18. n. 1 gennaio 2003 - Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica
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18. n. 1 gennaio 2003 - Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA ANNO X - NUMERO l GENNAIO-GIUGNO 2003 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA Finito di stampare nel mese di MARZO del 2003 dalla tipografia Grafica Vallelunga In copertina: R. MAGRITTE, La perspective amoureuse, 1935 Copyright Succ. R. Magritte - by S.I.A.E./1993 La rivista PSICOTERAPIA PSICOANALITICA aderisce alla UNIONE STAMPA PERIODICA ITALIANA PSICOTERAPIA PSICOANALITICA Rivista semestrale edita dalla SIPP SOCIETÀ ITALIANA DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA Direttore MARIA LUCIA MASCAGNI Redattore capo LUCIA SCHIAPPOLI Redazione A. D’ANDREA, F. DI FRANCISCA, E. ANICOLINI, A SABATINI SCALMATI, G.P. SASSO, G. STARACE Comitato di lettura M.L. ALGINI, G. AMODEO, M.C. AUTERI, I. AZZARO, A BRUNI, V. CALIFANO, P. CATARCI, L. DE LAURO, G. DE PILATO, G. DE RENZIS, P. DI BENEDETTO, C. FARINA, E. FERRETTI, A FERRUTA, A. LANZA, R. MANFREDI, F. MARAZIA, G. MILANA, S. MILANO, M.G. MINETTI, M.G. PINI, A VALENTE, G. ZANOCCO, M. ZIEGELER Impaginazione, grafica e Servizi Editoriali Revery Studio Grafico di MONICA INFANTINO DIREZIONE, REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE Via Po, 102 - 00198 Roma Tel. 06.85.35.86.50 Fax 06.85.80.05.67 http://www.psychomedia.itlsipp/pstrpsan.htm Registrazione al tribunale di Roma n. 297 del 917/1993 Direttore Responsabile: Maria Lucia Mascagni Sommario 6 Editoriale MARIA LUCIA MASCAGNI LAVORARE IL PENSIERO 12 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale”) CELESTINO GENOVESE 32 Identità rubate MARIELLA CIAMBELLI 44 Il corpo culturale: Il corpo come superficie d’iscrizione MARIA LUCILA PELENTO 52 Tra le impalcature della metapsicologia ANTONIO ALBERTO SEMI intervistato da Maria Lucia Mascagni CONDIVIDERE LA CURA 70 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoterapeutica: oggetto trasformativo o conservativo? ANNA GIAVEDONI 84 Il ruolo della psicofarmacologia nell’ambito degli approcci terapeutici nelle malattie mentali JORGE PEREZ, ANNA PLACENTINO, LIDIA RAVELLI, PAOLO BRAMBILLA 94 Sopravvivere Le attività espressive nelle istituzioni di cura ANNA FERRUTA 106 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico MARTA VIGORELLI 126 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” ANGELO BARBIERI, ENRICO COGO 140 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica LUIGI SCOPPOLA 160 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale GIUSEPPE DI LEONE NOTE 176 Empatia e complessità Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini FELICIA DI FRANCISCA LETTURE 188 ANTONINO FERRO Fattori di malattia, fattori di guarigione. Genesi della sofferenza e cura psicoanalitica (Claudio Fabbrici) 190 ADAMO VERGINE (a cura di) Trascrivere l’inconscio. Problemi attuali della clinica e della tecnica psicoanalitica ( Lucia Schiappoli) 198 IN MEMORIA Editoriale Editoriale Se i compleanni delle riviste si contano dalla data della loro registrazione presso un tribunale, Psicoterapia Psicoanalitica sta per compiere dieci anni. La rivista, a lungo pensata, è stata voluta dalla nostra Società ed è stata costruita soprattutto da Guglielmo Capogrossi Guarna. Costruita non solo in quanto spazio per il pensiero, ma anche in quanto oggetto concreto: il colore e la grana della copertina, la riproduzione de La perspective amoureuse di Magritte, l’impostazione grafica delle pagine e delle sezioni... E tutti sappiamo per esperienza quanto siano importanti questi particolari nella nostra relazione di consuetudine con le riviste che ci sono care. Nell’Editoriale del numero 1, Mario Fiore, allora Presidente della SIPP, proponeva la Rivista come uno strumento privilegiato di comunicazione e di dibattito e come un contenitore dell’elaborazione “concettuale e metodologica” che nasce dalla psicoterapia psicoanalitica. Un contenitore, egli precisava - in perfetta consonanza con il suo cognome - “che sia come un vivaio, dove il seme può germogliare e la pianta radicare, prima di essere messa a dimora per fruttificare. L’idea è dunque quella di pubblicare una Rivista che abbia la funzione di laboratorio più che di archivio”. Guglielmo Capogrossi Guarna è stato Direttore di Psicoterapia Psicoanalitica dall’inizio a tutto il 2002. Intorno a lui ha lavorato un comitato di redazione che si è presto costituito come un gruppo di lavoro, variegato nelle competenze e negli interessi scientifici, coeso nel progetto. Forse perché ho fatto parte di questo gruppo fin dalla preparazione del Numero 0, mi viene spontaneo guardare per prima cosa indietro, alle nostre “origini”. Prendiamo dunque dalla libreria il Numero 0. Fascicolo smilzo, forse l’unica volta che siamo riusciti a “contenerci” al di sotto delle centosessanta pagine; il verde della nostra copertina qui è pallidissimo, quasi giallo. L’Editoriale è naturalmente del Direttore. Mi limiterò a una sola citazione da questo testo molto ricco di Capogrossi. ‘‘Vorremmo dunque scrive Guglielmo - utilizzare lo spazio di questa nuova Rivista per ritrovare l’essenza del pensiero di Freud, che consiste nel lavorare per prendere coscienza del proprio inconscio”. E, subito dopo, segnala il rischio del ricorso difensivo all’intellettualizzazione che potrebbe “farci perdere la capacità di ‘far lavorare il pensiero’ [...]”. 6 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Editoriale Mi sembra che non si possa dir meglio il proposito di una rivista di psicoterapia psicoanalitica. Lavoriamo con l’inconscio, cerchiamo il modo di rappresentare l’inconscio alla coscienza, pur continuando a sapere che l’inconscio è e resta irrappresentabile; lavoriamo intorno a una teoria che può giustificarsi solo se parte dall’esperienza, e dall’esperienza clinica, e che tuttavia è continuamente spinta dall’esigenza di rappresentare tutta la complessità della realtà psichica e di inventare gli strumenti per farlo. Questo intento accomuna tutti coloro che si interrogano sugli esseri umani (e perciò su di sé e sul proprio paziente) con la psicoanalisi. E questa è ovviamente anche la ragione per cui la nostra rivista ha da sempre accolto scritti di soci come di autori esterni, giacché il pensiero, si sa, ha dimensioni più ampie e mobili di quelle delle Società e limiti e confini assai differenti. C’è comunque un’identità dei gruppi societari e dentro alle Società si formano gruppi di ricerca. Noi ci proponiamo di offrire con la nostra rivista uno spazio anche per queste nostre identità interne e per il pensiero che tali gruppi producono, uno spazio di visibilità e insieme di confronto internoesterno. C’è infine un’identità delle riviste e anch’essa, per essere viva, deve essere in continua costruzione. Ne siamo tanto consapevoli che negli ultimi anni abbiamo inventato una sezione “Riviste”, mossi dal desiderio di cominciare una “conversazione”, uno scambio, un confronto anche tra riviste. La costruzione dell’identità della nostra rivista, con i suoi slanci e con le sue cadute, è sotto gli occhi di tutti i nostri lettori, numero per numero. Continuerà ad essere così. Il bello (e anche il brutto) di lavorare a una rivista è che si produce un oggetto concreto; ogni numero, quando esce, è quello che è, immodificabile. Però non definitivo, perché sarà seguito da un altro numero... Continuità e novità dovrebbero intrecciarsi in questa costruzione e quando le cose vanno bene l’una apre la strada all’altra. Da un po’ di tempo abbiamo inventato un’altra sezione, “spazio aperto”, per accogliere brevi interventi e brevi discussioni relativi a scritti pubblicati sulla rivista. Raccogliamo i primi frutti di tale esperienza aprendo questo numero con un gruppo di lavori che riprendono o discutono, all’interno del quadro concettuale proprio a ciascun autore, temi affrontati da altri autori nei numeri precedenti. Un fitto scambio all’interno della rivista ma anche all’esterno: uno di questi lavori, scritto per la nostra rivista, esce contemporaneamente su una rivista francese con la quale abbiamo una delle conversazioni più assidue. Questa prima parte del numero, che abbiamo voluto intitolare “lavorare il pensiero”, si conclude con un’intervista nata dalla nostra continua esigenza di ripensare come Freud lavorasse il proprio pensiero. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 7 Editoriale La seconda parte del numero, che presentiamo sotto il titolo “condividere la cura”, riunisce lavori nati dalla riflessione su alcune di quelle esperienze cliniche in cui la psicoterapia è possibile solo se c’è una rete terapeutica - è il caso delle istituzioni - o richiede comunque una collaborazione dello psicoterapeuta psicoanalitico con altri specialisti. Un tale ambito di “condivisione della cura” esige che in relazione alla particolarità di ciascuna situazione venga ripensato il senso delle articolazioni possibili tra i diversi strumenti clinici e che ci si interroghi via via sulle problematiche profonde che proprio nella condivisione si configurano. Quanto ai prossimi numeri abbiamo progettato di organizzare una parte consistente di ciascuno di essi intorno a un tema che consenta una molteplicità di approcci. Non numeri monografici dunque, ma l’occasione per far lavorare e convergere il pensiero di alcuni autori intorno a un tema molto aperto. Ci sembra che questo possa aiutarci a fare della nostra rivista quel “vivaio” che costituiva l’augurio degli inizi. In ogni numero, a cominciare da questo, indicheremo i temi scelti come fulcro per i due numeri successivi. Ci sembra infine che i tempi siano maturi perché Psicoterapia Psicoanalitica pubblichi il suo primo Quaderno. Uscirà nel 2004 e avrà per tema L’irrappresentabile. MARIA LUCIA MASCAGNI 8 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 LAVORARE IL PENSIERO La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” CELESTINO GENOVESE La pulsione e il suo soggetto* (“Al di qua o al di sotto del sessuale”) Molto spesso la sofferenza psichica si presenta con intensità evidente, ma allo stesso tempo con una tale complessità di aspetti e implicazioni, da renderne sempre difficile anche la sola descrizione. Chi affronta l’impresa di esporre un caso clinico conosce molto bene questa difficoltà e sa in anticipo di dover rinunciare ad una rappresentazione del tutto esauriente ed efficace di una condizione di sofferenza così come può essere concretamente esperita nella relazione diretta con il paziente. Di solito il tentativo di colmare questo inevitabile divario tra descrizione ed esperienza si articola mediante vari strumenti, tra i quali, ad esempio, l’uso talvolta di un linguaggio evocativo, se non addirittura poetico (la poesia è da sempre il mezzo elettivo di espressione della sofferenza psichica), l’esplorazione della propria risonanza emotiva nella relazione (che alcuni confondono, però, con il controtransfert), il ricorso a metafore e ad astrazioni concettuali che possano rendere descrivibile in forma piana ciò che altrimenti rimane condensato in un grumo che resiste ad ogni verbalizzazione. D’altra parte, quello di realtà psichica, della quale la sofferenza è espressione e che costituisce il campo delineato dalla psicoanalisi nonché il suo oggetto, è esso stesso un concetto complesso e sfuggente, se è vero che la metapsicologia freudiana, costruita per darne conto, consiste nell’elaborazione di “un complesso di modelli concettuali più o meno distanti dall’esperienza come la finzione1 di un apparato psichico diviso in istanze, la teoria delle pulsioni, il processo della rimo* Questo lavoro è stato concepito dopo la lettura di “Fantasmi d'amore” di Catherine Chabert (Psicoterapia Psicoanalitica, 9, l, 2002). La versione originale dello scritto della Chabert era apparsa in Le fait de l'analyse, 2, 2001 con il titolo Fantômes d'amour. Ora questo scritto, che Celestino Genovese ha destinato alla nostra rivista, esce contemporaneamente, in versione un poco ridotta, su penser/rêver (attuale titolo della rivista diretta da Michel Gribinski). II sottotitolo del lavoro di Genovese (titolo nella versione francese) cita un'espressione che Catherine Chabert usa a proposito del pensiero di Winnicott. Su “Fantasmi d'amore” della Chabert si veda anche “Una lunga traversata” di Anna Ferruta, intervento per “spazio aperto”, pubblicato in Psicoterapia Psicoanalitica, 2, 2002. [NdR] 1 Il corsivo è mio. 12 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” zione, ecc.” (Laplanche e Pontalis 1967; 315-316). Mantenere la consapevolezza di questo carattere finzionale dei modelli esplicativi della teoria psicoanalitica è una condizione essenziale perché la dialettica scientifica conservi la sua potenzialità creativa. Altrimenti, il rischio è quello di oscillare tra l’esegesi del testo freudiano, da un lato, e l’inseguimento, dall’altro, di una impossibile verificabilità in altri ambiti disciplinari dei nostri assunti teorici. In questo senso, si potrebbe forse dire che la ricerca psicoanalitica costituisce, molto più di altre, un esempio di fenomeno transizionale, nella pregnante accezione winnicottiana. Il problema sul quale vorrei soffermarmi concerne le differenze e le relazioni che intercorrono tra due aspetti, che, appunto con un artificio concettuale, mi sembra di poter individuare nell’articolazione della sofferenza psichica. Si tratta di due livelli che potremmo convenzionalmente indicare come dimensione drammatica (o tragica) e dimensione catastrofica. Per dimensione drammatica intendo quella che poggia su uno dei capisaldi della teoria freudiana, e cioè il tessuto fantasmatico inconscio, caratterizzato da una trama più o meno complessa e generatrice di conflitti, che trovano molto spesso la loro espressione nel compromesso di un quadro sintomatico variamente articolabile. Altre volte, la soluzione di compromesso, alternativa a quella nevrotica, come ci indica Freud, è data dalla creatività artistica, che, come il lavoro onirico, può esprimere attraverso la trasfigurazione ciò che rimane sotto il dominio della rimozione. Il teatro tragico greco ne è l’esempio più noto e, infatti, sappiamo come da esso Freud abbia compiuto il percorso inverso, risalendo dall’opera sofoclea all’universale trama inconscia dell’Edipo. La rappresentazione teatrale costituisce la “messa in scena” fuori di sé di ciò che la rimozione ha reso irrappresentabile dentro di sé. In questo modo essa stabilisce, e insieme nega, un nesso tra interno ed esterno in un’area intermedia, nella quale la catarsi è resa possibile dall’allusione al dramma inconscio dello spettatore, trasfigurato, però, nella finzione, in modo da renderlo contemporaneamente altro. Parte del lavoro analitico consiste nello svelamento del senso di questa soluzione creativa e nel sofferto riconoscimento che la trama dell’Edipo è la “mia” trama. Si innesca, così, un processo che consente una riformulazione della narrazione autobiografica: potremmo dire che un punto di forza della psicoanalisi è proprio quello di poter modificare il passato (impresa altrimenti improponibile) e conseguentemente le opportunità del presente. Per dimensione catastrofica intendo, invece, la brusca rottura di un equilibrio che comporta il collasso dell’organizzazione psichica nel suo insieme. Questa rottura, perciò, non è elaborabile mediante la narrazione e non è soggetta a rimozione. Il suo carattere inconscio ha implicazioni per certi aspetti cognitive: esso, infatti, non è la conseguenza di un meccanismo difensivo, bensì costituisce PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 13 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” la sua natura di evento non inquadrabile dall’esperienza. Ciò può accadere o perché l’organizzazione psichica si regge in maniera precaria, o comunque perché inadeguata, dal punto di vista economico, a sostenere un impatto quantitativamente insostenibile. In ogni caso, il crollo è caratterizzato dalla mancanza di uno spazio interno che faccia da “scena”, affinché una trama possa svolgersi nella sua processualità2. Sul piano esperienziale i derivati di questa condizione si possono tradurre in angoscia del vuoto e di una “caduta senza fine” (Winnicott 1949), “angoscia di perdita di sé” (Gaddini 1976-78), smarrimento nella “vertigine del non senso” (Genovese 1999); sono tutte espressioni necessariamente paradossali, perché si prefiggono di descrivere verbalmente vissuti non collegabili a funzioni rappresentative, molto vicini all’area del somatico. Winnicott (1962) ha cercato di rendere questo tipo di angoscia nell’infante parlando di “angosce impensabili” o anche di “agonie primitive” (Winnicott 1963). Dal punto di vista evolutivo - anche qui la chiarezza espositiva comporta qualche schematismo - la dimensione catastrofica attiene naturalmente a livelli di sviluppo psichico molto più arcaici di quelli ai quali si riferisce la dimensione tragica. In termini freudiani, infatti, potremmo dire che essa ha la sua condizione elettiva in quella fase della vita nella quale la cosa non ha ancora incontrato la parola (Freud 1915b), oppure quando il soggetto non ha ancora conferito all’oggetto il carattere di alterità (Freud 1925). L’impossibilità di distinguere tra me e non-me si accompagna ovviamente all’impossibilità di organizzare lo spazio e di percepirsi in una sequenza temporale. Per quanto riguarda, invece, le relazioni intercorrenti fra queste due dimensioni, esse sono certamente molteplici. Ricordo, solo per fare un esempio, che gli studi psicoanalitici, a cominciare dallo stesso Freud (1915b), hanno spesso sottolineato come l’impatto con una dimensione tragica, nella quale l’intensità del conflitto raggiunga livelli tali da travolgere l’Io, possa comportare, come estrema difesa, la frammentazione di quest’ultimo. In questo caso, la catastrofe irrompe come corto circuito psicotico, nel quale si alterna e si intreccia continuamente con l’eccesso di dramma: si tratta dello stesso corto circuito che spezza il legame tra le parole e le cose o, meglio ancora, che produce il collasso della parola sulla cosa. 2 Ricordo che “scena” deriva dal greco σκηνη (schené) - che prima ancora vuol dire “tenda”, “abitazione” -, da cui deriva anche σκηνος (schenos) - con lo stesso significato, ma anche come “corpo” nel senso, però, di spazio delimitato abitato dall’anima [v. ad es. in Assioco o della morte attribuito (sembra erroneamente) a Platone] 14 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” L’esperienza clinica, tuttavia, ha mostrato che vi sono situazioni nelle quali la narrazione tragica può assumere, a sua volta, una funzione difensiva rispetto alla minaccia incombente di dissolversi nel vuoto. In alcuni processi psicotici, infatti, o in alcuni casi borderline, la matrice molto arcaica della sofferenza psichica rende impossibile qualunque inquadramento narrativo che faccia da argine all’angoscia senza nome. Può accadere, allora, che a-posteriori vengano reperite trame narrative, basate su ricordi di epoche più avanzate dell’infanzia, che svolgono la funzione di fornire un sensovicario ad una infelicità altrimenti irrappresentabile (Genovese 1994). Si tratta di qualcosa di molto diverso dai ricordi di copertura, poiché in questo caso le vicende o le situazioni ricordate non sostituiscono altri ricordi che rimangono rimossi, ma tendono a coprire un vuoto rappresentazionale, che renderebbe ingestibile l’angoscia. Ciò spiega anche la rigidità di questo materiale mnestico, che viene proposto sempre uguale e insistentemente, il più delle volte come compulsiva dimostrazione di una deprivazione o di vessazioni subite nell’infanzia, responsabili di una sofferenza vissuta oramai come irreversibile. Tali rievocazioni hanno spesso il carattere di certi romanzi ottocenteschi, dove il protagonista, derelitto, è vittima (ma anche eroe) di ogni angheria ad opera di un’umanità cinica e degradata. In analisi il lavoro interpretativo si rivela il più delle volte inefficace, perché ogni trasformazione di questi miti autobiografici rischierebbe di far vacillare la loro funzione difensiva, liberando l’angoscia catastrofica precariamente imbrigliata in argini costruiti ad hoc. L’occasione di riprendere questo argomento mi si è presentata leggendo su Psicoterapia Psicoanalitica, in traduzione italiana, un saggio di Catherine Chabert (2001), nel quale viene proposto il caso di un analizzando, Simone, che l’autrice descrive utilizzando, come principale chiave di lettura, il problema della scena primaria. L’elemento cardine della storia di questo paziente è la perdita del padre quando era “molto piccolo” (Simone però non sa dire esattamente quando), alla quale succede dopo pochi anni anche la morte della madre (neanche in questo caso Simone sa collocare nel tempo l’evento. Sa solo che accadde quando “era ancora piccolo”). Vediamo subito che questa duplice prematura perdita costituisce certamente l’antefatto indispensabile per comprendere l’elaborazione psichica che ne consegue. Ma contemporaneamente constatiamo che la mancanza del dato temporale impedisce una ricostruzione anamnestica. Naturalmente il lavoro analitico, entro certi limiti, può prescindere da questo tipo di precisazioni: esso, infatti, fa riferimento alla verità costruita dal fantasma e non a quella dei fatti storici (Green, 2000). Tuttavia, qui la cosa assume un rilievo particolare, in quanto la Chabert, dopo aver centrato, come ho detto, tutta la presentazione del caso sull’ipotesi interpretativa della scena primaria (“la madre ha raggiunto il padre, la donna ha ritrovato l’uomo, il suo uomo, e il bambino è rimasto solo”, p. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 15 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” 33), nella seconda parte del saggio introduce un imprevedibile riferimento a Winnicott per poi sottoporlo ad una critica radicale. Definisco imprevedibile questo riferimento perché esso viene introdotto con una frase (“Sempre pensando a Simone, mi è accaduto recentemente di tornare su ‘La paura del crollo’ [...] e vi ho trovato un’idea forte di Winnicott che avevo dimenticato dal tempo delle mie vecchie letture di quel testo”, p. 37), che sembra alludere alla possibilità di rileggere il caso in modo completamente diverso, alla luce del contributo winnicottiano. Possibilità subito scartata non perché inefficace sul piano clinico, ma per una ragione che chiamerei teorico-ideologica. Ecco, infatti, la prima considerazione che la Chabert fa sul saggio di Winnicott: “Winnicott assegna la paura del crollo a un ‘inconscio’ che egli curiosamente distingue da quello della nevrosi e anche dall’inconscio freudiano. La paura del crollo caratterizzerebbe delle modalità psicotiche di difesa contro l’angoscia di perdita dell’unità del Self e non contro l’angoscia di castrazione”; e immediatamente dopo così commenta: “Questa distinzione, soprattutto per la sua successiva utilizzazione da parte di altri psicoanalisti, mi pareva partecipare del vasto movimento di desessualizzazione che ha colpito la psicoanalisi dopo la fine della seconda guerra mondiale. Questo fenomeno si può collegare all’estrema focalizzazione sul ‘materno’ che, a quanto pare, obbliga a scartare la donna nella madre e a rimuovere la sua sessualità perché essa richiama delle rappresentazioni insostenibili: in particolare, queste rinviano ad un tempo di non-esistenza, un passato prima della vita che si confonde con la morte” (pp. 37-38). In queste poche righe è condensata una tale quantità di problemi che lo spazio a mia disposizione non sarebbe forse sufficiente neanche ad elencarli. Individueremo, perciò, solo alcuni punti, sorvolando su altre questioni come, ad esempio, quella concernente un ‘inconscio’ distinto da quello delle nevrosi - che non è poi una vera novità, se pensiamo al concetto, già freudiano, di inconscio non rimosso (Freud 1922; 1932) oppure alla rimozione originaria, che non è una rimozione propriamente detta (Freud 1915a). Può essere utile, invece, leggere direttamente le parole di Winnicott su questo tema: “In questo particolare contesto, ‘inconscio’ sta a significare che l’integrazione dell’Io non è in grado di comprendere qualcosa, che Io è troppo immaturo per raccogliere insieme tutti i fenomeni nell’area dell’onnipotenza personale” (Winnicott 1963; 109). A prima vista, come rileva la Chabert, sembra che qui il concetto d’inconscio sfugga alle pur diverse formulazioni di Freud. Tuttavia, come spesso accade nei contributi winnicottiani, si potrebbe individuare proprio in alcune osservazioni freudiane lo spunto dal quale lo studioso britannico è partito per poi lavorare teoricamente in piena autonomia. Ma l’elemento che mi sembra centrale, 16 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” commentando questo passo, è che l’onnipotenza di cui parla Winnicott presuppone di fatto una condizione oggettiva di impotenza. L’inconscio, che qui, come si è detto, ha anche delle implicazioni vagamente cognitive, come del resto le presentazioni di cosa in Freud3, rende possibile il paradosso, perché ciò che non è integrabile nell’Io ancora immaturo, non è nemmeno rappresentabile nell’esperienza del bambino e, se sussistono particolari condizioni (ottimali), non minaccia, quindi, l’unità del sé in formazione4. E la prima e più importante cosa che non è integrabile nell’Io è il fatto di essere soggetto in relazione con l’oggetto, perché l’immaturità dell’Io consiste proprio nel non essere esso stesso integrato. L’onnipotenza del bambino deriva, quindi, dall’inconsapevolezza di sé, della sua dipendenza assoluta e della sua impotenza reale. Le condizioni ottimali nelle quali il processo d’integrazione può svolgersi sono quindi quelle che impediscono al bambino di sperimentare prematuramente e massicciamente la sua impotenza, o meglio quella che noi definiamo tale, perché, dal suo punto di vista, ciò si traduce in annichilimento o, come abbiamo visto, in angoscia impensabile. L’esperienza d’impotenza (che dà luogo, invece, all’angoscia di castrazione) si contrappone, infatti, al sentimento di potenza, che presuppone, quindi, una consapevolezza di sé come soggetto; l’onnipotenza, diversamente, ha una peculiarità magica, necessaria proprio alla costruzione graduale del senso della continuità di sé: è per questo che un “fallimento” dell’onnipotenza comporta una rottura del senso di questa continuità. Ed è per questo che le condizioni ottimali possono essere garantite soltanto da adeguate cure materne, che forniscano l’illusione della soluzione “magica” a esigenze primarie: “La madre pone il seno reale proprio là dove il bambino è pronto a creare, e al momento giusto” (Winnicott 1953; 38-39). Winnicott definisce questa funzione della madre ambiente facilitante, espressione che costituisce un espediente semantico (come altre quali madre sufficientemente buona, holding, eccetera) per descrivere aspetti dell’interazione con la madre in una fase della vita nella quale essa non si è ancora costituita per il bambino come oggetto, non è cioè identificabile o rappresentabile come persona (o, nella terminologia kleiniana, come oggetto intero). 3 Le presentazioni di cosa, infatti, sono per loro natura inconsce finché, come abbiamo visto sopra, non viene stabilito un collegamento con le presentazioni di parola (Freud 1915b). 4 Vi sono alcuni analisti (prevalentemente italiani) che accostano questa condizione di irrappresentabilità al concetto lacaniano di “preclusione” forclusion (Lacan 1958). Si tratta di un accostamento, a mio parere, improprio, perché la preclusione è comunque il derivato di un meccanismo difensivo, per quanto primitivo (v. il diniego freudiano), che presuppone un’attività funzionale dell’Io. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 17 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” Questo punto è necessariamente alla base di ogni discussione sul contributo winnicottiano, la quale, altrimenti rischierebbe dei fraintendimenti irrisolvibili. Vediamo un esempio. Il “vasto movimento di desessualizzazione che ha colpito la psicoanalisi dopo la fine della seconda guerra mondiale”, come lo definisce la Chabert, è purtroppo un fenomeno reale e insidioso, che ha origini molteplici, e che si inserisce in una più vasta tendenza che non si limita alla critica, anche radicale, alla teoria freudiana in senso stretto. Ciò non sarebbe di per sé motivo di scandalo, dal momento che la dialettica scientifica non può avere dei paletti “teologici” precostituiti. Quel che colpisce, invece, è la diffusione di modelli, tendenti, talvolta esplicitamente, talvolta in maniera più subdola, allo stravolgimento dell’oggetto stesso della disciplina psicoanalitica: la realtà psichica (Genovese 1991; 1998; 2000). Vi sono esempi di interi volumi pubblicati da analisti (soprattutto americani, ma non solo), che prescindono completamente dal concetto di inconscio, comunque inteso5. Detto questo, però, bisogna ribadire l’assoluta estraneità della teoria di Winnicott a questi movimenti. È vero che la Chabert dichiara esplicitamente che la sua critica si collega soprattutto alla successiva utilizzazione che di quella teoria hanno fatto altri psicoanalisti. Ma va chiarito con decisione che si tratta di un’utilizzazione impropria, e, qualche volta, di una vera appropriazione indebita, come si evince dalla perentoria affermazione di Winnicott, che ho già avuto modo di ricordare in passato (Genovese 1998): “Freud ha fatto per noi la parte spiacevole del lavoro, indicando la realtà e la forza dell’inconscio (...) e mettendo anche in evidenza, con arroganza se necessario, l’importanza dell’istinto e della sessualità infantile. Ogni teoria che neghi o sottovaluti tali questioni è inutile” (Winnicott, 1988; 38). Tuttavia, l’equivoco sembra persistere se, come abbiamo visto, la focalizzazione sul materno, secondo l’autrice, obbligherebbe “a scartare la donna nella madre e a rimuovere la sua sessualità perché essa richiama delle rappresentazioni insostenibili”. L’equivoco poggia sul fatto che viene di nuovo messa in primo piano la dimensione tragica, che concerne la conflittualità intrapsichica, e quindi il diniego o la rimozione delle rappresentazioni insostenibili; mentre, riprendendo il nostro discorso, nella fase di cui stiamo parlando non si tratta di 5 Se, infatti, il problema fosse “solo” quello della desessualizzazione, non bisognerebbe attendere il secondo dopoguerra (e nemmeno il primo), se pensiamo alle prime defezioni su questo tema Jung, Adler). Purtroppo, il fenomeno è più culturale, in senso lato, e sembra riguardare la progressiva banalizzazione e semplificazione di tutto ciò che è psichico. 18 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” scartare (il verbo indica appunto l’attivazione di un meccanismo di difesa) la donna nella madre, semplicemente perché nella fusione primaria non esiste per il bambino nemmeno la rappresentazione della madre come oggetto differenziato, così come non esiste la rappresentazione di sé come soggetto. La madre è certamente donna sessualizzata, ma il lattante, poniamo di due settimane di vita, non è in condizione di avere una diretta rappresentazione di ciò, sebbene ne faccia indirettamente esperienza, nel senso che (nel bene e nel male) ne subisce le conseguenze. Intendo dire che, quando il bambino è oggetto dell’investimento sessuale materno, ciò si traduce per lui in un’esperienza autosensuale (Tustin 1986) frammentaria6, fondamentale per il processo di soggettivazione in atto. Per questa ragione sia la funzione dell’holding (il sostenere), sia quella dell’handling (il manipolare), alle quali Winnicott assegna un ruolo determinante per l’evoluzione positiva di questo processo, sarebbero, a mio avviso, impensabili senza una sessualità materna. Di converso, allorché questo investimento pulsionale viene bruscamente ritirato (e ciò può accadere per molteplici ragioni, che possono comportare conseguenze altrettanto molteplici, e più o meno rilevanti), l’esperienza dell’infante consiste nella rottura della continuità di sé7 con la mobilitazione dell’angoscia di annichilimento. Quest’ultima considerazione ci riporta a Simone. Penso che non occorra precisare che il mio intento non è affatto di proporre un’interpretazione del caso alternativa rispetto a quella della Chabert, il che sarebbe assurdo. Mi propongo invece di discutere le obbiezioni dell’autrice al modello winnicottiano (che pure le è venuto in mente), a prescindere dal fatto che si possa applicare al caso. Se, per ipotesi, l’evento della morte del padre (“quando ero molto piccolo”) si fosse verificato nel periodo della vita al quale ci stiamo riferendo8, esso riguarderebbe comunque il materno, poiché, come esperienza dolorosa di perdita per la madre, non potrebbe non aver sconvolto la continuità della sua funzione di ambiente facilitante. Il grave, prematuro e improvviso lutto di una donna 6 L’esperienza è frammentaria nel senso che non vi sono ancora le condizioni perché possa essere messa in correlazione, sia in termini spaziali che temporali, con altre esperienze simili o dissimili. Infatti, come abbiamo detto, l’Io non è integrato e non può, quindi, porsi come vertice unificante a garanzia della continuità dell’esperienza. Ciò significa anche che il bambino è l’esperienza che sta facendo. 7 Continuità garantita appunto dall’investimento materno. 8 Il fatto che il paziente riferisca vagamente e fuori da qualunque contesto qualche frammento di ricordi del padre (“un’auto rossa decappottabile” e “l’aria di una musica jazz”) non costituirebbe - in questa ipotesi un’indicazione, perché potrebbero, questi sì, essere dei ricordi di copertura, oppure potrebbe trattarsi del ricordo di racconti o di cose apprese nell’infanzia, ma in un’epoca successiva. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 19 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” che allatta un bambino agli esordi della vita è proprio una di quelle ragioni che sovente possono comportare un ritiro brusco, più o meno temporaneo, dell’investimento libidico dall’infante (talvolta questo ritiro si può trasformare in un vero e proprio rifiuto). Se così fossero andate le cose, la fantasia in termini di scena primaria dopo la morte della madre, sarebbe il frutto di una successiva costruzione ad hoc, motivata dal bisogno di tessere una trama (dramma) che rendesse pensabile un’angoscia per sua natura impensabile. Essa non avrebbe però nulla in comune con il concetto freudiano di rielaborazione posteriore (Nachträglichkeit). Quest’ultima, infatti, si riferisce alla possibilità per il soggetto di risignificare esperienze precedenti alla luce di eventi, situazioni o maturazioni successive. Per Freud l’uomo dei lupi (proprio con riferimento alla scena primaria) ad un anno e mezzo “raccolse impressioni la cui comprensione differita fu poi resa possibile dal suo sviluppo, dall’eccitamento sessuale e dall’esplorazione sessuale infantile” (Freud 1914b, 515n). Si tratta cioè della rielaborazione di una scena che il bambino (ad un anno e mezzo, si badi; quindi ad un’età molto più avanzata rispetto alle primissime fasi di vita alle quali ci stiamo riferendo) non poteva significare in termini sessuali, ma è pur sempre una scena (rappresentazione), conservata nella memoria e resa disponibile per una rielaborazione9. La costruzione ad hoc, invece, consiste nel reperimento dall’esperienza successiva di materiale narrabile, che costituisca, potremmo dire, una “protesi” di significato, al quale legare l’angoscia altrimenti senza nome, e al quale aggrapparsi affinché il crollo (come minaccia sempre presente) non si verifichi. Ho appena precisato che non è mia intenzione discutere le interpretazioni che la Chabert suggerisce del caso Simone; d’altra parte, sarebbe comunque impossibile per una molteplicità di ovvie ragioni. Tuttavia, a scopo soltanto esemplificativo, propongo una sorta di “simulazione”, partendo dall’ipotesi - del tutto arbitraria, perché non abbiamo alcun elemento che la suffraghi- che Simone sia alle prese con la dimensione catastrofica (paura del crollo). Applicando il modello che sto esponendo, ci imbattiamo sorprendentemente proprio nella funzione di “protesi” di una costruzione narrativa (tragica) a-posteriori: “... si era costruito una versione assolutamente privata della morte dei suoi genitori: sarebbero stati entrambi, ma separatamente, vittime della Shoah, e lui ne sarebbe stato il sopravvissuto”; “Naturalmente [...] sapeva che dal punto di vista cronologico era irrazionale. Questa versione, diceva, non era plausibile, e tuttavia vi aderiva con tutto se stesso” (p. 34). 9 La questione si pone ovviamente in tutt’altri termini se consideriamo la soluzione freudiana del fantasma originario. In questo caso, però, diventerebbe non necessario il concetto di risignificazione, che dovrebbe lasciare il posto a quello di pre-significazione. 20 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” Notiamo subito che qui siamo di fronte ad una variante della costruzione tragica nei termini nei quali la sto proponendo. Il paziente, infatti, in questo caso è consapevole dell’irrazionalità e quindi della non veridicità della sua versione; e tuttavia, come precisa l’autrice, vi aderisce “con tutto se stesso”. In realtà, proprio la peculiarità di questa variante ci può rivelare molto del meccanismo in generale. Essa mette in evidenza, infatti, come la costruzione di questo tipo di trama narrativa, reperita a-posteriori, non ha bisogno di alcun requisito di verità e non pretende neanche di essere verosimile. Non mi riferisco ovviamente soltanto alla verità storica dei fatti, al suo riscontro, cioè, nella realtà materiale, ma anche a quella che trova la sua validazione nei fantasmi inconsci. Certamente il materiale utilizzato per la costruzione della trama attinge all’universo fantasmatico di Simone. Ma il rapporto tra fantasmi ed evento è caratterizzato da un’irriducibilità dell’uno all’altro. L’evento, per dirla con Green (2000), non è stato in questo caso cannibalizzato dal fantasma, perché in realtà non è mai stato esperito, dal momento che il soggetto lo ha subito senza esserci. La costruzione fantasmatica qui non ingloba né trasforma il fatto reale, bensì copre artificialmente e rigidamente il vuoto (la vertigine del non-senso) dell’evento non vissuto, eppure subìto come angosciosa rottura della continuità di sé. Essa, infatti, non è necessitata dalla rielaborazione differita di un’esperienza, ma assolve alla funzione economica di legare l’angoscia impensabile a qualcosa di pensabile, affinché possa essere allontanata la dimensione catastrofica della non coesione di sé, del non-consistere. Per questa ragione assume anche il valore di un nucleo vicario del sé, tanto inverosimile quanto necessario. Sul versante analitico tutto ciò comporta diverse implicazioni. Innanzitutto, la funzione di “protesi” di questa mitica rappresentazione autobiografica la rende assolutamente poco plastica e non suscettibile di vere trasformazioni10. Per questa ragione il lavoro interpretativo può risultare non solo inefficace, ma condurre verso esiti indesiderati. Poiché esso, infatti, ha per oggetto necessariamente la dimensione drammatica, uno dei rischi è quello di favorire una relazione analitica fondata sulla collusione: lavoriamo insieme sull’invenzione narrativa (che è in realtà la forma del “coperchio”) continuando ad eludere il buco nero sottostante. Una possibile conseguenza è qualcosa di molto simile ad un’analisi interminabile, oppure il risultato è un’analisi imitativa (Gaddini 1969), che può anche concludersi con apparente reciproca soddisfazione, senza che però il vero nucleo problematico sia stato veramente toccato. In questo caso l’analista avrà finito col prestarsi inconsapevolmente al mantenimento, se non al consolidamento dell’organizzazione del falso sé. 10 “Non sembra questo il caso di Simone, in quanto egli è pienamente consapevole della non veridicità, e an- che della non plausibilità, della sua storia. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 21 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” Un altro rischio, certamente più temibile, è che il continuo lavoro sulla rigidità della narrazione difensiva finisca con l’incrinarla senza che essa possa evolvere in direzione trasformativa. La minaccia della dimensione catastrofica incombente può allora essere fronteggiata in extremis con la rottura psicotica, il delirio paranoico anche allucinatorio; oppure, in alternativa, attraverso il crollo somatico. Ulteriori implicazioni di particolare rilievo riguardano gli aspetti transferali. È evidente che il concetto di transfert nella teoria freudiana è strettamente collegato al concetto di pulsione, o ancora più precisamente al concetto di pulsione oggettuale. Infatti, poiché l’oggetto, tra le componenti dell’apparato pulsionale, è quella più sostituibile, esso è l’oggetto di transfert per eccellenza. D’altra parte, proprio questo è uno dei principali motivi che per Freud escludevano dal campo dell’analisi le nevrosi narcisistiche. Il transfert è, quindi, parte integrante delle vicissitudini, sia in termini dinamici che economici, della dimensione tragica, che trova la sua massima espressione nella costellazione edipica. Questa premessa necessita però di essere integrata da un’ulteriore riflessione sulla delimitazione dell’oggetto analitico che rende possibile il lavoro sul transfert. Seguendo Green, ricordiamo che “l’oggetto analitico non è né interno (al paziente o all’analista), né esterno (all’uno o all’altro), ma esso è tra loro. Esso corrisponde quindi del tutto esattamente alla definizione dell’oggetto transizionale di Winnicott e alla localizzazione nello spazio potenziale tra loro, che è lo spazio delimitato dal setting analitico” (Green 1975, 206). E ancora: “Lo statuto particolare dell’oggetto transizionale ci pone di fronte a una doppia verità irrecusabile. L’analista non è un oggetto reale, l’analista non è un oggetto immaginario. Il discorso analitico non è il discorso del paziente, non è il discorso dell’analista, non più della loro somma. Il discorso analitico è la relazione tra due discorsi né reali né immaginari. Questa relazione stabilisce un rapporto potenziale, o più precisamente un discorso di relazioni potenziali, potenziale esso stesso. Ne consegue, rispetto al presente e al passato, che il discorso analitico ha con la verità solo un rapporto potenziale. Tuttavia non può essere considerato un discorso qualunque. Occorre che esso abbia, rispetto al reale, alla realtà passata o presente, come rispetto alla realtà immaginaria (o psichica) un rapporto di omologia, è un analogo. Ossia di corrispondenza approssimativa, ma di un’approssimazione affettiva, senza la quale il suo effetto sarebbe nullo (Ibidem, 208). 22 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” Soltanto questa peculiarità transizionale dello spazio psicoanalitico11, che costituisce la base per l’accesso al simbolico, fa sì che non solo il lavoro sul transfert, ma anche la stessa attivazione del fenomeno transferale possano far parte integrante del gioco (nell’accezione propriamente winnicottiana) dell’analisi. Il contributo di Winnicott introduce, però, anche una variante che rende più complesso e articolato il riferimento al transfert. Allorché, infatti, nella situazione analitica emergono aspetti della sofferenza psichica attinenti a quella che abbiamo chiamato dimensione catastrofica, questo spazio potenziale si annulla. La dimensione catastrofica, infatti, ha radici, come abbiamo visto, in una condizione primitiva, nella quale il soggetto non ha ancora creato né se stesso né l’oggetto, né uno spazio intermedio, né il ponte dell’investimento pulsionale teso al recupero della irriducibile distanza oggettuale; e ancora, potremmo dire con Freud, all’identità di percezione non è subentrata l’identità di pensiero. In questa condizione l’accesso al simbolico è impossibile e l’analista, concludendo con Winnicott, non sta per la madre (non rappresenta cioè un oggetto sostitutivo libidicamente o aggressivamente investito come la madre) ma è la madre; o meglio, egli svolge una funzione primaria, soprattutto attraverso le costanti del setting analitico (Bleger 1967), che noi possiamo considerare equivalente alla funzione materna. “Per il nevrotico”, commenta Winnicott, “il divano, il calore ed il benessere possono simbolizzare l’amore materno; per lo psicotico sarebbe più esatto dire che queste cose sono l’espressione fisica dell’amore dell’analista. Il divano è il grembo dell’analista od il suo ventre, ed il calore è il calore vivo del corpo dell’analista. E così via” (Winnicott 1947; 239240). Qui Winnicott fa una distinzione netta, direi nosografica, tra nevrotico e psicotico. Personalmente ho preferito parlare di dimensione tragica e dimensione catastrofica per indicare livelli diversi che possono emergere nella stessa analisi con la prevalenza dell’uno o dell’altro, o anche, come abbiamo visto, variamente collegati tra loro. Tuttavia, quando ci riferiamo alla dimensione catastrofica è probabilmente improprio parlare di transfert, perché in queste circostanze non vi è trasferimento di investimenti pulsionali da un oggetto all’altro, che entrino a far parte del gioco relazionale, che possano essere restituiti e risignificati dall’interpretazione; qui la cosa è la cosa e nessuna parola può sostituirla. 11 Come si vede ciò che abbiamo premesso sulle caratteristiche della teoria psicoanalitica trova espressione nella pratica clinica e/o viceversa. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 23 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” Proviamo a rileggere in questa luce le impressioni della Chabert sul tipo di relazione che Simone fin dall’inizio instaura con lei: “... come definire l’estrema intensità del transfert e l’assenza pressoché totale di figure transferali che lo caratterizzava? [...] Non trovavo mai un’identificazione o qualche figura che mi potesse essere attribuita e tuttavia ero, fin dai primi tempi, profondamente convinta della necessità di essere lìzz, a garantire una presenza indefettibile” (pp. 31-32). È evidente come, al di là del diverso quadro teorico-clinico di riferimento, la sensibilità dell’autrice colga la fruizione silente che Simone fa della relazione analitica che a questo livello si esprime prevalentemente attraverso le costanti del setting (per dirla ancora con Bleger). Continuando la nostra “simulazione”, e rivedendo questi elementi alla luce del modello winnicottiano, potremmo ipotizzare che in questa fase le figure transferali non sono utilizzabili semplicemente perché il paziente potrebbe non stare operando trasferimenti. Egli forse sta facendo esperienza per la prima volta di una reale, concreta “presenza indefettibile” e per questo motivo l’analista avverte profondamente la “necessità di essere fi”. La continuità di questa esperienza relazionale, infatti, che non può non fare i conti con la paura del crollo (in quanto già avvenuto), può costituire una prima vera opportunità di sperimentare l’illusione e quindi di creare la continuità di se stesso (soggetto) contestualmente all’oggetto e alla sua potenziale perdita. Torniamo così al nostro tema. La polarità soggetto-oggetto è concettualmente inscindibile. Non si dà il primo senza l’altro nel suo stato di presenza o assenza. E la presenza/assenza dell’oggetto implica l’investimento sessuale di esso. Credo che vada intesa in questo modo l’affermazione che il soggetto è sempre soggetto della pulsione (Green 1990), la quale - dobbiamo però aggiungere - è ovviamente sempre pulsione di un soggetto. A ben vedere, questa lettura può contribuire ad affrontare l’apparente contrapposizione intravista dalla Chabert secondo la quale “tutta la dottrina freudiana si fonda sugli effetti dell’incontro del bambino con la sessualità, mentre Winnicott sostiene un al di qua o un al di sotto del sessuale, che qualificherebbe la natura degli scambi tra il bambino e il suo ambiente e devierebbe il corso del suo sviluppo quando i fallimenti di questo ambiente non possono essere integrati come esperienze psichiche”12 (pp. 38-39). La prima riflessione è che se la parola “bambino” è, in termini di analisi logica, il soggetto del discorso sia di Freud sia di Winnicott, essa non ha lo stesso significato (di soggetto) in termini psi- 12 I corsivi sono miei. 24 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” cologici. Si potrebbe inoltre rilevare che se la dottrina freudiana si fonda “sugli effetti dell’incontro con la sessualità”, essa deve almeno logicamente presupporre un prima dell’incontro. In realtà, sappiamo che nel testo freudiano le cose sono molto complesse e non sempre è possibile seguire un filo del tutto coerente nelle diverse formulazioni concernenti la relazione tra le pulsioni e tra le pulsioni e l’oggetto. La maggior parte degli autori dopo Freud ha dovuto fare i conti con questo tema, e ancora oggi sono molti coloro che dibattono per venirne a capo. Già i Balint (1968), che hanno condotto la loro ricerca in direzione diversa da quella che stiamo proponendo, ritenevano di poter individuare almeno tre differenti teorie che coesistono nell’opera di Freud e mostravano dettagliatamente come esse non siano sovrapponibili. Non possiamo addentrarci ora in questa difficile questione. Osservo soltanto che probabilmente il nodo della complicazione si costituisce fin dalla prima opposizione tra le pulsioni di autoconservazione e le pulsioni sessuali (Freud 1905), opposizione che può indurre, come notano Laplanche e Pontalis, “a interrogarsi sulla legittimità dell’uso del termine stesso di Trieb per designare le une e le altre” (p. 458). Dal punto di vista concettuale, le prime sono la condizione perché vi siano le seconde, dal momento che ne sono la base d’appoggio (Anlehnung), ma il problema si ingarbuglia ulteriormente quando le pulsioni di autoconservazione vengono fatte coincidere con le pulsioni dell’Io (Freud 1910a) e viene introdotta subito dopo la teoria del narcisismo primario (Freud 1914a) che aggiunge nuovi concetti senza sostituirli ai precedenti. A questo proposito, leggiamo ad esempio il famoso brano di Freud, secondo il quale “siamo costretti a supporre che non esista nell’individuo sin dall’inizio un’unità paragonabile all’Io; l’Io deve ancora evolversi. Le pulsioni autoerotiche sono invece assolutamente primordiali; qualcosa -una nuova azione psichica - deve dunque aggiungersi all’autoerotismo perché si produca il narcisismo” (Freud 1914a; 446-447). Questa affermazione è inoltre coerente con quanto Freud già in precedenza aveva sostenuto, e cioè che il narcisismo sarebbe “uno stadio che la libido percorre nella sua storia evolutiva che procede dall’autoerotismo per giungere all’amore oggettuale” (Freud 1910b, 386). In questi termini, il narcisismo sarebbe, quindi, primario solo rispetto alle sue successive manifestazioni osservabili clinicamente, non nel senso di primo stadio evolutivo. Ma, se non esiste nell’individuo sin dall’inizio “un’unità paragonabile all’Io”, come fondiamo la primarietà delle pulsioni dell’Io (autoconservazione) che fanno da appoggio a quelle sessuali? E ancora, con Introduzione al narcisismo le pulsioni sessuali vengono suddivise in libido dell’Io e libido oggettuale in relazione al loro oggetto di investimento. Infatti, “la preposizione di’ nell’espressione ‘libido dell’Io’ indica la relazione della libido non già al suo punto di partenza ben- PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 25 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” sì al suo punto d’arrivo” (Laplanche e Pontalis 1967, 299). Sottolineo questa precisazione, perché qui il termine oggettuale “va inteso nel senso ristretto, cioè con riferimento all’oggetto esterno e non all’Io, il quale in un senso più ampio, può pure essere considerato come oggetto della pulsione” (Ibidem). Assumendo però questo “senso più ampio”, dovremmo concludere che la pulsione sessuale è sempre oggettuale, riaprendo però un ulteriore problema: in che senso sarebbero sessuali le pulsioni autoerotiche, le quali, come abbiamo visto, sono “assolutamente primordiali”, prima cioè che maturasse “un’unità paragonabile all’Io”? Qual è il loro “punto di partenza” e quale il “punto di arrivo” in termini di apparato psichico? Né aiutano a sciogliere questi nodi le riformulazioni freudiane successive, in particolare con Al di là del principio di piacere (Freud 1919) e l’introduzione della teoria strutturale (Freud 1922). Anzi, sappiamo che, almeno per quanto riguarda la materia che stiamo trattando, le cose si sono ulteriormente complicate, come si può ricavare dal fatto che proprio la lettura ‘ortodossa’ di quei contributi ha portato, tra tante, alle elaborazioni teoriche di Melanie KIein, da un lato, e a quelle di Hartmann, dall’altro, praticamente agli antipodi. Naturalmente, dopo Freud sono state proposte molte e differenti soluzioni a questi problemi, che non abbiamo qui la possibilità di riassumere e che ci porterebbero comunque lontani dal nostro argomento. Quel che, invece, si può sottolineare è che se certo non è in discussione la centralità della pulsione sessuale nella teoria psicoanalitica, molto più difficile risulta concordare su un’interpretazione univoca dell’articolazione e delle vicissituzdini di questo concetto allorché si passa allo studio degli esordi della vita psichica. Di fronte a questa situazione la ricerca si trova a dover scegliere tra la via meno fertile, che si impoverisce nell’interminabile analisi filologica del testo freudiano, e un percorso che consenta di formulare nuove ipotesi, nel rigore metodologico di Freud senza però scivolare nella reificazione dei concetti della metapsicologia. Il percorso aperto da Winnicott si snoda in questa seconda direzione e non si pone in termini alternativi alla teoria pulsionale, ma affronta in una diversa prospettiva il problema dello sviluppo affettivo, spostando il focus dalla pulsione al suo soggetto, o meglio alla genesi di questo13. Non si 13 D’altra parte, il fatto che questa prospettiva esprimesse un’esigenza largamente condivisa trova riscontro nel convergere di studiosi (con impostazioni anche molto eterogenee) sulle tematiche del funzionamento psichico primitivo e la formazione graduale di un confine di sé: a cominciare da Bion, e poi Bick, Gaddini, Anzieu, Tustin, fino ad Ogden, solo per citarne alcuni. 26 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” tratta quindi di ipotizzare un al di qua, né tanto meno un al di sotto del sessuale, quanto di indagare sulle dinamiche evolutive che consentono di fondare il sessuale come rappresentante psichico del somatico, che cioè delimitino con la soggettività uno “spazio abitato dall’anima” (σκηνη) al quale il rappresentante possa avere accesso. Perché è lì che il bambino incontra la sessualità ed è su quella scena (σκηνος) che si producono gli effetti dell’incontro. In quest’ottica, se è vero che il concetto winnicottiano di processo maturativo concerne l’integrazione dell’Io, ciò dipende soltanto dall’angolo visuale, perché in realtà esso riguarda contemporaneamente anche la creazione dell’oggetto e il suo investimento sessuale. Si tratta, perciò, di un punto di vista evolutivo metodologicamente del tutto coerente con quello di Freud (1905)14 sebbene non sovrapponibile. Questa impostazione apre nuove possibilità euristiche su più versanti, non ultimo proprio quello che riguarda la scena primaria. Se, infatti, la costituzione della continuità e dell’unità del soggetto mette contemporaneamente in primo piano la sua spinta verso l’oggetto e l’irriducibilità di questo, essa pone anche la premessa per collegare con un nesso forte questa irriducibilità con la pulsionalità dello stesso oggetto verso un oggetto altro. Si deve a Gaddini (1974) il merito di aver colto ed elaborato questa implicazione, affrontando il problema della formazione del padre come oggetto altro, a partire dalla percezione incomprensibile e inquietante della madre alterata (pulsionale). In questi zzzzzzz, il fantasma originario di matrice filogenetica può riacquistare il suo statuto ontogenetico come fantasma primitivo, che potrà essere risignificato, riprendendo Freud, mediante l’eccitamento sessuale e l’esplorazione sessuale infantile, come dimensione tragica, nel corso dello sviluppo. A condizione però che il bambino non abbia subìto la pulsionalità dell’oggetto prima ancora di averlo creato. In questo caso, infatti, nessuna risignificazione sarà possibile e la paura del crollo segnerà probabilmente la sua sofferenza psichica per tutta la vita. 14 Preferisco l’espressione punto di vista evolutivo a punto di vista genetico introdotto dza Hartmann e Kris (1945), perché quest’ultimo si basa su un modello prettamente biologico, e si riferisce allo sviluppo autonomo dell’Io, indipendente dalla dinamica degli affetti. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 27 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” BIBLIOGRAFIA BALINT, M. EE. (1968) Il difetto fondamentale. In: La regressione. Raffaello Cortina Editore, Milano 1983. BLEGER, J. (1967) Psicoanalisi del setting psicoanalitico. In: Genovese, C. (a cura di) Setting e processo psicoanalitico. Cortina, Milano 1988. CHABERT, C. (2001) Fantasmi d’amore. Trad. it. in Psicoterapia Psicoanalitica, 9, 1, 2002, 30-41. FREUD, S. (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale. OSF, 4. FREUD, S. 