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Dai 100 chilometri all’ora alle cento miglia all’ora: 1899 – 1904
La velocità è una grandezza proporzionale allo spazio percorso, inversamente
proporzionale al tempo impiegato a percorrerlo. Si esprime misurando lo spazio
percorso nell’unità di tempo: spazio diviso tempo. All’inizio del 1899, senza
probabilmente nulla conoscere della fisica elementare, era un ciclista a detenere il
record mondiale di velocità terrestre: il francese Champion (ossia campione, un nome
augurale), che segnò i 67 km/h. Poi sappiamo quello che successe (vedi auto d’epoca
del febbraio 1998: “Il muro dei 100 all’ora”): la ripetuta sfida tra il francese
Chasseloup Laubat e il belga Jenatzy su automobili elettriche di propria concezione,
la vittoria di quest’ultimo sul suo “sigaro” incontentabile, primo uomo sulla terra che
avesse raggiunto e superato i cento chilometri all’ora.
( vedi foto 1)
Raggiungere una velocità del genere fu come compiere quarant’anni, per il genere
umano: mano a mano che ci si avvicina sembra un traguardo incredibile, storico,
solenne, poi lo si tocca, lo si supera…gli anni continuano a passare, e i record ad
essere conseguiti, ogni volta “incredibili”, “stupefacenti”, “straordinari”. Questo
primo durò ben tre anni, durante i quali Jenatzy continuò a poter gloriarsi del suo
record. Anzi, lo confermò con un’altra vettura, stavolta benzo-elettrica, con cui coprì
il chilometro in 34 secondi, alla media 105,500 km/h, esattamente il record
conseguito tre anni prima. Alla stessa epoca, un treno elettrico faceva, secondo le
ferrovie francesi, i 130 km/h: da Parigi a Calais toccava più realisticamente i 97
km/h. Il pilota francese Fournier nella Parigi-Bordeaux su una Mors a benzina arrivò
ad 86 km/h; il motociclista Béconnais a 78 km/h; il ciclista Robl a 66 km/h. Possiamo
continuare: nello stesso anno il cavallo americano Mac Gyowan raggiunse i 33 km/h,
il pattinatore su ghiaccio Edginton i 31, un battello a motore 29, lo sprinter inglese
Watkins 18, il nuotatore inglese Jarvis 4.
Dunque l’omino belga aveva battuto tutti, animali, veicoli, esseri umani. E’ un
risultato che nessuno al mondo, qualunque cosa succeda, gli potrà strappare, che da’
la misura della velocità vertiginosa, quasi intollerabile, a cui è cambiata la nostra vita.
Quarantott’anni dopo Jenatzy, il 14 ottobre 1947, Chuck Yager fu il primo essere
umano che oltrepassò in volo la barriera del suono, e sopravvisse. Esattamente nello
stesso luogo, il deserto del Nevada, un ex pilota della Raf, Andy Green nell’ottobre
del 1997 ha raggiunto i 1222 km/h, diventando l’uomo più veloce della terra alla
guida del suo Thrust Ssc, spinto dai due motori Rolls Royce Spey di un vecchio
cacciabombardiere Phantom F4 della Royal Air Force. Andy Green è più vicino a
Jenatzy, ne è diretto continuatore ed emulo, perché conseguì il suo inconcepibile
record senza staccarsi da terra, su un veicolo di 7 tonnellate dotato, a suo modo, di
ruote e motore. 7 tonnellate lanciate a mille chilometri all’ora: non morire è una
questione di gradi infinitesimali. Se per qualsiasi ragione il Thrust avesse alzato il
muso, o lo avesse abbassato, di appena mezzo grado, avrebbe decollato o si sarebbe
infilato nel terreno, disintegrandosi in entrambi i casi. Come sa bene Craig Breedlove,
un altro “invasato” per la velocità, che correndo con il suo “Spirit of America” su
un’altra pista naturale del Nevada, in passato raggiunse “soltanto” gli 850 km/h,
sfasciando il suo veicolo.
Vedi foto 13
Tra Jenatzy e Green scorrono novantotto anni, quasi un secolo. “Quello che rende
incantevole l’impresa del Thrust – scrisse Vittorio Zucconi su “Repubblica”
all’indomani del record – è la sua perfetta inutilità pratica. La corsa folle di Green
resterà come un temporale nel deserto, magnifico e isolato. Come una voce senza eco
nel coro stonato del traffico automobilistico condannato dai codici e dagli
intasamenti ad andare, anno dopo anno sempre più lento”. Erano le stesse
considerazioni che già si facevano ai tempi di Jenatzy. La “Locomotion Automobile”
del 4 maggio 1899 (cinque giorni dopo il record) scriveva: “Nonostante tutta
l’inutilità di questi tentativi dal punto di vista pratico, non ci si può impedire di
provare una certa ammirazione per questi campioni della velocità che sembrano
affrontare per gioco queste velocità terrificanti, con il più sovrano disprezzo del
pericolo”.
