Giugno 2011. Numero 10.
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Giugno 2011. Numero 10.
Nessuno sconto speciale per chi legge Max Keefe DIECI GIUGNO 2011 Tiburtina & Valeria Messaggio da Max MAXKEEFE La Comandante Comanche serie originale in più parti seconda puntata STORIE E AVVENTURE IMMAGINARIE La strada mezzovuota e mezzopiena Tiburtina & Valeria In bicicletta su una via consolare che rivela qualcosa su cosa è diventata l’Italia. virus creato impaginato e diffuso da Roberto Mengoni solo per gli amici (e gli amici degli amici) In copertina: Il passo di Forca Caruso (1100 m) 1 Si tende a sottovalutare il valore di un viaggio in Italia. Si pensa a Brancaleone alle crociate, mica a Jack Kerouac. Sembra che per viaggiare bisogna per forza recarsi nelle praterie del West, in uno spazio vuoto, per sentire l’anima uscire fuori dalla camicia a quadri. Infatti. In Italia manca lo spazio per viaggiare: la storia incombe, ti rallenta e ti trattiene. I paesaggi sono compressi e non sono neppure facilmente comprensibili. Una prateria è una prateria. Un borgo in mezzo agli Appennini ha troppo da raccontare. L’Idaho è per lo più natura. Il Lazio e l’Abruzzo sono regioni costruite in secoli di paziente lavoro di generazioni di contadini. Non si può andare in cerca di anima tra i segnali disturbati che si sovrappongono uno sull’altro. Sono troppe le nostre anime. Grasse come una sagra. Invisibili come le onde dei cellulari. Canute, complesse, arcaiche. Qualche giorno fa con il compa- gno Marco, brianzolo nato su due pedali, abbiamo percorso in bicicletta la via consolare Tiburtina Valeria, da Tivoli a Pescara. 200 chilometri secchi. Dieci ore in sella. Una strada vuota, dove non passa più quasi nessuno, se non per dirigersi all’autostrada. E anche piena di storie. Non stiamo parlando però di un’aristocratica. Parli di una via con un nome da passeggiatrice notturna, una sorella borgatara delle groupie che salivano sull’autobus dei Rolling Stones. Tiburtina Valeria è un nome che dovrebbe far arrossire i cantori della Route 66, nata nel 1926. Nel 1926! Neanche cento anni di vita. La Tiburtina esiste dal 286 a.C.. Partiva da Roma e arrivava a Tivoli. Poi venne estesa fino a Cerfennia (Collarmele) e ad Ostia Aterni (Pescara), divenendo lo strumento della penetrazione bellica, commerciale e culturale del mondo romano sulle popolazioni italiche dei Marsi, degli Equi e dei Peligni. Rispetto sì, come per ogni gerontocrazia italica, ma neanche troppo. In fondo, ogni strada è uguale all’altra. Parliamo di asfalto e di guardrail. E di copertoni. ***** Ogni viaggio nella penisola rivela i sottili confini che dividono l’Italia. C’è quello del sole e della nebbia. Quello di Gomorra e della legalità. Il più banale è quello nord-sud, tirato su e giù come una calza di donna. Ce ne sono altri, permeabili e sottili, come quello che, per esempio, che si può osservare sulla Tiburtina Valeria, tra un’Italia falsamente moderna ed una arcaica e sotto assedio. La prima è quella dello schiaffo sull'autostrada, la seconda quella della passeggiata tra le case medioevali. La prima corre fra il cemento, crede di essere colta perché legge Moccia e grida in romanesco convinta che faccia figo. [continua a pagina 2] Tutti i numeri arretrati su: www.robertomengoni.it MAXKEEFEDIECIgiugno2011 2 [continua da pagina 1] Nella seconda c’è ancora molta natura e spazio per i rapporti personali. Ma anche l’altra Italia legge poco. Nulla all’infuori del Corriere dello sport sul banco dei gelati al bar. In fondo, l’Italia arcaica non è poi molto diversa da quella moderna. Semmai, quest’ultima agisce con più pacatezza; forse, con maggiore senso dell’umorismo. Messaggio da Max Max sta bene. E si allarga. Da qualche mese collabora anche alla rivista on line “L’undici”, www.lundici.it, l’informazione con competenza, leggerezza e profondità. Sfuggendo alla logica degli eventi quotidiani, controllati dai media nazionali ed internazionali secondo logiche sensazionalistiche, i redattori dell’Undici cercano di guardare oltre e di trovare le linee della realtà. Nel frattempo Max sta preparando nuovi lavori, con la serie della Comandante