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Commentando PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 29 La pulsione e il suo soggetto (“Al di qua o al di sotto del sessuale” un lavoro di C. Chabert, viene messo in evidenza come la teorizzazione di Winnicott non sia in contrasto con la teoria pulsionale di Freud, ma ne costituisce appunto la premessa, poiché se è vero che il soggetto è sempre soggetto della pulsione, allo stesso modo la pulsione è sempre la pulsione di un soggetto. Il processo di soggettivazione costituisce perciò la condizione di ogni investimento pulsionale. SUMMARY Drive and its subject A dramatic (or tragic) aspect and a catastrophic one are distinguished in the psychical suffering. The dramatic (or tragic) aspect is based on the tissue of fantasies and on the unconscious conflicts; the catastrophic one concerns the breakdown of the whole psychic organization. This second aspect is founded on the early period of life, when primary relationship facilitates the gradual making of subjectiveness (Winnicott). Commenting on an assay by Catherine Chabert, it is emphasized that Winnicott’s theory of maturational proeess and Freudian drive theory don’t contradict each other; but exactly the first one is the basis for the second one. Actually, as it’s true that always the subject is a subject of a drive (Green), so equally a drive always is a drive of a subjeet. Therefore, the process of integration of the Ego (making of subjectiveness) is the basis for every cathexis. CELESTINO GENOVESE Via U. Ricci, 15 80127 Napoli [email protected] 30 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Identità rubate MARIELLA CIAMBELLI Identità rubate “Le mie tre vite”* In queste pagine vorrei riprendere alcuni passaggi del lavoro di Maria Lucila Pelento, recentemente apparso sulla nostra Rivista, su una tranche del percorso analitico di un’adolescente argentina, Cora, per richiamare concetti sviluppati più ampiamente altrove dall’Autrice, nel quadro di un importante lavoro di riflessione condotto con altri colleghi argentini. Nell’introdurci alla narrazione del caso, Pelento, dopo aver richiamato gli elementi specifici della vicenda di questa giovane paziente, ci invita ad un ascolto che tenga a bada ogni tentazione generalizzante, per poter cogliere la singolarità di un percorso. Considerato che il confronto con ogni situazione clinica ci richiede una disposizione di questo tipo, come lei stessa ricorda, credo che il senso di questa puntualizzazione vada cercato nelle righe iniziali della premessa, là dove l’Autrice sembra indicarci da subito che ciò che stiamo per ascoltare è una storia fuori dell’ordinario. E questo non tanto, o non solo, perché ci pone a confronto con ripetute esperienze traumatiche di perdita e di rottura disorganizzante, ma perché queste portano il contrassegno di una violenza che appartiene al più ampio quadro nel quale si iscrivono, quella che ha interessato la storia del paese di Cora1. Dunque, una storia marcata in modo specifico dalla Storia. Ne ritroveremo la traccia nelle forme della sofferenza, nella peculiare configurazione del trauma, nelle vicissitudini transferali, nelle difficoltà e negli ostacoli di percorso; e vi saremo ricondotti attraverso quei rimandi “all’esterno” con i quali la Pelento richiama eventi della scena sociale attuale della post-dittatura per interrogarne gli effetti sul lavoro di elaborazione che impegna Cora, figlia di desaparecidos, e il suo analista, partecipe anch’egli di quella storia. Il lavoro di riflessione dell’Autrice e dei suoi colleghi argentini sugli effetti della violenza di Stato nella loro vita e nella * II lavoro trae spunto dall'articolo di M. L. Pelento (2002) “Le mie tre vite”. II caso di Cora. Psicoterapia Psicoanalitica, 9, 1, 99-110. 1 Il riferimento è agli anni della dittatura in Argentina (1976-83) e al periodo successivo, caratterizzato da “gravi sconvolgimenti politico-sociali”, come ricorda E. Nicolini in una nota esplicativa. lvi, p. 110. 32 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Identità rubate pratica analitica, hanno riproposto la questione, complessa e spinosa, dei rapporti tra realtà psichica e realtà sociale; in particolare, hanno posto la necessità di ripensare la nozione di trauma in relazione a quella di catastrofe psichica in situazioni in cui “il ricorso al solo determinismo psichico del trauma non può bastare a rendere conto in maniera soddisfacente delle condizioni della sua formazione e del suo divenire”, laddove cioè le modalità consuete di lavorare il negativo proprio dell’esperienza traumatica “non possono essere utilizzate dal soggetto” per la specifica “qualità del rapporto tra la realtà traumatica interna e l’ambiente”2. Quando lo scarto tra questi ordini di realtà eterogenei si riduce fino alla sua abolizione, l’incontro collusivo tra fantasma e realtà, con la confusione che ne deriva tra il dentro e il fuori, può comportare per il soggetto effetti potenzialmente psicotizzanti. A questi fa riferimento anche P. Aulagnier nelle pagine dedicate alla funzione del contratto narcisistico e, in particolare, alla sua rottura laddove questa proviene dalla realtà sociale. Se, per l’infanzia del soggetto, giocano un ruolo essenziale tanto la realtà storica degli eventi della coppia quanto ciò che proviene dal sociale, è qui che il bambino può incontrare, messa in atto, quella dialettica di esclusione, rigetto, spossessamento, che ha informato le sue relazioni nell’insieme familiare, incontro/scontro violento, compenetrazione (télescopage) di realtà storica e fantasma, che “può rendere impossibile sostituire al fantasma una messa-in-senso che lo relativizzi” (1994, 216). Questo rimando alla realtà storico-sociale, con evidenza, non introduce alcuna idea di causalità lineare ad opera di questi eventi, non mette in alcun modo in questione quella nozione basilare di posteriorità per la quale, nella psiche, è l’effetto ciò che conferisce all’evento il suo statuto di causa, e che rende possibile il lavoro di ripresa e reinterpretazione delle tracce di esperienze passate in occasione di un vissuto attuale che ha il potere di rimobilitarle. Ripropone, semmai, in relazione alle specifiche, o meglio, stra-ordinarie caratteristiche di tali eventi, la questione del loro statuto e del loro destino nello spazio psichico, e in stretta connessione, quella della costituzione stessa del soggetto a partire dalla sua iscrizione nell’insieme familiare e negli insiemi trans-soggettivi3. È da que2 Così scrive R. Kaës che, entrato in contatto con il lavoro di questo gruppo di psicoanalisti, ha contribuito alla stesura del volume che ne raccoglie la testimonianza, coordinandolo con J. Puget. Rotture catastrofiche e lavoro della memoria, in J. Puget, R. Kaës et al. (1989), Violenza di Stato e psicoanalisi, p. 165. 3 Rimando qui a R. Kaës (1993), Il gruppo e il soggetto del gruppo, che rappresenta il punto di approdo di un lavoro di ricerca che copre un arco di oltre 30 anni, volto alla “costruzione sistematica di un decisivo anello mancante della catena” che lega il soggetto alla collettività, come scrive F. Petrella nella sua Presentazione del volume, p. 5. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 33 Identità rubate sta prospettiva, a mio avviso, che il lavoro di teorizzazione del gruppo di psicoanalisti argentini, cui ho fatto sopra riferimento, costituisce un contributo rilevante, a partire da un’esperienza che rappresenta una messa alla prova tra le più radicali della nostra strumentazione teorico-clinica: la psicoanalisi alla prova di una situazione estrema4. Se la questione dello statuto della realtà - questione sempre aperta - occupa qui una posizione centrale, non è solo in relazione ad una teoria del trauma che viene reinterrogata; la posizione dell’analista, in relazione alle condizioni sociali, culturali e politiche, vi è ugualmente convocata nella misura in cui queste condizioni vanno ad investire l’esercizio della sua pratica, il dispositivo che la fonda e che dovrebbe garantirla dagli effetti diretti di quella realtà5. Questi effetti sono richiamati da J. Puget attraverso la sua nozione di “mondi sovrapposti”, con la quale l’Autrice fa riferimento al fatto che l’appartenenza del paziente e dell’analista ad un contesto sociale segnato da una violenza che tende ad annullare la stessa capacità di pensare, espone quest’ultimo al rischio di distorsioni nell’ascolto e nella sua funzione, ponendolo a confronto con l’estrema difficoltà di salvaguardare i confini dello spazio analitico dalle irruzioni della realtà. Ma al di là di queste condizioni stra-ordinarie, resta aperta la questione della posizione dell’analista nei confronti della realtà sociale in regime di ordinario esercizio della sua pratica. Su questo, non posso che limitarmi a riprendere un breve passo di P. Aulagnier che si iscrive nel contesto di una riflessione sul concetto di realtà, a confronto con il pensiero freudiano, nella quale trovano posto importanti riferimenti al registro del sociale e della cultura. Dopo aver richiamato sinteticamente lo scopo che l’analista si dà nell’esercizio della sua pratica, così scrive: “... ma in questa stessa definizione, in modo molto più puntuale ed implicito, avrà sempre una parte il giudizio che il soggetto esprime sulle esigenze imposte dalla realtà sociale, su ciò che di queste esigenze fa parte del necessario, dell’utile o dell’eccesso. Questa ingerenza dell’extraanalitico nel nostro funzionamento di analisti possiamo ridurla ma non possiamo annullarla...” (1979, 145). 4 Nella sua Introduzione al lavoro della Pelento, E. Nicolini sottolinea come le riflessioni dell’A. sulle pecu- liari difficoltà poste dal caso di Cora, rimettano “al lavoro concetti basilari della psicoanalisi, indicandone le vie di sviluppo”. Cfr. , p. 98. 5 M.N. Vignar si interroga specificamente su questi aspetti nel suo contributo Violenza sociale e realtà nell’analisi, in J. Puget, R. Kaës et al. (1989), cit. 34 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Identità rubate Ma ritorniamo al lavoro della Pelento. Dal racconto essenziale dei primi incontri con l’analista, apprendiamo che Cora è figlia di desaparecidos, che la sua vita ha subito assai precocemente un taglio, quello dei suoi legami primari, per essere innestata altrove e che dopo quasi dieci anni un altro taglio ha reciso i nuovi legami, riportando Cora alla sua famiglia d’origine. Ciò che ha impresso al corso della sua esistenza un movimento che ne ha così fortemente deviato la traiettoria, appare condensato in una parola, desaparecidos, il significante che veicola la sostanza traumatica della sua vicenda di filiazione e che attraversa la scena della Storia collettiva come il significante principale di una violenza estrema, quella del terrorismo di Stato6. Questo racconto scarno anticipa ciò con cui questa giovane paziente si troverà a confrontarsi attraverso il lavoro dell’analisi, compito arduo che attende il suo Io, quando nell’après coup della cura la pulsione di sapere la riconduce sugli scenari di un doppio esilio, di una doppia effrazione, confrontandola con un lavoro del lutto che sembra impossibile. Una storia degli inizi, quella del processo d’iscrizione dell’infante nell’insieme familiare, interrotta da un’azione di espulsione, tanto più violenta per la sua arbitrarietà, che l’ha immessa in un altro spazio psichico, in un’altra storia, in un’altra discendenza; un fondo irrappresentabile di esperienze infantili troppo precoci; l’impensato di esperienze successive, marcate dalla violenza e dalla imprevedibilità; l’incontro con il fallimento del supporto sociale, che pone il soggetto a confronto con la menzogna e la contraddittorietà dei suoi enunciati. Le forme peculiari di una sofferenza ne portano il segno, ce ne rinviano l’eco, fin dalle prime battute d’incontro con l’analista cui Cora porta le sue paure, i suoi ritiri e, soprattutto, l’angoscia di essere rinchiusa in carcere, mobilitata dalla sola vista dei poliziotti. La scena della scomparsa. Cora evoca la sua storia in tre tempi - le sue “tre vite”, è così che le chiama - per poi metterla immediatamente a distanza attraverso il proposito dichiarato di volersi occupare solo del presente, della sua vita attuale, testimoniando così il suo bisogno di allontanare l’intollerabile di ciò di cui non ha potuto costruire una storia nella quale ricono6 Come ha scritto Janine Puget, desaparecido “è stato il principale significante attorno al quale si sono co- niugati il panico, l’orrore, il terrore e la frattura sociale” ma al tempo stesso, come precisa Kaës evocando la figura delle Madri di Plaza de Majo, “un significante mantenuto contro il diniego e la cancellazione del simbolico”; e più avanti, “Rifiutando di essere interdette dalla memoria, mantenendo aperta la questione dei desaparecidos, le Madri di Piazza di Maggio si sono concretamente e simbolicamente fatte interpreti del rifiuto di rigettare i morti fuori del simbolico, di sotterrarli in un’altra genealogia della violenza e di farsi complici dell’omicidio del pensiero”. Prefazione a J. Puget, R. Kaës et al. cit., pp. XV e XXI. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 35 Identità rubate scersi e che la aliena da sé, di tagliare via “una storia politica, sociale e familiare che, lei sente, non le lascia spazio per essere se stessa” (p. 101). Assistiamo, attraverso alcuni momenti che significativamente scandiscono l’avvio del processo analitico, a come questo proposito iniziale di azzerare il passato (ripetere quell’azzeramento imposto al suo essere privo di difese?) vada cedendo il posto ad una pulsione di sapere che la anima con la forza di una necessità, quella di riappropriarsi del suo passato infantile di cui si è sentita spossessata nel momento stesso in cui la verità delle sue origini veniva ristabilita, di potersi pensare generata dal desiderio di una coppia, sottratta al buio di una cancellazione. Cora è in un passaggio cruciale della sua vicenda evolutiva; le sue paure di intrusioni nella casa, di danneggiamenti che potrebbe subire, e che si intrecciano con la paura dei poliziotti, segnala i fantasmi della sua iniziazione sessuale. È il tempo in cui l’Io deve compiere quel lavoro di pensiero che chiude il tempo dell’infanzia per accedere ad un altro tempo, ad un altro spazio relazionale, che gli impongono di riorganizzare gli investimenti, di riposizionarsi “sulla sua scacchiera identificatoria”; questo riposizionamento comporta la rinuncia, da parte dell’Io, “a quella prima posizione di desiderato che pensava tanto legittima quanto sicura”, rinuncia a quegli oggetti che nella prima fase della sua vita sono stati supporto degli investimenti narcisistici e oggettuali, e l’accettazione del rischio di “collocare nel futuro l’eventuale incontro con un altro desiderante con il quale, questa volta, potrebbe condividere un godimento divenuto legittimo”. Ma questa rinuncia e questo rischio sono sostenibili solo a patto che “questo stesso Io sia sicuro che i fondamenti del suo spazio identificatorio e del suo spazio relazionale non saranno messi in pericolo... che ciò ch’egli diventa e ciò che gli accade non lo spossessino di ciò che è stato e di ciò che è accaduto” (Aulagnier, 1975, 386); ciò non lo protegge dall’angoscia inevitabile - di identificazione-castrazione - che emerge là dove l’Io sperimenta il rischio di un vacillamento dei suoi riferimenti identificatori, nell’incontro con un lutto, un rifiuto, una menzogna, e che richiede al soggetto il lavoro di una rimessa in senso. Se non c’è cultura e struttura che possano evitare al soggetto queste esperienze, la Aulagnier riconosce che “nella struttura familiare, come nella struttura sociale, esistono delle forme” capaci di produrre specifiche angosce, e perciò “particolarmente adatte a indurre nel soggetto sia delle reazioni psicotiche sia dei comportamenti che... vi si avvicinano” (224). Si vede bene qual è la posta in gioco di questo difficile transito, che può effettuarsi - là dove una molteplicità di condizioni lo renda possibile - solo attraverso un lungo e complesso lavoro di ripresa e risignificazione di ciò che è stato, affinché quel tempo non sia irrimediabilmente perduto ma possa cedere il passo ad un tempo storicizzato. 36 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Identità rubate Nella storia di Cora, come scrive la Pelento, è “la pietra miliare della filiazione ... a risultare straordinariamente lesa” (p. 100). Se pensiamo al processo della filiazione e alle dimensioni in esso implicate, possiamo vedere a che cosa rimandi questa lesione, sul doppio asse della filiazione istituita e narcisistica (Guyotat, 1980). L’azione violenta che ha sottratto Cora all’investimento della coppia che l’ha generata, investita e riconosciuta come nuovo membro del gruppo familiare, è al tempo stesso un atto di delegittimazione del riconoscimento del legame di filiazione che l’insieme sociale aveva attestato, con effetti di profonda disarticolazione dei sistemi di riferimento culturali e simbolici. Le domande angosciose di Cora sulla posizione da assegnare, sul nome da dare, su chi considerare genitori, mostrano la certezza perduta di riferimenti stabili per l’identificazione, l’incrinatura della dimensione istituita della filiazione che lascia spazio agli effetti immaginari e fantasmatici. La posta in gioco di questi veri e propri dilemmi è la propria collocazione rispetto ad una storia passata e ad un progetto identificatorio. Cora vive una situazione paradossale; riconoscersi figlia della coppia che l’ha sottratta ai suoi genitori, la confronta con la posizione insostenibile di pensarsi figlia dei loro assassini; d’altra parte, riconoscersi figlia della coppia che l’ha generata, la identifica come “figlia di desaparecidos”, confrontandola con un vuoto di ricordi, con delle sagome senza corpo. In un momento del suo percorso, questa identificazione la spingerà a mettere in scena la sparizione; quella storia che non le lasciava spazio per essere se stessa, diventa qualcosa di cui rivendicare la proprietà, da difendere da ciò che vive come tentativo di appropriazione da parte di altri. Come se per farla propria, non avesse altro modo che quello di agire la sparizione, fare la desaparecida. D’altra parte, come fare il lutto di una sparizione? Il compito appare particolarmente arduo, poiché il lavoro sulle immagini infantili la confrontano con la traccia di esperienze che non hanno potuto iscriversi in rappresentazione, con l’assenza di enunciati per essere ricordate, in presenza di un discorso dell’insieme gravido di incertezze e contraddittorietà. E con quell’enunciato che la identifica come figlia di desaparecidos. In un suo precedente lavoro che si colloca a pochi anni di distanza da quelli della dittatura, la Pelento affronta il tema dei “lutti speciali” (Braun de Dunayevich-Pelento, 1989) con particolare riferimento alla questione del sapere, sulla base della sua esperienza di cura con familiari di desaparecidos. Nel fenomeno della sparizione, ciò che risulta impossibile effettuare è la prova di realtà dell’assenza dell’oggetto; i giudizi di attribuzione e di negazione sono impediti - poiché nulla consente di accertare se la scomparsa sia temporanea o definitiva - e sostituiti da una tormentata, torturante incertezza. In assenza di prove e di supporti simbolici, PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 37 Identità rubate l’assenza divenuta vuoto viene occupata dal dominio di rappresentazioni fantasmatiche. Con un’attenzione puntuale a ciò che ha investito lo spazio dell’insieme sociale, nei termini di una abolizione delle regole su cui si fondano i legami intersoggettivi, sostituite dall’arbitrio di regole non enunciate, di un attacco ai dispositivi simbolici e alle pratiche rituali che veicolano e sostengono il senso di eventi fondamentali quali la nascita e la morte - attenzione che evidenzia sempre il complesso intreccio tra la dimensione intrapsichica e quella intersoggettiva - l’Autrice analizza alcune dinamiche cruciali che attengono alla pulsione di sapere e che mostrano un’alternanza tra desiderio di sapere e desiderio di non sapere. Un’alternanza suscitata dall’immagine paradossale di “un morto senza morte” e determinata da sentimenti di dolore intensi, a tratti insostenibili. Comparandolo al normale lavoro del lutto, la Pelento identifica gli elementi che caratterizzano i lutti speciali. “II punto di certezza non esiste, l’ordine giuridico e l’ordine sociale fanno difetto, il discorso sociale è ambiguo, mancano conferme da parte di un altro sufficientemente significativo, il contratto narcisistico si disarticola ed infine i riti funebri sono disattivati e distrutti” (1989, 94). Sulla base di questo quadro complesso si sviluppa una dinamica che segue questo andamento: in mancanza di un sapere garantito sulla morte dell’oggetto, a cui il potere sostituisce l’imposizione di un sapere deformato, l’Io si precipita in una ricerca spasmodica di certezza che può condurlo a costruire una realtà delirante. È questo sapere impossibile, interdetto, che produce uno slittamento “dal campo della verità a quello della certezza”; diversi sono i destini, come sottolinea la Pelento, cui va incontro il soggetto, legati alla possibilità o meno di rinunciare a quella certezza che lo espone al rischio di un’alienazione che collude con “le consegne alienanti del potere” (p. 95), di costruire a posteriori una storia possibile che dia senso, verità, a quella morte, in mancanza della quale la sua stessa esistenza ne verrebbe privata. Nel caso di Cora, il percorso d’analisi si svolge in un contesto che, seppur mutato, porta i segni di un passato recente, e del quale, come ho ricordato all’inizio, Pelento ci fornisce alcune informazioni importanti7. La forza della pulsione di sapere, come scrive a conclusione, è anche qui un elemento centrale; l’atteggiamento dell’analista, preoccupato di non occludere, non saturare con interpretazioni premature lo spazio di Cora, ne sostiene l’emergere. Diversamente, il suo discorso si configurerebbe inevitabilmente come un sapere precostituito, imposto, con effetti di interdizione sul 7 Vedi, ad esempio, gli effetti prodotti nella collettività dalla restituzione dei bambini alle loro famiglie d’origine, in termini di costruzione di enunciati dalla forte valenza difensiva (il mito dell’amore dei sequestratori). Cfr. p. 109. 38 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Identità rubate pensiero di Cora. Nelle parole finali, sarà Cora stessa a riconoscerlo: “Credo di essere rimasta in analisi perché non mi sono sentita spintonata, ma con il diritto di pensare” (p. 110). Questo spazio, lasciato aperto attraverso quel silenzio con il quale l’analista sceglie di accompagnare gli inizi del processo, sembra diventare il luogo per l’emergere di ricordi, come quelli assai dolorosi della sua “seconda vita”, nella quale si era sentita catturata, imprigionata nello spazio della casa governato da uno sguardo e da una legge materna (la madre fredda e distante, emanatrice di regole e non di coccole). Cora doveva restare nascosta? Il segreto delle sue origini, posseduto dalla coppia, doveva restare sigillato, per poter prendere possesso di lei, farne la propria figlia? Quel libero spazio di movimento che Cora legittimamente rivendicava, era forse temuto in quanto espressione di quella pulsione di sapere che spinge il bambino a porsi le domande fondamentali, “chi sono?”, “da dove vengo?”, “qual è la coppia che mi ha generato?”; espressione di un libero gioco del pensiero, di un diritto a pensare ciò che non fosse già pensato dalla madre? Domande speculative, che sorgono a ridosso dei pochi frammenti di cui disponiamo e che non autorizzano certo a fondate congetture; nascono, per analogia con quanto la clinica ci dice riguardo agli effetti psichici dei segreti di filiazione, al vissuto dei bambini adottati che si trovano davanti il compito di sciogliere enigmi che appaiono insolubili, di dare senso a quegli indizi, a quei segni che filtrano attraverso il discorso familiare, “secrezioni” del segreto (Zempléni, 1976). Riferendosi alle filiazioni di adozione, R. Kaës scrive che ciò che “i genitori adottivi sognano nei confronti di questo bambino, questo bambino già portato nel corpo e nel sogno materno, già iscritto in un mito e, più spesso, già iscritto in uno statuto civile, è un sogno su un bambino paradossale: un bambino che verrà e che è già lì. È un sogno di genitori paradossali, perché questo bambino è e non è loro” (1985, 32). Sottolinea il genitivo d’eux, perché in questa situazione paradossale, qualcosa rischia di pervertirsi; questo qualcosa è un rischio di incesto. Di paradosso in paradosso, l’incesto può presentarsi come la soluzione, paradossale appunto, alla impossibilità di fare proprio il bambino se non con una emprise reale. Viene in mente qui il racconto di Cora sulle coccole di suo padre. Il fantasma fobico, che nella relazione transferale emerge come paura di restare rinchiusa nell’analisi, e quindi di non poter pensare la sua storia, appare a tratti gravato anche dal peso di enunciati sociali e familiari ai quali Cora si identifica o dai quali prende distanza come da ciò che potrebbero sottrargliela. Ma riprendere, attraverso ricordi che riemergono, la traccia di ciò che Cora ha vissuto nella sua “seconda vita”, comporta il ritorno di un’immagine di sé investita dal desiderio di una coppia illegittima, che la confronta con angosciosi interrogativi riguardo la loro difficile col- PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 39 Identità rubate locazione (sequestratori? usurpatori? genitori adottivi?), che inevitabilmente chiamano in causa la sua stessa posizione, il desiderio e l’amore di cui li ha investiti. La legittimità di questi? Interrogativi che le riportano alla memoria, attraverso quel significante “coccole”, il ricordo di una “siesta”, di una scena confusa che l’aveva spaventata, e che improvvisamente le si impone nella forma di un fantasma incestuoso, lasciandola anche qui sospesa ad un interrogativo: questo “padre” aveva dunque abusato di lei? Il desiderio di sapere incontra, nell’assenza di ricordi della sua “prima vita”, quella distanza, che sembra irriducibile, che la separa dai genitori desaparecidos; ma qualcosa circola nel discorso familiare, consentendole di dare un senso al suo doppio, contraddittorio atteggiamento verso la droga, attraverso il significante marijuana, tratto identificatorio che la rinvia alla madre (militanza come droga) e al padre (opposizione alla militanza). Questo ponte gettato, che riduce la distanza, attiva in lei sentimenti violenti di odio per sua madre “che non aveva rinunciato per lei alla militanza” (p. 104). Questo sentimento, e la colpa che ne deriva, ancor più intensa perché rivolta all’oggetto scomparso, confronta Cora con l’identificazione ad un’immagine di sé quale “bambina non abbastanza desiderata”, non al punto da essere scelta rispetto alla militanza, e dunque alla morte, con il fantasma di un desiderio materno che le avrebbe inflitto così un destino di figlia di desaparecidos, e ci indica un possibile scenario su cui la conduce la sua ricerca di verità; in questo punto, il fantasma rischia di colludere con un enunciato familiare (la militanza come una droga cui non si vuole rinunciare per amore di nessuno) e con enunciati che circolano nell’insieme sociale come accuse ai militanti di non aver pensato ai loro figli, di non averli appunto amati abbastanza e protetti; enunciati che trasformano le “vittime” in colpevoli. Ma la marijuana è anche ciò cui Cora affida il potere magico di restituirle i ricordi, secondo la strategia della “memoria forzata”8 il cui fallimento la spingerà a ritornare nei luoghi dove ha vissuto nella sua “prima vita”, per attingervi ciò che non ha mai posseduto. Qui, nel luogo del sequestro, sulla scena della scomparsa, incontra qualcosa di inatteso: il racconto di un testimone, di chi aveva visto, lo sguardo di un altro che le restituisce un’immagine di sé della quale nessuno prima le aveva mai potuto parlare. “Ricordava anche di avere visto suo padre con lei in braccio che camminava avanti e indietro nella camera, senza sapere che fare” (p. 105). Un incontro emotivamente intenso che segna8 L’A. riprende il concetto elaborato da Braun e Puget (1997) in riferimento al fatto che il gruppo delle “vit- time”, investito dal potere politico della post-dittatura e da alcuni gruppi sociali del compito di custode e garante della memoria degli eventi, viene collocato nella posizione di “difensore di una causa”; nello specifico, si interroga sugli effetti della identificazione di Cora a questa posizione. 40 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Identità rubate la una trasformazione. Se questi genitori, ombre senza corpo, sagome senza spessore, “hanno avuto una storia... sono esistiti”, come dice, allora anche quella Cora è esistita. BIBLIOGRAFIA AULAGNIER, P. (1975) La violence de l’interprétation. Du pittogramme à l’enoncé. P. U. F., Paris. Tr. it. La violenza dell’interpretazione. Borla, Roma 1994. AULAGNIER, P. (1979) Les destins du plaisir. Aliénation-amour-passion. P. U. F., Paris. Tr. it. I destini del piacere. 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Pelento sul trattamento di una giovane adolescente, figlia di desaparecidos, l’autrice riprende gli elementi centrali della storia e del percorso analitico della paziente, cercando di far emergere, attraverso la questione della filiazione e del difficile lavoro del lutto, il complesso intreccio tra realtà psichica e realtà storico-sociale. SUMMARV Stolen identities. “My three lives” On the ground of a M.L. Pelento’s paper about the treatment of a youth, desaparecidos’ daughter, the author takes up the central elements of patient history and analytical path, trying to PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 41 Identità rubate let come out the complex interlacement between psychic and historico-social reality, by both question of filiation and mourning work. MARIELLA CIAMBELLI Via F. Crispi, 85 80121 Napoli [email protected] 42 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il corpo culturale: il corpo come superficie d’iscrizione MARIA LUCILA PELENTO Il corpo culturale: il corpo come superficie d’iscrizione* Desidero ringraziarvi per questo invito che ancora una volta ci consente un incontro in situazioni enormemente difficili per i nostri Paesi. Quelli attuali sono momenti segnati da una situazione sociale in cui la cultura sembra avere perso il suo significato di appartenenza al mondo. Le relazioni simboliche inerti e totalitarie costruite dal neoliberalismo non hanno provocato solo la distruzione di altri processi di simbolizzazione, ma anche anestesia e depressione nei legami sociali. Questo è il motivo che conferisce importanza a incontri come questo. Anche la problematica che ci riunisce è importante, perché non è strano che questo insieme di circostanze abbia prodotto, come conseguenza, problemi che riguardano fondamentalmente il corpo. Ce ne parlano i tentati suicidi, i disturbi psicosomatici e i disturbi alimentari, l’abuso e il maltrattamento dei bambini, e inoltre le svariate pratiche che tentano di dare al corpo un diverso statuto, come le chirurgie plastiche, i trattamenti ormonali, la produzione di marchii corporei, e così via. Tutto ciò non appare strano se descriviamo il corpo con le parole di Foucault (1972, 37): “Il corpo: superficie d’iscrizione degli avvenimenti (laddove il linguaggio li distingue e le idee li dissolvono), luogo di dissociazione dell’Io (al quale cerca di prestare la chimera di un’unità sostanziale), volume in perpetuo sgretolamento”. In questo senso pensare il corpo è un altro modo di pensare il legame sociale e il mondo. Ma come si pensa il corpo nella cultura attuale? Certamente non come lo specchio sacro dell’universo, come nel Medioevo, turbato - come dice Barran (1996) - dalla peste e dalla morte. * Titolo originale: El Cuerpo Cultural: El Cuerpo como Superficie de Inscripción. Presentato alla Asociación ciación Psicoanalitica Uruguaya, maggio 2002. Inedito. Traduzione di Elvira A. Nicolini. Siamo grati a Lucila Pelento (di cui abbiamo già pubblicato un lavoro nel nostro numero 2, 2002) di averci destinato questo scritto incentrato sul significato che nell’analisi di un suo paziente ha assunto un tatuaggio. Per una più ampia riflessione sul tema si veda un precedente lavoro di Lucila Pelento, Les tatouages comme marques de la rupture des liens sociaux, citato in bibliografia. [NdR] 44 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il corpo culturale: il corpo come superficie d’iscrizione Non lo si pensa neanche come volume naturale, come quella “carne viva” della quale ci parla Le Breton (1992), suscettibile di lasciar conoscere, nell’età moderna, i suoi segreti anatomici, sessuali e psicologici. Quel “volume” ha acquisito nell’epoca attuale una forma appiattita, la forma di una superficie sulla quale diversi movimenti culturali, con vocazione totalizzante, scrivono le loro rappresentazioni. Uno di questi movimenti culturali ha cercato di ricoprire la pagina bianca con rappresentazioni connesse alla conoscenza del genoma, innalzando i geni alla categoria di icone culturali. Questo indirizzo ha consentito scoperte di grande importanza, ma ha avuto anche conseguenze tutt’altro che innocue. Per ogni disturbo si ha un gene e ad ogni problema corrisponde un isolamento o mutamento dello stock genetico. Si presenta un’altra semplificazione quando si suppone che i caratteri che colmano la pagina bianca possano venire ricondotti a sole proprietà d’immagine. Immagini presenti nelle tecnologie che sembrano consentire una via d’uscita alle costrizioni della realtà. In Internet, la “chat” rende possibile cambiare a volontà i tratti dell’identità - età, sesso, condizione sociale, economica, professionale - permettendo ogni sorta di licenza, senza che sia possibile verificarne la falsità. Altrettanto facilmente certe tecnologie fanno sì che la presenza in carne ed ossa dell’altro non sia più necessaria. L’alterità dell’altro o il mistero del suo corpo vengono totalmente cancellati. Si torna allora a preferire la donna dal corpo d’avorio, di cui parla Ovidio nelle Metamorfosi, o la donna inanimata alla quale si riferiscono Hoffman in Il mago sabbiolino1*o Bioy Casares (1996) in L’invenzione di Morel, al posto della donna reale. Il corpo, quando è pensato in termini di genoma o di immagine o di farmaci - anche qui un farmaco per ogni disturbo - si suppone completamente controllabile. Scompare così quell’interfaccia opaca che si costituisce tra un linguaggio che non può dire tutto e un corpo che non può essere compiutamente rivestito da rappresentazioni. In questo tentativo di rendere la vita controllabile e più sicura si inserivano varie tecniche che lasciano il loro marchio nel corpo: i tatuaggi, il branding, le scarnificazioni, le lacerazioni, la produzione di cicatrici in rilievo, il piercing body, lo stretching, gli impianti sottocutanei, e così via. 1 Der Sandmann (1816) commentato da Freud (1919) in Il perturbante. [NdT] PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 45 Il corpo culturale: il corpo come superficie d’iscrizione Qualche tempo fa mi sono occupata di una di queste tecniche: quella del tatuaggio (Pelento 1998). È un fenomeno che, sebbene sia stato praticato da tempi immemorabili in luoghi geografici diversi e in diverse epoche, ha suscitato il mio interesse soprattutto per la sua presenza nel mio lavoro clinico. Questo fenomeno richiede studi interdisciplinari, da condursi con estrema cura. Ciò significa prendere in considerazione le risposte date da altre discipline - antropologia, filosofia, psicologia senza cadere, come ci ha avvertito Althusser (1974), in operazioni ideologiche. Un indizio di questo genere di operazioni si dà quando, all’interno della nostra disciplina, ci domandiamo “che cosa sono” i tatuaggi, invece di chiederci “che significa questo tatuaggio in particolare”. È stato appunto il tatuaggio come enigma ciò che ha guidato il mio desiderio di capirne, in alcuni casi specifici, il significato. In una particolare situazione clinica mi ha colpito il carattere paradossale di un tatuaggio che il paziente si era fatto fare parecchio tempo prima di iniziare la sua analisi. Ho parlato di “carattere paradossale” di quel tatuaggio, perché la sua immediatezza era in contrasto con la qualità di “testimone retrospettivo” che acquistò nel corso del processo analitico. Prendo in prestito questo termine da Barthes (1980) che, nel suo brillante scritto La camera chiara, si riferisce in questi termini alla fotografia. Prima di occuparmi del caso clinico, vorrei ricordare che il tatuaggio in quanto scrittura e marchio, si presenta come “l’incancellabile”, opponendosi al fenomeno che Freud (1924) descrisse nel Notes magico: ossia alla traccia mnestica. Quest’ultima per la sua stessa natura si qualifica come fugace, cioè come “ciò che fin dall’inizio è segnata dal destino dell’oblio, della rimozione” (Sanzana, 1997). Il marchio, invece, riprendendo una definizione data dagli storici, può essere identificato come l’effetto di una forza materiale che produce una iscrizione psichica che prima non c’era. È anche vero che il corpo tatuato, che Mauss (1989) colloca sul versante della scultura, può essere riportato, in certe condizioni, all’interno di un processo di temporalità psichica in virtù dello sguardo che lo coglie. Ma veniamo al paziente. Giovanni, vent’anni, venne in consultazione per le sue difficoltà nello studio. Avrebbe voluto frequentare un corso di laurea, ma non riusciva a preparare gli esami d’ingresso all’università. Si lamentava di “lasciarsi andare”, di non potersi concentrare. Quando leggeva non riusciva a rappresentarsi ciò che leggeva; perciò non poteva capire né pensare. 46 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il corpo culturale: il corpo come superficie d’iscrizione Diceva che al liceo i suoi studi erano andati abbastanza bene; le difficoltà si erano imposte pesantemente al rientro da un viaggio all’estero compiuto con lo scopo d’imparare una lingua. Nel corso di quel viaggio si era fatto tatuare un volto che aveva trovato in un catalogo e gli era sembrato buffo. Se l’era fatto tatuare sul petto e perciò non riusciva a vederlo. Lo vedevano tuttavia le ragazze della piscina che frequentava. Per un bel po’ di tempo non diede alcuna importanza al tatuaggio, né al momento e alle circostanze in cui se l’era fatto fare. Ma poi cominciò a goderne come di un doppio vantaggio: gli faceva piacere che il suo corpo fosse “lo scenario di effetti speciali” - come lo definì lui stesso - che attraeva lo sguardo delle ragazze e che la sua analista non poteva vedere... In seguito, nel club in cui andava a nuotare, una persona si interessò al suo tatuaggio e disse che gli ricordava un quadro di un famoso pittore: Francis Bacon. Giovanni, come d’altra parte la sua famiglia, non aveva alcuna cultura in materia di pittura, perciò non diede importanza al commento dell’amico. Si limitò a dire: “e chi è?!”. Tuttavia una volta, passando per una libreria, chiese un libro con le riproduzioni dei quadri di quell’artista. Guardandoli si accorse che effettivamente il disegno del suo tatuaggio era molto simile ad uno di essi. Ma scoprì anche che il disegno che aveva creduto buffo era in realtà angoscioso: mostrava intatta la metà di un volto, mentre l’altra metà era “esplosa, come un campo minato, con metà naso, la bocca storta ed un orecchio sparito (desaparecido)” . Notò inoltre che ciò che rendeva più sgradevole l’immagine era il fatto che metà del volto mancava di confini, “come se l’occhio di quel lato, il naso e parte della bocca fossero tra loro disarticolati”. Qualche tempo dopo Giovanni raccontò in seduta che, durante il suo viaggio in Europa, aveva visitato il paese in cui era nato il nonno paterno. I suoi genitori lo avevano incaricato di andare in Comune a chiedere dei documenti. In quel periodo dell’analisi Giovanni si lagnava di non ricordare i suoi sogni, benché sognasse molto. Erano “brutti” sogni, ma non ricordava il loro contenuto. Si arrabbiò quando intervenni per dirgli che forse i suoi sogni potevano contenere un indizio su qualcosa che lo spaventava e non voleva ricordare. Forse per questo motivo li dimenticava. Ricordò poi alcune scene di sogni particolarmente angosciosi: aveva sognato che mentre scendeva una scala era stato afferrato da una specie di mostro. Aveva cercato di tenersi al corrimano della scala, ma il corrimano si era staccato e lui non era riuscito ad evitare di cadere. In un altro sogno qualcuno lo inseguiva: lui voleva urlare ma non ci riusciva. Associò quest’ultimo sogno angoscioso a incubi e paure che ricordava di avere avuto da bambino, specialmente dopo la morte del nonno. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 47 Il corpo culturale: il corpo come superficie d’iscrizione A quel punto, stupito ed emozionato, ricordò l’incidente che aveva provocato la morte del nonno: l’incendio della casa avvenuto a causa di una perdita di gas nella strada. Quando aveva visto il nonno in ospedale, il volto di lui assomigliava all’immagine del suo tatuaggio. Allora provò disagio per esserselo fatto fare. Abbiamo pensato insieme che forse la scelta del tatuaggio e la decisione di farselo fare erano state determinate dalle emozioni che la visita al paese del nonno aveva risvegliato. Ancora una volta si era sentito esposto e costretto ad affrontare quella perdita, ma si era spaventato, aveva arrestato quel doloroso lavoro interno e invece di affrontarlo aveva sostituito il nonno con una incisione sul proprio corpo. Da allora nella sua analisi emersero associazioni significative: Giovanni rievocò lo sforzo fatto da bambino per “dimenticare il volto deforme del nonno” che compariva nei “brutti sogni” che non voleva fare. Parlò anche di quanto fosse “brutto” quel viso e dell’inquietudine che provava nel vedere gente che dormiva per strada o che frugava nella spazzatura. Seppi allora che Giovanni s’irritava con i genitori quando pensava che essi facevano un “doppio discorso”: a cena parlavano immancabilmente della “povera gente di strada”, ma al tempo stesso erano incapaci di dare aiuto. Egli stesso non sapeva cosa fosse dare aiuto, ma tutto ciò lo irritava. La “povera gente di strada” cominciò ad avere per Giovanni un doppio significato: quello di una realtà sociale che lo angosciava, ma anche quello dei conflitti che sperimentava con il fratello maggiore, che era un figlio adottivo e che Giovanni sentiva come il preferito dei suoi genitori. Raccontò che fin da piccolo sentiva parlare a voce bassa di suo fratello, del “povero Mario” come “se fosse un disabile per il fatto di essere stato adottato, come un handicappato a cui si debba pagare un’indennità”. Con un unico movimento, Giovanni prese contatto con la sua gelosia, il suo sentirsi inerme e con le difficoltà familiari e i pregiudizi sociali. Ricordò con amarezza la voce di sua madre che, quand’era piccolo, gli spiegava i privilegi che aveva perché loro erano veramente i suoi genitori, mentre non era così per suo fratello... Ricordò anche la presenza silenziosa di suo padre, mentre sua madre lo “riempiva di sensi di colpa per il fatto di essere nato da loro e di vivere con loro”. Si domandò, in seduta, perché sua madre “non si teneva per sé i suoi pensieri, invece di gettarmeli addosso”. Si chiese anche come può sentirsi un bambino adottivo se lo si vede in quel modo. Si rese conto, in quel momento, che quel volto deforme che si era fatto tatuare, condensava non solo l’immagine traumatica del viso ustionato del nonno ma anche di un altro volto: quello di sua 48 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il corpo culturale: il corpo come superficie d’iscrizione madre, incapace di contenere, di avere uno spazio interno proprio, quindi potentemente intrusiva verso di lui, fin da quando era bambino. La “memoria del risentimento” che sviluppò in quel periodo - la memoria studiata in modo così approfondito e rigoroso da Luis Kanciper (1991) - col passare del tempo si trasformò in “memoria del dolore”, quando cominciò a capire certe difficoltà dei suoi genitori. Placato il dolore, Giovanni poté sentirsi più libero e creativo, in grado di capire il profondo significato e lo spessore che avevano acquisito le parole che aveva detto tanto tempo prima: parole che costituivano il suo corpo come scenario per la produzione di “effetti speciali”. Abbiamo ripercorso più volte gli “effetti speciali” che avevano provocato in lui l’incidente e la morte del nonno, i conflitti che l’adozione del fratello e la successiva nascita di Giovanni avevano fatto scaturire in famiglia, la gelosia che affiorava nella relazione con quel fratello e che traspariva anche nel suo legame transferale. Man mano il suo interesse si volse verso la percezione delle disuguaglianze sociali e verso il problema di come operare sulle differenze affinché esse non si trasformassero in strategie di esclusione. In questo caso - diversamente da altri - la cultura rese possibile che l’oggetto perduto fosse conservato nella pelle come in una cripta. Una cripta che denunciava l’impossibilità di accettare la perdita reale del nonno e le frustrazioni prodotte dagli oggetti genitoriali. Denunciava al contempo la mancanza di uno specchio che lo riflettesse e non lo facesse sentire come quel volto esploso. Penso che il percorso che siamo riusciti a fare insieme mise in movimento certi processi introiettivi necessari per elaborare perdite e assenze. Se ritengo necessario chiarire la particolarità di questo caso clinico è perché ho potuto osservare che altre persone incidono sulla propria pelle una figura che scelgono proprio perché rappresenta l’oggetto amato perduto. BIBLIOGRAFIA ALTHUSSER, L. (1974) Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati: Corso di Filosofia per operatori scientifici. UNICOPLI, Milano 2000. BARTHES, R. (1980) La camera chiara. Einaudi, Torino 1984. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 49 Il corpo culturale: il corpo come superficie d’iscrizione BARRAN, J.P. (1996) Inedito. Riprende idee contenute in Medicina y Sociedad en el Uruguay del novecientos. Ed. de la Banda del Uruguay, Montevideo 1992/1994. BIOY CASARES, A. (1996) La invención de Morel. DMC, Buenos Aires. FOUCAULT, M. (1972) Microfisica del Potere. Einaudi, Torino 1977. FREUD, S. (1919) Il perturbante. OSF, 9. FREUD, S. (1924) Nota sul “notes magico”. OSF, 10. KANCYPER, L. ( 1991) Resentimiento y Remordimiento. Paidós, Buenos Aires. LE BRETON, D. (1992) Anthopologie du corps et modernité. PUF, Parigi. MAUSS, M. (1989) Sociologie et Anthropologie. PUF, Parigi. PELINTO, M.L. (1998) Les tatouages comme marques de la rupture des liens sociaux. In: Hannah Arendt ‘La banalité du mal comme mal politique’. Caloz Tschoop M. - L’Harmattan, France. SANZANA, A. (1997) Commento alla relazione della Dott.ssa Pelento sui tatuaggi. Presentato al Convegno: Hannah Arendt “Ies sans-etat et le droit d’avoir des droits”. Ginevra. RIASSUNTO Questo articolo propone una riflessione sul valore e i significati che vengono attualmente attribuiti al corpo da diversi movimenti culturali. Essi lo riducono a una sola superficie in cui scrivere le proprie ed esclusive rappresentazioni. Così si suppone che il corpo possa venire ricondotto a proprietà d’immagine, o di genoma, o ancora di farmaci, nel tentativo di renderlo completamente controllabile. Tra le diverse tecniche che inseguono questo scopo l’Autrice si sofferma sul tatuaggio e ne esamina le particolari implicazioni nella storia analitica di un paziente. In questo caso - a differenza di altri-quel tatuaggio aveva reso possibile che l’oggetto perduto rimanesse conservato nella pelle come in una cripta. SUMMARY Cultural body: tha body as a surface for inscribing The author considers the value and meanings that have been given to body by various cultural movements. The latters turn it into a mere surface where one’s own representations can be written on. Thus body is supposed to be merely a property of image, of genome, even of drug, in order to get utterly controllable. Among several techniques that aim at such a purpose, the author lingers 50 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il corpo culturale: il corpo come superficie d’iscrizione over tattoo and examines the particular ways of its being involved in a patient’s analytic story. In that case - different from others - the tattoo made it possible that the lost object was kept in the skin as in a crypt. MARIA LUCILA PELENTO Arenales 1378. (1061) Buenos Aires [email protected] PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 51 Tra le impalcature della Metapsicologia ANTONIO ALBERTO SEMI intervistato da MARIA LUCIA MASCAGNI Tra le impalcature della metapsicologia Dottor Semi, il suo ultimo libro, Introduzione alla metapsicologia1, si propone come una “visita guidata a una serie di capolavori”. Nei panni di una guida Lei ci invita a ri-vedere alcuni testi metapsicologici di Freud: il Progetto e gli scritti di Metapsicologia. Lei ha scritto, su un tema che potrebbe sembrare arido, un libro appassionato. Ora supponiamo per modestia (naturalmente sua) che la metà dei lettori di questa intervista abbia letto e riletto il libro e che l’altra metà non lo conosca affatto (lettori “ingenui”). A beneficio degli uni e degli altri, e anzitutto a beneficio mio, le propongo di andare girovagando per le sale-capitoli, inventandoci un piccolo itinerario aggiuntivo per interrogare il pensiero di Freud, il suo fine, il suo metodo (la tecnica con cui Freud costruisce la propria teoria, sulla quale Lei ritorna con ostinata attenzione vorrei dire, esagerando appena un po’, quasi in ogni pagina del libro). E dato che si tratta di Freud letto da Semi, questo ci dirà qualcosa anche sul metodo di Semi. Per sfuggire al pericolo che mi risponda con un nuovo Trattato2 le propongo intanto un solo “punto”. Siamo proprio all’uscita: nelle ultime righe del libro Lei ricorda la “difficoltà che tutti incontriamo a conoscere non solo quel che è nascosto ma anche quel che è evidente, lì, sotto gli occhi di tutti: che l’umanità - e anche le altre specie - è costituita da individui e che questa realtà è difficilè da comprendere e ancor prima da tollerare in tutta la sua conflittualità, complessità e unitarietà”. E conduae: “Se il percorso freudiano svolto qui fosse servito a chiarire in che termini (e con quali termini) la psicoanalisi cerchi di affrontare questo problema, sarebbe già qualcosa”. Vogliamo entrare dall’uscita? Già, l’individuo è un punto importante. Certamente ho messo in evidenza questo oggetto generale della ricerca freudiana perché oggi spesso non lo si tiene presente e anzi si tenta di gabellare 1 2 Edito da Raffaello Cortina, Milano 2001. Antonio Alberto Semi (a cura di) Trattato di Psicoanalisi. Raffaello Cortina Editore, Milano 1988-89. 52 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Tra le impalcature della Metapsicologia Freud per un tizio strano, un po’ schizoide, che non si è reso conto dell’importanza delle relazioni umane. La realtà è l’opposto: cioè che, proprio vista l’importanza delle relazioni con oggetti esterni, bisogna spiegarsi come si costituisca un individuo, come un individuo possa sviluppare una propria soggettività, perché non possa che essere diverso da tutti gli altri. E, di più, come ciò accada in tutte le specie animali. E, ancora, quali siano le specificità nostre. Ma io penso che l’idea di individuo sia difficilmente digeribile, nonostante l’evidenza anche percettiva e che continuamente si torni o a un riduzionismo sociologico, antropologico o a uno biologico per denegare in qualche modo la realtà. Ho cercato allora di fare vedere come Freud abbia costruito un metodo scientifico per indagare l’individuo - e naturalmente le difficoltà con cui si è scontrato e che magari non ha potuto superare, come quella del problema monistico. L’eredità freudiana sta là. Tutto questo mi fa pensare tra l’altro al suo commento del Progetto di una psicologia, due capitoli pieni di “sorprese” su cui poi vorrei tornare. Ma prima mi piacerebbe interrogarla a proposito di un suo lavoro recente, pubblicato in Francia col titolo “Quand passe la douleur”3. Questo scritto ha al centro due sedute di uno stesso paziente e, sia nelle premesse, sia nelle conclusioni, richiama da vicino le sue note sull’esperienza del dolore e più in generale sul “principio d’inerzia” concettualizzato nel Progetto. È un articolo legato ad una situazione clinica che m’è capitata: di fronte ad una circostanza particolarmente dolorosa, un paziente si è - come dire? - sfaldato per quanto transitoriamente. Il dolore è un’altra cosa rispetto al dispiacere, non ha a che fare con la serie piacere-dispiacere. Eppure proprio l’esperienza del proprio dolore è strutturante per l’individuo, Freud lo notava appunto nel Progetto. Ebbene questo signore si è sfaldato nel senso che mi ha fatto pensare che fosse stato - benché appunto transitoriamente - possibile per lui scindersi in un individuo “motorio” e in uno “sensopercettivo” proprio per cercare di rimediare ad un dolore che, altrimenti, l’avrebbe travolto. Nei termini del Progetto, come se un eccesso di Qη potesse essere “trattato” tramite... la costituzione di due individui (si fa per dire). Nell’articolo, cerco di far vedere come situazioni di questo tipo - non credo poi così rare - costituiscano un limite (teoricamente fondato oltre che praticamente verificabile) anche alla attività psichica dell’analista. Spero che si capisse... 3 In penser / rêver, 2, 2002 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 53 Tra le impalcature della Metapsicologia Sì, Lei comunica questo limite con molta intensità presentando le due sedute. Nell’impossibilità di riassumere la parte clinica vorrei citare qui la conclusione di quel suo lavoro: “Si fa presto a dire dolore, così come si fa presto a pensare che, quando lo si dice, gli altri comprendano immediatamente di cosa si tratti. In realtà ogni dolore pensabile è diverso da qualunque altro da quello di chiunque altro, mentre oltre una certa soglia il dolore ha sì un effetto eguale per tutti gli individui, ma perché resta solo dolore e non c’è più l’individuo. Forse un rimedio al dolore sta proprio nella disarticolazione, nella disintegrazione di sé stessi in quanto in-dividui. Ma, appunto, forse. Se potessi averne la certezza; se provassi io in prima persona questo dolore, non potrei essere qui a scriverne”. Lei afferma anche, in altre pagine di questo articolo (il cui titolo italiano provvisorio era significativamente “Metapsicologia del dolore?”), che pensare un rimedio al dolore ha senso solo in un certo ambito quantitativo, oltre una certa quantità non c’è rimedio. E “il fatto che, subito prima dell’inondazione totale, di fronte alla quale c’è solo la resa dell’individuo, il dolore blocchi il pensiero (cioè che spinga solo a cercare di passare dall’azione di prova a quella vera e propria), fa sì che anche una teoria del dolore sia in una certa misura un controsenso, se la teoria è una teoria psicoanalitica che quindi pretenda di rappresentare coerenternente un’attività psichica. È vero che la teoria psicoanalitica va al di là della coscienza, esprime l’inesprimibile: ma perché inesprimibile direttamente è l’inconscio, non perché abolisca il pensiero. Mentre il dolore abolisce il pensiero, anche inconscio”. Dottor Semi dal suo scritto “francese” si aprono molte porte per rientrare nelle sale di Introduzione alla metapsicologia dedicate al Progetto. Ma lì la guida è Lei. Vuole scegliere il punto da cui riprendere il nostro itinerario? Mah, più che il punto, vorrei dire che la “visita guidata” è un’occasione per rivedere e mettere in evidenza il filo che unisce molte annotazioni di Freud relative al metodo applicato al compito teoretico. Freud, evidentemente, mentre per tanti anni costruiva il metodo psicoanalitico, non aveva un progetto in testa (anche se aveva un Progetto nel cassetto) e quindi è molto bello vedere come man mano declina certe intuizioni o idee a realtà diverse quali il funzionamento del sistema C o l’approccio clinico alla realtà psichica Inc. Ed è molto interessante accostare gli incipit del Progetto e poi di Pulsioni e loro destini (passando per il settimo capitolo dell’Interpretazione dei sogni) per osservare anche come man mano gli si chiariscano le necessità teoretiche relative al problema di 54 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Tra le impalcature della Metapsicologia come si possa cercare di rappresentare la realtà psichica. Questa è un’altra realtà e perdipiù, statutariamente, è una realtà inconscia. Come fare per poterla rappresentare a livello di coscienza? Il “come” è appunto la questione del metodo. Avere una certa chiarezza su questo - e notare come per Freud sia lo stesso metodo che si declina poi diversamente per la clinica aiuta sia ad evitare le guerre di religione (e ad obbligare a cercare altreve le loro ragioni) sia a trovare nella metapsicologia anche una dimensiene giocosa. L’esperienza della ccucina della strega”, che è necessaria per andare al di là dei dati di origine percettiva, è innanzitutto l’esperienza di un metodo, che disegna anche dei limiti, per tornare all’individuo e al dolore Un momento. Questo suo inciso circa il fatto che il metodo che Freud utilizza per costruire la metapsicologia, per trovare il modo di rappresentare alla coscienza la realtà psichica, è “lo stesso metodo che si declina poi diversamente per la clinica” meriterebbe qualche chiarimento, Vuole dircene qualcosa in più? A me, nei panni che mi sono attribuita qui, di “quella che cita Semi”, viene in mente una pagina del suo libro sugli interrogativi che clinica e metapsicologia si rivolgono a vicenda. Lei scrive che il problema “è sempre quello di andare al di là (meta-) dei dati sensibili” e aggiunge: “Questo ‘andare al di là’ è del resto un fatto tecnico e si potrebbe istituire un parallelo tra la questione della metapsieologia e quella della regola dell’attenzione fluttuante: si vedrebbe allora che il grado di astrazione di una teoria riflette simmetricamente il grado dì tollerabilità che ogni analista ha: dei proprio inconscio”. Nella pagina successiva la metapsicologia appare anche come una necessità per la persona dell’analista, che ha bisogno di ritrovare una unità della coscienza e anche di riunirsi come individuo. Si tratta di superare “l’evento traumaÌico costituito dall’accorgersi che in quel determinato momento della seduta il nostro pensiero è un pensiero altrui, in altre parole che in quel determinato momento (o in tutti i momenti della seduta, se questa si svolge idealmente bene) ‘siamo pensati’”. Il metodo psicoanalitico freudiano è - a mio avviso, ma sono in buona compagnia (ad esempio con Green) - uno. Quando si applica a compiti diversi (al compito teoretico o al compito clinico) ha modalità diverse di attuazione. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 55 Tra le impalcature della Metapsicologia Nel caso della costruzione della teoria si tratta, come Freud scrive all’inizio di Pulsioni e loro destini, di costruire dei concetti fondamentali che informino i materiali provenienti dall’esperienza e che convergano man mano in una costruzione più complessa. Questi concetti da qualche parte derivano e, per essere più precisi, derivano dall’inconscio, passando per il preconscio. È fondamentale che questi concetti possano stabilire relazioni significative con le rappresentazioni derivate dalla percezione esterna (i materiali dell’esperienza). Nel caso della clinica ... è lo stesso: si tratta di utilizzare i materiali provenienti dall’inconscio dell’analista (che è paragonato al ricevitore del telefono) e dunque dalla sua percezione interna per informare, dare forma - e forma diversa da quella attuale - al materiale proveniente dall’esperienza cosciente (la percezione di ciò che dice e comunica il paziente). Anche qui è fondamentale che si possa istituire una relazione significativa tra le due fonti della conoscenza. E anche qui si ha una convergenza progressiva in una costruzione più complessa (la ricostruzione della nevrosi infantile, ad esempio). È dunque una manovra a tenaglia quella che disegna Freud: da un lato arrivano i dati della percezione interna, dall’altro quelli della percezione esterna. Tra i due poli deve poter scoccare la scintilla della “relazione significativa”. L’idea - il concetto fondamentale - che sta alla base è quello della coscienza come “organo di senso delle qualità psichiche”, non come sede del pensiero. E questo sta alla base di qualunque attività psichica, teoresi compresa. Questo modo di intendere la coscienza ci rimanda al fatto che per Freud lo “psichico vero” è il corpo. O, come Lei scrive, “il corpo è il pensiero, ma un pensiero inconscio che, per così dire, svanisce se tentiamo di costituire il corpo come oggetto”. Una delle conseguenze è che non ha senso parlare di patologie psicosomatiche. Anche Eugenio Gaddini la pensava così. Sì, sono in buona compagnia ... si tratta però di un problema che Freud ci ha lasciato in eredità senza risolverlo, solo indicandoci la strada. Quello del monismo. Se la realtà dell’individuo è appunto una ed indivisibile, la suddivisione in anima e corpo è insensata. Ma la pensabilità dell’individuo in chiave monistica è assai difficile, anche appunto per questa nostra umana doppia modalità di percezione. In un certo senso la scienza classica, la biologia per esempio, altro non è che un privilegiamento della percezione esterna, dei suoi derivati e delle protesi tecniche fatte per ampliare gli organi di senso. Tanto per indicare un solo problema teorico: come riformulare il concetto di pulsione se si considera che corpo e psichico si identificano? Una serie di indicazioni per 56 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Tra le impalcature della Metapsicologia pensare a questo problema si trovano nell’ultima parte del Progetto, quando Freud scrive degli errori di giudizio: proviamoci a studiar bene quelle pagine e chissà che qualcuno non riesca a trovare la soluzione buona! Be’, a riprova che la suddivisione tra anima e corpo è insensata, nel suo libro leggiamo che l’anima non esiste, la mente è un’anima con le mutande, ma l’inconscio, quello esiste. Quanto al problema teorico che Lei ci propone, sì, è un bel compito. Ma forse occorre precisare che cosa intende Freud per “giudizio”. Anzi, mi pare che per capire il concetto sarebbe opportuno fare un passo indietro (nelle pagine del Progetto e in quelle del suo libro) e risalire alla necessità dell’oggetto e, già che ci siamo, anche a quella dell’attività motoria. Dalle rigide impalcature del Progetto, delle quali Freud si disferà nella Metapsicologia sostituendole completamente con altre, appaiono concetti fondamentali e si aprono scorci imprevedibili sulla clinica o, semplicemente, sulla vita. Il fatto è che l’individuo viene disegnato da Freud come necessariamente insufficiente (il bisogno, l’impossibilità di estinguere lo stimolo interno, pulsionale, se non attraverso l’oggetto esterno) e come continuamente in cerca di una autosufficienza (lo stato di quiete, il narcisismo, la regressione “notturna” del sonno ecc.). In questo ambito, c’è un’attività motoria specifica - quella dell’apparato fonatorio - che assume un ruolo molto importante, perché produce un segnale che (a) è interno e (b) può riprodurre il derivato della percezione acustica esterna. Qui l’autosufficienza e il rapporto con l’oggetto si legano strettissimamente: e siamo alle fonti della coscienza. Allora una componente motoria (fonatoria) diventa fondamentale per la possibilità del pensiero verbale - che è l’unica forma di pensiero con diritto di accesso alla coscienza. Ne L’Io e l’Es, dunque più di vent’anni dopo, Freud riprenderà questi temi per far vedere come in ultima analisi da questo nucleo del sistema conscio derivi l’Io e perché, di conseguenza, l’Io - che deriva dalla elaborazione dei segnali provenienti da tutto il resto del corpo senza aver però la possibilità della riproduzione (possiamo riprodurre suoni, ma non visioni, ad esempio) - non possa che essere inconscio. È un tema affascinante, questo, e il mio prossimo libro sarà proprio intitolato Problemi di coscienza4 (piccolo spot pubblicitario durante la visita guidata). Ma non stiamo appunto correndo il pericolo di scriverlo qui, un libro? Solo un’ultima precisazione sulla questione che oggi si formula 4 In corso di pubblicazione presso Raffaello Cortina (Milano 2003). PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 57 Tra le impalcature della Metapsicologia nei termini intrapsichico-relazionale: la visione freudiana è drammatica, a questo proposito, perché sottolinea come l’individuo non possa sfuggire alla percezione. Sia a quella esterna (possiamo sputare, ma quando sputiamo siamo già stati costretti a lavorare per costituire una serie di rappresentazioni dell’oggetto sputato...) sia a quella interna (stimoli e derivati pulsionali). Drammatica ma equilibrata, nel senso che l’individuo può sfuggire alla determinazione esterna perché ha una fonte interna, può sfuggire ad un determinismo pulsionale perché ha i derivati della percezione esterna che lo interrogano ed arricchiscono. Quando si tocca questo equilibrio delicatissimo, si rischia a livello teoretico di minare le basi della “libertà” umana. È il rischio che corre a mio avviso Laplanche, per non parlare degli intersoggettivisti che di questo rischio non si preoccupano... Ora dovrà spiegarci perché, secondo Lei, Laplanche corre questo rischio. Perché nell’ambito della sua teoria della seduzione generalizzata il concetto di pulsione diventa qualcosa di disancorato dal corpo, nel senso che la pulsione non è più “una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea”, come la definisce Freud in Pulsioni e loro destini, ma è il lavoro richiesto o imposto all’apparato psichico dalla differenza tra quel che è simbolizzabile e quello che non lo è nei messaggi enigmatici originari trasmessi dalla madre (prendo dai Nouveaux fondements pour la psychanalyse5 - pag. 141 - la formulazione che ho dato). La dipendenza dalla relazione reale (sia pure con tutto ciò che vi è di enigmatico) è a questo punto difficilmente equilibrabile, perché viene a mancare il contrappeso di una “dipendenza” interna. Il concetto di pulsione, che è necessario dal punto di vista teoretico, è necessario anche da quello clinico e, più generalmente, umano. Mi permetterò ora una lunga citazione da un suo lavoro, presentato durante un convegno in onore di Masciangelo. Lei comincia dalla nostalgia e dal lutto, “sentimenti pesanti e difficili da maneggiare” sebbene siano utilizzabili “per conquistare millimetro per millimetro qualche spazio maggiore per l’Io”. Prosegue con un’annotazione importante: “Si può naturalmente affermare, con una certa calma, una calma a volte sospetta, che la nostalgia è sempre nostalgia del corpo della madre, che il lutto è un procedimento sempre in causa, ad ogni tappa della vita, ad ogni svolta di 5 P.U.F., Paris 1987. Tr. It. Nuovi fondamenti per la psicoanalisi. Borla, Roma 1989. 58 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Tra le impalcature della Metapsicologia un itinerario, si può insomma dire che lasciamo qualcosa o qualcuno, perché la vita è un fenomeno inserito in un flusso, quello del tempo, che non tollera persistenze e che obbliga ad un lavoro difficile e pesante per riattualizzare o per riprendere ciò che vogliamo conservare anche solo dentro di noi - e si può anche sostenere che questa ripresa non può che avvenire sotto forme nuove, ritrovando l’oggetto perduto in altre situazioni, in altre persone, in altre cose. Tutte cose vere, in un certo modo. Ma, detto questo, resta il fatto fondamentale dell’esperienza affettiva del cordoglio e della nostalgia, un’esperienza che non può essere esorcizzata da alcuna teoria e di fronte alla quale, anzi, ogni teoria mostra la sua miseria, la sua parzialità, la sua inadeguatezza”. Poi, dal lutto Lei passa a parlare dell’assenza e del pensiero (e dei limiti del pensiero), di quanto essi siano intrecciati, così come alla questione del pensiero è intrecciata quella dell’individualità. Di qui ritorna al lutto per segnalare che in quest’ambito la concettualizzazione freudiana può prestarsi “ad alcune letture rischiose”. Uno dei rischi “potrebbe consistere nel decadere in una concettualizzazione cinica, che si potrebbe dare se essa volesse solo indicare un’applicazione necessaria del principio di realtà, che portasse ad appiattire lo spessore delle relazioni personali rendendole qualcosa di necessariamente passeggero, di temporalmente limitato, di sostituibile comunque, magari dopo un adeguato tempo. Prendendo la pars pro toto, assolutizzando quindi il ruolo e l’importanza della pulsione, l’oggetto rischia di divenire solo un elemento accessorio della traiettoria che porta dall’affacciarsi della pulsione, dello stimolo pulsionale, alla sua soddisfazione. Se poi, per ragioni di tecnica della costruzione teorica, si è costretti ad attribuire una particolarissima importanza agli oggetti originari, si corre il rischio di costruire una teoria dell’eterno ritrovamento o della continua impossibilità del ritrovamento dell’oggetto originario, teoria che di fatto sembra poter svalutare il ruolo e il peso degli oggetti attuali”. “È davvero così nella vita? Davvero cerchiamo di ritrovare solo, nei nuovi incontri, nelle nuove idee, nei nuovi progetti, quel che sappiamo, magari oscuramente, essere irrimediabilmente perduto? Non rischierebbe, una lettura di questo genere delle dinamiche del lutto, di privilegiare una componente della vita psichica, sottovalutando il peso e il valore di altre?” “Intendo dire che il rischio di considerare l’oggetto - anche quello originario - come funzionale alla pulsione sembra poter svalutare l’oggetto e che il rischio di ipertrofizzare l’importanza dell’oggetto originario sembra poter svalutare ogni nuovo oggetto, riducendo le dinamiche psichiche quasi ad un perenne ritrovamento nel quale non ha mai luogo l’esperienza della novità, della diversità, del gusto della creativa esperienza del ‘mai provato prima’.” PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 59 Tra le impalcature della Metapsicologia “Dico ‘sembra’ perché evidentemente io non la penso così, ma credo sia opportuno mostrare come l’assolutizzazione di parti del discorso metapsicologico freudiano possa portare a derive ideologiche che, proprio per la miseria dei risultati cui portano, rivelano il desiderio di ridurre l’indescrivibile ricchezza della vita psichica a poche e facilmente comprensibili dinamiche.” “Allora davvero varrebbe per la teoria il detto [ ...] di Mefistofele: È grigia, caro amico, qualunque teoria Verde è l’albero della vita.” Be’ ho trovato un modo di commentare/interrogare Semi con Semi. Questo lavoro apparso in Francia col titolo “Les origines de la représentation”6 ci potrebbe riportare per qualche viottolo al giudizio e agli errori di giudizio di cui Lei parlava prima... Ma la lascio libero di proseguire per dove vuole. Ecco, mi lasci libero ... di pensare. La metapsicologia, per me, è un modo di pensare. Ma un modo rischioso: se ne vedono le conseguenze quando la si schematizza, si assolutizza qualche particolare, quando la si concretizza dimenticando che si tratta di un’impalcatura, non dell’edificio. Secondo me, la teoria delle pulsioni è ad esempio necessaria ma costituisce solo un polo della visione metapsicologica. Quando la si assolutizza, diventa evidente lo scollamento tra la teoria e l’esperienza (clinica e quotidiana). Il rischio che si corre che non si può non correre - con la metapsicologia è quello del delirio. C’è tutto un filo che corre nell’opera freudiana a questo proposito (e anche nell’epistolario con Fliess, ovviamente) e che va dal famoso capitolo VII della Interpretazione dei sogni, passando per il saggio su L’inconscio fino a Costruzioni nell’analisi e al Compendio. Man mano, Freud declina il tema della conoscenza che perde il contatto con la realtà esperienziale e che cerca di ritrovarlo. Nella teoria e nella clinica. Se il contatto è perso, si va verso la mitologia, la religione ecc. (ed è il caso di dire che Dio solo sa quante volte abbiamo perso il contatto) per non dire la paranoia. Se si ricerca il contatto, però, si constata che questo si può ottenere solo a certe condizioni, passando attraverso la strega e, in clinica, attraverso il proprio inconscio. È al contatto con l’esperienza che mi rifaccio nell’articolo che Lei richiama: esperienza che ci dice che acquisiamo nuove rappresentazioni, elaboriamo nuovi affetti e nuove rappresentazioni. Perciò volevo mettere in evidenza, lì, come enfatizzare il processo del lutto o la coazione a ripetere 6 In Le fait de l’analyse, 10, 2001. 60 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Tra le impalcature della Metapsicologia sia un errore, a mio avviso. È importante invece pensare al processo del lutto come ad un lavoro necessario, costante, ma liberatorio e pensare alla coazione a ripetere come ad una tendenza che può avere derive pericolose ed anche mortali ma che, paradossalmente, è fatta anche per ricercare situazioni nuove e quindi piaceri nuovi. Che poi questi si colleghino nell’inconscio con i precedenti, non significa che si tratti di una banale e sterile ripetizione, ma che si instaura una continuità vitale nella nostra storia. Adesso che ci penso, proprio la questione del giudizio (primario) com’è elaborata nel Progetto potrebbe essere utile. Infatti quando la tendenza a ricercare un oggetto nella realtà ci fa considerare il percetto, questo si scinde in una parte già nota ed in una sconosciuta (pag. 232 delle OSF, 2) e questa parte variabile del complesso percettivo dà incremento all’attività di pensiero. Questo incremento - che dal punto di vista pulsionale è un lavoro inutile - è un guadagno per l’apparato nel suo complesso: è ciò che di nuovo l’apparato acquisisce. Infatti. Si fa per dire. Dico “infatti” per rincuorarmi, perché entriamo in un discorso difficile, troppo difficile per affrontarlo nello spazio che abbiamo a disposizione. Certamente dovremo lasciare ai lettori di rivedersi i passaggi che dal “giudizio” del Progetto portano alla Nota sul “notes magico” e a La negazione. Però le sue parole mi hanno fatto pensare a qualcosa che Lei ha scritto in un lavoro intitolato “Per una metapsicologia della coscienza”7 (un assaggio del suo nuovo libro?) occupandosi del giudizio sia nei termini del Progetto, sia in quelli della Negazione. Il presupposto è che la coscienza “è concepibile come un fatto in primo luogo narcisistico, un luogo cioè nel quale l’apparato compie un’esperienza riproduttiva senza la partecipazione dell’oggetto esterno, anche se ciò può avvenire quasi nel momento stesso in cui si compie l’esperienza dell’oggetto”. Un paio di pagine più avanti Lei scrive: “Se guardiamo le cose da questo punto di vista, l’importanza della coscienza non sta tanto nella possibilità di comunicare con gli altri attraverso lo strumento linguistico e quelli ad esso correlati, quanto nella preliminare possibilità che essa dà al soggetto di differenziarsi dagli altri sul piano della riproducibilità e nella possibilità di comunicare tramite l’effetto di coscienza. Contemporaneamente, questa differenziazione rappresenta sul piano della coscienza la limitazione dell’individuo, lo scacco radicale che il narcisismo deve subire e, in qualche modo, accettare ad ogni livello dell’apparato: non essere il tutto, 7 In Rivista di Psicoanalisi, 46, 1, 2000. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 61 Tra le impalcature della Metapsicologia ma un tutto. Si potrebbe dire che l’esigenza narcisistica fondamentale di essere tutto si può rappresentare e si deve raggiungere a livello di coscienza tramite la rappresentazione di sé come un tutto, ma anche come una rappresentazione di sé come un tutto unico, diverso da tutti gli altri”. “Non a caso lo sputo, con la dichiarazione di non-mio che comporta (Freud, 1925), è un’esperienza importante, checché ne pensino le madri: essa stabilisce infatti la modalità caratterizzante tramite la quale un contenuto rappresentativo può arricchire la coscienza. Nel momento in cui un oggetto, poniamo un sassolino posto in bocca per curiosità, viene sputato, la rappresentazione del sassolino e la descrivibilità di questa esperienza sono già state costituite.” “In questo senso non è tanto il caso, a mio avviso, di enfatizzare la dimensione del ‘negativo’, quanto di sottolineare con forza l’elemento della riproducibilità” . Ritorniamo alle pagine che Lei dedica nel suo libro alle origini del giudizio, “il processo psichico che si pone al bivio tra affetti e rappresentazioni”. Mi fermo solo su due punti. Ad opera del giudizio, per usare le parole di Freud, “l’informazione del proprio grido serve a caratterizzare l’oggetto” e lo qualifica come “ostile”. Lei ci fa osservare quali sarebbero gli “effetti dell’esclusione dal giudizio” e fa un esempio per mostrare le conseguenze che avrebbero in relazione all’oggetto: “Si potrebbe affermare che il giudizio è alla base del pensiero conoscitivo ma che l’oggetto del piacere, non essendo soggetto a giudizio, è ignoto. Per fare un esempio ovvio delle implicazioni di questo concetto, che rapporto avrà un bambino con la mamma in quanto oggetto soddisfacente? Un rapporto rischioso, perché la possibilità di ‘fruirla’ potrà compromettere la possibilità di ‘ capirla’”. Il fatto che il giudizio si radica nel corpo, si basa su un’informazione che viene dal corpo - o per usare le parole di Freud nel Progetto (p. 236) “sulla presenza di esperienze somatiche, di sensazioni e di immagini motorie del soggetto stesso” - implica un limite importante: il giudizio non ha modo di applicarsi alle “cose”. Questo, come Lei scrive nel capitolo che dedica a L’inconscio, ci aiuta a non fraintendere il concetto di rappresentazione di cosa, poiché in realtà “noi non possiamo sapere a che cosa corrisponda il ‘qualcosa’ che chiamiamo rappresentazione di cosa. Esso è appunto un concetto astratto e segnala che esiste un livello dell’esperienza che è per definizione indicibile”. Dunque: “Tra la ‘cosa’ inconoscibile del Progetto e la ‘rappresentazione di cosa’ della Metapsicologia esiste una continuità”. Nello stesso capitolo su L’inconscio, a proposito del tentativo di autoguarigione dello schizofrenico, ossia della vana ricerca di raggiungere, attraverso l’investimento delle rappresentazioni di parola, le rappresentazioni di cosa dell’oggetto, Lei scrive: “Ora, l’oggetto che è stato disinvestito 62 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Tra le impalcature della Metapsicologia e che pure è necessario per la vita e che dunque va ri-cercato, viene cercato [...] tramite, si direbbe nel linguaggio del Progetto, il ritorno alla informazione del proprio grido”. Ma già nelle pagine dedicate al concetto di giudizio Lei “traduce” nei termini del Progetto la descrizione con cui Freud mostra ne L’inconscio come lo schizofrenico alla fine si ritrovi in mano solo parole anziché cose. E giunge alla conclusione che “la schizofrenia è una patologia del giudizio”. In cambio della garanzia che non le sto facendo scrivere un altro libro, sebbene ci sia materia per una decina di libri, è disposto a dirci ancora qualcosa sul giudizio? E magari, giusto per complicare un po’ il discorso, sul rapporto tra “questo” giudizio e “quello” che deve essere sospeso dal paziente e dall’analista nell’analisi? Dunque. Qui è il caso di distinguere. Si potrebbe distinguere un giudizio primario da uno secondario ma bisogna premettere che la funzione del giudizio è comunque e per prima cosa quella di “consentire l’ingresso”. In questo senso, c’è continuità tra il concetto di giudizio nel Progetto, la metafora del guardiano che sta all’ingresso della coscienza (o del preconscio-conscio) nel settimo capitolo della Interpretazione dei sogni e la descrizione della funzione del giudizio ne La negazione (senza dimenticare tutto il discorso sull’esame di realtà, che vien fatto a partire dal Supplemento metapsicologico e arriva al Compendio... ). E ci si potrebbe chiedere se non sia il caso di attribuire al giudizio anche la funzione di coerentizzazione che Freud attribuisce al sistema Cs e che comporta degli errori di pensiero. Il giudizio che qui chiamo “primario” ma che Freud non qualifica ulteriormente è, innanzitutto, una scomposizione finalizzata (a cercare elementi che consentano una identità con la rappresentazione dell’oggetto desiderato) del complesso percettivo. La non-identità provoca un aumento dell’attività di pensiero. E questa attività è ψ, cioè inconscia. Si tratta di un processo, che Freud cercherà di esemplificare - ma forse troppo semplificando - nel paragrafo 17 del primo capitolo Progetto, un processo che implica la considerazione appunto della complessità dei percetti, stranissimi oggetti psichici che possono essere scomposti e ricomposti... quasi a piacere (comunque per cercare piacere). In questo caso, il giudizio consente l’ingresso nel sistema ψ nel senso che consente di integrare nei contenuti del sistema degli oggetti psichici altrimenti estranei. Si potrebbe dire che, nel caso del trauma, fallisce anche questa funzione e i percetti rimangono estranei. Il giudizio “secondario” (ma è sempre una distinzione di comodo, ripeto) si applica nel processo secondario (nel sistema Pcs e Cs) è basato sempre su un’analisi del percetto e sul confronto con le rappresentazioni derivate da tracce mnestiche riattivate ma - e qui sta secondo me la genialità di PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 63 Tra le impalcature della Metapsicologia Freud - riguarda le rappresentazioni di parola. Perfino il percetto visivo deve collegarsi-associarsi a rappresentazioni di parola, per sottostare a questo processo. In cambio, ottiene il pass per l’accesso alla coscienza. Corollario importante: se le rappresentazioni di parola perdono le loro associazioni con le altre rappresentazioni (di cosa) non solo non veicoleranno più affetti e non saranno utilizzabili per la soddisfazione del desiderio, ma potranno essere scomposte solo alloro interno, nella componente di origine percettiva esterna e in quella interna o motoria. Si istituisce allora un circuito che oggi si direbbe autoreferenziale e che ha un significato di disastro narcisistico. Fin qui abbiamo visto la costruzione riguardante il giudizio e le implicazioni sul processo associativo. In clinica, appunto, noi cerchiamo di lavorare su questo processo, di consentirlo, di disfare nessi associativi che conducono a vicoli ciechi e di riconsentire l’attività del pensiero (e del giudizio). L’analista - come il paziente deve sospendere il giudizio, si dice. Cioè sospendere l’attività di istituzione di nessi, se ci riesce, e togliere quelli che gli vengono “passati”. Se percepisce acusticamente la frase “Semi parla come un libro stampato” e sente dentro di sé il ricordo - apparentemente immotivato - di un giardino di parenti e magari prova fastidio, l’analista non cercherà di stabilire narcisisticamente un nesso con se stesso, ma smonterà i nessi della frase e gli resterà un pugnetto di rappresentazioni: “semi”, “parlare” “libro”, “stampa”. L’analista si chiederà solo dopo se, ad esempio, il paziente non gli stia comunicando un episodio infantile rimasto stampato da qualche parte, nel corso del quale egli fu rimproverato perché, nel tentativo di prendere dei semi, aveva strappato delle piante. E sarebbe opportuno che si riuscisse, mediante questo procedimento, ad avere anche parecchie possibilità interpretative, non una sola. O di un sogno nel quale a fianco del letto c’è un comò anziché un comodino, l’analista si chiederà perché il sognatore ricordi Dino e chi sia o cosa rappresenti questo nome o la mancanza di questa persona. Procedimento strano, d’accordo, ma con una sua logica... c’è del metodo in questa follia. Per raccogliere qualcosa di più in questo campo, proviamo a vedere che cosa è stato seminato con altri Semi. Lascio ai nostri lettori il piacere di vedersi per intero un suo scritto recentissimo, “Tornare in un luogo nuovo”8, e torno a due suoi lavori un po’ più antichi. Il primo è del 1986: “Il discorso iperbolico”9. La sua attenzione è rivolta a una particolare forma del discorso, costruita sull’iperbole. Lei esamina due testi letterari (Itala Svevo e Thomas 8 In Rivista di Psicoanalisi, 48, 4, 2002. 64 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Tra le impalcature della Metapsicologia Bernhard) e due “testi” clinici (sedute di suoi pazienti). La tesi è che “l’iperbole veicola un affetto importante sulla base solo di ricordi verbali, isolati da rappresentazioni visive”. Le immagini di cui si riempie il discorso iperbolico, non sono vere immagini, ma “racconti di immagini”. Insomma “sono all’opera affetti intensi ma muti” cui non si riesce a dar voce. E “il mutismo si presta a raffigurare la morte” o, più precisamente, la propria morte. Nelle conclusioni Lei ci propone il dramma delle origini dell’Io: “ognuno di noi ha sperimentato questa morte: per lo meno nel senso che, per un periodo di tempo che deve esser parso eterno, non siamo stati in grado di parlare nemmeno di utilizzare strumenti linguistici dentro di noi”. Ossia: “l’Io è quella istanza che si ricorda di quando non c’era, cioè di quando era qualcosa di radicalmente differente da quel che divenne nel momento in cui poté usare di strumenti linguistici”. Qui sarei fortemente tentata di invitarla a un confronto con il pensiero di Eugenio Gaddini e con quello di Donald Winnicott su questa preistoria dell’Io. Ancora più appropriato sarebbe scorrere le pagine del suo libro per vedere come man mano, e sempre più palesemente da L’inconscio al Supplemento metapsicologico a Lutto e melanconia, si imponga a Freud il richiamo all’Io e, “alle spalle del sistemi”, e delle impalcature metapsicologiche loro destinate, “compaiono delle istanze diversificate”. (Si preannuncia la seconda topica). Invece passo all’altro lavoro, che ci riporta al problema della riunificazione di sé, anche per l’analista, del sentirsi “un essere umano”. Lei affronta il problema attraverso la clinica, la teoria e la metapsicologia. Il tema è l’isteria, luogo di origine della psicoanalisi e “la situazione umana che espone più direttamente e più travolgentemente alla esperienza dell’inconscio e di un inconscio dominato dal prepotere delle correnti pulsionali”. Il titolo: “Sull’isteria e l’identificazione isterica”10. Lei presenta la prima parte della seduta di una paziente: il silenzio iniziale che esclude persino il “buonasera” all’ingresso, i prolungati movimenti delle labbra, le parole successive, l’intervento “in stile anni Venti” dell’analista, l’accesso di tosse della paziente eccetera. Non mi fermo sulla seduta, ma annoto intanto un suo avvertimento circa il rischio di ripensare alla clinica con “una sorta di fatalismo”: “se è accaduto così, è perché così doveva accadere, perché la relazione era arrivata al punto giusto, perché si era toccato qualche tasto in precedenza [...] che poi aveva provocato... Ad esempio [...] si potrebbe argomentare che il mio silenzio della seduta 9 In Rivista di Psicoanalisi, 22, 1, 1986. 10 In Rivista di Psicoanalisi, 41, 2, 1995. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 65 Tra le impalcature della Metapsicologia della settimana precedente sia stato quel che di me la paziente ha ‘preso’ per ritentare di esprimere un qualcosa - un complesso rappresentativo bloccato, una fantasia inconscia. Sono argomentazioni a posteriori che mi lasciano sempre un po’ il sapore disgustoso della razionalizzazione - tanto per restare nell’ambito del sintomo e per far vedere una applicazione delle possibili ricadute del transfert sulla teoria”. Nelle pagine successive Lei lavora alla definizione metapsicologica dell’identificazione parziale caratteristica dell’isteria. Se ne deduce che l’effetto di “superficialità” del discorso isterico è ingannevole perché “rappresenta solo quanto emerge alla superficie della coscienza come conseguenza dell’applicazione della identificazione a contenuti non fortemente soggetti all’azione della rimozione”. In realtà c’è anche una conoscenza inconscia (“frutto dell’applicazione continua di questo meccanismo identificatorio”) che produce effetti particolari sul transfert dell’analista sul paziente (transfert che “mira in qualche modo al ricongiungimento dell’analista con se stesso, cioè con quella parte di sé che egli non conosce, ma che l’isterico è riuscito a suggerirgli)”. Salto alle conclusioni che cito quasi per intero. “E dunque l’isteria oggi: se esamino da un punto di vista diciamo così ‘sociologico’ la tecnica media degli analisti, l’impressione che ne ho è che l’isteria non abbia grandi possibilità di esprimersi. Se si interpreta fin dalla prima seduta il ‘transfert’ (che qui metto tra virgolette) o se si sviluppa appieno la tecnica dell’analogia, questa devastante figura retorica la cui applicazione estesa stiamo scontando con effetti tra il ridicolo e il pedagogico [...], si ottiene un effetto di repressione o di rafforzamento della rimozione che induce o un adattamento falsificante o una regressione inapparente e tanto più grave quanto più incontrollabile, foriera di esplosioni di cosìddette ‘reazioni terapeutiche negative’. Quel che sparisce, in questo contesto tecnico, è il simbolo, inteso nella sua accezione originaria pregnante di qualcosa che è fisiologicamente concreto e separato - i due classici pezzi di coccio - e che tuttavia tende alla riunificazione e ritrova solo nella riunificazione un significato. Un significato, però, si badi, non il significato, che rimane sempre al di là delle nostre possibilità espressive” [...]. “Sono forse alquanto pessimista. Se lo sono, tuttavia, è perché sono convinto che l’allontanamento dall’isteria rappresenti un grave danno e che solo quando - a prezzo di mettere in ballo la propria riunificazione narcisistica e la propria persona nella sua unità ed unicità ma anche nella sua solitudine - l’analista tollera di riconoscere gli aspetti dirompenti dell’inconscio - ciò che con le psicosì è spesso troppo facile - egli può riuscire a intravvedere nella propria maschera, cioè nella propria persona, l’effetto di combinazioni sempre diverse di elementi sempre eguali che lo fanno essere umano, in tutti i sensi” . 66 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Tra le impalcature della Metapsicologia A riprova che la metapsicologia è indispensabile. Dottor Semi, avremmo ancora tempo e argomenti, ma cominciano a mancarci le pagine. Io detesto le separazioni (è vero, ma se l’avessi scritto tra virgolette sarebbe la citazione della frase d’apertura dell’ultimo libro di Michel Gribinski11). Ammutolisco e le cedo lo spazio che resta. Ne prendo poco ma per dire una cosa cui tengo moltissimo. L’umanità non riesce a capacitarsi e io faccio parte di questa umanità, beninteso - di essere riuscita ad esprimere l’individualità e la soggettività. La psicoanalisi, in fondo, è la scienza che cerca di comprendere come questo accada, perché a volte si preferisca essere non-umani, perché e quanto si fallisca in questo che pure è un compito della specie. A volte, invece di impantanarsi in una casistica (fortunatamente) senza fine, val la pena di ripensare a questi interrogativi, che sono in fondo la nostra stella polare, cioè uno strumento che serve per qualsiasi rotta. E grazie davvero dello spazio che m’ha dato. ANTONIO ALBERTO SEMI Castello 3471 30122 Venezia MARIA LUCIA MASCAGNI Via Padova 122 41100 Modena [email protected] 11 Michel Gribinski Les séparations imparfaites. Gallimard, Paris 2002. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 67 CONDIVIDERE LA CURA Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? ANNA GIAVEDONI Il ruolo del farmaco nella relazione psicoterapeutica: oggetto trasformativo o conservativo? Agli inizi dell’era degli psicofannaci, nei primi anni ‘50, era severamente bandita l’introduzione di farmaci nel setting, come di qualsiasi altro elemento che potesse variarlo. Questa preclusione assoluta sembra essersi progressivamente stemperata sia per una maggiore duttilità di alcuni analisti, sia per l’apertura all’analisi di patologie che prima non vi avevano accesso. A questi due elementi aggiungerei anche la recente disponibilità di farmaci più specifici nella loro azione e con meno effetti collaterali. Per fare un esempio, se fino a pochi anni or sono la terapia farmacologica della schizofrenia si basava sugli effetti di una potente e generalizzata sedazione del soggetto, a partire dalla cloropromazina, i farmaci antipsicotici di nuova generazione attualmente prescrivibili, a partire dalla clozapina, risultano più selettivi nella loro azione. Sono meno sedativi e permettono in questo modo trattamenti ambulatoriali e si integrano con la riabilitazione e, dove è possibile, anche con la psicoterapia. A proposito di queste nuove terapie Freni scrive: “Stiamo assistendo ad un grande paradosso della psicofarmacologia per cui un farmaco più è efficace più ha bisogno di assistenza psicoterapeutica” (1998, 8). Nell’ambito del rapporto medico-paziente il farmaco va considerato sotto il versante biologico, per i suoi effetti farmacodinamici e farmacocinetici, ma anche psicologico per il ruolo giocato all’interno della relazione. Come sottolinea Petrella: “In psichiatria la forma dell’intervento è importante quanto l’intervento stesso. Una prescrizione farmacologica interessa per come è realizzata tanto quanto il composto che viene somministrato” (1993, 611). I significati inconsci che riveste l’atto di ingerire un farmaco come parte di un rapporto psicoterapeutico devono essere messi a fuoco ed essere inseriti nel processo psicoterapeutico in modo coerente. 70 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? Farmaco e parola La prima esperienza soggettiva umana è collegata ad un’esperienza trasformativa messa in moto da un oggetto. Questo viene identificato dal bambino con il processo dell’alterazione dell’esperienza di Sé. L’oggetto trasformativo è correlato alla funzione materna perché la madre altera costantemente l’ambiente del bambino per poterne soddisfare i bisogni. L’identificazione della madre con una trasformazione dell’essere non è un’illusione ma è una realtà; emerge da una relazione simbiotica, il cui primo oggetto è conosciuto non tanto attraverso una rappresentazione oggettuale ma come una ricorrente esperienza dell’essere. Man mano che la madre contribuisce all’integrazione del bambino, i ritmi stessi di questo processo determinano la natura del rapporto oggettuale, piuttosto che la qualità dell’oggetto in sé. La madre, agendo come lo supplementare (Heimann 1956) o come ambiente facilitante (Winnicott 1963), sostiene la vita del bambino e gli trasmette anche attraverso un suo “idioma di cura”, come dice Bollas, un’estetica dell’essere, che diventerà una caratteristica del Sé del bambino. È un processo che presenta caratteristiche peculiari, poiché si tratta di un tipo di identificazione che inizia prima della rappresentazione mentale della madre come altro. Il rapporto oggettuale che ne deriva non può quindi emergere dal desiderio, ma da una specie di identificazione percettiva dell’oggetto con la sua funzione: “L’oggetto come trasformatore ambientale-somatico del soggetto” (Bollas 1987). La madre è vissuta come un processo di trasformazione e questa caratteristica della vita precoce rimane in alcune forme della ricerca oggettuale durante la vita adulta. L’esperienza ci insegna che la ricerca dell’oggetto trasformatore diviene una costante in certe fasi della vita adulta. Il ricordo del primo rapporto oggettuale può manifestarsi nella ricerca di un oggetto reale, quale può essere la persona dell’analista o anche proprio il farmaco, che promette di trasformare il Sé. I pazienti cercano di trovare una capacità dentro di loro, non una relazione con l’oggetto. L’oggetto non è un fine in sé ma solo un mezzo per trovare questa capacità. La ricerca dell’oggetto trasformativo mobilita usualmente moti di speranza e un senso di fiducia e mette ricorrentemente in azione una memoria preverbale. Gli aspetti emozionali che trascina offrono, a colui che cerca l’occasione di sperimentare, un profondo rapporto soggettivo con l’oggetto. La persona sperimenta una perturbante fusione con l’oggetto, un evento che rievoca quello stato dell’Io, tipico della vita psichica precoce. Sono momenti estetici che per la loro qualità perturbante PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 71 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? possono, secondo Bollas, evocare una sensazione di fusione psicosomatica che è il ricordo proprio dell’oggetto trasformativo. Questo tipo di esperienza non può non ricordare certe richieste di terapia, per le quali il progetto stesso di cura contiene la speranza di un oggetto trasformativo. In questi casi il terapeuta e/o eventualmente la terapia, intesa come prolungamento del terapeuta, funzionano nella memoria come traccia evocativa dell’oggetto trasformativo e il transfert si costruisce sulle orme del primo rapporto con l’oggetto trasformativo. La ricerca di questo oggetto non deriva dal desiderio, né dal bisogno, ma dalla certezza che l’oggetto designato sarà capace di resuscitare il ricordo delle prime trasformazioni dell’Io. L’esperienza dell’Io di essere trasformato dall’altro sembra restare come una specie di ricordo, molto radicato e pervasivo nella memoria, che potrà essere riattivato nelle esperienze estetiche e in una vasta gamma di oggetti trasformativi che promettono nella mente del paziente un totale cambiamento. La descrizione della ricerca dell’oggetto trasformativo contiene indubbiamente alcuni elementi insiti nella domanda di terapia, quali ad esempio la ricerca inconsapevole di esperienze e di emozioni precoci, di un cambiamento profondo ed evoca e trasporta con sé movimenti di speranza e fiducia (Bollas 1987). Il terapeuta che coglie questi primi elementi della relazione può provare sentimenti contrastanti, di turbamento e perplessità, se considera il livello di regressione immediato del paziente e le caratteristiche di onnipotenza della domanda, ma nel contempo non può prescindere dagli elementi di speranza e di movimento in senso evolutivo e maturativo, attivati dalla domanda stessa. Saper precocemente cogliere questi elementi per elaborarli a livello controtransferale permette al terapeuta di individuare la natura della domanda, di capire se è spontanea o meno, e di modularsi nella relazione. L’esperienza mi ha insegnato a porre un’attenzione particolare alla fase di avvio della relazione proprio per individuare questi primi elementi transferali. Essi costituiscono metaforicamente i mattoni per costruire la relazione e quanto più solidi essi saranno, tanto più sarà possibile sostenere gli urti e le crisi anche nelle forme più gravi. Il risveglio di Mario Ricordo il caso di una giovane donna, annientata dall’improvvisa malattia del marito che, colpito da un massiccio infarto cerebrale, era entrato in coma. Fino a quel momento ella aveva condotto una vita felice e realizzata grazie al matrimonio e al proprio lavoro ora si trovava in uno stato di di- 72 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? sperazione e in preda ad un’ansia elevatissima, con inquietudine ed insonnia protratta, e non riusciva ad affrontare l’assistenza al marito. Più tardi appresi che la signora era stata adottata nell’infanzia da una coppia di genitori anziani che erano deceduti. Di conseguenza in questa triste circostanza non poteva contare su alcun riferimento familiare. Conosceva bene una mia paziente, felicemente ripresasi da una profonda depressione. Si rivolse a me con una grande aspettativa di riacquistare forza e coraggio per affrontare la realtà. Le proposi di partecipare ad un protocollo sperimentale per valutare insieme a me l’efficacia e la tollerabilità di un nuovo antidepressivo, dei cui promettenti risultati avevo di recente appreso in un congresso negli Stati Uniti. Io stessa confidavo molto nel preparato, dopo aver studiato il suo profilo di efficacia e verificata l’assenza di effetti indesiderati. In stretta collaborazione medico e paziente seguirono il protocollo terapeutico che prevedeva la valutazione dei sintomi depressivi ed ansiosi, il monitoraggio della gravità, l’adeguamento del dosaggio del farmaco, il controllo della rispondenza e la verifica dell’eventuale comparsa di effetti collaterali. Negli incontri la signora mi aggiornava sulle condizioni del marito, che dopo un periodo protratto di cure intensive si era svegliato dal coma, con una afasia ed un’emiparesi residue. Nel corso dei due anni successivi, durante i quali ha continuato la terapia, sono stata testimone della potenza degli oggetti trasformativi: il farmaco antidepressivo, di indubbia efficacia farmacologica, era stato da lei individuato ed investito, per dirla con le sue parole come “qualcosa di miracoloso”, che le aveva permesso di affrontare la malattia e sostenere in seguito la riabilitazione del marito. A fine protocollo la paziente si dimostrò capace di ridurre l’antidepressivo alla dose di mantenimento e successivamente di sospenderlo senza presentare sintomi di dipendenza. Ha voluto di recente venirmi a trovare insieme al marito che pur a fatica e con l’aiuto di un bastone ha camminato fino al mio studio; con voce tremula ma recuperata che mi ha ringraziato di persona. La ricerca dell’oggetto trasformativo presenta caratteristiche diverse tra loro, in dipendenza dalla struttura di personalità e anche dalla sintomatologia. Per esempio, tanto nel carattere narcisistico che in quello schizoide, si presenta un bisogno di riparazione dell’Io e dunque una ricerca maniacale di salute. Si può individuare questo tipo di motivazione in alcune particolari richieste di terapia che ricercano un ambiente speciale, privilegiato con l’analista; le interpretazioni non vengono accolte per il loro contenuto, ma esclusivamente perché vissute come segni di presenza materna. In questa situazione, se il contenuto non viene accolto, il PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 73 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? paziente permane in una condizione di richiesta continua ed inesauribile. In questa area si collocano la patologia del gioco di azzardo e molte delle richieste di farmacoterapia con caratteristiche conservative. Alla luce di queste considerazioni, è necessario porre particolare attenzione alla domanda di intervento tramite il farmaco. La domanda che a prima vista può apparire come una richiesta trasformativa, ad un esame più attento si colloca invece sul versante opposto. Molte volte infatti si tratta della richiesta di un progetto conservativo. Una delle frasi che maggiormente ricorrono nelle richieste di cura di questo tipo si basa sulla domanda di un farmaco capace di riportare alla situazione antecedente la crisi: in tal senso possiamo ricordare le numerose richieste e prescrizioni di farmaci così detti ricostituenti, che accettando o proponendo uno stato di mancanza, aderiscono ad un progetto non trasformativo, bensì conservativo. Rientrano in questa categoria molte delle richieste di terapia ansiolitica nelle forme di distimia, nelle sindromi di attacco di panico ed in generale in tutta la patologia ansiosa. Non voglio qui affermare che la terapia ansiolitica sia in queste patologie controindicata o non prescrivibile, ma desidero invece sottolineare come le modalità prescrittive e l’atteggiamento del medico diventino estremamente importanti in un progetto di cura che si proponga come trasformativo. Con questa sintomatologia serve infatti sgomberare il campo dagli aspetti magici legati al farmaco, evitare atteggiamenti autoprescrittivi, individuando e proponendo fin dalle prime battute un programma chiaro e definito, teso a favorire il lavoro psicologico di introspezione ed evitando spostamenti sul farmaco. Il terapeuta con la parola può favorire una trasformazione del progetto di cura. In questi casi si è potuto osservare come l’ascolto e la comprensione possano promuovere e sostenere il lavoro di identificazione del livello di ansia, l’individuazione del grado di tolleranza soggettiva e la correlazione con gli eventi esterni e/o interni, orientando in questo modo anche il processo diagnostico. Generalmente tutto questo a livello clinico si traduce nel conseguimento di uno stabile effetto ansiolitico. Scrive Nielsen (1998) che nel farmaco viene spesso proiettata la speranza di una specie di restitutio ad integrum, ovvero una ri-trasformazione allo stato precedente. L’assunzione del farmaco assume in questo caso il significato di un fallimento dell’oggetto trasformativo e come tale si iscrive nell’area della patologia non-trasformativa, assumendo il carattere di un oggetto “come se fosse trasformativo”. La trasformazione attuata dal farmaco, al di fuori della relazione medico-paziente, che l’autore descrive come improvvisa, non è opera dunque dell’Io. 74 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? È necessario allora porre altrettanta attenzione alla qualità della trasformazione. L’azione del farmaco è chimica e come tale tenderebbe ad usurpare la funzione di sostegno alla psiche da parte dell’Io, interrompendo il legame normale tra Io e psiche. Bollas si interroga “se l’assunzione del farmaco non possa corrispondere ad un atto di identificazione, nel tentativo di ricreare un elemento essenziale di una precedente situazione nutritiva che ha travolto l’Io” (1989, 157). In quest’ottica, e a partire proprio dalle dinamiche profonde con il farmaco, si può tentare di capire meglio le caratteristiche mentali di un’altra categoria di pazienti, i soggetti farmacofilici. La Tustin (1981), partendo dalla considerazione che i genitori dei pazienti farmacofilici in generale risultano psichicamente lontani dai loro figli, ritiene che il farmaco sia correlato al bisogno di cure materne ma ad un livello probabilmente ancora più precoce della fase orale. Se l’atteggiamento fusionale madre-bambino si protrae oltre il periodo fisiologico, l’interazione può avviare una distorsione della maturazione normale dei fenomeni transizionali, inibendo la capacità di sviluppare proprie risorse psichiche. La carenza di introietti e la difficoltà di identificarsi con una rappresentazione materna favoriscono in questi soggetti la ricerca di una soluzione nel mondo esterno. Ancora in tema di comportamenti tossicofilici, la Mc Dougall (1995) precisa che in questo modo droga, alcool e farmaci diventano oggetti che possono essere usati per lenire le sofferenze di alcuni stati mentali, assumendo quella funzione materna che l’individuo non è capace di svolgere per proprio conto. Questi oggetti di dipendenza prendono allora il posto di quegli oggetti transizionali dell’infanzia che incarnavano l’ambiente materno e contemporaneamente liberavano il bambino dalla dipendenza totale nei confronti della madre. Per l’autrice più che di oggetti transizionali si dovrebbe parlare di “oggetti transitori”. L’oggetto transizionale quando riesce ad adempiere alla sua funzione è un piccolo oggetto inanimato che incarna il postulato dell’autogenerazione: è il bambino stesso che ne crea il senso ed il segreto del suo successo risiede nel fatto che esso incarna per lui l’immagine dell’ambiente materno naturale, un’immagine che sta per essere introiettata ma che è ancora lontana dall’identificazione simbolica. Se invece questi oggetti transitori prendono il posto dell’oggetto transizionale della prima infanzia, si può evidenziare una patologia dei normali processi di maturazione dei fenomeni transizionali. Al posto di un oggetto in via di introiezione ed in seguito di identificazione, prende corpo un oggetto transitorio, di addiction, sempre da ricreare perché sempre esterno a sé. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 75 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? La lunga crescita di Manuela Manuela è una giovane donna ben conosciuta dai servizi sanitari, essendo riuscita con forte volontà e determinazione a riscattarsi da un passato di tossicodipendenza da eroina. Ha ripreso a studiare e sta per conseguire la laurea, dopo tanti anni di abbandono ha anche ripreso ad occuparsi della propria figlia. Nel percorso terapeutico è passata in carico dal servizio per le tossicodipendenze a quelli psichiatrici: infatti alla sospensione della terapia di mantenimento con metadone, presentava alcuni sintomi dispercettivi e un tono dell’umore deflesso. Manuela racconta come nei momenti di maggior tensione, quando sente su di sé il carico delle responsabilità che si è assunta di recente, prova la sensazione che qualcuno la osservi per rimproverarla del suo passato e in qualche momento sente anche delle voci denigratorie. Ha pensato di non potercela fare più e l’idea della morte le è parsa come una soluzione possibile. Pur presentando una sintomatologia simile e altrettanto profonda delle forme schizofreniche, Manuela assume un atteggiamento totalmente diverso nei confronti delle terapie, cosa che inevitabilmente si riflette anche nella relazione psicoterapeutica. Quando parla della medicina fa indirettamente riferimento ad un oggetto totalizzante che trascende la relazione medico-paziente, qualcosa da cui non si può prescindere in determinati momenti per poter superare angosce indescrivibili. Decide lei se, come e quando assumere il farmaco di cui conosce a memoria ogni dettaglio. La terapia farmacologica finisce per interporsi in modo insuperabile tra lei e il medico. Per poterla aiutare sarà necessario ripercorrere insieme a lei lo svezzamento, per poterle offrire una relazione con un oggetto nuovo, diverso dai precedenti, che tenga conto anche dei suoi vissuti interni, della sua temperatura emotiva; che sia plastico, malleabile ma soprattutto, con la sua progressiva crescita, anche deteriorabile e che lei possa abbandonarlo definitivamente e senza rimpianti. Viene naturale interrogarsi se questi oggetti transitori non siano allora anche da attribuire allo scenario perverso ed in tal senso viene in mente la distinzione dalla Greenacre (1970) tra oggetto transizionale e oggetto feticcio. Pur assomigliandosi per alcuni aspetti formali come oggetti inanimati che l’individuo adotta e utilizza per mantenere l’equilibrio psicofisico in diverse situazioni di tensione, essi differiscono per origine e funzioni. L’oggetto transizionale appartiene all’infanzia, e alla fine dell’infanzia con il passaggio nella fanciullezza viene abbandonato; il feticcio invece viene adottato nell’età adulta. Se l’oggetto feticcio serve come pezza di appoggio in un’area circoscritta e aspira ad essere durevole, l’oggetto transizionale invece è una costruzione temporanea che deve aiu- 76 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? tare il bambino nei primi stadi dello sviluppo del senso di realtà e nella costruzione della propria identità di individuo. Contrariamente agli oggetti transizionali gli oggetti di tossicodipendenza o di farmacodipendenza non possono ottenere alcun risultato; in quanto rappresentano tentativi sul versante somatico, esterno, piuttosto che psicologico, interno, di far fronte all’assenza, e forniscono quindi soltanto un sollievo momentaneo. Si può presumere che il bambino di fronte ai problemi inconsci dei genitori che ostacolano il processo transizionale, si trovi ad avere il solo rimedio di scindersi in due parti, una che si richiude nel proprio mondo interno, l’altra che si rivolge all’esterno con un adattamento compiacente. In questo modo si spalanca la porta alla tossicodipendenza e così al posto dell’oggetto transizionale assente, l’Io può invece aggrapparsi ad un oggetto transitorio. Questo sarà chiamato ad adempiere alla funzione transizionale e sarà destinato a restituire al soggetto il sentimento di essere reale, vivo e valido; come dice la Mc Dougall (1982) a colmare i vuoti dell’Io. Se la vita psichica del soggetto farmacofilico non trova elaborazione e quindi trasformazione nelle cure dei genitori, non è improprio ipotizzare che, nella sua fase iniziale della vita, il bambino possa aver conservato strati non trasformati dell’essere e del Sé, in attesa di poter essere trasformati in un momento futuro. Bollas ipotizza che potrebbe essere intervenuta in questi soggetti una utilizzazione massiccia del processo conservativo che “li ha destinati ad una conservazione eccessiva di esperienze dolorose non digerite” (1989, 162). Le terapie integrate Se per alcune patologie il farmaco rappresenta con maggiore evidenza aspetti di conservazione e per altre aspetti di trasformazione, in quelle schizofreniche dovrebbe in teoria svolgere prevalenti funzioni di trasformazione, per poter permettere l’integrazione tra farmaco e parola. Il significato etimologico del verbo integrare, che sta a significare rendere completo aggiungendo ciò che manca, indirettamente fa riferimento ad un cambiamento, ovvero ad una trasformazione. Vale la pena sottolineare la distinzione tra terapie combinate e terapie integrate. Nella terapia combinata si ha la combinazione tra psicoterapia e farmacoterapia in una strategia terapeutica che mantiene, conserva appunto, la distinzione tra modello biologico e modello psicologico della malattia. Con il termine di terapia integrata si vuole indicare un traguardo ideale della ricerca, in senso trasformativo dunque, contrassegnato dal superamento della dicotomia tra i due modelli, una volta PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 77 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? stabiliti in modo definitivo tutti i nessi chiarificatori della situazione psicopatologica e ricondotti all’interno di un’unica, nuova ed ipotetica teoria esplicativa. Il campo clinico di maggior diffusione della terapia farmacologica - e psicoterapica insieme, è senza dubbio rappresentato oggi dalle psicosì schizofreniche. Questo assunto si fonda su considerazioni di carattere empirico a partire dalla gravità della sintomatologia, dal decorso prolungato e dalla ipotesi di una patogenesi multifattoriale. Questo tipo di terapie viene universalmente individuato come una forma di terapia integrata. Potremmo dire che l’integrazione è un processo complesso, che corrisponde proprio a ciò che non riesce al soggetto schizofrenico e che i terapeuti sono chiamati a fare al suo posto, per lui, insieme a lui, nella speranza che egli impari dall’esperienza terapeutica. In tal senso abbiamo bisogno di sviluppare una diagnostica ed una terapia fondate sull’esatto riconoscimento dei bisogni, delle risorse, dei deficit transitori e/o definitivi del paziente, della sua famiglia e del suo ambiente sociale, incluso quello preposto alla sua cura. In quest’ottica vanno ricordati i contribuiti di numerosi autori, quali Gabbard (1994) e Zapparoli (1985). Per questa patologia si raccomanda una particolare attenzione proprio alla dinamica trasformativa degli oggetti nel mondo interno ed esterno del paziente, condizionata dalla sua modalità di relazione fortemente scissa ed ambivalente, drammaticamente sottesa dal dilemma fondamentale che segna la sua esistenza tra bisogno e paura delle relazioni. Oggetti morti, oggetti animati umani e non, con qualità che possono essere buone e/o cattive, oggetti transizionali e relazionali, hanno bisogno di essere seguiti in tutti i loro movimenti trasformativi e trattati con cura. Si può presumere che tra questi oggetti rientri anche il farmaco, con tutti i suoi effetti fisici e tutti i suoi significati psicologici. Tutti gli studiosi si pongono il problema di come il farmaco si integri con la parola. L’attenzione in generale verte sugli aspetti emozionali della cura e sui riflessi che ha rispetto alla dinamica transfert-controtransfert e sulla relazione psicoterapeutica, estendendo ed applicando al farmaco il concetto di parametro di Eissler, con tutte le conseguenze ad esso legate. In particolare, riguardo all’azione del farmaco nella patologia psicotica grave, vengono proposte varie ipotesi, quali: spostamento quantitativo di energie psichiche, evoluzione da una posizione disorganizzata di tipo schizofrenico ad una meno regredita assimilabile ad una posizione maniaco-depressiva, modificazione dei meccanismi di difesa, rinforzo di alcune funzioni del Sé particolarmente deboli e vulnerabili, permettendo la distinzione tra mondo interno e mondo esterno. 