Mosaico

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Mosaico
2014
Marzo
Bollettino
u b t k h n c
Anno 69°, numero 03 • Marzo 2014 • Adàr Rishòn - Adàr Shenì 5774 • Poste italiane Spa • Spedizione in abbonamento • D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n.46) art.1, com.1, DCB Milano - contiene allegati
numero 03
www.mosaico-cem.it
, h s u v h v
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i u t y c
della
Comunità
Ebraica
di Milano
69
da
anni
l’informazione
ebraica
in italia
Quale modello: riflessioni, visioni, emozioni...
Essere ebreo,
essere Comunità
Su cosa poggia l’identità ebraica milanese? che cosa significa “fare comunità”?
essere ebrei è sempre stato difficile: e oggi? un tema al centro di dibattiti, mostre,
libri e...polemiche. e tu? qual è la tua “jewish attitude”? raccontala sul sito mosaico
Attualità / Israele
Migranti 2014: il dilemma africano
di Gerusalemme. Un’inchiesta
Attualità / Italia e memoria
La Giornata Europea dei Giusti:
chi fece il Bene a rischio della vita
Comunità / Vite e destini
Cina, Panama, Australia. Io, ebreo di Milano
e la mia vita dall’altra parte del mondo
numero 03
CATENA
DI AVVENIMENTI
Nella storia del popolo ebraico non esistono la noia o le situazioni banali. Una vita piena di avventure, peripezie, vicissitudini,
opere di ingegno, cambi di paese sono la normalità. Che valore
hanno queste storie?
Un valore immenso perché sappiamo che ogni decisione e atto,
in qualsiasi momento della nostra vita, può cambiare il destino
di un uomo, di altri uomini, di tutto il mondo. Per questo i Lasciti le Donazioni e i Fondi al Keren Hayesod sono la migliore
garanzia che la tua storia sarà la storia di tutti e che il nostro
oggi avrà senso anche domani. Sostenendo tra l’altro progetti
per Anziani e sopravvissuti alla Shoah, Sostegno negli ospedali, Sviluppo di energie alternative,Futuro dei giovani, Sicurezza
e soccorso, e Restauro del patrimonio nazionale.
Tu con il Keren Hayesod
protagonisti di una
storia millenaria
Giliana Ruth Malki - Cell. 335 59 00891
Responsabile della Divisione Testamenti
Lasciti e Fondi del Keren Hayesod Italia
vi potrà dare maggiori informazioni
in assoluta riservatezza
KEREN HAYESOD
Milano, Corso Vercelli, 9 - Tel. 02.4802 1691/1027
Roma, C.so Vittorio Emanuele 173, - Tel. 06.6868564
Napoli, Via Cappella Vecchia 31 - Tel. 081.7643480
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Bollettino
u b t k h n c
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EDITORIALE
Cari lettori, care lettrici,
per il mese di gennaio il “mio antisemita preferito” è
stato, incontestabilmente, Dieudonnè Mbala Mbala
con la sua debauche mediatica, con il suo repertorio di
fandonie antisemite così squisitamente ottocentesche e
il cascame mutuato dai Protocolli, col frasario imbandito
con tocchi nazi-fascistoidi e servito con la tristemente
nota quenelle... Questo mese sul podio del nostro antisemita preferito sale invece il sito web “BDS” (sigla
che sta per Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni),
autentico lerciume internettiano che già in Francia si
era esibito con azioni dimostrative in un supermercato,
organizzando ai danni della malcapitata catena - colpevole di aver messo sugli scaffali prodotti israeliani
-, un’invasione sotto forma di protesta in stile critical
mass (vedi pag. 4). Armati di carrelli e con addosso
una maglietta verde (il colore dell’Islam), con scritto
Boycott Israel - Palestine Vivrà, il gruppo BDS ha invaso
il supermercato parigino e “sequestrato”, in modo dimostrativo, tutti i prodotti Made in Israel, indicando
con grugno feroce succhi di frutta, melograni, pompelmi, pomodori ciliegino provenienti dal Neghev o
dalla zona costiera.., una messa in scena da filmare e
postare subito su You Tube, carrelli rigurgitanti prodotti
cresciuti, secondo loro, su terra palestinese in regime
di Apartheid (sette milioni di arabi sul suolo francese
hanno il loro peso). Nella Terra dei Lumi Spenti, la
Francia appunto, la situazione è ormai così estrema
e allarmante che le richieste di alyià alla Sochnut si
contano per centinaia al giorno, mentre cittadine come
Ra’anana e Nethanya cambiano faccia e oggi parlano
sempre più la lingua di Voltaire. Non stupisce quindi
che ci fosse la firma BDS anche dietro al caso che ha
coinvolto la star Scarlett Johansson, testimonial di un
brand israeliano. Molto aggressivi anche in Inghilterra,
attivisti BDS hanno distrutto gli scaffali di una profumeria di Londra, a Covent Garden, che esponeva
prodotti e creme Ahavà. «Il loro cavallo di battaglia
è il concetto di Apartheid», mi spiega Stefano Gatti
dell’Osservatorio Antisemitismo CDEC. Stefano mi
racconta che è un movimento che nasce dalle ceneri
della Conferenza di Durban nel 2001, costituito da
ONG il cui nocciolo duro è composto da organizzazioni
radicali ed estremiste, anche palestinesi e arabe (ma non
solo), che hanno rispolverato addirittura l’accusa del
sangue contro gli ebrei e i temi più classici dell’antisemitismo. Teniamoli d’occhio quindi, e bravo il Benei
Berith che ha organizzato con perfetto tempismo, il 3
marzo, un interessante convegno proprio sul tema (I
nuovi predicatori dell’odio - libertà di espressione e istigazione
all’odio). Scoraggiarsi non serve: più che resistere, non
ci resta che combattere e la nostra linea del Piave è
non chinare la testa ma far sentire, chiara e forte, la
nostra voce.
