
5) L’intervento del settore pubblico in economia è anche importante nel caso di
asimmetrie
informative
tra
il
produttore/venditore
e
il
consumatore/utente/beneficiario; ad esempio un sistema sanitario completamente
privatizzato potrebbe generare una eccedenza delle prestazioni di cura, in quanto gli
operatori sanitari privati potrebbero far consumare ai propri clienti maggiori servizi di
quanto effettivamente utili per ottenere maggiori profitti, approfittando dell’
“ignoranza” in materia dei predetti clienti.
6) L’intervento del settore pubblico è anche indispensabile quando sussiste la necessità di
effettuare investimenti poco redditizi, ma socialmente utili; si pensi ad una rete
ferroviaria che collega territori arretrati a territori economicamente più avanzati, con al
momento un ridotto numero di passeggeri e di trasporto di merci.
7) Infine il settore pubblico deve produrre i già citati beni meritori, qualora siano prodotti
in misura non adeguata o venduti ad un prezzo socialmente non adeguato.
Il prelievo tributario. La teoria neoclassica individua anche alcuni principi per definire il
“giusto” prelievo fiscale. I principi enunciati sono sostanzialmente due:
- il principio del beneficio, ossia che i contribuenti devono pagare i tributi in relazione ai
benefici ottenuti dalla spesa pubblica;
- il principio del sacrificio, ossia il prelievo tributario deve produrre tra i contribuenti il
minore sacrificio possibile
4 – La teoria keynesiana.
La teoria keynesiana sovverte l’idea ottimistica degli economisti classici e neoclassici,
che il sistema economico capitalistico è sempre in grado di riequilibrarsi automaticamente
e di garantire la massima occupazione possibile. Infatti John Maynard Keynes (18831946) sostenne che:
1) la propensione al risparmio cresce in modo più che proporzionale al crescere del
reddito nazionale (per Keynes si tratta di un’evidenza empirica: una famiglia con
un reddito basso risparmia poco o nulla, mentre una famiglia benestante, pur
consumando di più della famiglia povera, è in grado di risparmiare una parte del
proprio reddito); inoltre gli imprenditori convertono i profitti realizzati in investimenti
solo se nutrono aspettative positive per il futuro; questi due aspetti mettono in crisi
il modello proposto dalla “legge degli sbocchi di Say”. E’ quindi possibile che parte
della produzione rimanga invenduta e che ciò generi in futuro, per smaltire le
eccedenze, la necessità di ridurre l’attività produttiva, con la conseguenza della
riduzione dell’occupazione;
2) le eccedenze produttive non sono velocemente assorbite dal sistema economico in
quanto nella realtà i prezzi non sono flessibili verso il basso, per cui l’eccedenza di
offerta non fa scendere i prezzi, stimolando in tal modo una maggiore domanda; le
imprese per smaltire le eccedenze preferiscono ridurre i livelli produttivi piuttosto che
diminuire i prezzi dei prodotti; analogamente, in caso di disoccupazione, i sindacati
rifiutano di consentire a riduzioni dei salari per stimolare una maggiore domanda di
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lavoro da parte degli imprenditori; i prezzi dei beni e del lavoro scendono solo dopo
molto tempo con il protrarsi e aggravarsi della crisi produttiva ed occupazionale;
3) poiché gli investimenti privati dipendono dalle aspettative future, se queste non sono
buone, gli investimenti non vengono realizzati; in tal caso i disoccupati non trovano
lavoro non perché non accettano il salario di mercato (come sostenevano gli
economisti neoclassici), ma perché la carenza di investimenti determina il bisognosi
minor domanda di lavoro da parte degli imprenditori; pertanto la disoccupazione può
anche essere involontaria.
In sintesi per la teoria keynesiana più cresce il reddito nazionale e maggiore è il rischio
di crisi di sovrapproduzione; il sistema capitalistico non smaltisce le eccedenze in
breve tempo e c’è pertanto il rischio che la disoccupazione involontaria cresca
rapidamente.
Per stimolare gli investimenti privati e dare avvio alla ripresa economica e
occupazionale attraverso il meccanismo del moltiplicatore degli investimenti occorre
migliorare le aspettative degli imprenditori di poter vendere la propria produzione.
Ciò è possibile attraverso l’aumento della spesa pubblica (ad esempio la costruzione di
autostrade, porti,…) e/o la riduzione del prelievo fiscale (si tratta della cosiddetta
politica del deficit-spending) a carico delle famiglie e delle imprese, che pertanto
hanno maggior reddito disponibile per i consumi privati e per gli investimenti (stimolati
dall’aspettativa degli imprenditori di dover pagare minori imposte sui profitti
realizzati). Così cresce la domanda di beni, per cui gli imprenditori realizzano
investimenti e quindi cresce l’occupazione.
In sintesi la teoria keynesiana è di impronta chiaramente interventista; senza l’intervento del
settore pubblico ed in particolare della spesa pubblica, il sistema economico privato è
strutturalmente destinato a generare crisi economiche e disoccupazione.
5 – La critica neoliberista alla teoria keynesiana.
Varie sono le correnti contemporanee di pensiero economico liberista ( i neoliberisti), ossia
contrario all’intervento pubblico nell’ambito economico (i monetaristi, i teorici delle
aspettative razionali, i teorici della supply sidfe economics, i teorici delle Public Choise, …).
Sebbene ognuna di queste correnti affronti argomenti più o meno specifici dell’intervento
pubblico, sono tutte concordi nell’affermare che la politica di deficit-spending non è in grado
di stimolare la domanda di beni e quindi di avviare la ripresa produttiva e occupazionale
perché:
1) le famiglie si rendono conto che l’eccesso di spesa pubblica sulle entrate pubbliche
prima o poi dovrà essere pareggiato con un maggiore prelievo fiscale, per cui
risparmiano maggiormente in viste del maggiore carico tributario; ne consegue che i
consumi privati non crescono;
2) le imprese private riducono gli investimenti, in quanto lo Stato copre il disavanzo
pubblico chiedendo prestiti sul mercato finanziario, ma ciò crea una maggiore domanda
di risparmio e quindi l’aumento dei tassi di interesse, che disincentiva gli investimenti
privati (dato il maggior costo dei prestiti necessari per realizzarli; si tratta del
cosiddetto “effetto spiazzamento”); parallelamente le aspettative di un futuro maggiore
prelievo tributario disincentivano ulteriormente la propensione delle imprese ad
effettuare investimenti.
Parallelamente lo Stato sociale (che fornendo risorse ai ceti più poveri, dovrebbe stimolare i
consumi) favorisce comportamenti “opportunistici” da parte di una percentuale di cittadini,
che piuttosto di svolgere una propria attività o lavoro preferiscono vivere per mezzo dei
sussidi pubblici.
In realtà per stimolare la crescita economica occorre:
1) svincolare l’attività economica dei privati da vincoli giuridici, che limitano l’iniziativa
imprenditoriale;
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2) ridurre al minimo l’intervento pubblico in ogni campo, che è sempre più inefficiente
dell’azione dei privati in quanto quest’ultimi, rischiando risorse proprie, sono più
attenti alla loro gestione rispetto ai manager pubblici che gestiscono risorse pubbliche;
3) ridurre drasticamente le aliquote fiscali, in modo tale da incentivare la produzione di
reddito; in particolare la riduzione del prelievo fiscale stimola gli investimenti privati in
quanto i profitti non sono decurtati da una forte tassazione.
L’economista Arthur Laffer definì la ormai famosa “curva di Laffer”, che nel citato modello
teorico dimostra come il massimo del prelievo fiscale si abbia con basse aliquote fiscali, in
quanto elevate aliquote fiscali disincentivano la produzione di reddito e ricchezza, poiché in
tal caso una quota crescente del reddito prodotto è assorbito dallo Stato.
6 – Le teorie politico-sociologiche.
La teoria marxista. Karl Marx (1818-1883) non ha mai analizzato in particolare il sistema
fiscale di uno Stato capitalista. Ma di fondo il pensiero marxista riteneva che il prelievo fiscale
in uno Stato capitalistico fosse uno strumento di oppressione dei ceti dominanti sul
proletariato (attraverso un’ingiusta distribuzione del carico fiscale) e auspicava (nell’ambito
delle teorie del riformismo marxista) una forte imposizione fiscale progressiva per facilitare il
passaggio dal capitalismo al comunismo, attraverso l’esproprio di fatto dei redditi dei ceti più
benestanti; invece per il marxismo rivoluzionario lo strumento per impedire lo sfruttamento
capitalistico dei lavoratori era la collettivizzazione della proprietà privata, ed in particolare
delle imprese.
In ogni caso nella visione marxista (anche contemporanea), lo Stato capitalista viene
considerato uno strumento attraverso il quale la classe dei capitalisti difende i propri privilegi;
il prelievo fiscale nello Stato borghese non deve pertanto gravare sull’accumulazione di
capitale e dei profitti (pertanto sono da escludere le imposte patrimoniali e quelle fortemente
progressive sul reddito).
Ne consegue per lo Stato capitalista una difficoltà ad ottenere le risorse finanziarie per la
gestione dello Stato; parallelamente i capitalisti chiedono però allo Stato tre tipi di spesa
pubblica:
1) la spesa pubblica per infrastruttura (strade, autostrade, ferrovie,…) per rendere più
efficiente il sistema economico;
2) fondi per i salvataggi delle imprese private in crisi;
3) spese sociali, per evitare tensioni politico-sociali rivoluzionarie, dovute alla
disoccupazione, alla povertà,…, che possono mettere in pericolo la proprietà privata
e l’accumulazione dei profitti.
Ne consegue che lo Stato capitalista a fronte di una ridotta possibilità di incamerare
risorse deve mantenere elevato il livello di spesa pubblica; ciò crea elevati disavanzi e
debiti pubblici e quindi genera una insanabile crisi fiscale dello Stato, che nel lungo
periodo porterà alla disgregazione dello Stato capitalista.
Le teorie conflittuali non marxiste. Gaetano Mosca (1858-1941) e Vilfredo Pareto
(1848-1923) sono stati, nell’ambito della teoria economica liberista del secolo scorso, i
principali teorici delle teorie fiscali conflittuali. In altri termini secondo i predetti studiosi, la
classe politica utilizza principalmente la spesa pubblica e le modifiche del peso tributario per
garantire il proprio successo elettorale, e tutelare le classi e i ceti che sostengono
politicamente la loro attività.
Cambiamento sociale e cambiamento fiscale. Altri studiosi hanno evidenziato un trend
strutturale di crescita della spesa pubblica, dovuta all’innovazione tecnologica, demografica, e
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sociale. Ad esempio l’urbanizzazione è favorita dalla concentrazione industriale; ciò determina
la necessità di opere stradali, assistenza, istruzione, cura sanitaria,….
7 – Le imprese pubbliche nella teoria economica.
Le imprese pubbliche (ossia con una rilevante partecipazione di capitale pubblico) hanno
avuto un notevole rilievo nel dibattito tra economisti liberisti ed interventisti.
Per gli economisti neoclassici le imprese pubbliche sono necessarie solo in due casi:
- per la gestione delle attività produttive che si configurano come “monopoli naturali”;
- per contrastare situazioni dominanti sul mercato da parte di imprese private.
Nella visione marxista le imprese pubbliche sono lo strumento per combattere lo
sfruttamento dei lavoratori da parte del capitalismo privato, in quanto essendo di proprietà
della collettività hanno fini sociali e non sono finalizzate alla realizzazione del profitto a favore
degli imprenditori e capitalisti privati.
Però ciò vale solo in un’economia collettivista; in un’economia mista, secondo la visione della
teoria marxista, le imprese pubbliche servono a fornire beni e servizi a prezzi di favore alle
imprese private o ad assorbire imprese private in stato fallimentare o di grave difficoltà
economica, riuscendo ad essere in tal modo ottimi strumenti per la socializzazione delle
perdite e la realizzazioni di maggiori profitti privati.
Nell’ottica keynesiana le imprese pubbliche hanno una fondamentale funzione nel garantire
la stabilità economica; infatti il settore pubblico deve attivare investimenti produttivi nei
momenti di rallentamento dell’economia per sopperire alla carenza di investimenti privati e
risollevarne il trend.
I neoliberisti sono profondamente avversi all’idea delle imprese pubbliche, in quanto
sostengono che:
- le imprese pubbliche sono maggiormente soggette rispetto a quelle private
all’influenza dei sindacati, con conseguenti aumenti del costo di lavoro che superano
gli incrementi della produttività, con ripercussioni negative sui costi di produzione;
parallelamente la tutela del posto del lavoro e la mancata responsabilizzazione di esiti
produttivi negativi a carico dei lavoratori ha effetti negativi anche sulla qualità della
produzione;
- le imprese pubbliche non seguono le logiche della buona gestione economica, ma sono
influenzate da motivazioni politiche e di consenso elettorale, che inevitabilmente
influiscono sulla redditività delle stesse;
- le imprese pubbliche sottraggono quote di mercato alle imprese private, in grado di
produrre gli stessi beni e servizi a prezzi inferiori e di qualità migliore per i motivi
sopra addotti;
- le imprese pubbliche, avendo spesso gestioni deficitarie per i motivi sopra esposti,
hanno bisogno del rifinanziamento periodico dello Stato, con danno ai contribuenti e/o
necessità di ridurre altre forme di spesa pubblica, per non incorrere nel rischio di
produrre elevati disavanzi e debiti pubblici.
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LEZIONE N. 3
Le spese dello Stato
1 – Introduzione: le macroaree della spesa pubblica.
Le spese dello Stato e degli Enti pubblici si suddividono sostanzialmente in tre grandi
macroaree:
- spese per beni e servizi di consumo (ad esempio l’illuminazione delle strade, la
pubblica sicurezza, la spesa farmaceutica….); le predette spese sono definite spese
correnti;
- spese per investimenti (ad esempio la costruzione di strade, porti, ferrovie, la
costituzione di imprese pubbliche, la partecipazione nel capitale delle società,…); sono
una forma importantissima di investimento quella in ricerca scientifica, in istruzione e
formazione professionale, in quanto hanno un rilevante impatto sulla crescita di lungo
periodo della ricchezza prodotta da un Paese; le predette spese sono definite spese in
conto capitale;
- la spesa per trasferimenti, ossia l’erogazione ai cittadini di somme di denaro al fine di
un’equa redistribuzione del reddito e il sostegno ad un reddito minimo (pensioni,
sussidi di disoccupazione,…).
La spesa sociale è la spesa destinata alla garanzia di livelli minimi di benessere e di cura per
la cittadinanza, ed è composta da spesa corrente (ad esempio l’erogazione di servizi socioassistenziali), spesa in conto capitale (ad esempio l’implementazione di presidi sanitari), e
spesa per trasferimenti (ad esempio l’erogazioni delle pensioni o dei sussidi di
disoccupazione).