78 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? Un atteggiamento terapeutico adeguato deve tener conto dei tempi, modi, dosi e motivazioni del farmaco: da elemento inanimato viene via via investito di abbozzi di significati ambigui, transizionali, per poi essere disinvestito quando tali significati vengono elaborati nella relazione. Nelle terapie integrate il farmaco viene inserito in un contesto relazionale dialogico, motivato come un aiuto aggiuntivo rispetto al progetto terapeutico fondamentalmente psicologico, attraverso un approccio equilibrato dal punto di vista psicodinamico, in cui il piano empatico-soggettivo integra in modo creativo il piano medico-oggettivo, tenendo sempre presenti i movimenti psicodinamici del paziente, del terapeuta, della coppia nel suo insieme e anche eventuali interferenze esterne. Se consideriamo che l’area tra due soggetti è uno spazio potenziale, si può comprendere meglio come l’intervento integrato possa funzionare in modo sinergico risultando in certi casi unico e prezioso. Con il procedere del trattamento infatti il paziente, tendenzialmente indeciso all’inizio, ambivalente se non addirittura timoroso nei confronti della cura farmacologica, se ha modo di comprendere e condividere le decisioni in merito, può sviluppare non solo un maggior senso di sicurezza ma, anche attraverso il farmaco, una migliore conoscenza di se stesso e delle proprie capacità. In una relazione soddisfacente con il terapeuta, il paziente durante il suo percorso evolutivo, comincia ad interrogarsi sulla propria capacità di procedere in prima persona, anche senza il supporto farmacologico. La sospensione della cura è tuttavia una decisione delicata che deve tener conto non solo del versante psicologico della dipendenza, ma anche di quello somatico della riduzione graduale, senza recidive né ricadute (Freni 1998). La prescrizione di una terapia farmacologica per una sintomatologia schizofrenica richiede un’attenzione e una prudenza del tutto particolari. Pur considerando l’imprescindibilità della cura medica nella maggioranza dei casi, nella pratica risulta estremamente utile aspettare il momento più adatto alla proposta del farmaco, a partire dai vissuti e dalle dinamiche individuali. Il farmaco infatti può essere vissuto dal paziente come una forma di attacco al Sé, come qualcosa di intrusivo e penetrante (soprattutto quando in urgenza si ricorre alla via di somministrazione parenterale) da cui è imperativo sottrarsi. Personalmente ritengo fondamentale riuscire ad ottenere dal colloquio l’esternazione dei vissuti di paura ed angoscia, che generalmente caratterizzano le fasi di riacutizzazione. Il farmaco risulta proponibile proprio a partire dal suo primo effetto, di ansiolisi, riservando ad un secondo momento la spiegazione dell’efficacia antipsicotica e degli effetti benefici a lungo termine. Per spiegare meglio l’importanza della cura, risulta molto utile ricorrere all’uso di metafore che sottolineano l’effetto protettivo del farmaco, all’illustrazione dei benefici indiretti sulla qualità della PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 79 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? vita individuale e sociale e alle conseguenze estremamente negative derivanti all’opposto dalla sospensione delle cure. L’insonnia di Carlo Carlo, 30 anni, laureato in Economia e Commercio, lavora come programmatore di computer. Lo accompagna alla prima visita la madre, che evidenzia la sua recente progressiva tendenza all’isolamento in famiglia e sul lavoro con una riduzione delle performances cognitive. Carlo nega recisamente le affermazioni di sua madre che ritiene troppo severe ed intrusive. Decido di ascoltarlo senza proporgli un trattamento che tuttavia ritengo fondamentale. Negli incontri successivi, quando Carlo si sente più sicuro e fiducioso nei miei confronti, mi racconta di non dormire più, collegando la sua ansia alla preoccupazione per la salute della madre, che di recente ha affrontato un intervento chirurgico. Mi spiega che desidera mostrarsi in salute davanti a lei e in grado di aiutarla. Con prudenza e garbo gli propongo un trattamento farmacologico solo serale per favorire il sonno e con esso il recupero psicofisico. Volutamente ricorro a dosaggi contenuti, quasi pediatrici, per evitare effetti spiacevoli e con essi la sospensione precoce del trattamento. Carlo ritorna dopo una settimana più riposato e sereno, in grado di accettare l’adeguamento posologico per poter affrontare anche le paure più profonde che stanno emergendo dai colloqui. Apprendo direttamente da lui, a conferma di quanto inizialmente potevo solo intuire, che il suo ritiro psicosociale è legato all’irrompere di idee di sospetto e di autoriferimento sul lavoro. La relazione può così proseguire, tenendo aperto sia il canale psicologico dell’ascolto, sia quello medico del controllo della cura (Giavedoni 1994). Se pare verificato che i nuovi farmaci antipsicotici riducono il numero e la durata dei ricoveri, migliorano la compliance e in una certa misura attivano il paziente, c’è consenso unanime sul fatto che anche questi farmaci non siano in grado di guarire la schizofrenia. Possono però rendere più accessibile il paziente a nuove esperienze e fra queste, la psicoterapia è certamente una delle più importanti e strategiche. Il ruolo del farmaco nella relazione psicoterapeutica: oggetto trasformativo o conservativo? Seguendo il modello dello sviluppo oggettuale si può pensare che il ruolo del farmaco, in modo particolare nelle sue formulazioni più moderne può rappresentare, come è stato osservato nel gruppo di lavoro della Sezione Triveneta della SIPP, quello di un oggetto che contemporaneamente trasforma e allo stesso tempo conserva. 80 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo del farmaco nella relazione psicoteraputica: oggetto trasformativo o conservativo? Potremmo pensare che per gli aspetti conservativi, il farmaco, attraverso la sua azione ansiolitica, concorra a promuovere la forma della relazione; viene subito alla mente la necessità di garantire un setting stabile, il raggiungimento di un livello equilibrato di tranquillità interna per poter accedere al colloquio. Lo stesso farmaco, nei suoi aspetti trasformativi, attraverso un’azione selettiva, non sedativa, con l’effetto di un miglioramento cognitivo, concorre a comunicare lo stato interno, senza reprimerlo e a indicare la partecipazione affettiva. La capacità psicoterapeutica di individuare entrambi questi bisogni, di conservare e stabilizzare da un lato e nel contempo di trasformare dall’altro, senza creare contrapposizioni o imporre scelte univoche e in un secondo momento la capacità psicofarmacologica di individuare l’oggetto/farmaco più vicino a queste istanze, costituisce, a mio avviso, parte integrante del lavoro nella cura della psicosì. Desidero concludere con una osservazione raccolta tra i degenti del nostro reparto psichiatrico d’urgenza, che commentando in gruppo l’assistenza ricevuta nel servizio, sottolineava, con perspicacia, come per curarsi serva anche “avvicinarsi in modo intuitivo alla cura”. BIBLIOGRAFIA BOLLAS, C. (1987) L’ombra dell’oggetto. 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RIASSUNTO Il lavoro si propone di rivedere, attraverso la letteratura sul tema, il ruolo del farmaco nella relazione psicoterapeutica ponendo alcuni interrogativi sugli aspetti conservativi e/o trasformativi del farmaco e di correlarli, anche attraverso alcune esemplificazioni cliniche, al tipo di struttura e di sintomatologia. SUMMARY The role of the drug in the psychotherapeutic relationship: transformative or conservative object? The paper aims to review from literature the role of the drug in the psychotherapeutic relationship, in order to propose some conservative versus some transformative aspects of the drug and to link them through some clinical examples to specific structure type and symptomatology. ANNA GIAVEDONI SACCO Viale Venezia 205 33100 Udine [email protected] 82 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo della psicofarmacologia nell’ambito degli approcci terapeutici nelle malattie mentali JORGE PEREZ, ANNA PLACENTINO, LIDIA RAVELLI, PAOLO BRAMBILLA Il ruolo della psicofarmacologia nell’ambito degli approcci terapeutici nelle malattie mentali* Perché dedicare uno spazio di riflessione scientifica al ruolo della psicofarmacologia negli approcci terapeutici integrati alle malattie mentali? Le ragioni potrebbero sembrare più che ovvie, tuttavia, sono necessarie una serie di considerazioni generali per meglio comprendere la struttura di questa presentazione e la scelta dei sui contenuti. Spesso e da più parti si avverte il richiamo alla natura interdisciplinare della psichiatria. Attualmente, risulta sempre più evidente la necessità di mettere in atto un processo di sintesi tra discipline diverse e complementari, per meglio comprendere i processi diagnostici e modulare gli approcci terapeutici ai disturbi mentali. Infatti, l’integrazione di conoscenze biomolecolari e psico-relazionali può favorire l’intervento clinico e rivelarsi, pertanto, estremamente vantaggiosa per i pazienti. Sebbene questa integrazione sia un compito arduo, oggi la si ritiene un obiettivo imprescindibile ed irrinunciabile cui si deve giungere attraverso l’approfondimento delle conoscenze di base delle discipline mediche e psico-sociali. La neuropsicofarmacologia può rappresentare un esempio paradigmatico. Per usare questo strumento terapeutico è necessario possedere una dettagliata conoscenza di tutti i fattori connessi con il farmaco ed il paziente. Infatti, alla luce delle conoscenze attuali, risulta senza dubbio ingenuo sostenere la prescrizione di uno psicofarmaco seguendo solo alcune indicazioni di massima come ad esempio “questo neurotrasmettitore potrebbe essere in qualche modo coinvolto nei disturbi mentali”. In virtù di queste considerazioni, nella presente rassegna prenderemo in esame alcuni fattori che oscillano tra il versante clinico e quello neurobiologico e che si ritiene possano avere importanti risvolti nella comprensione del ruolo della psicofarmacologia in ambito psichiatrico. * Torge Perez è membro di autorevoli associazioni internazionali di psicofarmacologia e neurologia, diri- gente medico dell'Unità di Psichiatria Biologica, Centro San Giovanni di Dio - Fatebenefratelli, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) di Brescia. Questo lavoro, che insieme ai suoi collaboratori ha scritto per Psicoterapia Psicoanalitica, illustra i legami, anche problematici, che intercorrono tra la ricerca psicofarmacologica e le sue applicazioni cliniche. [NdR] 84 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo della psicofarmacologia nell’ambito degli approcci terapeutici nelle malattie mentali Aspetti clinici Un’analisi accurata e obiettiva della letteratura scientifica degli ultimi anni dimostra che i metodi impiegati nella ricerca clinica non sempre possono essere estesi alla pratica quotidiana. Gli studi controllati rappresentano a tutt’oggi un elemento fondamentale nella scelta della strategia farmacoterapeutica del paziente affetto da disturbi mentali. Questi studi, svolti in popolazioni omogenee di pazienti, consentono di individuare l’efficacia clinica e gli effetti collaterali di un trattamento psicofarmacologico indirizzato al miglioramento della sintomatologia psichiatrica. Tuttavia, i risultati di queste ricerche sono frequentemente in contrasto con la realtà clinica quotidiana dove, molto spesso, l’operatore si confronta con una problematica psicopatologica più ampia, rappresentata da soggetti eterogenei in comorbidità con altri disturbi mentali, con abuso di sostanze o con patologie mediche non sempre aderenti alla terapia. Tutto questo rende ardua la scelta terapeutica e la gestione clinica dei pazienti. Infatti, attualmente esiste un fervido dibattito fra clinici e ricercatori per individuare le variabili che condizionano una razionale scelta terapeutica. Tale valutazione deve tenere conto di tutti i fattori che influenzano il trattamento e deve essere condotta attraverso interventi individualizzati, al fine di garantire le migliori opzioni psicofarmacologiche al paziente. Certamente, è lecito chiedersi se gli psicofarmaci possiedono la medesima efficacia e prevedibili effetti collaterali anche in quei pazienti che non presentano i criteri descritti negli studi clinici controllati. Ma non solo; nella pratica clinica spesso si evidenzia il problema della “compliance” o aderenza terapeutica. I dati delle ricerche suggeriscono che un’alta percentuale di pazienti psichiatrici tende nel corso del trattamento terapeutico a ridurre o addirittura a rifiutare i farmaci prescritti. Il problema diventa ancora più grave quando si parla di pazienti “non responders” o “partial responders”. In questi casi si può correre il rischio di modificare la terapia senza indagare approfonditamente i motivi della mancata risposta terapeutica (non-compliance), le cui cause possono essere spesso ricondotte alle difficoltà del paziente o alla sua incapacità di mantenere un’adeguata adesione al trattamento. Tuttavia, sebbene il mondo scientifico sia consapevole dell’entità del problemacompliance, è altrettanto vero che la ricerca offre pochi spunti per aumentare le conoscenze in questo campo e per migliorare l’approccio diagnostico-terapeutico del paziente che non aderisce alla terapia. Aspetti fisiopatologici Le prime osservazioni che hanno dimostrato il coinvolgimento dei neurotrasmettitori nell’azione degli psicofarmaci, hanno portato alla formulazione dell’ipotesi che i disturbi mentali PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 85 Il ruolo della psicofarmacologia nell’ambito degli approcci terapeutici nelle malattie mentali possono essere associati ad alterazioni neurotrasmettitoriali. Benché le evidenze emerse da questi studi supportino l’esistenza di un legame fra neurotrasmettitori e psicofarmaci, i meccanismi neuropsico-biologici coinvolti nelle malattie mentali e nell’azione degli psicofarmaci rimangono essenzialmente sconosciuti. Di fatto, per individuare i meccanismi patogenetici dei disturbi mentali una maggior attenzione dovrebbe essere posta allo studio della neurotrasmissione nella sua globalità, analizzando tutte le componenti genetiche, biochimiche, molecolari e cellulari coinvolte in questo processo. Come gli odierni studi stanno evidenziando, occorre tener presente che la modulazione delle funzioni del sistema nervoso centrale può essere fortemente influenzata dai fattori ambientali, ossia da tutti quegli elementi che possono modificare lo sviluppo psicologico di una persona. Negli ultimi anni le ricerche nel campo delle neuroscienze hanno compiuto importanti progressi, ma persistono ancora notevoli barriere culturali fra la ricerca e la quotidianità clinica. Ridurre queste barriere è di cruciale importanza per meglio comprendere come l’avanzare della ricerca possa migliorare le conoscenze neuro-psico-biologiche dei disturbi mentali. Attualmente la ricerca suggerisce che alterazioni a carico delle cellule del SNC potrebbero essere coinvolte nella fisiopatologia di diverse malattie psichiatriche come ad esempio la schizofrenia, il disturbo bipolare, il disturbo ossessivo compulsivo, eccetera. A questo proposito sono state chiamate in causa alterazione genetiche, alterazioni del neurosviluppo e fattori ambientali che, da sole o combinate, potrebbero contribuire al malfunzionamento del sistema nervoso centrale. Un gran numero di studi ha chiaramente dimostrato che il carico genetico gioca un ruolo determinante e predisponente della vulnerabilità di alcune malattie mentali. Ad esempio oggi è noto che, come avviene per diverse malattie mediche, i disturbi mentali possono essere causati da alterazioni genetiche associate a fattori ambientali. Molti sono gli sforzi della ricerca per individuare i geni e le interazioni gene-ambiente che possono essere coinvolti nella schizofrenia, nel disturbo bipolare, nel disturbo ossessivo compulsivo e così via. Parallelamente, diverse ricerche hanno suggerito che processi infettivi o traumatici in particolari periodi della gravidanza potrebbero modificare la maturazione del SNC, causando alterazioni neurofunzionali che con il tempo diventano fattori determinanti nella comparsa di processi psicopatologici. Ma come coniugare questi elementi con la pratica clinica? Ad oggi, l’unico strumento a disposizione è costituito da un’anamnesi accurata che consideri gli aspetti bio-genetici, psicologici ed ambientali nella procedura diagnostica, nella scelta terapeutica e nella definizione della prognosi. In base agli elementi sopra descritti possiamo ipotizzare che ci siano pazienti con anamnesi positiva 86 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo della psicofarmacologia nell’ambito degli approcci terapeutici nelle malattie mentali per ognuna di queste singole cause e/o pazienti che presentano contemporaneamente questi elementi, fornendo così una possibile spiegazione all’eterogeneità clinica delle malattie mentali. Risulta, pertanto, ovvio l’impatto di queste conoscenze sul decorso e sulla prognosi. Aspetti farmacologici Una scelta psicofarmacologica razionale dovrebbe basarsi su una conoscenza approfondita delle molecole da utilizzare. Per molti anni la ricerca psicofarmacologica si è basata su una serie di approcci biochimici e comportamentali. Benché queste ricerche siano state di fondamentale importanza per la comprensione di alcuni effetti psicofarmacologici, rimangono dei modelli “statici” che non possono essere esaustivi nella spiegazione dell’effetto complessivo degli psicofarmaci nell’uomo. D’altro canto, la psicofarmacologia clinica ha preso spunto da questi studi per creare un parallelismo concettuale fra il meccanismo d’azione degli psicofarmaci e la risposta clinica. Di recente, gli sforzi della ricerca si sono indirizzati a fornire una visione “dinamica” degli effetti psicofarmacologici proprio con l’intento di far convergere l’iniziale parallelismo concettuale. Una valutazione generale di questi studi ci porta ad ipotizzare che 1’efficacia clinica di uno psicofarmaco dipenda dall’impatto che essa ha sull’intero SNC e sull’organismo nella sua complessità. I concetti sopra esposti hanno spinto i ricercatori a prendere in considerazione una visione più realistica, sebbene più complessa, della psicofarmacologia che possa avvicinarci ad un utilizzo più razionale di questi farmaci. Un primo passo importante è stato quello di definire i bersagli molecolari per gli psicofarmaci. Questi bersagli possono essere suddivisi in bersagli primari (diretti) e bersagli secondari (indiretti). Per bersagli primari si intendono le strutture cellulari cui gli psicofarmaci si legano, mentre i bersagli secondari rappresentano quelle strutture o meccanismi cellulari che vengono messi in moto come conseguenza dell’interazione degli psicofarmaci con i bersagli primari. L’effetto complessivo di un psicofarmaco dipenderà, quindi, dall’interazione tra bersagli primari e secondari a livello di un determinato tessuto. Diversi fattori vanno considerati per comprendere meglio la complessità sopra descritta. Innanzitutto, occorre evidenziare che i bersagli primari e secondari degli psicofarmaci sono presenti a livello del sistema nervoso centrale e in vari tessuti periferici. Inoltre, bisogna prestare attenzione al tempo che intercorre tra la somministrazione del farmaco e la comparsa degli effetti terapeutici: questa osservazione clinica, di fatto, non consente di affermare con certezza che l’interazione dello psicofarmaco con il suo bersaglio primario sia l’unico responsabile dell’effetto terapeutico. Infine, PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 87 Il ruolo della psicofarmacologia nell’ambito degli approcci terapeutici nelle malattie mentali occorre anche considerare la durata del trattamento. Infatti, risulta abbastanza ovvio pensare che l’interazione tra bersagli primari e secondari potrebbe essere più o meno marcata a seconda che il farmaco venga somministrato per un mese, sei mesi o per periodi ancora più lunghi. Una futura ed importante sfida per la ricerca psicofarmacologica consisterà nel dimostrare le modalità di attraversamento della barriera ematoencefalica da parte degli psicofarmaci. In passato, i ricercatori avevano affrontato questa problematica utilizzando metodologie grossolane alla luce delle attuali conoscenze sulla composizione della barriera ematoencefalica e degli elementi cellulari che gli psicofarmaci devono attraversare per raggiungere il loro bersaglio. L’approfondimento di questo aspetto, utilizzando metodiche biochimico/molecolari e di brain imaging potrà aiutarci a dare una risposta ad un quesito banale, ma che rappresenta una componente fondamentale dell’azione di uno psicofarmaco. Senza dimenticare che tali conoscenze potrebbero finalmente offrire ai clinici una risposta al complesso problema dei tempi di latenza degli psicofarmaci. Un gran numero di ricerche ha dimostrato che gli psicofarmaci più comunemente utilizzati in terapia come antidepressivi, stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e benzodiazepine, interagiscono con una serie di bersagli primari a livello del SNC, come ad esempio i trasportatori e i recettori per le monoamime, gli enzimi che le metabolizzano, il sistema gabaergico e alcuni canali ionici. Poiché alcune di queste proteine sono presenti anche in tessuti periferici (cuore, polmone, fegato, intestino, cellule del sangue, rene, eccetera) con un ruolo fisiologico ben definito, molti studi hanno cercato di individuare l’impatto dei farmaci psicoattivi sulle proteine localizzate a livello dei tessuti periferici e il loro coinvolgimento nella comparsa degli effetti collaterali. Infatti molti psicofarmaci possono agire su diversi bersagli cellulari e indurre attraverso i loro metaboliti effetti biologici benefici, ma anche indesiderati. Negli ultimi dieci anni gli studi di genetica, elettrofisiologia, biochimica molecolare e cellulare hanno modificato l’iniziale concettualizzazione della neurotrasmissione contribuendo a identificare più approfonditamente i bersagli primari degli psicofarmaci, ma favorendo anche l’identificazione dei bersagli secondari. Infatti, la presenza di trasportatori delle monoamine in diversi comparti neuronali, di autorecettori (recettori localizzati a livello del terminale sinaptico o del corpo cellulare di un determinato neurone), di eterorecettori (recettori presenti su neuroni che liberano un neurotrasmettitore diverso da quello che li lega) e dei processi di comunicazione fra sistemi neurotrasmettitoriali ha modificato l’interpretazione della farmacologia sinaptica. Molti studi dimostrano che i livelli dei neurotrasmettitori possono modificarsi sia nelle aree cerebrali che contengono i corpi cellulari sia nelle aree di proiezione che contengono i terminali presinaptici. Inoltre, studi di biologia cel88 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo della psicofarmacologia nell’ambito degli approcci terapeutici nelle malattie mentali lulare hanno esteso il concetto di neurotrasmissione a tutti i processi intracellulari includendo la sintesi proteica e l’espressione genica. Alla luce dei dati disponibili, anche i meccanismi intracellulari che regolano il rilascio presinaptico dei neurotrasmettitori possono essere considerati bersagli indiretti degli psicofarmaci. A questo proposito, infatti, sono diverse le evidenze che mostrano come il trattamento prolungato con tali farmaci induca modificazioni a carico dell’attività della calcio calmodulna kinasi (CaMKII), enzima chiave nella regolazione dei processi di rilascio sinaptico di neurotrasmettitori. Un altro elemento da sottolineare riguarda gli effetti conseguenti l’interazione dei neurotrasmettitori con gli eterorecettori correlati a modificazioni neurotrasmettitoriali indotti dagli psicofarmaci. L’interazione dei neurotrasmettitori con specifici recettori di membrana determina la trasduzione di un segnale attraverso la cellula postsinaptica portando quindi ad una o più risposte biologiche di breve o lungo termine. Sebbene non sia chiaro quali risposte biologiche siano da collegare alla risposta clinica, studi di farmacologia molecolare hanno documentato che il trattamento con psicofarmaci è in grado di modificare alcuni dei meccanismi postrecettoriali responsabili della trasduzione dell’informazione, quali ad esempio i processi fosforilativi mediati da proteina kinasi C (PKC) e protein kinasi A (PKA). È stato dimostrato che durante il trasferimento dell’informazione dalla membrana al compartimento citoplasmatico e da questo al nucleo cellulare si verifica una serie di eventi adattativi intracellulari. Tali eventi presentano probabilmente una temporalità ben definita. Ad esempio, è stato suggerito che durante le prime fasi del trattamento alcuni psicofarmaci sono in grado di modificare strutture del citoscheletro dendritico che renderebbero più semplice il passaggio dell’informazione dallo spazio sinaptico all’interno del neurone. In seguito la PKA, enzima ancorato al citoscheletro, modifica la sua attività. E successivamente parte dell’enzima trasloca dal compartimento cito scheletrico a quello citosolico, permettendo così la migrazione al nucleo cellulare dove avviene la fosforilazione di specifiche proteine coinvolte nella regolazione dell’espressione genica. Le modificazioni indotte dagli psicofarmaci a livello della fosforilazione proteica si traducono così in processi modulatori a breve e a lungo termine della funzionalità neuronale che includono la modulazione di specifici geni. Quindi, anche i processi intracellulari pre e postsinaptici possono essere considerati bersagli secondari per alcuni psicofarmaci. Un altro target primario degli psicofarmaci è rappresentato dagli enzimi della famiglia dei citocromi P450 (CYP450). Infatti, sono ormai numerose le evidenze che dimostrano come gli psicofarmaci siano metabolizzati da enzimi appartenenti a questa famiglia e come siano anche in grado, PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 89 Il ruolo della psicofarmacologia nell’ambito degli approcci terapeutici nelle malattie mentali in diversa misura, di modularne tale attività. È importante sottolineare che una molecola può fungere da substrato per uno o più enzimi CYP450, ma lo stesso substrato o un suo metabolita può agire anche da inibitore o induttore dello stesso enzima. Inoltre, va ricordato che determinati composti portano all’inibizione o induzione di enzimi CYp, diversi da quelli responsabili del loro metabolismo. Questo si riflette nella possibile insorgenza di interazioni con altri farmaci co-somministrati o con sostanze esogene, quali fumo di sigaretta o alimenti, che vengono metabolizzati e possono essere in grado di modulare a loro volta l’attività degli enzimi CYP450. Nella pratica clinica diventa quindi importante conoscere come e con quali enzimi della famiglia CYP450 interagiscono i diversi farmaci sia per evitare l’insorgenza di effetti collaterali sia, d’altra parte, per poter sfruttare positivamente le eventuali interazioni. Infine, va ricordato che sebbene i CYP450 siano allocati prevalentemente a livello epatico, recenti dati sperimentali evidenziano la loro presenza anche in altri tessuti come ad esempio il SNC, cuore, rene eccetera. Tutto ciò potrebbe, pertanto, condurre all’individuazione di processi metabolici che muterebbero le attuali concezioni della psicofarmacologia clinica. La farmacogenetica Il trattamento farmacologico dei disturbi psichiatrici rappresenta una problematica di grande rilievo nella pratica clinica quotidiana. Molti pazienti sono resistenti alla psicofarmacoterapia e una discreta percentuale sviluppa effetti collaterali di intensità variabile. Queste difficoltà spesso compromettono i programmi terapeutici diminuendo la “compliance” del paziente e aumentando la probabilità di cronicizzazione della patologia. Ancora oggi, non esistono indicatori biologici che permettano una razionalizzazione della scelta del trattamento psicofarmacologico. A questo proposito una possibile risposta potrebbe essere offerta dalla farmacogenetica. Con il termine farmaco genetica si intende l’insieme di studi riguardanti le possibili variazioni genetiche capaci d’influenzare l’attività di uno specifico psicofarmaco. Specifiche differenze nei geni, come alcuni poliformismi funzionali, sono in grado di modificare importanti proprietà biochimiche delle proteine endogene che regolano il metabolismo (farmacocinetica) e il meccanismo d’azione (farmacodinamica) degli psicofarmaci. Il metabolismo dell’aloperidolo viene regolato principalmente dal CYP2D6. È stato osservato che pazienti schizofrenici portatori di particolari polimorfismi a livello del CYP2D6 hanno livelli plasmatici di aloperidolo elevati, rivelandosi pertanto metabolizzatori lenti. Questa condizione è più 90 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il ruolo della psicofarmacologia nell’ambito degli approcci terapeutici nelle malattie mentali frequente fra i pazienti di origine asiatica, rispetto a quelli di origine caucasica. Inoltre, i metabolizzatori lenti hanno maggiore probabilità di andare incontro ad effetti di sedazione rispetto ai metabolizzatori rapidi, mentre si evidenziano risultati contrastanti riguardo ai polimorfismi di CYP2D6 in relazione alla discinesia tardiva e al parkinsonismo. I geni maggiormente studiati nella farmacodinamica degli psicofarmaci sono quelli che codificano per specifici profili recettoriali, quali i recettori per le momoamine e i trasportatori della serotonina. È stato riportato che pazienti portatori di polimorfismi a livello del trasportatore per la serotonina, mostrano una risposta antidepressiva diversificata. Sebbene siano ancora necessari molti studi per capire l’impatto di queste ricerche nella quotidianità clinica, la farmaco genetica potrebbe contribuire a migliorare l’attuale approccio farmacoterapeutico e favorire l’adeguata definizione dell’intervento individuale del paziente affetto da disturbi mentali. Conclusioni In questa breve rassegna abbiamo discusso solo alcuni dei fattori clinici e farmacologici che dovrebbero essere tenuti in considerazione per compiere una scelta psicofarmacologica razionale nel contesto degli approcci terapeutici integrati alle malattie mentali. E pertanto ci auguriamo che possa fornire nuovi spunti di riflessione per interpretare gli effetti clinici di tali farmaci. Pensiamo che questa lettura della psicofarmacologia non sminuisca la comprovata efficacia degli psicofarmaci, bensì illustri come una conoscenza approfondita di tutto ciò che è in relazione con lo psicofarmaco e il paziente possa aggiungere nuovi colori alla complessa arte di curare. L’attuazione di questo lavoro è stato consentito grazie alla sovvenzione del Ministero della Salute alla nostra unità operativa. BIBLIOGRAFIA ARTIGAS, E, ROMERO L., DE MONTIGNY, C., ET AL. (1996) Acceleration of the effect of selected antidepressant drugs in major depression by 5-HT1A antagonists. 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Le attività espressive nelle istituzioni di cura La presenza di attività espressive è una costante nelle istituzioni di cura per pazienti gravi, e pure costante è la vita tormentata di queste attività, ora fonte di gioiose realizzazioni che sembrano segnalare progressi nella cura e nei suoi metodi, ora manifestazione visibile di una misera condizione asilare, che emana angustia, infantilismo, incapacità di creare e di produrre, in una parola, di esistere in una condizione di umana dignità. Le attività espressive subiscono le raffiche di queste tempeste, che talvolta reclamano lavori “veri” per i pazienti, altre volte rispetto del loro ritiro e dell’orgoglioso rifiuto ad essere “come gli altri”. Tuttavia l’albero robusto di tali attività, pur piegato e scosso da questi venti, continua ad essere vivo e a svilupparsi. Vale la pena dunque chiedersi ancora una volta quale valore terapeutico esse veicolano e quali condizioni delle istituzioni di cura ne permettono il migliore sviluppo. L’uomo della sabbia e il ragazzo del carro armato Le attività espressive mettono in gioco qualcosa che ha a che fare con la sensazione di sentirsi vivi e con il senso che ha la vita. Per cercare di riflettere su un tema così impossibile, metto insieme in modo associativamente libero pensieri e immagini suscitati in me da alcuni pazienti nelle sedute di analisi che si sono sgranate durante il periodo nel quale stavo preparando questo lavoro. Si tratta di sensazioni e pensieri che si sono aggregati da soli nella mia mente e che possono dire qualcosa sul senso della vita che l’espressione artistica mobilita. La prima emozione è stata il ricordo di avere visto tra le opere esposte nella mostra Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa (1997) quelle di un uomo di circa 50 anni, ricoverato in un istituto psichiatrico per lungodegenti (Istituto Fatebenefratelli di San Colombano al Lambro) attivo nel Laboratorio di attività espressive «Adriano e Michele». Un uomo che, attraverso l’espressione artistica ha trovato una forma di comunicazione e di umana sopravvivenza, quando invece le premesse sembravano condannarlo al nulla istituzionale. Era stato il primo paziente con cui avevo parlato, quando nel 1968 andai all’ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, come studentessa spe- 94 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Sopravvivere. Le attività espressive nelle istituzioni di cura cializzanda di Psicologia, a fare il tirocinio. Nel corridoio dell’Ambulatorio di Psicoterapia Clinica diretto dal professar Zapparoli mi fermò un giovane, mi mostrò il dito medio della mano destra, che aveva una piccola crosta (simile al callo dello scrittore, che pure io avevo) e mi chiese: “Posso scrivere con questo?”. Io, entusiasta del facile dialogo con una persona che pensavo così inaccessibile e ben felice che desiderasse esprimersi, gli risposi: “Certo!”. Allora egli si staccò la crosta con l’altra mano e vi intinse un bastoncino e incominciò a scrivere con il sangue su un foglio. In quel momento imparai che cosa vuol dire pensiero concreto, impossibilità di comunicare, processi sconosciuti della psiche. Quello che credevo un facile contatto mi aveva invece catapultata in altri mondi del tutto sconosciuti. A 30 anni di distanza, ritrovai nella mostra le opere di un uomo, che non aveva perso la speranza di esprimere qualcosa di se stesso, della sua natura umana fondamentale, del suo sangue, ed era riuscito a farsi conoscere attraverso l’acquerello e a comunicare con le altre persone. Un primo pensiero emerso in me dunque è che nelle attività espressive emerge l’esigenza di comunicare qualcosa che sia espressione di un aspetto nucleare di se stessi, in cui sia contenuta la traccia, direi genetica, di un elemento personale, che dia la sensazione di esistere perché si lascia per l’appunto una traccia, di esistere per se stessi e per gli altri in un modo sufficientemente peculiare, unico. Allora mi si sono affacciati alla mente altri pensieri, provenienti dai pazienti attualmente in analisi, in contesti assai diversi, ma che possono offrire utili elementi di comprensione. Nelle sedute di analisi si possono infatti cogliere aspetti del funzionamento psichico, che poi vengono elaborati e interpretati in funzione del trattamento, attraverso la verbalizzazione e un percorso di trasformazione personale. Tuttavia la luce gettata dalla psicoanalisi su questi aspetti può essere utilizzata per illuminare significati presenti in altre esperienze, come l’attività artistica in contesti di cura, che si avvale invece di mezzi non verbali e rappresenta un tentativo di autorganizzazione a valore terapeutico. Penso dunque a un mio paziente, “l’uomo della sabbia”. Si sente quasi morto, nonostante l’apparente successo professionale, familiare, sentimentale: è stanco di vivere, stremato dalla fatica di dovere ogni giorno abitare un mondo patinato, splendente, solido, immobile, muto, che lui stesso si è costruito, alla ricerca di certezze. In un attimo, prende le distanze dalle cose che fa e che gli appaiono plastificate, fredde, cementificate, non vive. Nulla gli dice nulla. La scena si anima quando per caso ci capita di parlare della sabbia, del suo esserne un appassionato, un collezionista sgangherato: ecco che nel nostro incontro e dialogo le immagini splendide e plastificate non si sono subito aggregate. Ci siamo trovati “in mano” un materiale informe, la sabbia, fatto di parole, sensazioni, odori, da mettere insieme. Per dare una propria forma alle espressioni di sé occorre avere tra le mani PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 95 Sopravvivere. Le attività espressive nelle istituzioni di cura elementi disaggregati; poi avere del tempo, perché se no gli elementi si riaggregano subito secondo gli schemi che abbiamo sempre sotto gli occhi e ci perseguitano con il loro senso di morte e di estraneità. Occorre infine aver un posto in cui stare, abbastanza sicuro per potere fluttuare tra forme precarie, se no riaggreghiamo la sabbia velocemente, ne facciamo un blocco di cemento, per avere qualcosa di solido su cui appoggiarci. Mi viene in mente poi il ragazzo “del carro armato”: un giovane studente, che si sente schiacciato da una massa compatta che non riesce a trasformare. Ha paura che dalla macchia nera che sente vicina (e che rappresenta tutto quello che di sé non conosce e teme, contrapponendosi alla lucida consapevolezza in cui vive) salti fuori uno scheletro di ferro, un supereroe corazzato, un carro armato ferrigno che lo stenda. Egli stesso osserva che questa massa corazzata, per lui terrorizzante, invece non fa paura al bambino sopravvissuto al campo di sterminio, il piccolo protagonista del film di Benigni La vita è bella, anzi è per lui un premio della lotta per la sopravvivenza combattuta costruendo con l’aiuto del padre un mondo psichico diverso dalla schiacciante realtà. Allora il carro armato rappresentato nei sogni, nei disegni, nei racconti, nelle espressioni artistiche, è un carro armato che non schiaccia la vita psichica ma al contrario la tiene viva, perché è un modo di dare forma personale a ciò che sembra sopraffacente. Dare forma a questa esperienza permette di sopravvivere, possiede in sé la garanzia circa la verità della vita delle emozioni. L’esclamazione finale del bambino di fronte al carro armato americano delle truppe di liberazione è: “Allora è vero!”. Di paziente in paziente, sono dunque arrivata a parlare del bisogno di dare forma alle emozioni personali allo stato nascente, per esistere e per comunicare come soggetti. In questa dimensione vanno insieme le inevitabili infelicità della vita e la gioia del rappresentare la propria storia, la propria traccia. Scrivere col sangue, come disse il primo paziente che incontrai, il mio primo maestro. Nel catalogo di una mostra nella quale le sue opere erano già state esposte, la didascalia con note biografiche suona così: “L’inattendibilità delle informazioni riferite da S. e la totale assenza di familiari rendono pressoché impossibile la ricostruzione della sua storia che, comunque, si è svolta tra orfanotrofio e ospedale psichiatrico”. Eppure è riuscito a scrivere un poco della sua storia, in me e sulle tele e sulle carte, grazie anche alle cure di un’istituzione che gli ha messo a disposizione un laboratorio di attività espressive. Io sono Nelle attività espressive dunque viene messo in gioco qualcosa che riguarda il sentirsi vivi, in lotta con una sensazione e un comportamento che hanno a che fare con la morte psichica, intesa 96 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Sopravvivere. Le attività espressive nelle istituzioni di cura come incapacità di esprimere un’unità della persona e di comunicare con qualcun altro. Poter dire, alla maniera di Winnicott (1971, 106), “IO SONO”, cioè sono vivo, sono me stesso, dipende dalla possibilità dell’individuo di esistere come un’unità, almeno per qualche momento, un’unità che egli stesso va creando e un’unità con capacità trasformative, che gli permette di non subire solo passivamente, in modo schiacciante, l’impatto con l’ambiente: le persone e le cose inanimate. Questo stato di funzionamento unitario e mobile, separato dal mondo e insieme in comunicazione con esso, è quello che dà la sensazione che la vita vale la pena di essere vissuta: è uno stato dinamico di ricerca del sé. Le condizioni nelle quali è possibile sentirsi creativi e che forniscono quindi la base del senso di sé sono quelle del gioco e dell’attività culturale intesa in senso ampio. Si tratta di esperienze in cui l’individuo si trova in una condizione priva di particolari propositi e sperimenta il piacere di funzionare come organismo unitario che si auto-organizza. La creatività non consiste tanto nel manipolare parole o colori per produrre una composizione particolare, ma nel funzionare in un modo sufficientemente libero e integrato, in una specie di stato di riposo. La libertà espressiva che conduce alla ricerca del sé, all’IO SONO, è quella di dare forma all’informe disgregato di sentimenti, sensazioni, emozioni, disponibili nel mondo interno di un individuo. Questa libertà è una necessità di sopravvivenza personale, che vede quindi scontrarsi creatività e vincoli interni e esterni in modo spesso difficile da comprendere. I vincoli interni sono le tracce, depositate nell’inconscio, dei modi nei quali le emozioni si sono aggregate nei primi momenti relazionali, all’alba della vita. Ad esempio, il desiderio di sentirsi grande e adeguato rispetto alla madre può avere sollecitato l’uomo della sabbia a organizzare l’aggregazione del suo sé con una velocità da cemento a presa rapida, utilizzando doti intellettive e sensibilità molto brillanti. I vincoli esterni sono modelli preformati, come quelli di personaggi che le storie ascoltate offrono, per cui basta conoscere un dettaglio e tutta la storia prende forma, non permettendo altri finali: “So come va a finire”. Eppure la mano tesa dall’analista al ragazzo del carro armato voleva permettergli di entrare in contatto con un altro, che gli è sembrato un Alien inquietante e insieme affascinante, così l’ha subito trasformato in un personaggio di fantascienza troppo noto, un alien non vivo. Per cercare di sfuggire ai vincoli dell’alien troppo noto, il ragazzo si rifugia in qualcosa di solido, uno scheletro di ferro, come il tank del film di Benigni: un’immagine di una forza del sé che non è stata schiacciata dal carro armato della vita quotidiana. Vivere queste esperienze di creatività consente di accedere all’IO SONO, di dare forma all’informe, aggregare elementi sparsi della propria storia, contenuti esperienziali disorganizzati e poi riorganizzati, creare un ordine a partire dall’immersione in un di- PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 97 Sopravvivere. Le attività espressive nelle istituzioni di cura sordine sostenibile. Più che il risultato, che può rispecchiare apparentemente la banalità quotidiana, conta la possibilità di fare questa esperienza di nascita psichica, o di rinascita, più e più volte: allora il sacchetto di plastica pieno di sabbia disgregata o il possente carro armato così saldato possono da un punto di vista emotivo avere un significato equivalente: IO SONO, questo l’ho fatto io, organizzando elementi sparsi della mia vita per comunicare che esisto non solo come impronta del piede di un altro ma come essere vivente che respira e si esprime sulla base di un principio di autoorganizzazione. I vincoli che permettono l’espressività creativa Perché questa attività creativa di ricerca del sé prenda il volo, occorrono alcune condizioni essenziali, sia nello sviluppo psichico di ogni individuo, sia in quell’esperienza di nuovo inizio che può essere una cura in un luogo istituzionale. - Una condizione è data dalla possibilità di fare esperienza di quello stato mentale fondamentale, che prima ho descritto e che consiste nel non avere uno scopo preciso, essere in uno stato di riposo e di sospensione dell’attività volontaria, in una dimensione ludica. Niente di più difficile. È la condizione del sonno e del sogno, del gioco, dell’attività artistica, della seduta analitica (quando attinge questo livello). Quasi sempre è un punto d’arrivo: il lettino di analisi, sia pure simbolicamente e praticamente rilevante, non basta, così come non basta la culla per il neonato e nemmeno bastano le braccia della mamma su cui può riposare senza aggrapparsi. Tutte queste non sono altro che pallide metafore di un’esperienza emotiva preziosa: sentire di potere contare su una base emotiva sicura, come la terra su cui si appoggiano i piedi senza esitare, come l’aria che si respira senza temere l’inquinamento, come l’acqua che si beve senza pensare che sia avvelenata. M. Balint (1968) ne ha parlato al negativo descrivendone l’assenza come Basic Fault, il difetto fondamentale, la mancanza di base. Si tratta di avere avuto l’esperienza di potere sopravvivere anche se non si fa uno sforzo attivo e volontario, come una contrattura muscolare per aggrapparsi al lettino, uno sguardo guardingo per accertarsi che non ci sia un inciampo, un respiro asmatico trattenendo il fiato per affrontare qualcosa di mai prima conosciuto, un pensiero che segue un modello di soluzione già predisposto da altri. Se si possiede l’esperienza di questa base sicura e con pochi vincoli, allora è possibile attivare un funzionamento di fluttuazione in un relativo disordine personale, nel quale si incontrano elementi sparsi ma significativi della propria identità e storia e lasciare che si organizzino secondo linee di forza che prendono forma da sole a significare la personalità del soggetto. Giocando in questo modo 98 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Sopravvivere. Le attività espressive nelle istituzioni di cura l’individuo fa uso dell’intera sua personalità e dà un volto al sé, che non è collocato nei prodotti di questa attività creativa, ma nel funzionamento unitario che si è mosso. II paradosso tra libertà e vincoli si propone con particolare evidenza: più la base è sicura e poco appesantita di contenuti cognitivi e immaginativi, più si costituisce uno spazio-tempo adatto all’attività creativa del dare forma agli elementi sparsi del sé, mai prima aggregati, o disaggregati in una crisi psicotica per necessità di sopravvivenza. Una difficoltà terapeutica consiste nel mettere a disposizione una base sicura, senza impercettibilmente ridurla e pervertirla in una serie di regole e oggetti concreti che al contrario ostacolano ogni attività creativa, in quanto si pongono come modelli a cui adeguarsi, rinunciando al sé. La base sicura è sempre una mente umana; nel caso di istituzioni di cura, è una mente gruppale, che tenga saldamente il paziente, che ne raccolga le oscillazioni, le guardi, le rispecchi, le rimandi, senza sbilanciarsi e senza abbandonarsi a precari movimenti adesivi, facendo del paziente un suo modello di riferimento. La mente terapeutica, in questo caso quella dell’équipe degli operatori che si riuniscono almeno settimanalmente, può svolgere la funzione di base sicura su cui il soggetto si può distendere come su un lettino o su braccia salde materne o paterne, per aggirarsi e spaziare nel suo lavoro di aggregazione del sé, sapendo che non si perderà in pezzi, ma nemmeno sarà identificato e inchiodato a una delle sue produzioni, con l’obbligo di diventare quello che ha prodotto. Il paziente non è il quadro o la scultura o la poesia che ha prodotto a partire dalla base sicura e fruendo di certi mezzi espressivi, ma è quello che rinasce continuamente per dire IO SONO, per provare il piacere di rappresentare momenti della sua vita emotivo-cognitiva a contatto con il mondo, nella sicura certezza che potrà continuare ad essere vivo facendo sempre la stessa figura (il monte St. Victoire di Cézanne) ma con referenti esperienziali spesso diversi, oppure che potrà rappresentare in figure continuamente differenti la scena che per lui è fondamentale per la fecondità emotiva che possiede (Paul Klee). L’équipe può funzionare come base sicura, tenendo saldamente il paziente nelle braccia della sua mente, pensando e parlando di lui in una regolare attività di analisi del caso, senza costringerlo a cristallizzarsi e a identificarsi con un suo prodotto e senza proporgli e senza proporre a se stessa una configurazione troppo definitiva del soggetto, come ad esempio un quadro diagnostico dettagliato o un’acquisizione cristallizzata di capacità. In questo senso l’équipe fa da tela e cornice, da quadro, o meglio da tele e cornici e quadri. - Occorrono poi attività espressive organizzate per fornire mezzi di affermazione di sé. Ciò potrebbe sembrare in contraddizione con quanto ho appena detto, con l’esigenza di una base che forni- PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 99 Sopravvivere. Le attività espressive nelle istituzioni di cura sca il quadro ma non sia intrusiva con i suoi stili, colori, forme, contenuti, e che non identifichi il paziente con il suo prodotto. Ovviamente negli atelier si fanno sempre cose che risentono dello stile del maestro, si danno suggerimenti, si fanno mostre che concretizzano il soggetto sulla tela. La questione è che, se c’è una base sicura, si può dare il piacere ludico della rappresentazione in stato nascente, del dare forma, che allora ha bisogno di parole e colori per distendersi nella comunicazione e non fare ingorgo. Si tratta di un’area in cui il soggetto ha bisogno di strumenti per parlare di sé, per non sentirsi troppo incapace di rappresentarsi una forma. Allora può usare parole altrui, colori già preparati, linee già viste, ma può provare anche il piacere dell’incontro con l’altro che gli permette di dare forma a qualcosa di sé che non sapeva di potere essere (Bollas 1992, 58). Se il soggetto ha la libertà di unificare una molteplicità di elementi suoi e non suoi, se cerca un nuovo contenitore vitale rispetto a quello rigido in cui si era imprigionato (il cemento a presa rapida oppure il carro armato realtà), gli elementi vincolanti dell’atelier sono un aiuto, ed è importante che esso sia organizzato in modo abbastanza strutturato, con supporti tecnici, scopi anche pratici, sbocchi costruttivi. Là dove la espressività artistica può realizzarsi, proprio in questo luogo è importante ancora una volta predisporre vincoli, costituiti da parole, elementi blandamente strutturati, colori, e così via. Il regno dell’atelier non è il caos, ma il luogo nel quale gli umani cercano di trovare forme per articolare parole e figure. In particolare due osservazioni aiutano a predisporre in modo anche tecnico l’atelier. Una riguarda la sofferenza legata all’incapacità espressiva, o dei bambini selvaggi, o delle afasie, o di tutte le forme di impedimento e occlusione comunicativa. Esagerando, ma l’esagerazione talvolta è un veicolo comunicativo, mi viene da pensare agli sfregiatori di quadri: nella mancanza di strumenti per dire IO SONO, scatta il gesto distruttivo che incide la tela con un temperino, un punteruolo che lascia la traccia di un altro IO SONO che grida, di fronte all’indifferenza di ciò che possiede una forma e visibilità che appare eterna, e di fronte a fruitori catturati dalla compattezza e evidenza formale. Nel soggetto sopraffatto dalle compattezze figurative che mettono a tacere grugniti e scarabocchi impotenti, privo di parole e di linee, talvolta irrompe il desiderio di scrivere col sangue di un atto violento, di uno sfregio nella tela che in qualche modo sanguina nel dolore dei fruitori. Un’altra osservazione riguarda il tipo di esperienza, che l’attività artistica consente, di protezione da una relazione diretta con gli altri esseri umani, che tuttavia sono presenti nella mente dell’artista che crea sempre per un pubblico immaginato e non presente nel momento dell’atto creativo. André Green (1992) ne parla come di una relazione d’oggetto transnarcisistica che ha presente 100 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Sopravvivere. Le attività espressive nelle istituzioni di cura nella mente l’altro pur tenendosi fuori dalla portata di un incontro e confronto diretto. L’atelier con il suo apparato tecnico, con il suo luogo separato e la sua funzione specializzata, protegge anche da una relazione interpersonale troppo diretta senza escluderla. Protegge la fase nascente di una forma soggettiva che si pone accanto ad altre forme già esistenti e potenzialmente dominanti: i genitori, i terapeuti, i maestri, gli altri. La domanda bioniana “Can I disturb the universe?” risuona muta nelle produzioni di un atelier. Il soggetto si chiede se, dando forma e riconoscibilità al sé, nascendo parlando scrivendo dipingendo esistendo, viene a turbare l’ordine in cui fino allora le cose funzionavano o malfunzionavano, l’ordine della mente di una madre, di una coppia, di un gruppo curante, che già esisteva prima di lui. Per compiere un’operazione così rischiosa, per avere il coraggio di dire “Io”, occorre un pass ambientale, un contesto in cui la turbativa dell’ordine dato è prevista per definizione e acquieta l’angoscia di rovinare il quadro del mondo, sentito come una Gioconda già perfetta. Un’altra condizione riguarda la possibilità di essere visti e riconosciuti. Si tratta di sentirsi vivi e visibili, mentre il rapporto con l’oggetto, l’altro, non subisce il destino di un’avvinghiante sequenza relazionale. Le attività espressive riguardano particolarmente questo tipo di esperienza così essenziale: lo sguardo, l’essere visti con interesse e partecipazione per la fragile esistenza che si è manifestata, a disturbare l’ordine dell’universo. Si tratta di uno sguardo mosso non dalla pulsione né dal bisogno da soddisfare, e nemmeno sollecitato seduttivamente dal soggetto: è lo sguardo di chi motu proprio si accorge dell’esistenza viva del soggetto e lo fa esistere su questa base. Lo sguardo dell’altro fa esistere, se è spontaneo e non manipolato. “L’uomo della sabbia” predilige la marmorea Pietà di Michelangelo a San Pietro; in qualche modo vi riconosce quello che gli è mancato, che ritrova aggregato per sempre in un blocco di marmo. Di questa scultura ama lo sguardo teso della Madre e la spossatezza abbandonata del figlio, la certezza che quello sguardo non è stato sollecitato dall’attività del figlio. La speranza è che non sia necessario morire per godere di uno sguardo simile. L’iconografia della Pietà ci racconta il bisogno di puro riconoscimento di esistenza, la possibilità di meravigliarsi e fermarsi di fronte al soggetto che è, lo sfinimento di una fatica infinita rivolta a cercare uno sguardo spontaneo, senza il quale non c’è che la morte psichica. Al piacere di rappresentare corrisponde il piacere di vedere, guardare, incontrare senza scopo se non quello di provare un interesse autentico, fuori dal circuito del bisogno di soddisfare i propri desideri o di sopperire a PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 101 Sopravvivere. Le attività espressive nelle istituzioni di cura necessità dell’altro. Platone nel Fedro afferma che, mentre andava alla ricerca del bene, ha trovato il bello, come ciò che è più manifesto e quindi strutturalmente rivelativo1. In che modo un’équipe può dare questo riconoscimento? Ancora una volta guardando il paziente come se fosse la prima volta, con lo sguardo ingenuo di chi non sa ed è disposto a incontrare nuove disgregazioni e nuove riaffermazioni, indici minimi di stati nascenti, invece di marmoree o cementificate certezze. Come questo sia possibile dipende dal buon funzionamento del gruppo, dalla disponibilità ad accogliere nuovi operatori, dalla profonda curiosità verso il mondo non ancora creato e non ancora conosciuto che sollecita i terapeuti a occuparsi di persone sofferenti e i fruitori ad andare a un’esposizione di produzioni artistiche. Questa ingenua disposizione a incontrare il nuovo, a sentirsi una Pietà viva, non marmorizzata dal proprio sapere o dalla propria personale sofferenza della vita, è il requisito fondamentale. L’attenzione al soggetto più che all’opera. Di quest’ultima si occuperanno dei non terapeuti e dei non operatori: gli esperti d’arte che proteggeranno il paziente da un’eccessiva esposizione del suo mondo intimo e che insieme valuteranno l’opera sulla base della effettiva capacità di realizzare quella mediazione sintetica di forze opposte che fa sì che il risultato sia bello e quindi anche scambiabile su piani comunicativi più allargati (mostre) o commerciali (gallerie). La disciplina dell’équipe riguarda la capacità di fornire un riconoscimento di esistenza al paziente come soggetto che crea e dà forma, astenendosi da incoraggiamenti pietistici, permettendogli di essere vivo di fronte a uno sguardo spontaneo; mentre la gestione delle opere può essere affidata ad addetti ai lavori. Talvolta il sé del paziente ha l’immobilità e l’ingombro di un edificio di cemento, come Le Vele di Napoli che hanno resistito alla carica di dinamite predisposta per abbatterle; altre volte è stato ridotto a un mucchio disgregato di sabbia da cui il cemento proveniva con un velocissimo e inadeguato ritorno al passato, nella frammentazione e insignificanza. Il piacere delle nuove aggregazioni va insieme al terrore della cementificazione e al ritorno allo stato di non esistenza. Lo sguardo dell’équipe ha il compito di cogliere le nuove aggregazioni, senza gravarle di un peso eccessivo, le- 1 Egli “lega il bello non all’arte, che per lui è illusoria copia di una copia, ma all’Eros come forza che collega il tutto con il sé medesimo, come sintesi mediatrice dinamica di forze opposte (i genitori di Eros, PeniaPovertà e Poros-Espediente)”. (Reale, 1995). Quando la ricerca del sé è arrivata a manifestare una forma visibile quello è il momento del suo riconoscimento, per la bellezza del funzionamento psichico che l’ha fatta essere mediando tra sentimenti e contenuti diversi fino a raggiungere uno statuto di esistenza. 