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04
•
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della
Comunità
Ebraica
di Milano
Marzo
Prisma
Notizie da Israele, Italia, mondo
ebraico e dintorni.
06
2014
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• Attualità / Israele
Il dilemma africano di Gerusalemme,
una inchiesta di Aldo Baquis
attualità Israele
06
08 • L’altra Israele
Rawabi: la città nuova, di Luciano Assin
09 • Attualità / Europa
Giornata dei Giusti: il Bene non è
un atto di eroismo ma di umana
responsabilità, di Roberto Zadik
10 • Attualità / Italia
attualità Italia
10
Essere ebrei, essere Comunità:
riflessioni, visioni, emozioni...,
di Fiona Diwan e Ester Moscati
14 • Attualità / Personaggi
Ritorno in Lettonia, nel buio
della notte, di Marina Gersony
16 • Cultura / dibattito
cultura dibattito
18
Memoria: che cos’è che manda “fuori
di testa” gli antisemiti, di Mino Chamla
18 • Cultura / intervista
Loewenthal: Il Giorno della Memoria
non riguarda gli ebrei, di Ester Moscati
26 • Cultura / mostre
Eve Cohen, in arte Arnold: la regina
del clic, di Fiona Diwan
28 • Cultura / Città
L’Umanitaria e l’utopia realizzata
di Prospero Moisé Loria, di E. Moscati
cultura mostre
26
35 • Comunità / eventi
Torneo della Memoria
36 • Comunità / storie
Luciana Del Vecchio: “Come la fortuna
ci ha aiutato a salvarci”, di Ilaria Myr
38 • Comunità / persone
comunità persone
38
Io, ebreo di Milano e la mia vita
dall’altra parte del mondo, di Ilaria Myr
40 • Lettere
42 • Piccoli annunci
43 • Note tristi
44 • Note felici
46 • Agenda
48 • Cognomi e parole
In copertina: immagine ed elaborazione grafica di Dalia Sciama. I personaggi sono: Maimonide,
il Mosè di Michelangelo, Golda Meir, David Ben Gurion, Woody Allen e Theodor Herzl.
Bollettino
1
news da Israele, dall’Italia, dal mondo ebraico e dintorni
PRISMA
notizie a cura di Ilaria Myr
In breve
Il Museo di
Auschwitz parla
arabo e farsi
D
opo avere lanciato
le versioni in inglese e spagnolo nel 2010,
il Museo di Auschwitz ha
di recente messo online
il proprio sito in arabo
e in farsi. «Vogliamo
rivolgerci alle persone
che spesso hanno una
scarsa conoscenza di
questo argomento o
che addirittura hanno
tendenze revisioniste
» ha dichiarato il portavoce del Museo Pawel
Sawicki, specificando,
tra l’altro, quanto siano
poco numerose le visite al Museo provenienti
dai Paesi arabi. Oltre alle
versioni in farsi e arabo,
il sito è stato lanciato
anche in spagnolo e portoghese, andando così
ad allargare in modo
importante il bacino di
utenza.
Medioriente / Anche la storia è politica
I
I
n dicembre in Tunisia si era svolta una
conferenza ufficiale
sull’Olocausto degli ebrei
tunisini mentre, in Francia, l’ambasciatore del
Bahrein Nasser Al-Balushi
aveva visitato – primo diplomatico del suo Paese a
farlo - il memoriale della
Shoah a Drancy. Ma, qualche mese prima, in settembre, il ministero degli esteri
iraniano Mohammed Zarif
si era spinto ancora più in
là, dichiarando in un’intervista non solo che “la
Shoah non è un mito”, ma
sostenendo addirittura la
possibilità di riconoscere
lo Stato d’Israele.