2 – Il livello della spesa pubblica.
La spesa delle famiglie si finanzia essenzialmente attraverso le seguenti modalità:
- produzione di reddito (ad esempio i redditi da lavoro);
- alienazione di parte o tutto il patrimonio (ad esempio la vendita di un immobile di
proprietà);
- l’ indebitamento.
Un elevato tasso di indebitamento delle famiglie ha i seguenti effetti negativi:
- riduzione dei consumi futuri delle famiglie, che devono rimborsare il prestito e i relativi
interessi passivi, con conseguente minori risorse economiche per i consumi;
- riduzione del risparmio delle famiglie, con conseguente aumento dei tassi di interessi
(il prezzo della moneta, che aumenta in quanto si riduce l’offerta di risparmio), e
conseguente riduzione degli investimenti (che normalmente in parte o totalmente si
finanziano con l’indebitamento, e che sono pertanto sensibili al tasso di interesse
passivo da pagare per ottenere il finanziamento).
In sintesi un elevato indebitamento delle famiglie produce ristagno della produzione (per il
conseguente futuro calo dei consumi) e degli investimenti, con negativi esiti sui livelli
occupazionali.
Al contrario della spesa delle famiglia, la spesa dello Stato e degli altri Enti pubblici è
finanziata principalmente da:
- prelievo tributario (imposte, tasse, contributi, di cui si parlerà nei capitoli successivi);
- trasferimenti di risorse economiche dello Stato e di altri Enti pubblici a favore di altri
Enti pubblici; è da sottolineare che le predette risorse in gran parte hanno origine
tributaria;
- l’indebitamento attraverso i Titoli di Stato;
- la stampa di banconote da parte della Banca Centrale, per l’acquisto dei titoli di Stato
di nuova emissione;
- la vendita del patrimonio dello Stato e degli altri Enti pubblici.
Se la spesa pubblica è elevata le conseguenze sono le seguenti:
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-
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il prelievo tributario deve essere aumentato; pertanto le imprese subiscono una
riduzione dei profitti o detto in altri termini un aumento “improprio” dei costi di
produzione (ossia un maggiore carico fiscale), con conseguenze negative sugli
investimenti (fortemente determinati dalla loro redditività) e sulla capacità
concorrenziale delle imprese a livello internazionale; parallelamente con l’aumento del
carico tributario le famiglie hanno meno reddito disponibile, con un calo dei consumi, e
conseguentemente della produzione e dell’ occupazione;
qualora non si intenda aumentare il prelievo tributario (ad esempio per evitare
fenomeni di “rivolta fiscale”), una delle alternative possibili è l’indebitamento; ma la
domanda pubblica di risparmio sul mercato monetario e finanziario determina un
aumento complessivo della domanda di risparmio, facendo aumentare i tassi di
interesse, con effetti negativi sugli investimenti; i tassi di interesse aumentano anche
in relazione alle aspettative inflazionistiche generate da un’elevata spesa pubblica;
qualora non si intenda aumentare il prelievo tributario, la seconda soluzione
alternativa possibile è quella che la Banca Centrale acquisti i titoli di Stato del debito
pubblico, stampando carta moneta; ma ciò determina, attraverso la spesa pubblica, un
forte incremento della moneta in circolazione con i ben noti effetti inflazionistici;
qualora il finanziamento della spesa pubblica si basi sulla vendita del patrimonio
pubblico, lo Stato si impoverisce (se la spesa finanziata è soprattutto quella per
consumi); parallelamente la vendita del patrimonio pubblico entra in concorrenza con
il finanziamento del settore produttivo privato, con il rischio dell’aumento dei tassi di
interesse;
una elevata spesa pubblica aumenta sensibilmente la domanda aggregata di beni e
servizi, con potenziali effetti inflazionistici.
In sintesi l’elevata spesa pubblica produce inflazione ed aumento dei tassi di interessi;
l’inflazione rende meno competitivi i prodotti nazionali sui mercati internazionali, mentre
l’aumento dei tassi di interesse disincentiva gli investimenti e i consumi a credito; è inoltre da
tenere presente la possibilità di un ulteriore calo dei consumi delle famiglie per l’aumento del
prelievo tributario; in tutti i casi indicati ne soffre l’attività produttiva e quindi l’occupazione.
Il livello della spesa pubblica è pertanto una questione politica di primaria importanza. In caso
di capacità produttiva sottoutilizzata e in presenza di disoccupazione, un certo livello di spesa
pubblica può favorire la crescita della domanda di beni e servizi (direttamente attraverso la
domanda di beni e servizi da parte dello Stato e degli Enti pubblici, ed indirettamente
attraverso i trasferimenti che consentono alle famiglie maggiori consumi), senza produrre
inflazione, e con positivi effetti sull’occupazione. In particolare i sussidi di disoccupazione, la
cassa integrazione,…hanno importanti effetti anticiclichi in quanto in fase recessiva del ciclo
economico i disoccupati/lavoratori continuano a mantenere un certo livello di reddito, che a
sua volta consente il mantenimento di un certo livello di consumi, e quindi di occupazione e
produzione.
Tanto premesso è però fondamentale evitare che la spesa pubblica generi un eccessivo
prelievo fiscale e/o indebitamento, al fine di scongiurare la crisi del sistema economico e dei
livelli occupazionali. Ad esempio la grande maggioranza degli studi macroeconomici a
carattere internazionale evidenziano che un prelievo tributario superiore al 30-35% sulle
imprese, determina un progressivo calo dei livelli produttivi (e quindi occupazionali) del Paese
preso in considerazione.
Alcune linee di tendenza delle società capitalistiche avanzate mostrano un forte trend di
crescita di alcune tipologie di spese:
- la spesa pensionistica per l’aumento della durata media della vita; l’equilibrio dei
sistemi pensionistici può pertanto essere garantito solo con l’aumento dei contributi
dei lavoratori (misura che aumenta il costo del lavoro, e quindi rinuncia la capacità
concorrenziale delle imprese sui mercati internazionali), e/o con il posticipare l’età
pensionabile, e/o con il ridurre le prestazioni pensionistiche, e/o con l’aumento delle
imprese e dell’occupazione (ossia del numero dei soggetti che pagano i contributi);
- la spesa medico-sanitaria per l’invecchiamento della popolazione e lo sviluppo
scientifico-tecnologico, e farmaceutico delle terapie; per meglio evidenziare il peso
18
-
della spesa sanitaria si pensi che mediamente corrisponde al 90% della spesa delle
Regioni italiane;
lo sviluppo dei sistemi democratici, per cui i partiti politici offrono crescenti quote di
spesa pubblica per ottenere vantaggi elettorali, sfruttando la “miopia finanziaria” degli
elettori, per cui ad un aumento della spesa pubblica deve necessariamente
corrispondere un aumento del prelievo tributario (anche l’estinzione o la riduzione del
debito pubblico, e il servizio del debito, avvengono attraverso il prelievo tributario.
Gli economisti hanno rilevato anche che la spesa pubblica se finanziata in deficit favorisce il
risparmio privato, in quanto i cittadini sono esentati dal pagamento diretto o a costo pieno di
beni primari come ad esempio l’istruzione e le cure mediche (ciò sembra spiegare in parte
l’alto tasso di risparmio che ha per un certo periodo caratterizzato le famiglie italiane). Ma si
tratta di un’illusione di breve periodo; il disavanzo dovrà essere colmato e il debito
accumulato restituito, con l’aggiunta degli oneri degli interessi, e tutto ciò potrà avvenire solo
aumentando il prelievo fiscale o riducendo sensibilmente la spesa pubblica, con intuibili effetti
negativi sul risparmio delle imprese e delle famiglie. In altri termini che sia lo Stato o le
famiglie/imprese a comportarsi da “cicale” i “nodi vengono sempre al pettine”.
3 - Politica e spesa pubblica.
Quanto sopra esposto mostra chiaramente che esistono limiti all’espansione della spesa
pubblica. Come in ogni contesto limitato, si pone anche per la spesa pubblica il problema
della scelta. Cosa lo Stato e gli altri Enti pubblici devono spendere è deciso dalla “politica”,
ossia, nei sistemi democratici, dai rappresentanti del popolo, scelti attraverso libere e
democratiche elezioni.
Quanto detto mostra l’importanza della necessità che i cittadini si interessino ai programmi
politici dei partiti e dei candidati che intendono votare, perché dalle risultanze del voto
dipendono il livello della spesa sanitaria, della spesa per l’istruzione, della spesa per la
pubblica sicurezza,….
In altri termini i cittadini votando i partiti politici (e i relativi programmi di spesa pubblica)
votano per una questione di grande influenza sulla loro “qualità della vita”.
Le diverse tipologie di spesa pubblica hanno effetti diversi sul sistema economico-sociale del
Paese di riferimento.
La spesa per consumi pubblici migliora la qualità della vita dei cittadini, ma normalmente non
crea i requisiti per la crescita di medio-lungo periodo della ricchezza prodotta e la
dell’occupazione; discorso analogo può essere fatto per i trasferimenti.
Al contrario la spesa per investimenti favorisce la crescita di medio lungo-periodo della
ricchezza prodotta e dell’occupazione.
La spesa in infrastrutture (strade, porti, ferrovie, aeroporti,…) favoriscono gli scambi
commerciali e quindi l’attività di impresa; le infrastrutture rappresentano gli investimenti
pubblici di base per lo sviluppo economico di un Paese, dando alle imprese il necessario
supporto logistico-strutturale.
Le infrastrutture hanno anche un rilevante immediato effetto moltiplicatore-acceleratore sul
reddito prodotto.
Dopo le infrastrutture, se un Paese vuole investire sul “futuro”, la spesa pubblica deve essere
orientata alla ricerca scientifica, all’istruzione e alla formazione professionale.
La ricerca scientifica di base richiede ingenti investimenti, spesso non alla portata delle
imprese, con elevati rischi di non ottenere i risultati sperati, ma parallelamente consente,
nella sua applicazione produttiva, alle imprese di produrre beni tecnologicamente avanzati ad
alto valore aggiunto e non soggetti a forte concorrenza internazionale, con i conseguenti esiti
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positivi sulla crescita della ricchezza prodotta, delle entrate fiscali, e dell’occupazione. Per
quanto detto appare evidente l’importanza strategica della spesa pubblica in ricerca
scientifica.
Parallelamente un sistema produttivo avanzato può funzionare ed evolversi solo a fronte di un
sistema di istruzione e formazione professionale di elevata qualità; tutte le ricerche
macroeconomiche evidenziano che la ricchezza di un Paese non è data dalle ricchezze naturali
che possiede, ma dal livello di istruzione e formazione della popolazione, e dalla qualità delle
Università e dei Centri di Ricerca.
Una forma particolare di spesa per investimenti è anche la spesa sanitaria (per alcuni
aspetti), in quanto una popolazione sana è anche idonea a produrre ricchezza, e a ridurre i
costi di cura nel medio/lungo periodo.
In sintesi la grande differenza tra la spesa pubblica per consumi e trasferimenti, e la spesa
pubblica per investimenti, è che quest’ ultima si autofinanzia, contribuendo a creare maggiore
ricchezza, e quindi maggiore prelievo fiscale, dato l’incremento della base imponibile.
Per quanto detto emergono alcune importanti indicazioni di carattere politico, ossia
privilegiare la spesa per investimenti e garantire un adeguato livello di tutela generalizzata
della salute, di istruzione e formazione professionale, di livelli minimi di reddito a favore dei
soggetti socio-economicamente svantaggiati (atti a garantire il contenimento della
criminalità). Purtroppo i partiti politici, esclusivamente per motivi elettorali, spesso non
rispettano queste priorità, e finanziano spesa pubblica clientelare ed assistenziale, sfruttando
l’ignoranza economica degli elettori.
Alcuni dati evidenziano come la politica spesso opti per una spesa pubblica assistenziale,
perché dà ritorni elettorali più certi ed immediati: ad esempio l’Unione Europea ha il 7% della
popolazione mondiale e produce il 25% del PIL mondiale, ma spende da sola il 50% della
spesa pubblica sociale mondiale (della spesa sociale europea circa il 43% è data dalla spesa
pensionistica); anche se occorre osservare che culturalmente e storicamente l’Europa è stata
ed è la “culla” dello Stato sociale, si tratta di dati economici che danno da riflettere sulle
opinioni dell’elettorato europeo, e sul corrispondente comportamento dei partiti politici.
E’ da osservare che da diversi anni l’Unione Europea cresce economicamente molto meno di
altre aree economiche progredite o in fase di forte espansione; molti economisti ritengono
che la causa di ciò sia l’elevata spesa sociale che assorbe risorse ad altre tipologie di spesa,
ed in particolare a quella per gli investimenti, e all’elevato prelievo fiscale che determina la
rilevante spesa sociale.
Ovviamente la classe politica, per rendere accettabile ogni forma di sacrificio in termini di
riduzione della spesa sociale (che immediatamente e direttamente incide sulla qualità e il
benessere della vita dei cittadini), deve ridurre/eliminare ogni forma di “mala gestio” della
finanza pubblica.
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LEZIONE N. 4
Le entrate pubbliche.
1 – Definizione e classificazione delle entrate pubbliche.
Le entrate pubbliche sono i mezzi finanziari che lo Stato e gli altri Enti pubblici
raccolgono per sostenere la spesa pubblica.
Le entrate pubbliche possono distinguersi in:
1) entrate originari, le entrate che derivano direttamente dal patrimonio pubblico (ad
esempio attraverso le alienazioni di beni pubblici) e dalla vendita di beni e servizi da
parte del settore pubblico;
2) entrate derivate sono quelle che lo Stato ottiene in forza del suo potere coercitivo (e
di quello degli enti pubblici), e sono costituite da imposte, tasse e contributi.
Dal punto di vista della loro periodicità le entrate pubbliche possono distinguersi in:
1) entrate ordinarie, ossia le entrate che si ripetono periodicamente nel tempo, e che
costituiscono la struttura del sistema tributario del Paese preso in considerazione;
2) entrate straordinarie, ossia quelle reperite per finanziare situazioni contingenti di
particolare necessità, e destinate a perdurare per uno o al massimo pochi esercizi
finanziari (ad esempio una imposizione sul patrimonio una tantum per ridurre il peso
del debito pubblico); sono considerate entrate di natura straordinaria la sottoscrizione
dei titoli di Stato e il finanziamento del deficit statale e del relativo debito pubblico.
attraverso la stampa di carta moneta da parte della Banca Centrale per l’acquisto dei
titoli di stato di nuova emissione; sono da considerarsi entrate straordinarie anche le
vendite di parte del patrimonio pubblico.
2 – I prezzi.
