l`uomo: natura o cultura?

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l`uomo: natura o cultura?
L'UOMO: NATURA O CULTURA?
Introduzione
Analizzare il comportamento dell'uomo all'interno della società e capire,
per quanto sia possibile, cosa lo spinge alla socialità e al legame con altri
individui, è stata la spinta motivazionale per la stesura di questa tesi.
L'uomo può bastare a se stesso? Abbiamo bisogno degli altri per essere
davvero felici? Perché sentiamo il bisogno della condivisione e
dell'accettazione?
Il tema dell'uomo inteso come animale sociale o meno, è motivo di
dibattito sin dai tempi di Aristotele e, a riguardo, esistono pareri e teorie
fortemente contrastanti.
Purtroppo, non essendo quella sociale una scienza esatta, non vi sono
risposte scientifiche ma soltanto interpretazioni soggettive.
All'interno del primo capitolo, analizzerò cosa si intende per natura e cosa,
invece, per cultura, approfondendo principalmente due teorie in
opposizione tra loro: quella di Thomas Hobbes, secondo il quale la natura
rappresenta uno stato di guerra perpetua tra gli uomini, e quella di JeanJacques Rousseau che, al contrario, interpreta lo “stato di natura” come lo
stadio più felice per l'uomo.
Successivamente, avendo scelto come teoria guida quella di Rousseau,
analizzerò l'uscita dell'uomo dallo stato di natura e la conseguente
formazione del “contratto sociale”, definito più comunemente come
“società”.
Il secondo capitolo, è interamente dedicato ad un'analisi dettagliata della
società odierna e al ruolo che l'uomo svolge al suo interno; in particolare
verrà approfondita, in tutte le sue sfumature, la crisi dell'uomo moderno
nella società consumistica attuale.
Il terzo capitolo, che ha come tema portante la voglia di evasione dalla
società moderna, è un'analisi del romanzo di Jon Krakauer Nelle terre
estreme (Into the Wild) e della sua trasposizione cinematografica diretta dal
regista, attore e sceneggiatore Sean Penn.
All'interno del quarto ed ultimo capitolo, analizzerò il rapporto tra
l'individuo ed il gruppo, facendo qualche riferimento generico alla
psicologia sociale.
In maniera più approfondita, esaminerò gli studi dello psicologo tedesco
Kurt Lewin sull'individuo, sul gruppo, e sulle relazioni che intercorrono tra
le due parti.
In seguito, studierò le motivazioni fondamentali alla base dei
comportamenti umani, soffermandomi con particolare attenzione
sull'influenza che gli altri esercitano su di noi e su come questo possa
modificare totalmente il nostro modo di comportarci a seconda della
situazione e della persona che abbiamo di fronte.
A tal proposito, seguirà un'analisi del fenomeno sociologico “Facebook”,
perfetta sintesi della crisi dell'uomo moderno, sempre più dipendente dal
bisogno di accettazione, sospeso tra “identità virtuale” e “rappresentazione
del sé”.
1. NATURA CONTRO CULTURA
1.1 La grande dicotomìa
“ Il costume è una seconda natura che distrugge la prima. Ma cos’è natura?
Perché il costume non è naturale? Ho gran paura che questa natura non
sia ella stessa altro che un primo costume, come il costume non sia altro
che una seconda natura.”
Blaise PASCAL, Pensées
L'esigenza di separare, nella vita umana, ciò che viene dalla nostra natura
da ciò che ci arriva dalla cultura o dalla storia, è uno dei bisogni che
l'uomo ha da sempre avvertito.
La forte dicotomìa tra nature e“nurture” (termine che indica al contempo
allevamento, educazione e acquisizione) ha assunto molti nomi e molte
maschere nel corso del tempo. Già i greci separavano nomos e physis, la
norma e la natura. Si è poi parlato di materia e forma, di anima e corpo, di
res cogitans e res extensa.
Il concetto di natura, dunque, dovrebbe risultare piuttosto chiaro: natura è
ciò che è necessario e uniforme negli esseri umani.
D'altro canto, anche il significato di cultura è stato ampiamente studiato:
cultura è ciò che è contingente e storicamente mutabile negli esseri umani.
Al giorno d'oggi, questa dicotomìa viene anche interpretata come
differenza tra innato e acquisito: si suppone che ogni essere umano sappia
certe cose sin dalla nascita, mentre ne apprende delle altre nel corso
dell'esistenza. Questa opposizione è inoltre riconducibile a quella tra
eredità genetica e influsso ambientale. Tuttavia, nella visione oggi
predominante, le tre opposizioni – Nature o Nurture, Innato o Acquisito,
Eredità genetica o Influsso ambientale – si sovrappongono e non
necessariamente si escludono a vicenda. Superare la dicotomia naturacultura, e tutte quelle citate, non significa necessariamente naturalizzare i
fenomeni culturali o, al contrario, “culturalizzare” i fenomeni naturali.
Solo ragionando in modo diverso e decostruendo la dicotomìa, potremo
finalmente affermare che saremo sempre più naturali attraverso la cultura
e, viceversa, anche il suo reciproco, ovvero che siamo culturali attraverso
la natura. E' fondamentale che le culture vengano pensate come strategie
umane che riducono la complessità e le libertà “naturali”: la cultura
funziona non solo perché fornisce all'uomo opportunità di vite nuove, ma
anche perché le struttura e le limita.
Questa mutazione di pensiero è in effetti solo agli inizi, ma essa dovrebbe
portare a una rivoluzione anche del modo di pensare le questioni etiche e
politiche.
1.2 Lo stato di natura : Hobbes
Per stato di natura si intende quell'ipotetica condizione in cui gli uomini
non sono ancora associati fra di loro e disciplinati da un apparato
governativo e dalle relative leggi. Questa particolare condizione dell'uomo
è stata ipotizzata da vari filosofi, tra cui Thomas Hobbes e Jean-Jacques
Rousseau. Il modello hobbesiano in particolare, ha dominato, per la sua
semplicità e per il suo rigore, su tutta la filosofia politica del SeiSettecento, anche quando è stato polemicamente respinto. Hobbes parte
dallo stato di natura considerato come uno stato di guerra universale e
perpetua, che condurrà all’autodistruzione del genere umano. In quanto
tale, è una condizione da cui l’umanità deve necessariamente uscire, e per
uscirne ‘pax est quaerenda’ (bisogna cercare la pace). Gli uomini sono
quindi disposti a cedere l’illimitata libertà e il diritto su tutte le cose di cui
godono nello stato di natura, e a sottomettersi al potere assoluto del
sovrano nella società civile, pur di conseguire l’obiettivo della coesistenza
pacifica, altrimenti irraggiungibile. Tale scambio, per quanto comporti
l’alienazione di tutti i diritti naturali fuorché uno, quello alla vita, sarà
sempre vantaggioso perché garantisce all’individuo la sicurezza della
propria esistenza, suo sommo bene.
1.3 Stato di individualismo conflittuale
Alla descrizione dello stato di natura Hobbes dedica importanti sezioni
delle sue due opere principali, il De cive e il Leviatano. Secondo Hobbes,
lo stato di natura è la condizione in cui gli uomini vivono prima di
vincolarsi con un qualsiasi patto di associazione e di sottomissione. Esso si
definisce come lo stato in cui, in assenza di leggi scritte e di istituzioni
giuridico-politiche, vige soltanto lo ‘ius in omnia’ (diritto di tutti a tutto);
rappresenta quindi la condizione in cui tutto è lecito al fine di conservare
la propria vita e i propri beni, e in cui gli uomini seguono liberamente le
loro passioni egoistiche. Di conseguenza, questo stato è contraddistinto da
una totale assenza di obbligazioni, sia positive sia negative: è lo stato della
libertà assoluta o, come dice Hobbes, “lo stato in cui non c’è né governo,
né governati”. A causa dell’uguaglianza naturale tra gli uomini, che
Hobbes intende come uguale possibilità per ciascuno di arrecare all’altro il
massimo dei mali, la morte, e a causa della naturale tendenza dell’uomo a
entrare con gli altri in rapporti di competizione e di aggressione (‘homo
homini lupus’, l’uomo è lupo per l’altro uomo), questo stato di libertà
assoluta diventa immediatamente anarchia e stato di guerra. Proprio
l’uguaglianza naturale rende tale stato una guerra senza confini e senza
soluzione (‘bellum omnium contra omnes’, guerra di tutti contro tutti),
perché nessun vincitore sarà mai tanto più forte degli altri da non temere di
essere a sua volta ucciso con la forza o con l’inganno. Inoltre, tale guerra
impedisce di fruire realmente dell’enorme libertà di cui l’uomo potrebbe
godere; si tratta quindi di uno stato di libertà inutile, e lo stesso diritto
naturale, come diritto di tutti a tutto, è inutilizzabile e rimane lettera morta
dal momento che, se ci si impossessa di una cosa appellandosi al diritto
naturale, chiunque altro può togliercela in nome dello stesso diritto.
Dunque, nello stato di natura non è possibile un possesso stabile ed
esclusivo neppure di una quantità limitata di beni. Non solo non è possibile
la proprietà e il dominio, ma le condizioni di precarietà e di violenza
continue impediscono nello stato naturale qualsiasi forma di agricoltura, di
industria, di commercio: in una parola, qualsiasi forma di civiltà. Nello
stato di natura, infine, poiché non ci sono leggi, non c’è neppure il giusto e
l’ingiusto, ed è possibile rubare, uccidere, compiere atti immorali senza
che questo sia considerato illecito: in guerra, infatti, qualsiasi cosa è
considerata lecita, e qualsiasi mezzo è consentito.
1.4
La necessità di uscire dallo stato di natura
La società civile nasce con l’uscita da questo stato di povertà e di paura.
Ma per fondare la società sarà necessario cambiare tutto: gli uomini
devono darsi nuove regole di condotta morale e sociale senza assumere
nient’altro che l’uguaglianza e l’antagonismo di partenza; non hanno nulla
da portarsi fuori dallo stato di natura; non ci sono, per esempio, diritti
innati variamente definiti che poi la società politica sarà chiamata a
rispettare, perché nello stato di natura esiste solo lo ‘ius in omnia’, causa
di guerra. Si impone così la necessità di istituire una realtà di convivenza
totalmente nuova (la società civile), la cui legittimazione è costituita da un
patto di unione o contratto sociale, liberamente sottoscritto sulla base di un
calcolo razionale e di finalità soggettive, prima tra tutte la garanzia della
vita.
1.5
Stato ipotetico o storico?
Lo stato di natura è un’ipotesi logica avanzata per ragioni argomentative:
Hobbes intende dimostrare che ‘se’ gli uomini vivessero senza leggi e
senza un potere che li tiene a freno, sarebbero continuamente in guerra tra
loro. Tuttavia tale ipotesi trova una conferma empirica nell’osservazione
dei costumi delle popolazioni ancora selvagge, per esempio degli Indiani
d’America (De cive). Altri esempi concreti di stato di natura sono dati
dalla guerra civile (durante la quale si rompe il patto di unione e gli
individui ritornano a uno stato pre - politico) e dai rapporti internazionali,
campo nel quale sovrani e Stati si fronteggiano minacciosamente l' uno
contro l’altro (Leviatano). L’insistenza di Hobbes sulla guerra come
condizione perpetua dello stato naturale trova un preciso riscontro nei
racconti delle faide e degli scontri che caratterizzano la vita delle tribù,
così come la miseria dell’uomo pre - civile è il riflesso della povertà della
vita fuori dall’Europa colta e civilizzata. La novità è che ora Hobbes non
presenta tali condizioni di vita come tipiche del selvaggio che vive allo
stato bestiale e senza Dio, bensì come la dimensione naturale di tutto il
genere umano. Fuori dalla società politica organizzata – spiega Hobbes –
l’uomo è un lupo errante, e questo vale tanto per i bravi cittadini inglesi
che vivono nelle città quanto per i Pellirosse della lontana America.
1.6 Discorso sulla diseguaglianza: lo stato di natura in
Rousseau
Una visione totalmente differente e, a mio giudizio, più veritiera e
attendibile rispetto a quella di Hobbes, ci viene fornita dal filosofo
svizzero Jean-Jacques Rousseau. Nel Discorso sull'origine e i fondamenti
della diseguaglianza tra gli uomini, Rousseau intende operare una
decostruzione storica dell'uomo sociale per risalire all'uomo naturale. Il
suo scopo è quello di arrivare a comprendere la natura originaria dell'uomo
per poter comprendere qual è il fondamento della diseguaglianza che regna
nella società: «Come conoscere, infatti, la fonte della diseguaglianza tra gli
uomini, se non si comincia col conoscere gli uomini stessi?» (Scritti
politici pg.130)
Rousseau sottolinea in particolare l'importanza di non cadere nell'errore
dei filosofi giusnaturalisti come Locke, che hanno posto alla base della
società, un contratto che gli uomini avrebbero stretto tra loro
consapevolmente e razionalmente, laddove per Rousseau un uomo
consapevole e razionale non è concepibile al di fuori (né, quindi, prima)
della società; ugualmente insidioso, secondo Rousseau, è l'errore di
Hobbes che – pur identificando correttamente l'importanza di una
ricostruzione filologica della storia dell'umanità come base della filosofia
politica – ha proiettato arbitrariamente sull'uomo di natura caratteristiche
di malvagità come l'orgoglio o la vanità, proprie dell'uomo civile, già
corrotto dalla società.
Nella prefazione, l'autore mette anche in evidenza il fatto che lo stato
originario dell'uomo selvaggio da lui teorizzato (l'état de nature, lo stato di
natura) è concepito più come un'ipotesi teorica volta a comprendere i
principi delle cose che come una fase storica realmente verificatasi in
passato. In seguito, l' autore entra nel merito della sua ricostruzione della
storia del genere umano e della nascita della diseguaglianza. Rimane
costante in questa opera, l'idea che lo stato di natura, in cui i bisogni
dell'uomo si riducevano allo stretto necessario ed erano perfettamente
commisurati ai suoi desideri, in cui esso non aveva né capacità di
riflessione né facoltà di proiettarsi nel futuro, fu per l'umanità un'epoca
massimamente felice; la natura, concepita ora come lo stato originario
dell'uomo selvaggio, ora come l'interiorità profonda, integra, e incorrotta,
dell'uomo civile, ha in Rousseau una connotazione sempre benigna, e la
vita a diretto contatto con essa è sempre considerata felice; per contro, «i
nostri mali sono per la maggior parte opera nostra e li avremmo evitati
quasi tutti mantenendo la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria
che ci era prescritta dalla natura.» (scritti politici pg. 146)
Dal punto di vista morale, vivendo in isolamento rispetto agli altri membri
della sua specie (Rousseau nega l'esistenza nell'uomo di un'inclinazione
istintiva alla socialità), non avendo quasi per nulla relazioni interpersonali
e non avendo alcun dovere riconosciuto, l'uomo di natura non è né buono
né cattivo. Esso ha due istinti, o principi naturali innati, che regolano le sue
azioni: il primo è l'amore di sé (amour de soi-même) o principio di
autoconservazione, il sentimento che lo spinge a evitare la sofferenza e il
pericolo, che lo fa godere del suo benessere e che, pur senza conseguenze
misantropiche, lo porta naturalmente a preferire sé agli altri; il secondo,
che tempera il primo, è la pietà (pitié), il sentimento che genera ripugnanza
al veder soffrire altri esseri sensibili. Sono proprio questi due principi che,
agendo insieme, contribuiscono a preservare la specie umana lungo il
tempo, mentre il vivere in società e la riflessione, minano ed erodono la
naturale pietà verso gli altri. Tuttavia l'uomo selvaggio si differenzia dagli
animali per una qualità morale, il libero arbitrio che gli consente,
esercitando una scelta attraverso la volontà, di sottrarsi alla meccanica
obbedienza agli impulsi della natura che caratterizza le bestie. Da questa
libertà deriva, secondo Rousseau, la facoltà più caratteristica dell'uomo, la
perfettibilità (perfectibilité), cioè la sua capacità di cambiare sé stesso in
meglio o in peggio. L'uomo, diversamente dagli animali, è un essere
capace di modificarsi, anche se la sua perfettibilità è ambivalente:
Rousseau ammette che «questa sconfinata facoltà che ci distingue è la
fonte di tutti i malanni dell'uomo; [...] che facendo sbocciare coi secoli la
sua intelligenza e i suoi errori, i suoi vizi e le sue virtù, lo rende a lungo
andare tiranno di sé stesso e della natura.» (scritti politici pg.150)
Ed è proprio dal concetto di perfettibilità e di ragione latente nell'uomo
selvaggio che ha inizio la ricostruzione storica di Rousseau: egli evidenzia
come i suoi bisogni siano all'inizio estremamente limitati e facili da
soddisfare; sottolinea che la condizione originaria degli uomini era quella
dell'isolamento e che nemmeno la famiglia era un'istituzione permanente
nello stato di natura. La socievolezza, infatti, è esclusa dalle caratteristiche
dell'uomo naturale. Secondo Rousseau, come detto, il principale errore
compiuto da chi ha riflettuto sull'uomo nello stato di natura è stato proprio
quello di proiettare su quello caratteristiche proprie dell'uomo nello stato
civile, quali ad esempio la socievolezza, la ragione o l'aggressività verso i
suoi simili. In realtà, per Rousseau, finché l'uomo non oppone resistenza
alle sue due tendenze naturali non gli succederà mai di provare sentimenti
di odio verso un suo simile e, anche qualora dovesse attaccarlo, sarebbe
solo per motivi di sopravvivenza. Questa è, in sintesi, la condizione
dell'uomo nello stato di natura: «Errando nella foresta, senza mestiere,
senza parola, senza domicilio, senza guerra e senza legami, senza nessun
bisogno dei suoi simili, come pure senza nessun bisogno di danneggiarli,
forse addirittura senza conoscerne individualmente nessuno, il selvaggio,
soggetto a poche passioni, bastando a sé stesso, non doveva avere che i
sentimenti e i lumi del suo stato, non doveva sentire che gli autentici
bisogni, guardando solo a ciò che riteneva di avere interesse a vedere,
mentre la sua intelligenza faceva scarsi progressi, ma la sua vanità non ne
faceva di più.» (scritti politici pg.168)
Rousseau aggiunge che in questa fase, non esistendo i concetti di orgoglio
e oltraggio, ed essendo la natura feconda, non c'è necessità di conflitti
intensi, prolungati o sanguinosi. Chi viene sconfitto non coltiva sentimenti
di rivalsa ed è in grado di riottenere dalla natura ciò che desidera. L'amore
è vissuto al livello della pura soddisfazione fisica: per l'uomo selvaggio
una femmina vale l'altra e l'incontro dura il tempo necessario per
soddisfare l'istinto d'accoppiamento. L'amore sentimentale, vissuto come
scelta di una donna particolare, è frutto della vita in società. In
conclusione, l'uomo in natura è un uomo privo di cultura e privo di storia.
Non essendoci educazione, non c'è progresso di generazione in
generazione e la diseguaglianza tra gli uomini, i quali vivono allo stesso
modo facendo tutti le stesse cose, è molto ridotta: è la società a produrre le
diseguaglianze o ad ampliare quelle minime esistenti in natura.
1.7
Parte seconda: l'origine della diseguaglianza
Nella seconda parte del Discours, Rousseau descrive il processo storico
che ha visto la degenerazione dell'uomo dalla purezza e felicità dello stato
di natura all'avvilimento e degrado morale della società corrotta. Secondo
la sua ricostruzione, nonostante la semplicità e l'agio della vita nello stato
di natura, le necessità di ogni giorno e le passioni che esse generano
devono in qualche misura stimolare l'intelletto umano; l'insorgere di
difficoltà di particolare gravità legate a fenomeni naturali straordinari e
catastrofici porta gli uomini ad avvicinarsi gli uni agli altri, e questo «dové
naturalmente generare nello spirito dell'uomo la percezione di certi
rapporti»; tali rapporti mentali lo portano a sviluppare delle idee. L'uomo
comincia così ad avviarsi verso la consapevolezza e l'intelligenza e,
acquisendo la facoltà di paragonarsi a sé stesso e agli altri, va
immediatamente riempiendosi di orgoglio e autocompiacimento. Inizia a
confrontarsi con i propri simili e, ognuno osservando che tutti si
comportano come si comporta lui stesso, intuendo una serie di affinità
reciproche, sviluppa una sorta di empatia e un rispettoso codice di
condotta che, rafforzando il sentimento della pietà, va a vantaggio della
sicurezza e della pace di tutti. Gli uomini cominciano dunque a vivere
insieme e a collaborare, raffinando gradualmente il linguaggio che usano
per comunicare tra loro e sviluppando con l'abitudine a convivere le prime
relazioni sentimentali – amore coniugale e affetto tra genitori e figli.
A questo punto, con il raffinarsi dell'intelligenza e con la disponibilità di
crescenti risorse risultanti dal mettere in comune le forze di tutti, gli
uomini iniziano a indulgere a delle comodità; questo è uno dei primi passi
verso la corruzione, dato che tutte le comodità, secondo Rousseau, sono fin
dall'inizio inevitabilmente destinate a degenerare in dipendenze e, quindi, a
produrre nuovi bisogni limitando la libertà e l'indipendenza dell'uomo: «In
questa nuova condizione, con una vita semplice e solitaria, con bisogni
molto limitati, coi mezzi che avevano inventato per provvedervi, gli
uomini, godendo di molto tempo libero, lo impiegarono a procurarsi molte
comodità ignote ai loro padri; fu questo il primo giogo che senza
rendersene conto imposero a sé stessi, e la prima fonte dei mali che
prepararono ai loro discendenti.» Ciononostante, «questo periodo di
sviluppo delle facoltà umane, tenendo il giusto mezzo tra l'indolenza dello
stato primitivo e l'impetuosa attività dell'amor proprio, dové essere l'epoca
più felice e duratura. Più ci si riflette e più si trova che questa condizione
era la meno soggetta a rivoluzioni, la migliore per l'uomo.»
Tuttavia, la crescente inclinazione a paragonarsi tra di loro porta gli uomini
a dare sempre più peso all'opinione che si ha di ciascuno e, intanto che si
inizia a desiderare di essere oggetto della pubblica stima, il fatto di
apparire comincia a diventare più importante del fatto di essere; questo
genera la prima vanità, che è a sua volta presupposto sia della
diseguaglianza sia del vizio. Gli uomini, che erano stati indipendenti,
divennero dipendenti gli uni dagli altri «nel momento stesso in cui un
uomo ebbe bisogno dell'aiuto di un altro»; se inizialmente erano stati liberi
e felici, «quando ci si accorse che era utile a uno solo aver provviste per
due, l'uguaglianza scomparve.» Lo sviluppo di arti come l' agricoltura e la
metallurgia, porta un rapido incremento della diseguaglianza: per la prima
volta infatti, in virtù di un accordo convenzionale, non soltanto il frutto del
lavoro è considerato di proprietà di chi l'ha guadagnato, ma si legittima il
possesso dei mezzi di produzione a prescindere dal bisogno che chi li
utilizza può avere dei loro prodotti. Questa, secondo Rousseau, è una
svolta storica: «Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare "questo
è mio", e trovò persone abbastanza ingenue da credergli, fu il vero
fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante
uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere
umano colui che strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato
ai suoi simili: "Guardatevi dall'ascoltare questo impostore. Se dimenticate
che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti".»