In realtà l’impresa di Jenatzy appare mille volte più sensata ed utile al genere umano
di quella di Green. Ma senza il primo non ci sarebbe stato il secondo…”perché
l’uomo aspira a queste velocità? – si chiese Breedlove, che pure doveva saperlo – per
quale motivo rischia la vita? Per il denaro, per la gloria, per l’ebbrezza, per
l’impulso insopprimibile di sfiorare la morte ed uscirne vincitori?”
La risposta è più prosaica: per fare meglio del fratello, del padre, del vicino, di
chiunque altro. Per fare qualcosa che nessun altro sarà o è stato capace di fare,
camuffandolo da nazionalismo, patriottismo, amore del progresso.
Non importa in che campo: tutto va bene, purché faccia rumore, letteralmente e non
soltanto: se ne parli, insomma, lo sappiano tutti. La velocità, per esempio, non sempre
fu popolare: nel 1894, alla corsa Parigi Rouen (la prima corsa automobilistica del
mondo), i giurati, valendosi degli articoli di uno strano regolamento, esclusero il
primo veicolo arrivato (un De Dion Bouton a vapore) definendolo troppo veloce e
consegnando la palma della vittoria al secondo. Già nel 1895 alla Parigi-Bordeaux la
mentalità cambia e si comincia a prendere gusto alla velocità, che aumenta
vertiginosamente, grazie anche al proliferare di battaglie per la conquista del record,
che aumentano mano mano che i record salgono, in una spirale senza fine. Quello che
succede però nel 1902, esattamente cento anni fa, costituisce una svolta fondamentale
per molti aspetti. Innanzitutto, per la prima volta nella storia, un veicolo a benzina
supera la barriera dei cento chilometri all’ora. Certo, ormai è un record vecchio di tre
anni, ma finora nessun motore a scoppio era riuscito ad uguagliare la prestazione di
Jenatzy. Alla guida della vettura francese Mors vi era un certo Rolls, un inglese
fierissimo della sua origine, e accanitamente alla ricerca di un’auto britannica che gli
desse la possibilità di conseguire allori importanti nel nome della sua nazione. Grande
fu il suo disappunto quando capì che avrebbe dovuto non soltanto acquistare un
prodotto dell’industria automobilistica francese, ma che avrebbe dovuto anche
correre in Francia per vedersi omologare l’eventuale record, a Nizza, per la
precisione, in occasione della settimana automobilistica. Ma ecco che durante quella
riunione avvenne qualcosa che in quel momento apparve molto più importante: il
francese Léon Serpollet, da sempre sostenitore della superiorità del vapore su
qualsiasi altro tipo di trazione, riuscì a superare il record di Jenatzy e sulla vettura di
sua concezione il 13 aprile, nella Coppa Rothschild, coprì il miglio in 29 secondi,
corrispondente alla media di 120 chilometri orari. La sua Baleine (“Balena”) gli
aveva permesso di sconfiggere definitivamente l’elettricità, che allora pareva un tipo
di trazione con un grande avvenire. In quel momento il suo trionfo fu totale, anche
perché imperava la teoria che a velocità maggiori non sarebbe stato possibile
respirare (non occorre dimenticare che si tratta di veicoli che definire rudimentali è
ancora far loro un complimento, senza parabrezza, portiere, tetto o riparo alcuno). Ma
se esiste un teoria per fortuna esiste anche, generalmente, chi si occupa di confutarla.
Ed ecco farsi avanti un miliardario, come nelle migliori favole. A maggio
l’americano William K. Vanderbilt decise di sfidare l’amico par suo barone Henry de
Rothschild in una gara inizialmente prevista di dieci chilometri, per stabilire chi dei
due sapesse guidare meglio l’identica vettura, una Mercedes Simplex 40 HP. Quel
giorno però pioveva, le strade erano pessime e la gara Vanderbilt finì per condurla
contro se stesso, ad Ablis, nel chilometro lanciato, conseguendo una media di 111
chilometri all’ora. Era il miglior risultato raggiunto da un’automobile a benzina,
anche se ancora inferiore a quello di Serpollet. Ci pensò un altro barone, il belga De
Caters su una vettura Mors a benzina, un mese dopo, a ristabilire le cose: corse il
chilometro nel tratto del canale tra Bruges e Nieuwpoort, eguagliando esattamente la
velocità del francese (120 km/h). Adesso tra vapore e scoppio la situazione era di
assoluta parità, anche se erano in molti a scommettere sulla superiorità del primo.