Potrebbero sembrare i
primi, timidi segnali di
un’apertura del mondo
arabo e musulmano alla
storia della Shoah del popolo ebraico, fino a oggi
universalmente negata e
sminuita dalle più alte autorità di molti Paesi (vedi
Ahmadinejad). Ma se anche lo fossero, le ritorsioni e i problemi a cui sono
andati incontro in patria i
responsabili di questi gesti
testimoniano chiaramente
quanto la Shoah e Israele
siano ancora un tabù in
questa parte del mondo.
Il ministro iraniano Zarif,
per esempio, sarà processato per avere detto “il riconoscimento di Israele è
una decisione sovrana che
l’Iran dovrebbe prendere”.
Mentre l’ambasciatore del
Bahrein è stato duramente
criticato dal proprio primo
ministro, che ha definito
la visita a Drancy “vergognosa”.
A Colonia risorge il quartiere ebraico medievale
I
Bollettino
Shimon Peres: un
presidente da Guinness
Prime aperture (con ritorsioni)
del mondo arabo alla Shoah
n un giorno lontano, fra il 1267 e il
1349, un certo Samuel Bar Zelig incise il proprio nome sulla bimà della
sinagoga di Colonia: è quello che hanno
scoperto gli archeologi impegnati negli scavi
in una piazza centrale della città tedesca,
in quello che era il quartiere ebraico.
Il graffito di Samuel - probabilmente un
bambino che studiava
nella sinagoga -, insieme ad altre rovine
del tempio e del mikvè, saranno visibili
al pubblico in uno dei
2
Budapest / Il Giorno della Memoria
più affascinanti musei di storia ebraica
antica e medievale, che si estenderà su una
superficie di oltre 10.000 metri quadrati
nel centro di Colonia: qui i visitatori potranno vedere la base originale della bimà,
risalente al 1280, insieme a numerosi altri
reperti, come medaglioni, dadi di avorio,
ossa di animali e quella che gli archeologi considerano la
più antica
iscr izione
in yiddish
su pietra.
Marzo • 2014
l presidente di Israele, Shimon
Peres, è entrato nel Libro dei
Guinness dei primati per avere
tenuto su internet la lezione di educazione civica con il maggior numero di
partecipanti mai avvenuta. La lezione
ha infatti raggiunto 9mila studenti
in tutto lo Stato di Israele ed è stata
tenuta da un ufficio della compagnia
di networking Cisco Systems a Netanya, nel nord del Paese.
Il riconoscimento è stato conferito a
Peres dal funzionario del Guinness
Marco Frigatti, il quale ha spiegato
che l’idea è piaciuta all’organizzazione
“perché combina l’educazione civica,
la tecnologia e un insegnante che ha
visto crescere il suo Paese dalla sua
nascita fino a oggi”. “Per tutta la vita
sono stato piuttosto un allievo - ha
detto Peres ai 9mila giovani che lo
ascoltavano - e adesso provo invidia
verso di voi che siete allievi”.
Il marito della Portman
si converte all’ebraismo
S
i convertirà all’ebraismo Benjamin Millepied, il ballerino
e coreografo francese (e presto direttore della danza all’Opéra
di Parigi) sposato all’attrice Natalie
Portman, da cui ha avuto il piccolo
Aleph. Millepied, che sta svolgendo
un processo di conversione, si è anche
detto “innamorato di Israele”, dove
si è già recato due volte da quando è
sposato con la Portman, nel 2012. I
due si erano conosciuti sul set del film
Black Swan - per il quale Natalie aveva
ricevuto l’Oscar – in cui Millepied
era coreografo e attore.
Marzo • 2014
Ungheria, la comunità boicotta
le commemorazioni del governo
C
ommemorazioni, cerimonie,
restauri di sinagoghe e altri progetti si svolgeranno
durante il corso di quest’anno in
Ungheria, in occasione del 70 anniversario della Shoah nel Paese.
In primavera, poi, dovrebbe aprire
il nuovo Memoriale e centro educativo dedicato alle esperienze dei
bambini durante la Shoah, per cui
è stata stanziata una somma pari a
22 milioni di dollari.
Ma secondo la comunità ebraica
locale si tratta di eventi di facciata,
che «urtano gravemente le sensibilità
dei sopravvissuti». Da qui la decisione dell’Associazione delle comunità ebraiche ungheresi (Mazsihisz)
di boicottare le celebrazioni volute
dal primo ministro Viktor Orban,
del partito Fidesz: una formazione
politica, questa, che pur non essendo
apertamente antisemita, ha sostenuto
un culto della memoria di personaggi
alleati dei nazisti, come Miklós Horthy, il governatore nazionalista che
portò l’Ungheria in guerra a fianco
della Germania di Hitler. E poi che
dire della presenza in Parlamento del
sempre più potente partito di estrema
destra Jobbik (43 seggi
su 386)?