Da allora la degenerazione accelera sensibilmente. L'istituzione del denaro
aumenta la distanza tra i beni e il lavoro di chi li possiede, l'istituzione del
diritto di successione (eredità) scollega del tutto le nozioni di "bisogno" e
di "lavoro" da quella di "proprietà" da cui sono naturalmente inscindibili.
L'amor di sé degenera definitivamente in amor proprio (amour-propre) e
diventa quindi un egoismo attivo, non più passivo, in cui si gode non tanto
del proprio bene quanto dello star meglio di altri, non solo delle proprie
fortune ma anche delle disgrazie altrui. La smania di possedere sempre più
dei propri vicini si impossessa di tutti: «Di qui cominciarono a nascere, a
seconda dei diversi caratteri degli uni e degli altri, la dominazione e la
schiavitù, o la violenza e le rapine.» In questa fase evidentemente già
molto lontana dallo stato di natura, secondo Rousseau, si arriva a quello
stato di guerra di tutti contro tutti che Hobbes, concependo il suo homo
homini lupus, aveva erroneamente posto all'origine della storia dell'uomo.
A questo punto, essendosi separata la classe dei ricchi da quella dei poveri,
diventa evidente per i primi che la loro condizione è molto svantaggiosa,
dal momento che dallo stato di guerra in cui si trovano hanno tutto da
perdere, mentre i poveri hanno qualcosa da guadagnare con la rapina: «È
da credere che i ricchi non tardassero ad avvertire quanto li danneggiasse
una guerra di cui erano i soli a fare le spese, in cui il rischio della vita era
comune [a ricchi e poveri] e individuale [solo dei ricchi] quello dei beni.
D'altra parte [...] si rendevano abbastanza conto del fatto che le loro
usurpazioni erano fondate su un diritto precario ed abusivo e che, avendole
conquistate solo con la forza, potevano esserne privati con la forza senza
avere ragione di lamentarsene.» È così che, per Rousseau, il ricco «finì con
l'ideare il progetto più avveduto che mai sia venuto in mente all'uomo»:
propose un accordo al povero, offrendogli di unirsi allo scopo di
proteggere i deboli dall'oppressione, di garantire a ciascuno il possesso del
necessario, di stabilire degli ordinamenti di giustizia, cioè di istituire un
sistema di leggi capace di «difendere tutti i membri dell'associazione,
respingendo i comuni nemici e mantenendoci in un'eterna concordia.» Gli
uomini, «grossolani, facili da lusingare, che, d'altra parte, avevano troppe
questioni da dirimere tra loro per fare a meno di arbitri, e troppa avarizia e
ambizione per potere a lungo fare a meno di padroni [...] corsero incontro
alle catene convinti di assicurarsi la libertà.»
Questo "contratto iniquo" è il fondamento su cui si regge tuttora la società,
con tutta la sua corruzione, ed è il principio da cui si sono generate e
moltiplicate con pretesa legittimità tutte le diseguaglianze che hanno finito
per distruggere la libertà naturale. La tutela delle leggi istituite da questo
patto, che inizialmente erano solo convenzioni generali senza garanzie, ha
infatti richiesto ben presto l'istituzione di una magistratura (un potere
esecutivo); essa, dovendo proteggere più le ricchezze che la libertà e
trovandosi di fronte a un popolo ormai corrotto, non ha tardato a
degenerare in un potere assoluto, che da elettivo come doveva essere
originariamente diventa ereditario e sprofonda la civiltà in nuovi abusi, in
nuove violenze, tanto da farla quasi tornare al disordine che aveva reso
necessario il contratto. «Qui tutti i privati tornano ad essere uguali, perché
non sono niente, e i sudditi non avendo altra legge che la volontà del
padrone, né il padrone altra norma oltre le proprie passioni, le nozioni
relative al bene e i principi di giustizia tornano di nuovo a svanire. A
questo punto tutto si riporta alla sola legge del più forte, e quindi a un
nuovo stato di natura diverso da quello con cui abbiamo cominciato, in
quanto l'uno era lo stato della natura nella sua purezza, mentre quest'altro è
il frutto di un eccesso di corruzione.» La conclusione del Discorso
sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini è che la
diseguaglianza naturale è pressoché nulla e che «la diseguaglianza morale,
autorizzata dal solo diritto positivo, è contraria al diritto naturale. [...]
Ovviamente, è contro la legge di natura, comunque vogliamo definirla, che
un bambino comandi a un vecchio, che un imbecille guidi un saggio, e che
un pugno d'uomini rigurgiti di cose superflue, mentre la moltitudine manca
del necessario.» Il fatto di ricondurre l'origine di tutti i mali dell'uomo non
alla natura dell'uomo stesso (considerata originariamente e intrinsecamente
buona) ma al momento in cui l'essere umano si associa ai suoi simili,
costituisce la risposta di Rousseau al problema della teodicea, cioè della
giustificazione dell'esistenza del male nonostante la bontà e l'onnipotenza
di Dio: la responsabilità non è attribuita né alla natura né a Dio né all'uomo
in sé, ma alla società – in quanto causa del prevalere dell'amor proprio
sull'amor di sé.
3.
LA CRISI DELL'UOMO MODERNO
NELLA SOCIETA' DEI CONSUMI
Grazie alla ricostruzione storica che Rousseau ci fornisce, giungiamo ad
un punto cruciale di questo tema: la vera causa della corruzione e della
malvagità dell'uomo, è riconducibile alla società e, indirettamente,
all'uomo stesso. Occorre, pertanto, analizzare quella che, da troppo tempo
ormai, sembra essere diventata la società dei consumi.
Consumismo, crisi energetica ed inquinamento, sono argomenti sempre più
all'ordine del giorno nella saggistica e nel giornalismo contemporanei.
Tuttavia, vengono considerati solo gli effetti svincolati dalle cause
originali, separati tra loro, sottratti ad un'analisi globale che possa
affrontare i problemi nella loro completezza e quindi offrire effettive
soluzioni alternative. Criticare il consumismo, per poi accettare come
scontata ed ineluttabile quella logica della vita, dell'industrializzazione,
della massificazione che ha generato la spirale produzioni-consumi, serve
a ben poco. Allarmarsi angosciati per l'incombente crisi energetica e
cercare soluzioni immediate, che siano «il male minore», e non
domandarsi come l'umanità abbia potuto vivere, costruire civiltà,
progredire per millenni, senza bruciare alcuna fonte energetica, per poi, nel
giro di soli cento anni, trovarsi nella situazione attuale, è quanto meno da
superficiali. Il dettare leggi antinquinamento, oggi, per curare malanni
accumulati in decenni, mentre nuove forme inquinanti si fanno già strada,
forse più pericolose delle precedenti, corrisponde all'atteggiamento di chi
vuole usare un'aspirina per curare un arto già in cancrena. Sono tutti
argomenti perennemente trattati sotto l'influsso di una legge economica
che si dà per irreversibile, obbligata e soprattutto autonoma da un discorso
generale sull'uomo e sulla società. Trattando tali argomenti, occorre
prioritariamente affermare che non è lecito, né giusto sganciare il discorso
dell'economia dal discorso dell'uomo e dei suoi valori. L'economia nasce
come strumento dell'uomo, al servizio della sua vita, delle sue costruzioni,
e tale deve rimanere. Con l'economia, anche la tecnologia, lo sfruttamento
energetico, lo sviluppo industriale, devono essere considerati e valutati
sempre ed esclusivamente quale «mezzo» a disposizione dell'uomo, ad
esso subordinati, e mai quale «fine». Il discorso quindi si amplia,
obbligatoriamente, e deve riferirsi a concezioni ideologiche e valori di
partenza. Affermare questo significa anche riconoscere, della crisi che
attanaglia il mondo moderno, l'aspetto essenziale e pregnante: crisi
dell'uomo, esistenziale, di valori, di rapporti sociali, di idee, di cultura, di
creatività. Comprendere nella sua globalità quella che chiameremo, per
esigenza di sintesi, la società dei consumi, vuol dire anche poter
equilibratamente valutare gli innumerevoli effetti che quotidianamente ci
colpiscono. I cenni storici, ideologici ed economici che seguiranno, sono
dunque necessari per evidenziare i confini di quella concezione di vita che
rappresenta, nella sua globalità, la causa principale della crisi che stiamo
vivendo.
3.1
Origini della società dei consumi
La rivoluzione industriale nasce in Inghilterra nel 1760 e in Europa solo
agli inizi dell'800. Le idee illuministe e democratiche prendono corpo e
sviluppo a partire dalla rivoluzione francese, nel 1789. La società destinata
a divenire il modello del consumismo e del «benessere», quella nord
americana, ottiene la propria indipendenza nel 1783. Nei due secoli
successivi, un incredibile vortice di trasformazioni ha travolto la società
civile, tale da far apparire quasi impossibile che una realtà così
apparentemente irreversibile, possa essere stata determinata in tale breve
lasso di tempo. Un'immediata osservazione: un periodo di soli duecento
anni, rispetto alla vita dell'umanità, come può considerarsi
obbligatoriamente la strada giusta o la verità? La rivoluzione industriale
nasce solo per la scoperta di nuove tecniche di lavoro e di produzione o
anche, e soprattutto, per l'emergere di diverse concezioni di vita, e per
l'egemonia egoistica delle nuove categorie capitalistiche? Certamente
l'importanza scientifica delle scoperte e soprattutto la loro quantità, in così
breve tempo, ha facilitato il fenomeno. Ma il fatto che l'uomo «inventi» e
«progredisca» non è certo riferibile esclusivamente a questi due secoli.
Tecnica e progresso scientifico, in effetti, vengono potenziati al massimo,
in una accelerazione crescente, perché trovano un fertile terreno ideologico
ad accoglierli. Il capitalismo moderno è un fenomeno di potere e di
coinvolgimenti ideologici che la rivoluzione industriale trova già maturo.
Nella metà del '500, infatti, a seguito delle «grandi riforme», in particolare
quella di Calvino, prendono piede nuove concezioni che da religiose
divengono ideologiche e, nei due secoli successivi, politiche e finanziarie.
Calvino, attraverso la dottrina della predestinazione, riconosce nella
potenza economica «l'elezione» divina. Partendo da tale presupposto, il
successo, il lavoro quale fonte di guadagno e la ricchezza vengono esaltati.
Per la prima volta un'autorità religiosa dichiara lecito il prestito ad
interesse del denaro, fino allora condannato come usura. Il denaro, così
nobilitato, non è più solamente strumento di scambi, ma oggetto esso
stesso di commercio e destinato a crescere d'importanza, sino a
soppiantare, nella società dei consumi, ogni valore etico e divenire il
valore. La rivoluzione industriale determina, da una parte, il nuovo
fenomeno della mobilità sociale, dall'altra, una forma di sfruttamento
sull'uomo che, nella logica del capitalismo e del profitto, finisce ben presto
per assumere aspetti drammatici ed insostenibili.
La rivoluzione francese completa l'opera aggiungendo, ideologicamente,
l'esaltazione della ragione svincolata da valori trascendenti e,
politicamente, la nascita della democrazia ugualitaria. Mentre tali
rivoluzioni nascono in Europa, quella che finirà per rappresentare nella sua
completezza il moderno modello della società dei consumi è la società
nord americana.
3.2
La società del benessere
Richard Baxter, uno dei portavoce dell'etica protestante, afferma: « Se
Iddio vi mostra un cammino, sul quale, senza danno per l'anima vostra o
per gli altri, potete guadagnare in modo legittimo più che in un altro, e voi
lo rifiutate e seguite il cammino che può apportare meno guadagno, allora
voi vi opponete ad uno degli scopi della vostra vocazione. Voi rifiutate di
essere amministratori di Dio, e di accettare i suoi doni, per poterli usare
per lui, se egli lo dovesse richiedere. In realtà non al fine del godimento
della carne e del peccato, ma per Dio voi dovete lavorare ed essere ricchi».
Con tanto di benedizione divina la corsa all'arricchimento si scatena. Il
mito di un benessere diffuso e crescente, quale meta di vita, prende forma.
I primi oggetti di tale fenomeno furono il commercio con l'Europa di
materie prime e generi coloniali e lo sfruttamento delle vaste piantagioni.
Per tale sfruttamento gli americani si avvalsero della manodopera di
schiavi negri acquistati con denaro dagli avventurieri. Ecco, quindi,
esplodere una delle prime conseguenze della nascente etica fondata sul
denaro. Un denaro che tutto può comprare, anche un essere umano. Non si
tratta di colonialismo, di civiltà in espansione, di stirpi che conquistano
posizioni predominanti su altre, si tratta di uno pseudo-razzismo schiavista
di comodo ingiustificato ed ingiustificabile. La presunzione del dollaro di
«comperare» tutto e tutti è arroganza di barbari che non può avere a che
fare con fenomeni di effettiva civiltà umana. Che non fosse vero razzismo
è dimostrato dal fatto che (per motivi, ancora una volta, utilitaristici) si è
poi scelto di integrare la popolazione di colore nella società americana e
che oggi (per demagogia) si inseriscono negri in posizioni di rilievo
nazionale ed internazionale. Lo spirito «etico» del capitalismo americano,
nasce dal desiderio di accumulo di denaro e quindi manifesta, inizialmente,
un'avversione ai consumi smodati. Ben presto però scopre le immense
possibilità di ricchezza che l'industrializzazione può offrire. La produzione
deve espandersi, e per consentire tale espansione i prodotti vanno venduti
sempre di più e quindi il consumo diviene essenziale, va favorito,
mitizzato, ingigantito. La corsa alla ricchezza è corsa al successo, successo
economico, divenuto ormai, a livello culturale il valore essenziale e
permanente. Chi non raggiunge tale successo, è da considerarsi colpevole.
La società ideale americana diviene la società del benessere, delle
comodità, del consumo. Benessere come risultato di una vita dedicata al
denaro. Comodità quale ricompensa per il proprio successo: una società
che rifiuta ogni presupposto etico-spirituale, non può che trovare nelle
soddisfazioni materiali una giustificazione alla propria esistenza. Consumo
come ostentazione e distintivo del successo ottenuto. L'acquisizione di
denaro dà gioia, a prescindere dai mezzi utilizzati, mentre la perdita di
denaro dà sofferenza e depressione. Ad un'etica morale basata su valori
spirituali si sostituisce una sorta di etica amorale che si fonda sul dio
denaro. L'antico «decoro» dei ceti borghesi, che era conquista di cultura e
faticoso emergere, lascia il posto ad un comfort massificato, sempre
disponibile per chiunque possegga denaro. Il consumo diviene simbolo, si
espande quotidianamente, sviluppa una insaziabile sete di beni, la cui
utilità risulta sempre più effimera. Si passa da modelli stabili (eroi religiosi - politici) a modelli rapidamente sostituibili (attori - cantanti calciatori) sempre facilmente controllabili dalle centrali del danaro. Tutto
viene risolto nella dialettica piacere-dolore, che supera ben presto quelle
del giusto-non giusto, vero-falso, umano-disumano. Ed in tale dialettica
ogni aspetto della vita che può provocare dolore, va evitato, ignorato. In
una vita dedicata al piacere è un non senso soffermarsi su qualcosa che può
comportare sacrificio, privazione, sofferenza. Occorre divertirsi. Sempre.
Di fronte ai problemi non è l'individuo che deve preoccuparsi, ma ci si
affida al «sistema» che tutto può e deve risolvere. Divertirsi, non pensarci.
Al di là di ogni previsione, prende corpo una umanità opulenta che, posta
innanzi ad una tavola riccamente imbandita, scatena la propria ingordigia
senza più pudori, controlli, limiti.
3.3
Consumi primari e consumi edonistici
I consumi si possono suddividere in due grandi categorie. Quelli primari,
richiesti dai bisogni essenziali dell'uomo per vivere e lavorare: generi
alimentari-vestiario-utensili da lavoro. Si tratta di bisogni sempre esistenti,
quindi di consumi stabili e duraturi. Nel tempo dovrà durare l'utensile,
molte stagioni dovrà durare il vestito, dovrà essere fatta con intelligenza e
saggezza la scorta e la distribuzione dei viveri. Nella società del benessere,
la moltiplicazione delle produzioni mette in commercio una serie di beni
ben presto superiore a quella necessaria per coprire i bisogni primari.
Nasce così una moltitudine di prodotti che rappresentano un sovrappiù.
Nascono così tre ampie categorie di consumi secondari. Una prima, che
tende a sovrapporsi ai consumi primari, sofisticandone gli aspetti e
limitandoli nel tempo. Il cibo viene offerto in una gamma di soluzioni
incredibilmente vasta, che sostituisce il tradizionale piatto unico, e che
supera abbondantemente il necessario. Recenti studi hanno dimostrato
quanto deteriore per la salute dell'uomo sia questa eccedenza alimentare.
Accanto agli usuali negozi sorgono i supermercati, dove il consumatore,
messo a contatto di una imponente varietà di merce esposta, finisce per
desiderare molte più cose, e quindi acquistare molto più di quanto aveva
programmato. Gli abiti vanno rinnovati non più perché consumati dall'uso,
ma perché legati alle mode ed a forme di esibizionismo. Il cappotto da
rovesciare e la camicia venduta con polsini e colletto di ricambio sono
ormai ricordi. Il vortice delle crescenti produzioni impone che l'oggetto del
consumo venga gettato via in brevissimo tempo, per essere sostituito con
uno nuovo. All'antico utensile da tramandare si sostituisce un macchinario
tecnologicamente avanzato, destinato ad essere continuamente soppiantato
da soluzioni nuove e più automatizzate.
Una seconda categoria di consumi secondari è quella dei comforts. Una
volta scattato il meccanismo della vita comoda, le propensioni e la
domanda a tali consumi si dimostrano per l'industria un mercato
inesauribile. Tutto può facilitare le cose, aiutare a vivere più
comodamente, senza fatica; dai grandi elettrodomestici, a quelli super
specializzati: spremiagrumi elettrici, tostapane, scope elettriche, coltelli
elettrici, spazzolini elettrici, frullatori, omogeneizzatoti, apriscatole
elettrici, trita verdure, pentole a pressione, pentole elettriche,
asciugatrici ... L'automobile, già di per sé un oggetto di consumo
secondario, si riempie di accessori infiniti: accendino, radio, mangianastri,
sbrinatore, cambio automatico... Una catena di consumi senza fine.
La terza categoria è quella rappresentata dagli oggetti-significato sociale. Il
meccanismo consumista ha facile gioco, attribuendo ad una vasta serie di
oggetti un valore di successo sociale. Il possedere la seconda casa, l'auto
lussuosa, il TV color, il motoscafo, la moto di grossa cilindrata, riveste
quasi sempre un valore ostentativo: più una dimostrazione della propria
posizione sociale, che la soddisfazione di un bisogno effettivo. La spirale
di questi consumi, da una parte garantisce all'industria l'aumento della
produzione e delle vendite, dall'altra crea nei singoli individui una
inesorabile fame di denaro. Da parte del grande capitale assistiamo a forme
di arricchimento esagerate, foriere di nuovi investimenti, di nuove
industrializzazioni, di nuove produzioni; da parte del consumatore
assistiamo alla corsa al desiderato facile guadagno, sempre più affannosa,
perché il denaro non basta mai.
3.4
Il consumismo: una concezione di vita che assorbe
l'uomo nella sua totalità
Recenti ricerche statistiche e sociologiche hanno dimostrato come i
consumi programmati dall'individuo, corrispondano sempre meno ai
consumi realmente poi effettuati. Questa tendenza è provocata, soprattutto,
da due motivazioni:
1) programmare il proprio consumo rappresenta la volontà dell'individuo a
razionalizzare, a governare la propria vita, e ciò entra in urto con le
esigenze produttive della società dei consumi;
2) il meccanismo consumistico individua i consumi nei settori di bisogni
secondari, di utilità sempre più aleatoria e, quindi, crea situazioni attesadomanda mutevoli, fluttuanti, legate a varianti psicologico-emotive (moda,
etc.).
I consumi, divenuti significato di escalation sociale, si massificano, si
uniformano, contribuendo ulteriormente a spersonalizzare l'individuo e a
condizionarlo come consumatore. I modelli rappresentativi nella società
dei consumi non sono identificabili in schemi fissi o riferibili a situazioni
stabili: sono diffusi, mutevoli, sostituibili, rappresentati da una vasta fascia
di benestanti-dirigenti. Diffusione, mutevolezza e sostituibilità che
consentono ai centri economici un progressivo accrescimento di potere e di
condizionamento. L'individuo che vuol fare carriera nel sistema
consumistico è costretto ad accettarne tutte le regole, ben sapendo di poter
essere immediatamente sostituito con facilità. Fenomeno comune alla
politica, dove frammenti di potere vengono dati a tanti, giacché tanti si
sentano importanti, ma nessuno risulti mai il responsabile, quindi
difficilmente sostituibile.
La società dei consumi si rivela una forma di tirannide ben più penetrante
e globale rispetto alle dittature politiche. Essa coinvolge l'individuo in tutta
la sua sfera d'azione. Nel lavoro, nell'organizzazione sociale, nel tempo
libero, negli interessi e nelle propensioni esistenziali. L'individuo che non
accetta la regola del consumismo e vuole sottrarsi alla sua spirale, viene
emarginato, non solo economicamente, ma anche e soprattutto
socialmente. Non è osteggiato solamente dalle centrali economiche, ma
anche dagli altri individui, per i quali costituisce un esempio scomodo e
fastidioso. L'individuo che più ne soffre è quello intelligente, capace di
conservare autonomia e libertà di pensiero e di programmazione. Contro di
esso le coercizioni psicologiche ed il ricatto economico si fanno più
pesanti; lo fanno sentire un «diverso», dissociato dalla società in cui vive.
L'esclusiva soddisfazione edonistica contrasta con la natura dell'uomo che
è portata ad un equilibrio tra il materiale e lo spirituale, ma la società dei
consumi, dotata di un enorme potere di distrazione e di stordimento,
coinvolge l'individuo in un vortice esistenziale, lo lascia senza fiato e
senza tempo di riflettere. Si giunge quindi, dallo sfruttamento di una classe
su di un'altra, allo sfruttamento di tutto un sistema sull'uomo, che assume
una caratteristica sola: quella di consumatore. La moltiplicazione dei
prodotti da vendere crea una moltiplicazione dei desideri di consumare. La
soddisfazione per il bene acquisito cede presto il posto alla insoddisfazione
per ciò che non si è potuto ancora avere. Nasce una nuova forma di
povertà (da taluni chiamata povertà secondaria) che condanna l'individuo
ad una sostanziale, perenne frustrazione, per il desiderio sempre maggiore
di beni. La vita dell'individuo diventa un'esistenza stressante, invecchiante,
alienante. Aumentano, a ritmo impressionante, le cosiddette «malattie
moderne»: l'esaurimento nervoso, l'infarto, la gastrite, l'ulcera, la
depressione. Quando l'individuo si rende conto del proprio stato, di come è
ridotto e dell'assenza totale di significato della propria esistenza, è troppo
tardi, il sistema è già pronto ad emarginarlo come «pensionato» scomodo,
improduttivo, scarsamente interessante quale consumatore.