I prezzi sono le entrate originarie che lo Stato richiede quale corrispettivo allorché presta
determinati servizi o cede determinati beni.
I prezzi che gli Enti pubblici applicano si possono distinguere in:
a) prezzi privati; in tal caso gli Enti pubblici operano con logiche simili a quelle degli
imprenditori privati.
b) prezzi quasi privati; in tal caso gli Enti pubblici pongono dei limiti alle quantità offerte
(con evidenti effetti sui relativi prezzi), considerando la particolare natura dei beni e servizi in
questione (ad esempio non si produce al completo disboscamento di un’area demaniale per la
produzione e vendita del legname per finalità di tutela ambientale)
c) prezzi pubblici; in tal caso i prezzi non sono il risultato dell’incontro tra domanda ed
offerta dei beni, ma è l’autorità pubblica che determina il prezzo da applicare per determinati
beni e servizi di produzione pubblica di particolare rilevanza economico-sociale; normalmente
il prezzo viene fissato al livello di costo medio di produzione.
d) prezzi politici; in tal caso per determinati beni e servizi di produzione pubblica il prezzo
è fissato ad un livello inferiore a quello del costo medio di produzione, al fine di rendere
accessibili alla collettività beni e servizi meritori di consumo (merit goods); naturalmente la
differenza tra il costo medio di produzione e il prezzo politico deve essere colmato facendo
ricorso alla fiscalità generale, in virtù del fondamentale principio economico che “non esiste
un pasto gratis”.
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3 – I tributi.
Mentre i prezzi sopra citati fanno riferimento al libero acquisto di beni e servizi prodotti da
Enti pubblici, i tributi sono prelievi coattivi.
I tributi si distinguono in imposte, tasse e contributi. La loro principale caratteristica è che
si basano sul potere d'imperio dello Stato (e degli altri enti pubblici) che gli consente di
prelevare coattivamente risorse economiche ai soggetti privati (famiglie, imprese,
professionisti, società, ecc.).
L'imposta è il prelievo coattivo di parte di reddito o di parte del patrimonio delle imprese e
delle famiglie, o sui consumi o sull’attività produttiva, da parte degli Enti pubblici al fine di
ottenere le risorse finanziarie necessarie per prestare i servizi pubblici indivisibili alla
collettività.
La tassa è l'onere finanziario, che un soggetto deve obbligatoriamente pagare per ottenere un
un servizio (ad esempio frequentare la scuola secondaria superiore) reso necessariamente da
un Ente pubblico; la tassa, a differenza dei prezzi pubblici, non fa diretto riferimento ai costi
di produzione del servizio (ad esempio si pensi che le tasse scolastiche che si pagano per
frequentare la scuola media superiore rappresentano meno del 0,01% che costo pro-capite
per studente).
Il contributo è un prelievo coattivo che colpisce i soggetti che godono di particolari benefici
derivanti dall'attività dello Stato o di altri Enti pubblici (si pensi ad esempio ai contributi di
miglioria che pagano i residenti di determinate strade asfaltate dal Comune). Una
importantissima tipologia di contributo è data dai contributi sociali, ossia i contributi che le
imprese e i lavoratori pagano obbligatoriamente per potere sostenere l’erogazione delle
pensioni. I contributi sul lavoro contribuiscono alla definizione del costo complessivo del
lavoro se pagati dal datore di lavoro; in tal caso la differenza tra il costo del lavoro e lo
stipendio/salario percepito dai lavoratori dipendenti è definita cuneo fiscale.
4 – La pressione tributaria
La pressione tributaria è data dal rapporto tra il valore dei tributi ( T ) prelevati dallo Stato
e il valore del Prodotto Interno Lordo ( PIL ), ossia T/PIL. In altre parole, indica quale quota
del reddito nazionale viene prelevata coattivamente dallo Stato. La pressione tributaria è data
principalmente dalla somma della pressione fiscale (imposte/PIL) e della pressione
contributiva (contributi/PIL)
Un’elevata pressione fiscale e/o contributiva sul reddito e/o sul patrimonio delle famiglie
produce una contrazione della domanda di beni di consumo, con effetti negativi sui livelli
produttivi e quindi occupazionali, a causa del minore reddito/ricchezza a disposizione; inoltre
se viene aumentata la parte contributiva a carico dei lavoratori per finanziare la spesa
pensionistica, la riduzione del salario/stipendio percepito può produrre rivendicazioni salariali
da parte dei lavoratori, che se concesse portano ad un aumento del costo del lavoro.
Un’elevata pressione fiscale indiretta sui consumi e sulla produzione ha effetti inflazionistici
perché fa aumentare il prezzo di vendita finale dei prodotti, generando una crisi della capacità
concorrenziale delle imprese nazionali sui mercati internazionali.
Un’elevata pressione fiscale sulle imprese (sia sul reddito prodotto che sul patrimonio) incide
negativamente sui margini di profitto, per cui le imprese riducono i propri investimenti o
delocalizzano gli impianti in Paesi con fiscalità più favorevole al reddito di impresa.
Un’elevata pressione contributiva sul lavoro a carico delle imprese per finanziare la spesa
pensionistica aumenta il costo del lavoro; ciò determina le seguenti possibili conseguenze,
che si possono verificare anche contemporaneamente:
1) le imprese optano per tecniche produttive labour-saving;
2) le imprese delocalizzano gli impianti in Paesi con un minore costo del lavoro;
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3) le imprese non in grado di effettuare quanto previsto ai due precedenti punti, se a
causa dell’aumento del costo del lavoro non riescono ad avere costi di produzione e
quindi prezzi di vendita competitivi, devono necessariamente chiudere;
4) le imprese non effettuano nuovi investimenti, a causa dell’elevato costo del lavoro.
In tutti i casi sopra indicati ne soffrono i livelli occupazionali.
La pressione tributaria può essere diminuita riducendo il prelievo tributario e/o con la crescita
del PIL (in altri termini riducendo il valore del numeratore o aumentando il valore del
denominatore).
Nell’era della globalizzazione dell’economia il vantaggio competitivo di un Paese rispetto ai
mercati internazionali è dato da:
- capacità di innovazione tecnologica di prodotto;
- capacità di innovazione tecnologica ed organizzativa di processo, con conseguente
vantaggio in termini di produttività del sistema economico;
- minore costo del lavoro per unità di prodotto, determinato dal costo del lavoro e dalla
produttività dello stesso;
- minore pressione tributaria.
In particolare sussistono Paesi (normalmente di recente sviluppo economico) con ridotta
pressione tributaria, privi di protezione sociale, e di una politica orientata alla sicurezza del
lavoro e alla tutela dell’ambiente; ciò consente tre tipi di vantaggio competitivo nell’ambito
dell’economia globalizzata:
- il dumping tributario;
- il dumping sociale;
- il dumping ambientale.
La concorrenza internazionale determinata dall’irreversibile globalizzazione dell’economia (che
per i Paesi competitivi presenta il vantaggio di aprire nuovi mercati e di realizzare economie
di scala) spinge i Paesi ad un livellamento verso il basso della pressione tributaria, della spesa
sociale, e della spesa per la tutela dell’ambiente, per garantire la permanenza delle imprese e
degli investimenti sul Territorio nazionale.
5 – PIL ed entrate tributarie.
Le entrate tributarie sono fortemente influenzate dall’andamento del ciclo economico. In fase
di espansione economica aumenta il reddito prodotto, crescono i patrimoni, aumentano i
consumi, l’attività produttiva, e l’occupazione, per cui aumenta il gettito derivante dalle
imposte e dai contributi senza necessariamente aumentare le aliquote del prelievo tributario.
Ovviamente nel caso di contrazione dell’attività economica, per i motivi opposti, si riducono le
entrate tributarie.
6 – Le entrate straordinarie.
Quando le spese dello Stato non sono coperte integralmente dal gettito derivante dalle
entrate, il bilancio è in disavanzo; il predetto disavanzo è definito disavanzo pubblico o deficit
pubblico.
Il bilancio dello Stato può essere in disavanzo per i seguenti motivi:
- a causa del non buon andamento dell’attività economica, le entrate tributarie sono
ridotte, mentre parallelamente cresce la necessità di erogare reddito di sostegno ai
disoccupati;
- lo Stato effettuata un volume elevato di spesa pubblica, non compensato da adeguate
entrate tributarie; viceversa lo Stato riduce le entrate tributarie (ossia la pressione
tributaria), ma contestualmente non riduce un pari ammontare di spesa pubblica.
In tal caso lo Stato per coprire il deficit di bilancio può ricorrere, come visto, a tre forme
straordinarie di entrate pubbliche:
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1) una imposta patrimoniale una tantum (ad esempio sul valore degli immobili di
proprietà); la riduzione della ricchezza disponibile può determinare una successiva
diminuzione dei consumi e degli investimenti, con effetti restrittivi sulla domanda
aggregata globale;
2) l'emissione e il collocamento sul mercato di titoli del debito pubblico; in tal caso il
settore pubblico risulta concorrenziale con gli operatori privati che richiedono risparmio
in prestito; ne deriva un aumento della domanda di risparmio che ne fa aumentare il
suo prezzo, ossia i tassi di interessi; l’aumento dei tassi di interesse disincentiva i
consumi a credito e gli investimenti produttivi per il maggiore costo del denaro, con
effetti restrittivi sulla domanda globale;
3) l'emissione di banconote da parte della Banca Centrale per l’acquisto dei titoli di Stato
di nuova emissione; in tal caso la stampa di banconote genera un aumento della
moneta in circolazione con i conseguenti effetti inflazionistici.
In sintesi si tratta di rimedi “tampone”, che come già visto, presentano il grave rischio di
ridurre gli investimenti, i livelli produttivi, i livelli occupazionali, e di fare aumentare
l’inflazione e i tassi di interesse..
Se il disavanzo pubblico non è dovuto a cause congiunturali di breve periodo, l’unico “sano”
rimedio al disavanzo pubblico a carattere strutturale è quello di ridurre la spesa pubblica, in
primis riducendo gli sprechi e gli ingiustificati privilegi a ristretti gruppi sociali, e/o l’aumento
della pressione tributaria (modalità quest’ultima sempre meno praticabile nell’era della
globalizzazione dell’economia).
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LEZIONE N. 5
L' imposta.
1 – L'imposta: i suoi elementi costitutivi.
L'imposta è il tributo di maggior rilevanza economica e finanziaria tra le entrate dello Stato e
di altri Enti pubblici territoriali; proprio per tale rilevanza le imposte sono anche fondamentali
strumenti della politica di bilancio.
I soggetti costitutivi dell'imposta sono:
1) il soggetto attivo: è l'Ente pubblico che determina e riscuote l'imposta (lo Stato, la
Regione, la Provincia, il Comune,...);
2) il soggetto passivo: è il contribuente che deve pagare l'imposta (persona fisica,
persona giuridica, società di persone, ecc);
3) il presupposto di imposta è il fatto al cui verificarsi nasce l'obbligo tributario; in
altre parole, il presupposto di imposta è il fatto generatore dell'imposta (il possesso di
un reddito o di un patrimonio, la produzione, o la cessione di un bene,...);
4) l'oggetto è il tipo di ricchezza colpito dall'imposizione (reddito, patrimonio,...);
5) la base imponibile è il valore sul quale viene commisurata l'imposta.
2 – La classificazione delle imposte.
Le imposte, in base ai differenti elementi che le costituiscono, possono distinguersi
attraverso vari criteri; le principali distinzioni sono:
1) imposte dirette ed indirette;
2) imposte reali e personali;
3) imposte proporzionali, progressive, regressive e a somma fissa.
2.1 – Le imposte dirette ed indirette.
Si dicono imposte dirette quelle che colpiscono le manifestazioni dirette della capacità
contributiva, quali sono il patrimonio e il reddito del contribuente.
Si dicono imposte indirette quelle che colpiscono le manifestazioni indirette della capacità
contributiva, ed in particolare i consumi e l’attività produttiva (accise).
Le imposte dirette possono essere più facilmente strutturate rispetto alle imposte indirette su
alcune esigenze di equità sociale, economica, e contributiva ad esempio prevedendo
detrazioni per i carichi di famiglia, per alcune tipologie di reddito,…..
Al contrario le imposte indirette, strumenti attraverso i quali è molto difficile discriminare la
tipologia di consumatore e/o produttore, sono di più celere e facile riscossione, oltre ad
essere tecnicamente più facile verificarne il corretto adempimento da parte dei soggetti
obbligati, rispetto alle imposte dirette
2.2 – Le imposte reali e personali.
Le imposte definite reali non tengono conto delle condizioni personali del contribuente..
Le imposte personali colpiscono la ricchezza complessiva del contribuente tenendo conto della
situazione economica, sociale, familiare e personale del soggetto (carichi di famiglia,
particolari tipi di spesa sostenuti,...).
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Le imposte reali sono di più facile accertamento rispetto a quelle personali, ma quelle
personali rispettano maggiormente la capacità contributiva del contribuente.
L’imposta viene “personalizzata” attraverso tre modalità:
- la progressività dell’imposta, ossia al crescere del reddito percepito il contribuente
paga aliquote crescenti;
- gli oneri deducibili, ossia somme che possono essere sottratte alla base imponibile,
sulla quale graverà l’aliquota fiscale, per determinare l’imposta dovuta al Fisco;
- le detrazioni, ossia somme che si possono sottrarre all’imposta dovuta.
2.3 – Le imposte a somma fissa, proporzionali, e progressive.
La distinzione tra imposte proporzionali, progressive e regressive si basa sulle modalità di
come variano le aliquote fiscali da applicare alla base imponibile.
L’imposta a somma fissa prevede il pagamento di una imposta costante per ogni livello di
reddito e/o di patrimonio.
L’imposta proporzionale prevede l’applicazione di una stessa aliquota fiscale per ogni livello di
reddito e/o patrimonio.
L’imposta progressiva prevede l’applicazione di crescenti aliquote fiscali al crescere del reddito
imponibile e/o del patrimonio.
Le aliquote fiscali sul reddito si possono applicare solo ad alcune tipologie di reddito, o a tutte
le entrate reddituali del contribuente, o solo alla parte del reddito destinato ai consumi.
3 – La scelta tra imposta patrimoniale e sul reddito.
L’imposizione fiscale relativa alle imposte dirette si basa principalmente sulle imposte sul
reddito, anche se in ogni sistema tributario dei Paesi economicamente avanzati esistono
imposte a carattere patrimoniale, con particolare riferimento al patrimonio immobiliare.
Attualmente la globalizzazione dell’economia e dei mercati e finanziari rende sempre più
difficile la tassazione del reddito, in quanto celermente i redditi e le imprese possono essere
trasferiti in Paesi a fiscalità più “benevola”.