Comanche. Trovate qui e nei prossimi mesi un’anticipazione di alcuni racconti, che forse usciranno in volume in tempo per le vacanze di Natale. Se ce la faccio e se il lavoro non mi distruggerà prima. ***** Fino a una quarantina d’anni fa la Tiburtina svolgeva egregiamente il suo lavoro di connettere la riva tirrenica e adriatica di una penisola troppo contorta. Oggi è una via secondaria che serve per il traffico in dialetto dei centri minori. E’ lo specchio fedele di un paese che vive in isole di apparente modernità circondate da mari di vita tradizionale. Il raid ciclistico parte da Tivoli, l’antica Tibur, meta dell’aristocrazia romana dai tempi della repubblica fino a quelli dei palazzinari. La via consolare risale la valle dell’Aniene. Si viaggia tranquilli con una graduale dolce ascesa. Pur essendo sabato mattina, il traffico è moderato. L’autostrada, che passa più in alto, se lo prende in gran parte e gliene siamo eternamente grati. Passiamo pacifici sonnolenti paesi di provincia, Vicovaro, Mandela, Roviano. Arsoli, un paesone arroccato in fondo alla valle (vedi foto del castello in alto). E’ un paesaggio sorprendentemente intatto, considerato che ci troviamo vicino alla grande capitale della speculazione edilizia. Sono ancora colline e montagne domate dal lavoro di secoli di contadini e montanari, giardino selvaggio e ben curato. Attraversiamo la frontiera tra Italia arcaica e moderna più volte. Giunti sull’altopiano di Carsoli si ritorna all’autostrada, alle zone industriali e commerciali, al turismo neocafonal. I bar non si chiamano più bar sport ma American Café. Le macellerie sono boutique della carne. Non disperiamo di trovare uno studio di geometra che si chiami Geometry center. Ma, come si diceva, anche Carsoli è un’isola. Passato il paese, la via Tiburtina sprofonda in un irreale silenzio medioevale. La strada si arrampica lentamente lungo i fianchi del Monte Guardia D’Orlando, nome in memoria di una leggenda del Paladino, nata dal terrore lasciato da un’antica scorreria di saraceni. Siamo circondati da un deser- to di fitti boschi, di ripidi fianchi. Non c’è neppure un’auto. Ogni tanto incrociamo altri compagni ciclisti. Sarebbe da scendere e farsi due chiacchiere con un fiasco di vino. Dopo otto chilometri si raggiunge l’unico abitato di questa zona solitaria, un paesino di nome Colli del Monte Bove, aggrappato sul fianco occidentale del monte. In tempi remoti Colli era una posizione strategica a protezione del valico che conduce dal Lazio alla Piana del Fucino. A quanto pare, oggi vivono meno di cinquecento abitanti, con un sitoweb molto ben fornito di informazioni, e un ecomostro, un inutile parcheggio, tanto per non sfigurare col resto del paese. La strada prosegue con tranquillità sino a quota 1220. L’idillio arcaico è fortunatamente distrutto da uno splendido orrore di cemento, un avvertimento delle cose in arrivo. In pochi chilometri e qualche centinaio di curve si scende verso Tagliacozzo, da cui si fa l’ingresso alla Piana del Fucino, dove il consumismo incombe. Non vorremo ridurre il tutto a una dicotomia silenzio/rumore, verde albero/grigio cemento, bicicletta/automobile, però ne avremmo delle belle ragioni. Dopo Tagliacozzo è una discesa nei peggiori incubi di chi ama il Bel paese. Nell’immensa periferia industriale prima di arrivare ad Avezzano, corriamo su un’ampia strada a scorrimento veloce (si dirà così?) costeggiata da centri commerciali, mobilifici, case degli sposi, supermercati, bowling. Manca solo il motel di Pyscho ma forse non abbiamo visto bene. Di alberi non ce ne sono. In compenso ci sono sottospeci di siepi e molte erbacce. Ora, una zona industriale e commerciale deve essere (giustamente?) pratica. Ha bisogno di parcheggi ampi, a cui accedere facilmente. Qui si viene e si va per finalità chiare, non certo per godere il panorama. Gli alberi non servono. Ombra e fresco? Se passi la vita in una scatola a quattro ruote, l’ombra te la danno gli occhiali da sole e il fresco è l’aria condizionata. Capisco solo una cosa. Questi orrori sono proliferati in tutte le periferie italiane. Vent’anni non esistevano i capannoni di Mercatone Uno. Gli ecomostri non sono