Una cosa comunque queste gare del 1902 l’avevano stabilita con certezza: l’elettricità
era ormai fuori gioco.
Un’altra priorità dell’anno 1902 è che si capì che non si poteva continuare ad
utilizzare per i record di velocità tratti di strada regolarmente aperti al traffico:
l’Automobile Club de France, allora massima autorità in materia automobilistica per
anzianità e competenza, decise tutti i tentativi dovevano essere fatti a Dourdan, su un
percorso ufficiale, e il tempo doveva essere registrato da un apparato meccanico, e
non più da cronometri azionati a mano. Era una tendenza che si sarebbe affermata
anche nelle competizioni normali: la tristemente famosa Parigi Madrid del 1903 si
sarebbe svolta di lì a pochi mesi. In quel caso i numerosi incidenti, che purtroppo
causarono la morte di Marcel Renault oltre che di altri corridori e spettatori, fu
sfruttata dalla stampa avversa dall'automobilismo con vero sadismo. La velocità fu
presentata come seminatrice di morte e di orrore, e la pubblica opinione insorse con
tale violenza contro la corsa, da indurre il Prefetto a sospenderla a Bordeaux; colmo
del ridicolo, per ordinanza delle autorità le macchine dovettero essere trainate da
cavalli alla stazione ferroviaria, per essere caricate sul treno in partenza per Parigi. In
quel caso un atteggiamento di fanatica e parossistica opposizione guidò ad una
decisione del tutto ragionevole, il divieto delle grandi gare da capitale a capitale.
Discorso a parte la possibilità invece di tentare i record di velocità su tratti chiusi e
regolamentati, che continuavano ad infiammare gli animi e a sollecitare marche
automobilistiche. Il 6 novembre 1902 si inaugurò ufficialmente la strada di Dourdan,
e lo si fece, ovviamente, con una bella corsa sul chilometro lanciato. Si trattò dunque
del primo tentativo regolamentato, e tanto valeva festeggiarlo con un record: difatti il
francese Henri Fournier, su una Mors 60 HP (vedi foto 3), superò di tre chilometri il
risultato di Vanderbilt, nonostante la pioggia, gli slittamenti, gli ammortizzatori
scarichi, cosa che gli diede grande soddisfazione. Nemmeno dodici giorni dopo,
sempre su una vettura di marca Mors che si era quasi specializzata nei record di
velocità, ecco un altro francese, Augières, raggiungere i 124 km/h. Ormai la
frequenza dei tentativi di record era così alta che, trattandosi pur sempre di una strada
pubblica su cui il traffico normale diventava sempre più difficile, le autorità locali
decisero di limitare le corse a soli tre giorni la settimana. Il fatto è che tutto sembrava
circoscritto ad un ambito francese: francesi i recordmen, le vetture, i cronometristi, le
autorità competenti, persino i luoghi dove si correva. Una situazione intollerabile per
il nazionalista Rolls, che in patria era tenuto a rispettare il limite di velocità a 22
chilometri all’ora. Si appellò allora a quel principio riconosciuto dalla stessa legge
britannica: piena libertà d’azione in casa propria. Chiese al duca di Portland di poter
correre su una strada situata su un suo terreno, e il 7 marzo 1903 tentò l’ennesimo
record, pur a bordo, e la cosa gli bruciava alquanto, di una vettura di costruzione
francese, la sempiterna Mors. Aveva attaccato dei pesi alla parte posteriore della sua
auto, per facilitare la trazione, ma il risultato che ottenne fu il distacco dei pesi e lo
scoppio di una gomma in piena velocità. Nonostante questi intoppi di non poco conto,
toccò una velocità di 133 chilometri all’ora che naturalmente le autorità francesi si
guardarono bene dal riconoscere.
La vera sfida alla Mors venne lanciata da un’altra automobile, il cui unico difetto,
volendo, era di essere anch’essa di fabbricazione francese: la Gobron-Brillié. Il 17
luglio ad Ostenda Arthur Duray raggiunse su una Gobron i 134 km/h, rendendo così
superata la polemica tra Rolls e l’Automobile Club de France (vedi foto 4). Fu la
Mors a non digerire bene il nuovo record, perché si rendeva conto dell’enorme
riflesso commerciale che avevano questi risultati, e temeva di subirne un
contraccolpo negativo. La risposta fu immediata: il barone De Forest, al volante di
una Mors, riuscì a rosicchiare un quinto di secondo al tempo di Duray, alla media di
135 km/h. (vedi foto 7). Rolls era furioso: alla guida di una Mors (così obtorto collo
contribuendo alla sfida tra Mors e Gobron Brillié), di nuovo su un percorso privato
ma seguendo tutti i crismi dell’ufficialità, raggiunse i 136 chilometri all’ora.