Un atteggiamento, insomma, più che ambivalente, quello del governo,
che da un lato ricorda le
vittime ebraiche, dall’altro, però, non riconosce
la responsabilità delle
autorità ungheresi nello sterminio degli ebrei.
Per questo la scelta del governo di
erigere un monumento in ricordo
dell’invasione nazista ha scatenato
dure reazioni e il boicottaggio delle
celebrazioni. Così facendo, sostiene
la Mazsihisz, «si suggerisce che la
responsabilità per le deportazioni
fosse dei nazisti occupanti, mentre
in realtà le autorità ungheresi del
regime Miklos Horthy collaboravano
pienamente».
A oltre 70 anni festeggiano il Bar-Mitzvà.
Brindano 12 sopravvissuti polacchi
A
vrebbero tanto voluto celebrare il Bar Mizvah e il
Bat Mizvah quando erano adolescenti, ma non avevano
potuto: era tempo di guerra e di
persecuzioni. Non hanno però mai
smesso di volerlo: e finalmente, in
concomitanza con il Giorno della
memoria il 27 gennaio, 12 sopravvissuti polacchi (cinque uomini e
sette donne), tutti oltre i 70 anni,
sono riusciti a coronare il proprio
sogno, con una cerimonia collettiva
celebrata a Haifa.
«A 13 anni ero ad Auschwitz – ha
raccontato uno dei Bar Mizvah – e
non c’era nessuno con cui parlare
di celebrazioni….». «A quei tempi,
avevo nove anni ed ero già solo –
confessa Mordechai -. Non avevo
più i genitori, e quindi che senso
aveva celebrare il Bar Mizvah? Sono
quindi molto eccitato di poterlo fare
oggi». Alla cerimonia, organizzata
dall’associazione Yad Ezer La’Haver, hanno partecipato numerosi
parenti e amici dei festeggiati, in
un’atmosfera di gioia e profonda
commozione.
PRISMA
notizie a cura di Ilaria Myr
Mostra allo Spazio Oberdan fino al 6 aprile
Il sogno poetico di Izis in mostra
N
onostante tra i maestri della fotografia francese
sia probabilmente quello meno noto al grande
pubblico, Izis fu senza dubbio un grande artista,
intenso e poetico, che è oggi possibile scoprire - fino al
6 aprile - a Milano, in una mostra allestita allo Spazio
Oberdan. Organizzata da Provincia di Milano, Fondazione Alinari e Ville de Paris, l’esposizione “IZIS. Il
Poeta della Fotografia” propone una selezione di oltre
140 fotografie, curata dal figlio Manuel Bidermanas con
Armelle Canitrot e la proiezione del film Aperçus d’une
vie (Scorci di vita), a ciclo continuo all’interno dello spazio
espositivo. Un’occasione, questa, di una vera e propria
scoperta dell’intensa attività di questo autore ebreo che,
esiliato da giovane e vittima delle persecuzioni naziste,
ha cercato di trovare riposo nel sogno. Ciò è evidente
nei dieci libri attraverso i quali ha orchestrato il suo
lavoro - tra cui Paris des revês (1950), Grand Bal du printemps
(1951) e Paris des poètes (1977) - nei quali si disegna in
Notizie in breve
L’
ennesima start-up israeliana acquisita da un gigante del mondo digitale: è il caso di SlickLogin, la
start-up israeliana di sicurezza informatica che è stata acquisita da Google.
L’azienda utilizza un sistema che facilita il login ai siti, tramite l’utilizzo di
un suono a bassa frequenza, emesso da
un’App sullo smartphone. Gli utilizzatori possono così avvicinare il proprio
telefono al computer o al microfono di
un tablet, fargli emettere il suono ed entrare così in siti sicuri in modo rapido.
4
Bollettino
Lo sapevate che...?
BDS, una rete per il boicottaggio di Israele
È
riuscito a far esplodere il caso
Scarlett Johansson-Sodastream, che è costato alla nota
attrice ebrea americana il ruolo di
testimonial di Oxfam. Ma questo è
solo l’ultimo dei “successi” ottenuti
dal movimento di boicottaggio contro
Israele BDS (Boycott, Divestment and
Sanctions): una realtà che è riuscita a
diffondere nel mondo la convinzione
che la “lotta palestinese per la giustizia” passi inevitabilmente attraverso il
boicottaggio di Israele in tutti i campi. Media, musica e spettacolo, sport,
economia sono gli ambiti in cui BDS
vanta di avere raggiunto importanti
traguardi - “successi” appunto, come
sono chiamati nella pagina web - nella
delegittimazione e nella
creazione di un freno
all’“entità sionista”. Numerosi sono i musicisti che
si rifiutano di esibirsi in
Israele, come Bono, Elvis
Costello, Carlos Santana.