Pertanto i Governi devono necessariamente, con sempre maggiore intensità, per recuperare
le necessarie risorse finanziarie per sostenere la spesa pubblica, aumentare il prelievo fiscale
sul patrimonio immobiliare (che non può essere trasferito all’estero), e sui consumi.
La sociologia fiscale evidenzia che la “rivolta” fiscale dei contribuenti può avvenire “by feet”
(con i piedi, ossia emigrando dal Paese con eccessivo prelievo tributario), o “by voice”, ossia
con l’ordinaria protesta sociale e politica, o con il premio del voto elettorale ai partiti politici
che propongono la riduzione della pressione tributaria.
I redditi di impresa e di capitale hanno il vantaggio di potere reagire “by feet” a spread fiscali
(ossia differenze) tra i vari Paesi, mentre beni come gli immobili e il reddito dei lavoratori
dipendenti devono necessariamente sottostare anche ad un Fisco particolarmente “esigente”,
in quanto sempre più costretto a concentrarsi sui redditi e patrimoni a ridotta mobilità.
In altri termini la globalizzazione dell’economia e dei mercati finanziari sta fortemente
restringendo le opzioni di scelta fiscale da parte dei Governi.
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4 – I principi di equità tributaria.
Gli economisti hanno cercato di individuare le regole per un giusto prelievo fiscale.
Un primo principio è stato quello del beneficio, ossia il contribuente dovrebbe pagare in
relazione al beneficio che ottiene dalla spesa pubblica. Un secondo principio individuato è
stato quello del sacrificio; in altri termini il prelievo fiscale deve livellare il sacrificio del
pagamento delle imposte tra tutti i contribuenti.
Come è possibile facilmente rilevare è alquanto difficile individuare l’esatto livello di beneficio
o sacrificio, al fine di definire il corretto livello di prelievo fiscale.
Pertanto normalmente viene applicato il principio della capacità contributiva, che si può
suddividere in:
- capacità contributiva orizzontale, ossia tutti i contribuenti che presentano le medesime
situazioni economiche, sociali, e personali, devono avere uno stesso livello di prelievo
tributario;
- capacità contributiva verticale, ossia contribuenti con situazioni economiche, sociali, e
personali differenti devono avere un differente prelievo tributario.
5 – I principi giuridici delle imposte.
In Italia la Costituzione detta alcuni principi giuridici in merito alle imposte. In base all’art. 21
della Costituzione le imposte devono essere deliberate attraverso fonte normativa primaria
(legge, decreto legge, decreto legislativo).
Inoltre l’art. 53 pone tre principi:
- tutti devono contribuire alle spese dello Stato attraverso il prelievo fiscale;
- il prelievo fiscale deve essere strutturato in base al principio della capacità
contributiva;
- il prelievo fiscale deve essere improntato a criteri di progressività delle aliquote fiscali.
6 – I principi amministrativi delle imposte.
Adam Smith nella sua opera “La ricchezza delle Nazioni” ha definito, con un’insuperata
attualità, i principi amministrativi per la riscossione delle imposte:
1) principio della giustizia, per cui non sono accettabili ingiustificate agevolazioni ed
esenzioni o parallelamente tassazioni vessatorie e punitive;
2) principio della certezza, in base al quale il tributo deve essere determinato da
parametri ben precisi, validi per tutti i contribuenti e non arbitrari;
3) principio della comodità, per il quale, il prelievo tributario deve essere il meno penoso
(anche sotto il profilo degli adempimenti formali) possibile per il contribuente;
4) principio di economicità, per cui le spese di accertamento e di riscossione dei tributi
devono essere le più ridotte possibili.
7 – Gli effetti economici delle imposte.
Gli effetti economici delle imposte si dividono in effetti microeconomici e in effetti
macroeconomici.
Gli effetti microeconomici consistono nelle ripercussioni di variazioni del prelievo fiscale in
alcuni settori su altri settori: ad esempio se aumentano le accise di un prodotto,
aumenteranno i costi di produzione che utilizzano il predetto prodotto come fattore
produttivo; d’altra parte l’aumento delle imposte indirette su un determinato bene di
consumo può fare aumentare il consumo del bene succedaneo.
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Ma il livello del prelievo fiscale ha soprattutto conseguenze macroeconomiche.
Se aumenta il prelievo fiscale sui redditi di impresa e finanziari, l’effetto più probabile è quello
della delocalizzazione all’estero delle imprese e dei capitali, con intuibili esiti negativi sui livelli
occupazionali.
Se aumenta il prelievo fiscale sul risparmio, i risparmiatori trasferiranno i capitali all’estero o
chiederanno più alti tassi di interesse per compensare il maggiore prelievo fiscale; in
entrambi i casi, il sistema delle impresa farà maggiore difficoltà a finanziare i propri progetti
di sviluppo, con evidenti effetti negativi sui livelli occupazionali.
Se aumenta l’imposizione fiscale sui consumi e sull’attività produttiva, aumenta il rischio
inflazionistico, che danneggia la capacità concorrenziali dei prodotti nazionali sui mercati
internazionali, con altrettanto evidenti effetti negativi sui livelli occupazionali.
8. L’evasione fiscale.
L’evasione fiscale è il mancato pagamento, attraverso violazioni di legge, da parte del
contribuente del prelievo fiscale dovuto.
L’evasione fiscale danneggia tutti i cittadini in quanto:
- riduce le risorse dello Stato da destinare alla spesa pubblica;
- impedisce allo Stato di ridurre il prelievo fiscale sui contribuenti corretti, a causa del
mancato incasso delle imposte evase.
Simile all’evasione fiscale è l’elusione fiscale, ossia la riduzione del pagamento delle imposte
dovute, attraverso una “machiavellica” interpretazione della normativa tributaria; in termini
semplicistici si può definire l’ elusione fiscale come “evasione legale”, consentita da un quadro
normativo poco chiaro e soggetto a varie interpretazioni.
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LEZIONE N. 6
Il bilancio dello Stato.
1 – Definizioni di bilancio statale.
Il bilancio dello Stato ( o di altro ente pubblico ) è il documento giuridico-contabile che
contiene l’indicazione delle entrate e delle spese, che lo Stato è legittimato ad incassare e a
spendere.
La redazione del bilancio può avvenire per:
- competenza, se il bilancio riporta le entrate accertate (ossia quelle che lo Stato ha
diritto ad incassare in un determinato esercizio finanziario), e le spese impegnate,
ossia quelle deliberate, ma a cui non ha ancora fatto seguito l’esborso finanziario; se
non tutte le entrate accertate sono riscosse, si ha la formazione dei residui attivi; se
non tutte le spese impegnate sono effettivamente saldate, si ha la formazione dei
residui passivi.
- cassa, se il bilancio registra i flussi finanziari effettivamente riscossi e spesi nell’ambito
di un esercizio finanziario; il bilancio di cassa non genera residui (che spesso ne
rendono difficoltoso la comprensione) come nel caso del bilancio di competenza, ma
non consente di individuare gli impegni di spesa, che gravano sul bilancio, ma non si
sono ancora realizzati, o le risorse che saranno incassate, ma che non sono state
ancora riscosse.
E’ per i motivi sopra addotti che normalmente si opta per una doppia redazione del bilancio
statale (per competenza e per cassa), o per il bilancio per cassa, ma con l’annotazione in
calce di tutti gli impegni di spesa.
Il bilancio può essere strutturato come:
- bilancio finanziario, ossia con l’esclusiva indicazione dei flussi finanziari in entrata e in
uscita;
- bilancio economico, ossia con l’indicazione della natura economica delle entrate e delle
spese; in particolare i costi fanno riferimento all’acquisto dei fattori produttivi e dei
finanziamenti a titolo di prestito acquisiti;
- il bilancio economico per centri di costo, ossia il bilancio economico correlato ai centri
di responsabilità/costo della spesa effettuata.
Rispetto al periodo a cui si riferiscono i bilanci possono suddividersi in:
1) preventivo, ossia riferito all’esercizio finanziario successivo; contiene previsioni
sull’entità delle entrate e delle spese;
2) consuntivo, ossia riferito all’esercizio finanziario precedente a quello in corso; contiene
i dati effettivi delle entrate e della spese realizzate nell’esercizio finanziario di
riferimento;
3) programmatico, di regola facente riferimento a tre esercizi finanziari, normalmente
redatto sia a legislazione invariata, sia tenendo conto dei provvedimenti legislativi di
entrata e di spesa che si intende adottare; al termine di ogni esercizio finanziario, il
bilancio programmatico slitta di un anno per mantenere il periodo triennale di
riferimento.
2 – L’ importanza politica del bilancio dello Stato.
Dal punto di vista politico il bilancio dello Stato è di fondamentale importanza in quanto
individua i soggetti che dovranno sostenere il carico fiscale, e la tipologia e i beneficiari della
spesa pubblica, oltre a delineare un quadro complessivo della finanza pubblica in equilibrio, o
con la presenza di squilibri nei conti pubblici.
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Attraverso la redazione del bilancio dello Stato è pertanto possibile individuare la politica del
Governo e della maggioranza politica, ossia a chi si intende far pagare i tributi, se ci saranno
fondi per gli investimenti, l’istruzione, la sanità, la tutela dell’ambiente,…
I cittadini devono prestare attenzione alla proposta del Governo ed approvazione da parte del
Parlamento del bilancio dello Stato, per verificare se essi adottano una gestione responsabile
delle finanze pubbliche e se soddisfano le priorità economico-sociali del Paese, ben sapendo
che non è pensabile la sussistenza di risorse adeguate per soddisfare tutte le esigenze
economiche-sociale; in altri termini i cittadini attraverso il bilancio possono controllare se la
classe politica adotta responsabilmente o meno una strategia di medio-lungo periodo per la
crescita economica e il benessere economico-sociale della cittadinanza, e per la sua
stabilizzazione congiunturale, e l’equilibrio dei conti pubblici di lungo periodo.
3 – I principi del bilancio.
Al fine di garantire trasparenza e possibilità di controllo, il bilancio dello Stato deve
corrispondere ai seguenti principi.
1) Il principio dell’annualità che comporta che il bilancio venga approvato anno per anno, in
modo tale da avere un controllo di breve periodo sull’operato fiscale del Governo.
2) Il principio dell’universalità che comporta che tutte le entrate e le spese pubbliche siano
comprese nel bilancio statale; se ciò non accadesse la possibilità di controllo sull’operato del
Governo subirebbe una grave limitazione.
3) Il principio dell’unità che comporta che le singole entrate non possono essere utilizzate per
il finanziamento di specifiche spese.
4) Il principio dell’analiticità del bilancio che comporta che i vari tipi di entrata e di spesa
siano analiticamente indicati in specifiche voci di bilancio, al fine di garantirne la trasparenza
e comprensione.
5) Il principio della chiarezza del bilancio che comporta la facile leggibilità e comprensione del
bilancio.
6) Il principio della veridicità del bilancio, ossia che i valori e le voci in esso indicate
corrispondano alla verità.
7) Il principio della pubblicità, ossia che sia accessibile e conoscibile da ogni soggetto
interessato e legittimato.
8) Il principio del bilancio in pareggio, ossia che le spese non possono superare le entrate; in
Italia questo principio è stato sancito con la legge costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012.
4 – L’iter di formazione del bilancio.
L’approvazione del bilancio è il termine di un lungo percorso che definisce la programmazione
economica dello Stato, nell’ottica del medio periodo e del rispetto del vincolo di bilancio
previsto dal Trattati e degli Accordi con l’Unione Europea.
Con il Documento di economia e finanza (DEF), redatto dal Governo e da presentare al
Parlamento entro il 10 aprile di ogni anno per le conseguenti deliberazioni parlamentari, si
delinea il quadro di riferimento della finanza pubblica nel medio periodo (triennale), con
l’obiettivo del risanamento degli squilibri della finanza pubblica, del rispetto degli impegni
relativi all’Unione Europea, della crescita economica e dell’occupazione, e più in generale dello
sviluppo economico-sociale del Paese.
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Quanto previsto dal Governo nel DEF, è incorporato nella Legge di Stabilità (che deve essere
presentata al parlamento entro il 15 ottobre di ogni anno), con la quale viene deciso il saldo
del netto da finanziare e il ricorso al mercato, cioè le somme che lo Stato può prendere a
prestito per far fronte al suo fabbisogno, ponendo un limite all’indebitamento; la legge
comprende anche le variazioni delle aliquote delle imposte, l’importo dei fondi speciali,
l’importo complessivo dei fondi destinati al rinnovo dei contratti pubblici, le modifiche
normative per rispettare il Patto di Stabilità con l’Unione Europea e alla realizzazione del
Piano di Convergenza.
Tanto definito, ossia definite le macrograndezze della finanza pubblica, è possibile procedere
all’approvazione del bilancio dello Stato per l’esercizio successivo (e con esso del bilancio di
previsione triennale), che dovrà essere approvato entro il 31 dicembre dell’anno precedente a
quello di riferimento.
Al contrario il rendiconto dello Stato relativo all’esercizio precedente è approvato dal
Parlamento entro il 30 giugno.
5 – La struttura del bilancio.
La configurazione del bilancio è imperniata sulle missioni, i programmi, e i macroprogetti.
Le missioni rappresentano le funzioni principali e gli obiettivi perseguiti con la spesa; i
programmi costituiscono aggregati diretti al perseguimento degli obiettivi definiti nell’ambito
delle missioni.
Le entrate sono classificate in titoli (entrate tributarie, extratributarie, riscossioni di crediti,..),
tipologie (imposte sul reddito, accise,…), categorie (gestione ordinaria, straordinaria,..), e
capitoli (le unità di base del bilancio).
Le spese sono suddivise in missioni, programmi, macroaggregati, e capitoli (le unità di base ;
i capitoli sono classificati secondo il loro contenuto economico e funzionale.
6 – Il vincolo costituzionale del bilancio in pareggio.
Al fine di evitare il prodursi di elevati disavanzi e debiti pubblici, considerata la tendenza di
lungo periodo alla crescita della spesa pubblica, alcuni economisti (in particolare la scuola
della Public Chiose) ha proposto di inserire nella legge fondamentale dello Stato, la
Costituzione, il divieto di bilanci pubblici in disavanzo, o limiti alla spesa pubblica.
Rispetto a questa proposta il mondo accademico degli economisti è diviso in due grandi fronti
contrapposti: coloro che sono favorevoli in quanto la classe politica per fini elettorali non è
autonomamente in grado di imporsi una disciplina fiscale (oltre al fatto di tutelare le
generazioni future dal pagamento di un debito che non hanno generato), e coloro che
ritengono nocivo togliere alla politica economica un importante strumento come la politica di
bilancio espansiva in deficit, soprattutto necessaria per far ripartire la fase positiva del ciclo
economico nel caso di perduranti periodi di stagnazione/recessione economica.