3.5
Moda, marketing, pubblicità
Superando le strutture etico-morali, la società favorisce, anzi programma e
determina le mode. Caratteristiche della moda sono la breve durata nel
tempo e la marginalità dell'incidenza nella vita dell'individuo. Una moda
stabile o incisiva rischierebbe di divenire costume e, come tale, bloccare il
circuito consumista. La moda deve rinnovarsi, magari riproponendo temi
già visti, ma deve sempre imporre un immediato futuro diverso
dall'immediato passato. All'immissione sul mercato delle mode risponde
un diffuso e generalizzato conformismo nei consumatori. L'individuo nella
società dei consumi, l'abbiamo visto, è un frustrato. Caratteristica dei
frustrati è il bisogno crescente di sentirsi in tanti, tutti ugualmente frustrati,
insieme. Estremo esempio di tale conformismo e di tali mode è il «casual».
Da quando le giovani generazioni, in massa, per una illusoria e iniziale
voglia di riproporre una «scapigliatura» protestataria, cominciarono a
vestirsi con trasandatezza, lasciandosi crescere capelli, ed usando gli
eskimo al posto dei soprabiti, la moda ha proposto la maniera di vestirsi
accidentale. Il casual diviene sempre meno casuale, viene programmato da
sfilate e collezioni, si acquista al grande magazzino; l'iniziale
«scapigliatura» diviene conformismo a livello generale e già si creano i
presupposti per superarlo.
Inizialmente le tecniche consumistiche cadevano nell'errore di considerare
l'individuo come una «tabula rasa» sulla quale poter tranquillamente
edificare tutta la necessaria struttura dei desideri-consumi.
Successivamente, ci si è resi conto delle innumerevoli esigenze
dell'individuo. L'individuo andava circuito, non violentato, altrimenti si
sarebbe potuta determinare una sorta di crisi di rigetto. Esempio tipico è
quello vissuto da una casa produttrice di cinture elastiche. Questa casa,
abituata in Europa, da anni e con successo ad esporre tutte le proprie
cinture in color bianco (per farle risaltare) su un manichino di colore
marrone scuro, si avventurò nel mercato americano usando gli stessi
espositori. L'insuccesso fu totale e catastrofico. Sociologi locali scoprirono
che il colore del manichino era sufficiente, presso l'americano medio, per
note situazioni di conflittualità razziale, a bloccare ogni propensione
all'acquisto. Bastò sostituire il manichino marrone con uno, identico, ma di
colore oro (adatto al gusto appariscente degli statunitensi) per determinare
una vorticosa impennata delle vendite. Le strutture industriali e
commerciali incontrano la sociologia e la statistica. Nasce una vera e
propria scienza consumistica: il marketing, che, avvalendosi della
conoscenza dell'ambiente e della psicologia degli individui, offre al
sistema una inesauribile gamma di mezzi e tecniche efficaci.
La ricerca del marketing in Italia si fa per categorie, per zone e per settori.
In America si è addirittura giunti ad un'anagrafe consumistica individuale.
L'individuo, oltre al martellamento pubblicitario esterno, riceve anche, per
posta, o addirittura con visite domiciliari dirette, un pressante invito al
consumo, non più generalizzato, ma indirizzato proprio a lui, a misura
delle sue esigenze e dei suoi gusti. Una domanda, puramente retorica, si
impone: il marketing indaga sulla effettiva domanda del consumatore, o
piuttosto sui mezzi necessari a provocare i bisogni e quindi la domanda?
Il lavoro pubblicitario, tendente all'incremento dei consumi, trova un
eccezionale strumento nei moderni mezzi di comunicazione: i mass media.
La suggestione dei nuovi mezzi di comunicazione (cinema-radiotelevisione) dimostrava, da subito, di possedere armi nuove:
l'immediatezza del messaggio ed il fascino dell'ascolto prima, della visione
poi. L'antica pubblicità (comprate questo oggetto perché è fatto così e
serve per questo scopo) apre una miriade di diverse possibilità di
penetrazione e suggestione. Si parte dal presupposto che l'individuo che ha
fame (bisogno primario) non ha bisogno della pubblicità per desiderare
cibo, ma l'individuo che è sazio ha bisogno della pubblicità per desiderare
diverso e più sofisticato cibo (bisogni secondari).
Per ottenere il risultato programmato, la pubblicità sfrutta continuamente
le propensioni istintive dell'individuo, concatenandole a bisogni nuovi,
artefatti e originariamente estranei alle propensioni stesse. Gli psicologi
della forma scoprono l'influenza condizionante della figura organizzata. La
stessa immagine, offerta in diverse combinazioni, può risultare suscettibile
di diversi risultati condizionanti. Al fenomeno di vera e propria illusione
ottica si uniscono i condizionamenti psicologici. Attraverso lo sfruttamento
della forma organizzata, la pubblicità inserisce il prodotto da vendere in
contesti che raramente hanno rilevanza o pertinenza. Ad esempio,
un'automobile inserita in un dominante, incantevole paesaggio: l'occhio
viene attratto dal paesaggio e solo dopo si sofferma sul prodotto. Ed
ancora: la foto di un ambiente caldo, familiare, tranquillizzante, piacevole,
dove, in piccolo, su un tavolo, c'è la bottiglia di un determinato liquore.
Acquisita l'organizzazione della forma, le tecniche pubblicitarie sono
arrivate a proporre una gamma pressoché infinita di messaggi imbonitori.
Diventa essenziale quindi, proporre una scena o una situazione nella quale
l'individuo possa ambire ad identificarsi, ponendo, come condizione, il
consumo di un determinato prodotto.
3.6
Le varie tipologie di pubblicità
La pubblicità indiretta: “chiedi al tuo uomo di mettere questo profumo,
di acquistare questa macchina, chiedi al tuo papà di portarti in vacanza
qui…”
La pubblicità dell'assurdo: sottoporre il prodotto in una forma
completamente estranea al prodotto stesso, ma che in qualche modo possa
interessare o divertire. Ne è esempio quella marca di liquore che da anni
propone il proprio messaggio con foto e didascalie stravaganti, vere e
proprie barzellette, che il consumatore recepisce come «l'angolo della
risata», ma, contemporaneamente, gli ricordano che esiste il liquore in
oggetto.
La pubblicità dell'invidia: «Non tutti possono permettersi questo
orologio». «Ti piacerebbe avere questa macchina, ma costa troppo».
La pubblicità erotica: una folla di donnine seminude e provocanti
affollano i messaggi pubblicitari, nell'evidente e gratuito intento di
richiamare l'attenzione.
La pubblicità dell'esibizionismo: « a te non può certo mancare questo»,
«con la tua posizione devi ...», «sei un uomo importante, usa...».
La pubblicità del marchio: propagandare talmente un marchio da farlo
divenire immagine di potenza, di fiducia, di affidabilità.
La pubblicità della nostalgia: « il buon sapore del brodo di una volta ... »,
«gli spaghetti che si facevano in campagna ...», «la pappa che davano le
nonne ...»
La pubblicità dei contrasti: il presentare ad una donna che lavora, una
ipotetica massaia perfetta (autentico contraltare) che è felice per aver
scoperto un prodotto buono, buonissimo, dà una sorta di garanzia
psicologica.
Potremmo continuare all'infinito, ma la sostanza è chiara: attraverso il
veicolo pubblicitario non è il prodotto, per quello che è, per le sue
caratteristiche, per le sue qualità pregnanti, che viene propagandato, ma è
un bisogno che viene costruito, una suggestione imposta: una aleatoria
forma di felicità da raggiungere. La continua tensione cui viene sottoposto
l'individuo (“ho bisogno di”, “mi piacerebbe”, “vorrei comprare”) provoca
un'altra e ben più coinvolgente tensione: “devo procurarmi il denaro per...”
L'assorbimento cerebrale risulta totale, portando l'individuo
all'impossibilità di sottrarsi al vortice consumista.
«La pubblicità è l'anima del commercio», è un usuale adagio della società
industriale, ma sarebbe più esatto dire: la pubblicità è l'anima del consumo.
Altro adagio ricorrente è «si ha quello per cui si paga». La suggestione
consumistica può certamente indurre l'individuo a condividere tale
affermazione. Ma non è forse vero che il prodotto più caro è anche quello
più pubblicizzato? E quanto costa la pubblicità? E chi la paga? In effetti la
pubblicità rappresenta un super costo che grava pesantemente sulle tasche
del consumatore. Anche la confezione, per molti prodotti strettamente
correlata all'andamento delle vendite, raggiunge costi altissimi. Spesso il
costo della pubblicità aggiunto al costo della confezione supera di molto il
valore del prodotto che si vende. Appare chiaro, una volta di più, a quale
«truffa» continuativa viene sottoposto il consumatore, costretto a pagare,
oltre alla ingente quantità di consumi di scarsa utilità, anche tutto
l'apparato imbonitore della società dei consumi.
3.7
Lo sviluppo tecnologico
Abbiamo visto come le nuove scoperte scientifiche e le moderne
applicazioni meccaniche abbiano consentito, unite allo «spirito del
capitalismo», l'avvio della rivoluzione industriale prima, il trionfo della
società dei consumi poi. Affermare che quello tra consumismo e tecnologia
sia uno sposalizio ben riuscito, è cosa ovvia.
Come il consumismo, la tecnologia si dimostra mondo autonomo. Un
qualcosa di slegato dal cammino dell'uomo, procedente per proprio moto.
E' indispensabile però, evidenziare la differenza che esiste tra tecnologia e
invenzione scientifica; tra tecnologia, intelligenza e creatività. Mentre
l'invenzione scientifica porta alla realtà della vita qualcosa di nuovo, che
tende a modificare e potenziare il dominio dell'uomo sulla natura, sulle
cose, la tecnologia tende a sfruttare le invenzioni scientifiche esistenti in
miglioramenti successivi che, pur dando continuamente l'impressione della
novità, nessuna nuova sostanziale realtà in effetti rappresentano. Mentre
l'invenzione creativa si avvale della matematica come sodalizio di pensiero
e concatenazione logica, la tecnologia toglie alla matematica la logica del
pensiero e la riduce a calcolo. Il fatto che la tecnologia tenda soprattutto a
potenziare le invenzioni già esistenti è soprattutto favorito dagli interessi
industriali e consumistici: mentre la tecnologia consente di sfruttare in
maniera crescente gli impianti e le strutture esistenti, l'invenzione
innovativa porterebbe a delle ristrutturazioni dispendiose, quindi nocive,
nello spirito dell'etica industral-consumistica.
Si fanno cioè sempre più rare le possibilità realmente innovatrici offerte
dalla tecnologia ai sistemi produttivi, e il macchinario esistente, a causa
dell'immissione continua sul mercato di modelli nuovi e tecnologicamente
più avanzati, diventa in brevissimo tempo obsoleto, da sostituire, da
vendere come ferro vecchio, pur essendo già costato alte cifre.
Tuttavia, oltre alla tecnologia, esistono immensi spazi scientifici, interi
settori da esplorare e coprire per offrire nuove e migliori possibilità di vita
all'uomo. Basti pensare alla tutela dell'ambiente, al potenziamento delle
attività agricole, dell'allevamento (solo metà delle terre coltivabili sono
oggi coltivate), allo sfruttamento del mare per fini alimentari (un
magazzino quasi inesauribile di risorse e soluzioni), alla ricerca medica, ad
una nuova scienza economica che possa dare la possibilità all'individuo di
sottrarsi al vortice consumistico, per fargli ritrovare spazi di creatività e di
spiritualità.
3.8
Alla ricerca di una costruzione globalmente alternativa
Abbiamo visto come la società dei consumi abbia determinato
l'emarginazione dell'uomo, inteso quale somma di valori, di capacità, di
creatività, di potenzialità spirituali. Il consumismo rappresenta una vera e
propria religione demoniaca: allettante e distruttiva, che promette e toglie,
che coinvolge ed annienta. L'uomo è condannato ad uno stato di
insoddisfazione permanente che lo lacera e lo distrugge, cui dovrebbe fare
da contrappeso una vita vellutata e fiaccante: la civiltà del benessere, del
comfort. Alla società economica dei consumi si affianca in politica la
democrazia ugualitaria e massificante, che livella l'uomo e lo sottrae ad
una effettiva partecipazione qualificata. Sono le due facce di una stessa
medaglia. Si può senz'altro affermare che senza la rivoluzione francese,
considerata nelle sue molteplici conseguenze, la rivoluzione industriale
non avrebbe potuto raggiungere i livelli attuali. Sono stati i «nuovi valori»
a dare spazio all'edonismo consumista. La supremazia incontrastata del
«dio denaro», sul piano dei valori e della realtà sociale, non solo è
responsabile, ma rappresenta anche la logica ineluttabile di tutti gli
avvenimenti che stiamo subendo. La regola consumista è l'arricchimento.
Ogni mezzo può considerarsi buono. Unico svantaggio le possibili
conseguenze giudiziarie. Bisogna quindi essere furbi, e non farsi scoprire
(o, piuttosto, rimanere ben agganciati alle clientele politico-economiche,
che tanto possono coprire): questo il reale ed obiettivo problema della
società contemporanea. Democrazia e consumismo nascono insieme e
divengono due realtà che si integrano e si puntellano a vicenda. Mentre la
prima appiattisce l'uomo quale realtà politica, il secondo lo assorbe con la
moltiplicazione delle quantità economiche, distraendolo, stordendolo,
evirandolo di ogni creatività e volontà di ribellione. Ne nasce un connubio
triste ma penetrante e duraturo, regno incontrastato del mediocre e del
furbo.
Tra tutte le crisi dell'uomo, quella che assume i toni più drammatici e
disperati è proprio quella esistenziale. La crisi dell'uomo che non sa più
riconoscersi, che non può più vivere secondo i propri effettivi valori, che
non riesce più a comprendere quale collocazione sociale gli spetti. L'uomo,
nato per lasciare qualcosa della propria esistenza in dimensione creativa e
spirituale, si ritrova annullato nel puro conteggio numerico. L'uomo, nato
per creare, vede progressivamente assorbito ogni suo spazio di autonomia
e responsabilità.
Le grandi civiltà sono sempre state realtà qualitative, mai quantitative. Si
vuol soffocare questa verità contrapponendole un mondo che ha fatto
propri, valori quali la quantità del reddito, la moltiplicazione dei consumi,
l'esasperazione della tecnologia e la mitizzazione della vita comoda.
Nell'ottica sfocata della cultura odierna, ben strani reperti archeologici
devono apparire gli stoici, nel loro affermare che l'uomo deve limitarsi nei
propri desideri, perché la loro espansione illimitata porterebbe solo
infelicità. Mentre la crisi esistenziale dell'uomo appare sempre più
evidente e drammatica, le reazioni degli individui risultano incerte e
latenti. Il pericolo maggiore dei tempi attuali è rappresentato infatti
dall'uomo che, oppresso dalla società dei consumi, circuito da comodità e
compromessi, da divertimenti e coinvolgimenti economici, in effetti risulta
ben meno disponibile alla ribellione dell'uomo che è perseguitato
fisicamente. Basti pensare alla contestazione del 1968, dove i temi anti consumistici erano il pane quotidiano: sui muri del maggio francese si
leggeva: «il consumatore è consumato», «la società è un fiore carnivoro»,
«l'industrializzazione ci minaccia», «consumate di più, vivrete di meno»,
«lavoratori e dirigenti sono bestie da produzione». Ma che fine hanno fatto
tali denunce? Purtroppo bisogna rendersi conto che le capacità di
riassorbimento della società dei consumi sono immense. Potremmo
raffigurarla come una piovra dai mille tentacoli. Se l'individuo sfugge ad
un condizionamento finisce, inesorabilmente, preda di un altro. Anche il
rivoluzionario ha bisogno, per sopravvivere, di guadagnare, ed il
guadagno, in questo sistema, rappresenta il primo patteggiamento, il primo
cedimento. Fuori dagli schemi consumistici nulla è possibile; esserne
dentro determina, necessariamente, un coinvolgimento ideologico ed
esistenziale. Voluto? Quasi sempre no, ma reale. Non si possono
scavalcare di colpo tali compromessi, cui tutti siamo partecipi, con atti
unicamente distruttivi e di rottura. Siamo di fronte ad un sistema che si
regge su di un potere corruttore e ricattatore, diffuso su di una serie
incalcolabile di coinvolgimenti esistenziali e psicologici, cui nessuno,
volente o nolente, rimane estraneo.
La soluzione efficace può essere solo quella di un ripensamento capace di
percorrere il difficile itinerario dell'autocritica individuale, che diventi
costruzione, proposta alternativa responsabile e globale, che possa
rappresentare l'interpretazione positiva delle generali e latenti
insoddisfazioni. Il rivoluzionario, in questa società, non può più essere chi
tenta solo di sfasciare il costituito, ma chi è disponibile a divenire
globalmente cosciente e, (operazione assai più difficoltosa) a spezzare il
diaframma che lo separa dai valori del coraggio, della dignità e della
responsabilità. Un rivoluzionario disposto ad offrire, con proposte
costruttive, una credibilità e a rappresentare la reale volontà alternativa
dell'uomo alla crisi. La società dei consumi, l'abbiamo visto, è società
distruttiva, e come tale, destinata alla autodistruzione. Non è prevedibile se
gli ostacoli insormontabili saranno le crisi economiche o quelle
energetiche, quelle tecnologiche o quelle politiche. Un intoppo ci sarà:
rientra nella consequenzialità della logica. E sarà quello il momento in cui
l' uomo, compromesso e coinvolto in una marea di luccichii fatiscenti,
dovrà essere disposto all'alternativa e alla costruzione. Per preparare
questo punto d'incontro occorre lavorare duramente, e solo in questa
dimensione si può assegnare alla propria azione contenuti realmente
rivoluzionari. La realtà della società di domani dovrà ruotare attorno
all'asse dei valori dell'uomo. Un uomo volitivo, creativo, costruttivo. Un
uomo non volto al passato, ma anzi pronto a valorizzare gli strumenti
offertigli dalla tecnica e dalla scienza per edificare, una volta sciolto dal
metro restrittivo dell'utile economico, una società giusta, ricca di vera
socialità. È chiaro che non sarà possibile ignorare le realtà contingenti
prodotte dall'era tecnologica e consumistica: esse, oltre agli errori ed alle
incongruenze, hanno determinato delle dimensioni sociali, umane che non
si potranno certo cancellare con un colpo di spugna. Ma è altrettanto
evidente che la società dell'uomo di domani dovrà poter filtrare, vagliare e
determinare, attraverso un' attenta e lungimirante programmazione, tutto il
proprio sviluppo e tutta la propria realtà. La società alternativa sarà la
società delle intelligenze selezionate, degli impegni responsabili, delle
volontà irriducibili di affermazione umana. In tale ottica innumerevoli
soluzioni divengono possibili e realizzabili. Conquistata la dignità di
soluzioni, a livello nazionale, autonome e libere, saranno anche possibili
interventi a livello internazionale, oggi impensabili. Si scoprirà che una
produzione quantitativa può essere sostituita, con vantaggio anche
economico, da produzioni qualitative. Mercati super sfruttati ed esasperati
a livello nazionale possono essere alleggeriti con la ricerca di mercati
internazionali nei paesi in via di sviluppo. Senza intaccare la libertà di
realizzazione produttiva, una società politica effettivamente selettiva e,
quindi, rappresentativa delle competenze, può controllare i settori vitali
condizionanti e di interesse pubblico; può determinare, attraverso un'
intelligente pianificazione, usando incentivi e opportune tassazioni,
sviluppo e riduzione di attività, e giungere a una tutela effettiva delle reali
necessità popolari e nazionali. Appare chiaro, ancora una volta, come ogni
intervento radicale a livello economico passi, obbligatoriamente, attraverso
la conquista di una nuova società politica. L'alternativa può nascere
esclusivamente da una prospettiva di rinnovamento che comprenda, in un
unico armonico, politica ed economia, cultura e società. Nella dimensione
selettiva e costruttiva di tale realtà, la partecipazione politica del singolo
sarà garantita dalla struttura meritocratica dello Stato. La selezione
meritocratica della società prenderà vita e realtà dalle effettive capacità
costruttive dei suoi componenti. L'errore di fondo nelle affermazioni di
molti, è quello di considerare una società che indirizza e programma,
necessariamente come una società coercitiva e restrittiva. L'analisi fatta fin
qui, ci ha mostrato quanto coercitiva e ristretta invece, possa essere una
società basata sull'economia consumistica nei confronti dell'individuo. Nel
manifesto del movimento futurista, la cui attualità viene spesso riproposta
dalle fonti ideologicamente più eterogenee, si legge:
«Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale
attraversa la terra, lanciata a corsa, essa pure, nel circuito della sua orbita».
Occorre che questo volante, per troppo tempo abbandonato all'egoismo
edonistico e all'esasperazione economica, torni a venir saldamente
impugnato dall'Uomo.
4.
4.1
LA FUGA DALLA SOCIETA' : “ INTO THE
WILD”
Evasione e critica della società odierna
In seguito all'attenta analisi della società contemporanea operata nei
paragrafi precedenti, risulta inevitabile per l'uomo, dover fare i conti con
un' enorme difficoltà per riconoscersi all'interno di una società fondata
principalmente su valori non autentici e difficilmente condivisibili. E'
troppo frequente il bisogno di fuggire dal contesto sociale, culturale e
politico nel quale siamo immersi. Tuttavia, sono in pochi a trovare il
coraggio di allontanarsi dalla propria routine quotidiana e dall’apparente
solidità e sicurezza che la vita “comune” sembra infonderci.
Un ragazzo artefice di tale impresa, è entrato però, di diritto nel cuore di
tutti coloro i quali non si sentono rappresentati al meglio dalla società
contemporanea: si tratta di Christopher Johnson McCandless. Intorno a
questo personaggio così anticonformista, così puro e idealista, è nato un
enorme turbinìo di storie ed opinioni, e in molti hanno sentito il bisogno di
celebrare e raccontare al mondo l’incredibile storia di questo giovane,
seppur così coraggioso, un po' ingenuo e incosciente.
Nel 2007 Sean Penn ha presentato l’adattamento cinematografico degli
ultimi anni di vita di Christopher, intitolato “Into the Wild”, tratto dal libro
dell’avventuriero e giornalista Jon Krakauer, “Nelle terre estreme”. Il
regista e attore americano, dopo aver appreso interamente le sfaccettature
della vicenda di McCandless, ne rimase inevitabilmente folgorato, tanto da
acquisire i diritti cinematografici della narrazione. Nonostante Penn avesse
già pronta la sceneggiatura, egli fu tuttavia frenato dai familiari del
giovane, poco inclini a diffondere in larga scala la drammatica storia del
figlio. Il regista dovette aspettare circa dieci anni per ricevere il consenso
della famiglia McCandless per iniziare casting e riprese.