Ma molti sono anche i personaggi che
esprimono pubblicamente il proprio
sostegno a BDS: fra questi, il cantante
dei Pink Floyd Roger Waters, la giornalista Naomi Klein, il regista Ken
Loach e la scrittrice Arundhati Roy.
Anche sul fronte economico le pressioni
del boicottaggio e della dismissione
hanno fatto non pochi danni: il distributore britannico Cooperative Group,
per esempio, ha interrotto i rapporti
con le compagnie i cui prodotti provengono dalle colonie israeliane. C’è
poi lo sport, con l’annullamento della
visita in Israele della star del basket
Karim Abdul Jabaar, e ovviamente
il mondo accademico, con molte realtà universitarie che boicottano gli
studiosi e le realtà israeliane. Nato nella “società civile” palestinese nel
2005, il movimento Bds
è coordinato dal 2007
dal Comitato Nazionale
Palestinese BDS (Bnc).
Marzo • 2014
radiomontecarlo.net
Google acquista
SlickLogin
filigrana il ritratto di un artista affascinante, segnato
dalla difficoltà dell’esilio e dalla guerra. Nato in Lituania
nel 1911 con il nome di Israël Bidermanas, figlio di un
rabbino, emigra a Parigi a diciannove anni, senza un
soldo in tasca e senza conoscere una parola di francese.
Qui riesce a costruirsi una vita di artigiano-fotografo
che realizza immagini di matrimoni e di battesimi,
ritratti sofisticati e ritoccati. Il nazismo e la guerra,
però, impattano ferocemente sulla sua esistenza. Dopo
i decreti antisemiti del regime di Vichy, è costretto a
lasciare la capitale e a rifugiarsi con la famiglia vicino
a Limoges. Cambia il proprio nome in Izis, ma viene
comunque catturato e torturato dai nazisti. Si unisce
alla Resistenza e torna a Parigi alla fine della guerra.
Prende a frequentare il milieu dei poeti e degli artisti, il
suo modo di lavorare cambia e nel 1949 inizia quella che
diventerà una ventennale collaborazione con la rivista
Paris Match. Muore a Parigi nel 1980.
emergenza profughi: un reportage
attualità / Israele
Da sinistra: in piazza Lewinsky un immigrato
mostra i documenti; una bambina africana
nell'accampamento vicino alla stazione centrale
di Tel Aviv; diverse forme di protesta degli
immigrati; l'ambasciatore dell'Eritrea.
di Aldo Baquis, da Tel Aviv
Migranti 2014: le strade di Israele
si riempiono di profughi in fuga
da povertà, fame e violenza di
regimi dispotici. Pubblichiamo
il primo e dettagliato reportage
sul tema. Un’inchiesta in cui
non ci sono buoni né cattivi,
né tesi prestabilite; ma solo
la fotografia di una situazione
complessa e contraddittoria
Il dilemma africano di Gerusalemme
P
rologo. Odessa, 1892.
La rivista ebraica Pardes
pubblica un testo utopico:
Viaggio nella terra d’Israele
nell’anno Taf-Taf (2040),
nel Terzo millennio. L’autore descrive
uno Stato ebraico moderno, sviluppato fra il Mediterraneo e il Giordano;
tecnologicamente avanzato anche se
basato molto sull’agricoltura. Dispone di un porto, “Ashdot”, con un milione di abitanti, da dove è possibile
imbarcarsi su navi elettriche, oppure
su “torri volanti”, simili a Zeppelin.
Prevale in questo Stato una cultura
ebraica improntata alla tolleranza. C’è
proprietà privata, ma non c’è lotta di
classe: perché, come vuole la Torà,
ad ogni giubileo si provvede alla ridistribuzione della ricchezza. Così, alla
conclusione del XIX secolo, sognava
l’erudito Elhannan Leib Lewinsky.
Tel Aviv, febbraio 2014, Piazza
Lewinsky. Sette del mattino. Alla
Stazione centrale degli autobus di Tel
Aviv c’è già un via vai di persone, di
autobus, di camioncini. In questi rioni
proletari, le ultime tracce dell’ethos
sionista permangono nei cartelli stradali: Via del Ritorno a Sion, Via dei Battaglioni del Lavoro... Un tempo, queste
palazzine in stile Bauhaus portavano
6
Bollettino
di Aldo Baquis, da Tel Aviv
con sé il sapore di un avanguardismo
architettonico europeo. Oggi, quasi
tutte sono fatiscenti, ridicolizzate dagli
sfarzosi grattacieli ben visibili a pochi
chilometri di distanza, nel centro degli
affari di Tel Aviv.