102 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Sopravvivere. Le attività espressive nelle istituzioni di cura gato all’eventuale valore artistico, che sarà gestito da altri. Tutti ci muoviamo nell’infelicità comune della vita e nella gioia di rappresentarla scrivendo parole, tracciando linee, fabbricando figure con i movimenti del corpo e così comunichiamo il senso del nostro sé, senza raggiungere livelli d’arte. I pazienti con grande sofferenza psichica hanno saputo o dovuto operare o subire processi di disgregazione degli elementi che stavano alla base della loro persona: aggregarli per creare il loro sé è un compito straordinario, che rimette a contatto con i momenti nascenti della vita, un compito che forse noi non siamo stati capaci di affrontare e che loro tentano per disperazione necessità incoscienza. Non sempre l’impresa raggiunge lo stato di una nuova forma, non sempre questa forma è un’unità funzionale che permette di sopravvivere, non sempre è così unitaria e comunicativa da potere essere detta bella. Ma sempre tale sforzo testimonia che la distruzione rimanda a una tensione verso momenti nascenti di costruzione di sé, spesso senza tenere conto delle proprie forze e dell’impatto schiacciante della realtà esterna. Ci vuole coraggio per fare queste opere artistiche e ci vuole coraggio per accompagnare queste persone in tale percorso della vita, limitando intrusioni e sostegni, guardando e dando così vita alle loro forme di esistenza, in tempo, prima di diventare per loro una splendida ma tardiva Pietà, di pietra. BIBLIOGRAFIA BALINT, M., BALINT, E. (1968) La regressione. Raffaello Cortina Editore, Milano 1993. BOLLAS, C. (1992) Essere un carattere. Borla, Roma 1995. GREEN, A. (1992) Slegare. Borla, Roma 1993. TOSATI, B. (1997) Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa. Mazzotta, Milano. WINNICOTT, D.W. (1971) Gioco e realtà. Armando, Roma 1974. RIASSUNTO Il lavoro approfondisce il significato psicodinamico delle attività espressive all’interno dei percorsi di cura di pazienti con difficoltà di accedere ai processi di simbolizzazione. Le attività artistiche sono esaminate, non in quanto produzione di opere, ma in quanto attività creative di ricerca del sé. La possibilità di dire winnicottianamente IO SONO dipende dalla capacità del soggetto di esistere come un’unità, che egli stesso va creando, dotata di qualità trasformative, che gli permettano di non subire in modo schiacciante l’impatto con l’ambiente animato e inanimato. Perché l’attività PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 103 Sopravvivere. Le attività espressive nelle istituzioni di cura creativa di ricerca di sé possa svolgersi, occorrono alcune condizioni, sia nei trattamenti individuali sia in quelli istituzionali: fornire l’esperienza di una base emotiva sicura, mettere a disposizione strumenti concreti per la simbolizzazione, attivare dispositivi perché il soggetto possa sentirsi visto e riconosciuto. SUMMARY Surviving The paper focuses on the psychodynamic meanings of expressive activities in the treatment of those patients who cannot easily reach symbolization. Artistic activities are not examined as an output, but as a creative search for Self. The possibility of saying “I AM”, according to Winnicott’s thought, depends on how much the subject can exist as a whole. The capacity of creating such a whole enables the subject to transform the environment instead of being overwhelmed. For the purpose of allowing a creative search for Self, some conditions are required both in individuai and institutional treatments: the experience of a secure emotional base must be provided, concrete tools must be put at patient’s disposal for symbolizing by means of expressive activities, a device must be planned in order to enable the subject to feel recognised by the environment. ANNA FERRUTA Via Bianca Maria, 5 20122 Milano [email protected] 104 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico MARTA VIGORELLI Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico In questo lavoro vorrei riflettere partendo da alcuni interrogativi che mi sono posta come psicoterapeuta psicoanalitica impegnata in alcune fasi particolarmente accidentate del percorso clinico esperite nella “stanza eli psicoterapia”. Li formulerei in questo modo: con quali strumenti possiamo affrontare l’evento della crisi del paziente quando si manifesta durante una o più sedute come emergenza di una processualità in atto? Come affrontare i diversi livelli eli aree primitive che precipitano d’improvviso nel campo analitico e quale funzione svolge il farmaco nel complesso dei “mediatori” che possiamo utilizzare? Si tratta quindi di valutare a quali condizioni la crisi si orienti verso una trasformazione che possiamo considerare evolutiva, tenuto conto che non è per nulla facile distinguere se il momento relazionale che stiamo vivendo e condividendo con il paziente - per usare un’efficace espressione di Bion – “stia cadendo in rovina o stia giungendo alla maturità” nella direzione di una crescita, di un incremento del senso di Sé e di una consapevolezza emotiva (Bion 1974, 268). Modelli e metafore di riferimento Intendiamoci un momento sui termini. Se nel linguaggio quotidiano il termine crisi rinvia ad un’esperienza di rottura e di cambiamento che attraversa la vita di ciascuno - ben conosciamo i travagli e le turbolenze che accompagnano la nascita, le prime separazioni infantili, l’adolescenza e anche la vecchiaia - in ambito psichiatrico la crisi è spesso sinonimo di “psicosì acuta” o di “esordio psicotico” (nel caso di una sua prima comparsa nella scena mentale del paziente) ed è generalmente associata ad un fallimento del rapporto tra il soggetto e il suo ambiente di vita quotidiano. Non occupando nella classificazione psicopatologica uno statuto teorico definito e chiaro, è un termine che, meglio di altri, si presta ad esprimere l’intreccio tra un livello clinico e un livello operativo, una modalità di intervento più duttile rispetto a quelle codificate dell’ospedalizzazione, teso quindi a proporre un approccio meno rigido e più aperto ad un confronto e integrazione con metodologie terapeutiche diverse. Non a caso le sperimentazioni relative al trattamento di “crisi” realizzate in 106 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico USA, Inghilterra, Francia e Svizzera a partire dagli anni ‘60 costituirono dei punti di riferimento fondamentali per l’avvio di una più ampia trasformazione del sistema custodialistico manicomiale nel suo complesso. A questo proposito il contributo della scuola di Pavia di De Martis e Petrella, che risale al 1989, illustra con sufficiente ampiezza e ricchezza di dati la convergenza di molteplici punti di vista (sistemico, organicista, relazionale) all’interno del panorama psichiatrico internazionale sulla complessità del tema La crisi psicotica acuta (De Martis, Barale, Caverzasi 1989). Forse è proprio questa condizione di sospensione, di incertezza sul futuro e di attesa, suscitata dalla tensione relazionale che esprime sofferenze di grande intensità, a costituire un terreno fecondo per una riflessione multidimensionale che ha recuperato al suo interno anche l’apporto di una serie di contributi provenienti dalle discipline interessate allo studio dell’evoluzione dei sistemi viventi complessi: la teorie generale dei sistemi (Bertalanffy 1967 e Morin 1976) il modello epigenetico di Waddington e la teoria delle catastrofi (Thom 1972). Morin ha utilizzato il modello sistemico per sviluppare una teoria della “crisi” applicata alla comprensione dei fenomeni sociali intendendola come una “sorta di laboratorio per studiare come in vitro i processi evolutivi”. Essa evidenzia il carattere intrinseco e inevitabile dei fenomeni di disorganizzazione e disgregazione che sono immanenti all’organizzazione stessa del sistema. Più il sistema è complesso, più moltiplica all’infinito le occasioni di crisi che si rivelano come processi fondamentali per l’evoluzione. In questa ottica “la perturbazione di crisi può essere considerata come la conseguenza di sovraccariche in cui il sistema si trova confrontato con un problema che non può risolvere secondo le regole del suo funzionamento e della sua esistenza attuale [...] la crisi appare allora come una assenza di soluzioni (fenomeno di disorganizzazione) che può all’improvviso suscitare una soluzione (nuova regolazione, trasformazione evolutiva)” (Morin 1976). Waddington, embriologo e genetista, ha elaborato un modello pluridimensionale dello sviluppo che viene definito “Paesaggio epigenetico” e consiste nell’immagine di una valle che si dirama in valli successive. Le varie caratteristiche della personalità possono per altro venire rappresentate come una serie di valli che si dipartono da esperienze e interazioni originarie comprendenti l’eredità genetica, però divergono gradualmente dando luogo ad una gamma di caratteristiche del soggetto adulto. I vari aspetti di un soggetto in via di sviluppo hanno cioè di fronte a sé una gamma di possibili percorsi di sviluppo e ogni aspetto particolare sarà deviato in uno piuttosto che un altro di questi percorsi potenziali. II processo tenderà, a fronte di perturbazioni che ne deviano il corso canalizzato, a tornare in una posizione ulteriore del percorso da cui è stato dirottato. Si tratterà quindi di una modificazione nel tempo in termini di omeoresi (proprietà autoregolativa di un sistema), piuttosto che di una regressione (come ritorno a un punto precedente di deviazione) in termini di PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 107 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico omeostasi come intende l’epistemologia della fisica classica. Se il processo di sviluppo viene spinto dalla perturbazione su di un punto di diramazione finirà con l’essere incanalato in una nuova valle in modo irreversibile, stabilizzando su un nuovo livello l’organizzazione fluttuante (Aparo, Casonato, VigoreIli 1999, 4047). La teoria delle catastrofi di Thom è il tentativo di spiegare ciò che succede nella zona del cambiamento da una forma all’altra, in una dimensione temporale di transizione da uno stato ad un altro. Il termine catastrofe è utilizzato nel senso originale della parola greca, cioè come cambiamento non necessariamente drammatico e disastroso; si distingue dalla “crisi” che la precede annunciandola. Un esempio tratto dalla chimica-fisica: un cambiamento di fase, come quello dallo stato liquido a quello gassoso, si manifesta improvvisamente attraverso il “fenomeno catastrofico” dell’ebollizione; questa è però preceduta da una lunga fase “critica” in cui l’aumento della temperatura provoca la formazione di bolle di vapore acqueo. Queste restano invisibili e vengono riassorbite dalla fase precedente finché una di loro non raggiunge un diametro critico, iniziando a ingrandire con rapidità fulminea, provocando la catastrofe del cambiamento di fase. Il modello esteso agli esseri viventi implica che questa transizione determina modificazioni inevitabili dei sistemi di regolazione d’insieme, avvertite soggettivamente come minacce all’integrità che possono comportare rotture catastrofiche. In tale ottica, dalla psichiatria psicodinamica provengono anche alcune metafore della crisi la cui elaborazione ha prodotto importanti trasformazioni nei dispositivi di cura. Negli anni ‘80 la metafora del “precipizio e della rete di sopravvivenza” di Petrella, negli anni ‘90 la metafora dell’“ondata emozionale che si propaga in un campo di forze” delineata da Correale. Cito da Petrella: “se una persona sta rotolando o precipitando lungo una scarpata, non ha molta importanza sapere perché sta cadendo, quanto ostacolare questa caduta... si può arrestare la caduta se chi precipita trova un arbusto al quale appigliarsi, se ha la forza di afferrarlo e se l’arbusto è abbastanza robusto per reggerlo. In altri casi gli arbusti non servono, ma sono invece auspicati sostegni differenti: reti di protezione o baluardi, come certi contrafforti che si costruiscono in montagna per impedire che le frane rovinino a valle [...]. Il credito di senso che noi facciamo a chi è precipitato nell’insensatezza confusionale o nel delirio acuto è appunto una prima rete che noi gli offriamo e offriamo a noi stessi per poter stare in sua presenza. Le immagini dell’arbusto, della rete e dei contrafforti rimandano a funzioni differenziate del terapeuta. Per esempio l’aggrapparsi è possibile in certi casi, ma non è realizzabile in altri, per eccessiva sfiducia, per debolezza dell’Io o per insufficienza dell’arbusto a reggere il carico. Oppure le funzioni di contenimento di vario genere, realizzate con strumenti farmacologici, psicologici, ambientali, possono andar incontro a vicissitudini di- 108 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico verse: le reti di senso si possono strappare, i baluardi si rivelano insufficienti e non reggono e così via. [...] Il lavoro individuale dello psichiatra rimanda così all’équipe, al gruppo terapeutico e alle sue capacità di rappresentazione e di elaborazione (Petrella 1989, 204). La seconda metafora, quella di Correale, esprime un’immagine della crisi del paziente grave e del suo ambiente familiare, così come spesso si manifesta nelle istituzioni psichiatriche attuali, soprattutto delle grandi città: la psicosì acuta può essere rappresentata da un movimento di esplosione, che implica frammentazione e dispersione di frammenti e parti di Sé a varie distanze. La rottura del Sé si estende a tutta l’area della personalità inducendo effetti molto potenti sul contesto circostante: “In questi casi si ha spesso la sensazione che un’ondata emozionale intensa travolga la capacità del gruppo di riflettere sugli eventi e di trovare forme di contenimento e di delimitazione della sofferenza. [...] È possibile rappresentare questo tipo di eventi immaginando che un nucleo emotivo esplosivo abbia bisogno di più ambiti contemporanei e intrecciati di accoglimento. Un primo ambito è costituito dal curante deputato all’intervento. Il secondo è dato dal piccolo gruppo che collabora alla cura della turbolenza. Il piccolo gruppo infatti non solo sostiene il curante, ma costituisce un vero e proprio ambito allargato dell’investimento dell’onda emotiva portata dal paziente. Esiste infine un ulteriore ampliamento dell’ambito, costituito dall’équipe nel suo complesso... in quanto esisterebbe una diretta correlazione tra l’entità delle forze emotive portate dal paziente e dal suo gruppo familiare e l’entità del reclutamento del gruppo dei curanti” (Correale 1991,141). A partire da questa seconda immagine di “campo emotivo” (ampiamente utilizzata dalla psicoanalisi attuale) l’ipotesi di Correale delinea un dispositivo per la crisi costituito da contenitori multipli che rende anche possibile indagare il funzionamento dell’équipe come una espressione del mondo interno del paziente e del suo gruppo familiare. Per quanto concerne l’ambito specifico della tradizione psicoanalitica, questo tema non ha sollecitato un particolare approfondimento: la crisi è stata in prevalenza pensata nell’ottica della diacronia in relazione ad una ipotetica continuità, a una sequenza di piccoli e grandi eventi ricostruibile après coup, ma che acquista senso solo nella processualità di cui l’analisi o la psicoterapia fondamentalmente si occupano; la crisi perde quel carattere di evento discontinuo e imprevedibile che irrompe come “altro” “alieno” che può però aprire la possibilità di una diversa “storia” latente o inattuata nel mondo interno del soggetto (Barale, Ucelli 1989). Abbiamo nondimeno a disposizione i modelli teorico-clinici elaborati da Kaës negli anni ‘70 (Kaës, Kaspi, Anzieu, Bleger, Guillaumin, Missenard 1979) e da Racamier negli anni ‘80 (Racamier, Taccani 1981-1982) che sviluppano le riflessioni di Winnicott a proposito del break-down pa- PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 109 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico tologico inteso come crollo nella direzione di una disintegrazione e la concettualizzazione di Bion elaborata in diversi momenti della sua opera (1965; 1970; 1973-74) sul cambiamento catastrofico (Catastrophic change) inteso invece non come malattia ma come sviluppo irruento (break-up) o “prorompere disordinato” (break-through) che accompagna tutte le trasformazioni psicoanalitiche e soprattutto quelle che tendono a un’integrazione tra parti psicotiche e non psicotiche della personalità. Un elemento importante accomuna questi modelli di comprensione e di trattamento: la constatazione di come la crisi evidenzi una complessità della mente “attorno alla quale si coagula la formazione di apparati psicosociali, di gruppo e culturali”; essi sono destinati ad assicurare la continuità del Sé e al contempo possono contribuire a generare un’occasione di crisi. La crisi rivela così l’origine e la consistenza delle risorse su cui si regge la solidità della sfera psichica, “i punti di appoggio dello psichismo” rappresentati da: “il corpo, la madre, il gruppo, il Sé con le sue strutture; ogni struttura psichica ricorre a più appoggi interdipendenti e, nel momento in cui essi vengono meno, possono subentrare notevoli mutamenti qualitativi all’interno della struttura stessa”1. Il trattamento di conseguenza “sarà l’esercizio di una pratica psicoanalitica centrata sull’elaborazione dell’esperienza di crisi attraverso la mediazione di un lavoro sulle dimensioni psicosociali e in particolare di gruppo, della personalità.” Una particolare attenzione di questi autori viene rivolta alla rottura del contenitore “Io-pelle” (Anzieu 1979)2, che nella crisi non comporta solo un cedimento del Sé e un arresto delle funzioni dell’Io, ma anche un potente sconvolgimento psicosomatico. Nello spazio-tempo della seduta tutto ciò si manifesta attraverso una prevalente comunicazione del “corpo sensoriale, posturale e motorio” che esige una messa a punto dell’assetto dell’analista e una modificazione del setting classico con l’utilizzo di mediatori specifici pre-verbali “gesti corpo1 Un esempio è ciò che si verifica nel caso degli emigrati o dei disoccupati in cui la crisi interviene come rot- tura della continuità garantita da un’eredità culturale o da un sistema di tradizioni e abitudini. Da questo punto di vista le osservazioni etnopsichiatriche sull’aumento delle buffèes deliranti nelle società africane in via di profonda trasformazione possono essere comprese come esito della disgregazione del gruppo primario e del sovvertimento dei suoi codici. Il delirio, come stato psicotico transitorio, diventa allora una via d’uscita, la miglior soluzione possibile, quando il soggetto ha perduto il contenimento e l’assistenza del gruppo. 2 Io-pelle inteso come contenitore psichico che riesce ad assolvere alla triplice funzione di involucro conte- nente riunificatore, di barriera protettiva contro un eccesso di eccitamenti e di filtro discriminante tra diverse categorie di qualità sensoriali. 110 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico rei, mediatori desessualizzati e simbolici al contempo”3.’ Il mediatore psicofarmacologico, non viene esplicitamente tematizzato, ma di fatto entra nella prassi psicoterapeutica della crisi inizialmente come elemento “alieno”, in seguito come condizione indispensabile per rendere il paziente accessibile alla stessa relazione terapeutica (Zapparoli 1988, 185). La crisi come avvio del processo psicoterapeutico Alla luce di questo quadro teorico la nozione di crisi consente dunque di collegare registri diversi e di grande complessità: passaggi cruciali dell’esistenza umana in generale e crolli patologici, individuo e gruppo familiare e sociale, psiche e soma. Comporta sempre la rottura di un equilibrio e un cambiamento con elementi di incognita circa il suo esito, uno svolgimento temporale con segnali di inizio, un’acme connessa all’urgenza di intervento e un termine. Al contempo possiede delle caratteristiche che ci inducono ad elaborare un metodo specifico di intervento a livello clinico, venendo a costituire un oggetto di ricerca peculiare per la psicoterapia psicoanalitica che si proponga di declinare in modo flessibile 1’assetto analitico in differenti contesti di cura. In questo senso vorrei proporre, anzitutto, due situazioni di crisi incontrate all’inizio del percorso psicoterapeutico, che hanno consentito la messa a punto di due strumenti esterni alla stanza d’analisi, ma ad essa collegati attraverso un lavoro di tessitura e di allargamento del setting. Emanuela e la rete di salvataggio - Si tratta di una giovane donna di 28 anni, inviata da una collega che aveva potuto seguirla per pochi colloqui poiché la ragazza si era trasferita a Milano, a seguito di un difficile concorso, con una funzione di responsabilità in una grande banca. Dopo alcuni mesi di brusco sradicamento da una cittadina provinciale e da una famiglia molto disturbata, Emanuela fa una richiesta di aiuto che avverto, fin dalla prima telefonata... al limite, come sulla soglia di un crollo. Attacchi di panico, vomito compulsivo, contratture muscolari, insonnia: unico funzionamento residuo, un’area di efficienza all’interno delle mura severe dell’ufficio. Premette subito un rifiuto radicale ad assumere psicofarmaci o a vedere psichiatri (proprio in quanto i familiari ne hanno fatto da sempre ampio uso, ma con risultati a suo avviso negativi). 3 Vedi a questo proposito la relazione di R. Scognamiglio Il corpo disabitato. La prospettiva somatologica in psicosomatica, presentata alle Giornate di Studio “Metodologie integrate nel lavoro psicoterapeutico. Esperienze, riflessioni e modelli a confronto”, Roma 6-7 ottobre 2001. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 111 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico Fin dai primi colloqui Emanuela si affida invece completamente alla nuova situazione terapeutica, rannicchiandosi a gomitolo sulla poltrona e trasmettendomi il sentimento pervasivo “di non farcela, di andare in pezzi”. Alla fine dell’incontro raggiunge una coesione minima che perde appena ritorna a casa dove vive sola. Mi telefona immediatamente, non regge la solitudine, non riesce ad alimentarsi... L’ipotesi di un ricovero, anche in un reparto di medicina la terrorizza, così come l’idea di interrompere il lavoro. In questo stato in cui la sento precipitare con una coesistenza di livelli, da un lato il massimo sforzo difensivo ma in profondità con una frantumazione galoppante, mi si configura nella mente una rete di funzioni che la possano raggiungere nel luogo concreto e mentale in cui si esprime la crisi che rischia di travolgerla. Le propongo nell’immediato una seduta quotidiana, e un supporto domiciliare di una persona (una educatrice che collabora con me per le situazioni di emergenza) che si dedica con umanità e tatto ad alimentarla e alla cura della casa. Dopo le prime due settimane persiste il problema dell’insonnia, delle contratture muscolari e del vomito notturno; la comunicazione della paziente è sempre spasmodica e comincia a presentare spunti persecutori nei confronti dell’ambiente di lavoro. Siamo ancora in area di pericolo, ma si va profilando un ambiente di sicurezza rappresentato dalla stanza analitica e dalla casa nelle ore di presenza della “tata” (così la chiama) finché non sopraggiunge la notte popolata di incubi. Essendo l’assistenza notturna troppo costosa pensiamo a un fisioterapista che operi con una tecnica di rilassamento e al contatto con un medico di base, per i sintomi somatici; nella piccola équipe-crisi circola una comunicazione fluida e affettiva che riporta gradualmente la paziente “a lasciarsi andare al sonno” . Solo dopo questa prima fase di intervento intensivo che consentirà ad Emanuela di acquisire una coesione e una maggiore vitalità sarà possibile avviare un discorso nuovo anche sull’uso dello psicofarmaco, veicolato come uno strumento che la può far sentire meno impotente nei confronti degli attacchi di panico e gradualmente più autonoma... anche dalla rete di salvataggio. Al termine della crisi l’avvio della psicoterapia, tuttora in corso, prende un ritmo trisettimanale vis à vis lasciando sullo sfondo “la nuova famiglia” . Flavio e il ricovero nell’ospedale di montagna - Questo paziente, un bell’uomo di 45 anni, arriva da me uscendo da un “tunnel” depressivo durato dieci anni in cui era stato rinchiuso nel suo negozio di dischi e nel rapporto con una moglie rigida e possessiva. L’unica relazione viva è quella con la figlia adolescente in via di emancipazione. 112 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico Mi porta come motivo della richiesta di cura, un sintomo “arrossire e sudare” che gli impedisce l’avvicinamento e l’intimità con le persone e il terrore di innamorarsi di una giovane donna che da tempo lo corteggia insistentemente e che gli suscita, per la prima volta, gusto per la vita e per nuovi progetti. Paura di “perdere la testa, di impazzire?” questo è l’interrogativo sotterraneo su cui oriento l’ascolto e l’accoglimento del paziente nel corso dei primi mesi di psicoterapia once a week. In contemporanea Flavio associa, tutti i lunedì, la frequentazione della ragazza con cui sviluppa una relazione sentimentale intensa e soddisfacente anche sul piano sessuale. Poco prima della separazione natalizia iniziano in seduta i primi imbarazzi, rossori e comunicazioni confuse e frammentarie, quell’atmosfera particolare in cui avverto il “dilemma” tra il bisogno di contatto e la paura del contatto. Verbalizzo questo sentito, riusciamo a capire che stiamo entrando in un’area di pericolo; c’è la preoccupazione per l’imminente distacco e una forte tensione con la ragazza, che comincia a prendere le distanze da lui. Compare un desiderio di fuga e di abbandonare tutto, la prima allucinazione e un’angoscia persecutoria nei confronti dell’ambiente familiare e del negozio. Lo aiuto a trasformare la voglia di scappare in un progetto di “vacanzariposo” presso la sorella in Trentino in un luogo tranquillo e affettivo. Acconsente. Verso la fine delle vacanze vengo raggiunta da una telefonata della figlia nel panico: in preda al vissuto di un calore insopportabile Flavio si era denudato in mezzo alla neve e in un accesso delirante diceva di essere una cometa che doveva ricongiungersi con altri astri4. Concordo con la figlia un ricovero d’urgenza che si prolunga per un mese nel piccolo ospedale di montagna dove l’accoglimento è attento e personalizzato e che mi consente di mantenere una 4 Searles utilizza la metafora del “Vaso di Pandora” per descrivere lo stato prepsicotico scatenato da “circo- stanze che hanno portato il paziente ad incontrare certe verità su se stesso e sui suoi rapporti con altri membri della famiglia, verità preziose che però giungono troppo rapidamente perché l’Io del paziente possa assimilarle, perciò indietreggia di fronte a quello che può essere considerato un Vaso di Pandora scoperchiato. [...] Così quella che poteva essere un’esperienza di crescita e di conoscenza diventa un’esperienza che porta alla psicosi, nella misura in cui a poco a poco contro di essa viene eretta tutta una serie di difese patologiche” (Searles 1965). In questi stati, le spinte eccessivamente rapide e intense verso un movimento di integrazione di un magma emozionale non ancora pensabile possono produrre una brusca de-fusione liberando in modo caotico ed esplosivo, mobilitazioni libidiche e distruttive, frammenti che invadono il campo psichico e vengono proiettati all’esterno. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 113 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico comunicazione telefonica con i medici (che lo introducono alla farmacoterapia) e, dopo qualche tempo, con il paziente. Nel frattempo la moglie e la figlia mi contattano per un colloquio nel suo stesso orario. Si tratta di una richiesta di cui intuisco l’importanza, proprio in quanto “moglie” e “figlia” costituiscono gli aspetti del Sé del paziente che in quel momento sono in grado di entrare in relazione. La rielaborazione della crisi (con la comunicazione di un segreto familiare) fatta separatamente con ciascuna di loro avvierà un processo di differenziazione che porterà la figlia ad iniziare un suo percorso psicoterapeutico e la moglie a lasciare uno spazio più libero per l’evoluzione di Flavio. Al rientro, riprende un lungo lavoro di riorganizzazione e di cura. La crisi come “break-through” nel processo psicoterapeutico In quest’ultimo esempio descriverò più dettagliatamente le modalità di una crisi che sopraggiunse in una fase della psicoterapia con una paziente borderline di 38 anni con tratti isterici, a seguito di un tempo di lavoro sufficientemente prolungato e di una presenza costante nel setting che aveva consentito una relazione “clandestina” con un potente investimento fusionale mascherato da difese erotizzate e idealizzanti. In concomitanza al momento di crisi Sara, insegnante e traduttrice di greco antico, aveva subito la momentanea perdita di un sostegno ambientale, rappresentato dalla relazione con la figura protettiva di un docente e il rinvio di un progetto editoriale. La relativa continuità del decorso fu interrotta dalla prima separazione che Sara cominciò a sentire come tale, la seconda vacanza di Natale. Al rientro, un brusco viraggio; iniziarono due anni di relazione tormentata in cui, soprattutto nelle settimane del rientro, niente sembrava più utile o possibile. I primi segnali della crisi comparvero con una sequenza di incubi in cui la forma del racconto tendeva a condensarsi e il linguaggio a diventare rapidissimo e irruente; le comunicazioni avevano l’intensità di colpi “sparati a raffica” come proiettili (Bion 1962, 1963). Alcuni temi: Vestito per uccidere (dal film horror di Brian De Palma) Bagno di sangue esprimevano il livello crescente di persecutorietà e angoscia di morte nei confronti della terapia mentre la comparsa di una figura di Doppio terrifico sotto la forma di una Marionetta meccanica (con una voce in falsetto) poteva indicare 114 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico il momento di massimo equilibrio tra tendenze fusionali con vissuti di intollerabilità nei confronti della separazione e un possibile profilarsi di un cambiamento (Funari 1986,43)5. “Mi sembra che il buco si allarghi sempre più nel mio stomaco, fino alle viscere fino a comprendermi tutta”: lo stare distesa sul lettino, con la conseguente limitazione del campo visivo, diventò impossibile per la paziente. La stanza di analisi ora veniva percorsa da Sara in modo inquieto e disarticolato. Ogni distacco era un autentico dramma, nell’assenza non rimanevano tracce e Sara tra una seduta e l’altra non trovava appigli: “La mia vita è una serie di rotture fino all’autoinganno dell’analisi. Se davvero su di me non avesse efficacia? Se fosse solo un flusso di parole?” e al contempo “almeno una cosa so, la sento soffrire con me e curarsi del mio futuro che per me non esiste”; in quel momento infatti la paziente viveva solo di sensazioni rabbiose e disintegranti che distruggevano ogni memoria dei nostri incontri, in una ipertrofia del presente, nel disperante sforzo di sopravvivere psichicamente. La seduta era come vissuta in due tempi: la prima parte iniziava con attacchi, scariche di insulti osceni e richieste di unicità e intimità assoluta. Anche solo il mio esserci, la vitalità, l’emissione della voce erano aspetti che sembravano produrre un divario incolmabile. Una impasse disperante. Gradualmente la paziente si ricomponeva prostrandosi in scuse e cercando di pensare con me a quanto era successo; a quel punto ricominciava la crisi per la fine della seduta... La preoccupante tendenza all’acting culminò con un episodio pantoclastico in cui dopo il lancio dei cuscini e di alcuni libri la paziente afferrò una piccola ciotola antica: le fermai energicamente la mano e le dissi in modo sconsolato che ero totalmente impotente di fronte a una situazione esplosiva per lei e per entrambe, e tutto ciò stava annientando il nostro legame. Il mio gesto accompagnato da queste parole costituì un decisivo segnale di limite. Dal canto mio, la momentanea perdita di speranza, segnalata anche da un sogno controtransferale, mi fece riconoscere non solo il vuoto nella paziente, ma anche la carenza di strumenti nella nostra relazione. 5 Funari sottolinea come la comparsa del Doppio nella situazione analitica sia un segnale di profonda crisi del soggetto posto di fronte all’alternativa tra regressione e cambiamento maturativo. Scopre inoltre la sua natura di “fenomeno ponte tra il mondo fantasmatico preoggettuale e il mondo delle molteplicità oggettuali. Ultimo baluardo del desiderio fusionale, primo risultato di una struttura soggettivizzante, in esso nulla è deciso in un senso o nell’altro; sia sul versante clinico, sia su quello di una possibile ricostruzione geneticoevolutiva, esso rappresenta una vicenda che prelude al processo di separazione e alla prima fondazione della propria identità” (Funari 1986, 43). PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 115 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico Fu dunque necessario elaborare tempestivamente un complesso dispositivo di interventi, modulati di volta in volta a vari livelli e soprattutto presentati in modo attendibile, per far fronte e tollerare questa fase che la paziente definì icasticamente, la nostra triade “vuoto, distruzione caotica, nascita”. Sara acconsentì ad essere seguita quindicinalmente dallo psichiatra (che da tempo avevo reso partecipe della situazione a partire da una prima avvisaglia, uno spunto delirante rientrato con un fermo intervento verbale) con cui prese il primo appuntamento durante la nostra seduta, evidenziando in questo modo la continuità del nostro lavoro e la colleganza delle funzioni; creando con lui un rapporto di fiducia, poté accettare di assumere farmaci per contenere le angosce psicotiche e l’elevatissima tensione aggressiva. In tempi relativamente brevi l’esplosività della crisi lasciò posto a più tollerabili “accensioni” agli inizi e alla fine della settimana e a un maggior senso di coesione. Gradualmente la sintonizzazione ripetuta e silenziosa di questi stati insieme a un’empatia rivolta alla sensorialità nel passaggio al vis-à-vis riuscirono a realizzare, attraverso uno sguardo accogliente ma fermo, un contenimento delle rappresaglie. Una funzione molto importante fu esercitata dalla coesione tattile dell’abbraccio calmante e separante, nel momento finale di alcune sedute in cui la paziente mi comunicava un’intollerabilità al distacco. Fu anche necessario dare una qualche struttura ai contatti telefonici, che in quel periodo invadevano a raffica la mia vita privata, con un grande senso di destabilizzazione. A sostegno degli aspetti depressivi (essendoci un rischio suicidario) e di perdita di Sé, proposi alla paziente una reperibilità telefonica in definiti orari del fine settimana e l’aumento di una seduta per il periodo della crisi. In sintesi un setting che prevedeva per la crisi: quattro sedute settimanali, un contatto telefonico quotidiano di cinque minuti (gratuito), il colloquio con lo psichiatra, un neurolettico a basso dosaggio e un ansiolitico per il sonno. Dopo un certo tempo riprese l’attività onirica sotto forma di incubi, raccontati o evacuati con grande intensità. Di volta in volta venivano accolti attraverso una mia rêverie silenziosa, non interpretati, bensì nominati e depositati nella stanza d’analisi come materiale significativo in attesa di una possibile rielaborazione. 116 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico Ebbi una certa sicurezza di essere “sopravvissuta”6 agli attacchi distruttivi di Sara, allorquando comparve dopo la sequela degli incubi, un nuovo personaggio: “Grisù”, il piccolo drago dei cartoni animati che faceva esplodere le sue fiamme a scopi benefici ... e a me veniva conferita ufficialmente la nomina di “Pompiere”. La funzione calmante era riconosciuta e forse ... eravamo vicini ... alla nascita. Tutto ciò aprì pian piano a quello che Winnicott definisce “un nuovo inizio, come condizione che il paziente sta tentando di sperimentare, una condizione del passato impossibile da ricordare se non viene sperimentata ora per la prima volta”, (Winnicott 1963, 110) consentendo cambiamenti significativi: la paziente cominciò a sentirsi meno “accesa” ma viva, si riattivarono in modo spontaneo la memoria e la percezione non più dirette da una severità arcaica utilizzata come difesa per tenere insieme un Sé fragile e spaventato; al contempo “il buco senza fondo” si trasformò gradualmente in una recettività in grado di alimentarsi e di accogliere nuove esperienze relazionali. Con un clima più disteso e affettivo fu in grado di ritornare al divano, sentito ora come luogo protettivo in cui differenziare e definire meglio un’identità appena nata. 6 Cito a questo proposito un passo fondamentale da L’uso dell’oggetto e l’entrare in rapporto attraverso le identificazioni di Winnicott: “Al punto dello sviluppo che è qui in esame, il soggetto va creando l’oggetto, nel senso di trovare l’“esterno” stesso, e si deve aggiungere che questa esperienza dipende dalla capacità che ha l’oggetto di sopravvivere (è importante che ciò significhi: “non fa rappresaglie”). Se fatti di questo genere si verificano in analisi, allora l’analista, la tecnica analitica e la situazione analitica entrano tutti in gioco come possibilità di sopravvivere agli attacchi distruttivi del paziente. Questa attività distruttiva è il tentativo da parte del paziente di collocare l’analista fuori dell’area del controllo onnipotente, vale a dire nel mondo esterno. Senza l’esperienza della massima distruttività, il soggetto non colloca mai l’analista al di fuori e pertanto non può mai fare altro che una specie di autoanalisi, dove l’analista viene usato come proiezione di una parte di Sé. In termini di cibo, il paziente può soltanto nutrirsi dal Sé e non può usare il seno per aumentare di peso. Il paziente può arrivare anche a godere l’esperienza analitica, ma fondamentalmente non cambierà. [...] Nella pratica psicoanalitica le modificazioni positive che avvengono in quest’area possono essere profonde. Esse non dipendono dal lavoro interpretativo, ma dalla capacità dell’analista di sopravvivere agli attacchi e di non ricorrere alla ritorsione. [...] Questi attacchi possono essere difficili da fronteggiare per l’analista, specialmente quando vengono espressi in termini deliranti o mediante una manipolazione che induce a fare cose tecnicamente sbagliate (per esempio essere inattendibile quando l’attendibilità è l’unica cosa che conti, insieme al sopravvivere (Winnicott 1968, 246). PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 117 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico Mediatori per la crisi Vorrei soffermarmi su alcune questioni tecniche collegate al momento di crisi che si può manifestare durante il decorso di un trattamento privato: molti sono i modi per affrontarla e non ultimo, qualora la relazione si riveli insostenibile, la possibilità di un ricovero in una situazione di contenimento globale. II problema è, come sempre, la scelta di un modo specifico, ad hoc per ciascun paziente e l’elaborazione di veicoli comunicativi che possano rendere anche questo tipo di esperienza realmente psicoterapeutica. Se la crisi costituisce di per sé la rottura di un continuum, talora la tendenza alla frammentazione o il rischio di un agito autolesivo e la mancanza di un ambiente di sostegno esigono la massima protezione. E comunque, non ogni struttura o Reparto si equivalgono e la ricerca deve tener conto di svariati fattori, che vanno dalla qualità della cura, all’esigenza di riservatezza, alla vicinanza, ai costi eccetera: ben diverso è il caso di un paziente istituzionale grave che è stato abituato ad ampliare il proprio investimento su tutta l’articolazione territoriale, a cui appartiene di fatto anche il Reparto di Diagnosi e Cura; e riesce ad accettare il ricovero perché esiste un continuo collegamento tra il suo luogo di cura abituale e l’ambito “eccezionale” della crisi. E ben sappiamo come questa esperienza di holding nella regressione si riveli efficace quanto più è possibile una integrazione tra questo momento “acuto” e il successivo “subacuto” che comporta un accompagnamento del paziente verso il reinserimento nel contesto quotidiano, sia di cura che di vita. Dal momento in cui, per la prima volta, mi capitò di prendere una simile decisione con un paziente privato, cominciai ad attrezzarmi cercando di ricreare in questa situazione specifica, gli elementi essenziali di una rete di riferimento (comprendente uno o due cliniche possibilmente convenzionate, colleghi psichiatri, infermieri, fisioterapista, internisti e così via) che ritengo condizione imprescindibile per poter lavorare senza gravi rischi con le patologie che sempre più frequentemente arrivano nei nostri studi. Questa sta diventando ormai una consolidata abitudine di gran parte degli psicoanalisti e degli psicoterapeuti: d’altro canto come potrebbero essere pensabili i geniali risultati dell’inventività clinica di un Searles o di un Racamier senza quegli straordinari “contenitori” esperienziali, che sono stati la clinica di Chestnut Lodge e la Comunità della Velotte, che garantivano di poter lavorare con pazienti borderline e psicotici in condizioni di ricerca, ma anche di piena sicurezza? Non essendo Searles o Racamier... a maggior ragione. Vorrei ritornare un momento sui problemi relativi alla metodologia di invio (circa il venti per cento dei miei pazienti ha avuto in momenti diversi questa necessità): nella mia esperienza non si è 118 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico comunque rivelato sufficiente affidare al paziente il nome di un collega o una generica proposta di assunzione farmacologica. Questo può valere quando le acque sono calme e il paziente ha già una certa sensibilizzazione in merito. Ma in stati di pre-crisi o crisi, quello che si è dimostrato maggiormente efficace è stato un lavoro di tessitura relazionale preparatorio tra il setting psicoterapeutico e gli altri eventuali setting (come nella prima situazione che ho presentato) e, al di là di una garanzia di competenza, la scelta di un tipo di psichiatra adatto (età, identità di genere, tratti di personalità) ai problemi specifici che manifesta il paziente. Per quanto riguarda le due pazienti di cui ho parlato, avvertivo come, nonostante la gravità della situazione, fosse fondamentale garantire una continuità di vita (fecero qualche assenza, ma furono in grado di mantenere il lavoro) e di presenza della mia funzione: stante la solitudine e il loro isolamento sociale la psicoterapia era in quel momento l’unica possibilità di sopravvivenza psichica. Sentivo che solo dalla “stanza della psicoterapia”, da quel punto stabile, pur conquistato con un alto costo emotivo, poteva partire un allargamento o apertura ad altre figure terapeutiche. In particolare per Sara, l’accurata preparazione all’incontro con il collega (importante che fosse una figura maschile e di una certa età), prima lasciato sullo sfondo, poi entrato tempestivamente a triangolare la relazione, il flusso di informazione tra noi, l’attribuzione di significato al nuovo farmaco anche da parte mia furono elementi importanti per non ricreare le “personificazioni” del teatro isterico o ulteriori scissioni, anche se tuttavia queste possono essere fasi di passaggio di una processualità in atto. Per favorire, in definitiva, un’esperienza strutturante e il più possibile integrativa. Quanto all’uso del telefono, come veicolo di contatto terapeutico e quanto all’elaborazione di alcuni contatti corporei che ho citato e alle numerose “azioni” e “oggetti” parlanti (nel senso di Racarnier) che seguirono nel decorso successivo, questo caso è stato per me una possibilità di apprendimento esemplare insieme all’esperienza comunitaria di vita quotidiana con i pazienti psicotici. Questi “mediatori” possono rappresentare gli elementi di una sorta di laboratorio che possiede molte analogie con “la stanza del gioco” e con le modalità della terapia infantile e costituiscono, a mio avviso, dei connettivi sensoriali molto importanti per avviare processi di mentalizzazione. Essendo strumenti naturali nelle relazioni umane, ma nuovi nella pratica psicoterapeutica esigono pertanto un attento dosaggio, timer e object presenting nel senso dell’oggetto o dell’azione giusta al momento giusto. Si tratta di un complesso e paziente lavoro di cura fondato su un setting interno continuamente da calibrare che si costruisce su una miriade di microesperienze di internalizzazione relative allo PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 119 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico studio teorico-clinico, alla prassi osservativa e alle indicazioni provenienti dal lavoro con altri pazienti, all’utilizzo delle indicazioni del controtrasfert e della propria vita personale. Nei momenti difficili cerco di tener presenti soprattutto due coordinate fondamentali: la necessità di garantire un senso di “responsabilità nella sicurezza”7 e al contempo un’ “attendibìlìtà e sopravvivenza del terapeuta senza ritorsioni” partendo dal riconoscimento dei bisogni del paziente. Si tratta quindi di non negare le risonanze invasive della distruttività della relazione e al contempo recuperare, momento per momento, una capacità di attesa senza cortocircuiti: emozioni potenti e contraddittorie, a cui si può aggiungere nel perdurare del momento subacuto, un vissuto globale di oppressione e grande affaticamento. Ma come può un’unica mente (quella nell’analista o della madre8 appunto) metabolizzare livelli emozionali d’intensità così elevata, o aspetti del campo che si collassano, aree informi del “conosciuto non pensato” ... senza assorbire tutto ciò in un puro rispecchiamento che non può restituire nulla di trasformativo? Come è possibile integrare questi stati in una rêverie organizzante? Nel tentativo di rispondere parzialmente a questi interrogativi, vorrei inserirmi nell’orientamento di pensiero che i contributi di Boccanegra e Correale hanno portato alla psicoanalisi italiana nel campo delle patologie gravi, a partire dai primi anni ‘90: riprendendo un tema ancora in via di esplorazione, la tesi sostenuta è che la particolare trasmissione di emozioni nella coppia terapeutica, con effetti controtransferali di grande impatto, assuma caratteri molto specifici che possono disorganizzare la mente del terapeuta. La discussione in gruppo di consulenza o tra colleghi, tra psicoterapeuta e psicofarmacologo e altre figure che si occupano anche temporaneamente del paziente permette l’attivazione, nel gruppo stesso, di particolari sequenze narrative che contengono in sé la capacità di condensare, organizzare e dare forma a tali emozioni. La mente gruppale può offrire attraverso la costruzione di scenari condivisi la possibilità di con-tenere dentro di sé vissuti del paziente e propri (in attesa del riattivarsi della rêverie) e una guida per orientare cognitivamente l’atteggiamento empatico verso il paziente (Correale 1995, 78-79). 7 Racamier P. C. (1978) Une foyer de cure psychothérapique. Réflexion à partir d’une expérience de vingt années (inedito) 8 Per quanto riguarda la funzione del padre, non solo come terzo, ma come protezione primaria della diade madre-neonato rimando all’ultimo numero monografico della nostra rivista Psicoterapia Psicoanalitica (2, 1999) interamente dedicato a questi problemi. 120 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico “Vorrei fare l’ipotesi - propone Correale (1995) - che il gruppo abbia questa capacità in misura particolare, perché dotato specificamente di un’attitudine condensante. Intendo dire con questo che il gruppo tende per sua natura, non solo a stabilire un filo associativo tra interventi, ma a inglobare per così dire i precedenti interventi nei nuovi. Più precisamente, vorrei sottolineare quanto molti - e in particolare Corrao - hanno già ripetutamente indicato e cioè che nel gruppo ogni intervento si associa ai precedenti, non solo secondo le leggi ben note di somiglianza (metafora) e contiguità (metonimia), ma anche secondo le leggi della trasformazione interpretazione di quanto detto. Questo fenomeno avviene naturalmente in ogni relazione, ma sembra nel gruppo particolarmente sviluppato, probabilmente a causa della più o meno intensa depersonalizzazione sempre presente nei gruppi”. Si verifica così che il gruppo possa essere considerato una sorta di potente dispositivo interpretativo e condensante, che tende a produrre scene il cui uso esplicativo chiarisce, organizza e illumina gli elementi sparsi preesistenti con maggiore facilità rispetto alla situazione individuale. Nella mia esperienza so per certo quanto il gruppo sia imprescindibile per la comprensione dei casi clinici istituzionali; anche per i casi privati però, poter contare su un allargamento rappresentato da un gruppo di discussione clinica (Laurora 2001) piuttosto che da qualche collega con cui si è stabilmente in sintonia, costituisce una possibilità di decompressione, di distanziamento e “messa in forma”, di grande aiuto. BIBLIOGRAFIA ANZIEU, D. (1979) L’evoluzione dell’analisi transizionale nella psicoanalisi individuale. In: Crisi, rottura e superamento. L’analisi transizionale come intervento psicoanalitico sulla crisi. Centro scientifico Torinese, Torino 1987. 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Di fronte al prorompere di aree primitive che precipitano nel campo analitico, quale funzione svolge il farmaco e i diversi mediatori concreti? A quali condizioni la crisi si orienta verso una trasformazione che si può considerare evolutiva? A partire da questi interrogativi, l’articolo delinea anzitutto una cornice teorica, in sintonia con i contributi delle discipline che si occupano dell’evoluzione dei sistemi viventi complessi. Fa proprie due fondamentali metafore dell’attuale psichiatria psicodinamica la cui elaborazione ha prodotto importanti dispositivi di intervento per la crisi: l’immagine del precipizio e della rete di sopravvivenza di Petrella (anni’80) che configura un insieme di funzioni (psichiatra ed équipe) e di strumenti farmacologici e ambientali insieme a un’attribuzione di senso a quanto succede e la metafora dell’ondata emozionale che si propaga in un campo di forze di Correale (anni ‘90) per i pazienti più gravi, che propone un dispositivo a contenitori multipli - coppia terapeutica, piccolo gruppo, équipe - per accogliere il nucleo esplosivo della crisi. Vengono poi presentate alcune situazioni cliniche, sia all’inizio che in itinere, che esemplificano nel setting privato l’efficacia dello strumento gruppale, farmacologico e di altri mediatori concreti per contenere la potente intensità dei vissuti e degli agiti dei pazienti in questa fase del percorso. A conclusione, vengono introdotte alcune riflessioni sulla tecnica e sull’importanza del gruppo di discussione tra colleghi come ausilio e sostegno del terapeuta a fronte dell’impatto con il carattere disorganizzante della crisi. SUMMARY Metaphors of the crisis and mediators for the clinical intervention. Which instruments can we use to cope the event of crisis of the patient in the psychotherapeutic context as emergency of a process which is under way? What is the function of drugs and of the different concrete mediators in front of primitive areas which go out of control in the analytic context? On which conditions does the crisis go to a change that we can consider an evolution? From these questions, the article first of all outlines a theoretical frame, which is in on the same wavelength as the theories of evolution of complex systems. It assumes two fundamental metaphors ofactual psychodynamic psychiatry, which have producted important intervention devices far the crisis: the image of precipice and survival net by Petrella (80s), which plans a set of junctions (psychiatrist and équipe) and pharmacological and enviromental instruments together with an altribution of sense to what is going on; and the metaphor ofthe emotional wave which propagates in a force field by PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 123 Metafore della crisi e mediatori per l’intervento clinico Correale (90s) for serious patients, which suggests a multiple containers device - therapeutic couple, small group, équipe - to receive the explosive core of the crisis. Then, the Author presents some clinical situations, both at the beginning and in itinere, which show the efficacy of groupe device, pharmacological and others concrete mediators, to contain the potent intensity of emotions and acting of the patients in the private setting. At the end, the Author reflects upon the technique and the importance of the discussion group between collegues as help and support of the therapist in front of the disorganizing side of the crisis. MARTA VIGORELLI Piazza XXIV Maggio, 7 20136 Milano [email protected] 124 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” ANGELO BARBIERI, ENRICO COGO Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” Il presente lavoro prende le mosse dalle nostre personali esperienze di approccio alla malattia mentale mediante una psicoterapia integrata da un appoggio farmacologico o, viceversa, mediante una psicoterapia progettata in appoggio ad una cura farmacologica. Tuttavia il nostro intendimento principale non è quello di soffermarci sulle considerazioni cliniche che ci hanno condotto, nella nostra evoluzione professionale, a riconoscere prima e ad affermare poi la validità, se non addirittura la necessità, di tale approccio per alcuni tipi di pazienti. Intendiamo, piuttosto, soprattutto descrivere le implicazioni di carattere metodologicoprocedurale che abbiamo ricavato dalla nostra esperienza sul campo, nelle molteplici situazioni che si possono venire a creare... Alcune di tali implicazioni riguardano il modo di porsi dei terapeuti, ed altre riguardano la loro ricaduta sul rapporto con i pazienti. La proposta di una terapia integrata comporta ad esempio, già di per sé, una serie di valutazioni e di risoluzioni che siano adatte alle diverse situazioni, ossia che tengano conto del contesto, non solo prettamente clinico, ma anche culturale e sociale di ogni paziente: il vissuto del disagio psichico è peculiare ad ogni individuo e ad ogni nucleo umano. Accanto al perché, allora, si pone anche il problema del come arrivare ad una tale proposta. E il come, per certi versi, è più un punto di arrivo che un punto di partenza. Punto di arrivo in quanto presuppone il riferimento ad una sorta di setting, inteso sia come setting operativo che come assetto interno dei terapeuti, con riferimento alla continua elaborazione in direzione di una consapevolezza del proprio ruolo inconscio e di quello dell’altro nell’insieme della cura. A questo proposito precisiamo subito che, nel panorama delle varie impostazioni per l’integrazione di farmaci ad una psicoterapia da avviare o già avviata, nei limiti del possibile, noi propendiamo per l’intervento, a ciò mi- 126 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” rato, di un collega. Preferiamo questa linea di condotta anche quando lo psicoterapeuta sia medico ed egli stesso in condizione teorica di possibilità di prescrivere1. Come ogni setting, questo da noi adottato, peraltro secondo le indicazioni che compaiono classicamente, per pazienti psicotici, nei lavori di Racamier (1972), Rosenfeld (1974, 1987), Zapparoli (1974, 1985), per citarne solo alcuni, comporta regole ed accorgimenti a cui aderire e comunque da costruire. Così intesa, la terapia integrata di fatto è un lavoro di équipe, anche se a due. Ed è opportuno quindi che i due terapeuti, quello che seguirà il paziente con la prescrizione di psicofarmaci e quello che lo accompagnerà nel percorso di psicoterapia analitica, arrivino a conoscersi e a conoscere il più possibile il modo di lavorare dell’altro, così come è auspicabile succeda in ogni lavoro di équipe. La situazione ideale per lo psicoterapeuta è quella di avere come referente psicofarmacologo un collega che abbia anch’egli una formazione psicoterapeutica, affinché vi sia la possibilità di una condivisione di concetti e di linguaggio, sia nel rapporto tra curanti che nel rapporto con il paziente. Ci si propone di fatto come una coppia che cura ed accudisce, ed il linguaggio dei genitori fa crescere quando è un linguaggio comune e condiviso. Tutto ciò, infatti, rende meno complessi anche certi passaggi delicati di avvio, come nel caso seguente, a ben vedere reso praticabile da una ormai consolidata collaborazione tra il terapeuta e lo psichiatra farmacologo. B., affetto da psicosì delirante ed allucinatoria, dopo alcuni ricoveri a me inviato perché lo seguissi in psicoterapia dal collega psichiatra con cui collaboro, alle ore 6 della mattina seguente i nostri contatti preliminari, mi telefonò allarmato dicendomi che “si sentiva al centro di una trappola quadrimensionale”. Parlando di ciò al collega ed ottenendo assicurazioni riguardanti idonee modifiche della cura farmacologica appena posta in essere, riuscii a recuperare il sorriso2 e cioè a comprendere nelle parole del paziente il senso probabile che nell’assetto nuovo di coppia e con la possibilità in questo caso del sostegno delle istituzioni in cui allora lavoravamo, ce l’avremmo fatta ad 1 Per una rassegna della altre impostazioni metodologiche dei vari Autori, vedasi S. Freni, in: Tridente C., Leuzzi L. (1997). 