4.2
Trama
Le vicende narrate nel libro, così come nel film, sono frutto di un grande
assemblaggio di diversi documenti lasciati dal giovane, ma anche di
interviste e incontri di coloro i quali ebbero la fortuna di conoscere Chris
durante il suo utopico viaggio. Le testimonianze di Penn e Krakauer
utilizzano entrambe uno schema non lineare nel procedere della
narrazione, alternando vicende delle ultime settimane di vita del giovane
con altre riguardanti il suo periodo adolescenziale nel contesto familiare.
Christopher Johnson McCandless nasce il 12 febbraio del 1968 nel sud
della California, da Walt McCandless e Wilhelmina Johnson. Conosciutisi
al college, i genitori di Chris divennero presto molto facoltosi, per via delle
diverse implicazioni con la NASA che il padre aveva, essendo considerato
come il “ragazzo prodigio” che, grazie al suo ingegno fuori dal comune,
avrebbe donato all’America le tecnologie più avanzate ottenibili con i
mezzi di allora.
Chris si laureò in storia e antropologia all’Università Emory di Atlanta, in
Georgia, con una media molto elevata. Dopo di allora, i genitori non lo
videro mai più. Christopher decise di allontanarsi da quella società così
borghese, materialista e consumista che lo stava lentamente indirizzando
proprio verso quel tipo di vita che tutti si aspettavano da lui, ma dalla
quale lui stesso si sentiva terribilmente oppresso.
Decise così di donare in beneficenza tutti i suoi risparmi, 24.000 dollari,
all’Oxfam. Si allontanò così da casa con cento dollari, uno zaino e la sua
fidata Datsun gialla B210, auto da lui molto apprezzata, a tal punto da
rifiutare i continui tentativi dei genitori di volergliene comprare una
nuova di maggior valore. Chris iniziò così il suo straordinario viaggio che
lo portò ad attraversare una parte dell’America, partendo da Atlanta per poi
attraversare l’intera West Coast in una peregrinazione di due anni, dotato
solamente dei pochi mezzi a sua disposizione e dei molteplici passaggi che
riesce ad ottenere nei vari deserti attraversati.
L’obiettivo di McCandless era semplice, per quanto possa risultare
estremo: raggiungere le terre incontaminate dell’Alaska, in una sorta di
ascesi spirituale e fisica che lo purificasse interamente dalla mentalità
volgare e utilitaristica della società capitalista americana, immergendosi
totalmente nella natura estrema. Con il passare del tempo, questa natura
selvaggia ed incontaminata, lo porta ad uno stato di felicità interiore, da
cui viene pervaso. Tappa dopo tappa, però, Chris s'immerge sempre più
nella solitudine, fino a sfidare le stesse possibilità di sopravvivenza: la
natura estrema è libertà e verità, ma rappresenta anche il rischio e la
minaccia ultima. Vive cibandosi esclusivamente di selvaggina e di bacche,
e sarà proprio una bacca a condurlo alla morte: Chris infatti, divorato dalla
fame, mangia i velenosi frutti di una pianta selvatica erroneamente
scambiati per commestibili, che gli causeranno, dopo pochi giorni, la
morte. Durante la lunga agonia, in cui non riesce a cercare aiuto, essendo
completamente isolato, scriverà su uno dei libri che era solito leggere
"Happiness only real when shared": la felicità è autentica solo se
condivisa.
4.3
Il conflitto generazionale
Per poter comprendere interamente le ragioni che hanno spinto
Christopher alla fuga, occorre fare un'analisi più approfondita di quelli che
sono i retroscena familiari. Il pessimismo del giovane deriva
principalmente dal rapporto con i genitori, emblemi della perfetta famiglia
americana, facoltosa e apparentemente unita. In realtà, abbiamo non poche
testimonianze che ci mostrano la condizione di bigamia di Walt
McCandless, che lo costringeva a sostenere due famiglie e che divenne il
primo motivo di scontro e discussione con la moglie. Chris non si
riconosceva assolutamente nella figura paterna: ricco, borghese, infedele e
austero. La mentalità di Chris era invece molto più aperta e, sebbene il
conflitto con il padre fosse piuttosto celato e interiorizzato, ben presto non
sopportò più l’idea di percorrere la medesima strada battuta dal genitore. A
ciò si aggiunge la passività della madre, incapace di reagire a questa
situazione sconveniente, e un’evidente falsità e ipocrisia che tende a non
mostrare la conflittualità della situazione familiare dei McCandless. Chris
vedeva dunque nella sorella minore Carine l’unico sostegno in una realtà
al limite dell’umana sopportazione; non a caso sarà l’unica persona della
famiglia ad essere al corrente dell’anticonformismo caratteristico del
fratello e che non si stupirà di fronte alla sua fuga apparentemente folle, e
che, al contrario, lo coprirà nella fase iniziale del suo viaggio. Si tratta
dunque, di una visione della famiglia opprimente e conflittuale.
4.4 Chris McCandless: il moderno viandante-esteta
La scelta di Chris non è basata semplicemente sulla ribellione, sulla fuga
adolescenziale per mostrare alla famiglia il proprio disagio interiore, bensì
su un’ideologia ben sedimentata nel giovane. Amante della letteratura,
Christopher fu ritrovato morto nel suo “Magic Bus”, il riparo che aveva
trovato nel parco nazionale del Denali, in Alaska, con una grande quantità
di libri tascabili di Lev Tolstoj, Jack London ed Henry David Thoreau.
Sulle pagine di questi testi sono stati inoltre ritrovati diversi appunti,
commenti o sottolineature dello stesso Chris che ricalcano perfettamente la
sua idea di vita autentica, di bisogno di una sorta di lontananza
purificatrice dalla realtà comune, alla ricerca di un’immersione nella
natura selvaggia. Il pensiero del giovane McCandless è basato sul suo
sconfinato amore per la letteratura russa e per la novellistica avventurosa,
ma ritroviamo nella sua ideologia personale diverse affinità con correnti
letterarie e filosofiche precedenti, molto distanti dal contesto sociale e
culturale dell’America degli anni ’90.
In McCandless è infatti evidente una certa tendenza a concepire la società
di cui fa parte come una sorta di organismo in rapido stato di
decomposizione, dal quale ha bisogno di distaccarsene con violenza.
La figura senza tempo di Christopher Johnson McCandless, giovane
animato da ideali così puri e così sdegnoso nei confronti di una società
sempre più legata ai possedimenti materiali e basata su valori tanto
ipocriti, è il perfetto misto tra il bohèmien alla ricerca di una via d’uscita
dalla volgare realtà e l’esteta amante della straordinaria bellezza della
natura. Egli stesso, in un’incisione rilasciata all’interno del “Magic Bus”,
si definisce tale:
“Da due anni cammina per il mondo. Niente telefono, niente biliardo,
niente animali, niente sigarette. Il massimo della libertà. Un estremista.
Un viaggiatore esteta la cui dimora è la strada. E adesso, dopo due anni a
zonzo, arriva la grande avventura finale. La battaglia climatica per
uccidere l'essere falso dentro di lui e concludere vittoriosamente il
pellegrinaggio spirituale. Dieci giorni e dieci notti di treni merci e
autostop lo hanno portato fino al grande bianco del Nord. Per non essere
mai più avvelenato dalla civiltà, egli fugge, e solo cammina sulla terra per
smarrirsi nella foresta. Alxander Supertramp – Maggio 1992”.
4.5 La colonna sonora del film: Eddie Vedder
Oltre alla magistrale trasposizione cinematografica di Sean Penn, occorre
dedicare una sezione a parte, alla colonna sonora del film, composta da
musiche e canzoni originali di Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam, con
pezzi alla chitarra eseguiti da Michael Brook e Kaki King.
“Guaranteed” , il brano principale della colonna sonora, ha vinto un
Golden Globe come migliore canzone originale nel 2008.
Tuttavia, il brano che sintetizza al meglio l'intero significato del romanzo e
del film, è “Society” : è stupefacente come, con poche semplici parole,
Vedder riesca mano mano a guidarci tra i sentimenti di Christopher.
Analizzando i primi quattro versi, riusciamo a ricavare la perfetta
definizione di società moderna: una società dominata dall'avidità, che
abbiamo accettato inconsciamente e che ci obbliga a desiderare più di
quanto abbiamo realmente bisogno; una società in cui l'unica strada in
grado di condurci alla felicità e alla libertà, sembra essere legata al denaro:
“Oh, it's a mystery to me
We have a greed with which we have agreed
You think you have to want more than you need
Until you have it all you won't be free.”
“Per me è un mistero
Abbiamo un'avidità con la quale abbiamo accettato di convivere
Pensi di dover volere più di quanto hai bisogno
Finché non hai tutto, non sarai libero.”
Nel ritornello, invece, oltre all'assoluta convinzione da parte di Christopher
di fuggire, emerge però, una sorta di paura, derivante dall'attaccamento del
protagonista alla sua famiglia e alla società stessa. Eddie Vedder, calatosi
in pieno nei panni di Chris, spera che, una volta fuggito, la società non
avverta la sua mancanza: in realtà è lui che, più di tutti, teme di sentire
questa mancanza; nonostante le critiche e il disprezzo, si percepisce un
velo di tristezza nell'abbandonare quella che, fino a quel momento, era
stata tutta la sua vita:
“Society, you're a crazy breed
Hope you're not lonely without me
Society, crazy indeed
Hope you're not lonely without me
Society, have mercy on me
Hope you're not angry if I disagree”
“Società, sei una razza folle
Spero che non ti senta sola, senza di me
Società, pazza davvero
Spero che non ti senta sola, senza di me
Società, abbi pietà di me
Spero che non ti arrabbierai se disapprovo”
A seguire, la trascrizione integrale del testo e la sua traduzione:
Oh, it's a mystery to me
We have a greed with which we have agreed
You think you have to want more than you need
Until you have it all you won't be free
Society, you're a crazy breed
Hope you're not lonely without me...
When you want more than you have
You think you need...
And when you think more than you want
Your thoughts begin to bleed
I think I need to find a bigger place
Because when you have more than you think
You need more space
Society, you're a crazy breed
Hope you're not lonely without me...
Society, crazy indeed
Hope you're not lonely without me...
There's those thinking, more-or-less, less is more
But if less is more, how you keeping score?
Means for every point you make, your level drops
Kinda like you're starting from the top
You can't do that...
Society, you're a crazy breed
Hope you're not lonely without me...
Society, crazy indeed
Hope you're not lonely without me...
Society, have mercy on me
Hope you're not angry if I disagree...
Society, crazy indeed
Hope you're not lonely without me...
Per me è un mistero, abbiamo un'avidità
Con la quale abbiamo accettato di convivere
Pensi di dover volere più di quanto hai bisogno
Finché non hai tutto, non sarai libero
Società, sei una razza folle
Spero che non ti senta sola senza di me
Quando vuoi più di quello che hai,
Pensi di averne bisogno
Quando pensi più di quello che vuoi,
I tuoi pensieri cominciano a sanguinare
Pensi di dover trovare un posto più grande
Perché quando hai più di quello che pensi,
Hai bisogno di più spazio
Società, sei una razza folle
Spero che non ti senta sola, senza di me
Società, pazza e profonda
Spero che non ti senta sola, senza di me
Ci sono quelli che pensano, più o meno,
Che il meno sia più; ma se il meno è di più,
Come fai a mantenere il punteggio?
Significa che per ogni punto che fai scendi di livello
E’ un po’ come cominciare dalla cima
Non puoi farlo...
Società, sei una razza folle
Spero che non ti senta sola, senza di me
Società, pazza davvero
Spero che non ti senta sola, senza di me
Società, abbi pietà di me
Spero che non ti arrabbierai se disapprovo
Società, pazza davvero
Spero che non ti senta sola, senza di me.
4.6
Non solo critica alla società: la trasformazione
interiore e l'importanza della condivisione
Interpretare il romanzo o la pellicola tenendo conto solo del suo lato
materiale e pratico, risulterebbe a dir poco banale: un ragazzo che
abbandona la famiglia e la società e si rifugia nelle remote e sperdute lande
dell'Alaska per contestare la società e i suoi meccanismi stritolatori, per
sottrarsi al bigottismo e all'ipocrisia del sentimentalismo borghese. Se
questo fosse stato l'intento dello scrittore o del regista, avrebbero fallito
decisamente.
Chris si addentra nell'Alaska per trovare quello che cerca, ma soprattutto
per trovarsi. La natura è metafora di una ricerca interiore che ha come
obiettivo la scoperta dell'autentico e del vero.
Krauker e Penn utilizzano il viaggio di Chris in chiave simbolica, ma più
che manifestare intenti di critica politica, intendono indicare una strada. Ed
è la strada dell'interiorità, la strada maestra dell'umanità, quella che da
tempo abbiamo abbandonato, la strada del "conosci te stesso".
Chris non è un isolato, ma cerca di essere "solo", solo per sentire la sua
voce più autentica. Il suo intento è quello di cercare la libertà assoluta, che
non esiste nel mondo civilizzato, ma solo in quello selvaggio.
Chris vuole vivere, in quel momento e in quel luogo, «senza mappe, senza
orologio, senza niente. Montagne innevate, fiumi, cieli stellati. Solo, con la
natura selvaggia.»
E' un inno alla ribellione, che descrive il desiderio dell'uomo, cresciuto
nella società consumistica e decadente in netta contrapposizione con la
ricerca della felicità e della verità, di uscire da tutti i condizionamenti
esteriori che essa impone.
Fuggire da un mondo ritenuto invivibile da tutti i punti di vista, quindi,
diventa un imperativo morale, una vocazione che attraversa la vita di certe
anime pure: quelle che, dinanzi alla prospettiva di una vita conformistica e
banale, rinunciano alle lusinghe del mondo materiale e scelgono la sfida di
una vita regolata soltanto dalla forza dei propri ideali:
“Nella vita importa non già di essere forti,
ma di sentirsi forti,
di essersi misurati almeno una volta,
di essersi trovati almeno una volta nella condizione umana più antica,
soli davanti alla pietra cieca e sorda,
senza altri aiuti, che le proprie mani e la propria testa.”
Christopher McCandless, Into The Wild
E’ la metafora della ricerca di un luogo idealizzato, la meta ultima di un
viaggio iniziato come una fuga e diventato invece di una verità soggettiva.
E' la scoperta della saggezza, la scoperta della propria essenza.
Disseminare la storia delle citazioni di Thoreau, Tolstoj e London è una
chiara dimostrazione che l'intento del regista, più dello scrittore, è quello
di indicare un nuovo modo di vedere le cose. Sarebbe stato facile cadere in
suggestioni “new age” se avesse troppo chiaramente alluso ad
un'illuminazione di tipo buddista. Ma la scena finale della pellicola, con
Chris che muore sorridendo, è una vera e propria illuminazione.
E' quello il momento, l'attimo in cui ci si rende conto che “la felicità è
reale solo se è condivisa”.
La grandezza di Penn sta proprio nella sua capacità di raccontare una storia
di trasformazione interiore attraverso un percorso che si dipana lungo il
continente americano, la cui geografia è tradizionalmente metafora della
conquista di spazi interiori.
Ma allora, qual è la vera sfida? Isolarsi dal resto del mondo, rinunciare alle
comodità e mettersi in viaggio o vivere giorno dopo giorno la giungla e la
fatica quotidiana?
C'è chi crede nella fuga e chi crede nel coraggio di restare.
C'è chi crede nel viaggio andata e ritorno e chi non partirebbe mai.
Ed è proprio questo il punto: se si vuol trovare a tutti i costi una possibile
“soluzione” per tutti, si cade in errore.
E' sbagliato leggere il percorso di Chris come un mero gesto politico,
perché, in realtà, nient' altro è che il percorso di una persona che si è
interrogata sulla natura dei rapporti sociali e sull' inautenticità che può
pervaderli, di una persona che sceglie la strada della solitudine (e non
dell'isolamento) per trasformarsi interiormente e per trovare una nuova
consapevolezza. Raggiunta tale consapevolezza, vorrebbe tornare nel
mondo e condividerla.
E' questo il vero messaggio: la condivisione.
Chris, novello Cristo, dopo il deserto vuole diffondere la lieta novella. E,
anche grazie agli uomini, egli raggiunge la saggezza imparando che nel
perdono si ama veramente.
E, alla fine, ha perdonato tutti, anche i suoi genitori.
L'illuminazione è lì, in quel perdono, e chi vede esclusivamente la critica
alla società, perde gran parte del suo significato.
“L'essenza dello spirito dell'uomo sta nelle nuove esperienze,
e ti sbagli se pensi che le gioie della vita
vengano soprattutto dai rapporti tra le persone.
Dio ha messo la felicità dappertutto, è ovunque,
in tutto ciò di cui possiamo fare esperienza.
Abbiamo solo bisogno di cambiare il modo di vedere le cose.”
Christopher McCandless, Into The Wild
2.
IL RAPPORTO TRA L' INDIVIDUO E IL
GRUPPO
La psicologia sociale si occupa dello studio scientifico dell’influenza
sociale, ovvero dei modi attraverso cui i pensieri, i sentimenti e i
comportamenti delle persone vengono influenzati dalla presenza reale o
immaginaria degli altri. L’influenza sociale assume forme sia dirette (come
la pubblicità) che indirette (a livello di cultura). Questa scienza sociale si
differenzia dall’antropologia e dalla sociologia in quanto si interessa non
alle situazioni sociali in senso oggettivo, ma al modo in cui le persone
vengono influenzate dalla loro interpretazione, o costruzione,
dell’ambiente sociale. E’ importante, quindi, capire come una persona
percepisce o interpreta tale ambiente, piuttosto che comprenderlo
oggettivamente. Le origini di questa interpretazione sono oggetto di
attenzione particolare, ovvero i fattori che determinano i pensieri e i
comportamenti delle persone.
Un altro tratto caratteristico della psicologia sociale è quello di essere una
scienza sperimentale, che sottopone a prova empirica le proprie ipotesi.
Essa non si basa né sulla cosiddetta “saggezza popolare” o sul buon senso,
né sulle opinioni o intuizioni di filosofi, romanzieri, politici, giornalisti o
altro. Anche se buona parte della psicologia contemporanea è basata sul
pensiero analitico dei filosofi, la psicologia sociale cerca di approcciare
anche le domande analizzate dalla filosofia in modo scientifico.
2.1
Lewin e la teoria del campo
Dal 1910, negli Stati Uniti si stabilizza il paradigma del
comportamentismo. Secondo questo modello, l'individuo è alla nascita
una tabula rasa, sulla quale le influenze ambientali hanno la possibilità di
incidere qualsiasi cosa. Per i comportamentisti, quindi, si può spiegare
ogni comportamento umano in termini di analisi delle ricompense e
punizioni riservate dall’ambiente al soggetto, senza nessun riguardo per
concetti come cognizione, pensiero o sentimento. Successivamente, questo
approccio si è rivelato troppo semplicistico, in quanto non si può
comprendere un comportamento limitandosi alle proprietà fisiche di una
situazione, ma si deve capire come le persone “costruiscono” il mondo che
le circonda.
Per questo motivo, sempre negli anni quaranta, viene importata negli Stati
Uniti la Psicologia della Gestalt.
Questa teoria si concentra sulla fenomenologia del soggetto della
percezione, ovvero sul modo in cui gli oggetti si presentano alla persone,
piuttosto che sui singoli elementi dello stimolo oggettivo.
Importanti in questo senso furono gli studi di Kurt Lewin, ebreo tedesco
emigrato in USA negli anni 30, che trasferì i principi della Gestalt allo
studio dei gruppi ed elaborò la teoria del campo.
Questa teoria, spiega il comportamento in relazione alla situazione in cui
lo stesso si verifica.
I motivi del comportamento di una persona non si ricercano in ciò che e'
accaduto alla stessa nel corso della sua vita passata, ma si prendono in
esame le interrelazioni attuali tra la persona e l'ambiente.
La teoria del campo sostiene che la percezione, ad esempio, di un campo
di fiori d'estate varia in base all'individuo che lo osserva. Un passeggiatore
domenicale si soffermerà ad osservare l'ambiente e a percepirne gli stimoli,
osservando anche il grande spazio attorno a lui, mentre per un soldato il
campo di fiori diventa un campo di battaglia, e il suo unico obiettivo è
quello di fuggire e di salvarsi, quindi la percezione dello spazio si riduce,
per esempio, ad un cespuglio dove potrà nascondersi. Infatti la teoria
sostiene anche che la percezione dell'ambiente circostante e degli stimoli
che ci fornisce, varia in base all'individuo, allo stato d'animo e alla
situazione in quel determinato momento.
Il campo è anche inteso quale metodo psicologico di analisi dei fenomeni
sociali, visti nella loro interdipendenza. La teoria prevede l'esistenza di uno
spazio psicologico dove sono presenti dei comportamenti (C) che sono
funzione degli spazi di vita delle persone (S) formati dalle persone (P) e
dagli ambienti (A), concetto sintetizzato da Lewin con C= f (PA).
Secondo Lewin ogni oggetto (materiale e non), ha una sua valenza,
positiva o negativa. Queste valenze sono forze psicologiche che ci
spingono in una direzione piuttosto che in un'altra.
Ci avviciniamo cosi' alle forze positive e tendiamo ad allontanarci da
quelle negative.
L'ambiente, avendo anch'esso una valenza, può determinare il
comportamento della persona che in quell'ambiente (spazio vitale o campo
psicologico o ambiente psichico), si relaziona.
L'interazione tra la persona e l'ambiente determina quindi il
comportamento ed il comportamento a sua volta agisce nella loro
costruzione.
Esiste un equilibrio tra la persona ed il suo ambiente, e quando l'equilibrio
e' compromesso si crea una tensione volta a ristabilire l'equilibrio stesso.
Il campo psicologico presenta un insieme di fatti interdipendenti (passati,
presenti e futuri), che coesistono, e che possono influire sulla persona, e
sono:
1) lo spazio di vita (dato dalla rappresentazione psicologica soggettiva che
la persona ha dell'ambiente)
2) i fatti sociali e/o ambientali (ciò che accade oggettivamente senza che
ciò influenzi in quel momento lo spazio di vita della persona)
3) la zona di frontiera (dove lo spazio di vita ed il mondo esterno si
incontrano, rappresenta quindi il confine tra oggettività e soggettività).
Il campo può avere molti gradi di differenziazione, a seconda delle
esperienze che la persona ha vissuto e per mostrarle, Lewin rappresenta il
campo come diviso in regioni delimitate da frontiere, ma comunicanti e
dipendenti tra loro.
2.2
Le dinamiche di gruppo in Lewin
Abbiamo analizzato il “campo psicologico”, determinato dall'individuo e
dal suo ambiente. Andiamo invece, ad analizzare il “campo sociale”,
formato dal gruppo e dal suo ambiente.
Lewin vede il gruppo non come l'insieme di più fenomeni, ma come un
solo fenomeno: un'unità unica e, quindi, una totalità.
Il gruppo, definito come una struttura complessa in continuo divenire, non
e' quindi una realtà statica ma dinamica, e racchiude in sé conflitti, forze e
tensioni che producono dei mutamenti.