Ogni due passanti, uno proviene
dell’Africa: per lo più da Sudan o
Eritrea. Nel Giardino Lewinsky - dedicato proprio all’erudito utopista di
Odessa di cui parlavamo nel prologo -,
dopo una notte all’addiaccio, sdraiati
su cartoni, stesi in gruppo sotto strati
di coperte, alla vista dei primi raggi del
sole, decine di migranti cominciano a
stendersi le membra. Qualcuno prepara una colazione di fortuna. Su una
palma sventola la bandiera dell’Eritrea. Nelle ultime settimane i 50-60
mila africani in Israele, da singoli
migranti impegnati a restare a galla,
si sono trasformati in un movimento
organizzato. Al grido di “Siamo profughi, non criminali”, hanno organizzato
manifestazioni di massa di fronte ad
ambasciate, nella Piazza Rabin di Tel
Aviv, alla Knesset. Adesso le agitazioni
proseguono con un picchetto ad oltranza nella Piazza Lewinsky, contro
la decisione del governo di allestire
per loro un Centro di accoglienza
forzata, a Holot, nel Neghev. «Sarà
di fatto una prigione», denunciano.
Sono decisi a lottare. In anni passati,
quando intrapresero il grande balzo
dall’Africa verso Israele, passando per
Sudan ed Egitto, la prima parola del
nuovo Paese che avrebbero imparato
era appunto ‘Lewinsky’. Perché una volta entrati in Israele dal Sinai, i militari
li avrebbero caricati su autobus diretti
alla Stazione centrale di Tel Aviv. A
due passi da lì, Piazza Lewinsky era - o
almeno doveva essere -, il capolinea
della loro odissea.
Gerusalemme, gennaio 2014, Ufficio Stampa Governativo. Di fronte
a un gruppo di cronisti stranieri, il funzionario governativo israeliano illustra
con pazienza i termini del “dilemma”
dei migranti africani: Israele, spiega, si
trova in condizioni particolari, perché
è l’unico Paese occidentale raggiungibile via terra dall’Africa e perché non
ha Paesi confinanti con cui assorbirli.
I migranti, aggiunge, non possono essere considerati in blocco come profughi: sia perché hanno attraversato
diversi confini prima di raggiungere
Israele, sia perché la loro composizione sociologica (per lo più uomini, di
età compresa fra i 20 e 40 anni), lascia
intendere che sono giunti non tanto
perché perseguitati ma perché in cerca
di lavoro. Dopo aver vagliato migliaia
Marzo • 2014
di richieste di asilo, solo due sono state
finora riconosciute tali da garantire lo
status di “profugo politico”.
Israele si sente comunque vincolato
dalla Convenzione sui Profughi del
1951. Dunque non sarà espulso chi
rischia la vita se fosse forzato a tornare
nel Paese di origine: ad esempio il Sudan, che si considera in stato di guerra
con Israele, o l’Eritrea, dove vige un
regime talvolta bollato come dispotico.
Eppure Israele non vuole certo che essi
mettano radici: perché, se lo facessero,
esiste il timore che dal continente africano giungerebbe allora una grande
ondata migratoria che altererebbe per
sempre il carattere del Paese.
Che fare? Dopo una legge anti-asilo
che è stata trovata incostituzionale (settembre 2013) dalla Corte Suprema di
Gerusalemme, la Knesset ne ha approvata un’altra (dicembre 2013), concepita per convincere i migranti che il
loro futuro non è in Israele. Non possono lavorare, né spedire fondi all’estero. Da febbraio, gradualmente, i primi
1700 saranno ospitati nel Centro di
accoglienza di Holot, nel Neghev, dove
riceveranno vitto e alloggio. I cancelli
sono aperti, ma occorre presentarsi
ai guardiani tre volte al giorno. Chi
cerca di esimersi, rischia il carcere. A
meno che, spiega il funzionario, non
accetti la opzione del “Terzo Paese”:
ossia un Paese africano disposto ad
accoglierli (avendo ricevuto da Israele
ingenti aiuti, la cui natura non viene
precisata). Nel 2013, tremila migranti
hanno fatto ritorno “spontaneamente’’
in Africa. Altri 700 hanno seguito il
loro esempio a gennaio, ricevendo da
Israele un bonus di 3.500 dollari per
adulto. «Alla lunga, i migranti devono
comprendere che quella è l’unica via
di uscita», conclude il funzionario.
Tel Aviv, febbraio 2014, Ambasciata di Eritrea. Tesfamariam
Tekeste Debbas è un diplomatico dalla
voce suadente. Avendo partecipato alla
lotta per l’indipendenza dell’Eritrea,
vede somiglianze fra il suo Paese ed
Israele. La sua è una piccola Nazione,
circondata da Paesi ostili, che l’hanno
Marzo • 2014
obbligata a vivere un lungo periodo di
emergenza e di mobilitazione. Il programma del Servizio Nazionale può
essere visto come una imposizione,
ma è necessario alla sopravvivenza.