solo il prodotto di assessori corrotti. Sono lo spirito del tempo, concretizzato nel più autentico senso della parola. Lo scambio fasullo per ottenere un benessere di mobili di compensato e abiti da sposa scontati, di lampadari di vetro e campi di calcetto in erba sintetica. In questa dimensione parallela alla matrix, vivono gli italiani. Occorre un’altra ora di pedalate e una ventina di chilometri per superare i suq ipercommerciali ed entrare in una piana solitaria all’americana. Passato l’ultimo paesino di Collarmele, inizia la salita verso il valico di Forca Caruso, che segna lo spartiacque tra Tirreno ed Adriatico (vedi foto a pagina 1 e 3). Si entra in una dimensione francescana della natura: nessuna casa, vaste praterie verdi sassose ed ondulate. Pascolano greggi di pecore. Gli ultimi pastori presidiano il confine. Neppure un auto a turbare il ritmo tranquillo dell’asfalto. La bicicletta ha questo vantaggio. E’ un oggetto verticale che taglia perfettamente l’aria. Scivola, non violenta il paesaggio. [continua a pagina 3] Tutti i numeri arretrati su: www.robertomengoni.it MAXKEEFEDIECIgiugno2011 3 Si ode solo il lieve rumore delle pale meccaniche delle torri eoliche. Sembra di essere in un film di Hayao Miyazaki (Nausicaa, se lo conoscete). Un paesaggio postriscaldamento globale, dove i superstiti vivono di energia eolica e poco altro. Le torri incombono sulle colline. Non direi che sono incongruenti nella bellezza di una terra abbandonata. Questa sensazione di abbandono continua anche oltre il passo di Forca Caruso. La Tiburtina, ormai via Valeria, scende a grande velocità verso due paesi chiamati Castel di Ieri e Castelvecchio Subequo, nomi rivelatori di un’epoca antica, mai scomparsa nei comportamenti predatori delle tribù moderne. La natura continua a dominare il paesaggio. Poco più avanti la Tiburtina entra nelle Gole di San Venanzio, scavate dal fiume Aterno, una decina di chilometri di rocce a strapiombo, di forre, orridi, gelide presenze ventose (vedi la foto nella pagina successiva). Strada e ferrovia scorrono l’una accanto all'altra. Lasciamo le Gole dopo una lunga salita, come avessimo risalito i gironi di un paradiso aspro e freddo, di venti incanalati tra le fessure delle rocce. La rapida discesa conduce a Corfinio, la prima capitale d’Italia. Durate la Guerra Sociale (91-88 a.C.) i popoli italici confederati contro l’imperialismo romano crearono una Lega Italica con capitale Corfinio e un senato federale. Battevano una moneta chiamata Italia. Roma contro l’Italia. In realtà gli italici volevano semplicemente la cittadinanza e i vantaggi connessi. Finì 1-1, in qualche modo, e gli italici divennero romani. Chissà se i leghisti verranno mai qui ad imparare un po’ di storia. Da Corfinio si ritorna gradualmente al mondo moderno. Tra Popoli e Chieti campagne e quartieri residenziali restano in un equilibrio precario. Il richiamo della costa e della grande città inizia a sedurre. Ricompaiono le città con le villette dei neoricchi. Ai lati della strada appaiono zone industriali più o meno fallite. Nella zona di Chieti la strada s’immerge in una caotica distesa urbana, un lupanare di gas di scarico, coppie asmatiche sotto platani stenti, negozi alternati ad immense stazioni di servizio. La bicicletta diventa un ostacolo nel traffico. Bisognerebbe averne una tedesca, corazzata e nera come un alano, per incutere timore. Si va a zig-zag tra i tuttoruote fermi ai semafori. Le facce delle persone sono indifferenti, come se a loro non importasse nulla di restare in coda, perdendo ore preziose di vita. Tanto, la strada è solo un passaggio, da una casa addobbata con lo schermo al plasma all’aperitivo happy hour nel centro di Pescara. Gli ultimi trenta chilometri fino a Pescara sono una nuova discesa negli incubi del consumismo, malattia infantile della modernità. C’è stato forse un momento in cui lo sviluppo economico di queste zone avrebbe permesso una crescita anche sociale e culturale. I soldi sono stati investiti invece in abiti e ville. Mi è sempre sfuggita questa ossessione tutta italiana per investire i soldi di una vita in ville patriarcali dove non vive più nessuno, vista la