Nel gruppo l'azione di ogni persona modifica sia le altre persone che il
gruppo stesso, e anche l'azione del gruppo stesso, viene modificata sia
dalle azioni che dalle reazioni degli altri (interdipendenza).
Nonostante il gruppo sia dinamico, tenderà sempre all'equilibrio, tramite
un assestamento tra forze che tendono all'unione e forze che tendono alla
disgregazione. Questo modo di vedere il gruppo portò a delle conseguenze
che introdussero poi, il tema del cambiamento sociale: la tendenza
all'equilibrio del gruppo costituisce una resistenza quando si vuole
effettuare un cambiamento; le situazioni in cui è più facile cambiare un
comportamento sono quelle di confronto di gruppo, piuttosto che il
confronto con il singolo individuo. Le situazioni di interazione collettiva
creano un maggior grado di coinvolgimento sociale e un maggior
consolidamento delle decisioni prese.
2.3
I bisogni e le motivazioni fondamentali alla base dei
comportamenti umani
Che cosa si intende per “bisogno”? Quali sono, da un punto di vista
psicologico, i bisogni fondamentali dell'uomo?
In psicologia, un bisogno viene definito come la mancanza parziale o
totale di uno o più elementi che costituiscono il bene della persona.
A tal proposito, risultano interessanti gli studi effettuati tra il 1943 e il
1954 dallo psicologo statunitense Abraham Maslow, il quale concepì il
concetto di "Hierarchy of Needs" (gerarchia dei bisogni o necessità) e la
divulgò nel libro Motivation and Personality nel 1954.
Questa scala di bisogni è suddivisa in cinque differenti livelli, dai più
elementari (necessari alla sopravvivenza dell'individuo) ai più complessi
(di carattere sociale).
L'individuo si realizza passando per i vari stadi, i quali devono essere
soddisfatti in modo progressivo. Questa scala è internazionalmente
conosciuta come "La piramide di Maslow". I livelli di bisogno concepiti
sono:
1.Bisogni fisiologici (fame, sete, ecc.)
2.Bisogni di salvezza, sicurezza e protezione
3.Bisogni di appartenenza (affetto, identificazione)
4.Bisogni di stima, di prestigio, di successo
5.Bisogni di realizzazione di sé (realizzando la propria identità e le proprie
aspettative e occupando una posizione soddisfacente nel gruppo sociale).
Successivamente sono giunte critiche a questa scala di identificazione,
perché semplificherebbe in maniera drastica i reali bisogni dell'uomo e,
soprattutto, il loro livello di "importanza". La scala sarebbe perciò più
corretta in termini prettamente funzionali alla semplice sopravvivenza
dell'individuo che in termini di affermazione sociale. Si tratterebbe perciò
di bisogni di tipo psicofisiologico, più che psicologico in senso stretto.
In ogni determinato momento, i pensieri e comportamenti umani sono
sottesi da una moltitudine di motivazioni sovrapposte. Dopo anni di studi,
gli psicologi sociali hanno individuato due motivazioni fondamentali:
•il bisogno di giustificare i nostri pensieri e le nostre azioni (essere a
posto con la coscienza);
•il bisogno di essere accurati;
Un’ esigenza fondamentale per l'uomo, è quella di giustificare il
comportamento precedente. In determinate condizioni ciò spinge a
commettere azioni che potrebbero apparire sorprendenti o paradossali,
ovvero preferire le persone e le cose per cui si è sofferto, piuttosto che
quelle associate con il benessere e il piacere.
Naturalmente, oltre alle motivazioni sopra evidenziate, possono esserci
molti altri fattori che influenzano la nostra visione del mondo: istinti
biologici, paura, promessa di ricompense, o il bisogno di controllo sul
proprio ambiente.
Tuttavia, una delle più potenti cause che determinano il comportamento
umano deriva dal nostro bisogno di preservare un'immagine di sé stabile
e positiva. Abbiamo bisogno di credere di essere persone ragionevoli e
rispettabili che prendono le giuste decisioni e non si comportano in
maniera immorale.
Sono molte le persone che hanno bisogno di mantenere un’alta stima di
sé, di vedersi come individui rispettabili, competenti e affidabili. Ciò porta
spesso a dare una visione distorta del mondo per potersi sentire bene con
se stessi.
2.4
L'influenza degli altri e la paura del giudizio
“Chissà cosa penserà la gente, chissà cosa dirà la gente, che figura ci
facciamo.. ”
Quante volte nel nostro presente e nel nostro passato siamo entrati in
contatto con questo monito? Spesso, l’attenzione che investiamo
nell’evitare di ricevere un giudizio negativo degli altri è superiore a quella
che dedichiamo alla costruzione di un sé spontaneo e autentico.
Sin da bambini scopriamo il potere che il giudizio positivo riveste per la
nostra autostima poiché allontana dolore e frustrazione.
Il giudizio altrui si trasforma così in un bisogno: abbiamo bisogno del
giudizio positivo dei nostri genitori, dei nostri fratelli, dei nostri amici, e
non sopportiamo i giudizi negativi.
Per ricevere il giudizio positivo degli altri dobbiamo però soddisfare le
loro aspettative; aspettative che, nel percorso di vita, diventano via via più
impegnative.
Alla base della ricerca del giudizio positivo degli altri c’è essenzialmente
la paura del rifiuto e dell’emarginazione.
La paura di non essere accettati porta spesso ad aderire, senza esitazione, a
tutte le condizioni che il gruppo impone. Nasce così il fenomeno della
‘pressione sociale’, fenomeno talmente importante da far dimenticare, a
volte, anche i valori etici essenziali.
Per rincorrere l’applauso recitiamo parti, ci mascheriamo, utilizziamo
comportamenti lontani dalla nostra vera essenza. Gli altri vedono così le
nostre maschere e non sono in grado di percepirci in quella che è la nostra
vera essenza. Ciò comporta che non ci avviciniamo agli altri anzi li
sentiamo sempre più lontani, e di riflesso, ci sentiamo sempre più soli.
Questo isolamento fa aumentare il conflitto d’identità e, di conseguenza, fa
aumentare il bisogno di giudizio altrui, di consenso e di approvazione.
Entriamo così in un circolo vizioso:
• Più cerchiamo il giudizio altrui più siamo mascherati
• Più siamo mascherati più ci sentiamo soli
• Più ci sentiamo soli più ci sentiamo insignificanti
• Più ci sentiamo insignificanti più abbiamo paura e bisogno del
giudizio altrui
E il ciclo ricomincia.
La persona sente il bisogno degli altri, del loro giudizio e del loro
riconoscimento, ma si sente “stretta” in questo vicolo cieco e percepisce il
bisogno di libertà, di autonomia e di trasgredire le regole.
Perché vivere in funzione della paura del giudizio altrui equivale a far
morire la propria personalità che non può rivelarsi in quanto tale bensì è
sottoposta a continui travestimenti.
In questo modo, la prima cosa che perdiamo è la nostra spontaneità, che
rappresenta il primo indice di un equilibrato rapporto con se stessi e di una
buona autostima.
Alla base del timore del giudizio c’è sempre la presenza di un implacabile
‘giudice interiore’ che, confrontando il nostro comportamento con modelli
esterni di riferimento ci condanna. E la pena, la peggiore immaginabile, è
quella di doverci uniformare ai modelli che il giudice ci impone, a costo di
essere totalmente non spontanei.
Il risultato è che non siamo noi stessi ma non riusciamo nemmeno ad
essere come vorremmo apparire, e questo ci porta a vivere con ansia e
disagio il conflitto interiore.
2.5
Il fenomeno Facebook: tra identità virtuale e bisogno di
accettazione
Uno dei fenomeni sociologici più interessanti degli ultimi anni e che al
meglio rispecchia l'attuale crisi di identità e il bisogno di apparire diversi
da ciò che si è, è sicuramente quello di “Facebook”.
La prima cosa che si condivide su Facebook è naturalmente la propria
identità, rappresentata da un nome e un'immagine, non obbligatoria. Data
di nascita e sesso sono invece obbligatori, formalmente per impedire la
registrazione ai minori di 13 anni. Nella pratica, il nickname corrisponde
nella maggioranza dei casi, al nostro nome e cognome reale: poiché, come
recita lo slogan sulla homepage, «Facebook ti aiuta a connetterti e
rimanere in contatto con le persone della tua vita» ed è più facile farsi
trovare se si utilizza la propria identità anagrafica. «Per questo motivo, per
il tuo nome e per l'immagine del tuo profilo non sono previste
impostazioni sulla privacy.»
Facebook non vuole nomi falsi. La ragione sarebbe che «Facebook si basa
sulle interazioni che avvengono nel mondo reale. L'uso di pseudonimi
contraddice i valori su cui si fonda il nostro sistema. Gli utenti che usano
nomi falsi sono più propensi ad eseguire attività che violano le nostre
normative. Questo principio è importantissimo per noi, pertanto
rimuoviamo gli account falsi non appena ne veniamo a conoscenza.»
A prescindere dal fatto banale che l'identità di un individuo, anche dal
punto di vista biologico, è in continua mutazione, e che un nome e una
data di nascita sono decisamente troppo poco per individuarmi, l'identità è
pur sempre una rappresentazione. L'identità però, è frutto di una
costruzione incessante, e non un dato di fatto stabile e immutabile.
L'immagine del profilo dunque, è importante, importantissima. Metteremo
quindi una foto in cui siamo riusciti bene, in una posa ammiccante, che
desti interesse. Questo è il nostro vero io: non certo le foto in cui siamo
stanchi, delusi e depressi. Le foto compromettenti andremo a cercarle nei
profili altrui, perché la dinamica della delazione-autodelazione è
esattamente questa: presentare il proprio lato migliore e cercare
morbosamente il lato peggiore degli altri. Su Facebook, siamo tutti Narciso
che si specchia nella propria immagine riflessa, ma riflessa dalla rete
sociale. Perciò è importante nascondere ciò che non è presentabile e
confessabile, perché si potrebbe correre il rischio di non piacere. E
siccome Facebook nasce come strumento di speed dating, per pescare
possibili partner in un circuito il più ampio possibile, è chiaro che per
ottenere più appuntamenti è meglio mostrarsi al massimo della propria
forma.
La celebrità implica qualche sacrificio. E anche la micro-celebrità così
diffusa su Facebook non è ottenibile senza un impegno nell'esibizione. I
fan devono poter contattare in ogni momento il loro micro-idolo.
Nella società dello spettacolo massificata siamo tutti al tempo stesso
spettatori che applaudono e attori sul palco impegnati nella
rappresentazione delle nostre identità virtuali. È impressionante quanti e
quali particolari le persone siano disposte a raccontare delle proprie vite
con lo scopo di essere al centro dell'attenzione. Potreste aprire un profilo
Facebook verosimile, con un nome e cognome (non troppo comuni ma
nemmeno troppo astrusi o palesemente falsi), un indirizzo email, che ha
frequentato la tal scuola superiore, che tifa una particolare squadra di
calcio, che ama un genere musicale e ha hobby ben precisi. Inviate quante
più richieste di amicizia potete, Facebook vi guiderà alla scoperta di amici
che ancora non sapete di avere. Rispondete con entusiasmo a chi accetta la
vostra amicizia, inviate link simpatici e sarete ricompensati con molte
attenzioni. Il vostro profilo di Facebook è completamente artefatto e non
corrisponde ad alcuna persona reale, ma sulla rete sociale siete molto
attivi, e con un pizzico di ingegneria sociale potrete scoprire tutto dei
vostri nuovi «amici».
Il paradosso evidente è che in un mondo dove tutti sono obbligati a essere
«se stessi», a dire la verità su ciò che fanno e amano, a rivelare esattamente
dove sono in maniera chiara e senza possibile fraintendimento, chiunque
abbia intenzioni malevole si trova in una situazione ideale, circondato da
persone totalmente sincere che non aspettano altro che qualcuno si
interessi a loro.
Andy Warhol aveva predetto che tutti hanno diritto a un quarto d'ora di
celebrità, ma è molto peggio di quello che si poteva immaginare. Si tratta
ormai di una celebrità diffusa, a portata di tutti ma dai confini incerti, che
richiede un aggiornamento compulsivo del proprio profilo, una fiducia
assoluta e una trasparenza radicale nei confronti delle macchine che ci
conoscono meglio di quanto non ci conosciamo noi, e possono facilmente
consigliarci gadget prodotti apposta per noi.
Ci si sente famosi, anche quando nessuno ci conosce. Non serve avere
competenze specifiche, saper recitare, cantare o ballare, o almeno parlare,
e nemmeno essere belli: basta dare tutto alle telecamere, le emozioni allo
stato puro, senza filtri. Facebook intensifica questo programma di
pornografia emotiva su scala mondiale, introducendo strumenti di
trasparenza eccezionali, sotto forma di caselle da validare.
Qual è la tua situazione sentimentale? È importante che tutti sappiano se
sei libero, occupato, divorziata, disposta all'avventura. Condividi il tuo
stato emotivo, dicci ora, «A cosa stai pensando?». Sii trasparente!
L'aspetto più curioso, se non fosse tragico, è che lo stile «a blog», in cui le
informazioni di ieri non hanno più alcuna rilevanza oggi, non consente
alcuna stratificazione. L'esperienza viene circoscritta in una sorta di eterno
presente. Il passato scorre inesorabilmente verso il basso e nessuno va a
leggere i vecchi post. Eccezion fatta per chi vuole scovare del marcio,
perché tutti hanno qualcosa da nascondere, e i rapporti sociali si basano
sulla discrezione e sulla menzogna, o quantomeno sulle mezze verità e
sull'omissione. L'introduzione di Timeline, una linea del tempo sulla quale
poter inserire foto, post e contenuti di momenti precedenti all'apertura del
proprio profilo su Facebook, va nella stessa direzione di rendere
accessibile ogni aspetto della propria personalità in una narrazione senza
punti oscuri, lineare, chiara, consequenziale.
Nessuna profondità, nessuna complessità, nessuna ambiguità.
Essere, il non essere non sussiste, e il divenire è semplicemente
inconcepibile. A differenza di quanto accade nel mondo esterno, rispetto
alle reti sociali online, qui le cose sono, non divengono, semplicemente
uno stato si sovrappone al precedente, cancellandolo senza appello. La tua
identità è fissa anche se cambia. Sei libero di scegliere: ti piacciono gli
uomini o le donne?
E se per caso cambi idea, non c'è problema: la tua nuova identità è un
nuovo «stato» che elimina la vecchia.
Nella realtà, invece, « le identità sono complessi fasci di qualità che
vibrano, che spesso si modificano in maniera anche dolorosa, perché la
memoria di ciò che eravamo è costruita sul racconto di sé, e non sul
ricordo totale fissato per sempre in un profilo. »
Ma allora, perché Facebook?
Di certo non per “rimanere in contatto con le persone della propria vita”.
La maggior parte delle persone trascorre il tempo su Facebook scrivendo
frasi, pubblicando link, facendo test, pubblicando foto in cui viene ritratta
insieme ad amici e persone care. Sono, tutte queste, attività volte alla
rappresentazione di sé, dirette quindi a presentarsi in pubblico in un
determinato modo. Facebook come pantomima dell’idea che che si
possiede di se stessi; ed è per questo che pubblicano, e pubblichiamo, cose
volte ad indirizzare l’opinione che altri si faranno di noi in una direzione
ben precisa.
Dietro tale modalità di rappresentazione si cela quindi la volontà di
mostrarsi agli altri per quel che pensiamo, o vogliamo, o magari dobbiamo
essere.
In questo modo, è come se entrassimo in contatto non con la persona come
la intenderemmo se la conoscessimo dal vivo, in carne ed ossa, ma con il
virtuale, con il suo di dentro, in quanto veniamo a conoscenza dell’idea
che quel tale ha di sé. Ma, avendo quindi a che fare con un’identità che,
così definita, si presenta mutevole, in costruzione, così come sempre in
costruzione risulta il nostro sé, entriamo in contatto anche con quel che
ognuno di noi vorrebbe essere e che, quindi, prova a proporre alla platea.
Un mondo di estranei, in cui è difficile entrare in contatto reale con le
altre persone; un mondo di falsità, in definitiva, in cui l’immagine che
presentiamo di noi è troppo spesso determinata, in modo quasi
inscindibile, dalla nostra posizione funzionale, da quello che facciamo; ci
si identifica e ci si rappresenta, come legati alla professione, al lavoro che
svolgiamo nella società.
In definitiva, la vera ragione per cui la maggioranza degli utenti si iscrive a
Facebook è il tentativo, più o meno consapevole, di lenire la propria
solitudine.
La vita convulsa dei nostri tempi, ha lasciato sempre meno spazio a
quell’interazione umana, piacevole e gratificante, che fino ad un paio di
generazioni passate si svolgeva nelle piazze d’Italia (e del mondo) e nei
bar.
Perchè si preferisce l'interazione virtuale che Facebook ci offre, anziché
quella reale?
La risposta è semplice: Facebook, a differenza della realtà, è caratterizzato
da una maggiore disinibizione nelle manifestazioni emozionali e ciò è
dovuto, principalmente, all'assenza dello sguardo dell'interlocutore.
Su Facebook ci mostriamo ma, paradossalmente, nessuno ci vede.
Il confronto reale, con persone reali, è cosa passata.
Nascondersi dietro una tastiera, dentro al nostro falso mondo creato e
curato nei minimi dettagli, sembra la soluzione migliore, quella più
indolore.
Mostrarsi per ciò che si è, ora più che mai, sembra difficile, quasi
impossibile: la paura del rifiuto, del giudizio, di non essere accettati...
Ma quanto è più bella ed autentica, invece, la reale interazione, quella
faccia a faccia, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ne derivano? Uno
sguardo, una carezza, l'imbarazzo o persino un brutale rifiuto, potranno
realmente essere sostituiti da un “like” o un “commento”? La smania di
sentirsi accettati può davvero essere l'unica motivazione alla base dei
comportamenti dell'uomo?
Al giorno d'oggi, la definizione dell'uomo come animale sociale, viene
accettata quasi come una sorta di assioma che bisogna dare per scontato.
Ma quanto di realmente sociale è rimasto in quell' uomo? Dobbiamo
davvero iniziare a parlare di “animale-virtuale” anziché “sociale”?
MAN: NATURE OR CULTURE?
1. NATURE VS. CULTURE
1.2. The state of nature: Hobbes
The state of nature is the hypothetical condition in which men are still not
associated with each other; they are not governed by a government
apparatus and its laws. This particular human condition has been suggested
by various philosophers, such as Thomas Hobbes and Jean-Jacques
Rousseau. The Hobbesian model, in particular, has dominated, for its
simplicity and for its rigor, across the political philosophy of the
seventeenth and eighteenth centuries.
Hobbes describes the state of nature as a state of universal and perpetual
war, which will lead the mankind to self-destruction: it is a condition from
which humanity must necessarily go out, and to do that 'pax east
quaerenda' (we need to look for peace).
Men are so willing to give up the unlimited freedom and the right of all the
things they enjoy in the state of nature, and, in the civil society, they are
ready to submit to the absolute power of the sovereign in order to achieve
a peaceful coexistence that, otherwise, it would be unreachable.
This exchange, as involving the alienation of all natural rights except one,
the right to life, it will always be beneficial because it ensures the safety of
the individual's existence, its highest necessity.
1.3
State of conflictual individualism
According to Hobbes, the state of nature is the condition in which men live
before committing with any pact of association and submission. It is
defined as the state in which, in the absence of written laws and legal or
political institutions, it exists only the 'ius in omnia' (right of all to all); it
represents the condition in which everything is allowed in order to
preserve their lives and their property, and men can freely follow their
selfish passions. Therefore, this state is marked by a total absence of
bonds: it is the state of absolute freedom or, as Hobbes says, "the state in
which there is neither a government nor the governed." Due to the natural
equality among men, that Hobbes understands as equal opportunities for
each other to cause death and, because of the natural human tendency to
join with others in relationships based on competition and aggression
('homo homini lupus', man is man's wolf ), this state of absolute freedom,
it immediately becomes anarchy and state of war.
This natural equality makes this state a war without borders and without
solutions ( bellum omnium contra omnes, the war of all against all).
Moreover, this war prevents man to enjoy the enormous freedom they
could have; so, it is a useless state of freedom, and the natural law, as the
right of everyone to everything, can not be used.
Therefore, in this condition, a stable and an exclusive possession of goods,
it could not exists because the conditions of insecurity and violence that
men have in the state of nature, prevent any natural form of agriculture,
industry, or trade.
In the state of nature, since there are no laws, there is not even the right
and the wrong, and men can steal, murder, commit immoral acts without
this being considered unlawful: in war, in fact, anything is considered
lawful, and any means are allowed.
1.4
The need to leave the state of nature
Civil society was founded with the way out from this state of poverty and
fear.
However, to build the society, everything needs to be changed: men must
create new rules of moral and social conduct, bringing with them, nothing
but equality and antagonism they had initially; in the state of nature there
is only the ius in omnia.
Therefore, it is imposed the need to set up a totally new reality of
coexistence (civil society), whose legitimacy is constituted by a pact of
union or social contract, which is freely signed by men as a result of a
rational calculation and a common purpose: the guarantee of life.
1.5
Hypothetical or historical status?
The state of nature is a logical hypothesis advanced for argumentative
reasons: Hobbes wants to demonstrate that if men lived without laws and
without a power that hold them down, they would be constantly at war
with each other.
However, this hypothesis is confirmed by empirical observations on the
customs of some wild populations, such as the American Indian.
Other examples of the state of nature are given by the civil war, during
which the social contract it breaks and individuals return to a pre –
political state.
Hobbes's insistence on war as a perpetual condition in the natural state, has
a comparison in the stories of feuds and clashes that characterize the life of
some tribes.
The novelty is that, now, Hobbes does not introduce such living conditions
only as typical of the wild man that lives in a primordial state, but he
extends these features to the whole human race.
Outside the organized and political society - explains Hobbes - the man is
a wandering wolf, and this concerns both the good British citizen living in
cities, and the Redskins of America.
1.6
Discourse on Inequalty: the state of nature
according to Rousseau
A totally different vision which, in my opinion, is more truthful and
reliable than Hobbes' one, is the one provided by the Swiss philosopher
Jean-Jacques Rousseau.
In the Discourse on the Origin and Foundations of Inequality Among Men,
Rousseau intends to operate an historical deconstruction of social man to
trace the origin of the natural man. His purpose is to understand the
original nature of man in order to understand what is the foundation of
inequality that prevails in society: "How can we know the source of
inequality between men, if we do not start by knowing the men themselves?
"(Rousseau, Political Writings )
Rousseau emphasizes, in particular, the importance of avoiding the error of
some natural law philosophers like Locke, who laid at the base of society,
a contract that men would have signed between them consciously and
rationally; however, according to Rousseau, a conscious and rational man
is not conceivable outside (then not even before) society; equally insidious
is, to Rousseau, the mistake committed by Hobbes who has projected
arbitrarily on natural man some of the evil characteristics that belong to
civilized man, who has already been corrupted by society, such as pride or
vanity.