La nostra Costituzione prevedeva all’art. 81 che ogni nuova spesa non prevista dalla legge di
bilancio, dovesse avere una sua copertura finanziaria, ma le interpretazioni in merito
accolsero l’ipotesi di una copertura da individuare in un quadro di riferimento pluriennale,
dando l’avvio al prodursi dell’immenso debito pubblico italiano.
L’Unione Europea ha chiesto a tutti gli Stati aderenti all’area dell’euro di adottare una
normativa funzionale all’equilibrio dei conti pubblici e del rispetto del Patto di Stabilità.
L’Italia ha provveduto in tal senso con una legge costituzionale (legge costituzionale n.
1/2012), che ha riscritto l’originario art. 81, introducendo l’obbligo da parte dello Stato di
assicurare l’equilibrio (e non il pareggio) tra le entrate e le spese, tenendo conto delle fasi
avverse (in cui calano le entrate tributarie, e aumenta la spesa per gli ammortizzatori sociali)
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e delle fasi favorevoli del ciclo economico (durante il quale aumentano le entrate tributarie);
parallelamente il ricorso all’indebitamento è ammesso solo per sopperire agli effetti sulla
finanza pubblica derivanti dalle fasi negative del ciclo economico.
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LEZIONI N. 7
La politica di bilancio.
1 – Gli obiettivi della politica economica.
La politica economica è l’insieme dei provvedimenti presi dal Governo/Parlamento (politica di
bilancio) e dalla Banca Centrale (politica monetaria) per ottenere i seguenti risultati:
- crescita economica;
- crescita dell’occupazione
- benessere sociale e redistribuzione del reddito;
- superamento delle fasi negative del ciclo economico, e stabilizzazione delle fasi di
crescita congiunturale;
- l’equilibrio dei conti con l’estero;
- l’equilibrio dei conti pubblici;
- la stabilità del cambio.
La politica di bilancio è data dalle variazioni (in aumento/diminuzione) del prelievo tributario e
della spesa pubblica.
La politica monetaria è data dalle variazioni in aumento o diminuzione dell’offerta di moneta
in circolazione, al fine di manovrare i tassi di interesse, e per tale mezzo incentivare (se in
diminuzione) i consumi a credito e gli investimenti per favorire la domanda aggregata e
quindi la produzione e l’occupazione, e al contrario diminuire la domanda aggregata, per
contenere l’inflazione e/o l’equilibrio con i conti con l’estero, e/o la stabilità del cambio.
La politica monetaria ha effetti sulle grandezze della finanza pubblica in quanto una
diminuzione/aumento dei tassi di interesse determina una diminuzione/aumento della spesa
per gli interessi del debito pubblico.
La politica di bilancio ha gli stessi obiettivi della politica monetaria:
- favorire la piena occupazione dei fattori produttivi;
- stabilizzare il ciclo economico;
- contenere l’inflazione;
- stabilizzare la bilancia dei pagamenti;
- stabilizzare il cambio della moneta nazionale.
Il meccanismo attraverso il quale agisce la politica di bilancio è lo stesso della politica
monetaria: indurre variazioni positive o negative della domanda aggregata, per raggiungere
gli obiettivi prefissati.
Nel caso di capacità produttiva sottoutilizzata e di disoccupazione se lo Stato riduce i tributi,
le famiglie e le imprese hanno più reddito disponibile per effettuare rispettivamente consumi
ed investimenti; in tal modo aumenta la domanda aggregata, e conseguentemente la
produzione e l’occupazione; lo stesso risultato si ottiene aumentando la spesa pubblica
(maggiori investimenti pubblici, maggiore acquisto di servizi e beni di consumo, maggiori
trasferimenti a favore delle famiglie, con il conseguente aumento della domanda di beni e
servizi di consumo), mantenendo inalterata o non aumentando di pari misura la pressione
tributaria. Tali modalità di interventi di finanza pubblica sono definiti politica di bilancio
espansiva.
Nel caso di inflazione, squilibrio nei conti con l’estero e quindi squilibrio del cambio, è
necessario ridurre la domanda aggregata, per fare diminuire l’inflazione e le importazioni; lo
Stato deve pertanto aumentare i tributi e/o ridurre la spesa pubblica. In tal caso si ha la c.d.
politica di bilancio restrittiva.
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2 – La politica di bilancio tra liberismo
e interventismo.
La questione circa l’opportunità di politiche attive di gestione del bilancio pubblico per
raggiungere gli obiettivi di politica economica sopra indicati divide gli economisti tra
interventisti e liberisti.
I primi sono di ispirazione keynesiana; il sistema economico capitalistico, senza l’intervento
dello Stato, è destinato a produrre stagnazione economica e disoccupazione per i seguenti
motivi:
- i prezzi non sono immediatamente flessibili verso il basso, per cui il calo della
domanda di beni non produce un immediato calo dei prezzi, e quindi un successivo
aumento della stessa in grado di assorbire l’eccedenza produttiva; al contrario la
persistenza di bassa domanda e prezzi stabili, facendo aumentare le giacenze di
magazzino, producono un calo della produzione e quindi dell’occupazione;
- al crescere del valore del reddito prodotto, il risparmio aumenta più che
proporzionalmente rispetto al consumo, per cui una quota crescente di produzione
rimarrà invenduta, con la conseguenza di una minore produzione ed occupazione.
Da queste ipotesi di partenza ne consegue che quando sussiste capacità produttiva
sottoutilizzato e disoccupazione, la ripresa del ciclo economico può avvenire solo attraverso
politiche di bilancio espansive.
Naturalmente non è indifferente la modalità attraverso la quale viene sviluppata la politica di
bilancio espansiva: ad esempio aumentare gli investimenti pubblici può avere un impatto
positivo di lungo periodo sulla produttività del sistema economico maggiore rispetto ad una
riduzione del prelievo fiscale sulle famiglie, che ha effetti positivi sui livelli di consumo, ma
non direttamente sulla produttività.
Naturalmente le politiche di bilancio espansive producono deficit pubblici, ma gli economisti
keynesiani sostengono che il sistema economico nel breve periodo automaticamente conduce
al riequilibrio dei conti pubblici, in quanto l’aumento del reddito prodotto dalle politiche in
deficit spending genera un successivo aumento delle entrate fiscali, grazie all’aumento della
base imponibile.
Al contrario i liberisti sostengono l’inutilità (se non la dannosità) delle politiche di bilancio
espansive, perchè le famiglie e le imprese non aumentano rispettivamente i consumi e gli
investimenti a seguito delle politiche di bilancio espansive, in quanto scontano in anticipo il
futuro aumento tributario necessario per riequilibrare i conti pubblici e pagare il maggior peso
degli oneri del debito pubblico, e pertanto aumentano immediatamente il risparmio.
Parallelamente i risparmiatori, prevedendo un futuro aumento dei tassi di interesse a seguito
dell’aumento del debito pubblico, chiederanno da subito un maggiore tasso di interesse per
offrire il proprio risparmio; ciò determinerà il calo dei consumi a credito, e degli investimenti
privati.
Pertanto per gli economisti liberisti le politiche di bilancio espansive non possono produrre
l’aumento della produzione e dell’occupazione, ma al contrario possono produrre l’effetto
negativo dell’aumento dei tassi di interesse, che “spiazza” gli investimenti privati.
D’altra parte per gli economisti liberisti, la classe politica tende per fini elettorali ad
aumentare la spesa pubblica e ridurre il peso tributario, generando crescenti e sempre più
preoccupanti disavanzi pubblici e debiti pubblici, con la conseguenza di produrre inflazione e
aumento dei tassi di interessi, con gli effetti negativi sulla produzione e sull’occupazione
nazionale (meno investimenti, meno consumi a credito, meno esportazioni, più importazioni)Ne consegue la proposta del costituzionalismo fiscale, ossia di prevedere nella legge
fondamentale dello Stato, ossia la Costituzione, che il bilancio dello Stato deve essere in
pareggio.
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3 – Gli obiettivi inconciliabili delle politiche di bilancio.
A fronte dell’acceso dibattito dottrinale e ideologico sull’intervento dello Stato in economia,
sia i Governi interventisti che liberisti hanno sempre utilizzato in modo più o meno marcato la
politica di bilancio per raggiungere i propri obiettivi macroeconomici.
Ciò non toglie che la politica di bilancio sia essa in deficit o restrittiva, oltre agli eventuali
benefici ha connessi potenziali rischi.
Ad esempio le politiche di bilancio espansive, stimolando la domanda aggregata, stimolano i
livelli produttivi e l’occupazione, ma se il sistema produttivo tarda la sua risposta perché la
capacità produttiva è quasi completamente utilizzata e lo stimolo alla domanda aggregata è
stato eccessivo, il rischio è l’inflazione; parallelamente l’aumento della domanda aggregata ha
effetti sull’incremento delle importazioni, con possibili rischi sull’ equilibrio dei conti con
l’estero, e conseguentemente di svalutazione del cambio.
Sia l’ inflazione che la svalutazione del cambio hanno ben noti effetti negativi sul sistema
economico: autoalimentazione dell’inflazione ed aumenti dei tassi di interesse, che a loro
volta producono una crisi della competitività del sistema economico, e conseguentemente una
crisi dei livelli produttivi ed occupazionali.
Parallelamente non è possibile ricorrere a politiche di bilancio espansive, se lo Stato ha una
pesante situazione dei conti pubblici in termini strutturali di disavanzo pubblico (ossia
l’eccedenza della spesa pubblica sulle entrate pubbliche per esercizio finanziario) e/o di debito
pubblico (ossia il finanziamento dei disavanzi attraverso l’emissione di titoli di Stato). Infatti
gravi squilibri dei conti pubblici producono inflazione ed aumenti dei tassi di interessi;
l’aumento dell’inflazione è generato dagli elevati livelli di spesa pubblica e dall’eventuale
decisione della Banca Centrale di acquistare titoli di Stato di nuova emissione attraverso la
stampa di nuove banconote, che aumentando la massa monetaria in circolazione producono
l’aumento generalizzato dei prezzi; l’aumento dei tassi di interesse è generato dalla maggiore
domanda di risparmio generata dallo Stato attraverso il collocamento dei titoli di Stato.
Appare pertanto evidente che le politiche di bilancio espansive devono essere dosate con
particolare cura, perché possono generare conseguenze non desiderate; esse possono essere
attivate, per non incorrere nei rischi sopra esposti, solo con la sussistenza di tre condizioni:
- capacità produttiva non pienamente utilizzata;
- equilibrio/avanzo dei conti con l’estero;
- equilibrio/avanzo dei conti pubblici.
D’altra parte le politiche di bilancio restrittive, pur essendo fondamentali e necessarie per
contenere l’inflazione e stabilizzare i conti con l’estero, hanno pesanti effetti collaterali a
causa del contenimento della domanda aggregata: minore produzione, minore reddito
prodotto, minore occupazione, minore prelievo fiscale; a ciò è da aggiungere che spesso la
riduzione della spesa pubblica colpisce anche la spesa sociale, con gli immaginabili effetti
negativi sui ceti sociali più svantaggiati socio-economicamente.
4 - Globalizzazione dell’economia e politiche di bilancio espansive.
La globalizzazione dell’economia consiste nella possibilità di produrre beni e servizi in
qualsiasi parte del mondo, e di poterli vendere sul mercato mondiale globale. Ciò è stato reso
possibile dalla forte riduzione dei costi di trasporto delle merci e dalla rivoluzione digitale, che
ha consentito di offrire servizi (contabilità, call center,…) dalla propria sede di servizio a tutto
il resto del mondo. Parallelamente la rivoluzione informatica/telematica dei mercati finanziari
ha favorito una rapidissima capacità di spostamento dei capitali finanziari da un Paese
all’altro.
La globalizzazione dell’economia, che presenta il grande vantaggio di avere un mercato di
dimensioni mondiali, in grado di consentire la convenienza di ingenti investimenti e la
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realizzazione di economie di scala (a condizione di non applicare forme di protezionismo
perché genererebbero ritorsioni, escludendo il Paese protezionista da questa grande
opportunità), ha avuto una serie di importanti conseguenze, non sempre tutte positive:
- molte imprese dei Paesi capitalisticamente avanzati hanno delocalizzato i propri
impianti produttivi nei Paesi con minore prelievo tributario, con minore costo del
lavoro, con minore tutela ambientale;
- ingenti capitali sono stati trasferiti nei Paesi con fiscalità più favorevole rispetto le
rendite finanziarie;
- le imprese che non hanno delocalizzato hanno dovuto operare una drastica riduzione
dei costi per essere competitivi sui mercati mondiali, o resistere ad importazioni di
prodotti concorrenziali;
- gli Stati dei Paesi capitalisticamente avanzati non possono aumentare il prelievo
tributario sui redditi di impresa e finanziari, al fine di evitare la delocalizzazione delle
imprese e la fuga dei capitali all’estero.
Ne consegue che l’adozione di politiche di bilancio espansive nell’era della globalizzazione
dell’economia è resa difficile dalla necessità di contenere la spesa pubblica per contenere a
sua volta il prelievo tributario e mantenere i conti pubblici in equilibrio; infatti lo squilibrio dei
conti pubblici sarebbe interpretato dagli operatori economici come un segnale di grave crisi
del sistema economico nazionale, indicatore di un elevato rischio inflazionistico e di aumento
dei tassi di interesse, oltre che di un futuro aumento del prelievo tributario per riequilibrare i
conti pubblici; ne deriverebbe una fuga dei capitali e delle imprese all’estero, che
aggraverebbe drammaticamente la situazione iniziale.
5 - Euro e politiche di bilancio espansive.
L’importanza dell’euro emerge più chiaramente con un’analisi controffatuale, ossia valutando
cosa sarebbe capitato all’economia italiana, se l’Italia non avesse aderito alla moneta unica
europea, considerato lo stato attuale dei conti pubblici italiani, e la competitività del sistema
economico e del “sistema Paese” l’Italia è al fondo di molte classifiche tra i paesi
economicamente avanzati che prendono in considerazione indicatori di performance):
- voragine nei conti pubblici;
- forte svalutazione della lira;
- alta inflazione;
- alti tassi di interesse;
- stagnazione del PIL;
- elevata disoccupazione (di gran lunga maggiore di quella attuale).
Perché l’euro ha impedito tutto ciò? Perché è una moneta che rappresenta un grande
mercato, per cui è molto domandata dagli operatori economici, e quindi non è soggetta a
svalutazioni speculative.
Ma in un’unione monetaria, l’alta inflazione e gli alti tassi di interesse possono contagiare
Paesi “sani”. E’ per questo che per aderire all’euro gli Stati devono rispettare i famosi
parametri del Trattato di Maastricht, tra cui due riguardanti i conti pubblici:
- il disavanzo pubblico annuale non deve superare il 3% del valore del PIL;
- il debito pubblico non deve superare il 60% del PIL.