E la marcia verso la democrazia è
ragionevolmente cauta perché forze
esterne (ad esempio i Fratelli Musulmani), vorrebbero scardinare le etnie
del suo Paese, innescare conflitti fra
cristiani e musulmani. Le Ong occidentali, lamenta, certe cose proprio
non le vogliono capire.
Quando, nel 2006, l’immigrazione
di eritrei in Israele era un fenomeno
limitato, poteva essere gestito. Ma allora, lamenta, egli non venne ascoltato
dal governo di Gerusalemme. Adesso gli eritrei in Israele sono 35 mila:
non sono profughi, ammette, cercano
solo una emancipazione economica.
Adesso però non è più possibile rimpatriarli in massa: il suo Paese non
ha le strutture necessarie. Che fare?
Innanzi tutto, rispettare i loro diritti umani, non umiliarli. L’ipotesi del
“Terzo Paese”? Ne ha sentito parlare.
Qualcuno indicava l’Uganda come
possibile stazione di arrivo. Ma i dirigenti ugandesi, a quanto gli risulta,
negano di aver mai promesso di accogliere migranti africani provenienti
da Israele. È vero che migranti che
tornassero in Eritrea rischierebbero
il carcere, perché “disertori”? O anche la morte? L’ambasciatore sgrana
gli occhi, incredulo che enormità del
genere possano essere prese in seria
considerazione.
Tel Aviv, febbraio 2014, rione Florentin. «Io in Eritrea non ci torno in
nessun caso», dice Aron. «Chi scappa
dall’Eritrea è considerato, in patria,
un criminale. Rischia anche la pena
di morte». Laureato in geografia, 28
anni, con un passato movimentato nel
suo Paese. Costretto dal regime ad insegnare per un anno in una zona di
confine, Aron ha conosciuto il carcere.
È riuscito a scappare dopo una colluttazione con una guardia, ha marciato
per 150 chilometri per raggiungere il
Sudan. In Egitto è stato attaccato da
energumeni razzisti. Ha attraversato
il Sinai e spera (sperava) di aver trovato quiete in Israele. Invece adesso «ci
cacciano per strada come bestie selvagge». Anche Aron rischia di essere
caricato su un autobus e condotto nel
Centro di accoglienza di Holot. Là lo
attenderebbe un anno di ozio forzato.
E poi? Un altro anno ancora, finché
non decidesse insomma di lasciare
“spontaneamente” Israele.
Nel frattempo, in Piazza Lewinsky la
collera monta. Le proteste sono sempre più radicali. Sporadicamente, migranti sono stati coinvolti in violenze:
negli uffici dell’immigrazione a Rishon
le-Zion e nella sala-pranzo di Holot.
Nel carcere di Saharonim, i dirigenti
della protesta hanno osservato uno
sciopero della fame di 18 giorni.
Ma nelle strade vicine a Lewinski,
fra i sempre più rari “nativi” israeliani rimasti, c’è un senso crescente
di frustrazione. Nei loro condomini,
la percentuale dei migranti è salita
rapidamente. Avidi padroni di casa
stipano gli appartamenti con dieci,
venti africani. Sovraffollamento, rumore, sporcizia dilagano. E anche un
senso di impotenza. «Gruppi di africani mi intimidiscono per strada, mi
dicono di ‘Tornare in Russia’. Quegli
sfrontati mi chiedono perfino quanto
prenderei all’ora per prestazioni sessuali», lamenta Esty, una sessantenne
con i capelli a spazzola e una treccina. È nata a Tel Aviv, ama la città,
ma non ci si ritrova più. Il sabato,
quando i negozi sono chiusi, è l’unica
israeliana in strada. Non si avventura più da sola: “come una bambina
di 10 anni”, vuole allora essere accompagnata. «Un giorno, mi dicono gli africani, anch’io me ne dovrò
andare, questo quartiere sarà tutto
loro…». In questi rioni gli israeliani
si stanno organizzando in vigilantes
e in comitati di azione. L’atmosfera
è carica di elettricità velenosa: anche
una scintilla rischia di innescare una
brutta reazione a catena. Se visitasse
oggi la piazza a lui dedicata, l’utopista
Elhannan Leib Lewinsky, proverebbe
c
una dolorosa fitta al cuore.
Bollettino
7
attualità / I ta l i a
l’altra israele
di Luciano Assin, dal Kibbutz Sasa
O
ttimisti si nasce e io,
modestamente, “lo
nacqui” tanto per parafrasare una famosa
frase di Totò. Del resto
anche Jovanotti ci dice di “pensare
positivo” così che ogni settimana
mi do da fare per trovare qualche
spunto interessante che non faccia
che rafforzare il mio irrimediabile
ottimismo. E devo dire che gli argomenti non mancano, anzi. È il caso
di Rawabi, la nuova città palestinese
in fase di costruzione avanzata, situata all’interno dell’Autorità Palestinese a pochi minuti di macchina da
Gerusalemme, Nablus e Ramallah.