2 E cioè quella pace mentale che, nelle parole di Rosenfeld (1987), l’analista ha bisogno di poter salvaguar- dare per sé, come condizione di base necessaria al proprio lavoro. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 127 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” accoglierlo e tenerlo in terapia, riuscendo a “prendere in trappola”, benevolmente, lui nei suoi aspetti di patologia. B. è da noi trattato da circa dieci anni, non ha più avuto ricoveri, solo due volte i primi tempi si è recato al pronto soccorso ove ha chiesto congruamente allo psichiatra di turno che gli facesse praticare un tranquillante, “perché si sentiva agitato”. Ora, egli sa di essere “un po’ matto”, perché ogni tanto ode voci, cui però riesce a non dare eccessivo credito e che vive come sopportabili interferenze ... Con nostra favorevole sorpresa, di recente ha manifestato l’intenzione di accedere ad un “lavoro normale, meno protetto”; forse vuol dire anche un lavoro di psicoterapia meno protetto da farmaci... Reputa poi di non avere, a 40 anni, grande esperienza con le donne, ma se una che gli piacesse, prendesse lei l’iniziativa... forse allora... vincerebbe quelle sensazioni di pochezza dei suoi attributi sessuali, ora più correttamente, peraltro, riconosciuti come una immaturità ed impreparazione che sono il frutto della sua passività e simbiosi tendenziale... Fa addirittura recentemente riferimento, insperatamente, ad un termine per la terapia... Analoga buona sorte, nel contesto della sperimentata collaborazione, è toccata anche ad A., lontana parente del mio collega, a me da lui avviata con preghiera che la seguissi in psicoterapia, dopo un vistoso breakdown psicotico con necessità di due ricoveri consecutivi. All’inizio A era ancora agitata, confusa, un po’ stolidamente euforica, ostile nei confronti dei genitori; scriveva sui muri il proprio identificarsi con gli oppressi del mondo di cui voleva la liberazione. Si è poi con il tempo riusciti ad avviare un progetto psicoterapeutico più condiviso: siamo ora al secondo anno di un lavoro con il quale A. sta mettendo a fuoco i suoi profondi vissuti di frustrazione rispetto all’antico contesto familiare in cui non avvertiva sintonie e comprensioni, ma commenti e giudizi che molto temeva, sentendosi nullificata. Dopo una fase iniziale contrassegnata da minimizzazione, tendenza alla fuga ed alla interruzione, siamo riusciti, proprio interpretando le sue angosce per i miei possibili giudizi, a parlare dei suoi vissuti dolorosi, ormai peraltro con qualche riconoscenza verso di me. È chiaro che in questo caso la collaborazione del collega è stata particolarmente preziosa in quanto si è dispiegata non soltanto sul piano farmacologico, ma anche su quello del sostegno esterno e del vigilare affinché i parenti di A. non assecondassero i suoi meccanismi di diniego e di fuga presenti nelle prime fasi. In situazioni complesse come quelle menzionate, in realtà, ci si accinge consapevolmente ad un intervento articolato, cooptando un collega in funzione di un ausilio terapeutico per la gravità del 128 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” caso o per la complessità del contesto della terapia. Naturalmente è preferibile che si tratti di un collega con il quale vi sia una consolidata sintonia professionale: in questo caso egli fornirà la sua prestazione sul versante concreto della prescrizione farmacologica, ma in un’ottica comune di iscrivere ciò nell’ambito di un processo evolutivo di crescita per il paziente. In esso è necessario che “l’evento farmaco non resti muto”, ma nelle parole dello psicoterapeuta e del paziente, “partecipi al discorso terapeutico” attraverso la mediazione della persona fisica di chi lo somministra, e possibilmente, infine, venga “tradotto” nel “discorso” stesso della relazione transferale. L’allargamento del numero dei curanti a due e l’utilizzo del farmaco, a nostro giudizio, in ultima analisi è indicato sostanzialmente nei casi in cui si ha a che fare con l’esigenza di portare alla luce aree del sé del paziente estremamente coartate e bisognose, in attesa e come “non nate”. In questa ottica lo psicoterapeuta si trova nella condizione consapevole di farsi “levatrice” di un parto difficile in cui non si può “fare da soli”, ci vuole aiuto e bisogna lenire il dolore in eccesso. L’intervento ausiliare del collega e la prescrizione farmacologica stabiliscono o ristabiliscono utilmente, secondo noi, un canale di interazione concreto e corporeo tenendolo distinto da quello fantasmatico, aiutando il paziente in fase critica a conservare contatto ed esame di realtà. A ciò naturalmente si unirà sinergicamente l’effetto clinico specifico sintomatico del farmaco, nei vari casi, o diminuendo il livello delle angosce psicotiche o dei suoi derivati deliranti ed allucinatori, o concedendo sostegno antidepressivo o antipanico, o contribuendo a stabilizzare il tono dell’umore o altro ancora... Se la condizione di lavoro con un farmacologo prescelto da noi è in questo senso ottimale, tuttavia può verificarsi l’eventualità di rispondere ad una richiesta di psicoterapia da parte di pazienti già in trattamento psicofarmacologico con altri psichiatri invianti. In tali circostanze, qualora si decida di assumere il paziente in cura, ci si troverà necessariamente di fronte ad un periodo di adattamento alla nuova collaborazione, forse con qualche difficoltà aggiuntiva, banco di prova comunque, sul quale riconsiderare coerenza, tenuta e condivisibilità del nostro assetto interiore. Quando tale condivisione è stata possibile, non abbiamo avuto particolari problemi ad accogliere il paziente in terapia. Nel caso di E., ad esempio, il terapeuta si è prontamente raccordato con lo psichiatra del servizio pubblico che lo aveva già in trattamento farmacologico. Caso di E.: E., di anni 22, affetto da schizofrenia insorta a 17 anni, è in un atteggiamento autistico tendenziale; i suoi genitori mi hanno chiesto, attraverso conoscenze, di verificare se io potevo seguirlo. I genitori mi descrissero E. come molto imponente fisicamente ed in passato aggressivo, così che intimorito chie- PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 129 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” si che uno di loro lo accompagnasse alle sedute ... Inoltre contattai il suo psichiatra: questi, sentito il progetto psicoterapico, lo condivise, sdrammatizzò la situazione e le mie iniziali emozioni, e si offri di aumentargli lievemente la posologia dei farmaci, momentaneamente, a titolo prudenziale ... Di lì a poco la situazione si sbloccò perché, nei primi incontri con me, il paziente una volta sussultò mentre gli parlavo e soggiunse: “Non parli così forte!”, con una espressione a sua volta di paura... Da allora io ho potuto con lui riferirmi a questa sua dimensione delicata ed inerme, timorosa di essere sopraffatta ed invasa, potendo poco più avanti usare espressioni riguardanti la scorza spessa ed il cuore tenero, o anche l’immagine di un castello arroccato con spesse mura, arricchendo via via la metafora con particolari quali il ponte levatoio tante volte impraticabile ed il suo scrutare, talora, come dall’alto delle mura i movimenti altrui, senza mostrarsi... Tornando, quindi, alla proposta della cura con due referenti, è importante che essa possa scaturire da una sorta di consulto tra i terapeuti che verifichi gli spazi di possibile intervento con l’una e l’altra modalità di cura e ne precisi gli obbiettivi, attraverso un raffronto dei rispettivi punti di vista sulla psicopatologia di cui soffre il paziente. Il passo successivo è quello della comunicazione al paziente dell’opportunità di una terapia integrata, ed è chiaro che è molto diverso fare una tale proposta ad un paziente che fino ad allora è stato curato solo con psicofarmaci o viceversa ad un paziente che magari già da tempo è seguito in psicoterapia. Lo psichiatra che cura coi farmaci, in fondo, propone un completamento della cura; lo psicoterapeuta, per lo più, si ritrova invece a fare una tale proposta per far fronte a situazioni di particolare difficoltà, contrassegnate da notevole sofferenza mentale. Qualora la situazione sia contraddistinta da sofferenza mentale elevata, il constatarla sarà il punto cardine su cui basare la comunicazione al paziente dell’opportunità di assumere anche psicofarmaci. In fondo le persone che si rivolgono a noi ci chiedono verosimilmente proprio un aiuto in tale senso, cioè di tendere al progresso sì, ma attraverso modulazioni accettabili delle quote di sofferenza. Ora noi sappiamo che la psicoterapia analitica ha tempi lunghi, non ha garanzie di successo e necessita della collaborazione delle parti sane del paziente. Queste ultime possono trovarsi coartate da ansia intensa, depressione marcata, disturbi del pensiero, rendendo a volte impossibile stabilire un contatto o anche solo mantenere una sensibilità al lavoro psicoterapeutico. 130 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” Tutto questo può essere esplicitato al paziente, certo secondo un dosaggio appropriato caso per caso e, di solito, è ben accettato. In altri casi, caratterizzati da proiettività e distruttività e relative difficoltà relazionali, altra chance potrà essere rappresentata dal fare appello onestamente a complicazioni nella situazione di terapia, insostenibile complessivamente, o improduttiva, non negando, anzi indulgendo a sottolineare, se è il caso, momentanee insufficienze terapeutiche rispetto a quanto sta accadendo. Si potrà talora, così, riuscire a mobilitare ancora quote di collaboratività del nostro paziente, pur sempre “il nostro miglior collega” secondo Bion, o “terapeuta per il terapeuta” secondo Searles. Va da sé che occorre anche esplorare l’eventuale storia psicofarmacologica precedente del paziente, con i suoi vissuti positivi e negativi nei confronti degli psicofarmaci in generale o di alcuni in particolare, nonché valutare gli investimenti che verranno attivati dal cambiamento. I movimenti transferali possono essere i più vari, a volte lineari, a volte complessi e tortuosi. Stiamo parlando di transfert a tutto campo, sul farmaco, sulla figura nuova dell’altro terapeuta, sulla coppia dei terapeuti che si andrà a formare, sulla situazione nuova nel suo insieme. Ecco perché, come dicevamo più sopra, è importante che anche lo psichiatra psicofarmacologo abbia preferibilmente una formazione psicodinamica o quantomeno ne condivida i concetti. Anche chi prescrive i farmaci ha attivato/attiverà un legame che contiene aspetti psicoterapeutici anche se non evidenziati come tali; lo psicoterapeuta ne deve tenere conto ed accoglierli, per poi poterli segnalare ed analizzare col paziente nei tempi e nei modi più opportuni. Certo, molto dipende dalla realtà clinico-diagnostica di ogni caso, ma è qui l’importanza del nostro riferimento ad un “setting interno” specifico della situazione di terapia integrata. Setting interno, in questo caso, vuol dire soprattutto avere affrontato a fondo l’antitesi psicofarmaci - psicoterapia psicoanalitica nei suoi risvolti personali, in termini di ambivalenza, onnipotenza, ricerca della verità, desiderio di aiutare, desiderio di curare ed eventualmente guarire, ammettendo alla fine una reale correlazione tra stato mentale e stato cerebrale. È un percorso forse circolare, resosi per certi versi necessario con l’apertura del lavoro analitico alle patologie gravi, apertura a sua volta trainata dai progressi farmacologici. L’associazione di psicofarmaci e psicoterapia psicoanalitica, nella nostra visione, non è comunque da considerarsi aprioristicamente un modello di approccio valido per alcune psicopatologie e non per altre. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 131 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” Per alcuni pazienti gravi, da anni in cura solo con psicofarmaci, magari anche con una storia di ricovero, la possibilità di un riferimento costante e continuativo quale l’avere una seduta di psicoterapia settimanale può avere inizialmente solo una funzione di contenimento, ma può anche evolvere verso un nuovo tipo di relazione col mondo. F. è una paziente di 43 anni con diagnosi di schizofrenia paranoide cronica con aspetti a tipo disturbo schizoaffettivo. È giunta a me spontaneamente, sapeva del mio essere psicoterapeuta psicoanalitico, ma mi conosceva in altra veste. Non ha voluto che prendessi contatti con lo psichiatra del CPS cui faceva riferimento. Mi disse che non voleva pensare a sé stessa come “a una psichiatrica”. Io per contro mi dichiarai disposto ad accettare la sua richiesta di psicoterapia, a patto che continuasse la terapia coi farmaci così come le era stato prescritto3. Debbo dire che raramente ho avuto il sospetto, comunque a lei esplicitato, che non li assumesse, anche perché lei stessa un giorno mi confessò di aver fatto delle prove di diminuzione, ma essendosi poi accorta che non era abbastanza lucida quando veniva per la seduta, aveva smesso di fare prove. I farmaci dunque le ricordavano il suo stato di malattia, ma le avevano anche permesso di avere una funzione critica, a testimonianza di una sua parte sana. Lavorai quindi nella direzione di una sempre maggior consapevolezza di F. relativamente a questa sua parte. Potevamo pensare, come le dissi a un certo punto, che lei fosse in grado di prendersi in un qualche modo cura della sua parte malata attraverso la sua parte sana che aveva mantenuto una capacità di relazione affettiva, così come si manifestava nel transfert. Ma la vera scoperta che F. fece, col lavoro di psicoterapia, fu di poter pensare di avere un suo mondo interno che non fosse la mera reazione a ciò che le vicende della vita le avevano proposto: poteva pensare quindi a se stessa non più solo come ad un involucro della sua malattia. L’ambivalenza del paziente nei confronti dei farmaci, a volte distruttiva, è uno degli aspetti critici della terapia integrata; per questo, come già accennato, è necessario che lo psicoterapeuta a sua volta l’abbia affrontata dentro di sé, o meglio se la riproponga caso per caso. L’analisi del vissuto del farmaco da parte del paziente, sempre necessaria, per contro può rappresentare in alcuni casi il 3 In questo caso si tratta dunque di una “coppia imperfetta di terapeuti”, solo affennata come necessaria rela- tivamente a una sottolineata duplicità dei bisogni terapeutici. Casi analoghi di compromesso iniziale a nostro avviso non sono infrequenti a causa dell’aspetto tossico fobico presente spesso nei pazienti psicotici. 132 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” filo conduttore su cui avviare la comprensione delle istanze più profonde che hanno dato origine allo stato di disagio mentale. Le medicine per G. hanno a lungo rappresentato la valenza di una sorta di esclusione coatta dal mondo degli altri. G. è una donna nubile, ora di 46 anni, che ho seguito per quasi dieci anni. Mi è stata inviata dall’amico e collega psichiatra con cui condivido la cura di più pazienti. Circa un anno prima la sua malattia aveva esordito con un episodio delirante a tema paranoico con allucinazioni, interpretazioni di riferimento e furto del pensiero. Era stato evitato il ricovero con una pronta ed efficace terapia farmacologica, ma G. aveva messo in atto una fuga dal suo mondo lavorativo. Aveva poi trovato un altro lavoro e quindi la psicoterapia aveva anche come fine concreto che riuscisse a mantenerlo, nonostante il perdurare di una certa sintomatologia. Comunque ad entrambi noi terapeuti sembrava che vi fosse lo spazio per un lavoro approfondito, ed in effetti esso si rese possibile. Nel nostro progetto il collega avrebbe anche, nella sua qualità di psicoterapeuta della famiglia, avviato una serie di incontri con i familiari. Ci scontrammo, però, subito, con un mondo rigido e difeso fino alla chiusura, che non poteva ammettere lo stato di malattia di G. e le negava di conseguenza ogni comprensione della sua sofferenza. Le consigliavano, come cura, di non prendere i farmaci, di mangiare, bere e andare a spasso, e soprattutto di non dare ascolto a quello “scemo” che la riempiva di parole al solo scopo di farsi pagare. Nel suo racconto, G. si era sempre ritrovata a dover aderire al pensiero di non essere in grado mai di sapere che cosa era buono e che cosa era non buono per lei, bensì a sentirselo dire dagli altri; e con noi due terapeuti la cosa sembrava ripetersi: con i farmaci e le sedute le si diceva che lei era sbagliata, che da sola non era in grado di sbrigarsela. Le sedute che avrebbero dovuto, in un qualche modo, secondo il suo pensiero, dimostrare che non era folle e quindi confutare la necessità dei farmaci, non erano invece in grado di renderle subito una capacità di pensiero che non alludesse ad un secondo o a un terzo senso di ciò che viveva, anzi; ma allora come uscirne? Il dilemma era suo, ma anche mio su di un altro piano, cioè nostro. Lo estesi al collega psichiatra e insieme concertammo una diminuzione della posologia; c’era il rischio di un’angoscia montante, ma ci sentimmo di affrontarlo. L’aumento dell’angoscia ci fu, ma non tale da impedire il lavoro in seduta, mirato ora all’analisi della qualità dell’angoscia. Come per tutti i pazienti psicotici, anche per G. l’angoscia era legata alla risposta emozionale che si sperimenta con la vicinanza nei rapporti umani, ed i farmaci, anche se la salvaguardavano, la PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 133 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” facevano sentire ancora una volta esclusa dalla vita. Ovvero, detto in altri termini, senza angoscia le sembrava di non avere più alcuna emozione, stante la trasformazione a cortocircuito, in lei prima usuale, di ogni emozione quantomeno in paura. I farmaci, secondo il suo inconscio, sembravano confermare una sua esclusione dal poter fare bambini; non le rimaneva che pensarsi capace solo di fare una malattia. Ora, a distanza di molti anni, la psicoterapia analitica di G. si è conclusa. Di tanto in tanto lei si rifà viva anche con me, ma continua ad assumere farmaci in dosi minime. Ne ha realmente bisogno, per mantenere un certo equilibrio che le permetta di continuare nella sua vita lavorativa e di relazione. L’opportunità di un monitoraggio dei farmaci tale che non interferisca più di tanto con la sintomatologia e permetta quindi l’esplorazione delle cause sottostanti, è forse ancora più evidente in quei casi in cui, in corso di psicoterapia, intervengono episodi acuti di tipo depressivo. È opportuno precisare che ci riferiamo a situazioni in cui la sintomatologia depressiva è tale da impedire il lavoro psicoterapeutico, per l’impossibilità di raggiungere emotivamente il paziente ed avere la sua collaborazione. P. è un giovane architetto, neolaureato in cerca di occupazione, e il suo percorso universitario non è stato molto brillante, anche perché disturbato da molti ripensamenti suoi e dei suoi genitori. il suo medico curante, che lo conosceva da molti anni, gli aveva prospettato una terapia con antidepressivi che lui aveva rifiutato, ed era giunto a me tramite conoscenti. La mia diagnosi fu di disturbo di personalità compatibile con un lavoro di psicoterapia psicoanalitica ad una seduta la settimana, così come mi chiedeva, anche per ragioni economiche. P. in seduta era sempre laconico, un po’ depresso e incentrava tutte le sue difficoltà sul fatto di non riuscire a trovare un’occupazione stabile e soddisfacente. Dopo circa un anno, dopo avermi annunciato che la sua ragazza lo aveva abbandonato, rimase in silenzio per il resto della seduta, nonostante i miei tentativi di contatto empatico. Dopo di ciò, rimase assente per tre settimane e infine mi telefonò per dirmi, con voce greve, che aveva deciso di non venire più e voleva saldare quanto mi doveva. Gli chiesi di incontrarci secondo il consueto appuntamento, per parlare insieme della sua decisione. Si presentò con mezz’ora di ritardo e notai subito quanto fosse smagrito e mal vestito. Alla mia considerazione di quanto anche il suo aspetto denunciasse il suo stato di sofferenza, ammise di essere sprofondato in uno stato di tristezza tale da non farlo uscire più di casa. 134 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” Gli dissi, allora, che io non ero disposto ad abbandonarlo, come forse lui si aspettava, e che per riavviare il nostro lavoro potevamo farci aiutare da una cura con antidepressivi, per la quale lo inviavo da un collega con il quale collaboravo; dissi che non potevo essere io a prescrivergli i farmaci proprio per confermare la peculiarità del nostro rapporto. E quando aggiunsi che comunque mantenevo a sua disposizione la sua seduta fino a fine mese, mi disse che ci avrebbe pensato e saldò il suo debito. Io subito dopo presi contatto col collega, a cui spiegai la situazione e la necessità della ripresa delle sedute con P. per arrivare a capire l’origine inconscia di una tale risposta depressiva a quanto gli era accaduto, e gli chiesi di rinforzare a sua volta la mia proposta nel caso si fosse fatto vivo con lui. P. si ripresentò di lì a due settimane secondo l’orario di seduta. Mi disse che era andato alla visita per i farmaci (io ne ero comunque già stato messo al corrente dal collega, che mi aveva anche confermato il suo essere d’accordo con la mia visione delle cose) perché aveva sentito un mio sincero desiderio di aiutarlo e voleva che gli stessi vicino; aveva sentito molto vicino anche l’altro dottore e si era sentito protetto da noi due insieme. Ci furono ancora sedute di silenzio totale o quasi ma, sicuramente anche con l’aiuto dei farmaci, riprendemmo man mano un buon contatto, il che ci permise di affrontare il tema dell’abbandono e le sue radici nel suo mondo interno. La terapia con antidepressivi si è conclusa nei tempi preventivati dal collega psichiatra. E quella con ansiolitici è stata lasciata un po’ a discrezione di P., che dopo non molto tempo è arrivato spontaneamente a tralasciarla del tutto. Il tema degli ansiolitici gestiti direttamente dal paziente, ovvero di quelle situazioni in cui si è messi al corrente di una tale prescrizione da parte del medico curante, che magari se li è sentiti chiedere, riteniamo non richieda alcun commento particolare. Necessita soltanto (sempre che non si tratti di un abuso) del fatto che tale uso dev’essere fatto rientrare nella dinamica transferale. Una situazione paradigmatica in tal senso è quella di M., giovane medico, in psicoterapia da prima che lo diventasse, che ha iniziato a un certo punto ad assumere antidepressivi, autoprescritti al bisogno tra l’altro in dosi inefficaci, nel tentativo di risolvere così le varie implicazioni della sua dipendenza dall’analista. Ma in casi in cui il processo analitico in fase finale si complica ed il malessere è molto elevato, come prendere una richiesta di farmaci qualora essa sia avanzata dal paziente? Non possiamo fare a meno di citare una situazione delicata a noi occorsa... PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 135 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” Si tratta del caso di A, un giovane di 27 anni in terapia con me dai suoi 17 anni per problematiche fobiche, ora superate. All’ottavo anno di terapia, quando già si intravvedevano iniziali segni di distacco da me e se ne iniziava a parlare, egli è andato incontro ad una sconvolgente vicenda sentimentale tardo adolescenziale di innamoramento, seguita dall’abbandono da parte della ragazza. Era contemporaneo a tutto ciò l’inizio della malattia fatale del papà anziano, morto dieci mesi dopo per un tumore metastatizzato. Sul finire dell’ottavo anno ed in apparenza per l’abbandono della ragazza il mio paziente è andato incontro ad un lungo periodo di forti angosce, depressione con profondi stati d’animo di inadeguatezza e di inconsistenza con insopportazione per se stesso, alternati ad altri di struggente invidia, gelosia, ira, mai esperiti a quel livello. In tale stato egli stette per qualche mese e talora, in momenti di insopportazione chiese farmaci, quei farmaci che agli inizi della psicoterapia, con il mio consenso, il suo medico di famiglia gli prescriveva. I suoi malesseri e anche la cultura familiare sembravano far propendere a ciò, pur con limitata insistenza. In fondo, però, era a buon punto una sana differenziazione dalla madre, già etilista, e dal padre, vissuto troppo spesso come debole, ed aduso da tempo a farmaci ansiolitici, ed era sostanzialmente in gioco il suo potersi figurare sufficiente ed autonomo per il suo futuro. La domanda dei farmaci nella consistenza del rapporto fu da me ascoltata, ma non evasa concretamente, ed al paziente fu solo risposto interpretativamente, sottolineando che anche egli stesso aveva parlato di fine della terapia, “ma c’era ancora tempo...”; un tempo che impiegammo nell’analizzare soprattutto aspetti di dolore, ma anche di rabbia nel sentirsi abbandonato... In questi difficili passaggi la terapia da espressiva si era spostata verso il polo supportivo (Gabbard 1994), divenendo quasi lenitiva e medicamentosa. La delicatezza della vicenda, ormai in fase di iniziale separazione, pur nel vivo dolore delle concomitanze sfavorevoli, ha controindicato a nostro parere ogni terapia farmacologica, pena il farci ricadere di fatto in clichés genitoriali, che avrebbero distrutto aree di autonomia personale e lavorativa già conquistate. È stato un periodo duro, peraltro seguito dalla morte del padre e dalla scomparsa di una sorella suicida; ciononostante iI paziente non è più regredito a quei livelli. Ora sta molto meglio, ed è in procinto di terminare la sua psicoterapia. Crediamo che ogni lettore si sia ritrovato ad associare situazioni della sua esperienza simili o eguali a quelle da noi descritte ed a ripensare alle soluzioni che gli si sono prospettate. Noi abbiamo descritto quelle da noi approntate, altre possono essere altrettanto valide. 136 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” BIBLIOGRAFIA FRENI, S. (1998) Psicofarmacopsicoterapia. La Vita Felice, Milano. GABBARD, G.O. (1994) Psychodinamic psychiatry in clinical practice. DSM-IV Edition 1994 American Psychiatryc Press, Inc. Tr. It. Psichiatria Psicodinamica, Nuova edizione basata su DSM-IV Raffaello Cortina Editore, Milano 1995. RACAMIER, P.C. (1972) Un foyer therapeutique: remarques sur la methode de soins dans les evolutions psychotiques au long cours. In: Colloque sur les traitments des psychotiques au long cours. Paris, Ferrier 1972. ROSENFELD, H. (1974) Notes sur le traiternent psychanalytique des états psychotiques. In: Traitements au long cours des états psychotiques. Privat, Toulouse. ROSENFELD, H. (1987) Impasse and Interpretation. Tavistock Publications, London. Tr. it. Comunicazione e interpretazione. Bollati Boringhieri, Torino 1989 TRIDENTE, C., LEUZI, L. (1997) Psicoanalisi e Psicofarmaci: Review. Neurologia Psichiatria Scienze Umane, 5-6. ZAPPAROLI, G.C. (1974) La farmacoresistenza come tossicofobia. Un contributo alla psicoterapia della psicosì. In: Rossi, R, Speziale Bagliacca, R (a cura di) Dalla parte di Freud. ETAS Kompass, Milano. ZAPPAROLI, G.C. (1985) (a cura di) La Psichiatria oggi: proposta di un modello integrato di intervento terapeutico. Edizioni Stimmgraf, Verona. RIASSUNTO Il lavoro affronta, mediante la presentazione di contributi clinici, taluni aspetti metodologici e procedurali attinenti la psicoterapia integrata all’uso dei farmaci. Abbiamo descritto come le esperienze via via maturate ci abbiano convinti della utilità e convenienza, in casi gravi o situazioni molto complesse, di costituirci in una “équipe di due” basata sulla condivisione di un assetto interno, cooptando per la cura psicofarmacologica un collega psichiatra. SUMMARY Drugs and Psycholherapy: a two people group al work This paper focuses on some methodological aspects of integrated therapy, when both drugs and psychotherapy are used in private cure. The first and main step is the construction of a dual équipe PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 137 Psicofarmaci e psicoterapia: il lavoro dell’“équipe di due” (psychotherapist and psychopharmacologist) as a couple based on a shared inner setting. Several clinical sequences are presented. ANGELO BARBIERI Via Caruso 2 [email protected] ENRICO COGO Via Saluzzo 46 10125-Torino [email protected] 138 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica LUIGI SCOPPOLA Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica Devo dire che ritrovo la condivisione degli spazi della cura prima di tutto nella mia esperienza professionale di medico poi di psicoanalista e responsabile di un Centro ospedaliero di Medicina Psicosomatica. A distanza di molti anni sento di poter considerare in termini unitari e inscindibili l’esperienza professionale che ho accumulato dall’epoca della laurea in medicina ad oggi. Lo stesso passare degli anni mi ripropone di continuo spunti di riflessione sull’inestricabile integrazione esistente nei sistemi gruppali complessi che sono alla base della nostra esistenza. Molto si discetta e si concerta sui cosìddetti “problemi psicosomatici”. Il termine stesso è espressione di una scissione che, come sostenuto da Winnicott, si è realizzata nelle strutture dell’Io del paziente e che appare incompatibile con l’esperienza soggettiva della coscienza. Propongo una prima considerazione Nell’organizzazione strutturale della manifestazione psicosomatica è iscritta un’area di congiunzione tra l’evento psichico e l’evento somatico. In tale area si individua l’emozione, che si presenta come un’entità unica ed inscindibile d’aspetti fisici e psichici copresenti e tra loro continuamente interagenti. In quanto tale, essa è una struttura di cerniera che articola l’evento somatico con quello psichico attraverso modalità che, sul versante dei processi psichici, sono di tipo prevalentemente inconscio e quindi, nella dizione matteblanchiana, di tipo bi-logico con prevalenza di relazioni di pensiero di tipo simmetrico, mentre sul versante degli ordinamenti somatici sono presenti strutture ordinate secondo modelli strutturati, di tipo tendenzialmente asimmetrico. Non a caso si parla di sintomi isolati, disturbi funzionali e malattie organicamente strutturate. Tutto ciò consente all’esperienza emozionale di presentarsi alla coscienza in un connubio d’aspetti chiaramente inconsci che si articolano con eventi della vita ben descrivibili e definibili. 140 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica Infatti l’emozione si manifesta accompagnata da uno o più sintomi che appaiono isolati o strutturati in una sindrome clinica definita. Tutto ciò, come è noto, ha una remota origine nello sviluppo filogenetico e ontogenetico dell’individuo. L’integrazione delle prime esperienze relazionali del neonato si realizza attraverso processi di gruppalizzazione, di ordinamento e di individuazione gerarchica che sono caratteristici del funzionamento del Sé primitivo. La “Organizzazione Mentale di Base” di Eugenio Gaddini (1980) e la “Gruppalità interna” di Bion (1961) confermano tale prospettiva di integrazione. Per Stern (1985) una delle caratteristiche fondamentali del sistema percettivo neonatale è quello di essere in grado di trasferire informazioni da un sistema sensoriale all’altro. Il neonato sembra pertanto avere la capacità di ricevere un’informazione in una modalità sensoriale e tradurla in un’altra e quindi costruire una “percezione amodale”. Le recenti acquisizioni delle neuroscienze forniscono un prezioso contributo alla conoscenza dello sviluppo della mente attraverso la teoria del darwinismo neurale di Edelman per la quale le reti neurali si sviluppano e si rimodellano di continuo al fine di esplorare progressivamente l’ambiente e costruire delle mappe neurali da utilizzare nelle successive esperienze. L’acquisizione della memoria si costituisce su una ritrascrizione continua di eventi recenti ricategorizzati sulle esperienze precedenti attraverso un processo di continua integrazione (Edelman citato da Sacks 1993). Pertanto si può ritenere che il sistema percettivo fetale sia di per sé il frutto di un’evoluzione neurale che comporta un’integrazione continua di parti che tendono a costituire, di per sé, una gruppalità funzionale. Nelle relazioni multiple che si stabiliscono con l’ambiente e che favoriscono la nascita e lo sviluppo della mente, il processo maturativo ed evolutivo appare come il prodotto di una successione evolutiva continua di relazioni che integrano il Sé primitivo con il mondo a lui esterno. L’individuo tende a costituirsi attraverso lo sviluppo di sistemi gruppali complessi che interessano tre aree principali. Esse sono, appunto, la gruppalità biologica costituita da tutti i sistemi e sottosistemi che ne fanno parte, la gruppalità della mente e, ultima ma anche prima, la gruppalità interpersonale. In realtà queste tre gruppalità sono sempre tra loro interagenti, da ciò deriva che qualunque alterazione dello stato di salute del paziente sarà connotato da una variazione dell’interazione di tale sistema trigruppale. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 141 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica Ne consegue che ogni evento “psicosomatico” - volutamente da me riportato tra due trattini - che, come sappiamo, viene espresso attraverso una discontinuità tra esperienza emozionale e significato, rimanda ad una sofferenza emozionale che si evidenzia clinicamente nei suoi aspetti salienti di processi mentali e di ordinamenti somatici. Il disordine del processo integrativo che è presente nell’intersezione di queste tre aree (Scoppola 1995) diviene l’elemento più rilevante della patologia che stiamo trattando. Vorrei fare una breve nota per ricordare che nel corso del processo maturativo, dal periodo perinatale in poi la mente infantile (protostruttura mentale) è tutta orientata ad assicurare al soma la soddisfazione dei bisogni primari della vita. I primi nuclei affettivi sono infatti intimamente legati ad esperienze sensoriali relative al bilanciamento tra gratificazione e frustrazione (Gaddini 1984). La “funzione materna” di Winnicott (1964) e la rêverie di Bion (1961a) condizionano l’evoluzione della mente dal funzionamento soggettivo verso quello oggettivo. La scoperta dell’oggetto costituisce, infatti, l’avvio della condizione di autonomia e di separatezza. Possiamo riassumere tutto ciò nella dizione: l’esperienza del Sé, la scoperta autoriflessiva dell’Io, il riconoscimento dell’Altro. Ma quando ha origine il disagio psicosomatico? I primi e più importanti nuclei della patologia psicosomatica propriamente detta (le somatosi di Greenacre, le sindromi psico-fisiche di Gaddini, o le somatopsicosì di Meltzer e Bion) si costituiscono sulla base di esperienze separative per le quali emerge l’inelaborabilità della perdita e l’incapacità di vivere la separatezza in rapporto ad una determinata esperienza vitale. Il contenuto affettivo legato a tale esperienza si dimostra pertanto non tollerabile e non elaborabile e, quindi, non traducibile in acquisizione di senso e di significato. Alla base del disagio psicosomatico esiste cioè una condizione di inelaborabilità simbolica dell’evento che, come tale, resta privo di significato ed è espressione di un’attività presimbolica, prelibidica e preoggettuale della mente. Pertanto non è coerente, a mio avviso, attribuire significato ai fenomeni psicosomatici che sono solamente indicativi di una modalità di funzionamento, ma non possono assumere alcun significato metaforico. Per inciso ricordo che nel modello della “griglia” di Bion tale aspetto dell’inelaborabilità è riferibile al difetto della funzione alfa che è alla base dell’ipotesi da lui proposta circa l’origine dei fenomeni psicosomatici, dell’azione di gruppo e delle allucinazioni. 142 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica Partendo dalla concezione del bilanciamento tra frustrazione e gratificazione, possiamo ritenere che il differimento, oltre un certo limite, della soddisfazione di un bisogno possa divenire un elemento determinante di uno scompenso transitorio o permanente del sistema cognitivo-affettivo costituito dalla successione: evento sensoriale, esperienza percettiva, contenuti emozionali e elaborazione di senso. Uno scompenso in tale senso può dare luogo ad una sofferenza mentale che non è elaborabile in termini di pensiero (“pensiero operatorio” di P. Marty e la “alessitimia” di Sifneos nella collocazione che ora assumono). Alla base del disagio psicosomatico esiste, infatti, una condizione di inelaborabilità di un’esperienza sensoriale la quale o resta tale e, con coazione ripetitiva, si propone alla coscienza senza possibilità di elaborazione, oppure si connota di penosi contenuti affettivi che invadono la mente generando sofferte esperienze di inadeguatezza e solitudine abbandonica del tipo descritto da M. Klein e Frieda Fromm-Richmann e riportato da Modell (1993) in The Private Self con il termine “loneliness”. Sulla base di osservazioni proprie alla mia attività clinica, ritengo possibile ipotizzare che nel corso dell’evoluzione del processo di ordinamento e maturazione del Sé (processo di integrazione) la sofferenza psicosomatica originaria abbia favorito il costituirsi qua e là di aree del Sé, isolate e circoscritte, più fragili, incomplete e carenti di relazioni di pensiero. Ciò sarebbe accaduto in rapporto ad eventi relazionali con l’ambiente, puntualmente evocativi per classe di appartenenza, di sofferenze legate ad alcune e isolate memorie primitive che si sono ricategorizzate nel tempo (Edelman, 1989). Ritengo di poter definire queste aree come aree lacunari di non integrazione del Sé (Scoppola, 1982, 1995). Sono del parere che è possibile avvicinarsi alla conoscenza di tali aree solo se si prendono simultaneamente in esame le modalità di pensiero relative sia all’esperienze di relazioni orizzontali (tra individuo/individuo, individuo/gruppo e individuo/ambiente esterno), sia alle esperienze di relazioni verticali (lungo l’asse della conoscenza che congiunge l’evento sensoriale alla percezione/emozione ed al pensiero) sia alle relazioni intersistemiche presenti tra gruppi di sistemi interattivi della mente, del soma e dell’ambiente. Ritengo di potere proporre in questi termini l’integrazione somatopsichica. Deriva da ciò che il modello integrativo gruppale deve porsi sempre sullo sfondo di ogni tipo di intervento terapeutico, qualunque sia la sua natura. Dall’intervento chirurgico, al trapianto di un organo, al lavoro nella comunità, alla riabilitazione mentale e sociale e all’assistenza in genere. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 143 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica Seconda considerazione Da oltre 20 anni si dibatte il problema del migliore risultato terapeutico ottenibile dalla combinazione di vari tipi di intervento nel corso del trattamento di stati psicopatologici rilevanti. Esiste a tal fine un’ampia bibliografia sia nel versante psicoanalitico che in quello psichiatrico-biologico che qui non riferisco, ma che ci è di aiuto per meglio comprendere l’attuale concezione della terapia della sofferenza mentale. La psicofarmacoterapia non è più di esclusiva competenza della psichiatria biologica ma, al contrario, sta pervadendo sempre più gli spazi di interventi psicoterapeutici di vario orientamento (comportamentale, relazionale, cognitivista, gestaltico, psicoanalitico individuale e di gruppo). In particolare, le scuole psicoanalitiche di matrice freudiana da alcuni anni offrono interessanti contributi sull’approccio all’intervento psicofarmacologico sostenendo, alcuni sì ed altri no, l’opportunità della distinzione tra analista e psichiatra nella prescrizione del farmaco. Quando si affronta il tema delle metodologie integrate non ci si può limitare al tema della farmacoterapia; nello spazio della cura diviene indispensabile prevedere interventi mirati al ristabilimento dello stato di salute globale dell’individuo considerato nel suo contesto esistenziale. Accade così che psicoterapeuti di orientamento diverso possano integrarsi nell’intervento sul paziente in rapporto all’evoluzione del quadro clinico e del processo psicoterapeutico. Infatti la psicopatologia che oggi trattiamo è sempre più multiforme e richiede momenti di intervento su più settori della mente per alcuni dei quali il processo terapeutico di orientamento psicoanalitico può essere insufficiente, non idoneo o addirittura dannoso. Probabilmente il migliore uso che oggi si può fare del metodo psicoanalitico nasce da una maggiore conoscenza dei suoi limiti e dal crescente senso di realtà e di concretezza che gli analisti stanno esprimendo nel loro lavoro. Mi riferisco in particolare al trattamento in analisi di pazienti psicosomatici di cui si sono considerati gli aspetti più arcaici e l’attività presimbolica della mente. Seguendo questi orientamenti molti altri quadri di psicopatologia sono divenuti percorribili (borderline, disturbi dell’identità, quadri tossicomanici, perversioni ecc.). Puntualmente in tali percorsi ci siamo trovati di fronte ad una inadeguata integrazione degli ordinamenti mentali che erano in stretta interazione con le altre aree gruppali, quella interpersonale e somatica. Da qui è sorta l’esigenza dell’intervento integrato che potesse prendere in esame aree di appartenenza differenti. Oggi, infatti, si notano sempre più quadri di sofferenza riferibile a momenti patologici che si diversificano sia nella struttura che nell’appartenenza sistemica e che, infine, fanno riferimento anche ad epoche evolutive diverse. 144 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica Tutto ciò richiede nel terapeuta una provata agilità a muoversi su diversi livelli mantenendo, allo stesso tempo, una consapevole coerenza al ruolo che egli assume nel setting e nella relazione transfert/controtransfert con il proprio paziente. Questo mi appare come il fondamento di un intervento integrato. È possibile usare questa strategia non soltanto nella attività privata ma anche in quella istituzionale? Entriamo più da vicino nel problema. Consideriamo ad esempio l’intervento in camera operatoria. Sappiamo che dalla integrazione continua di numerosi e diversi operatori, soprattutto nell’alta chirurgia, dipende la vita e la riuscita del programma di intervento: il successo è legato all’interazione efficiente del team del reparto del quale talvolta fa parte anche lo psicoterapeuta. Ricordo il caso recente di un paziente in attesa di trapianto cardiaco che ha potuto essere operato solo dopo aver affrontato il problema della propria resistenza ad accettare l’impianto del cuore di un altro. L’immunologo (giustamente!) temeva i fenomeni di rigetto. Ora va tutto bene. Allo stato attuale delle cure il problema dell’integrazione non è più solamente quello tra farmaco, terapia e psicoterapia perché può presentarsi l’opportunità di un ricovero per contenimento dello stato acuto oppure può richiedersi l’intervento di uno specialista di altri campi, sia nell’area medica che psicologica, quando le condizioni del paziente lo impongono. In psichiatria tutte le attività di cura sono destinate al fallimento quando si vuole imporre un determinato progetto terapeutico forzando i dati clinici per aderire ad un modello dogmatico. Ritengo che ogni modello accreditato di psicoterapia abbia la sua validità ed efficacia, così come le richieste terapeutiche formulate dal paziente possono essere lette con codici differenti. Ogni paziente ha bisogno del proprio progetto psicoterapeutico. Più volte ho colto meraviglia e costernazione da parte di colleghi analisti circa interventi terapeutici condotti con altri criteri. Tutto dovrebbe essere riportato forse ad una reale economia della persona e soprattutto alla sua visione del mondo che spesso viene sostituita dalla nostra. Certamente le cose vanno molto meglio quando con duttilità, flessibilità e creatività si riesce a mantenere il principio guida di aiutare il paziente proponendo a lui, di volta in volta, il miglior trattamento contestualmente praticabile. In questo vorrei accogliere il suggerimento di Bion di “arrangiarsi alla meno peggio per fare il meglio di un brutto lavoro”. Considerando da un vertice analitico il problema dell’integrazione delle terapie come opportuno e/o necessario per quel determinato paziente, ritengo che qualunque intervento terapeutico di carattere farmacologico, medico e sociale debba essere sempre riportato all’interno di un campo PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 145 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica mentale dominato dalla relazione intersoggettiva che via via si viene determinando con i vari operatori. È anche opportuno menzionare che si stanno sviluppando diverse tecniche di intervento sul corpo che hanno una finalità integrativa di tipo gestaltico in particolare quando sono mirate al recupero o alla costruzione di esperienze autopercettive integrate che, nella realtà fattuale, forniscono nuovi elementi di base da includere nel repertorio del lavoro psicoterapeutico. Lo si nota spesso non solamente negli adolescenti, ma in tutti quei pazienti che pongono problemi di ridefinizione, in crescita o in sottrazione del sé corporeo. Nel campo di intervento integrato mi sembra opportuno distinguere quadri di psicosomatosi propriamente detta - che sono i veri e unici pazienti psicosomatici individuabili nella nosografia attuale - da molti altri quadri clinici nei quali l’evento somatico assume contenuti e significati molto differenti. Il confine di distinzione tra questi diversi campi a me sembra essere situato tra l’area del simbolico e l’area del presimbolico. D’altro canto esiste un problema di base presente nella patologia a base prevalentemente corporea (uso volutamente questo termine perché non esiste una patologia esclusivamente somatica). Qualunque patologia interferisce nell’interazione delle tre gruppalità ed allo stesso tempo, come sopra accennato, nell’esperienza della coscienza. Ci muoviamo costantemente sia sulla dimensione orizzontale delle gruppalità che sulla dimensione verticale che fa riferimento alla coscienza negli aspetti di esperienza sensoriale, percezione/emozione e area del significato. Nell’integrazione delle terapie a me sembra che sia possibile invocare una dimensione orizzontale che è espressa dalla relazione gruppale esistente tra terapeuti di varia natura e paziente ed una dimensione verticale che si ritrova nel rapporto paziente/terapeuta. La clinica dimostra l’opportunità frequente della presenza di più specialisti nel corso del trattamento di vari quadri psicopatologici che vanno dalle psicosì gravi ai quadri di borderline, di un D.O.C. (disturbo ossessivo compulsivo), di una psicosomatosi grave, di un D.C.A. (disturbo comportamento alimentare), di vari quadri di perversione a interventi riabilitativi di sostegno o di urgenza in corso di pericolo di vita. Il problema centrale a me appare quello di essere continuamente consapevoli di ciò che si sta facendo mantenendo quell’assetto interno che garantisca la professionalità di appartenenza. 146 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica Terza considerazione 1) Uno dei pericoli più temuti nel corso di un intervento integrato è provocare o favorire una scissione corpo-mente che aleggia sempre all’orizzonte di ogni quadro psicopatologico di rilievo. 2) Molte volte, inconsapevolmente, si compie l’errore di rafforzare la scissione presente nel paziente attraverso interventi che non tengono conto del fatto che il fondamento di ogni trattamento, di qualunque natura esso sia medico, chirurgico, psichiatrico o sociale - deve sempre prendere in esame la costruzione o la restituzione dell’integrazione corpo-mente. 3) Il disagio del paziente non può essere considerato in termini somatici oppure psichici perché qualunque disagio porta con sé l’unità inscindibile dello stato di coscienza del proprio sé. Ho difficoltà a riconoscere l’esistenza di una cosìddetta “somatosi”. Tale termine mi sembra limitativo di un problema ben più ampio che è quello del vissuto di un disagio con una manifestazione anche somatica. 4) Di fronte alla sofferenza, il terapeuta spesso è preso dall’ansia di lenire comunque il dolore. Non si rende conto che la sua ansia favorisce nel paziente la scissione corpo-mente poiché facilita il recupero nell’attualità della coscienza di aspetti passati scissi del vissuto di malattia che con quell’intervento terapeutico si riattulizzano. Le pillole e le parole si perdono nel vento della fenomenologia se non ci si ancora saldamente alla struttura di base della sofferenza. 5) Il disagio ha necessità di essere sempre esplorato a livello di mondo interno, poiché in tale spazio è radicato. È indispensabile considerarne gli aspetti inconsci e rendersi conto che l’azione terapeutica trova il suo centro solamente nelle modalità con cui a livello di coscienza il paziente è in grado di tradurre relazioni di pensiero di tipo inconscio simmetrico, in processi mentali prevalentemente logico-deduttivi. In tal modo è possibile definire e suddividere l’esperienza di malattia in termini spazio-temporali. Tuttavia non sempre è possibile aiutare il paziente in questa direzione, in tal caso assume un valore terapeutico “essere con”, a qualunque condizione, anche con la sola presenza silenziosa. Nel suo ultimo seminario romano Bion giustamente risponde alla domanda di una analista che gli chiede cosa pensi della morte prossima del paziente di cui si è riferito nel seminario. Risponde: “... la sua morte non mi interessa più di quanto mi interessi la sua nascita; ma quel pezzettino piccolo tra nascita e morte, quello sì che mi interessa” (Bion 1977, 119). 6) Alla base del disagio esiste sempre una dissociazione dei sistemi gruppali che costituiscono la persona del malato. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 147 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica Sono convinto che le tre gruppalità presentano una costante e incessante interazione tra loro. Tale interazione nell’emergenza della sofferenza tende a scomparire attraverso la propria disarticolazione sia all’interno del sistema gruppale di base - gruppalità biologica, interna e sociale - che all’interno dei singoli sistemi gruppali dando luogo a diversificati quadri semiologici. Possiamo considerare, ad esempio, quanto un disordine somatico quale la comparsa di una neoformazione tumorale, che in quanto tale è segno di una disarticolazione di sistemi biologici in equilibrio tra loro, possa profondamente alterare non soltanto la gruppalità biologica, ma provocare a catena altre disarticolazioni, quali alterate integrazioni nel sistema gruppale esterno attraverso rotture di gruppalità intersoggettive e, analogamente, possa indurre disintegrazioni a livello del mondo interno e dei livelli di stati di coscienza. Partendo da queste considerazioni mi appare meglio interpretabile il processo di scissione mente-corpo nel disagio individuale. 7) La gruppalità è certamente un fondamento della nostra esistenza e costituisce una legge dalla quale non possiamo sottrarci. Se tale presupposto ha una sua validità il modello gruppale è indispensabile che venga preso in considerazione nel corso degli interventi trasformativi che vengono proposti in quegli interventi psicoterapeutici che sono mirati ad una reintegrazione globale dello stato di salute. Oggi si parla molto della strategia da adottare nel trattamento del DCA. Essa è fondata sulla realizzazione di un progetto reintegrativo a tutti e tre i livelli esposti e la guarigione si raggiunge quando l’interazione della gruppalità di base (biologica, interna e sociale) è stabilmente e durevolmente ricostituita. Ma tale principio si applica, a mio avviso, indistintamente in tutti i tipi di patologie. Nel raggiungimento di tale integrazione possiamo riconoscere la guarigione. 8) La psicoterapia psicoanalitica, al momento attuale della ricerca, fa sempre più i conti con la necessità di integrarsi con altre forme di intervento. A tal proposito cito Matte Blanco: “Nel corso dell’analisi terapeutica ho avuto diverse volte la seguente esperienza: si arrivava ad un momento in cui venivano a galla gli aspetti depressivi della personalità del paziente. Egli (allora) diventava depresso. [...] non so quante volte sono andato incontro a ciò che ho menzionato senza riuscire a capire che cosa stesse accadendo [...] eravamo davanti ad una depressione nella quale vi erano degli aspetti di alterata fisiologia, forse suscitati e fatti venire a galla dal lavoro analitico, in una persona con potenzialità biologiche di reagire ad una situazione depressiva con certe speciali alterazioni fisiologiche-biochimiche. 148 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica [...] Sembrerebbe che dietro l’impatto di avvenimento di perdita, si attivasse un dato meccanismo biologico responsabile della insorgenza della depressione la quale continua in seguito per conto proprio senza essere influenzata per vie puramente psicologiche. [...] La terapia farmacologica, invece, la risolve in modo molto più efficace” (p. 8). Le parole di Matte Blanco, a distanza di 15 anni, sono ancora molto attuali per introdurre il tema dell’opportunità delle terapie integrate in varie situazioni di cura, in particolare quando ci si trova ad affrontare eventi depressivi sia nel corso di terapie individuali che di gruppo. I continui avanzamenti nel campo della psicofarmacologia consentono oggi di utilizzare sostanze farmacologiche altamente selezionate al punto di facilitare la formulazione di orientamenti diagnostici sulla base dei risultati ottenuti in alcuni quadri psicopatologici, quali gli attacchi di panico, la depressione endogena, la schizofrenia, la distimia bipolare ed altri. Lo sviluppo dell’indagine psicoanalitica condotta nel campo delle teorie dell’attaccamento, dello sviluppo maturativo, degli ordinamenti mentali primitivi, dell’attività presimbolica della mente, degli stati del Sé, dell’identità di genere e del vissuto di malattia, permettono oggi di avvicinarci al problema della natura e dell’origine di questi quadri di sofferenza mentale. Da essi emerge l’inscindibilità dell’unità corpo-mente che fa da sfondo alla continua e reiterata proposta di integrazione terapeutica che oggi non può più essere sottaciuta, né dagli psicoterapeuti di formazione analitica né dagli psichiatri . In anni passati mi sono già interessato a tale argomento (Scoppola, 1994), nel marzo-aprile del 1999 in Psychomedia PM-PT si è sviluppato un interessante dibattito sul tema “Farmaci e Psicoterapia”. Utilizzerò alcuni spunti di questo dibattito per confrontarli con altre considerazioni personali. Appare chiara nella m-list un primo problema: dare farmaci significa rompere il setting. Il farmaco viene prescritto e assunto all’interno di una situazione terapeutica con forte connotazione transferale. Esso appare come un input che, alla pari di ogni altro, ha ogni tipo di effetti sia di natura psicologica che biologica. Quale è il senso di inviare un paziente da uno psicofarmacologo se non quello di un agito così come può esserlo somministrare direttamente il farmaco al paziente? Vi è un problema di competenza e capacità professionale che vuole essere occultato dalla neutralità dell’invio? Talvolta noi terapeuti affidiamo ai farmaci la gestione di alcuni contenuti mentali che non siamo in grado di ipotizzare e che, talvolta, preferiamo non indagare. Allo stesso tempo ci si chiede se il far valere la neutralità come criterio principe, cui ogni altro deve subordinarsi, non sia un “agito”. Imporre cioè uno stereotipo che non tiene conto della realtà della interazione presente. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 149 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica Così pure possiamo notare quante volte il paziente accetta di ricorrere al farmaco per collocare dentro di sé qualcosa che impedisce, nella situazione relazionale con il terapeuta, l’emersione di ciò che è più nascosto. Indubbiamente il terapeuta può incorrere in diversi agiti quali ad esempio razionalizzare l’effetto del farmaco fornendo dati farmacocinetici cioè una “razionalizzazione psicofarmacologica”, come pure, allo stesso modo, può raggiungere una “razionalizzazione psicoanalitica” attraverso una elucubrazione metapsicologica, per lo più dietrologica, che è finalizzata a sedare l’ansia del terapeuta e a deviare difensivamente il paziente su altri temi piuttosto che favorire un mutamento trasformativo. Ciò che, comunque, appare “antipsicoanalitico” è proprio fornire una interpretazione generica e anticipatoria sull’esistenza di una non specificata controindicazione all’uso dei farmaci durante una psicoterapia ancora prima di affrontare i contenuti fantasmatici e transferali che possono risultare legati all’uso degli stessi. Potrebbe essere opportuno, allora, chiarire meglio il rapporto che esiste tra chi chiede aiuto (paziente) e chi accoglie la domanda di aiuto (psi). Un altro importante problema che si pone nella fattualità dell’intervento psicofarmacologico in corso di psicoterapia psicoanalitica è la distinzione tra “integrazione” e “interazione”. Nella prima, infatti, si coglie prevalentemente la contemporaneità dell’intervento psicologico e di quello biochimico realizzato dallo stesso psicoterapeuta o da due operatori, uno psicoterapeuta ed uno psicofarmacologo. Nel secondo caso siamo di fronte a due distinte persone con percorsi formativi non suscettibili di una rappresentazione unificante. A questo proposito non può non nascere un nutrito dibattito sul significato dell’integrazione. Quale è infatti la prima sede dove si compie l’integrazione? Essa deve prima di tutto realizzarsi nella mente del terapeuta, il paziente ha necessità che ciò avvenga e può avvertirne 1’eventuale assenza. La mancata integrazione nella mente dell’analista è “antipsicoanalitica” perché la separazione dei ruoli e la scissione corpo-mente del paziente si trova prima di tutto collocata nella mente dell’analista e da questi viene agita ancora prima che il paziente abbia avuto la possibilità di esporre i risvolti del proprio disagio. Tuttavia questo tema meriterebbe ulteriori approfondimenti a proposito dell’acting in ed aut da parte dell’analista nel corso della terapia. Nella “interazione” osserviamo più specificatamente l’evento psicoterapia-farmacoterapia nel mondo interno del paziente. Cioè sia sul piano dell’effetto 150 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica che si produce a livello degli ordinamenti neurali, sia sul piano del vissuto dell’esperienza che il paziente fa nel corso di tale evento sia, infine, sul piano del contenuto simbolico. È opportuno considerare che i mutamenti che si realizzano nel sistema neurale ad un livello molto profondo della coscienza (che potremmo riferire ad un inconscio biologico come da alcuni sostenuto) vengono registrati dalla mente del paziente in termini di relazioni bi-logiche di pensiero con notevole prevalenza di relazioni inconsce. Ne segue che tali mutamenti possono porsi alla base della produzione di fantasmi che si offriranno come materiale analizzabile. Ma il problema clinico è che questo aspetto dell’intervento psicoterapeutico potenzia significativamente l’effetto psicofarmacologico, al punto di poter poi consentire la riduzione del dosaggio. Mi sembra, dunque, necessario considerare che ogni evento terapeutico di qualunque natura esso sia induce nel mondo interno dell’individuo un cambiamento del quale in parte è cosciente ed in parte no. Egli, infatti, si ritrova in una nuova modalità di relazione corpo-mente che propone alla coscienza un modo diverso di vivere la propria realtà ontologica. Il problema dell’integrazione della psicoterapia con la farmacoterapia è, a mio avviso, un falso problema. In primis vorrei far notare che l’uso del farmaco come l’uso delle parole sono entrambi esperienze concrete che il paziente fa. Il problema è fondamentalmente quello del senso e dei significati che la pillola o le parole possono assumere. Sono sempre più convinto che il farmaco sia in grado di fornire al paziente l’occasione di un ricchissimo repertorio di contenuti fantasmatici. Il problema è la difficoltà di trattare questi contenuti quando essi sono legati a gravi alterazioni dell’apparato per pensare. Non a caso l’invio allo psicofarmacologo può rappresentare per lo psicoterapeuta una via di uscita di fronte all’impasse di una cosìddetta inanalizzabilità di alcune situazioni cliniche. L’esperienza clinica mi ha a volte dimostrato che la difficoltà a procedere nel lavoro psicoterapeutico veniva molto ridotta dopo che il paziente aveva fatto l’esperienza di assunzione del farmaco. Ad un secondo livello, vorrei proporre l’opportunità in questi pazienti di un rimando continuo dall’esperienza concreta al contenuto simbolico. L’esperienza concreta, come tale, è molto vicina all’esperienza del sé ed essa è permeata di molteplici autopercezioni sensoriali, conseguenti l’uso del farmaco, che conferiscono all’esperienza nuove modalità di proporsi alla coscienza. Questo è certamente un nuovo evento nella vita del pa- PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 151 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica ziente che si accompagna ad uno specifico vissuto emozionale e richiede quindi un ricerca di significato. Molte volte ho visto pazienti atterriti dalla consapevolezza di un cambiamento interno che si veniva realizzando. Ad esempio la scomparsa di uno stato di ansia è stata segnalata con tale ansietà da produrre uno stato di angoscia di non integrazione del sé. Basta talvolta fare l’esperienza di una piccola dose di uno psicofarmaco per comunicare al terapeuta meraviglia e senso di precarietà. Ricordo il caso, da me già pubblicato, di una paziente anziana che, dopo l’impianto di un pace-maker, seguito da miglioramento delle condizioni generali, andò incontro ad una grave angoscia del sé per il timore che il meccanismo si potesse fermare. Mi sembra opportuno considerare allo stesso tempo il percorso inverso, dal contenuto simbolico al fatto concreto, come momento di verifica delle fondazioni della realtà psichica che il paziente vive nel corso di una psicofarmacoterapia combinata. È importante per il paziente essere consapevole del suo legame con il farmaco, non tanto per viverne la dipendenza, ma piuttosto per realizzare l’integrazione del proprio sé. Da più parti giungono risultati di ricerche nelle neuroscienze che dimostrano quanto la psicoterapia induca modificazioni nelle reti neurali che si stabilizzano nel tempo e forniscono al paziente un allargamento dell’appoggio del sé sulla realtà percepita (Modell 1993). Esiste, dunque, un’oscillazione di andata e di ritorno dal simbolico al concreto e viceversa che mi appare un rilevante fattore terapeutico. 9) Non esiste tuttavia solamente integrazione e interazione della psicoterapia con il farmaco. Oggi siamo consapevoli dell’esistenza di molti campi nei quali sono più utili interventi terapeutici che hanno come fondamento altri modelli che differiscono da quello analitico. Mi riferisco a tutte quelle condizioni individuali, ambientali e sociali per le quali il paziente è chiamato ad operare dei cambiamenti che implicano la verifica della esperienza di essere sé nel mondo in relazione con l’alterità. Vorrei considerare i vissuti relativi a gravi malattie infettive come ad esempio l’AIDS. L’invasione virale e la lotta anticorpale che ne deriva porta in sé l’esperienza inconscia di un tentativo instancabile di integrare elementi di sé che devono difendersi dall’aggressione mortifera del virus. L’esperienza clinica con questi pazienti mi ha convinto della comparsa nei livelli più profondi della mente di sofferenze che fanno riferimento a vari momenti evolutivi del sé e dell’Io. In questi casi ho trovato opportuno lavorare con il paziente a tutto campo prendendo in considerazione tutte le fasi evolutive e tutti i meccanismi di difesa. La regressione con il paziente da un lato e la condivi152 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica sione delle sue resistenze dall’altro è stata la strategia dominante durante il lavoro analitico. Fondamentale mi è apparso integrarmi strettamente con i vari momenti terapeutici (accertamenti di varia natura, variazioni della farmacoterapia ecc.) cui il paziente ha dovuto sottoporsi, considerando che l’intervento analitico era di aiuto alla realizzazione di quello farmacologico specifico e viceversa. Molto spesso accade di incontrare pazienti che, dietro una richiesta di aiuto per una sintomatologia prevalentemente somatica, via via che procede il lavoro psicoterapeutico lasciano emergere nuove aree di sofferenza in un rimando continuo tra loro, al punto di sostituire di continuo sintomi somatici con sintomi psichici in una stretta successione di eventi clinici. In casi del genere è indispensabile costituire un team di operatori. Quanto più la maglia dell’integrazione è stretta e continua tanto più il paziente beneficia del lavoro analitico. Più volte mi sono trovato nella necessità di prendere io stesso contatto con lo psicofarmacologo, con il cardiologo, con il neurologo, con l’internista, con il terapeuta della coppia, con l’oncologo, con l’infettologo, con il fisiatra, l’ortopedico e vari altri. Tutto ciò significa riconoscere che le varie esperienze di cura necessitano di essere riportate all’interno di un sistema integrato. Anni fa un giovane che presentava un disturbo ossessivo compulsivo ed una sofferta identità di genere con sofferenze maturative precoci ebbe una grave crisi confusiva allorché la ragazza si operò di correzione del setto nasale. A seguito del pur limitato cambiamento di immagine della ragazza, il giovane ebbe un imponente attacco di panico e fu invaso dall’angoscia di una irreparabile perdita. Andò incontro ad una grave crisi abbandonica per la quale mi chiese e ottenne di vedermi tutti i giorni. In tale occasione ricomparvero le fantasie di essere posseduto e ripreso dentro il corpo della madre, la paura di rompersi, di sdoppiarsi e di non avere più nessuno con cui confrontarsi. In quell’occasione fu necessario ripercorrere dall’inizio le fasi della scoperta di sé, del suo corpo, della sua immagine, delle sue attribuzioni fisiche, delle sue qualità cognitive e della sua capacità di distinguere la realtà circostante. Convenimmo che era opportuno un trattamento farmacologico ed accettò pure di tornare a fare attività sportiva. L’intervento dello psicofarmacologo fu molto importante perché ottenne un effetto paradosso: determinò un netto rifiuto all’assunzione di pillole e il giovane capì che poteva farcela con le risorse del suo mondo interno. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 153 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica Un altro evento importante fu l’occasione in cui i genitori, durante il periodo di crisi del figlio, chiesero di incontrarsi con me. Io accettai la richiesta, ma a condizione che vi fosse la presenza del figlio. In quella occasione venimmo insieme a conoscenza del fatto che, al quinto mese di gravidanza, la madre ebbe la notizia che suo padre l’abbandonava per andare via con un’altra donna. La madre riferì, inoltre, che aveva sentito quella gravidanza diversa da quella avuta per la sorella del paziente e l’aveva vissuta con disinteresse e molta tristezza. Alla nascita aveva già perduto il liquido amniotico, fu un parto asciutto e molto doloroso a cui poco dopo seguì una copiosa emorragia. Il paziente fece l’esperienza culminante che gli permetteva di riassumere, ripercorrere ed integrare tutto il viaggio del lavoro analitico. Un altro interessante caso di integrazione dell’esperienza di malattia è stato quello di una signora di 74 anni, inviatami per uno stato di grave decadimento fisico ed apparente involuzione mentale, conseguente ad un recente stato anoressico. Nel corso di un trattamento psicoterapeutico ad orientamento psicoanalitico, con una seduta settimanale domiciliare, protrattosi per 8 mesi e positivamente conclusosi, ho potuto ricostruire la storia clinica della paziente. La signora, madre di vari figli, viveva da oltre 20 anni separata dal marito; con difficoltà si era creata un’autonomia economica che le aveva permesso di far fronte ai bisogni dei figli e di acquistarsi finalmente una casa. Nel corso degli ultimi anni vi erano state diverse traversie affettive e sociali dei figli, ormai tutti adulti. Da molto tempo era portatrice di lieve diabete mellito e presentava segni di ipertensione arteriosa con labilità di valori. Quando il marito separato si ammala di cancro, lei viene colta da un grande desiderio riparativo, lo sostiene e lo assiste fino alla fine. Conclude la sua attività lavorativa autonoma e liquida il suo ufficio. In seguito intervengono complicazioni cardiache con turbe di conduzione atrioventricolare per le quali si ritiene indispensabile l’impianto di un pace-maker. La si informa che la durata del funzionamento è prevista per 5 anni e che in caso di inefficienza del pace-maker potrà fare uso di un apparecchio accessorio esterno che le consentirà un’autonomia sufficiente per prendere provvedimenti cardiologici. Il decorso è buono, il funzionamento è adeguato, la paziente viene dimessa e torna a casa. Nel giro di alcune settimane compare un quadro anoressico con grave decadimento organico. Nuovamente sottoposta a indagini di tutti i generi, si perviene alla decisione di eseguire un intervento chirurgico esplorativo nel convincimento dell’esistenza di un’affezione neoplastica al 154 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica tubo digerente, ma il risultato è del tutto negativo. Nell’ambito di un inquadramento di affezione idiopatica viene, alla fine, considerata l’ipotesi psicogena. Ciò che più di tutto apparve urgente nel rapporto terapeutico, fu di poter esprimere questo senso di incapacità e di impossibilità a sopravvivere ed una consapevolezza, ora significativamente vissuta, di essere in pericolo, di avere, in caso di mancato funzionamento del pace-maker, bisogno immediato di aiuto. Più che di parola vi è necessità di un ascolto che sia contenitivo più che interpretativo. È proprio questo genere di rapporto che apre le possibilità dell’uso di un linguaggio che va dal somatico al mentale con equivalenza di contenuti. Ciò sembra suggerire un’indicazione interpretativa di questo tipo: riemergenza di una situazione agonica in una crisi di identità involutiva che ripropone angosce di separazione e perdita di oggetto libidico. Le conclusioni cui vorrei pervenire a me sembrano contenute nei casi clinici presentati. L’interazione delle gruppalità di cui ho trattato in questo lavoro è sempre presente nella vita e la fine di questa interazione sia a livello intersistemico che intrasistemico caratterizza la morte (Scoppola 1995 ). In questi ultimi anni mi sono sempre più convinto che il terapeuta ha la quello di una signora di 74 anni, inviatami per uno stato di grave decadimento fisico ed apparente involuzione mentale, conseguente ad un recente stato anoressico. Nel corso di un trattamento psicoterapeutico ad orientamento psicoanalitico, con una seduta settimanale domiciliare, protrattosi per 8 mesi e positivamente conclusosi, ho potuto ricostruire la storia clinica della paziente. La signora, madre di vari figli, viveva da oltre 20 anni separata dal marito; con difficoltà si era creata un’autonomia economica che le aveva permesso di far fronte ai bisogni dei figli e di acquistarsi finalmente una casa. Nel corso degli ultimi anni vi erano state diverse traversie affettive e sociali dei figli, ormai tutti adulti. Da molto tempo era portatrice di lieve diabete mellito e presentava segni di ipertensione arteriosa con labilità di valori. Quando il marito separato si ammala di cancro, lei viene colta da un grande desiderio riparativo, lo sostiene e lo assiste fino alla fine. Conclude la sua attività lavorativa autonoma e liquida il suo ufficio. In seguito intervengono complicazioni cardiache con turbe di conduzione atrioventricolare per le quali si ritiene indispensabile l’impianto di un pace-maker. La si informa che la durata del funzionamento è prevista per 5 anni e che in caso di inefficienza del pace-maker potrà fare uso di un apparecchio accessorio esterno che le consentirà un’autonomia sufficiente per prendere provvedimenti cardiologici. Il decorso è buono, il funzionamento è adeguato, la paziente viene dimessa PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 155 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica e torna a casa. Nel giro di alcune settimane compare un quadro anoressico con grave decadimento organico. Nuovamente sottoposta a indagini di tutti i generi, si perviene alla decisione di eseguire un intervento chirurgico esplorativo nel convincimento dell’esistenza di un’affezione neoplastica al tubo digerente, ma il risultato è del tutto negativo. Nell’ambito di un inquadramento di affezione idiopatica viene, alla fine, considerata l’ipotesi psicogena. Ciò che più di tutto apparve urgente nel rapporto terapeutico, fu di poter esprimere questo senso di incapacità e di impossibilità a sopravvivere ed una consapevolezza, ora significativamente vissuta, di essere in pericolo, di avere, in caso di mancato funzionamento del pace-maker, bisogno immediato di aiuto. Più che di parola vi è necessità di un ascolto che sia contenitivo più che interpretativo. È proprio questo genere di rapporto che apre le possibilità dell’uso di un linguaggio che va dal somatico al mentale con equivalenza di contenuti. Ciò sembra suggerire un’indicazione interpretativa di questo tipo: riemergenza di una situazione agonica in una crisi di identità involutiva che ripropone angosce di separazione e perdita di oggetto libidico. Le conclusioni cui vorrei pervenire a me sembrano contenute nei casi clinici presentati. L’interazione delle gruppalità di cui ho trattato in questo lavoro è sempre presente nella vita e la fine di questa interazione sia a livello intersistemico che intrasistemico caratterizza la morte (Scoppola 1995 ). In questi ultimi anni mi sono sempre più convinto che il terapeuta ha la necessità di operare continuamente su tale complessità, poiché il “lavoro della cura” in psicoterapia si realizza sempre all’interno dell’attività continua di questo sistema unico e triadico allo stesso tempo. BIBLIOGRAFIA BION, W.R. (1961) Esperienze nei gruppi. Armando, Roma 1971. BION, W.R. (1961a) Una teoria del pensiero. In: Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Armando, Roma 1970. BION, W.R. (1977) Seminari italiani. Boria, Roma 1985. EDELMAN, G.M. (1989) Il presente ricordato. Una teoria biologica della coscienza. Rizzoli, Milano, 1991 EDELMAN, G.M. (1993) Sulla materia della mente. Adelphi, Milano. GADDINI, E. (1980) Note sul problema mente-corpo. In: Scritti 1953-1985 (a cura di Maria Lucia Mascagni, Andrea Gaddini, Renata De Benedetti Gaddini). Raffaello Cortina Editore, Milano 1989. 156 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica GADDINI, E., DE BENEDETTI GADDINI, R. (1984) La frustrazione come fattore della crescita normale e patologica. In: Gaddini, E. (1989). MATTE BLANCO, I. (1987) La psicoanalisi nella psichiatria e viceversa. In: Cardini, M., Pazzagli, A. (a cura di) La psicoanalisi come modalità di ricerca in psichiatria. Athena Editrice, Roma. MIGONE, P. (a cura di) (1999) Dibattito su Farmaci e psicoterapia. In: m-list Psicoterapia, marzoaprile. MODELL, A.H. (1993) The Private Self. Harvard, University Press. SACKS, O. (1993) Mente e cervello: Le teorie di Gerard Edelman. La rivista dei libri, 3,6,1-8. SCOPPOLA, L. (1992) Psicoanalisi e fenomeni psicosomatici. Psichiatria e Psicoterapia Analitica, 11, 2, 157-182. SCOPPOLA, L. (1994) Terapie integrate - Interazione tra psicofarmacologia e psicoterapia di gruppo. 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L’integrazione mente-corpo è fondata sull’interazione continua delle tre gruppalità che vengono a costituire una gruppalità unica che caratterizza l’essere dell’individuo. L’intervento terapeutico interagisce con tutto il sistema. La psicoterapia, la terapia farmacologica e l’intervento medico non possono prescindere da tale unitarietà e molto spesso il loro insuccesso è legato alla preclusione posta al riconoscimento dell’inscindibilità dell’unità mente-corpo. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 157 Spazi condivisi della cura: tra gruppalità, integrazione somatopsichica e interazione psicofarmacologica SUMMARY Shared Spaces of Therapy: between group process, psychosomatic integration and psychopharmacological interaction The author maintains that a complex group systems of inextricable integration is at the root of our existence: the group process of the biological system, the group process of the mental system and the social or inter subjective group processo Mind-body integration is grounded on the continuous interaction of these three kinds of group process, which come to constitute the single group process characterizing the unique existence of the individuai. Every therapeutic intervention ineuitably interacls with the system as a whole. Psychotherapy, pharmacological therapy and medical intervention should not ignore the unitary nature of the system. Often failure of treatment is directly related to lack of recognition of the indissoluble unity of the mind-body. LUIGI SCOPPOLA Via A. Morelli, 10 00197 Roma [email protected] 158 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale GIUSEPPE DI LEONE Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale L’esperienza di lavoro come psicologo e psicoterapeuta in un Centro di Salute Mentale sarà il filo conduttore che mi orienterà nella riflessione sul tema della collaborazione tra le diverse figure professionali. La mia partecipazione, oramai ventennale, alle attività dell’équipe fin dal tempo della sua fondazione (una partecipazione che da alcuni anni si è estesa al livello organizzativo), il tipo di cultura del servizio, i cambiamenti via via intervenuti, sono alcuni degli elementi di un percorso personale che farà da sfondo per considerazioni più generali. Idealmente, la nozione di “confine”, nel suo significato di separare e includere - adatta a cogliere punti di intersezione all’interno di un contesto, quali quelli fra individuo e gruppo, coppia e gruppo, équipe ed istituzione - affiancata a quella di setting, mi sarà di aiuto nel ripensare la complessità del lavoro svolto in un continuo raccordo tra stanza e fuori stanza. Per entrare direttamente nel merito, espliciterò, in modo schematico, la mia idea che il lavoro in piccoli gruppi multiprofessionali nel servizio pubblico di Salute Mentale si sia sviluppato essenzialmente come risultato della confluenza di due fattori e dei modo in cui, nel corso dei tempo, essi si sono variamente combinati fra loro. Il primo fattore è legato alla cultura del “collettivo” che ha caratterizzato il periodo immediatamente precedente la riforma psichiatrica. La categoria del “collettivo” veniva considerata come uno degli elementi più importanti nella vita degli organismi istituzionali pubblici: chiave di lettura delle loro dinamiche, ma anche strumento decisionale e operativo. Questo pensiero, che per una serie di ragioni ebbe grande diffusione nella cultura del nostro Paese, è ancora ben riconoscibile nel testo di alcune leggi successivamente emanate in relazione alla salute mentale e nei regolamenti che fissano le procedure per il lavoro svolto in comune da tutte le figure professionali che compongono l’équipe nei Dipartimenti di Salute Mentale1. 1 ‘Ecco come recita il regolamento n. 4/85 della legge n. 49/1983 della regione Lazio sull’istituzione dell’eéquipe multidisciplinare “... Le funzioni ed i compiti del servizio dipartimentale di salute mentale sono 160 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale Sulla nozione di “collettivo” inteso come valore fondante, si è innestato il filone di pensiero delle discipline del campo della salute mentale presenti nel servizio pubblico e in ambito privato. Fin dalla nascita dei servizi territoriali, il lavoro comune in équipe si è avvalso di contributi teorici e tecnici di ambito psicoanalitico, fra i quali molto importanti quelli di gruppo (Di Chiara 1988). La collaborazione nell’équipe, in alcuni momenti, ha assunto una forte impronta ideologica, sviluppandosi intorno a un concetto velleitario di “uguaglianza” e “condivisione”. Ciò ha generato negli operatori reazioni di chiusura nei confronti del lavoro di gruppo, visto come il “male” della massificazione (De Polo 1996). Solo in seguito al superamento degli atteggiamenti più demagogici, gli strumenti teorici e tecnici offerti dal gruppo sono entrati a far parte della cultura del servizio pubblico in maniera convinta e diffusa. L’aspetto più rilevante di questa fase elaborativa dell’équipe è rappresentato dal passaggio da una istituzione che separava gli operatori dai pazienti o che rischiava di disperdersi nel territorio (Petrella 1993), a una istituzione che si “anima” (Boccanegra 1998) e si fa utilizzare, in parte o interamente, dal paziente a seconda dei suoi bisogni. Questo processo ha coinciso con la fondazione “affettiva” dell’équipe, centrata sull’idea guida della “relazione” quale migliore strumento terapeutico e su un buon gruppo raccolto intorno a un leader in grado di dare visibilità al progetto comune (Correale 1991). Il secondo fattore che ha contribuito al modo di pensare il lavoro dell’équipe è dovuto alI’individuazione della perdita di coesione del Sé quale causa importante delle patologie più gravi (Kohut 1971, Bion 1967, Kernberg 1984). La frammentazione che ne consegue e i tentativi del paziente per recuperare una certa compattezza, sono processi che richiedono la presenza di più figure professionali che si sforzino continuamente di svolgere le loro funzioni in modo coerente e di modularle sulle esigenze del paziente (Correale 1997). Nel corso degli anni l’integrazione di questi due fattori ha costituito la spinta e la motivazione al lavoro di gruppo; il modo in cui essi si sono combinati fra loro ha contribuito alI’assetto istituespletati da operatori diversi, integrati e polivalenti, il cui metodo fondamentale d’intervento deve essere il lavoro di gruppo e l’interdisciplinarietà. A tal fine, il lavoro di approfondimento diagnostico e di elaborazione di un progetto terapeutico individuale e la successiva verifica si svolge attraverso riunioni periodiche degli operatori. L’équipe degli operatori, individua di volta in volta, le figure professionali che direttamente assumono l’esecuzione del trattamento e sostengono l’attività dell’operatore impegnato”. La stessa regione negli ultimi tempi ha prodotto una bozza di discussione per l’istituzione dell’Area di psicologia separata e autonoma dal Dipartimento di Salute Mentale. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 161 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale zionale assunto da un determinato servizio, alla sua cultura, al funzionamento dell’équipe e al modo d’integrazione dei diversi saperi al suo interno (multidisciplinarietà). Allo scopo di mostrare il funzionamento del gruppo integrato, tratterò brevemente ognuno di questi temi e infine presenterò un caso clinico e il nostro modo di condividere la cura di un paziente. La dimensione istituzionale L’istituzione è tanto presente nella vita degli individui e dei gruppi, quanto, potremmo dire, difficile da percepire in maniera consapevole, perché chi osserva è ostacolato dall’esservi incluso, o comunque condizionato dalla particolare prospettiva in cui si trova. Se Jacques (1956) attribuisce alle istituzioni “gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale una funzione di contenimento delle angosce persecutorie e depressive svolta attraverso i vari ruoli, le gerarchie e i compiti, Gaburri (1991) ricorre all’immagine di Giano bifronte per sintetizzare il doppio aspetto dell’istituzione: di sostegno e aiuto per i membri che ne fanno parte ma allo stesso tempo di condizionamento della loro individualità. L’immagine proposta da Gaburri contiene inoltre un riferimento alla complessità dell’istituzione dovuta ai vari livelli e funzioni intrecciati fra di loro, che confluiscono all’interno di un “campo” (Correale 1991). Di questa complessità ricorderò solo gli aspetti più importanti. Uno è che l’istituzione costituisce un luogo di “depositi” di vita silenziosa degli individui, che si manifesta attraverso varie espressioni sintomatiche quando viene interrotta (Bleger 1988). L’istituzione svolge una funzione fondamentale di contenimento e pubblicizzazione, secondo le modalità vigenti nel gruppo, di idee innovative concepite da soggetti particolarmente creativi; in tal modo gli individui, protetti dall’organizzazione istituzionale e dagli aspetti eccessivamente turbolenti che da quelle idee possono scaturire, sono partecipi di queste aspettative. Per il buon funzionamento dell’istituzione è importante che sia attiva una funzione affettiva che accompagna ma non si sovrappone a quella organizzativa. Neri (1995) denomina questa funzione Genius loci, dal nome della divinità minore che nel mondo antico presiedeva all’integrità del posto in cui si trovava. L’opera del Genius loci si svolge in modo da costruire una trama affettiva, con atti e comportamenti in sintonia con quanto viene sperimentato dai singoli partecipanti; i sottogruppi scismatici e in conflitto sarebbero il prodotto della lacerazione di questo tessuto affettivo. Oltre a sostenere e a esercitare pressioni con la sua presenza (Rinaldi 1997), si può dire, che l’istituzione nel suo insieme si presenta nella mente dei pazienti e dei curanti, come un “oggetto” 162 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale che regola il doversi occupare sia di tutti sia di ciascuno nella sua singolarità, e che rispetto all’individuo è percepito come più presente e duraturo. L’équipe come integrazione di saperi Dopo la fase istituzionale manicomiale che aveva relegato il paziente nel chiuso della sua incomprensibilità (Foucault 1963), l’idea fondante delle équipes territoriali è diventata la “relazione” quale strumento più efficace per comprendere e curare i disturbi psicologici. Questa idea ha costituito il fattore propulsivo e globale del modello terapeutico, l’elemento sotteso ad ognuno degli interventi di tipo psicoterapico, farmacologico o assistenziale, che ne rappresentano gli aspetti concreti sul piano tecnico e pratico. Intorno a questa idea si sono costituite le équipes territoriali i cui leaders sono stati riconosciuti per la capacità dimostrata di identificarsi con il suo senso più profondo e di darne una rappresentazione adeguata nell’indirizzare 1’operatività del proprio gruppo di lavoro. Questo processo è stato accompagnato anche da fenomeni di idealizzazione, segno della raggiunta coesione di gruppo e dell’attivazione di spinte “propulsive” nello svolgimento del compito. Oltre a tale funzione di spinta e coesione, l’idealizzazione all’interno del gruppo, ha assunto vari significati, su cui vale la pena soffermarsi brevemente. In questa “fase nascente”, le aspettative di “ricongiungimento” con i propri ideali (ChasseguetSmirgel 1975) attraverso l’appartenenza al gruppo, e la presenza di “illusioni”, sono servite ai curanti, come un primo modo di potersi pensare in gruppo e come difesa da angosce connesse a una precoce individuazione (Neri 1995) di una propria identità umana e professionale. Questo processo ha costretto i curanti a forme di “adattamento patologico” quando certi aspetti della loro individualità entravano in contrasto con gli ideali di gruppo, per altri versi ha fatto si che l’eventuale tentativo di differenziazione assumesse per loro un forte senso di perdita di ciò che il gruppo rappresentava. Nei casi in cui questa idealizzazione non c’è stata, spesso l’équipe non ha mai raggiunto lo stadio del gruppo con i relativi fenomeni di identificazione (Freud 1921) da parte dei membri e il suo funzionamento, caratterizzato da frammentarietà e conflittualità eccessiva, non ha consentito lo sviluppo di modalità di lavoro condivise. I processi di frammentazione possono essere dovuti a carenze nella leadership, alla difficoltà nell’individuare gli obiettivi e i giusti mezzi per raggiungerli, alla pressione dei pazienti sul gruppo di lavoro o all’interazione di tutti questi fattori, fino a determinare PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 163 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale una condizione di “regressione paranoiagenica” (Kernberg) che si manifesta con rancore, sospetti, paure, allarme costante e cautela e, al polo opposto, sentimenti di isolamento e di depressione. Il contesto che si è strutturato intorno a idee guida su obiettivo e modo di lavorare e a buoni leaders, ha fornito l’ambito appropriato perché il sapere medico-psichiatrico e quello psicologicopsicoterapico, si integrassero fra di loro e con il bagaglio di conoscenze proveniente dal filone assistenziale e infermieristico. Rispetto alla possibilità che ci sia collaborazione nel gruppo dei curanti, assume una particolare importanza questo livello di strutturazione del servizio, in cui le diverse esperienze si coordinano e si integrano, rinforzando la pratica dei piccoli gruppi multiprofessionali. Riuscire a tenere tutto all’interno dello stesso assetto organizzativo, ma con spazi operativi diversi e distinti per la psicoterapia, la fannacologia, l’assistenza e la riabilitazione, è diventato 1’elemento caratterizzante di buona parte delle istituzioni psichiatriche pubbliche. Un discorso a parte merita l’integrazione del lavoro psicoterapico nella cultura del servizio, se non altro perché, per i motivi che accennerò, ha sempre rappresentato il punto di maggiore conflittualità. Non sono mancati i tentativi di risolvere la conflittualità, quando essa per vari motivi diventava più accesa, attraverso la costituzione di un’Area di Psicologia completamente separata e autonoma dal Dipartimento di Salute mentale. Qui, più che degli aspetti gerarchici e di potere che pure esistono e rappresentano un ostacolo per l’integrazione delle diverse componenti dell’équipe, mi occuperò di alcuni aspetti tecnici e clinici del problema. Il setting psicoterapico, giovandosi dei contributi che venivano dall’ambito privato, si è costituito successivamente sulla base di modalità di fare psicoterapia che si sono sviluppate nel servizio pubblico. Gli psicologi in particolare, perché più coinvolti di altri nelle psicoterapie, si sono trovati ad assistere, nel lavoro con pazienti gravi, a progressive modificazioni del setting all’interno del quale abitualmente operavano, e a doversi convincere del rischio di perdurante frammentazione cui il paziente era esposto, qualora gli aspetti della relazione al di fuori del setting duale fossero “compresi” come “agiti” e non come parte di un unico mondo relazionale del paziente. Questo è stato un processo difficile e cruciale per la vita dell’équipe, perché la sua interpretazione e gestione ha generato dispute e irrigidimenti personali e di scuole, prima di trasformarsi in contributo al rafforzamento del lavoro secondo un’ottica di integrazione. I fallimenti di psicoterapie cominciate senza l’ausilio di altre figure professionali, con pazienti che progressivamente rivelavano maggiori difficoltà, all’inizio hanno prodotto sentimenti di non fa164 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale cile elaborazione per gli psicoterapeuti e sono rimasti a lungo nella memoria sotto forma di ferite narcisistiche insopportabili; le aspettative particolari profuse in questo tipo di attività, tipiche di ogni progetto psicoterapico, comportavano per lo psicoterapeuta l’elaborazione di sentimenti quali colpa e vergogna, non sempre condivisibili con il resto dell’équipe. Le “distorsioni” e le “amplificazioni” del setting, all’inizio quindi, hanno comportato per il terapeuta, un forte senso di perdita degli abituali punti di riferimento, “un’assenza di quadro” (Vigorelli 1994) nel contatto con i pazienti gravi, e hanno costituito il passaggio cruciale e difficile attraverso il quale si è arrivati a un convinto lavoro di integrazione con le altre figure professionali. Valutare quando lavorare da solo in accordo alle regole del setting standard e quando lavorare insieme al gruppo istituzionale, è stata una regola tecnica di base per lo psicoterapeuta del servizio pubblico, acquisita quale risultato del continuo passaggio dalla monoprofessionalità alla multiprofessionalità e viceversa. Sia in un caso che nell’altro ovviamente ci si può sbagliare, confondendo piano simbolico e concreto, con l’apertura al gruppo istituzionale, quando la richiesta invece è di intimità ed esclusività, o insistendo invece a mantenere un setting duale, quando il caso richiede di entrare in un rapporto di collaborazione con altre figure professionali. Il sostegno che la propria identità umana e professionale può ricevere all’interno del gruppo dei curanti aiuta la scelta tecnica e rende più tollerabili inevitabili imprecisioni nella valutazione o sviluppi imprevisti della vicenda clinica in cui si è coinvolti. Il gruppo integrato. Un esempio clinico Il paziente difficile, spesso, opera una sua personale ridefinizione delle varie identità professionali dell’équipe, a partire dalle proprie esigenze. Da questo punto di vista, il gruppo integrato svolge una prima importante funzione che è quella di rappresentare uno spazio potenziale o di costituirsi come un “ambiente” in cui il paziente può lasciare vivere qualcosa di Sé che potrà prendere forma un po’ per volta (Searles 1965, Winnicott 1965). Questo richiede che il gruppo degli operatori sia in grado di disporre di una certa dose di flessibilità, anche rispetto alle regole di base nel rapporto tra paziente e Istituzione. A questo proposito Zapparoli (1987, 1992) individua con precisione alcuni compiti svolti dagli operatori del gruppo integrato: PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 165 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale - la funzione dell’intermediario. Si tratta della scelta da parte del paziente di un particolare operatore del gruppo, che per le sue caratteristiche viene visto come se non rappresentasse l’istituzione psichiatrica nei suoi aspetti realistici, ma anzi come qualcuno che lascia al paziente la possibilità di pensare che ci sarà spazio per il suo “particolare” sapere e da cui l’operatore può apprendere. Il paziente grave cerca questa funzione attraverso quella che Zapparoli definisce “doppia contrattualità”, doppia perché l’istituzione propone un suo contratto e un suo progetto di cura e il paziente ne propone un altro che parte dalle sue esigenze, in questa prima fase intrise di onnipotenza. - la funzione della “credenza”. Il paziente richiede al gruppo di operatori di assumere su di sé la distruttività per verificarne la potenza, come avveniva nel medioevo, quando sul piano concreto gli scalchi assaggiavano i cibi per conto dei feudatari che temevano di essere avvelenati. Queste e altre, possono essere pensate come funzioni di oggetto-Sé (Kohut 1971) svolte dal gruppo dei curanti nei confronti del paziente, che gli consentono un rispecchiamento che lo aiuta a consolidare il suo Sé, gli offrono aspetti da ammirare e idealizzare e gli danno la possibilità di relazionarsi con qualcuno che si fa percepire come identico a lui. Tutte queste funzioni mirano a contrastare le sensazioni del paziente di trovarsi in mondi inanimati e terrorizzanti, a restituire alle cose il loro “calore segreto” (Neri 1999) e il loro aspetto rivitalizzante. Il gruppo dei curanti è anche un “campo intersoggettivo” in cui il paziente può cercare un’alternativa ai “principi organizzatori” che ne orientano inconsapevolmente la vita di relazione; secondo questo tipo di ottica, il gruppo dei curanti può svolgere una funzione di “validazione” di aspetti del Sé che il paziente non ha mai potuto far vivere, perché sentiti come minacciosi per i legami di adattamento alle figure principali della sua vita. Il gruppo usa le sue risorse in vari modi. A volte, nel modo più tradizionale integrando psicoterapia e farmacologia; altre volte, nel caso dei pazienti più gravi, attraverso l’ausilio di quasi tutte le figure professionali e il raccordo tra le diverse strutture: centri di salute mentale, centri diurni, servizi psichiatrici di diagnosi e cura, strutture residenziali. Un rapporto più strutturato con un solo terapeuta può essere l’obiettivo da raggiungere attraverso il sostegno del gruppo e diventare il luogo di sintesi e di elaborazione del rapporto globale del paziente con il servizio, o viceversa, può costituire fin dall’inizio quella base di fiducia che consentirà di affiancare via via gli altri interventi che si renderanno necessari, quali la prescrizione di farmaci, gruppi di riabilitazione eccetera, che saranno molto importanti per il paziente. 166 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale Un giovane paziente venne al servizio dopo essere fuggito da una comunità terapeutica perché non riusciva a dormire insieme agli altri; l’inserimento era stato tentato dai familiari a seguito di un ricovero al reparto di diagnosi e cura per un episodio delirante. I colloqui individuali, a cui egli acconsentì di buon grado, oltre a permettere di collocare la crisi sullo sfondo della sua storia, avviarono la costruzione di un legame di fiducia che favorì l’assunzione di farmaci prima rifiutati e l’inserimento in altre attività riabilitative organizzate dagli infermieri del servizio. Attualmente frequenta di sua iniziativa altri pazienti conosciuti durante gite e soggiorni organizzati dal servizio ed è molto contento di questi momenti di autonomia che lo portano fuori della simbiosi con la madre. I colloqui gli consentono di mantenere un ascolto degli aspetti che sente più minacciosi per il suo Sé e hanno una funzione di convalida e di aiuto nel mantenimento di un buon grado di coesione. Le attività che riguardano questo paziente, e altri pazienti con caratteristiche analoghe, vengono coordinate dai curanti attraverso riunioni periodiche strutturate per quanto riguarda la linea generale da seguire, ma pensate anche durante scambi spontanei che avvengono in vari momenti tra alcuni degli operatori coinvolti. A questo proposito, ricordo lo scambio di impressioni che ebbi con la collega infermiera uscendo dal reparto di diagnosi e cura dopo un colloquio con una paziente del nostro servizio, ricoverata in seguito a una crisi di rabbia di cui non ricordava niente. Mentre parlavamo, l’immagine di un grande vaso che si trovava davanti a un locale pubblico e che la paziente aveva rotto durante la crisi, cominciò a collegarsi al sogno da lei fatto prima della crisi, in cui lei si vedeva in un locale pubblico per un appuntamento con qualcuno. Altri particolari riguardo al suo rapporto con i medici del servizio ci vennero in mente; ciò che era accaduto cessò d’interessarci come fatto concreto (il fatto avvenuto, i danni) e divenne chiarificante rispetto al rapporto della paziente con il servizio e con il gruppo dei curanti. Vorrei ora ricorrere a un caso clinico per vedere la funzione di aiuto che il gruppo dei curanti può offrire a un paziente che ha bisogno di delineare il proprio Sé e per mostrare come tale aiuto possa svolgersi nel tempo attraverso le figure professionali che compongono l’équipe. Nel caso del paziente di cui narrerò si è resa necessaria una certa flessibilità rispetto alle norme istituzionali che regolano il contratto terapeutico e abbiamo dovuto mantenere un equilibrio sempre precario tra le manipolazioni da parte del paziente e la buona fruizione delle diverse competenze personali e professionali dei curanti. Giorgio, 31 anni, è nato con una forma di ittiosi che per gran parte dell’anno gli ricopre la pelle di uno strato squamoso che arretra solo con un’intensa frequentazione della piscina e il mare in PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 167 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale estate. Fin da piccolo è stato esposto a momenti di totale trascuratezza e incoerenza dei suoi genitori, dovuti essenzialmente a una grande confusione nel riconoscere e distinguere le esigenze dei bambini e quelle degli adulti. Il fratello, più grande di alcuni anni, qualche volta lo ha usato per scherzi al limite del sadismo. La madre gli ha riferito che desiderava una bambina e che quando nacque aveva “due teste”. Il padre, che per un periodo è stato in carcere per illeciti commessi nell’ambito di una fallimentare attività commerciale, soleva vantarsi con gli amici di come con un’occhiata riusciva a far arrossire sia lui che il figlio maggiore. Da alcuni anni Giorgio viene al servizio perché il sentimento di essere “smagnetizzato” e il timore di perdere la sua vita intima lo tengono in uno stato di continua angoscia. I pericoli per lui sono rappresentati dall’invidia di donne anziane che incontra casualmente o dal fatto che gli altri possano venire a sapere delle sue cose. Fronteggia questa penosa sensazione con un’attenzione ossessiva all’alimentazione e ai processi fisiologici del suo corpo. È sempre stato attento a non fare vedere le sue abilità in alcuni giochi per timore che gli venissero carpite. Per molto tempo anche nei colloqui non riferiva di situazioni in cui beneficiava di qualche cosa, per timore che poi la notizia si diffondesse per vie oscure e che altri ne approfittassero. Spiega tutto questo dicendo che è come se gli altri fossero “inconsapevoli ripetitori” di ciò che vengono a sapere. -”Veniamo tutti, dice, da un’unica matrice a cui affluiscono i contenuti di tutti e la matrice può mettere in circolo i contenuti di ognuno”, oppure, lui che è un tecnico informatico immagina che siamo tutti in “rete” e sfuggendo i codici personali si possa entrare nei contenuti di tutti. Per difendersi da queste angosce di svuotamento e di influenzamento, si costringe a un atteggiamento di chi non invia nessun “segnale”; in questo modo però sperimenta l’angoscia di non esistere e, quindi, si dibatte continuamente tra il timore di trasmettere emozioni e perdere ogni intimità e quella di non vivere. Si rende meccanico, fino a raggiungere una tensione così alta da trovarsi impedito nei movimenti sul lavoro, sebbene questo sia ormai diventato un ambito nel quale comincia a fare l’esperienza di poter funzionare bene. Giorgio si definisce un “carbonaro”, senza averne però, come lui stesso afferma, gli ideali di generosità. La sua non-esistenza copre continuamente il vissuto di mostruosità e di follia che in particolari momenti sente affiorare quando, passando per alcune strade dove l’illuminazione è più forte, immagina il suo viso con gli occhi dilatati e la fronte deforme, soprattutto se è presente qualche ragazza. Nel corso dei primi contatti con il servizio si evidenzierà quello che sarà l’altro tema centrale del suo mondo relazionale. Io lo vedo nel colloquio di accoglimento e valutazione e lo invio a una collega per una psicoterapia. Dopo alcune sedute Giorgio non vuole più incontrare la terapeuta; 168 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale chiede un terapeuta uomo. Nel corso di alcune sedute successive con me chiede di essere seguito da entrambi i terapeuti. Dice che a seconda del sesso del terapeuta con cui parla, avvengono delle ripercussioni sul suo comportamento. Non è possibile tentare con Giorgio una qualche elaborazione di questi cambiamenti che lui sente “concretamente” indotti dai due terapeuti. La collega e io decidiamo di accordargli di poterci incontrare entrambi, fino a quando non sia possibile per lui lavorare con un unico terapeuta. Giorgio sostiene che quando viene da me gli vanno bene le cose nel lavoro; sta inserendosi progressivamente nel mondo dell’informatica con lavori stabili rispetto ai lavoretti di “pirateria” che faceva prima. Quando va dalla collega, si trova meglio con le ragazze, però diventa più “superbo” e quindi non si concentra sul lavoro, non rispetta le regole e rischia di “deragliare”, come è successo quando gli è stata ritirata la patente per un sorpasso sulla corsia di emergenza. Giorgio comincia poi a venire al servizio, fuori dall’orario degli appuntamenti, per essere rassicurato sulle sue angosce e così a me e alla collega si aggiungono gli infermieri; in particolare c’è un infermiere più anziano cui Giorgio chiede consigli su come comportarsi con le ragazze, mentre con i più giovani cerca un rapporto di confidenza e di parità. In questo periodo mi ha chiesto di incontrarsi con la psichiatra con la quale ha concordato di assumere dei farmaci al bisogno e che gli ha dato la sua disponibilità a vederlo nei periodi in cui io sono assente. Nel corso della psicoterapia si è sempre proposto il problema di come consentirgli un uso proficuo della relazione con il gruppo dei curanti, quando la necessità di mantenere tutto un suo complesso sistema di difese rispetto alle paure di essere influenzato e usurpato nella sua soggettività lo spinge verso atteggiamenti più francamente manipolativi. A volte sono bastati pochi scambi tra noi curanti per integrare le nostre informazioni e dare coerenza ai nostri interventi. Nel tempo Giorgio sposta tutte queste funzioni all’interno della relazione tra lui e me che diventa l’unico spazio dove cercare di affrontare le sue angosce e le sue difese. Adesso ha un buon lavoro e vuole evitare atteggiamenti che lo possano compromettere. Riferisce di una sua particolare capacità a imitare le persone, tanto da fare fatica a “spogliarsi” di queste identità prese a prestito, come se l’imitazione sconfinasse nell’influenzamento e nel sentirsi invaso dalle persone che imita alla ricerca del comportamento più adatto alle varie situazioni (Gaddini 1969). L’assunzione di un particolare atteggiamento (ad esempio diventare prepotente e desiderare di non esserlo) può derivare anche dall’ascolto casuale di una canzone legata a un particolare periodo in cui aveva lo stesso tipo di atteggiamento. Per questo mi sono dovuto “arrendere” alla richiesta di PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 169 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale poter essere sempre raggiunto da lui senza intermediari, per consentirgli di fermare, attraverso la mia presenza, queste trasformazioni incontrollabili che avverte come una minaccia al suo senso di continuità. Solo in minima parte questo atteggiamento può essere tuttora affrontato e discusso nel corso delle sedute; per il resto il contatto ha lo scopo di rassicurarlo all’interno del suo sistema di convinzioni e Giorgio lo ricerca continuamente anche se per pochi momenti, trovando il modo di incontrarmi nei momenti liberi. Una volta, dopo aver ricevuto la comunicazione di uno spostamento della seduta dalla segreteria del servizio, ebbe la forte impressione che la donna al telefono lo potesse influenzare negativamente soprattutto in un imminente colloquio di lavoro che avrebbe avuto con il suo responsabile allo scopo di ottenere un miglioramento economico. Al mio rientro al servizio mi “braccò” letteralmente, come del resto fa sempre in questi casi, per vedermi e cancellare, parlandomi, la sua angoscia di essere influenzato negativamente dalla precedente comunicazione. La stessa cosa si è verificata per le paure circa l’andamento della relazione con un ragazza che ha cominciato a frequentare da poco. Nelle ultime sedute, ha cominciato a seguire con interesse il collegamento che gli propongo fra le sue due modalità affettive di entrare in relazione (una più ordinata ma sottomessa, l’altra più spavalda ma distruttiva) e le “due teste” che la madre gli aveva raccontato di aver visto al momento della sua nascita. L’assenza di risposte convalidanti dei genitori ha lasciato che ampie aree dell’esperienza primaria siano rimaste indefinite e non simbolizzabili. Ne è derivato un angoscioso sentimento di perdita relativo al senso di essere il centro delle proprie iniziative e la spinta a dare “concretezza” a tale usurpazione della soggettività, con tangibili eventi materiali, che per Giorgio sono l’essere “smagnetizzato” e influenzato in vari modi. Il gruppo dei curanti ha funzionato come il luogo in cui Giorgio ha dato vita allo “scontro tra organizzazioni del Sé contrastanti e spesso incompatibili” (Mitchell1993) e come terreno per delineare il suo Sé. Tutti noi, Giorgio, io, gli infermieri, la psichiatra, stiamo avventurosamente lavorando insieme a questa difficile impresa. BIBLIOGRAFIA BION, W. (1967) Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Armando, Roma 1970. 170 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale BLEGER J. (1988) Il gruppo come istituzione e il gruppo nelle istituzioni, in L’istituzione e le istituzioni, Kaës R., BorIa, Roma 1991. BOCCANEGRA, L. (1998) Storie di remota equità. In: Rugi, G., Gaburri, E. (a cura di ) Il campo gruppale. Boria, Roma 1998. CHASSEGUET-SMIRGEL, J. (1975) L’ideale dell’Io. Raffaello Cortina, Milano 1991. CORREALE, A. (1991) Il campo istituzionale. Boria, Roma. CORREALE, A, RINALDI, L. (1997) Quale psicoanalisi per le psicosì? Raffaello Cortina, Milano. DE POLO, R. (1996) Dal corpo gruppale all’identità individuale. Rivista di Psicoanalisi, 42, 1. DI CHIARA, G. 