In the preface, the author highlights the fact that the original condition of
the wild man he theorized (l'état de nature, the state of nature) is designed
more as a theoretical period to understand the principles of things, that as
an historical phase actually occurred in the past.
It remains constant in this work, the idea that the state of nature, where
human needs were minimal and perfectly commensurate with his wishes, it
was an happy era for humanity; nature, conceived or as the original
condition of the wild man, or how the deep, complete, and uncorrupted
interiority of civilized man, it has always a good connotation in Rousseau,
and life in very close contact with nature, it is always considered happy; on
the other hand, "our pains are mainly our fault, and we would have
avoided them by keeping the simple, uniform and lonely way of living
prescribed by nature." (Rousseau, Political Writings)
From the moral point of view, Rousseau denies the existence in man of an
instinctive inclination to sociality and believes the man live in isolation
from the other members of its species; therefore, man's nature is neither
good nor bad. Man has two natural instincts which govern his actions: the
first one is “self-love” (amour de soi-même) or the principle of self-
preservation, the sentiment that drives him to avoid suffering and danger
without having any misanthropic consequences; this feeling naturally leads
man to prefer himself to others; the second instinct is the “compassion”
(pity), the feeling that generates repugnance to see other human beings
suffer. These two principles, acting together, help to preserve the human
race over time, while living in society undermines and erodes the natural
compassion towards others.
However, the wild man differs from animals for a moral quality, the “free
will” that allows him, exercising a choice, to escape the mechanical
obedience to the impulses of nature that characterizes the beasts. From this
freedom derives, according to Rousseau, the most characteristic human
faculty, “perfectibility” (perfectibilité), namely, its ability to change
himself for the better or for the worse.
Man, unlike animals, is a being capable of changing, though its
perfectibility is ambivalent: Rousseau admits that "this boundless faculty
that distinguishes us, is the source of all the human pains;" ( Political
Writings )
And it is precisely from the concept of perfectibility and latent reason in
wild man that Rousseau intends to begin his historical reconstruction: he
shows how, originally, human needs were extremely limited and easy to
satisfy; he stresses that the original condition of the men was the isolation
and that family was not even a permanent institution in the state of nature.
Sociability, in fact, is excluded from the characteristics of the natural man.
According to Rousseau, as mentioned, the main mistake made by those
who have been thinking about man in the state of nature, it was to project
on natural man, some of the typical characteristics of civilized man, such
as sociability, reason or aggression to his fellow men.
In reality, for Rousseau, until the man does not resist to its two natural
tendencies, he will never have feelings of hatred toward another man.
This is, in short, the condition of man in the state of nature: “man in a state
of nature, wandering up and down the forests, without industry, without
speech, and without home, an equal stranger to war and to all ties, neither
standing in need of his fellow-creatures nor having any desire to hurt them,
and perhaps even not distinguishing them one from another; let us
conclude that, being self-sufficient and subject to so few passions, he could
have no feelings or knowledge but such as befitted his situation; that he
felt only his actual necessities, and disregarded everything he did not think
himself immediately concerned to notice, and that his understanding made
no greater progress than his vanity. If by accident he made any discovery,
he was the less able to communicate it to others, as he did not know even
his own children.” ( Political Writings )
Rousseau adds that at this stage, without the existing of concepts such as
pride and contempt, and being the nature fertile, there is no need for
intense, prolonged or bloody conflicts.
Love is experienced at the level of pure physical satisfaction: for the wild
man, one woman is like another, and the meeting lasts long enough to
satisfy the mating instinct. The sentimental love, lived as a choice of a
particular woman, is the result of life in society. In conclusion, the man in
nature is a man without culture and without history. As there is no
education, there is not even the progress from generation to generation and
the inequality between men, living in the same way and doing the same
things, is very low: it is society that generates inequalities or expands the
little ones existing in nature.
1.7
Part two: the origin of inequalty
In the second part of the Discourse, Rousseau describes the historical
process that has seen man's degeneration from a condition of purity and
happiness felt in the state of nature, to a moral degradation of the corrupt
society. According to his reconstruction, initially man's needs were
stimulating the human intellect; due to some problems tied to natural and
catastrophic phenomena, people came closer to each other, and this "had
generated in man, the perception of certains relationships"; these mental
relations led him to develop ideas.
Man thus begins to develop a sort of awareness and intelligence and, by
acquiring the right to compare himself to others, he immediately fills
himself with pride and self-satisfaction.
By realizing a series of reciprocal affinity, men begin to deal with their
own kind and they develop a kind of empathy and a respectful code of
conduct which strengthens the feeling of pity, and makes security and
peace for all possible.
Men begin to live together and work together, they gradually refine the
language they use to communicate with each other and they start to
develop the habit to live the first romantic relationships (such as married
love and affection between parents and children).
At this point, with the perfecting of intelligence and with the increasing
availability of resources obtained by joining forces in common, the men
begin to indulge in comforts.
According to Rousseau, this is one of the first steps towards corruption,
because all luxuries are inevitably destined from the beginning to
degenerate into dependency and, therefore, to produce new needs which
will limit human freedom and independence.
In this new condition, living a simple and lonely life with a very limited
amount of needs, men, enjoying plenty of free time, begin to obtain a lot of
comforts; this was the first source of all the man's ills.
However, the increasing inclination to be compared with each other leads
men to give prominence to others' point of view and, in the meantime man
wants to be the object of public esteem, appearance begins to be more
important than the essence.
Men, who were independent, became dependent on each other; if initially
they were free and happy, when it was realized that working toghether was
useful to all, equality disappeared.
The development of arts as agriculture and metallurgy, brings a rapid
increase in inequality: for the first time in fact, not only the fruit of labor
is considered as property of those who have earned it, but also the
possession of the means of production is legitimized.
This, according to Rousseau, is a historic turning point:
“The first man who, having fenced in a piece of land, said "This is mine,"
and found people naïve enough to believe him, that man was the true
founder of civil society. From how many crimes, wars, and murders, from
how many horrors and misfortunes might not any one have saved
mankind, by pulling up the stakes, or filling up the ditch, and crying to his
fellows: Beware of listening to this impostor; you are undone if you once
forget that the fruits of the earth belong to us all, and the earth itself to
nobody.” (Rousseau, Discourse on Inequalty)
Since then, the degeneration accelerates significantly.
The estabilishment of money increases the distance between the goods and
the work of those who own them; self-love finally degenerates into selfregard (amour-propre), becoming an active selfishness in which men are
not happy for their own good, but for the fact that they live better than
others and they not only enjoy their fortunes, but also others' misfortunes.
The desire to possess more and more of their neighbors increases.
At this stage, clearly very far from the state of nature, according to
Rousseau, man reach that “state of war of all against all” that Hobbes had
mistakenly placed at the origin of human history.
At this point, being the class of rich separated from that of poor, it
becomes evident that rich's condition is very disadvantageous, since, in the
state of war, they have everything to lose, while the poor have always
something to earn.
That is how, for Rousseau, the rich designed the smartest project ever
conceived by man: the rich proposed a deal to the poor, offering to join in
order to protect the weak from oppression, to establish the legal systems of
justice, which is capable of “defending all members of the association,
rejecting the common enemies and keeping us in an eternal harmony.
Men, coarse and easy to flatter, ran towards the chains convinced to win
freedom.”
This "unfair contract" is the foundation on which society rests still now,
with all its corruption, and it is the principle which had generated all
inqualities that have destroyed human natural liberty.
The conclusion of the Discourse on the Origin and Foundations of
Inequality Among Men is that natural inequality is very low and that moral
inequality is against nature's law.
Rousseau leads the source of all man's ills not to human nature itself
(which originally is considered as good) but to the moment in which, the
human being joins his fellows.
Responsibility so, is attributed to society, seen as the cause of prevalence
of self-regard on self-love.
MODERN MAN'S CRISIS IN THE
CONSUMER SOCIETY
3.
Thanks to the historical reconstruction that Rousseau gave us, we come to
a crucial point of this issue: the real cause of man's corruption and
wickedness, is due to society and, indirectly, to man himself.
It is essential, therefore, to analyze what, for far too long, it seems to have
become the “ consumer society”.
3.1
Origins of consumer society
The industrial revolution has developed in England in 1760, while in
Europe in the early 1800s.
The enlightenment and democratic ideas take shape from the French
Revolution, in 1789.
The North American society, which was destinated to become the model of
consumerism and "wellbeing", obtained its independence in 1783.
In the two centuries that followed, an incredible whirlwind of changes
overwhelmed civil society.
An observation arises spontaneously: can a period of only two hundred
years, compared to the life of humanity, be considered necessarily as the
right way or as the truth? Was the industrial revolution born only thanks to
the discovery of new techniques, work and production, or also thanks to
the emergence of different life's conceptions?
Certainly, the importance of scientific discoveries in such a short time, has
facilitated the phenomenon.
Technical and scientific progress, in fact, are strenghten to the maximum,
in an increasing acceleration, because they find a fertile and ideological
ground able to receive them.
Modern capitalism is a phenomenon of power and ideological participation
that the industrial revolution finds already mature.
In the middle of the '500, in fact, some new concepts make inroads,
especially after the "great reforms", particularly after the Calvin's one.
Calvin, through the doctrine of predestination, recognizes in the economic
power, a sort of divine “election”.
With this prerequisite, success, work as a source of income and wealth, are
enhanced. For the first time, a religious authority declares money, so
ennobled, is no longer just a trade instrument, but it is the subject itself of
market and it is expected to grow in importance, up to supplant every
ethical value in the consumer society.
The industrial revolution determines, on the one hand, the new
phenomenon of social mobility and, on the other, a form of man's
exploitation who, in the logic of capitalism and profit, can soon take
dramatic and unsustainable aspects.
The French Revolution completed the work, adding, ideologically, the
exaltation of reason free from transcendent values and, politically, the birth
of an egalitarian democracy. While these revolutions are born in Europe,
the one which will represent the modern model of the consumer society, is
the North American society.
3.1.
The “welfare” society
Richard Baxter, a spokesman of the Protestant ethic, says:
“If God shows you a path, on which, without harm to your soul or to
others, you can earn in a legitimate way more than another, if you reject
this path, then you oppose yourself to God's will. You decline to be God's
amministrators and you reject his gifts. In front of God's eyes, you have to
work and to be rich”.
With this divine blessing, running towards the enrichment seems the only
way. The myth of a widespread and growing prosperity as life's goal takes
shape.
The first object of this phenomenon was the trade with Europe of raw
material and the exploitation of vast plantations. For this exploitation,
Americans used black slaves bought with money. Here, then, the explosion
of one of the first consequences of the emerging ethics founded on money.
A money which can buy everything, even a human being. It is not
colonialism or conquest, it is a pseudo-racist exploitation which is
unjustified and unjustifiable.
The presumption of the dollar to “buy" everything and everyone, is pure
arrogance, and it has nothing to do with human civilization.
That it was not true racism is demonstrated by the fact that (for utilitarian
reasons) black population has been integrated in American society and
that today (for demagoguery) blacks hold significant positions.
The "ethical" spirit of American capitalism, comes from the desire of
money accumulation and it shows, initially, an aversion to the excessive
consumption; but soon, people discover the immense wealth possibilities
that industrialization can offer. The production has to expand, and to allow
this expansion, products need to be sold more and more: consumption
becomes essential and needs to be encouraged, mythologized, magnified.
Economic success has become a cultural, essential and permanent value.
Who does not enjoy such success, is considered guilty.
The ideal American society becomes the welfare society.
Well-being as a result of a life dedicated to money. Comfort as a reward
for its own success: a society that rejects all ethical and spiritual premise,
can find a justification for its existence, only in material satisfactions.
Consumption as an ostentation of success.
The acquisition of money gives joy, regardless of the means used, while
the loss of money gives suffering and depression. Moral ethics based on
spiritual values, is replaced by a kind of amoral ethics based on “the god of
money.”
The ancient "decorum" of the middle classes, makes room for a sort of
mass-comfort, available to anyone with money. The consumer becomes a
symbol, and he develops an insatiable thirst for goods, whose utility is
increasingly ephemeral. We go from stable models (heroes - religious –
political), to models who are quickly replaceable (actors - singers –
players).
It all comes down to the “pleasure-pain” dialectic, which soon exceeds
other dialectics, such as the “right-wrong” or the “human-inhuman” ones.
And in this dialectic, every aspect of life which can cause pain, it should
be avoided or ignored. In a life devoted to pleasure, is nonsense to dwell
on something that may involve sacrifice, privation and suffering. Everyone
must have fun.
Beyond all expectations, it takes shape an opulent humanity which, placed
in front of a richly laden table, unleashes his greed without modesty,
controls or limits.
4.
THE ESCAPE FROM SOCIETY :
“INTO THE WILD”
4.1.
Evasion and critique of modern society
Following the analysis of contemporary society made in the preceding
paragraphs, it is inevitable for men, to deal with an enormous difficulty to
recognize themselves within a society based primarily on wrong values
which are hard to share. Too often, people need to escape from the social,
cultural and political context in which we are immersed.
Only a few people find the courage to leave their daily routine and their
apparent solidity and security that "ordinary" life seems to ensure.
However, there is a boy who succeded in this venture: it is Christopher
Johnson McCandless.
Around this unconventional, pure and idealistic character, many have felt
the need to celebrate and tell the world about the amazing story of this
young brave man.
In 2007 Sean Penn presented the film adaptation of Christopher's last
years, entitled "Into the Wild," which is based on the book written by the
adventurer and journalist Jon Krakauer ( Into the Wild).
The american director/actor was inevitably struck after learning every
facets of Christopher's story, and he decided to acquire the film rights of
the narration. Although Penn had already prepared the script, he was
however held back by relatives of the young man, who were not inclined
to spread the dramatic story of their son.
The director had to wait about ten years to get the consent of McCandless
family to start casting and filming.
4.2 Plot
The events narrated in the book, as well as in the film, are the result of a
large assembly of several documents and interviews left by the young man.
The testimonies of Penn and Krakauer, are both used following a scheme
which does not proceed linearly: the events of Christopher's last weeks, in
fact, are alternated with those of his adolescence.
Christopher Johnson McCandless was born in the South of California on
February 12, in 1968 . His parents, Walt McCandless and Wilhelmina
Johnson, soon became very wealthy, because of some implications that
Chris' father had with NASA.
Chris graduated in history and anthropology at Emory in Atlanta, Georgia,
with a very high average. Since then, Christopher decided to run away
from the bourgeois, materialistic and consumerist society which was
slowly directing him toward that kind of life that everyone expected from
him, but in which he felt terribly oppressed.
He decided to donate to charity all his savings to Oxfam and he walked
away from home only with a few dollars and a backpack. So, Chris began
his extraordinary journey which led him to cross a part of America, from
Atlanta to the West Coast, in a pilgrimage lasted two years, having only a
few means to use.
Christopher's goal was simple, as it may be extreme: to reach the pristine
lands of Alaska, in a kind of spiritual and physical asceticism that would
purify him from the American vulgar and utilitarian mentality based on
capitalism.
With time, this unspoilt natural beauty leads him to a state of inner
happiness which pervades him. Step by step, however, Chris increasingly
immerse himself in solitude, up to challenge all survival chances: the
extreme nature is freedom and truth, but it also represents risk and threat.
He lives feeding himself exclusively on game and berries, and, in a
desperate act, he confuses similar plants and eats a poisonous one, falling
sick as a result.
During the long agony, Crish accepts his fate and realizes that “ happiness
only real when shared”.
4.3
The generational conflict
In order to fully understand the reasons that led Christopher to flee, we
need to do a deeper analysis of his family background: his pessimism,
stems mainly from the relationship with his parents, emblems of the
perfect American family, wealthy and seemingly united. In fact, we have a
few testimonials that show us the condition of Walt McCandless' bigamy,
which forced him to support two families; this became the first source of
conflict with his wife. Chris did not recognize himself in his father figure:
rich, bourgeois, unfaithful and austere. Chris' mentality was far more open
and, although the conflict with his father was rather hidden and
internalized, he started to hate the idea of follow the same path beaten by
his father.
In addition, the liability of his mother, unable to react to this situation of
hypocrisy, makes things worse. The only support in this reality to the limit
of human endurance, is Christopher's younger sister, Carine.
Carine is the only person of the family to be aware of his brother's
nonconformity; for that reason, she won't be surprised in front of his
escape and, on the contrary, she will protect him in the initial stage of his
journey. It is, therefore, an hostile and oppressive vision of the family.
4.4
Chris McCandless: the wayfarer esthete
Christopher's choice is not based simply on rebellion or on a sort of
adolescent escape to show the family his own discomfort, but is based on a
very settled ideology in the young man. Christopher was found dead in his
"Magic Bus" with a large amount of pocket books of Leo Tolstoy, Jack
London and Henry David Thoreau. On the pages of these texts, were
founded several notes, comments or underscores that perfectly enclose his
idea of authentic life, his need of purifying himself from common reality
and try to live in the wilderness.
In McCandless is evident a certain tendency to conceive society as an
organism in a state of rapid decomposition, from which people need to
detach themselves with violence.
The timeless figure of Christopher Johnson McCandless, young man who
is so disdainful towards a society that is increasingly linked to material
possessions and is based on such hypocrites values, is a man animated by
pure ideals, and he represents the perfect mix between the bohemian
looking for a way out from vulgar reality, and between the esthete, lover of
the extraordinary beauty of nature. Chris, in an etching left on the "Magic
Bus", defines himself as follows:
“Two years he walks the earth, no phone, no pool, no pets, no cigarettes.
Ultimate freedom. An extremist. An aesthetic voyager whose home is the
road. Escaped from Atlanta. Thou shalt not return, ‘cause “the West is the
best.” And now after two rambling years comes the final and greatest
adventure, the climactic battle to kill the false being within and
victoriously conclude the spiritual revolution. Ten days and nights of
freight trains and hitchhiking bring him to the great white North. No
longer to be poisoned by civilization he flees, and walks alone upon the
land to become lost in the wild. – Alexander Supertramp, May 1992.”
( Into The Wild )
4.5
The soundtrack: Eddie Vedder
In addition to the Sean Penn's movie adaptation, we must reservate a
separate section to the movie's soundtrack, composed by music and
original songs by Eddie Vedder, leader of Pearl Jam, with pieces on guitar
performed by Michael Brook and Kaki King.
"Guaranteed", the main song of the soundtrack, won a Golden Globe for
Best Original Song in 2008.
However, the song that best summarizes the whole meaning of the novel
and the film, is "Society" : is amazing how, with a few simple words,
Vedder is able to guide us through Christopher's feelings.
By analyzing the first four verses, we can derive the perfect definition of
modern society: a society dominated by greed, which we have accepted
unconsciously and that obliges us to desire more than we really need; a
society where the only path able to lead us to happiness and freedom, it
seems to be linked to money:
“Oh, it's a mystery to me
We have a greed with which we have agreed
You think you have to want more than you need
Until you have it all you won't be free.”
In the chorus, however, besides Christopher's convintion to escape,it
emerges a kind of fear, caused by the attachment of the hero to his family
and to society itself. Eddie Vedder, identified with Chris, hopes that, once
escaped, society does not feel his absence; however it is Chris who, more
than anyone, is afraid to feel this lack; despite criticism and contempt, he
feels a little sadness to abandon what, until then, it had been all his life:
“Society, you're a crazy breed
Hope you're not lonely without me
Society, crazy indeed
Hope you're not lonely without me
Society, have mercy on me
Hope you're not angry if I disagree”
Following, the full lyrics:
Oh, it's a mystery to me
We have a greed with which we have agreed
You think you have to want more than you need
Until you have it all you won't be free
Society, you're a crazy breed
Hope you're not lonely without me...
When you want more than you have
You think you need...
And when you think more than you want
Your thoughts begin to bleed
I think I need to find a bigger place
Because when you have more than you think
You need more space
Society, you're a crazy breed
Hope you're not lonely without me...
Society, crazy indeed
Hope you're not lonely without me...
There's those thinking, more-or-less, less is more
But if less is more, how you keeping score?
Means for every point you make, your level drops
Kinda like you're starting from the top
You can't do that...
Society, you're a crazy breed
Hope you're not lonely without me...
Society, crazy indeed
Hope you're not lonely without me...
Society, have mercy on me
Hope you're not angry if I disagree...
Society, crazy indeed
Hope you're not lonely without me...
4.6
The inner transformation and the importance of
sharing
Interpreting the novel or the film considering only its material and pratical
side, it would be trivial: a guy who leaves the family and society and takes
refuge in remote lands of Alaska to challenge society and its oppressing
mechanisms to finally escape the bigotry and hypocrisy of bourgeois
sentimentalism. If this had been the intent, both the writer and the director
would have failed decisively.
Chris goes into Alaska to find something, but above all, to find himself.
Nature is a metaphor of an inner search to discover the authentic and true
reality.
Krauker and Penn, used Chris' journey in a symbolic way, but in addiction
to manifest a sort of political criticism, they intended to indicate a road.
It is a way that humanity has forgotten, the road to "know thyself”.
Chris is not an isolated, but he tries to be alone, just to hear his own
authentic voice. His intent is to seek absolute freedom, which does not
exist in the civilized world, but only into the wild.
Chris wants to live at that time and in that place, «no maps, no clock,
nothing. Snowy mountains, rivers, starry skies. Alone, with the
wilderness.»
It 'an ode to rebellion, which describes man's desire to come out of all the
conditioning that society imposes.
Escaping an unlivable world, then, it becomes a moral imperative, a sort of
vocation that runs through the lives of certain pure souls: those who, faced
with the prospect of a conformist life, renounce to the lure of materialism
and choose the challenge of a life regulated only by the force of its own
ideals.
It's a metaphor for the search of an idealized place, the ultimate goal of a
journey started as an escape and become, instead, a subjective truth.
It's the discovery of wisdom.
By disseminating the history of Thoreau, Tolstoy and London quotes, the
intent of both the director and the writer, is to indicate a new way of seeing
things. It would have been easy to fall into a sort of “new age” suggestions
if they had too clearly alluded to a Buddhist illumination.
But the final scene of the film, with Chris who dies with a smile on his
face, is a real illumination.
That is the moment, the moment when he realizes that "happiness is only
real when shared."
Penn's greatness lies in his ability to tell a story of inner transformation
through a path that winds along the American continent.
But, then, what is the real challenge?
Isolating themselves from the rest of the world, giving up comforts or
living day after day the jungle and the daily struggle?
There's someone who believe in the escape and someone who believe in
the courage to stay.
There are those who believe in the return trip those who would never
leave.
And this is precisely the point: if we try to find a possible "solution" for
everyone, we are wrong.
It's wrong to read Chris' path as a mere political gesture, because, in
reality, it is nothing but the path of a person who was questioned about
social relations and about their inauthenticity; it is nothing but a person
who chooses the path of solitude to find a new awareness. Once reached
this awareness, Chris would have returned into the world to share it.
This is the real message: sharing.
Chris, as a new Christ, after the desert wants to spread the good news.
And he finally reaches wisdom, learning that, thanks to forgiveness, we
can truly love someone.
And, in the end, he has forgiven all, even his parents.
The illumination is there, in that forgiveness, and those who see only the
critique of society in this film, they lose all its meaning.