disintegrazione delle famiglie tradizionali e la bassa natalità. Perdiamo allegria. Le forze, del resto, dopo tante ore in sella, cominciano a scemare. Smarriamo la bussola in mezzo agli svincoli delle circonvallazioni. Finalmente un informe cartello ci annuncia che siamo entrati a Pescara. Il paesaggio non cambia. Vialoni circondati da condomini e alberi stenti. Insegne di kebab e di washing center. Comandante Comanche Karuhito Il pianeta degli uomini leggeri Un’avaria ad un ugello costrinse l’astronave a cercare assistenza meccanica su Karuhito, il pianeta degli uomini leggeri. Si tratta di una razza di esseri umanoidi dalla pelle azzurrognola che possiede una curiosa caratteristica. Nelle loro vene sottili come garze, infatti, invece di scorrere il sangue liquido, si muove una miscela di gas leggeri, tra cui una buona proporzione di idrogeno. Come risultato questi esseri sono estremamente leggeri e sfidano la forza di gravità del loro pianeta. Come dei palloncini sulla Terra, si muovono a grandi salti, sfiorando la superficie con i loro piedi nudi che non hanno bisogno di scarpe. Quelli più ***** abili e più forti, tra cui i ragazzi adolescenti che amano sfidarsi, riescono a Per scoprire il proprio paese bisogna librarsi in aria per lunghi secondi, a scendere di livello. Affidarsi alle proprie volte anche per un intero minuto, forze. Scendere di velocità per distinquando soffia un po’ di vento, come se guere i dettagli. Ci sono modi per covolassero. gliere degli aspetti che diamo per sconSe però il vento diventa forte, la loro tati. Per noi cittadini abituati a tutto, il leggerezza può diventare un grosso infianco di una montagna e la parete di conveniente. Nei tempi preistorici i kaun iperdiscount sono la stessa cosa. ruhito vivevano tra lo spesso fogliame Luoghi per poggiare un cartellone pub- delle loro gigantesche foreste, dove l’aria blicitario. Punti di passaggio da una è sempre calma, e così fanno ancora parte all’altra in un incessante andare in oggi. Quanto tira forte il vento e non si cerca di stimoli pronta consegna. può trovar rifugio in casa, ci si infila tra Abbiamo provato a uscire. Non sape- i rami, in attesa che passi la bufera. Ma vamo che esiste un’altra Italia. a volte, ancora adesso, qualcuno viene Alla stazione FS cerchiamo una mac- soffiato e portato lontano per molte china automatica per i biglietti di ritor- decine di chilometri. Del resto, è stato no a Tivoli. Non funzionano. In comproprio in questo modo che i karuhito penso un pezzo di pizza artificiale costa hanno colonizzato il loro pianeta. tre euro. Il sudore si è attaccato alla Vivono in città verticali. Non ci sono maglietta. Anche una lieve malinconia, porte. Si entra e si esce dalle finestre, per un paese inventato, che poteva esse- compiendo dei grandi balzi fino a destire migliore. nazione. Per questo, i più giovani e i più sani si trovano ai piani più alti, mentre i Raid Tiburtina-Valeria, 28 maggio 2010 più anziani e i malati risiedono in basso. tutti i numeri arretrati su www.robertomengoni.it MAXKEEFEDIECIgiugno2011 4 L’anima triste scivola nei quartieri bassi della città, dove l’aria è tenebrosa ed umida. E’ la zona dei bar più sordidi, dove si radunano i cuori spezzati. Non è una piacevole compagnia e solo raramente si può trovare in questi posti una vera consolazione. In questi posti non si trovano quelle sostanze leggere di cui i karuhito si nutrono, le foglie ricche di aria, le focacce leggere e quasi evanescenti, le piume degli uccelli, i pollini degli alberi: si compra il peggiore alcool mescolato a sostanze aromatiche che dovrebbero far ritrovare la leggerezza perduta ed invece rendono la persona sempre più pesante. Invece di aria, i loro corpi si riempiono di liquidi. Così, questi disgraziati non riescono più a sollevarsi dai quartieri bassi e sprofondano sempre più nel vizio e nella tristezza. I caduti a volte trovano uno spiraglio di cielo tra i grattacieli e da lì osservano con invidia gli amici che stanno festeggiando assieme. Magari vorrebbero muoversi da lì ma per quanti sforzi facciano le loro reni non riescono più ad imprimere al corpo quello slancio verso l’alto che in altri momenti