Regolarmente registrato dall’Automobile Club britannico, questo tempo, di nuovo,
non fu riconosciuto dall’autorità internazionale, ossia dall’Automobile Club di
Francia: eravamo alle solite. Arthur Duray però si sentiva superato e perciò tentò
subito dopo, a distanza di pochi giorni, di fare meglio: raggiunse la stessa velocità di
Rolls: con la differenza che il suo record fu immediatamente e prontamente
omologato.
Non sempre ciò che è male finisce male: Rolls, anche se non era riuscito a farsi
riconoscere come uomo più veloce della terra, si fece però notare da un certo Royce,
un ingegnere di Manchester, che gli volle sottoporre una vettura di sua costruzione e
progettazione. Nel maggio del 1904 Henry Royce portò Charles Rolls a fare una
corsa su questa automobile, straordinaria per silenziosità e scorrevolezza. Come andò
a finire la storia…molti lo sanno, e l’intero mondo automobilistico mondiale se ne
avvantaggiò.
A prendere il posto di Rolls, nel tentativo di opporsi allo strapotere francese in questo
campo, scese un americano, sul ghiaccio del Lago Saint Clair, in America del Nord,
su una pista lunga quattro miglia, tre cronometristi alla partenza e tre all’arrivo. Si
chiamava Henry Ford (vedi foto 5 e 11), e correva su un’auto di propria concezione
insieme al meccanico Edward Huff, praticamente morto di paura durante il tentativo
(anche Henry Ford, ma lo confessò soltanto in punto di morte). La macchina infatti
slittò due volte in maniera terribile, il meccanico quasi fu sbalzato fuori, ma il
risultato valeva la pena: 147 chilometri all’ora, record omologato dall’American
Automobile Association. Era la prima volta che il record mondiale era conseguito in
America su una vettura, battezzata Arrow (“Freccia”) costruita negli USA in funzione
esclusiva del record. Tanto per cambiare, l’autorità internazionale di Parigi rifiutò di
riconoscerlo, scatenando una vivacissima polemica, com’era prevedibile. Intervenne
autorevolmente l’americano Vanderbilt, che appena due settimane dopo, raggiunse i
148 km/h su una Mercedes sulla pista Osmond-Daytona Beach, in Florida (vedi foto 8
e 14).
Arrivò il momento dell’annuale ritrovo mondano- sportivo di Nizza. La sfida
sembrava racchiusa tutta all’interno della Gobron-Brillié, che poteva contare su Louis
Rigolly e sul veterano Arthur Duray ma che soprattutto aveva messo a punto un
modello da 100 cavalli studiato appositamente per abbattere i record di Ford e di
Vanderbilt. A imporsi fu Rigolly, che prima di immettersi nel tratto cronometrato
prese una rincorsa molto più lunga dell’usuale, e in tal mondo riuscì a raggiungere i
152 chilometri all’ora, nuovo record mondiale sul chilometro lanciato. (Trattandosi di
una vettura francese su terra francese, l’omologazione fu scontata). Vedi foto 6
A questo punto si scatenò nel mondo dell’automobilistico agonistico la stessa
aspettativa di cinque anni prima, quando si trattava di oltrepassare i cento chilometri
all’ora: quando, come, chi avrebbe superato le cento miglia all’ora (ossia 161 km/h).
La Gobron, la favorita, pensò bene di approfittare del vantaggio che godeva rispetto
alle altre marche ed organizzò per il 21 luglio dello stesso 1904 una gara di velocità
sulla strada Ostenda-Nieuwpoort, nelle Fiandre. Raccolse la sfida la Darracq (inutile
dirlo, francese), ma fu sconfitta: Louis Rigolly coprì il chilometro in 21 secondi e
4/10, giungendo senza ombra di dubbi al di la’ della barriera delle cento miglia l’ora:
il suo record sul chilometro lanciato era infatti di 103,55 miglia l’ora, ossia 166 km/h.
Rigolly era il nuovo campione dell’umanità. Vedi foto 12
A grande distanza progredivano le velocità conseguite nelle competizioni
internazionali, ossia nel numero di chilometri effettivamente coperti in un’ora, che è
cosa ben diversa dalla velocità sfiorata nello sprint di qualche manciata di secondi.
Un breve excursus: il giro di Francia del 1899 fu vinto da una Panhard Levassor alla
media di 51 km/h; la Parigi-Berlino del 1901 da Fournier su Mors a 65 km/h; la
Parigi-Vienna del 1902 da Marcel Renault a 72 km/h. Ma vogliamo chiudere con una
gloria italiana, com’è naturale in queste disfide così accesamente nazionalistiche: nel
1904, nel circuito di Brescia, Vincenzo Lancia su Fiat vinse la gara alla velocità
media di 115,700 km/h, conquistando il massimo della velocità su strada.
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino
2001