5.
THE RELATIONSHIP BETWEEN THE
INDIVIDUAL AND THE GROUP
Social psychology is concerned with the scientific study of social
influence, or of the ways in which human thoughts, feelings and behaviors
are influenced by others. The social influence takes many forms, both
direct (such as advertising) and indirect (such as culture). This social
science differs from anthropology and sociology as it is not interested in
social situations in an objective sense, but in how people are influenced by
their interpretation or construction of the social environment.
It's important, then, to understand how a person perceives and interprets
the environment, rather than understanding it objectively.
Through social psychology, therefore, we can understand the factors that
determine people's thoughts and behaviors.
5.1
Needs and motivations behind human behaviors
What is meant by “need”?
From a psychological point of view, a need is defined as the partial or total
lack of one or more elements that constitute the good of the person.
In this regard, very interesting are some studies conducted between 1943
and 1954 by the American psychologist Abraham Maslow, who conceived
the concept of "Hierarchy of Needs" and popularized it in his 1954 book
“Motivation and Personality”.
This scale of needs is divided into five different levels, from the most basic
(necessary for the individual survival ) to the most complex (the social
ones).
This scale is internationally known as "The Maslow pyramid".
The levels conceived are:
1. Physiological needs (hunger, thirst, etc.).
2. Safety needs (protection)
3. Love and belonging needs (affection, identification)
4. Esteem needs (prestige, success)
5. Self-realization needs
Later, some critics have come to this scale, because it would simplify
drastically the real needs of men and, above all, their level of
"importance". The scale would therefore be more correct in purely
functional terms to the mere survival of the individual than in terms of
social achievement. They would be, therefore, psychophysiological needs
rather than psychological needs in the strict sense.
In every moment, thoughts and human behaviors are driven by a multitude
of overlapped motivations. After years of study, social psychologists have
identified two fundamental reasons behind human behaviors:
- the need to justify our thoughts and our actions (to feel good with our
own conscience);
- the need to be accurate;
A fundamental need for men, is to justify their previous behavior.
However, one of the most powerful causes of human behavior comes from
our need to preserve a stable and a positive image of ourselves .
We need to believe to be reasonable and respectable people who take the
right decisions and do not behave immorally.
There are many people who need to maintain high their self-esteem: they
need to see themselves as reputable, competent and reliable individuals.
This usually leads people to give a distorted view of the world in order to
feel good with themselves.
5.2
The fear of judgment
"Who knows what will people think or say about me..."
How many times we came in contact with this warning? Often, the
attention we invest in avoiding to receive a negative judgment, is greater
than the one we employ in building a spontaneous and authentic
individual.
Others' judgment turns into a need: to receive a positive opinion from the
others, we must meet their expectations; expectations which, during life,
become more and more challenging.
The fear of not being accepted, often leads people to adhere, without
hesitation, to all the conditions required by the group.
In this way, the phenomenon of “social pressure” arises.
To chase people's applause, we are forced to recite parts, to disguise
ourselves and to use some behaviors which are far from our true essence.
The others see our masks and they are not able to perceive us entirely.
This means that we feel more and more distant from the others, and
consequently, we feel more and more alone.
This isolation increases the identity conflict and, therefore, increases the
need to receive other people's judgment, consent and approval: we are
entering a vicious circle.
Behind the fear of judgment, there is always the presence of a relentless
“inner judge'” who condemn us.
And the penalty, the worst imaginable, is that of adapt ourselves to the
models the judge requires us, even at the risk of not being spontaneous.
The result is that we can not be ourselves, but we can not even be as we
would like to be, and this leads us to live with anxiety and discomfort.
5.3
The Facebook phenomenon: between virtual
identity and need for acceptance
One of the most interesting sociological phenomena of recent years which
better reflects the current identity crisis and the need to look different from
what we actually are, is that of “Facebook”.
The first thing we share on Facebook is of course our identity, represented
by a name and an image, which are not mandatory. Birth date and gender,
instead, are formally required to prevent registration for children under 13
years.
The nickname corresponds, in most cases, to our real first and last name,
because, as the slogan on the homepage says "Facebook helps you connect
and share with the people in your life," and it is easier to be found if we
use our own registry age.
Facebook doesn't want fake names.
The reason would be that Facebook is based on interactions that take place
in the real world and the use of pseudonyms, may contradict the values on
which our system is based.
However, our identity, also from a biological point of view, is constantly
changing, and a name and a birth date are not enough to classify us as
individuals : the identity is the result of an incessant construction, and is
not a stable and unchanging fact.
The profile picture, therefore, is very important, so we will choose a photo
where we look good, in a winking pose which would arouse interest. This
represents our real identity, definitely not those photos where we are tired,
disappointed and depressed. We are going to look for some incriminating
photos in others' profiles, because the dynamics is exactly this one: to
present our best side and to find morbidly the worst side in the others.
Therefore it is important to hide what is not presentable and confessabile,
because we might run the risk of not appeal to people. Since Facebook
began as a tool to speed dating, it is clear that, to get more dates, we need
to show us at our best.
Celebrity involves some sacrifice, and the micro-celebrities so widespread
on Facebook is not achievable without any commitment.
Fans must be able to contact their micro-idol in every single moment.
In a society based on standardized spectacle, we are all, at the same time,
applauding spectators and actors on stage, engaged in the representation of
our virtual identities.
It's impressive how many people want to tell their own lives in order to be
the center of attention.
Andy Warhol had predicted that everyone are entitled to fifteen minutes of
fame, but it's even worse than what we could imagine.
It is a celebrity popular to everyone, and it requires a compulsive update
and a radical transparency.
We feel famous, even when no one knows us. It's not necessary to have
specific skills, knowing how to act, sing, dance or talk: all you need is give
all to the cameras without filters.
What is your relationship status? It is important that everyone knows if
you are free, engaged, divorced or ready for adventure.
Share your emotional state, tell us now, “ What's on your mind? ”
Be transparent!
The most curious aspect is that the “blog style”, in which the yesterday
information, today are no longer important, it allows no stratification.
The experience is limited in a kind of eternal present: the past flows
inexorably down and no one is going to read the old posts, except for those
who want to find something rotten, because everyone has something to
hide.
The introduction of the “Timeline”, where people can insert photos and
posts, make available every aspect of our personality in a linear, clear and
consequential narrative without blind spots.
No depth, no complexity, no ambiguity.
Unlike what happens in the real world, on Facebook, things are, do not
become, and a status replaces another, simply by erasing it.
Our identity is fixed even if it changes.
We are free to choose: “do you like men or women?”
And if we change our mind, no problem: our new identity is a new "status"
which eliminates the old one.
In real life, however, the identities are complex bundles of qualities which
vibrate and change in every moment, because the memory of what we
have been, is built on our own story, and is not forever fixed on a profile.
So, why Facebook?
Most people spend their time on Facebook writing sentences, posting
links, doing tests and posting pictures in which they seem happy.
These, are all activities designed to self-representation, directed to appear
in public in a certain way.
Facebook, so, as a pantomime of the idea we have of ourself.
Behind this method of representation is hidden the will to show to others
for what we think, want and need to be.
A world of strangers, where is difficult to get into real contact with other
people; a world of lies, where the image we present to others, is fake.
The real reason why the majority of people sign up for Facebook, is the
attempt, more or less consciously, to soothe their loneliness.
The convulsive life of our times, has left less space for that enjoyable and
rewarding human interaction which, until a couple generations ago, it took
place in the streets and in bars.
Why do some people prefer the virtual interaction offered by Facebook
instead of the real one?
The answer is simple: Facebook, unlike the reality, is characterized by a
higher disinhibition in the emotional manifestations and this is due,
primarily, to the absence of the interlocutor's gaze.
On Facebook we show ourselves but, paradoxically, no one sees us.
The real comparison, with real people, has gone out of fashion.
Hiding behind a keyboard, inside our fake world created and studied in
every single detail, it seems to be the best solution, the most painless one.
Showing ourselves for what we really are, it seems, now more than ever,
almost impossible: the fear of rejection, of judgment, of not being accepted
...
But how beautiful and authentic is the real interaction, with all the
advantages and disadvantages that may derive?
A look, a caress or even a brutal rejection, can they actually be replaced by
a "like" or by a "comment"?
The desire to feel accepted can really be the only reason behind man's
behaviors?
Nowadays, the definition of man as a social animal, is being accepted
almost as a kind of axiom we must take for granted.
But how much, in social terms, has remained to that man?
Do we really need to start talking about "virtual-animal" rather than
"social-animal"?
L'HOMME: DE LA NATURE OU DE LA
CULTURE?
1.2 L'état de nature: Hobbes
L'état de nature chez Hobbes, est considéré comme un état hypothétique,
dans lequel les hommes ne sont pas encore associés à l'autre ni ne sont
régis par un appareil du gouvernement ou par des lois spécifiques.
Cette condition particulière de l'homme a été suggérée par divers
philosophes, comme Thomas Hobbes et Jean-Jacques Rousseau.
En particulier, le modèle hobbesien a dominé, pour sa simplicité et pour sa
rigueur, sur toute la philosophie politique des XVIIe et XVIIIe siècles.
Hobbes commence à partir de l'état de la nature considérée comme un état
de guerre universelle et perpétuelle, qui conduira à l'auto-destruction de
l'humanité. En tant que telle, c'est une condition d’où l'humanité doit
nécessairement sortir, et pour en sortir il faut parvenir à la paix (pax est
quaerenda).
Les hommes sont prêts à donner la liberté illimitée et le droit de toutes les
choses dont ils jouissent dans l'état de nature, et ils acceptent de se
soumettre à la puissance absolue du souverain dans la société civile, afin
d'atteindre l'objectif de la coexistence pacifique, sinon inaccessible.
Même si cet échange implique l'aliénation de tous les droits naturels, sauf
un, le droit à la vie, il sera toujours bénéfique, parce qu'il assure la sécurité
de l'existence de l'individu, son plus grand bien.
1.3 État d'individualisme conflictuel
Hobbes consacre à la description de l'état de nature, d'importantes sections
dans ses deux œuvres majeures, “De Cive” et le “Leviathan”.
Selon Hobbes, l'état de nature est l'état dans lequel les hommes vivent
avant de s’engager par un pacte d'association et de soumission, quel qu’il
soit.
Il est défini comme l'état dans lequel il n' existe que le «jus in omnia»
(droit de tous à tous), en l'absence de lois écrites et juridiques des
institutions politique; il représente l'état dans lequel tout est permis afin de
préserver la vie et les biens, et dans lequel les hommes suivent librement
leurs passions égoïstes.
Par conséquent, cet état est marqué par une absence totale de liens, à la
fois positifs et négatifs: c' est l'état de la liberté absolue ou, comme le dit
Hobbes, "l'état dans lequel il n'y a ni le gouvernement ni les gouvernés".
En raison de l'égalité naturelle des hommes, que Hobbes entend comme la
possibilité que chacun a de provoquer chez les autres le plus grand des
maux, la mort, et, surtout à cause de la tendance naturelle de l'homme à
entrer dans une relation de concurrence et d'agression avec les autres
(«homo homini lupus», l'homme est un loup pour l'homme), cet état de
liberté absolue devient immédiatement anarchie et état de guerre.
C'est précisément l'égalité naturelle qui fait de cet état, une guerre sans
frontières et sans solution («bellum omnium contra omnes», la guerre de
tous contre tous), parce qu’aucun gagnant ne sera jamais plus fort que les
autres, et tous peuvent être tués par tous par la force ou par la fraude.
En outre, cette guerre empêche de profiter de la grande liberté dont
l'homme pourrait jouir; il s'agit donc d'un état de liberté inutile, où la loi
naturelle elle-même est inutilisable.
Par conséquent, dans l'état de nature, il ne peut exister de possession stable
et exclusive des biens.
Non seulement la propriété et le domaine ne peuvent pas exister dans l'état
de nature, mais les conditions d'insécurité et de violence empêchent toute
forme d'agriculture, d'industrie, et de commerce: en un mot, toute forme de
civilisation.
Dans l'état de nature, enfin, car il n'y a pas de lois, il n'y a même ni le bien
ni le mal, et on peut voler, assassiner, commettre des actes immoraux sans
que cela soit considéré comme illégal: dans la guerre, en fait, tout est
considéré comme licite, et tous les moyens sont permis.
1.4 La nécessité de sortir de l'état de nature
La société civile a été fondée par la sortie de l'homme de cet état de
pauvreté et de peur. Mais pour fonder la société, tout devra changer: les
hommes doivent se donner de nouvelles règles de conduite morale et
sociale sans avoir aucun autre objectif que l'égalité et l'antagonisme initial;
il n y a pas, par exemple, les droits inhérents définis que la société
politique sera appelée ensuite à respecter, parce que dans l'état de nature, il
n y a que le «jus in omnia».
Il y a, donc, la nécessité de mettre en place une toute nouvelle réalité de
coexistence (la société civile), dont la légitimité est constituée par un pacte
d'union ou “contrat social”, qui a été librement conclu sur la base d'un
calcul rationnel et avec le but subjectif d'obtenir la garantie à la vie.
1.5 État hypothétique ou historique?
L'état de nature est une hypothèse logique avancée pour des raisons
d'argumentation: Hobbes veut démontrer que 'si' les hommes vivaient sans
lois et sans un pouvoir qui les maintient en échec, ils seraient constamment
en guerre les uns contre les autres.
Toutefois, cette hypothèse est confirmée par l'observation empirique des
coutumes des peuples sauvages, par exemple de l'Indien américain.
D'autres exemples de l'état de nature sont donnés par la guerre civile,
durant laquelle le pacte d'union s'arrête et les individus retournent à un état
pré - politique.
L'insistance de Hobbes sur la guerre comme une condition perpétuelle de
l'état naturel se réfléchit dans les histoires de querelles et dans les conflits
qui caractérisent la vie de la tribu. La misère de l'homme pré - civil est le
reflet de la pauvreté de la vie hors de l’Europe civilisée.
La nouveauté est que, maintenant, Hobbes ne présente pas ces conditions
de vie typiques, uniquement, de la bête sauvage qui vit sans Dieu, mais il
attribue ces conditions à toute l'humanité.
En dehors de la société politique organisée - explique Hobbes - l'homme
est un loup errant, et cela s' applique autant aux bons citoyens britanniques
vivant dans les villes, qu’aux Peaux rouges de l'Amérique.
1.6 Discours sur l'origine et les fondements de
l'inégalité parmi les hommes: l'état de nature
selon Rousseau
Une vision plus véridique et fiable que celle de Hobbes, à mon avis, celle
proposée par le philosophe suisse Jean-Jacques Rousseau. Dans le
“Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes”,
Rousseau a l'intention d'exploiter une déconstruction historique de
l'homme social pour revenir à l'homme naturel. Son but est d'arriver à
comprendre la nature originelle de l'homme afin de comprendre ce qui est
le fondement de l'inégalité qui prévaut dans la société.
Rousseau souligne, en particulier, l'importance de ne pas tomber dans
l'erreur des philosophes du droit naturel comme Locke, qui croyaient que
les fondements de la société étaient basés sur un contrat que les hommes
avaient conclu entre eux consciemment et rationnellement; toutefois, selon
Rousseau, un homme conscient et rationnel est inconcevable en dehors de
la société; Bien que Hobbes ait correctement identifié l'importance de faire
une reconstitution exacte de l'histoire de l'humanité comme la base de la
philosophie politique, une autre erreur commise par lui-même est, selon
Rousseau, d'avoir arbitrairement projeté sur l'homme dans l'état de nature,
des caractéristiques négatives, tels que l' orgueil ou la vanité qui
appartiennent à homme civilisé, déjà corrompu par la société.
Dans la préface, l'auteur souligne le fait que l'état d'origine de l'homme
sauvage qu' il a théorisé (l'état de la nature) est plus conçu comme un
temps théorique pour comprendre les principes des choses que comme une
phase historique qui a effectivement eu lieu par le passé.
Dans ce travail, une idée reste constante, celle qui considère que l'état de
nature, où les besoins humains étaient réduits au minimum nécessaire et
étaient parfaitement correspondant à ses souhaits, et où l'homme n' avait
pas de capacité de réflexion ni le pouvoir de se projeter dans l'avenir, était
une époque extraordinairement heureuse pour l'humanité.
La nature, conçue comme état original de l'homme sauvage ou comme
intériorité intègre et non corrompue de l'homme civilisé, a une connotation
toujours bénigne pour Rousseau, et la vie en contact direct avec elle, est
toujours considérée heureuse; alors «nos maux sont, pour la plupart, de
notre faute et nous aurions évité presque tous ces maux en gardant le mode
de vie simple, uniforme et solitaire qui a été prescrit par la nature.» (Écrits
politiques)
Du point de vue moral, en vivant dans l'isolement des autres membres de
son espèce (Rousseau nie l'existence chez l'homme d'une inclinaison
instinctive à la socialité), et, n’ayant presque aucune relation
interpersonnelle ou aucune obligation reconnue, la nature de l'homme n'est
ni bonne ni mauvaise.
Rousseau dispose de deux instincts (ou principes innés ou naturels) qui
régissent ses actions: le première est l'amour de soi (l'amour de soi-même)
ou le principe de l'auto-préservation, c'est-à-dire le sentiment qui le pousse
à éviter la souffrance et le danger et qui, sans conséquences
misanthropiques, le conduit naturellement à se préférer à d'autres; le
second instinct est la pitié, le sentiment qui répugne à voir d'autres êtres
humains souffrir.
Ces deux principes, en agissant ensemble, aident à préserver l'espèce
humaine dans le temps, et au contraire, la capacité de réflexion et la vie en
société, minent et érodent la compassion naturelle envers les autres.
Cependant, l'homme sauvage diffère des animaux pour une qualité morale,
le libre arbitre, qui grâce à un choix de volonté, lui permet d' échapper à
l'obéissance mécanique aux impulsions naturelles qui caractérise les bêtes.
De cette liberté découle la faculté humaine plus caractéristique, la
perfectibilité, c'est-à-dire sa capacité de se changer pour le meilleur ou
pour le pire, selon Rousseau.
L'homme, contrairement aux animaux, est un être capable de se modifier,
bien que sa perfectibilité soit ambivalente: Rousseau admet que «cette
faculté sans limites qui nous distingue est la source de tous les maux de
l'homme. » (Écrits politiques)
Et c'est du concept de la perfectibilité que se développe la reconstruction
historique de Rousseau: il montre que les besoins de l'homme sont d'abord
extrêmement limités et faciles à remplir; il souligne que dans l'état
d'origine, les hommes vivaient en isolement et que la famille n' était pas
une institution permanente. La sociabilité, en fait, est exclue des
caractéristiques de l'homme naturel.
Selon Rousseau, comme nous l’avons déjà mentionné, l'erreur principale
faite précédemment par certains philosophes, a été de penser à l'homme
naturel avec des caractéristiques de l'homme civilisé, comme la sociabilité,
la raison ou l' agressivité envers ses semblables.
En réalité, pour Rousseau, si l'homme ne résiste pas à ses deux tendances
naturelles, jamais il éprouvera des sentiments de haine envers l'autre, et
même s'il devait attaquer, ce serait seulement pour des raisons de survie.
C'est, en bref, la condition de l'homme dans l'état de nature: «concluons
qu’errant dans les forêts sans industrie, sans parole, sans domicile, sans
guerre, et sans liaisons, sans nul besoin de ses semblables, comme sans nul
désir de leur nuire, peut-être même sans jamais en reconnaître aucun
individuellement, l’homme sauvage sujet à peu de passions, et se suffisant
à lui-même, n’avait que les sentiments et les lumières propres à cet état,
qu’il ne sentait que ses vrais besoins, ne regardait que ce qu’il croyait avoir
intérêt de voir, et que son intelligence ne faisait pas plus de progrès que sa
vanité.» (Écrits politiques)
Rousseau ajoute qu’à ce stade, des concepts comme l'orgueil et le mépris
n'existaient pas, et la nature était fertile, il n'y avait donc pas besoin de
conflit intense, prolongé ou sanglant.
L'amour est vécu comme une satisfaction purement physique: l'homme
sauvage considère toutes les femmes au même niveau, et l'accouplement
dure assez longtemps pour satisfaire son instinct.
L'amour sentimental, vécu comme un choix d'une femme en particulier, est
le résultat de la vie en société.
En conclusion, l'homme dans la nature est un homme sans culture et sans
histoire.
Comme il n'y a pas d'éducation, il n'y a pas de progrès de génération en
génération, et l'inégalité parmi les hommes qui vivent de la même manière
en faisant les mêmes choses, est très faible: c'est la société qui produit des
inégalités.
2
LA CRISE DE L'HOMME MODERNE DANS
LA SOCIÉTÉ DE CONSOMMATION
Grâce à la reconstruction historique de l'homme que Rousseau nous donne,
nous arrivons à un point crucial de cette question: la cause réelle de la
corruption et de la méchanceté de l'homme, est attribuable à la société et,
indirectement, à l'homme lui-même. On doit, donc, analyser ce que semble
être devenue la société de consommation.
3.1 Les origines de la société de consommation
La révolution industrielle est née en Angleterre en 1760 et en Europe au
début du XIXe siècle. Les idées des Lumières et le développement
démocratique prennent forme après la Révolution française, en 1789. La
société destinée à devenir le modèle de consommation et du "bien-être",
celle de l'Amérique du Nord, gagne son indépendance en 1783.
Au cours des deux siècles qui suivirent, la société civile a été emportée par
un incroyable tourbillon de changements.
Une observation immédiate: est-ce qu’une période de deux cents ans, par
rapport à la vie de l'humanité, peut êtreconsidérée comme le droit chemin
ou comme la seule vérité?
La révolution industrielle est-elle née seulement de la découverte de
nouvelles techniques de travail et de production, ou même de l'hégémonie
égoïste de la nouvelle catégorie capitaliste?
Certes, l'importance des découvertes scientifiques et surtout leur quantité,
dans une période si courte, a facilité le phénomène.
Mais le fait que l'homme «invente» et qu' il «fasse des progrès» n'est pas
uniquement attribuable à ces deux siècles.
Les progrès techniques et scientifiques, en fait, sont amplifiés au
maximum, dans une accélération croissante, parce qu'ils trouvent un
terrain idéologique fertile pour les accueillir.
Le capitalisme moderne est un phénomène de puissance et
d’enchevêtrements idéologiques que la révolution industrielle trouve déjà
mature.
Dans le milieu du XVIe siècle, en fait, à la suite de «grandes réformes», en
particulier celle de Calvin, s'imposent de nouveaux concepts qui étaient
religieux et puis deviennent idéologiques et, puis encore, politique et
financier.
Calvin, à travers la doctrine de la prédestination, reconnaît dans le pouvoir
économique, une «élection» divine.
Sur cette base, le succès, ou le travail comme une source de revenu et de
richesse, sont glorifiés: pour la première fois, une autorité religieuse
déclare légal le prêt à intérêt de l'argent qui, jusque-là, avait été condamné
comme usure.