I predetti vincoli di bilancio sono stati inseriti per evitare che una non accorta gestione dei
conti pubblici di un Paese/o più Paesi faccia crescere l’inflazione e i tassi di interesse di Paesi
più virtuosi; il valore del 3% è stata lasciato quale margine di flessibilità per la spesa per
investimenti e per sopperire al calo delle entrate tributarie nelle fasi negative del ciclo
economico.
I predetti vincoli hanno impedito l’adozione di politiche di bilancio espansive finalizzate a
contrastare l’elevata disoccupazione, generata dalla crisi economica degli ultimi anni; ciò è
stato particolarmente vero per Paesi fortemente indebitati come l’Italia.
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Negli ultimi anni l’Unione Europea ha indirizzato programmaticamente gli Stati aderenti
all’area dell’euro al raggiungimento/mantenimento dei predetti parametri attraverso il Patto di
Stabilità, che deve essere recepito per quanto riguarda gli obiettivi programmatici dalla
politica di bilancio nazionale.
37
LEZIONE N. 8 Il disavanzo e il debito pubblico.
1 - Introduzione.
Il disavanzo pubblico è dato dall’eccesso di spesa pubblica sulle entrate pubbliche per
l’esercizio finanziario in corso; il disavanzo può essere colmato, in perfetta analogia a
qualsiasi soggetto che spende in misura maggiore rispetto a quanto incassa, ricorrendo a
prestiti, ossia in altri termini attraverso l’indebitamento.
Il disavanzo pubblico può originarsi sostanzialmente attraverso due modalità:
- una forte crescita della spesa pubblica non compensata da un’analoga crescita delle
entrate tributarie;
- un calo delle entrate tributarie (quasi sempre dovute ad un rallentamento
dell’economia e/o alla persistenza di elevata elusione ed evasione fiscale) non
compensata da una equivalente riduzione della spesa pubblica.
Il disavanzo pubblico può avere natura episodica, congiunturale o strutturale. Può avere
natura episodica quando il suo manifestarsi dipende da eventi imprevisti ed eccezionali, ad
esempio a causa della spesa pubblica effettuata per rimediare agli effetti di una calamità
naturale.
Il disavanzo pubblico ha natura congiunturale quando è il risultato delle minori entrate
tributarie dovute alle fasi negative del ciclo economico, e/o alle politiche di bilancio espansive
attuate per contrastare le predette fasi.
Il disavanzo pubblico ha natura strutturale quando l’eccesso di spesa pubblica sulle entrate
pubbliche ha origine endogena al sistema dei conti pubblici, a causa di costi crescenti (che
non si riesce a contenere) di alcune voci di bilancio non compensate da una lotta strutturale
all’evasione/elusione fiscale e agli sprechi di risorse pubbliche, e/o da un adeguato aumento
impositivo.
Nel caso di disavanzi pubblici strutturali, il debito pubblico è destinato a crescere ed assumere
proporzioni abnormi e catastrofiche per l’economia, anche a causa della crescente spesa
pubblica per gli interessi.
Il disavanzo pubblico è definito primario se il valore conteggiato non prevede la spesa per il
servizio del debito pubblico (ossia gli interessi pagati per il debito pubblico); si dice disavanzo
pubblico secondario nel caso che la voce di cui sopra sia conteggiata.
Lo Stato si indebita attraverso l’emissione di titolo del debito pubblico, ossia documenti
(ormai immateriali per disposizione di legge) che danno diritto al sottoscrittore/proprietario di
ricevere alla scadenza prefissata la quota prestata e gli interessi maturati (in realtà esistono
varie tipologie di titoli di Stato che si differenziano non solo per la loro durata, ma anche per
le modalità di rimborso del capitale prestato e degli interessi maturati.
Il valore dei titoli di Stato che devono essere ancora rimborsati costituisce il debito pubblico di
un Paese.
I sottoscrittori dei titoli di Stato possono essere nazionali o internazionali. Se è rilevante la
quota del debito pubblico detenuta da operatori economici stranieri si hanno due possibili
conseguenze:
- le risorse finanziarie dello Stato, utilizzate per il pagamento degli interessi dei titoli del
debito pubblico, fuoriescono dal sistema nazionale;
- lo Stato, in carenza di risparmio interno, ed in assenza di altri operatori esteri, perde
libertà di azione politica, perché la sottoscrizione dei titoli di Stato sarà subordinata a
garanzie di varia natura, tra le quali la principale sarà quella di ridurre la spesa
pubblica per garantire la restituzione del debito e il pagamento degli interessi; ciò è
38
particolarmente vero nel caso dei “fondi sovrani”, ossia enti finanziari (anche di natura
privata), ma dotati di capitale pubblico, che acquistano ingenti quantità di titoli del
debito pubblico, agendo come “diplomazia economica” dello Stato che finanzia il fondo
sovrano (in questo caso non è difficile immaginare che il prestito possa essere
condizionato anche ad altre richieste, quale la sottoscrizione di contratti commerciali,
l’autorizzazione ad investire nel Paese debitore a condizioni di favore, il sostegno
politico nell’ambito delle relazioni internazionali,…).
La durata dei titoli di Stato è anche differenziata, con titoli con pochi mesi di durata ed altri
con durata pluriennale. Se prevalgono i titoli con scadenza a breve, lo Stato è in continua
emergenza finanziaria perché è costretto a trovare periodicamente ingenti risorse per il
rimborso del debito pubblico e il pagamento degli interessi.
Infine un’altra importante differenziazione dei titoli di Stato è dato dal loro rendimento che
può essere fisso, o variabile in relazione ad alcune variabili (normalmente l’inflazione, i tassi
di interesse, o l’andamento del cambio); ad esempio vi possono essere titoli di Stato per cui il
rendimento aumenta se aumenta l’inflazione (si tratta di una modalità per proteggere il
risparmiatore dalle variazioni del potere di acquisto della moneta). Pertanto i titoli di Stato
indicizzati consentono una maggiore copertura del rischio finanziario o una maggiore attività
speculativa (si acquista il titolo sulla base della previsione che la variabile indicizzante si
muova nella direzione sperata); queste maggiori opportunità sono scontate attraverso un
minore rendimento di base dei titoli di Stato indicizzati rispetto a quelli a tasso di interesse
fisso.
In merito al debito pubblico la teoria economica dà un’importante indicazione: è
economicamente sostenibile finanziare con il debito pubblico solo la spesa pubblica produttiva
(investimenti, istruzione,ricerca scientifica,….), perché la predetta spesa, favorendo la
crescita del reddito prodotto, genera le entrate tributarie per la restituzione del debito e il
pagamento degli interessi.
2 - Il mercato primario e secondario dei titoli di Stato.
Il mercato primario dei titoli di Stato è dato dalle nuove emissioni dei predetti titoli. Il
mercato secondario è dato dalle negoziazioni presso la borsa valori (mercato completamente
telematico) dei titoli emessi e già in circolazione.
I due mercati sono ovviamente collegati da meccanismi economici.
Se i titoli di nuova emissione offrono rendimenti più alti rispetto a quelli già in circolazione,
parte (più o meno ampia) di coloro che possiedono i titoli già in circolazione, cercano di
venderli per acquistare quelli più convenienti di nuova emissione. Ma ovviamente la maggiore
offerta fa scendere il prezzo dei titoli, generando una perdita relativamente al capitale
investito.
In altri termini se sul mercato primario i rendimenti aumentano (per la maggiore domanda di
risparmio), gli operatori già in possesso di titoli di Stato hanno due alternative:
- subire una perdita relativamente al capitale investito in precedenza, per acquistare i
nuovi titoli con maggiore rendimento;
- tenere i titoli già posseduti, ed optare per un rendimento minore fino alla loro
scadenza.
Se invece i titoli di nuova emissione hanno un rendimento inferiore rispetto a quelli già in
circolazione (perché è minore la domanda di risparmio), gli operatori economici che ne sono
privi cercheranno di acquistare quelli in circolazione piuttosto che quelli di nuova emissione;
la maggiore domanda farà aumentare il prezzo dei titoli di Stato già in circolazione.
In altri termini se sul mercato primario i rendimenti diminuiscono, gli operatori già in
possesso di titoli di Stato hanno due alternative:
- vendere i titoli e ottenere una plusvalenza sul capitale investito;
39
-
tenere i titoli già posseduti, godendo fino a scadenza dei titoli posseduti di tassi di
interesse superiori a quelli di nuova emissione.
Quanto illustrato evidenzia che non è vero che l’investimento in titoli di Stato sia free-risk,
perché può anche determinare perdite nel capitale investito.
3 - Lo spread.
Il termine italiano che può rappresentare il noto termine “spread” è quello di differenza.
Nel caso specifico la differenza riguarda i differenti rendimenti dei titoli di Stato omogenei per
tipologia e durata esistenti nei vari Stati.
Tale differenza dipende essenzialmente dai seguenti fattori:
- il differente rischio che lo Stato non sia in grado di rimborsare il debito a scadenza e di
pagare gli interessi;
- il differente rischio inflazionistico;
- il differente rischio della svalutazione del cambio.
In particolare in merito agli ultimi due punti si fa notare che l’inflazione e/o la svalutazione del
cambio comportano la restituzione del capitale e il pagamento degli interessi in moneta
svalutata come potere di acquisto interno e/o esperno.
In sintesi è pertanto ovvio e razionale che i risparmiatori in presenza di uno o più dei rischi
sopra indicati richiedano per ritenere conveniente la sottoscrizione di nuovi titoli di Stato un
maggiore rendimento rispetto a Paesi con un minore livello di rischio.
Tra i Paesi dell’area dell’euro non sussiste il rischio di svalutazione del cambio perché sussiste
una moneta unica. Pertanto lo spread tra i vari Paesi è riferibile esclusivamente agli altri due
punti.
In altri termini se l’Italia per ottenere risparmio per un titolo di Stato di pari tipologia e durata
di uno analogo tedesco, deve offrire un rendimento maggiore (la differenza è lo spread), è
semplicemente perché gli operatori economici nazionali ed internazionali ritengono che l’Italia
è un debitore più rischioso della Germania.
4 - Il debito pubblico italiano.
L’Italia ha registrato nel 2012 un rapporto debito pubblico/pil pari al 127% (il Trattato di
Maastricht prevede una soglia massima del 60%); per dimensioni assolute il debito pubblico
italiano condivide il primato mondiale con quello statunitense e giapponese, ma per nostra
sfortuna la forza dell’economia statunitense e giapponese sono di ben altro spessore rispetto
a quella nazionale. La spesa per gli interessi del debito pubblico è stata nel 2013 pari a circa il
10,4% del PIL (per un valore assoluto di circa 84 miliardi di euro.
Per comparare il peso enorme della spesa per interessi sulla finanza pubblica (circa il 10,4%
del PIL), si pensi che sempre nel 2013 la spesa per l’istruzione è pari al 4,2% del PIL, e quella
sanitaria è pari al 7% del PIL.
Se ipoteticamente lo Stato italiano non avesse accumulato l’attuale disastroso debito
pubblico, e avesse il rapporto debito/pil previsto dal Trattato di Maastricht, non solo le nuove
generazioni non ne patirebbero le conseguenze in termini maggiore prelievo tributario e
minore spesa pubblica, ma il Governo italiano avrebbe a disposizione decine di miliardi di
euro per finanziare investimenti, ricerca scientifica, istruzione e formazione professionale, la
sanità,…, al posto di dovere pagare gli interessi del debito pubblico e rifondere il debito
cumulato.
L’attuale debito pubblico ha iniziato a svilupparsi durante la crisi economica degli anni ’70 del
secolo scorso, che evidenziava stagnazione economica accompagnata da alta inflazione (e
40
quindi da alti tassi di interesse); si è trattata di una miscela esplosiva che ha prodotto
strutturali disavanzi pubblici, perché alle minori entrate tributarie causate dalla crisi
economica, si accompagnava un alto costo del debito pubblico. Parallelamente l’ intensa
rivendicazione sociale ed economica dei sindacati (che si proponeva come parte politica con la
quale il Governo doveva coordinare la politica economica) portava ad un significativo
ampliamento dei servizi offerti ai cittadini in forma gratuita o semigratuita e dei trasferimenti
alle famiglie (istruzione, sanità, ammortizzatori sociali, pensioni,…). Al termine degli anni
Settanta il rapporto debito pubblico/PIL era di circa il 55%.
Superata la crisi degli anni 70’, i “folli” anni 80’ (si pensi a Tangentopoli dei primi anni ’90)
caratterizzati da corruzione, sprechi, e gestione della spesa pubblica clientelare e funzionale
al consenso elettorale di massa (nel decennio preso in considerazione la spesa pubblica in
rapporto al PIL passò dal 35% al 53%), registrarono al loro termine un incremento del
rapporto debito pubblico/PIL più che doppio rispetto a quello della fine degli anni ‘70 (dal
1981 al 1994 il rapporto debito pubblico/PIL passò dal 58,5% al 121,8%).
Nel 1992 l’ adesione al Trattato di Maastricht per la realizzazione della moneta unica europea,
e la gravissima crisi valutaria della lira (l’allora moneta nazionale), imposero una maggiore
disciplina e rigore di bilancio; dal 1996 al 2007, al fine del rispetto dei vincoli di bilancio
sanciti dal predetto Trattato, il rapporto debito pubblico/PIL diminuì di anno in anno, anche se
di poco, ma costantemente, per attestarsi al valore del 103%.
La gravissima crisi economico-finanziaria internazionale che ha avuto inizio tra gli anni 20072008, ha generato un lungo periodo di stagnazione e recessione economica, con gravissimi
effetti sulle entrate tributarie (si ricorda l’ovvia considerazione che se diminuisce il reddito
prodotto, le aliquote tributarie applicate, determinano un minore gettito tributario); dal 2008
il rapporto debito pubblico/PIL italiano ha ripreso a peggiorare, e nel 2014 ha superato la
soglia del 134%.
5 - Il rientro dal debito pubblico.
Il punto di non ritorno del debito pubblico dal punto di vista teorico si ha quanto il tasso di
crescita degli interessi da pagare per il servizio del debito pubblico è maggiore del tasso d
crescita del PIL (principale variabile da cui dipende la crescita delle entrate tributarie); in altri
termini lo Stato si avvia verso una situazione fallimentare, ossia di incapacità di rimborsare i
debiti e pagare gli interessi, quando il tasso di crescita degli oneri da pagare per il servizio del
debito pubblico non è coperto dal tasso di crescita delle entrate tributarie, determinando una
crescita dell’ammontare del debito pubblico, in quanto i nuovi titoli emessi serviranno in
quota crescente a finanziare il rimborso e il pagamento degli interessi dei titoli emessi in
precedenza.