veniva così naturalmente. Occorre un lungo proCi sono dei momenti in cui i karuhito cesso di recupero, provare a scalare riescono davvero a volare. Accade faticosamente con le proprie forze le quando sono innamorati e i loro corpi si cime delle case e poi da lì trovare il coespandono per un sorprendente fenoraggio di gettarsi, sperando che nel fratmeno termomeccanico che gli scienziati tempo il proprio corpo sia tornato leghanno lungamente studiato e che cogero. Il karuhito più munque non vale la pena raccontare felice è quello che riesce qui. Quello che sulla Terra è solo una a trovare di nuovo il simpatica metafora, su questo fortunato piacere di vivere e può pianeta è la regola. L’innamorato inizia tornare a volteggiare. a volteggiare davanti all’oggetto del suo I karuhito cercano di desiderio. Non c’è vergogna che tenga. costruire le loro città Le coppie che si amano volano lettelontane dall’oceano, ralmente da un tetto all’altro, posando dato che il loro peggiore raramente i piedi per terra. E’ come se nemico è l’acqua. si nutrissero di aria e che niente possa Quando inizia a piovetirarli giù. In certi giorni, fuori dalle re, i karuhito si rifugiascuole, appaiono schiere volanti di rano in casa. La cosa peggazzi e le ragazze che si tengono per giore è l’infido oceano mano. che come dita contorte Ciò significa anche che chi non prova si infila sulle coste fraamore, resterà confinato alla superficie. stagliate del pianeta, Per ogni coppia che si forma, un’altra che riveste l’ottanta per viene spezzata per sempre. Per lo stesso cento della superficie. fenomeno, quando l’anima è triste i Alcuni scienziati supcorpi dei karuhito si comprimono e pongono anzi che la diventano pesanti. I balzi sono faticosi e leggerezza degli abitanti difficili. La persona depressa si solleva sia dovuta all’arcaica appena dalla terra, come se stesse corlotta per la sopravvirendo, mettendo un ginocchio un po’ venza. E’ una scena più su del gomito ma niente di più. So- terribile quella di vedeno impossibili quei voli che si fanno tra re un karuhito cadere in le finestre e i tetti, tenendosi per mano. acqua. In genere accade Seconda puntata dei racconti della Comandante Comanche, mitologica astronauta del XXII secolo, che cercò per la galassia un pilota ribelle, di cui non si conosce nient’altro che il soprannome, Cavallo Pazzo. Nel corso di un epico viaggio per la galassia, la Comandante trascinò in cerca di Cavallo Pazzo la sua astronave, Colei-che-odora-disolfuro-di-idrogeno-e-perdeplutonio (poi ribattezzata The-Great-Gig-in-the-Sky) e il suo equipaggio di trentuno umani e un maiale. Molte delle sue storie appaiono inverosimili ma la Comandante esiste. Dopo Ichimachi, il pianeta con una sola città (numero nove), ecco la seconda avventura della Comandante. quando un vento più forte del normale porta la persona verso l’oceano. Il corpo bagnato si raffredda e viene trascinato sempre più in basso. Più si dibatte e più l’acqua penetra nelle vene, sostituendo il benefico idrogeno. Basterebbe restare fermi a pancia all’aria e attendere i soccorsi ma non è facile quando il panico sopraggiunge. Inutile dire che sfidare le onde è una delle gare preferire dai ragazzi per mostrare il loro valore. E che gli innamorati respinti si gettano nelle onde come supremo sacrificio o prova d’amore. I karuhito ripararono rapidamente i danni all’astronave. Era facile per loro alzarsi fino ad un’altezza di venti metri per sistemare gli ugelli direzionali con le loro dita flessibili e precise. Si fermarono solo per una pioggia improvvisa, che li fece correre a ripararsi sotto un albero che sembrava un banano terrestre. Pensai che a Cavallo Pazzo sarebbe piaciuto questo pianeta, dove poteva essere leggero come l’aria durante il mattino, risvegliandosi accanto a me, ed essere pesante come una tempesta. Furente con me, mi solleverebbe per gettarmi in acqua. No. Qui non lo avrei trovato. E se l’avessi trovato, sarei fuggita senza guardare i contorni del suo volto. Appena le riparazioni furono ultimante, detti ordine al pilota di partire in direzione opposta al pianeta degli uomini leggeri. tutti i numeri arretrati su www.robertomengoni.it