L'argent, ainsi anobli, n' est plus seulement un instrument du commerce,
mais le sujet lui-même sur le marché qui est destiné à croître en
importance, jusqu'à supplanter toutes les valeurs éthiques et devenir le
pivot de la société de consommation.
La révolution industrielle détermine, d'une part, le nouveau phénomène de
la mobilité sociale mais, d'autre part, une forme d'exploitation de l'homme
qui, dans la logique du capitalisme et du profit, peut dramatiquement
dégénérer.
La Révolution française termine le travail, en ajoutant, idéologiquement,
une exaltation de la raison libre de valeurs transcendantes et,
politiquement, la naissance de la démocratie égalitaire.
Bien que ces révolutions soient nées en Europe, ce qui représentera le
modèle moderne de la société de consommation c'est la société de
l'Amérique du Nord.
3.2 La société du bien-être
Richard Baxter, un porte-parole de l'éthique protestante, dit: «Si Dieu vous
montre un chemin, sur lequel vous pouvez gagner de manière légitime, et
vous refusez et suivez le chemin qui peut faire moins de profits, alors vous
vous opposez à l'un des objectifs de votre vocation. Vous refusez d'être des
administrateurs de Dieu, d'accepter ses dons et de les utiliser pour lui. En
effet, vous avez à travailler et être riche pour Dieu.»
Avec une si forte bénédiction divine, la course pour s'enrichir se déclenche.
Le mythe d'une prospérité généralisée et croissante comme but de la vie,
prend forme.
Les premiers objets de ce phénomène ont été le commerce des matières
premières et l'exploitation de vastes plantations avec l'Europe.
Pour cette exploitation, les Américains ont utilisé le travail des esclaves
noirs achetés avec l'argent des aventuriers.
Voici donc, une des premières conséquences émergentes de l'éthique
fondées sur l'argent: un argent qui peut tout acheter, même un être humain.
Il ne s'agit pas de colonialisme ou d' expansion de la civilisation, il s'agit
d'un esclavage raciste qui est injustifié et injustifiable.
La présomption du dollar à "acheter" tout et tout le monde est une forme
d'arrogance parmi les barbares, et ça ne peut rien avoir affaire avec la
civilisation humaine.
Toutefois, ce n'était pas une vraie forme de racisme et c’est démontré par
le fait que, pour des raisons, encore une fois, utilitaires, on a choisi
d'intégrer la population noire dans la société américaine et que, aujourd'hui
(par démagogie), des Noirs jouent des rôles importants dans la société.
L'esprit «éthique» du capitalisme américain, vient du désir d'accumulation
de l'argent et manifeste, d'abord, une aversion pour la consommation
imodérée.
Toutefois, on commence rapidement à découvrir les immenses possibilités
de richesse que l'industrialisation peut offrir.
La production doit se dilater et les produits doivent être vendus de plus en
plus.
La consommation devient essentielle et doit être encouragée, mythifiée et
agrandie.
La poursuite de la richesse est devenue une valeur essentielle et
permanente. Qui n' obtient pas un tel succès, est considéré comme
coupable.
La société américaine idèale devient la société du bien-être, du confort et
de la consommation.
Bien-être à la suite d'une vie consacrée à l'argent, confort comme une
récompense pour son succès: une société qui rejette toute idée éthique et
spirituelle, peut justifier sa propre existence seulement par des satisfactions
matérielles.
L'acquisition de l'argent donne de la joie, quels que soient les moyens
utilisés, tandis que la perte d'argent donne la souffrance et la dépression.
L' éthique morale fondée sur des valeurs spirituelles est remplacée par une
sorte d'éthique amorale qui est basée sur le dieu de l'argent.
L’ancien «décorum» des classes moyennes cède la place à un confort
massifié, toujours disponible et on développe une soif insatiable de biens,
dont l'utilité est de plus en plus éphémère.
On passe de modèles stables (héros - religieux - politiques) à des modèles
rapidement remplaçables (acteurs - chanteurs – joueurs).
Tout se résume à une dialectique de plaisir-douleur, et dans cette
dialectique tous les aspects de la vie qui peuvent causer de la douleur, ils
devraient être évités et ignorés.
Dans une vie consacrée au plaisir, il est absurde de s' attarder sur quelque
chose qui peut impliquer des sacrifices, des privations, ou de la souffrance.
Tout doit être amusant et les problèmes doivent être oubliés.
4.
ÉCHAPPER À LA SOCIÉTÉ : “INTO THE
WILD”
4.1 L'évasion et la critique de la société moderne
Après une analyse minutieuse de la société contemporaine faite dans les
paragraphes précédents, il est inévitable pour l'homme, d'avoir affaire à
une énorme difficulté pour se reconnaître dans une société fondée
principalement sur des valeurs qui ne sont pas authentiques et qui sont
difficiles à partager.
Trop souvent on a la nécessité d' échapper du contexte social, culturel et
politique dans lequel nous sommes plongés.
Cependant, il y a peu de gens qui trouvent le courage de quitter leur
routine quotidienne, leur solidité apparente et la sécurité que la vie
«ordinaire» semble donner.
Toutefois, un garçon capable de cet effort, a gagné le cœur de tous ceux
qui ne se sentent pas représentés par la société contemporaine: c'est
Christopher Johnson McCandless.
Autour de ce personnage si peu conventionnel, si pur et idéaliste, est né un
énorme tourbillon d'histoires et d'opinions, et beaucoup ont ressenti le
besoin de célébrer et raconter au monde l'histoire incroyable de ce jeune
homme.
En 2007, Sean Penn a présenté l'adaptation cinématographique des
dernières années de la vie de Christopher, intitulé Into the Wild ou Vers
l'inconnu, basée sur le récit Voyage au bout de la solitude (Into the Wild
pour le titre original) écrit par l' aventurier et journaliste Jon Krakauer.
Après avoir appris toutes les facettes de l'histoire de McCandless, le
réalisateur Sean Penn a été si frappé qu'il voulait acquérir les droits
d'adaptation cinématographique du livre.
Bien que Penn ait déjà préparé le script, il a été freiné par les parents du
jeune homme, qui n’étaient pas enclins à partager l'histoire dramatique de
leur fils.
Le réalisateur a dû attendre une dizaine d'années pour obtenir le
consentement de la famille McCandless pour commencer le filmage.
4.2 La trame
Les événements racontés dans le livre, ainsi que dans le film, sont le
résultat d'un grand assemblage de plusieurs documents laissés par
Christopher, mais ils sont aussi un ensemble d'entrevues et de réunions de
ceux qui ont eu la chance de connaître Chris pendant son voyage utopique.
Les témoignages de Penn et Krakauer utilisent un système qui ne se
déroule pas dans un récit linéaire, en alternant les événements des
dernières semaines de la vie du jeune, avec les événements de son
adolescence.
Christopher Johnson McCandless est né le 12 Février 1968 en Californie
du Sud.
Ses parents Walt McCandless et Wilhelmina Johnson qui se sont
rencontrés au collège, sont devenus très riches en raison de différentes
relations professionnelles que le père de Chris avait avec la NASA.
Après l'obtention du diplôme en histoire et en anthropologie à l’université
Emory à Atlanta, Christopher décide de s' éloigner de cette société devenue
si bourgeoise, matérialiste et consumériste qui le conduisait lentement vers
le genre de vie que tout le monde attendait de lui: une vie où il se sentait
terriblement opprimé.
Il décide de donner toutes ses économies, $ 24,000 en œuvres de
bienfaisance.
Il se éloigne de la maison avec une centaine de dollars, un sac à dos et sa
fidèle Datsun B210 jaune.
Chris commence donc son voyage extraordinaire qui l'amène à traverser
une partie de l'Amérique, en commençant par Atlanta et puis à traverser la
Côte Ouest, dans un pèlerinage de deux ans, en ayant seulement quelques
moyens à sa disposition et les multiples étapes faites dans les déserts
traversés.
Le but de McCandless était simple: rattraper les terres vierges de l'Alaska,
dans une sorte d'ascèse spirituelle et physique pour se purifier de la
mentalité vulgaire et utilitariste de la société capitaliste américaine.
Cette beauté naturelle le conduit à un état de bonheur intérieur.
Étape par étape, cependant, Chris se plonge de plus en plus dans la
solitude, jusqu'à défier ses chances de survie: la nature extrême est la
liberté et la vérité, mais elle représente aussi le risque et la menace.
Il vit exclusivement en mangeant gibier et des baies, et ce sera justement
une baie qui le conduira à la mort: Chris, dévoré par la faim, mange le fruit
empoisonné d'une plante sauvage qu'il pensait être comestible, qui va le
faire mourir après quelques jours.
Au cours de la longue agonie, il écrit sur un des livres qu'il lisait, que «Le
bonheur n'est réel que lorsqu'il est partagé».
4.6 La transformation intérieure et
l'importance du partage
Interpréter le roman ou le film ne tenant compte que de son côté matériel
et pratique, il serait trop trivial: un garçon qui quitte la famille et la société
et se réfugie dans les terres éloignées et les plus reculées de l'Alaska, pour
contester la société et ses mécanismes et pour échapper à la bigoterie et
l'hypocrisie du sentimentalisme bourgeois.
Si cela avait été l'intention de l'écrivain ou du réalisateur, ils auraient
échoué certainement.
Chris veut aller en Alaska pour trouver ce qu'il cherche, mais surtout pour
“se trouver”.
La nature est une métaphore pour une recherche intérieure qui vise à
découvrir l'authentique et le vrai.
Krakauer et Penn utilisent le voyage de Chris d’une manière symbolique,
mais plus que manifester une critique politique, ils veulent indiquer un
chemin à parcourir.
C' est la voie de l'intérieur, la grande route de l'humanité et du “connaistoi, toi-même”.
Chris ne veut pas vivre dans la solitude, mais il veut être «seul»: seul pour
entendre sa voix authentique.
Son intention est de rechercher la liberté absolue, qui n' existe pas dans le
monde civilisé, mais seulement à l'état sauvage.
Chris veut vivre à cette époque et en ce lieu, « …[sans] cartes, …[ni]
horloge, rien du tout. Des montagnes enneigées, des rivières, des ciels
étoilés. Seul, avec le désert ».
C' est une ode à la rébellion, qui décrit le désir de l'homme, qui a grandi
dans la société de consommation et en contraste avec la poursuite du
bonheur et de la vérité, de sortir de tout le conditionnement extérieur
qu'elle impose.
L' évasion d'un monde réputé invivable à tous points de vue, alors, devient
un impératif moral, une vocation qui traverse la vie de certaines âmes
pures: ceux qui, face à la perspective de vie fondée sur le conformisme,
renoncent à l'attrait du monde matériel et choisissent le défi d'une vie
réglée par la seule force de ses idéaux.
C' est la métaphore de la recherche d'un lieu idéalisé, le but ultime d'un
voyage qui a commencé comme une évasion et puis qui est devenu une
vérité subjective.
C' est la découverte de la sagesse, la découverte de son essence.
Diffuser l'histoire des citations de Thoreau, de Tolstoï et de Londres est
une démonstration claire que l'intention du directeur et de l'écrivain, est
celle d'indiquer une nouvelle façon de voir les choses.
Il aurait été facile de tomber dans des suggestions "new age" s'ils avaient
trop clairement fait des allusions à une illumination bouddhiste.
Mais la scène finale du film, avec Chris qui meurt avec un sourire, est une
véritable illumination: c'est le moment où il se rend compte que «le
bonheur n’est réel que lorsqu'il est partagé."
La grandeur de Penn et de Krakauer réside dans leur capacité à raconter
une histoire de transformation intérieure à travers un chemin qui serpente
dans le continent américain, dont la géographie est traditionnellement la
métaphore de la conquête des espaces intérieurs.
Mais alors, quel est le véritable défi?
S’isoler du reste du monde, renoncer au confort et voyager ou, jour après
jour, vivre la jungle et la routine quotidienne?
Il y a ceux qui croient dans la fuite et ceux qui croient dans le courage de
rester, ceux qui croient dans le voyage de retour et ceux qui ne voudraient
jamais quitter.
Si on veut trouver à tout prix une éventuelle «solution» pour tout le
monde, on a tort.
Il est faux de lire le chemin de Chris comme un simple geste politique,
parce que, en réalité, c'est seulement le chemin d'une personne qui a voulu
s' interroger sur la nature des relations sociales et sur leur inauthenticité;
il s'agit d' une personne qui choisit la voie de la solitude pour se
transformer intérieurement et pour trouver une nouvelle conscience. Après
une telle prise de conscience, Chris voudrait retourner dans le monde pour
partager ce qu'il a appris.
Le vrai message, c' est le partage.
Chris, comme un nouveau «rédempteur», veut répandre la bonne nouvelle
après le désert. Il atteint la sagesse en apprenant qu’avec le pardon, on peut
aimer vraiment.
Et, à la fin, il les a tous pardonné, même ses parents.
L'illumination est là, dans ce pardon, et ceux qui dans ce travail ne voient
que la critique de la société, perdent beaucoup de son sens.
5.
LA RELATION ENTRE L'INDIVIDU ET LE
GROUPE
5.1 Les besoins et les principales raisons à la base du
comportement de l'homme
Qu'est-ce qu’un «besoin»? Quels sont, d'un point de vue psychologique,
les besoins fondamentaux de l'homme?
En psychologie, un besoin est défini comme l'absence totale ou partielle
d'un ou plusieurs éléments qui constituent le bien de la personne.
À cet égard, les études menées entre 1943 et 1954 par le psychologue
américain Abraham Maslow, qui a conçu le concept de «hiérarchie des
besoins", sont très intéressantes.
Cette hiérarchie des besoins est divisé en cinq niveaux différents, du plus
simple (nécessaire à la survie de l'individu) au plus complexe (social).
L'individu se réalise à travers différentes étapes, qui doivent être remplies
de manière progressive. Cette échelle est internationalement connue
comme "La pyramide de Maslow".
Les niveaux de besoins qu'il conçoit sont:
1.
À la base, les besoins physiologiques (tels que la faim, la soif);
2. Ensuite, les besoins de sécurité et de protection (tels que le désir d'un
toit ou d'une bonne assurance). Ces deux aspects assurent la survie
physique d'une personne;
3. Puis viennent les besoins d'appartenance, besoins sociaux qui
reflètent la volonté de faire partie d'une famille, d'un groupe, d'une tribu;
4. Ensuite arrivent les besoins d'estime de soi (qui permettent de se
regarder dans le miroir le matin) pour des besoins psychologiques;
5. Enfin, apparaissent au sommet de la hiérarchie, les besoins d'autoaccomplissement (qui renvoient au désir de se réaliser soi-même à travers
une œuvre, un engagement).
Plus tard, il y a eu des critiques par rapport à cette identification, parce qu'
elle permettrait de simplifier considérablement les besoins réels de
l'homme et, surtout, leur niveau d’«importance». L'échelle serait donc plus
correcte en termes purement fonctionnels à la simple survie de l'individu et
en termes de réussite sociale. Ce serait, par conséquent, des besoins de
type psychophysiologique, plutôt que psychologique au sens strict.
À tous moments, les pensées et les comportements humains sont soustendus par une multitude de motivations qui se chevauchent. Après des
années d'étude, les psychologues sociaux ont identifié une des raisons
fondamentales à la base du comportement de l'homme: la nécessité de
préserver une image de soi stable et positive.
Nous devons croire que nous sommes des gens raisonnables et
respectables qui prennent bonnes décisions et qui ne se comportent pas de
façon immorale.
Il y a beaucoup de gens qui ont besoin de maintenir une haute estime de
soi, qui doivent se voir comme des individus de bonne réputation,
compétents et fiables. Cela conduit souvent à donner une vision déformée
du monde afin de se sentir bien dans sa peau.
5.2 L'influence des autres et la peur du jugement
“Que vont penser les gens?”
Combien de fois dans notre présent et notre passé, sommes-nous entrés en
contact avec cet avertissement? Souvent, l'attention que nous investissons
pour éviter de recevoir un jugement négatif des autres est plus grande que
l'attention que nous consacrons à la construction d'une personnalité
spontanée et authentique.
Les jugements des autres se transforment dans un besoin: nous avons
besoin de la vision positive de nos parents, nos frères, nos amis, et nous ne
tolérons pas les jugements négatifs.
Pour recevoir l'avis positif des autres, nous devons répondre à leurs
attentes; attentes qui, pendant le chemin de la vie, deviennent de plus en
plus difficiles.
La recherche de l'avis positif des autres est essentiellement fondée sur la
peur du rejet et de la marginalisation.
La peur de ne pas être accepté, conduit souvent à adhérer, sans hésitation, à
toutes les conditions que le groupe nécessite. Ainsi est né le phénomène de
la «pression sociale», un phénomène si important qu’il fait même oublier
les valeurs éthiques essentielles.
Pour être reconnus, nous jouons des rôles, nous nous cachons, nous
utilisons des comportements loin de notre véritable essence. Les autres,
donc, voient nos masques et ne perçoivent pas notre véritable essence.
Cela signifie que nous nous sentons de plus en plus loin des autres et par
conséquent, nous nous sentons de plus en plus seuls.
Cet isolement augmente le conflit d'identité et, par conséquent, augmente
la nécessité du jugement, du consentement et de l'approbation des autres.
Derrière de la crainte du jugement, il y a toujours la présence d'un “juge
intérieur” implacable qui nous condamne. Et la peine, la pire qu'on puisse
imaginer, c' est celle de s' adapter aux modèles que le juge exige de nous,
au prix de ne pas être spontanés.
Le résultat est que nous ne sommes pas nous-mêmes, mais nous ne
pouvons pas être non plus ce que nous voudrions être, et cela nous conduit
à vivre le conflit intérieur avec anxiété et inconfort.
5.3 Le phénomène "Facebook": entre l'identité virtuelle
et la nécessité de l'acceptation
Un des phénomènes sociologiques les plus intéressants de ces dernières
années et qui reflète le mieux la crise d'identité actuelle et la nécessité
d'apparaître différents de ce que nous sommes, est certainement le
phénomène de "Facebook".
C’est tout naturellement notre identité que nous partageons d’abord sur
Facebook, à travers un nom. Date de naissance et sexe doivent être
indiqués, pour éviter que des jeunes de moins de treize ans s’inscrivent.
Le pseudonyme utilisé correspond, dans la grande majorité des cas, à nos
véritables nom et prénom. Comme le dit le slogan en page d’accueil:
«Facebook vous permet de vous connecter et d’échanger avec les
personnes de votre entourage». Il est plus facile de trouver quelqu’un s’il
utilise sa véritable identité.
Facebook ne veut pas qu’on ait recours à de faux noms car le réseau
s’affiche comme «une communauté dans laquelle les gens communiquent
en exposant leur identité réelle. Nous demandons à chacun d’utiliser ses
vrais prénom et nom de famille. Cela aide à garantir la sécurité de notre
communauté. La sécurité de notre communauté est très importante à nos
yeux. C’est la raison pour laquelle nous supprimons les comptes établis
avec un faux nom».
L’avatar que nous choisissons pour notre profil est très important. Nous
mettrons donc une photographie qui nous avantage et qui suscite de
l’intérêt. Voilà notre vrai “moi”, pas certainement les photos sur lesquelles
nous apparaissons fatigués, blasés, déprimés. Les photos compromettantes,
nous irons les chercher sur les profils des autres, parce que la dynamique
de la délation/auto-délation fonctionne exactement de cette façon: chacun
veut mettre en valeur ses meilleurs côtés et cherche maladivement les
mauvais côtés des autres.
Facebook étant conçu comme un outil de “speed dating”, pour chercher
d’éventuels «partenaires» dans un circuit le plus vaste possible, il est clair
que pour obtenir le maximum de rendez-vous possible, il faut se montrer
au mieux de sa forme.
La célébrité implique donc qu’on fasse des sacrifices. Même la microcélébrité, si répandue sur Facebook, ne peut être obtenue sans un peu
d’exhibitionnisme. Les fans doivent pouvoir contacter à tout moment leur
micro-idole. On se sent célèbre même quand on est des parfaits inconnus.
Il ne sert à rien d' avoir des compétences spécifiques, de savoir jouer la
comédie, chanter ou danser, parler en public, ni même d’être beau. Il suffit
de tout donner aux caméras. Facebook introduit des outils de transparence
qui prennent la forme de cases à valider ou de formulaires à remplir:
“quelle est votre situation sur le plan sentimental?”
Il est important que tout le monde sache si vous êtes libre, divorcé, disposé
à l’aventure. “Partagez vos états d’âme!”. «A quoi pensez-vous en ce
moment?» Soyez transparent!
Avec l’introduction sur la nouvelle interface de Facebook de la
“Timeline”, une ligne du temps sur laquelle on peut insérer des photos, des
messages et des contenus qui se rapportent à la période précédant
l’ouverture du compte, les informations de la veille sont totalement
insignifiantes aujourd’hui. L’expérience est limitée dans une sorte de
“présent éternel”. Le passé descend inexorablement. Il n'y a aucune
profondeur, aucune complexité. La réalité, cependant, est différente et,
dans la vie réelle, «les identités sont des faisceaux de qualités complexes
qui vibrent, qui souvent se modifient et changent, parfois
douloureusement, parce que la mémoire de ce que nous avons été, est
construite sur l'oubli, non pas sur la mémoire fixée pour l'éternité dans un
profil. »
Mais alors, pourquoi choisir “Facebook”?
Pourquoi choisir un monde d'étrangers, où il est difficile d'entrer en contact
avec des personnes réelles? En fin de compte, la vraie raison pour laquelle
la majorité des utilisateurs s' inscrit sur Facebook est la tentative, plus ou
moins consciente, d' atténuer leur solitude. La vie convulsive de notre
temps, a laissé moins de place à l'interaction humaine, agréable et
enrichissante, qui, il y a 40 ans, avait lieu dans les rues d'Italie (et du
monde) et dans les bars. Pourquoi préférer l'interaction virtuelle que
Facebook nous offre, au lieu d'une interaction vraie? La réponse est
simple: Facebook, contrairement à la réalité, se caractérise par une
disinhibition plus élevée des manifestations émotionnelles et cela est dû,
principalement, à l'absence du regard de l'interlocuteur. Sur Facebook,
nous nous montrons, mais, paradoxalement, personne ne nous voit. Se
cacher derrière un clavier, à l'intérieur de notre monde créé et étudié en
détails, semble, donc, la meilleure solution, la plus indolore. Se montrer
pour ce qu'on est, aujourd'hui plus que jamais, semble difficile, presque
impossible: la peur du rejet, du jugement, de ne pas être accepté ...
L'interaction réelle, vraie et authentique, avec tous les avantages et les
inconvénients qui suivent, un regard, une caresse, l'embarras ou même un
rejet brutal, peuvent-ils effectivement être remplacés par un «j'aime» ou un
«commenter»? Est-ce que le désir de se sentir accepté peut vraiment être la
seule raison à la base du comportement de l'homme? Aujourd'hui, la
définition de l'homme comme un animal social, est acceptée presque
comme une sorte d'axiome que nous devons prendre pour acquis. Mais,
aujourd'hui, combien de socialité reste-il dans cet homme? Devons-nous
vraiment commencer à parler d’«animal virtuel» plutôt que d’«animal
social»?