Nella situazione sopra configurata, si hanno le seguenti conseguenze:
- i titoli di Stato non sono più sottoscritti a causa del rischio di insolvenza determinato
dall’inarrestabile trend di crescita del debito pubblico; i pochi risparmiatori che
continueranno a sottoscrivere le nuove emissioni di titoli lo faranno solo a fronte di
altissimi tassi di interesse, che influenzeranno negativamente i tassi di interesse
applicati alle imprese, con gravissima riduzione degli investimenti, della produzione, e
dell’occupazione; la ridotta produzione accentuerà il calo delle entrate tributarie,
aggravando la crisi fiscale dello Stato;
- la gravissima situazione della finanza pubblica influenzerà negativamente le previsioni
economiche relative al settore economico privato (che ha bisogno di uno Stato che si
occupi di infrastrutture, istruzione, formazione professionale, ricerca scientifica,
amministrazione della giustizia,…); ciò determinerà la chiusura di molte imprese,
mentre altre si trasferiranno all’estero; cesseranno gli investimenti provenienti
dall’estero; il tutto genererà le conseguenze negative sopra descritte;
- se per ottenere risorse pubbliche, lo Stato ordinerà alla Banca Centrale di stampare
banconote, la maggiore massa di moneta in circolazione produrrà un’elevata
inflazione, che distruggerà la capacità concorrenziale delle imprese nazionali, con
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conseguente diminuzione delle esportazioni ed aumento delle importazioni, con i
conseguenti effetti negativi sopra descritti.
In altri termini man mano che la finanza pubblica si avvicina al punto di non ritorno sopra
delineato, la situazione diventa sempre più drammatica per i livelli occupazionali e per il
mantenimento dei più importanti servizi di competenza dello Stato.
Pertanto a prescindere dai vincoli di bilancio delineati dal Trattato di Maastricht, e dai
successivi Patti di Stabilità definiti dall’Unione Europea, qualsiasi Stato deve intervenire per
prevenire il verificarsi dei predetti fenomeni.
Come sopra visto l’Italia deve necessariamente ridurre il peso del debito pubblico, che sottrae
così tante risorse allo sviluppo economico e al benessere dei cittadini.
I principali strumenti per la riduzione del debito pubblico sono i seguenti:
- monetizzazione del debito pubblico; la Banca Centrale acquista i titoli di Stato già
emessi e quelli di nuova emissione, acquisendo le risorse attraverso la stampa di
banconote; questa modalità ha però, come già visto, un fortissimo impatto inflativo,
ed inoltre (proprio per questo motivo) è vietata dalla normativa comunitaria e
nazionale;
- cessione di parte del patrimonio dello Stato, ed in particolare modo la vendita delle
partecipazioni azionarie delle imprese partecipate dallo Stato, con il rischio che
importanti settori a rilevanza pubblica siano gestiti con logiche esclusivamente private,
ed anche da operatori esteri (si pensi allo strategico settore dell’energia);
- aumento del prelievo tributario, ma come visto in precedenza, tale misura trova
limitazioni nella possibilità delle imprese e dei capitali di trasferirsi all’estero;
- lotta agli sprechi, alla corruzione, e ai costi impropri della politica; si tratta di un
impegno politico necessario, ma le risorse recuperabili sono molto lontane dalla
quantità necessaria per risolvere il problema;
- lotta all’evasione e all’elusione fiscale; anche in questo caso si tratta di un impegno
politico necessario, ma contestualmente occorre ridurre il peso tributario sulle imprese
che attualmente complessivamente supera il 50% del reddito prodotto; con le attuali
aliquote una convincente (e tecnicamente possibile) lotta all’elusione/evasione fiscale
produrrebbe una fortissima fuga di capitali all’estero e la chiusura delle imprese che
non sono in grado di trasferirsi e che non sono in grado di sostenere per intero il peso
tributario; ne conseguirebbe un calo della produzione e dell’occupazione nazionale, con
limitati effetti positivi, ma non certi, sulla finanza pubblica;
- applicazione di una importante tassazione patrimoniale una tantum; data la
caratteristica della non trasferibilità dei beni immobili, il patrimonio immobiliare è
particolarmente adatto a tale misura;
- consolidamento del debito pubblico; lo Stato, unilateralmente, delibera di non
rimborsare (totalmente/parzialmente) i titoli di Stato e/o di non pagare
(totalmente/parzialmente) gli interessi sul debito pubblico; in alternativa può
deliberare di allungare la durata dei titoli di Stato (di tutto il debito pubblico o di una
parte) e di differire il pagamento degli interessi (totalmente/parzialmente);
naturalmente questo tipo di operazioni ha il gravissimo effetto indesiderato di
distruggere la reputazione di buon debitore da parte dello Stato, con successive grandi
difficoltà per raccogliere risparmio nel futuro per finanziare eventuali fabbisogni
finanziari;
- riduzione della spesa pubblica; essendo opportuno non ridurre quella per investimenti
al fine di non inficiare le possibilità future di sviluppo economico-sociale del Paese,
rimangono da selezionare e riqualificare la spesa per consumi (come ad esempio la
sicurezza e l’ordine pubblico) e la spesa sociale (in Italia per circa il 60% indirizzata il
della spesa pensionistica); appare evidente che qualsiasi scelta ha un peso non
indifferente sulla qualità della vita dei cittadini;
- politiche di stimolo della produzione, che generino maggiori entrate tributarie; il
problema che sottende a questa proposta è che i disavanzi derivanti dalle politiche di
bilancio espansive sono certi, ma non altrettanto certi sono gli effetti positivi sulla
produzione del PIL (ad esempio le imprese, prive di positive aspettative di medio-
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lungo periodo, possono non rilanciare gli investimenti, e quindi l’attività produttiva),
senza tenere conto del fatto che un pregresso elevato debito pubblico rende di fatto
impossibile l’adozione di tali misure.
Dal punto di vista tecnico procedere verso la riduzione del debito pubblico significa per ogni
esercizio finanziario avere un avanzo primario di bilancio (ossia le entrate pubbliche superiori
alla spesa pubblica, non comprensiva del pagamento degli interessi per il servizio del debito
pubblico).
L’avanzo generato deve essere utilizzato per ridurre la quota di debito pubblico, e
progressivamente per poter conseguentemente ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, vera
misura della situazione debitoria di un Paese (è intuitivo che se tale rapporto non è molto
elevato, ciò sta ad indicare la capacità dello Stato di produrre livelli di ricchezza adeguati per
sostenere il rimborso dei prestiti e i relativi oneri finanziari)
Negli ultimi anni l’Italia ha sempre avuto un significativo avanzo primario di bilancio (in tal
senso l’Italia è con la Germania il Paese dell’Unione Europea più virtuoso), dimostrando la
volontà politica di procedere al riequilibrio dei conti pubblici e al rispetto degli impegni relativi
al Trattato di Maastricht e al Patto di Stabilità. Ciò nonostante il rapporto debito pubblico/PIL
invece di diminuire, negli ultimi anni ha ripreso a crescere; ciò significa che l’avanzo primario
deve essere significativamente di maggiore entità, ma ciò significa anche che i cittadini
devono sopportare sacrifici maggiori rispetto agli attuali (con conseguenti riduzioni dei
consumi), e che la domanda del settore pubblico deve essere significativamente ridotta.
Sullo sfondo una domanda: può l’Italia, in stato di recessione e deflazione (agosto 2014),
adottare una politica di bilancio fortemente restrittiva per rispettare i predetti vincoli, senza
compromettere ogni possibile ipotesi di ripresa economica e produttiva futura? La risposta in
merito divide gli esperti economici e il mondo politico tra chi ritiene che senza riequilibrio dei
conti pubblici non vi possa essere duratura ripresa dell’attività economica, e chi ritiene che
dosi eccessive del “farmaco del rigore dei conti pubblici” possano far morire il “malato Italia”.
Ma la precedente domanda rimanda ad un’altra domanda ancora: come è stato possibile
arrivare ad una simile situazione? La risposta è complessa, ma due fattori sono stati
fondamentali:
- il disinteresse dei cittadini alla vita politica del Paese;
- l’ignoranza dei cittadini sulle conseguenze economico-sociali di elevati disavanzi e
debiti pubblici.
Quali lezioni si possono trarre da quanto esposto; almeno due:
- solo un popolo formato da un punto di vista economico ed attento alle vicende
politiche è in grado di sfuggire alle promesse elettorali di maggiore spesa pubblica e
minore prelievo tributario, che portano (come ampiamente dimostrato) al disastro
economico, e di accettare sacrifici per un futuro migliore per sé e per le generazioni
future;
- le decisioni politiche hanno un’ importanza notevole per il benessere collettivo ed
individuale.
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LEZIONE N. 9
Lo Stato sociale.
1 – Introduzione.
Per Stato sociale si intende uno Stato che tra i suoi compiti, assume anche quello di garantire
ai cittadini un minimo di accesso e fruizione gratuita/semigratuita di servizi di base
(assistenza sanitaria, istruzione, assistenza sociale,…), e di sostegno ai redditi delle classi
disagiate (sussidi di disoccupazione, pensioni di invalidità,…) o di particolari categorie di
persone (ad esempio le pensioni di anzianità ai lavoratori dipendenti); la spesa pubblica che
caratterizza lo Stato sociale è definita spesa sociale.
Nella terminologia anglosassone lo Stato sociale è definito Welfare State.
Lo Stato sociale è anche a volte definito Stato assistenziale, con un implicito richiamo alle
degenerazioni dello Stato sociale quando piuttosto che prendersi cura dei cittadini, è
strumento clientelare di scambio politico-elettorale.
Storicamente lo Stato sociale è nato nella Germania prussiana; infatti fu il reazionario
Cancelliere Bismark che tra il 1883 e il 1889 concesse le prime forme di pensione ai lavoratori
(il provvedimento riguardò all’epoca solo il 2% della popolazione, data la non lunga durata
media della vita dell’epoca); il provvedimento fu preso per ridurre il rischio di tensioni sociali,
che avrebbero potuto mettere a rischio la stabilità del potere monarchico.
Ma l’impulso allo sviluppo del Welfare State fu dovuto principalmente a due fattori, oltre
all’utilizzo in chiave di strumento di pace sociale:
- lo sviluppo della democrazia nei Paesi capitalisticamente avanzati; il suffragio
universale produsse la formazione dei partiti politici di massa, che per ottenere il
consenso elettorale della popolazione ovviamente introdussero nei loro programmi
politici anche gli elementi costitutivi dello Stato Sociale;
- la Grande Crisi degli anni ’30 e la teoria keynesiana, che dimostrarono la necessità di
un sostegno (diretto e/o indiretto) al reddito dei ceti medio-bassi per garantire una
adeguata domanda di beni di consumo atta a sostenere gli investimenti, la produzione,
e l’occupazione.
Il modello di un capitalismo in crescita accompagnato da crescenti garanzie sociali si sviluppò
con successo fino alla crisi degli anni ’70; da allora la crescita del debito pubblico, la costante
decrescita delle ore lavorate, e l’invecchiamento della popolazione hanno sempre più messo in
crisi il predetto modello, che nella prassi politica ha caratterizzato essenzialmente i Paesi
capitalisticamente avanzati dell’Europa, in quanto in altre aree del mondo (compreso gli Stati
Uniti) lo Stato sociale non si è mai sviluppato con le dimensioni del modello europeo.
Dal punto di vista filosofico lo Stato sociale può essere giustificato con il cosìdetto “velo di
ignoranza”. Ipotizzando un contesto di partenza in cui tutti gli individui di un gruppo sociale,
con reddito e patrimonio uguale, non sono in grado di prevedere il loro futuro economico
(ossia se avranno un elevato reddito/patrimonio, o saranno poveri), è razionale concludere un
accordo preventivo per cui chi sarà benestante subirà un maggiore prelievo fiscale per
finanziare la spesa sociale a favore di coloro che saranno economicamente più sfortunati (una
specie di assicurazione sulla cattiva sorte economica degli individui).
2 - I vantaggi e i rischi dello Stato sociale.
Lo Stato sociale presenta numerosi vantaggi; tra i principali:
- i sussidi ai ceti in disagio economico favoriscono il sostegno ai consumi, e quindi
evitano che nelle fasi negative del ciclo economico la crisi produttiva si aggravi,
avvitandosi in una spirale senza fine; in particolare i sussidi di disoccupazione sono
definiti “stabilizzatori automatici” del ciclo economico, proprio per il motivo prima
44
-
esposto, in quanto evitano che i lavoratori si trovino a perdere completamente il loro
potere di acquisto con la perdita del posto di lavoro;
la garanzia di un’assistenza di base, riduce la microcriminalità, in quanto evita i reati
commessi per “disperazione economica”;
la solidarietà espressa dalla spesa sociale rafforza la pace sociale, evitando tensioni
politiche, rivolte, se non rivoluzioni.
A fronte di questi vantaggi, lo Stato sociale può produrre i seguenti rischi:
- accrescere la domanda sociale di beni e servizi pubblici (offerti gratuitamente o a
prezzi politici) dei cittadini in modo non compatibile con lo stato della finanza pubblica,
in quanto l’espansione dei diritti sociali può produrre nella società civile l’errata
convinzione di un diritto generalizzato e senza limiti al soddisfacimento dei predetti;
- la dinamica della crescita della spesa sociale maggiore della crescita del PIL (ossia
maggiore dell’incremento delle entrate tributarie), con il rischio di elevati disavanzi e
debiti pubblici;
- l’erogazione di servizi alla persona gratuiti/semigratuiti e il sostegno al reddito
possono indurre alcuni individui a vivere di assistenza sociale, e non della propria
attività lavorativa, professionale, imprenditoriale.
Quanto sopra esposto evidenzia che i diritti sociali possono essere rivendicati ed esercitati
solo nella misura in cui sono compatibili con lo stato della finanza pubblica e con la crescita
del PIL; solo un Paese che produce ricchezza è in grado di generare un aumento della base
imponibile atta ad aumentare il prelievo tributario, ed in tal modo poter finanziare anche la
spesa sociale.
2
- Lo Stato sociale e la globalizzazione dell’economia.
Lo Stato sociale, se troppo costoso (perché tutela un ampio numero di diritti sociali, e/o
perché inefficace/inefficiente), implica il rischio del prodursi di elevati debiti pubblici, e/o
l’aumento del prelievo fiscale/contributivo sulle imprese e sui lavoratori.
Gli effetti inflazionistici e sull’aumento dei tassi di interesse di elevati disavanzi e debiti
pubblici sono ormai noti, come le conseguenze negative sulla produzione e sull’occupazione.