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PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 171 Il gruppo dei colleghi nel lavoro con il paziente difficile in un Centro di Salute Mentale RIASSUNTO Il lavoro del gruppo integrato in un Centro di Salute Mentale viene visto sullo sfondo del funzionamento istituzionale e dell’integrazione dei saperi all’interno dell’équipe; all’interno di questo contesto vengono individuate alcune difficoltà del lavoro psicoterapico ad integrarsi con le altre attività. L’esempio clinico illustra alcune del funzioni importanti svolte dalla collaborazione fra le diverse figure professionali, tra cui soprattutto quella di offrire un “ambiente” che accogliendo la contraddittorietà e la frammentarietà del paziente, lo aiuta, attraverso il suo funzionamento coordinato e coerente, a convalidare e a delineare il suo Sé. SUMMARY Working in group with difficult patients in a Mental Center Health The work in a group composed by different operators in a mental center health is considered on the background of the institution working and of the integration of the abilities inside the équipe. The integrated group provides difficult patients with many functions of self-object that help them to validate and outline the Self. GIUSEPPE DI LEONE Via Nicolò Piccinino, 53 00176 Roma [email protected] 172 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 NOTE Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini FELICIA DI FRANCISCA Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini L’empatia psicoanalitica, come nota Bolognini nell’introduzione del suo libro, è stata, almeno in alcune occasioni, soggetta a critiche radicali e accusata di essere “concetto non psicoanalitico”. Probabilmente la natura esperienziale dell’empatia ha contribuito a crearne un’accezione semplicistica permeata da un “alone semplificante, buonistico, dolciastro e confusionale”, “là dove invece un’empatia autentica richiede innanzi tutto [...] separatezza e differenziazione, attenzione e capacità di mantenere operante il pensiero teorico” (p. 19). La natura stessa dell’empatia, esperienziale, appunto, la collocherebbe in quella zona che è soggetta al paradosso dell’approccio fenomenologico: l’esperienza è individuale ed in quanto tale non conoscibile dall’altro. L’empatia è “un’autopercezione di quel che sta capitando all’altro”, scrive Semi nella prefazione. Proprio la possibilità costituita dall’aver strutturato confini, barriere e limiti consente di farsi una percezione di quello che all’altro sta accadendo, una percezione transitoria e perciò tanto più preziosa. In questo senso Bolognini differenzia la sua concettualizzazione da quella tendenza che fa dell’empatia un metodo più che una meta del processo psicoanalitico, quando non la risolve semplicisticamente nella prescrizione tecnica di un “empatismo” diffuso. Per meglio leggere il libro di Bolognini è, a mio parere, utile tenere ben presente ciò che egli dice nell’introduzione a proposito dell’esperienza clinica e dei modelli della mente. L’Autore esordisce affermando che prenderà spunto da “considerazioni veramente elementari”. Bene, elementare significa anche ciò che sta alla base di quello che in seguito verrà. Dunque, Bolognini afferma che la clinica ci fa incontrare pazienti molto diversi tra loro e lo stesso paziente in fasi molto diverse del trattamento; queste evenienze possono evocare modelli della mente e della relazione differenti. Vacilla la certezza che l’analista possa usare un solo modello teorico, che possa funzionare in modo uniforme e appare perlomeno il dubbio che “ci sia del vero” in teorizzazioni a volte anche distanti fra loro. “Sarebbe rassicurante - dice Bolognini - sentirsi protetti da un’unica verità rivelata, disporre di un passepartout buono per tutte le occorrenze”. Come non tenere conto anche della complessi- 176 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini tà degli iter formativi, della diversità delle scuole di formazione? I contributi degli psicoanalisti dimostrano sempre più che l’ibridazione è ben più di una rarità. Per questa ampiezza di apertura, il contributo di Bolognini mi ha fatto pensare al “Pensiero complesso”, la cui ambizione, come dice Edgar Morin (1990) “è quella di rendere conto delle articolazioni tra i settori disciplinari frantumati dal pensiero disgiuntivo (che è uno degli aspetti principali del pensiero semplificante); quest’ultimo isola ciò che separa, e occulta tutto ciò che collega, interagisce, interferisce. In questo senso il pensiero complesso aspira alla conoscenza multidimensionale, ma è consapevole in partenza dell’impossibilità della conoscenza completa: uno degli assiomi della complessità è l’impossibilità, anche teorica, dell’onniscienza”. Naturalmente è lontana da Bolognini l’idea di una babele dei saperi e delle teorie senza barriere e senza separazioni, l’idea di un superficiale eclettismo; gli è presente invece la consapevolezza che è necessaria la “temporanea sospensione” di fronte all’apparente inconciliabilità delle teorie; il “senso della complessità, articolazione e integrazione personalizzata dei modelli”; la necessità dell’evitamento del relativismo culturale. Il libro si apre con la ricostruzione storica del concetto di empatia. Più che di una ricostruzione, si tratta di una ricerca, all’interno dei modelli, delle ragioni del concetto. Appare ben prima della psicoanalisi il termine Einfiihlung (sentire dentro), nei Discepoli a Sais del 1798, autore il poeta romantico Novalis, in un ambiente, quello dei circoli di Jena (in cui si ritrovavano, oltre a Novalis, Goethe, Schiller, Holderlin), ricco di relazioni personali. Un ambiente in cui circolava un sentimento “di marca fusionale”, come fa notare Bolognini, che sente l’uomo in contatto intimo con la natura. Titchener nel suo Experimental Psychology oj the Thought Processes del 1909 tradurrà il tedesco Einfiihlung con empathy. Il capitolo che Bolognini dedica a Freud e l’empatia ci introduce al posto che il termine Einjuhlung occupa nell’opera freudiana: esso compare nel Motto di spirito (1905), nello scambio con Ferenczi per la presentazione de L’elasticità della tecnica psicoanalitica (1928) e, soprattutto in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), in cui l’identificazione tra i membri di un gruppo avviene “mediante un processo che la psicologia chiama ‘Einfiihlung’, e che più di ogni altro ci permette di intendere l’Io estraneo (das Ichjremde) di altre persone”. Freud conosceva e stimava Theodor Lipps, ne parla in due lettere a Fliess (26 agosto e 27 settembre 1898. Lipps, filosofo e fondatore a Monaco dell’Istituto psicologico, fonda la sua teoria estetica sul concetto di empatia, Einfiihlung. La diffidenza che Freud ha sempre manifestato per le reazioni emotive degli analisti PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 177 Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini sembra aver contagiato la traduzione inglese della Standard Edition ma anche la traduzione italiana, dove Einjuhlung diviene “immedesimazione”. Probabilmente, dice Bolognini, è “difficile criticare il fatto che in quei tempi pionieristici Freud potesse legittimamente essere sospettoso e perfino rigido verso ciò che un analista poteva provare per un paziente: il controtransfert era, in effetti, territorio inesplorato; la mente degli analisti, sondata nel migliore dei casi da analisi didattiche di qualche settimana, non lo era di meno” (p. 39). Freud (1912) era ottimista, nei Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico, sul dovere dell’analista che “deve disporsi rispetto all’analizzato come il ricevitore del telefono rispetto al microfono trasmittente”. Freud privilegiava, quindi, più l’erklären, lo spiegare, il chiarire, che il verstehen, il comprendere partecipativo; più tardi, in Analisi terminabile e interminabile (1937), invece, si preoccuperà degli influssi patogeni al contatto con l’inconscio del paziente e raccomanderà la ripetizione dell’analisi ogni cinque anni agli analisti; si preoccuperà, cioè, degli influssi del controtransfert. Vediamo ora come Bolognini colloca il pensiero di Ferenczi, nel terzo capitolo del suo libro, quello dedicato ai pionieri dell’empatia. Nella Tecnica psicoanalitica (1918) Ferenczi dice dell’empatia: “Senza una siffatta sensibilità (l’analista) non potrebbe capire i conflitti psichici del paziente”, e poi: “Se, con l’aiuto delle conoscenze ottenute dalla dissociazione di molte menti, ma soprattutto della nostra, siamo riusciti a formarci un quadro delle possibili o probabili associazioni del paziente, delle quali egli è ancora completamente inconsapevole, noi, non essendo alle prese con le stesse resistenze del paziente, siamo in grado di immaginare, non solo i suoi pensieri ma anche le sue tendenze, delle quali egli è inconscio”. Bolognini attribuisce molta importanza a questo passo, “perché ci presenta già un significativo esempio di empatia egodistonica rispetto al paziente: analista e paziente non ‘concordano’, sono asimmetrici, e proprio questo consente all’analista di dare all’altro una conoscenza che l’altro non ha”. Ferenczi, a proposito dell’assetto interno dell’analista, parla di oscillazione tra identificazione (amore oggettuale) e autocontrollo (o attività intellettuale), tra l’empatia (o “intuizione”) e la valutazione consapevole della situazione dinamica. Come fa giustamente notare Bolognini, si tratta della necessità della coesistenza del sentire e del pensare. Nel capitolo 7, “L’assetto interno dell’analista: analisi con l’Io e analisi con il Sé”, che inaugura la seconda parte del libro, quella a cui Bolognini affida gli esiti della sua ventennale ricerca sull’empatia psicoanalitica, diventa più evidente che la “coesistenza del sentire e del pensare” non è solo una descrizione del processo psicoanalitico, ma è anche frutto di una precisa visione metapsicologica. La frequentazione della letteratura scientifica aiuta gli psicoanalisti a maturare la cono178 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini scenza degli strumenti per “svolgere funzioni attive d’indagine, inquadramento, decifrazione e traduzione degli elementi della vita psichica”, ma è nella loro analisi personale, nel quotidiano lavoro con i pazienti che essi “coltivano l’arte del contatto con il mondo interno proprio e altrui”. Questa “arte del contatto” ha, prima di tutto, a che vedere con la vicinanza ai propri affetti, senza la quale la professione può trasformarsi in uno sforzo sovrumano di vivere per ore distaccati “da una vasta parte di se stessi”. Il lavorare male viene descritto da Bolognini come il funzionare con una scarsa integrazione tra l’Io di lavoro e il contatto che questo ha con il Sé1. “Il quadro d’insieme formato dagli oggetti interni, dal Sé nucleare e dalle loro relazioni può trasmettere un’atmosfera emotiva di fondo del Sé, le cui fluttuazioni occasionali sono percepibili nello stato d’animo del paziente, nello scenario dei suoi sogni, nel clima della seduta. L’analista può osservare questo teatro onirico, o farne esperienza partecipativa. Nel primo caso lavora prevalentemente con l’Io; nel secondo caso, mette in gioco anche il proprio Sé” (p. 81). Accettare questo secondo caso vuoi dire per l’analista nutrire un profondo senso di fiducia nella consistenza della propria identità personale, accettare di essere “modificato”, aver elaborato il “lutto profondo [...] riguardante un’arcaica illusione onnipotente di poter controllare i propri affetti fino a poterli decidere”. Il problema teorico delle intersezioni Sé - sistema conscio/preconscio/inconscio e del rapporto Sé - istanze psichiche, viene da Bolognini posto, in questo importante capitolo, usando l’immagine del personaggio Don Camillo di Guareschi (diversi sono nel libro gli esempi presi in prestito dalla letteratura umoristica, come molti sono i bei casi clinici cui viene dato ampio spazio e che illustrano i nodi teorici e rendono partecipi della tecnica analitica dell’Autore). Dunque, la scena è quella, frequente, in cui Don Camillo parla con il Crocifisso. Quest’ultimo è un rappresentante del Super-io o è un oggetto del Sé del personaggio? Intanto va notato che non è un elemento principalmente inconscio: il dialogo tra Don Camillo e il Crocifisso avviene al livello del preconscio, prova ne è la sorpresa sempre sperimentata dal soggetto, ma si tratta di sorpresa contenuta, senza l’effetto estraniante dell’allucinazione, che permette l’accesso al regressivo e al simbolico. 1 Bolognini usa il termine “Io” privilegiando la prima delle tre accezioni proposte da Laplanche e Pontalis (1967): nucleo di coscienza e fascio di funzioni mentali attive. Il concetto di Sé viene inteso non come personalità totale o come istanza psichica , ma come “quella realtà interna (includente rappresentazioni oggettuali) che si riveli duratura, caratterizzante e costitutiva del mondo mentale della persona, e che possa essere oggetto della sua esperienza soggettiva”. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 179 Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini Una porzione del Super-io, inizialmente inconscia, trova canali preconsci di comunicazione con l’Io; il dialogo diventa “duratura, caratterizzante e costitutiva” parte del Sé, elemento preconscio e conscio senza perdere la collocazione superegoica. Queste precisazioni teoriche comportano un’attenzione alle diverse conseguenze sul piano clinico, a seconda che venga privilegiato un assetto o un altro. In particolare, se l’aspetto superegoico è valorizzato, si privilegia l’individuazione consapevole del Super-io (o l’Es) per rendere l’Io sufficientemente libero, responsabile e capace di regolare le istanze, “facendo luce esplorativamente nell’inconscio”. Nel caso della valorizzazione dell’oggetto (superegoico) del Sé, è “il processo di rappresentazione e di interiorizzazione relazionale che produce un arricchimento del mondo interno” e il vissuto di un “profondo arricchimento del Sé, cioè l’integrazione. Una buona analisi dovrebbe mirare ad entrambe le prospettive: ad un soggetto valido nell’Io e ricco nel Sé”. Ma torniamo all’assetto interno dell’analista. Searles (1979) scrive “la mia prima concezione [...] mi imponeva di mantenere me e i miei sentimenti in una posizione che sostanzialmente non aveva nulla a che fare con il singolo paziente. Il mio ideale dell’Io riguardo al ruolo di terapeuta esigeva che cercassi sempre di essere utile al paziente, che mi interessassi a lui costantemente, che non provassi alcuna emozione negativa nei suoi confronti. [...] Ritenevo immutabile la mia identità personale, e ugualmente fisso e assoluto il mio ruolo di terapeuta” (p. 416). La capacità che ha l’analista di osservare se stesso (quando si allontana, nel lavoro col singolo paziente, dal modello normativo di ideale di osservazione partecipe) e il suo senso d’identità personale, gli offrono indicazioni preziose “circa la natura e l’intensità delle risposte e degli atteggiamenti che, nel transfert, questo paziente manifesta nei suoi confronti”. Un eccesso di osservazione partecipe può essere il segno di “come egli rifiuti, a livello inconscio, il ruolo transferale negativo che il paziente gli assegna (cioè di genitore percepito come distante e insensibile). Analogamente, quando l’analista scopre tangibilmente di tendere a osservare in maniera sproporzionata e a partecipare in misura minima, possiede un’indicazione del fatto che, con tutta probabilità, sta cercando di non riconoscere gli impulsi, diciamo così, cannibaleschi del paziente o propri, o di entrambi” (ibidem). Sostanzialmente sono gli stessi i rischi di eccessi che segnala Bolognini quando descrive una delle modalità di contatto psicoanalitico, il contatto Io/Sé analista - lo paziente, modalità peraltro improntata ad una collaudata capacità empatica dell’analista e presente in molti inizi di analisi: “l’analista utilizza la risonanza del proprio Sé per individuare, comparativamente, le aree sottosviluppate o inaccessibili del Sé del paziente; ma sperimenta anche, con il proprio Sé, i modi, i livelli e la forza con cui l’Io difensivo inconscio del paziente sospende, strozza o cancella abitualmente il contatto soggettivo del 180 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini paziente stesso con il proprio Sé” (p. 89). È questo il contatto esperienziale che l’analista prende con le angosce e le relative difese precoci del paziente. Nel contatto Io/Sé analista - Io/Sé paziente l’assetto interno dell’analista, che dispone di una buona integrazione, alimentata dall’autoanalisi, è così descritto da Bolognini: “sentiamo che, nella gioia o nel dolore, le cose sono tutte presenti e al loro posto, e proviamo gratitudine verso i nostri maestri e, più indietro, verso i nostri genitori...” (p. 90) : gli affetti di base dell’analista, fondati sulla generatività degli oggetti interni, alimentano gli sviluppi emozionali, di segno positivo e negativo, della relazione psicoanalitica. In presenza di un “ricco patrimonio rappresentazionale contenuto nel Sé, [l’analista] si rappresenta con facilità il vissuto controtransferale; [ ... ] le rappresentazioni di cosa prendono allora un lieve sopravvento sulle rappresentazioni di parola, cosìcché nel loro coniugarsi le seconde si adeguano alle prime (rem tene, verba sequentur)”. È così che l’esperienza genera la spiegazione. L’Io osservante può prendere contatto con le parti dell’Es, mentre i canali preconsci si ampliano, e quindi l’analista “non deduce ma vede di più”. “I processi introiettivi prevalgono su quelli proiettivi (‘en-patia’) in una condizione di consapevole separatezza che produce immedesimazione (conscia e preconscia) e non identificazione (per lo più inconscia)”. Così i processi proiettivi del paziente vengono trattati dall’analista ed egli se ne fa interprete, più che fornirne l’interpretazione, perché ne fa esperienza. I bisogni dell’Io del paziente sono empaticamente trattati dall’analista. Dunque, il capitolo sull’assetto interno dell’analista introduce anche i temi importanti che Bolognini affronterà nel resto del libro: il rapporto e la differenziazione dell’empatia rispetto al controtransfert, alla condivisione, alla fusionalità. Per ragioni di brevità non mi addentrerò nella ricca trattazione che egli fa di ognuno di questi temi, anzi spesso mi limiterò a cogliere, sotto forma di definizioni, il punto di arrivo delle complesse articolazioni che il suo concetto di empatia ha con i vari concetti menzionati. Riguardo al rapporto del controtransfert e quindi degli affetti dell’analista con l’assetto empatico, l’Autore mostra come l’elaborazione dell’esperienza controtransferale permetta un’empatia profonda che non si limita alla concordanza egosintonica. L’esperienza controtransferale da sola, però, non garantisce un buon grado di empatia: rimanendo identificati controtransferalmente ci si limita a ripetere una scena interna senza la possibilità di comprenderla ed interpretarla. Con il bel caso del manager Aldo, viene illustrato il lavoro che l’analista deve compiere nel riconoscere i propri affetti e, a volte, le identificazioni inconsce che possono ostacolare l’esperienza empatica del processo psi- PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 181 Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini coanalitico ma che, con un’opportuna sospensione delle valutazioni, possono diventare importanti strumenti nel lavoro dell’analisi. Sebbene Bolognini riconosca alla “condivisione” il ruolo importante che ha assunto nella psicoanalisi dei nostri anni, la distingue dall’empatia, anzi la considera un precursore di questa. una retorica della condivisione, comunque, si è sviluppata accanto ad una sempre maggiore disponibilità degli analisti a condividere il campo intersoggettivo e ad un minor timore del coinvolgimento emotivo. Soprattutto laddove gli oggetti primari sono stati carenti, c’è maggior bisogno che l’analista si lasci coinvolgere sul terreno della relazione. Ma se tutto ciò è intenzionale, ricercato, programmato, la condivisione rischia di diventare una caricatura e, in definitiva, un fallimento. La non volontarietà della condivisione è testimoniata dalla scarsità in letteratura di descrizioni delle situazioni cliniche in cui si verifica; questo, secondo Bolognini, dipende dagli assetti clinici “poco estetici” e poco inquadrabili teoricamente. Proprio quando l’analista ha perso il bello stile, la padronanza e l’assetto, senza perdere però il rispetto per l’analisi, può capitare che si ritrovi sul terreno della condivisione. Alcune di queste descrizioni di clinica “poco estetica” si ritrovano nel già citato Searles e proprio con quei pazienti a cui si riferisce Bolognini; ma Searles, giustamente incluso fra i “controtransfert-globalisti” (a tal proposito, Bolognini colloca la sua posizione in una posizione intermedia fra questi ultimi e i “controtransfert-classicisti”), si riferisce alla dinamica transfert-controtransfert. È chiaro che per Bolognini la condivisione (ma anche l’empatia) appartiene alla relazione analitica. La condivisione è quindi una fase necessaria del processo psicoanalitico con tutti i pazienti che vivono un disturbo nel contatto con se stessi, “con le persone, cioè, che non hanno semplicemente bisogno di essere informate circa la loro vita interiore, ma che devono essere aiutate a fame esperienza, utilizzando a tale scopo la relazione e la convivenza mentale con l’analista” . In che rapporto stanno la condivisione e l’empatia? Secondo Bolognini, se accettiamo la definizione nata dalla clinica, dell’empatia come condizione privilegiata che permette all’analista di “sentire con il paziente”, di pensare su di lui e a volte con lui, questa non coincide con quella di condivisione (precursore dell’empatia) che risulta invece essere, almeno temporaneamente, non rappresentabile. Sempre più frequentemente ci si trova a contatto con situazioni cliniche che richiedono “una condivisione prolungata di stati di sofferenza del Sé”, in cui l’analista ha il vissuto di aver perduto la propria padronanza della tecnica pur essendo in contatto con il paziente; la condivisione avviene comunque, ma ci sono maggiori probabilità di averne consapevolezza se non ci si trincera dietro la difesa della teoria, se non viene saturato precocemente il senso del vissuto. Ma “la creatività rappresentazionale tocca il paziente quando quest’ultimo ne avverte l’dutenticità esperienziale, vera prova 182 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini che l’analista è stato in quel ‘luogo’ con lui. Quando invece l’analista riesce a usare la teoria non come difesa ma come naturale complemento integrativo, allora il lavoro tende al meglio: ciò però non accade quando si è a contatto con l’impensabile” (p. 121). Il capitolo sul rapporto tra empatia e fusionalità chiarisce in maniera approfondita l’ambito in cui Bolognini colloca il concetto di empatia e di contatto empatico, ma qui mi limiterò a citare un passaggio significativo, che l’Autore riprende da un suo precedente lavoro: “La perdita (parziale) e / o apertura di confine benigna costituisce una delle mete profonde della vita umana, perché consente l’accesso alla fusione primaria, alla nutrizione concreta e simbolica, alla socializzazione, all’accoppiamento amoroso, al contatto interno con parti del Sé, all’empatia”. “A questi sviluppi l’Io difensivo il più delle volte si oppone, in virtù di tracce mnestiche che segnalano situazioni di pericolo” (p.179). In questo senso all’inizio di questa nota mi riferivo a “separatezza e differenziazione, attenzione e capacità di mantenere operante il pensiero teorico”. Merita di essere ricordato anche il rapporto tra empatia e inconscio (cap. 12), rapporto interessante e sorprendente. L’Autore stesso riflette sul senso del mettere in relazione un concetto “settoriale ed esperienziale” con l’altro “generale e strutturale”. Bolognini afferma che tale scelta può irritare il “collega freudiano classico”, colui che considera la metapsicologia il nucleo essenziale della psicoanalisi, mentre ne considera l’empatia un fattore aspecifico. Ma dove finisce la metapsicologia? O meglio a quale livello storico vanno collocati i suoi confini? Il polo soggettuale, che ha in sé anche la configurazione soggetto-oggetto, non è costitutivo della mente (di un modello della mente)? Ma vediamo come tratta la questione Bolognini. Intanto viene subito chiarito che l’esposizione del capitolo potrebbe risultare non gradita anche ai teorici della Self psychology, proprio per quella riluttanza, di cui parlavo all’inizio, verso l’empatia come metodo. I due concetti, empatia e inconscio, potrebbero presentare ottime ragioni per essere presi in considerazione congiuntamente. Intanto in psicoanalisi una gnosis senza il pathein è un controsenso, come nota Bolognini, né è possibile decidere l’immedesimarsi senza il rischio dell’identificazione (meccanismo inconscio e permanente). Dal punto di vista topico l’empatia viene collocata nel preconscio ma, prendendo in considerazione le “identificazioni proiettive comunicative” di Rosenfeld, spesso considerate alla base della comunicazione empatica, viene sottolineata la loro caratteristica di “passaporto” che può circolare tra i vari livelli topici, superando le distanze interpersonali e “bypassando le normali strozzature in- PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 183 Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini trapsichiche del soggetto e dell’oggetto”. L’empatia quindi, non inconscia di per sé, potrebbe funzionare come “collegamento tra i vari livelli topici di una, due o più persone” (p. 157). Con il punto di vista strutturale (lo, Es e Super-io, istanze in interazione conflittuale, consce e inconsce), l’analisi diventa trattativa con l’Io difensivo inconscio: essa “è interessata non solo a far uscire il carcerato (il Rimosso), ma anche a far evolvere il carceriere (l’Io difensivo inconscio) favorendo non solo la conoscenza di sé, ma una durevole pervietà dei percorsi, e una capacità di praticarli”. La situazione empatica, dice Bolognini, consente all’analista di immedesimarsi anche con il carceriere e di andare, quindi, oltre il monitoraggio e le deduzioni. Ma perché il vissuto diventi empatia è necessario che l’analista utilizzi “una valida capacità rappresentativa, che dia raffigurazione alla sensazione (la Darstellbarkeit)”. Questa la definizione proposta da Bolognini di empatia: “la vera empatia è una condizione di contatto conscio e preconscio caratterizzata da separatezza, complessità e articolazione; uno spettro percettivo ampio in cui sono tutte le tonalità di colore emotivo, dalle più chiare alle più scure; e soprattutto un progressivo, condiviso e profondo contatto con la complementarità oggettuale, con l’Io difensivo e con le parti scisse dell’altro, non meno che con la sua soggettività egosintonica” (p. 161). Nell’accingermi a scrivere questa nota sapevo che non avrei potuto rendere l’atmosfera e la sensibilità che il libro di Bolognini comunica: solo se associate ai casi clinici, le idee e la teoria possono trasmettere la “delicatezza” dell’empatia psicoanalitica, essa è esperienza molto prima che concetto. Qui ho scelto di analizzare il concetto seguendo le tracce della sua complessità, i movimenti tra vari livelli teorici. La buona integrazione che deriva dal soffermarsi su ogni livello, vicini ad esso e, nello stesso tempo, disponibili ad un altro ancora, è una possibilità. BIBLIOGRAFIA BOLOGNINI, S. (2002) L’empatia psicoanalitica. Bollati Boringrueri, Torino. FERENCZI, S. (1918) La tecnica psicoanalitica. In: Fondamenti di psicoanalisi, 2. Guaraldi, Rimini 1974. FREUD, S. (1905) Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio. OSF, 5. FREUD, S. (1912) Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico. OSF, 6. FREUD, S. (1921) Psicologia delle masse e analisi dell’Io. OSF, 9. 184 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Empatia e complessità. Note in margine a L’empatia psicoanalitica di Stefano Bolognini FREUD, S. (1937) Analisi terminabile e interminabile. OSF, 11. MORIN, E. (1990) Introduzione al pensiero complesso. Sperling e Kupfer, Milano 1993. SEARLES, H.F. (1979) Il controtransfert. Bollati Boringhieri, Torino 1994. FELICIA DI FRANCISCA Via Della Fonderia, 34 50142 Firenze [email protected] PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 185 LETTURE Letture FERRO, A. Fattori di malattia, fattori di guarigione. Genesi della sofferenza e cura psicoanalitica Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, pp. 145, euro 14.50 Immaginiamo di prendere un testo psicopatologico, dove si compia un accurato lavoro di classificazione e di esplicazione psichiatrico-dinamica e di immettervi l’ingrediente sconosciuto o incognita - funzione alfa e avremo lo straordinario primo capitolo dell’ultimo libro di Ferro sui fattori di malattia. Dove, nel gioco tra elementi patogeni e difese si evidenziano tre classi di patologie: a) una da severa carenza di funzione alfa; b) una da non adeguato sviluppo di contenitore/contenuto - di oscillazione tra posizione schizoparanoide e depressiva - di movimento tra capacità negativa e fatto prescelto; c) un’altra (tutte le situazioni traumatiche) dovuta all’accumulo, non trasformabile, di stimolazioni sensoriali. Da qui in avanti, i fattori di guarigione, in presenza di un efficace lavoro trasformativo, consisteranno nel’intergioco delle proprie difese, nella propria capacità di sognare e nella veglia e nell’evitare di agire. Mentre nella specifica situazione terapeutica si tratterà di come operare tecnicamente ai livelli di patologia: a) (grave difettualità della funzione alfa) - b) (borderline-narcisistica) - c) (spettro nevrotico), tenendo presente che “ogni paziente è abitualmente una chimera di (a), (b), (c)”. I lettori troveranno particolarmente fruttuosi i capitoli centrali: Terzo, “Contenitore inadeguato e violenza delle emozioni” e Quarto “L’après-coup e la cicogna: campo analitico e pensiero onirico”. Qui, in sequenza, annoterei una serie di descrizioni, passaggi, segnali, che rendono vita e riflessione all’operare analitico-psicoterapeutico. A proposito delle fessure e fratture del campo, Ferro afferma: “le microfratture della comunicazione sono fondamentali ... perché determinano ... delle cerniere ... attraverso le quali irrompe, nella relazione attuale, ciò che era rimasto fuori ... l’analista si pone come un addetto alle dighe che deve calibrare quanto entra nel ciclo metabolico”. Oppure, quando, introducendo una vignetta clinica, espone come “sia possibile avviare uno scambio trasformativo senza cesure interpretative forti, in una modalità dialogica-discorsiva”. 188 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Letture O nel ribaltare la prospettiva, quando rivede certi singolari interventi dell’analista: “ Non vorrei solamente avere questa visione pacificante, in cui la rêverie invertita dell’analista è sempre la conseguenza delle identificazioni proiettive del paziente ... [ma] ... ci può essere una reverie invertita dell’analista, che il paziente è capace di segnalare e spesso di “curare”. “Tutta l’arte dello psicoanalista consiste nel saper focalizzare un angolo o l’altro, a seconda dei bisogni del momento, come nella litografia di Escher, Relativité, in cui si vedono diverse scale e percorsi possibili, con i luoghi della storia infantile, quelli del mondo interno e del campo transgenerazionale e quelli della relazione attuale nel campo attuale”. E a proposito del transgenerazionale analitico di Ferro, questa volta, mi pare, ci siano parecchie parentele sia esplicite che implicite. Sempre al primo posto Bion, qui ricordato particolarmente per i lavori del 1976, Evidence (Evidenze) e Making the best of bad Job (Arrangiarsi alla meno peggio), seguito dai Baranger, con la loro nozione di campo, nel quale entra anche, in una particolare traduzione, Winnicott. Ma ritroverei anche Anzieu quando parla della pellicola mancante nelle patologie con difettualità di formazione del pittogramma visivo e Racamier, quando, a proposito del narcisismo, stati protoemotivi vengono fatti vivere ad altri, che divengono funzioni alfa sussidiarie. Nella genesi della sofferenza psichica il gradiente della disponibilità/indisponibilità della mente dell’altro si può accostare al bilancio risposta o non risposta al bisogno di Gaddini. E nel capitolo “Crisi dell’età - Cerniera - e Crisi da eventi - Cerniera” -, è difficile non pensare agli studi del Ciclo di vita, con un omaggio a Erikson, alla “Crisi di mezza età” di Elliot Jaques, al nostro Canestrari, che più e più volte ha riletto, in questa chiave, il citatissimo “Posto delle fragole” di Bergman. Il libro termina con una messa “in campo” dei principali concetti psicoanalitici, sia per rispondere al dibattito odierno, sia per mantenere continuamente aperta una situazione di ricerca, come nel capitolo dedicato alla messa in gioco del Super-io, per come transita nella mente dell’analista e del paziente. Rimane la dichiarazione di fedeltà di Ferro al suo operare che “riguarda il modo in cui le narrazioni consentono delle trasformazioni e il modo in cui le trasformazioni avvengono attraverso le narrazioni”. Claudio Fabbrici PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 189 Letture ADAMO VERGINE (a cura di) Trascrivere l’inconscio. Problemi attuali della clinica e della tecnica psicoanalitica. Scritti di Capogrossi Guarna, Cargnelutti, Castiglia, De Renzis, De Silvestris, Giuffrida, Vergine, Vigneri. Franco Angeli, Roma 2002, pp.131, euro 15,00. Condivisa implicitamente dagli autori e sottesa alla motivazione del titolo del libro, si delinea negli scritti la premessa che a fondamento della conoscenza dell’inconscio si trovino il lavoro analitico e la riflessione sul suo dispositivo in termini metapsicologici. Senza discostarsi, infatti, dal riferimento a tale premessa, gli autori guardano al problema della conoscenza dell’inconscio attraverso le trascrizioni psichiche fin dalla sua prima impostazione nella lettera 52-112 di Freud a Fliess del 6 dicembre 1896, e riflettono sul loro lavoro clinico quale contributo alla risonanza e all’ampliamento del senso delle tesi da lì in poi proposte. Quel che si può dire dell’inconscio è nei suoi derivati, negli effetti sensibili, trascrizioni, appunto, che rappresentano altrettante “realizzazioni psichiche” (Freud)1, quando può verificarsi una traduzione significativa delle tracce mnestiche inconsce, dando luogo a quello che oggi con altro linguaggio potrebbe chiamarsi un passaggio da una memoria procedurale ad una memoria semantica, e che nell’analisi è la premessa del processo di “ri-significazione”. Si verificano, invece, rimozioni ed altre azioni difensive, quando “un eccesso di sofferenza” impedisce o blocca il processo traduttivo delle trascrizioni di primo grado presenti nell’inconscio, che possono allora manifestarsi solo come dei “fueros”, ossia come una “sopravvivenza di relitti del passato” (Freud 1896). E, soprattutto, come evidenziano De Silvestris e Vergine, gli autori del libro guardano all’imprescindibile compresenza della spinta traduttiva e di quella difensiva, all’impatto con un intraducibile che in quella lettera cominciava ad essere preso in considerazione. È allo sviluppo della riflessione sull’esperienza analitica che bisogna rivolgersi per comprendere le principali problematiche e le difficoltà di ordine epistemologico di fronte alle quali si è trovata, in Freud e poi, nel tempo, nelle successive generazioni di analisti, la preoccupazione di trasmettere 1 L’idea della “realizzazione” psichica sarà evidenziata da Lacan, che si riferirà all’inconscio come al “non realizzato”. 190 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Letture una conoscenza oggettiva dell’inconscio. È appunto attraverso un excursus di tali questioni e difficoltà, esplorate mediante la riflessione teorica e l’autoanalisi, che il libro ci propone di ripensare le problematiche non solo intrapsichiche, ma anche relazionali, della trascrizione dell’inconscio. L’introduzione di Vergine tratteggia un profilo storico delle trasformazioni che l’esperienza analitica stessa ha prodotto negli strumenti teorici e metodologici preposti alla sua trascrivibilità, a cominciare dai concetti di “clinica” e di “tecnica”. Vergine ricorda alcune tappe significative dell’acquisizione progressiva al dibattito interno alla psicoanalisi della consapevolezza che l’esperienza analitica si svolge a livello prevalentemente inconscio per entrambi i suoi protagonisti: il contributo di Winnicott sui “fenomeni transizionali”, quello di Bion riguardo allo studio delle “trasformazioni”; e ancora il contributo della scuola kleiniana riguardo allo strumento del “controtransfert”, in particolare attraverso il lavoro di Paula Heimann; ed infine il movimento di pensiero sviluppatosi in Italia sulla “relazione analitica”. Tale consapevolezza si è sviluppata in parallelo a quella dell’implicazione della soggettività dell’analista nella fenomenologia da “osservare” e da analizzare (Vergine; Capogrossi e Cargnelutti), sicché si è reso necessario disporsi ad abbandonare l’idea di una conoscenza degli eventi analitici definibile in senso forte come “oggettiva” e, piuttosto, ad “indagare sull’articolazione tra i livelli primari della mente, i livelli secondari che raccontano l’esperienza psichica profonda, e le modalità di trascrizione dall’uno all’altro livello” (Vergine). Lo strumento appropriato dell’indagine sull”’accadere psichico” nel suo insieme si definisce dunque, tale in sintesi appare la proposta del libro, in termini di ipotesi metapsicologiche coerenti con i concetti di “clinica” e di “tecnica” ripensati e continuamente rifondati nel lavoro analitico. L’agente di una tale indagine è per Vergine “un soggetto asimmetrico, che può elaborare intorno alla relazione da un punto della mente eccentrico alla relazione”. D’altro canto se si prende in considerazione l’affermazione di Freud che il migliore strumento del lavoro analitico, in quanto costituisce una chiave di accesso alla vita psichica inconscia, è il transfert (lezione 27), allora bisogna riflettere sul duplice livello che nel libro viene interrogato, simmetrico ed asimmetrico, della funzione analitica ma anche, infine, della soggettività dell’analista: quello simmetrico, che è implicato nel transfert fino al suo “ombelico” tendente all’indifferenziazione, e quello asimmetrico, “eccentrico”, che è capace di garantire una funzione di terzeità in quanto da tale livello simmetrico tende ad astrarsi, e che si manifesta nel lavoro autoanalitico e nel pensare “intorno alla relazione” da un vertice teorico. PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 191 Letture In altri termini, e qui è innanzitutto il nocciolo del problema, “l’esperienza non si può osservare direttamente in una forma oggettiva, ma solo derivare da un’analisi dell’esperienza soggettiva” (Vergine), che permette la formulazione di congetture sugli eventi psichici ed il confronto con la teoria. Ed altrettanto complessa è la polarità oggettiva dell’esperienza analitica, sulla quale si articola più ampiamente lo scritto di Amalia Giuffrida: “la specificità del ‘fatto’ psicoanalitico”, infatti, “si colloca all’incrocio tra un materiale fantasmatico, storico e pragmatico, soprattutto passionale, e però di un’estraneità irriducibile”. È qui un’ulteriore torsione della trascrizione: i fatti psicoanalitici appartengono a diversi registri di realtà e sfuggono radicalmente alle spinte all’omologazione dei tentativi di trascrizione puramente razionali, che conducono a modellizzazioni in sé fuorvianti per la loro comprensione; tali fatti, saturi del “non placato del pulsionale” quando si tenta di descriverli, sono, quando tentiamo di afferrarli, qualcosa di cui ci sentiamo invece irrimediabilmente spossessati: la loro trascrizione non ci porta al cuore dello svelamento dell’inconscio, che viceversa pare anch’esso “decentrarsi” continuamente e ci afferra di nuovo, si potrebbe dire nel nucleo più radicale della soggettività, come un oscuro “resto” inanalizzato; ma ci porta piuttosto al cuore e nel tumulto di un processo di lutto, ossia al cuore e nel tumulto della difficoltà più profonda della trascrizione della clinica. E dunque non ci resta che lo “zoppicare” dell’autoanalisi, quell’“analisi dell’esperienza soggettiva” dalla quale possiamo solo”derivare”, ma non “osservare direttamente” (Vergine). E che ha come oggetto un”’esperienza” che è definibile propriamente come una “complessità in movimento”, sottolineano Capogrossi e Cargnelutti. Sono molte, allora, le domande, esplicite ed implicite, che il libro nel suo insieme sollecita. Innanzitutto come descrivere, attraverso l’elaborazione del sistema secondario, quell”’esperienza” dell’inconscio che possiamo trovare nella clinica, il perturbante, che ci situa nell’insistenza dello spossessamento del soggetto dalla sua “presa” rappresentativa ed autorappresentativa? E come trascrivere efficacemente in una narrazione verbale dell’esperienza clinica il “livello simmetrico” in ciò che sfugge alle logiche della ragione e della declinabilità del tempo e del linguaggio? E come trascrivere, d’altro canto, anche il livello asimmetrico della soggettività dell’analista nel suo lavoro “negativo” (Green), nella sua altrettanto essenziale assunzione a metodo dell’assentarsi, il suo “astrarsi” dall’attualità della relazione che può far posto all’emergenza della soggettività per il paziente? E come mostrare l’attinenza stessa del racconto alla relazione analitica quando esso si manifesta dopo, altrove, indirizzato ad altri interIocutori, attraverso un passaggio dall’ascolto alla parola 192 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Letture che non può rendere gli aspetti corporei e non verbali della relazione profonda (Capogrossi e Cargnelutti)? E ancora, come può la “rappresentazione di parola” fare posto al silenzio dell’analisi, a meno di costruire l’illusione di poter dare compiutamente senso a quella “rappresentazione-cosa” come la chiama Laplanche, abolendo il “di” dalla traduzione della formula freudiana (Sachvorstellung) per provocare il pensiero sulla intrinseca aporia e sull’irriducibilità che essa sottende rispetto a qualsivoglia forma di assenza e differimento, che sono invece propri dell’atto linguistico? Dunque “qual è il ‘luogo’ psichico della narrazione clinica”? si chiede Giuffrida, seguendo Lavagetto (Palinsesti freudiani,1998), che sottolinea con forza il “mutismo” dei “materiali” clinici: essi “non consentono di cogliere quelle connessioni che costituiscono il traguardo della ricerca analitica. ... [Occorre] un lavoro di sintesi, di costruzione, che rappresenta un momento decisivo tanto della relazione analitica che del resoconto. In altri termini, le “cose” non parlano senza che qualcuno le abbia organizzate in una struttura che concede loro la parola” (Lavagetto). Dunque non ha senso fare un’esperienza psicoanalitica senza poterne dire, e tuttavia tale dire le è intrinsecamente eterogeneo. “Non abbiamo altra possibilità se non quella di posizionarci in un’area affettivosimbolica in cui coesistono gli opposti: un mutismo radicale e la tendenza alla forma e alla parola; di modo che, però, la presenza dell’‘altro’ - corpo, fantasmi, affetti, pensiero - venga ‘svelata’ e appaia con forza” (Giuffrida). Consonante con questa posizione appare Castiglia quando parla di una “presa estetica” da parte dell’analista al lavoro, nel suo confronto con la genealogia della parola e del linguaggio della psicoanalisi attraverso le generazioni degli analisti, ed innanzitutto attraverso la sua fondazione, mediante lo scostamento essenziale operato da Freud nei confronti di Charcot nella modalità di “osservazione clinica” dell’isteria: se la parola identifica, quando l’oggetto “torna” nel transfert, il suo nome “diventa disidentico a se stesso e si fa segno unico che è qualcosa di differente dall’oggetto assente” (Castiglia). È un segno, si potrebbe aggiungere, la cui pregnanza di senso, e dunque il cui senso tout court, è creato dall’illusione di ri-trovare l’oggetto, e questo è forse proprio ciò che svanisce per primo sulla carta quando ci si avventura nel racconto di un caso clinico. E inoltre l’“unicità” di ciascuna esperienza analitica non è funzione soltanto della casualità dell’incontro più o meno fortunato e fecondo tra quel determinato paziente e quel determinato analista, ma anche di questa struttura paradossale del dispositivo analitico nella quale si incontrano, come in un passaggio dall’ingombro corporeo della vita alla scrittura, “transustanziazione” della carne viva, affettivamente investita (Kristeva), e rappresentazione mentale: ed entrambe si riversano PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 193 Letture necessariamente nella sua trascrizione (Giuffrida), sia essa più o meno elaborata: ma non per questo e non per ogni lettore, si può aggiungere, di fatto esse hanno lo stesso senso. Invece a “quella ‘unicità pregnante’ di forma e di senso che si era imposta nella mente nell’ascoltare” si volge più ampiamente Malde Vigneri, che riflette sull’esperienza transizionale dell’appunto preso a margine di una seduta, uno scritto che non è ancora scrittura, “non proprio registrazione e non ancora narrazione”, ma in grado di “riprodurre” con la rapidità di una visione un aspetto irrinunciabile. della “traccia”, come una possibilità offerta dalla relazione analitica di “riprendersi” la “cosa”, o meglio, diremo, un investimento rimosso della “traccia”, nell’atto fugace di “annotare un pensiero che ci attraversa la mente e che non vogliamo perdere”: atto, dunque, attraversato da entrambe le modalità di funzionamento dei sistemi primario e secondario; ancora lontano dall’esperienza di separatezza e di perdita che accompagna la scrittura, ma che tuttavia, va aggiunto, segna il passaggio essenziale dall’illusione alla realizzazione psichica. L’unicità dell’esperienza si ritrova dunque in generale nell’approccio alla patologia, tale sembra essere anche una delle implicazioni principali del lavoro di De Renzis, che ricorda quell’intimo, biografico, “rapporto tra la storia delle sofferenze e i sintomi della malattia”, che Freud stesso indica come un “vantaggio” nelle storie cliniche presentate negli Studi sull’isteria, nonostante non abbiano quella che secondo un’altra ottica e un altro senso, culturale e genealogico, appunto, - diremo attinente al concorso paterno della fondazione intersoggettiva della “traccia” -, è considerata “l’impronta rigorosa della scientificità”. L’esperienza dell’analista, cui Freud allude nel brano in questione, è per De Renzis “una vera e propria avventura” nella quale occorre saper coniugare “la progressiva sistematizzazione teorica e il concomitante movimento di autoriconoscimento attraverso i processi di istituzionalizzazione” con “quella originaria disposizione al rischio intellettuale”, quella “qualche indulgenza alla fantasia”, quell’“ascolto, per quanto non acritico, a ciò che l’esperienza sembra talvolta contrapporre alle più accreditate teorie”. Per De Silvestris e Vergine la “disposizione al rischio intellettuale”, espressa come il “provare, senza abdicarvi, a non stabilire una necessità ‘conoscendi’ a priori ed esclusiva della ragione”, bensì ad avvicinarsi anche alla spinta “traduttiva” come necessità inconscia, significa anche riconsiderare attentamente il lavoro psichico presente in modi diversi nel sogno, nel lapsus, nel transfert, ed anche nel delirio, sia pure se in quest’ultimo caso si tratta di un lavoro in un contesto psichico differente in maniera essenziale. Anche in esso possiamo riconoscere una modalità delirante di “traduzione”, se è vero che in qualche modo “ognuno di questi movimenti è un movimento verso l’oggetto per ricondurlo alla propria verità”. 194 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Letture Qual è dunque l’episteme del “fatto” psicoanalitico? Giuffrida rilancia il punto di vista sostenuto da F. Napolitano (Riv. Psicoan. 3, 1988) che con il rimaneggiamento della teoria della seduzione Freud accetta implicitamente la crisi del “fatto” psicoanalitico considerato secondo un approccio corrispondentista in senso forte, che da Aristotele in poi può declinarsi press’a poco in questi termini: “la ricostruzione è vera se corrisponde al fatto, altrimenti è falsa. Ed inoltre: l’unico criterio della verità è in tale corrispondenza”. Da allora in poi la psicoanalisi, sia pure svincolandosi dall’ontologia a favore della tesi della “realtà psichica” , vive il travaglio del problema della verità, con tutte le vicende del confronto con la comunità scientifica che si riflettono nelle problematiche della validazione. Ma Freud si attesta in realtà, questa è la tesi riproposta, su un modello epistemologico che si avvale dell’insieme costituito dai vertici corrispondentisti e coerentisti “indeboliti”, e dunque affiancabili creativamente. Contemporaneamente, del resto, a questa “rivoluzione scientifica” freudiana, si verificano analoghi spostamenti in senso tanto costruttivista quanto coerentista nelle scienze moderne: è anche in linea con esse, infatti, fa notare Giuffrida, che la psicoanalisi “accetta l’assunto che il campo osservativo venga (ri)modellato e (ri)creato dall’azione dell’osservatore medesimo”, e che inoltre tollera al suo interno “il dubbio, l’irrisoluzione, la difficile prevedibilità fenomenica”. Gli psicoanalisti, sottolinea Vergine, soprattutto a causa dell’approfondimento delle analisi personali, sono diventati, attraverso il lavoro sul controtransfert e quello sulle aree caotiche della mente, più capaci di accostarsi agli affetti e più consapevoli della necessità dell’incontro con il “perturbante” nel lavoro analitico. La stessa funzione analitica, dunque, sulla scorta di questa lettura si può dire che appaia, nel corso della sua pratica, metodologicamente “indebolita” per far posto all’“altro”. Essa deve fare i conti con i livelli simmetrici, con la possibilità stessa della sua sospensione, con il lavoro dell’autoanalisi per il suo recupero, con quel “limite” (Vergine) nel quale, per dir così, si profila “l’ombra del soggetto”. E la traduzione in parole della funzione analitica stessa può avvenire a patto di riconoscere il duplice livello dal quale essa si origina: come l’elaborazione analitica si realizza “a metà strada” fra coscienza e inconscio (De Silvestris e Vergine), coslla sua comunicazione più profonda avviene “in circostanze simili a quelle del sogno” (Capogrossi e Cargnelutti). Lucia Schiappoli PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 195 Errata Corrige Nel numero 2/2002 di Psicoterapia Psicoanalitica, tra i nomi dei colleghi che compongono il nostro Comitato di lettura non compaiono quelli di Vittorio Califano e Maria Grazia Pini, che da tempo svolgono per noi con precisione e puntualità il difficile lavoro di Lettori. 196 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 IN MEMORIA DI ELISABETTA GHERARDINI Il 31 dicembre 2002 si è spenta Elisabetta Gherardini. Ricordo di averla conosciuta nel lontano 1975. Piero Bellanova mi aveva proposto di frequentare i suoi seminari serali che già da qualche tempo accoglievano nel salotto ospitale e festoso della sua casa molti professionisti di formazione psicoanalitica non appartenenti alla Società Italiana di Psicoanalisi: in quelle occasioni era avvenuto l’incontro tra me ed Elisabetta, che era stato così mediato dalla presenza generosa e lungimirante del nostro ospite. L’avevo subito osservata con curiosità ed interesse: il fisico poderoso, che non declinava età; il suo essere albina che la poneva da sempre tra coloro che avevano i capelli bianchi; i modi diretti, a volte bruschi, ma sempre acuti nel cogliere ed anticipare significati, avevano messo in movimento in me sentimenti contrastanti. In un modo tutto suo, si imponeva sul gruppo dei presenti, seduti in modo più o meno rilassato nelle poltrone del salotto Bellanova, anche per i suoi interventi spesso contestatori, paradossali, creativi ed ironici. Era una personalità che non rimaneva mai nell’ombra e che fin dai primi incontri iniziai ad apprezzare, ammirare, ma a volte anche a temere. Sì, perché se Elisabetta la trovavi su posizioni ed opinioni avverse, era anche “temibile”. Ma questo faceva parte del suo carattere, perché proprio la sua tenacia, ostinazione, le qualità di ottima organizzatrice e la vivace progettualità sostenuta dalla lungimiranza di Piero Bellanova, sono stati gli elementi che hanno consentito la nascita della nostra Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica. Insieme a lei, io credo che tutti noi abbiamo sempre collaborato al meglio per questa finalità comune. Certamente lei era l’anima trainante, sempre aggiornata ed informata su ciò che era più opportuno e su ciò che era necessario fare o avviare. Nel corso degli anni ho avuto maggiori occasioni di approfondire la sua conoscenza, anche al di fuori delle situazioni e necessità di lavoro. Mi ricordo un viaggio a Firenze nel 1981, ospite nella sua auto insieme ad Anna Maria Tomai. Era la prima volta che la Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica organizzava una giornata di studio alla quale avrebbero partecipato anche molti soci della SPI, simpatizzanti della nostra neonata Associazione. 198 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Mentre l’autostrada si consumava veloce, Elisabetta parlava di sé. Così ho scoperto aspetti che non avrei mai immaginato: racconti di vita infantile in una vasta e importante famiglia veneta che le aveva consentito frequentazioni elette. Vita internazionale, parentele vastissime, ambienti, tradizioni ed abitazioni ricchi di storia. E così: tate straniere, frotte di cugini, aneddoti, epoche ed ambienti evocati in modo vivido ed arguto. Venivo così a conoscere una Elisabetta colta nel senso più vero e profondo, una umanista curiosa della vita, con una memoria formidabile dalla quale faceva emergere le figure della sua vasta parentela che si stagliavano e sembravano venir fuori dai ritratti ufficiali che affollavano le gallerie dei palazzi veneti nei quali aveva vissuto. C’era ancora in lei quella Elisabetta bambina che descriveva gli scherzi e i giochi vissuti nei giardini delle severe abitazioni, c’era ancora l’umorismo con il quale aveva cercato di mitigare la severità educativa con cui era cresciuta. Era come se trovassi nella storia e nella sua storia, le radici che la rendevano solida, ostinata e forte, coraggiosa e pugnace, indomita di fronte a tutte le avversità. In questo modo infatti si è sempre proposta come animatrice di tutte le iniziative più importanti della vita societaria: dai convegni e giornate di studio, alla ideazione, costruzione e fondazione della Federazione Europea nel 1991 a Londra. Infatti la costituzione dell’European Federation for Psychoanalytic Psychotherapy in Health and Related Public Services (EFPP) è dovuta alla costanza e tenacia di Elisabetta Gherardini che, insieme ad un piccolo gruppo, con un lungo lavoro di avvicinamento negli ambienti internazionali ad una politica culturale e scientifica che potesse far convergere in un unico organismo europeo realtà e tradizioni storiche molto diverse da nazione a nazione, è riuscita a realizzare la EFPP, realtà sempre più importante non solo a livello europeo. Così come ha lottato per raggiungere questi importanti obbiettivi, da molti anni Elisabetta lottava per contrastare e debellare la malattia che insidiosamente e ripetutamente la colpiva. Ha mostrato sempre fiducia nella vita, progettualità e partecipazione, anche quando le difficoltà per proseguire il tessuto dei gesti e delle piccole attività del quotidiano, le era diventato più faticoso. Si vedeva meno frequentemente alle riunioni societarie, ma nei momenti importanti era ancora presente con il suo equilibrio, la saggezza ed esperienza, come punto di riferimento essenziale per tutti noi. Ho avuto spesso la fantasia che il discorso con la morte, intrapreso da Elisabetta già da molti anni, avesse le caratteristiche della dialettica ferma e del contrasto roccioso che le erano peculiari e PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 199 che sarebbe stato portato avanti ancora per lungo tempo. Invece ad un certo punto Elisabetta ha smesso di lottare ed ha smesso anche di soffrire. Perché gli ultimi anni erano stati occupati da un graduale aumento di sofferenza che si diffondeva nella sua giornata e nelle sue notti: una fatica nel vivere che consumava gradatamente le energie vitali senza che Elisabetta abbia mai espresso lamento o rammarico. Ciascuno di noi la ricorda con il suo piglio deciso, il sorriso e la carica affettiva che si diffondeva attorno: a questo suo essere Elisabetta non è mai venuta meno. Cara Elisabetta, ci manchi e ci mancherai sempre. E sarai sempre nello spirito societario anche per i futuri nostri allievi che non potranno mai conoscerti. MARYSA GINO 200 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 Avvertenze per gli Autori ! I lavori per la pubblicazione devono pervenire alla Redazione della Rivista tramite email (psi- [email protected]) come allegato in Rich Test Format possibilmente. Qualora il lavoro sia accettato, l’autore si impegna ad apportare eventuali modifiche richieste dai Referees della rivista e concordate con la Redazione. ! Il nome dell’Autore e l’indirizzo debbono essere indicati per esteso nell’ultima pagina del lavoro. ! Le eventuali richieste di estratti vanno inviate, prima della pubblicazione del numero della Rivista, al Redattore Capo, Lucia Schiappoli. ! Un riassunto del lavoro in italiano ed un summary in inglese comprendente la traduzione del titolo, della lunghezza max. di 7 righe dattiloscritte dovranno comparire di seguito alla bibliografia. ! I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati in parentesi tonda e consisteranno nel cognome dell’autore, seguito dall’anno di pubblicazione e dal numero della pagina o delle pagine. Per esempio: (Freud 1925, 314). Ove sia necessario evitare equivoci il cognome dell’autore sarà seguito dall’iniziale del nome: (Freud, A. 1936). Importante: Gli autori avranno cura di controllare che ad ogni riferimento bibliografico nel testo corrisponda la relativa voce in bibliografia e che d’altra parte non ci siano voci bibliografiche a cui non corrisponda un rimando nel testo. I lavori di Freud saranno citati in conformità all’edizione Boringhieri e dunque saranno seguiri in bibliografia dalla sigla OSF, seguita dal numero del volume: (OSF, 69) ! La bibliografia generale sarà disposta per ordine alfabetico, secondo i seguenti esempi esplicativi: Gori, C.G. (1992) Parola e interpretazione in psicoanalisi. Franco Angeli, Milano. Se ci sono due o più autori i loro nomi saranno indicati in successione separati da una virgola: Aliprandi, M.T., Pelanda, E., Semse, T. (1990) Psicoterapia breve di individuazione. Feltrinelli, Milano. Se c’è un curatore: Genovese, C. (a cura di) (1988) Setting e processo psicoanalitico. Raffaello Cortina Editore, Milano. Se il lavoro compare in un libro curato da persona diversa dall’autore: Isaacs, S. (1952) The Nature and Function of Phantasy. In: Rivière, J. (Ed.) Developments in Psycho-Analysis. Hogarth Press, London. Se il lavoro è pubblicato in una rivista: Auteri, M.C. (1994) La fusione del detto e del mostrato nell’eruzione del processo maniacale. Psicoterapia Psicoanalitica, 1, 1, 82-93. Le opere in lingua straniera tradotte in italiano saranno indicate secondo gli esempi seguenti: PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003 201 Winnicott, D.W. (1949) Mind and its Relation to the PsycheSoma. Brit. J Med. Psychol. 37, 1954. Tr. it. L’intelletto ed il suo rapporto con lo psiche-soma. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze 1975. Oppure: Winnicott, D.W. (1949) L’intelletto ed il suo rapporto con lo psiche-soma. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze 1975. A ciascun autore verrà messa a disposizione una copia del numero su cui è comparso l’articolo. 202 PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2003