L’aumento del prelievo fiscale sulle imprese disincentiva nuovi investimenti e stimola alla
delocalizzazione degli impianti all’estero, nei Paesi con minore prelievo fiscale sui redditi di
impresa; parallelamente l’aumento dei contributi per il finanziamento dei sistemi previdenziali
fa aumentare il costo del lavoro, con un possibile impatto inflazionistico ed uno stimola alla
delocalizzazione delle imprese all’estero nei Paesi in cui è minore il costo del lavoro, e/o
all’introduzione di tecnologie labour-saving. L’aumento del carico dei contributi pensionistici
sui lavoratori dipendenti produce una riduzione del reddito da lavoro disponibile, con un
impatto negativo sui consumi.
Quanto sopra esposto è da inquadrare nell’ambito della globalizzazione dell’economia, che da
una parte ha ampliato i mercati di sbocco dei beni e servizi prodotti, ma nello stesso tempo
ha aumentato il numero dei competitori sul mercato mondiale.
Nell’epoca della globalizzazione dell’economia la competizione economica si vince attraverso i
seguenti fattori:
- l’innovazione tecnologica dei prodotti, sostenuta soprattutto dalla ricerca scientifica
finanziata dallo Stato (si tratta di reperire ingenti risorse pubbliche);
- elevati investimenti pubblici nell’istruzione e nella formazione professionale per
valorizzare il “capitale umano”;
- l’innovazione tecnologica dei processi produttivi, che fa incrementare la produttività,
ma necessità di ingenti investimenti da parte delle imprese;
- il contenimento dei costi produzione.
Tutti i fattori sopra indicati hanno effetti sulla finanza pubblica. La ricerca scientifica, e la
spesa per l’istruzione e la formazione professionale richiedono ingenti investimenti pubblici;
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parallelamente per incentivare gli investimenti privati e ridurre i costi di produzione, occorre
diminuire la pressione fiscale e contributiva sulle imprese; ne deriva un incremento della
spesa pubblica per investimenti, e una diminuzione del carico tributario alle imprese, che per
non produrre disavanzo pubblico e debito pubblico (con il conseguente incremento dei tassi di
interesse, che ostacolano lo sviluppo delle imprese), deve essere compensato con altre
maggiori entrate e/o diminuzione di spesa pubblica.
L’aumento del prelievo tributario è poco praticabile al fine di evitare l’aumento dei prezzi
(dovuto principalmente all’aumento dell’imposizione sui consumi e alle accise, e/o all’aumento
del prelievo fiscale sui redditi da lavoro, che a sua volta genera l’aumento del costo del lavoro
autonomo, delle prestazioni professionali, e rivendicazioni salariali da parte dei lavoratori
dipendenti); in un sistema fortemente concorrenziale come l’economia mondiale globalizzata,
l’aumento dei prezzi rappresenta un serio punto di debolezza nel sistema di import-export del
Paese con maggiore tasso inflazionistico rispetto ai Paesi concorrenti.
La riduzione della spesa pubblica non ha impatto inflazionistico, ma riducendo la domanda
aggregata, ha un impatto negativo sulla produzione e quindi sull’occupazione.
Il quadro delineato impone nodi cruciali da sciogliere per lo sviluppo di un Paese, ed in
particolare evidenzia che nell’era della globalizzazione un intervento strutturale sulla spesa
pubblica per garantire l’equilibrio dei conti pubblici appare necessario.
Poiché la spesa pubblica per investimenti è da aumentare, e la spesa per i consumi di
funzionamento dell’apparato pubblico non è immediatamente comprimibile, il campo di azione
dei tagli è spesso rappresentato, nella prassi politica, dalla riduzione della spesa sociale, con
evidente impatto negativo sul benessere dei cittadini, fatta salva l’analisi controfattuale della
situazione, ossia quale sarebbe la situazione economico-sociale di un Paese, se non si
accettassero i necessari sacrifici.
In tutta l’ Unione Europea è emersa la necessità di garantire sia la capacità concorrenziale
(data anche dall’equilibrio dei conti pubblici), che il mantenimento dello Stato sociale. Sono
peranto emerse proposte innovative, che prevedono il passaggio di forme di welfare state
mix, ossia in partenariato pubblico-privato, coinvolgendo maggiormente le organizzazioni non
profit nel sistema di tutela sociale dei cittadini
3 - Il problema delle pensioni.
Dal punto di vista della sostenibilità finanziaria, il welfare state è soggetto ai seguenti fattori
di criticità:
- l’ aumento del costo della ricerca e cura sanitaria (si pensi alla possibilità di analisi
diagnostiche, impensabili fino a pochi anni fa);
- l’ invecchiamento della popolazione, con i conseguenti effetti di maggiori spese in
ambito sanitario, socio-assistenziale, e pensionistico;
- il trend di diminuzione delle ore di lavoro prestate, a causa delle tecnologie laboursaving, che hanno modificato il rapporto tra il numero dei lavoratori e quello dei
pensionati, con una conseguente progressiva incapacità degli introiti contributivi di
soddisfare la spesa pensionistica.
Dal punto di vista della sostenibilità finanziaria, il principale problema è, per i motivi sopra
esposti, quello del mantenimento del sistema pensionistico pubblico, e che pertanto, non
potendo poggiare completamente sulle contribuzione, può coinvolgere la fiscalità generale,
con gravi effetti sull’equilibrio dei conti pubblici..
Le pensioni di anzianità (ossia concesse dopo un certo numero di anni di lavoro e di relativa
contribuzione; ultimamente in Italia si adotta un sistema misto che tiene conto sia
dell’anzianità lavorativa che dell’età anagrafica), e le pensioni di vecchiaia (concesse al
raggiungimento di una determinata età, a fronte di un numero minimo di contribuzione
durante la vita lavorativa del pensionato) possono essere erogate attraverso due modalità:
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-
-
il sistema a ripartizione: le pensioni sono finanziate dai contributi degli attuali
lavoratori, che a loro volta avranno finanziate le proprie pensioni dai contributi pagati
dai lavoratori appartenenti alle future generazioni; si tratta di un patto di “solidarietà
generazionale”; l’erogazione della pensione non è collegata (o è collegata
parzialmente) ai contributi versati durante la vita lavorativa dei pensionati, con il
conseguente rischio di un calo attuale e futuro dell’occupazione che renderà difficile la
copertura finanziaria del pagamento delle pensioni;
il sistema a capitalizzazione: le pensioni sono pagate in relazione ai contributi pagati
durante la vita lavorativa del pensionato e alla vita media della popolazione; con la
predetta modalità la copertura della spesa pensionistica è sufficientemente garantita,
ma sono di difficile attuazione eventuali indicizzazioni delle stesse all’aumentato costo
della vita.
La scelta tra i due sistemi varia da Paese a Paese, e spesso i sistemi pensionistici pubblici
presentano caratteristiche miste più o meno marcate in un senso piuttosto che in un altro.
Ma qualsiasi sia la tipologia di sistema pensionistico adottato, la sostenibilità di fondo del
sistema pensionistico dipende dall’equilibrio tra cinque fattori:
- numero dei pensionati (P);
- numero dei lavoratori (L);
- livello medio dei salari/stipendi (w);
- aliquota media contributiva (c );
- valore medio delle pensioni (pe).
Il sistema è in equilibrio quando:
pe x P = c x w x L
Se il numero dei pensionati aumenta, l’equilibrio finanziario può essere recuperato attraverso
le seguenti modalità:
- riduzione del valore medio delle pensioni;
- aumento dell’aliquota contributiva;
- aumento dei salari/stipendi;
- aumento del numero dei lavoratori.
L’intervento sul lato sinistro dell’equazione riduce il tenore di vita dei pensionati privi di altri
redditi; l’intervento sul lato destro dell’equazione (salvo l’eventuale positivo ed auspicabile
aumento dell’occupazione) comporta un aumento del costo del lavoro. Un’ elevata aliquota
contributiva allarga anche il cuneo fiscale, ossia la differenza tra il costo del lavoro (che
comprende anche i contributi) e i salari/stipendi percepiti dai lavoratori.
Se i provvedimenti riguardanti il lato destro dell’equazione non sono quantitativamente
adeguati (e non si può/vuole ridurre il livello medio delle pensioni), diventa necessario per il
riequilibrio del sistema pensionistico ricorrere alla fiscalità generale.
Nei Paesi capitalisticamente avanzati la spesa pensionistica sta registrando una quota
crescente della spesa sociale ed una quota crescente rispetto al PIL.
Il timore di un fallimento dei sistemi previdenziali pubblici da una parte ha portato a varie
riforme dei sistemi pensionistici in senso restrittivo, e dall’altra allo sviluppo di forme di
risparmio previdenziale privato, nella convinzione che il livello medio delle pensioni è
destinato a diminuire per consentire l’equilibrio dei conti pubblici e la concorrenzialità del
sistema economico nazionale nell’ambito dell’economia globalizzata.
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LEZIONE N. 10
Il federalismo fiscale.
1 – Il principio di sussidiarietà
L’organizzazione politico-territoriale di uno Stato può differenziarsi in:
- Stato centralizzato;
- Stato regionale;
- Stato federale.
Lo Stato centralizzato si caratterizza per una guida politica unica per tutte le aeree del Paese;
lo Stato federale è composto da vari Stati con ampia autonomia politica, ed un organo politico
centralizzato che delibera su alcune importanti questioni valide per l’intero Paese, quali la
politica di bilancio, monetaria, estera, la difesa,.. (tipico esempio di Stato federale sono gli
USA). Lo Stato regionale si situa a metà strada tra lo Stato centralizzato e lo Stato federale;
nello Stato regionale, a differenza dello Stato federale, le Regioni hanno parziale autonomia
politica, ma le materie di competenza delle Regioni sono minori di quelle di competenza degli
organi centrali dello Stato.
Gli Stati democratici sono normalmente regionali o federali, spesso la scelta in un senso o in
un
altro
è
determinata
rispettivamente
dalla
minore/maggiore
estensione
territoriale/popolazione.
Entrambe le forme di Stato si basano sul principio di sussidiarietà.
La sussidiarità si distingue in:
- sussidiarietà orizzontale;
- sussidiarietà verticale.
La sussidiarietà orizzontale riguarda i rapporti tra la società civile e gli Enti politici/pubblici,
nel senso che quest’ultimi intervengono solo negli spazi non coperti dalla società civile.
La sussidiarietà verticale agisce tra i diversi livelli di governo territoriale, nel senso che gli Enti
territoriali di maggiori dimensioni subentrano all’azione politica di quelli con minori dimensioni
per le questioni che quest’ultimi non riescono a svolgere efficacemente; ad esempio la difesa
dei confini dello Stato è una questione che le singole aree di un Paese non possono
efficacemente svolgere, ed infatti il settore della difesa è sempre normalmente di competenza
degli organi politici centrali.
2 - Il federalismo fiscale.
Il federalismo fiscale è l’attuazione del prelievo tributario in una determinata area territoriale,
finalizzato al finanziamento della spesa pubblica nello stesso Territorio di provenienza delle
risorse finanziarie pubbliche.
I fautori del federalismo fiscale evidenziano due importanti vantaggi del federalismo fiscale:
- la maggiore efficienza nell’offerta dei beni e servizi pubblici locali;
- la maggiore responsabilizzazione della classe politica locale.
Il primo aspetto dipende dalla maggiore vicinanza del governo locale ai bisogni dei cittadini;
ma la vicinanza favorisce anche il secondo aspetto, ossia la capacità dei cittadini di controllare
più direttamente l’azione politica.
Parallelamente la ricaduta finanziaria sugli stessi cittadini che fruiscono della spesa pubblica
porta ad una riduzione della domanda sociale, e alla responsabilizzazione della società civile
in merito alle politiche di bilancio locale.
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A fronte dell’approccio favorevole al federalismo fiscale, i critici di tale modalità di
funzionamento dei sistemi tributari, evidenziano i seguenti rischi:
- in ambito locale, le decisioni pubbliche possono essere più facilmente eterodirette da
un gruppo di notabili o da lobby, che a livello nazionale non sarebbero determinanti; si
pensi in merito al controllo del Territorio da parte della criminalità organizzata;
- l’esperienza concreta dimostra che spesso il disavanzo pubblico/debito pubblico locale
hanno avuto lo stesso trend del disavanzo pubblico/debito pubblico nazionale, in altri
termini il federalismo fiscale piuttosto che concorrere al requilibrio dei conti pubblici,
spesso ha generato un doppio disavanzo pubblico/debito pubblico (locale/nazionale);
- le ridotte dimensioni territoriali non consentono una spesa pubblica in grado di
realizzare economie di scala;
- il federalismo fiscale pone il problema di trovare modalità di esclusione dal godimento
della spesa pubblica locale da parte di coloro che non appartenendo al Territorio non
subiscono il relativo prelievo tributario.
Nella concreta realtà istituzionale il federalismo fiscale è sempre temperato da politiche
redistributive degli organi statali centrali, al fine di evitare il formarsi di eccessive disparità di
reddito e di sviluppo economico tra le varie aree di un Paese, che oltre a minarne il senso
dell’unità nazionale, rendono difficile lo stesso sviluppo delle aree più ricche.
3
- Il federalismo fiscale in Italia.
Il punto di partenza del federalismo in Italia è stata la legge n. 142/1990, che ha attribuito ai
Comuni tutte le funzioni non espressamente previste dalla normativa a favore di altri Enti.
Ma il vero punto di svolta nel sistema politico italiano si è avuto con la c.d. “legge Bassanini”
(legge n. 59/1997); l’impianto della normativa in oggetto poggiava sul principio di
sussidiarietà orizzontale e verticale; le funzioni dello Stato venivano, con la predetta
normativa, confinate all’interno di un tassativo elenco previsto dalla normativa in questione,
mentre tutte le altre erano devolute agli Enti locali; tale trasferimento avveniva in un quadro
costituzionale invariato.
Nel 2001 il Titolo V della Costituzione è stato modificato con legge costituzionale n. 3/2001,
sulla base del principio di sussidiarietà verticale; l’individuazione delle funzioni degli Enti locali
e dei livelli minimi di base dei servizi essenziali (per garantire omogeneità su tutto il Territorio
nazionale) è rimasto compito dello Stato; parallelamente il novellato art. 119 della
Costituzione ha previsto il principio della strumentalità delle risorse finanziarie rispetto alle
funzioni esercitate dagli Enti di governo, per cui le risorse attribuite alle Regioni e agli Enti
locali devono consentire di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.
Sulla base di questo percorso normativo, il Parlamento ha prodotto la legge n. 42/2009 sul
federalismo fiscale. La normativa in oggetto si basa su due principi:
- i trasferimenti dello Stato sono basati sul costo standard dei servizi (ossia su un costo
medio predefinito), e non più sulla base della spesa storica, metodo che favoriva il
finanziamento degli Enti locali meno virtuosi;
- il trasferimento di poteri impositivi e tributi propri degli Enti territoriali locali.
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