Rawabi è una città completamente nuova, la prima città palestinese
pianificata fin nei minimi particolari
completamente in antitesi con i conglomerati di case e la confusione che
caratterizzano gli altri centri abitati.
La nuova città è progettata per ospitare 40 mila abitanti, prevalentemente accademici, liberi professionisti e
ceto medio. I prezzi sono decisamente abbordabili, 60 mila euro per un
appartamento di 115 metri quadri,
una cifra ridicola rispetto ad un
medesimo appartamento in Israele.
Nonostante il target sia soprattutto
composto da una famiglia composta
da genitori e tre figli, una fetta non
indifferente degli appartamenti, il
13 per cento, è stato acquistato da
single, in prevalenza donne con un
alto livello di istruzione.
Sta nascendo un nuovo centro palestinese
moder no, funzionale, pianificato nei
dettagli per diventare la capitale dell'hitech. Contro la rassegnazione fatalista
Il 6 marzo è la
Giornata Europea
dei Giusti. Diverse
iniziative a Milano
Rawabi: la città nuova
Il Bene non
è un atto
di eroismo
ma di umana
responsabilità
di Luciano Assin
Il promotore di un progetto così ambizioso è Bashar Masri, multimilionario palestinese in società con una
società edilizia di Doha, la capitale
del Qatar. Si parla per il momento
di un investimento di 850 milioni
di dollari destinato a crescere con
l’aumento della domanda. La parte
più interessante di tutto il progetto
è costituita dalle migliaia di posti di
lavoro che un’iniziativa del genere
produce.
Il circondario di Rawabi è composto da villaggi con un livello di vita
decisamente basso anche per gli
standard palestinesi, i nuovi posti di
lavoro non faranno che aumentare il
tenore di vita e indirizzare la società
palestinese verso un’economia più
moderna e imprenditoriale, l’unica
vera alternativa al fanatismo religioso e alla rassegnazione di chi considera il proprio destino immutabile
e predeterminato, o come si dice da
queste parti “maktub”.
Uno degli obiettivi più ambiziosi della nuova città è quello di diventare
la capitale dell’Hi Tech palestinese
sfidando così l’egemonia israeliana
nel settore. Se queste sono le nuove
guerre da combattere ben vengano.
Ottimista dicevo prima, ma anche
realista. Un’iniziativa del genere
non poteva non essere ostacolata
dalle procedure burocratiche e dalla politica. Gli ostacoli principali
da affrontare e da risolvere sono
sostanzialmente due: la costruzione
di una strada a scorrimento veloce
che colleghi Rawabi con Ramallah
e Nablus, e l’allacciamento alla condotta idrica palestinese. Entrambi
i progetti devono in parte passare
nella zona C, territorio sotto il pieno
controllo israeliano, ed il fatto che
non si sia ancora trovata una soluzione a dei problemi relativamente
semplici la dice lunga sulla volontà
politica dell’attuale governo.
Rawabi, “colline” in arabo, è il nuovo volto della realtà palestinese. Una
realtà moderna, dinamica e giovane.
È il volto di una borghesia sempre
più vicina ai valori occidentali, una
borghesia da incoraggiare e sulla
quale puntare. La politica passa
obbligatoriamente per l’economia,
e chi ha tanto da guadagnare ha
poca voglia di perdere. Il successo
di Rawabi sarà anche il successo di
chi ancora crede in una soluzione
ragionevole e soddisfacente del conflitto in corso.
Inguaribile ottimista, l’ho già detto
c
per caso?
Marzo • 2014
«E
di Roberto Zadik
cco il segreto dei
Giusti: la responsabilità come ultimo
baluardo della propria dignità, quando
l’Umanità ha perso la bussola e ogni
riferimento morale». Così dice Gabriele Nissim, presidente di Gariwo,
artefice e maestro di cerimonie della Giornata europea dei Giusti, il 6
marzo, giunta alla sua seconda edizione. Diverse le iniziative di grande
spessore che si tengono fra Milano e
Roma, realizzate in stretta collaborazione con Gariwo e per la prima
volta quest’anno con la Comunità
ebraica milanese. Il vicepresidente
Daniele Cohen ha sottolineato così
la propria soddisfazione: «Tenevamo
molto a questa collaborazione e ne
abbiamo parlato con Gabriele Nissim. È fondamentale specialmente
per le giovani generazioni far capire
l’importanza del Bene, e non solo il
ricordo del Male compiuto dagli uomini, avvicinandole in questo modo
alla storia di ciò che è stato. Il Consiglio ha aderito a questa iniziativa
con attenzione e sensibilità e ne sono
molto contento».
A Milano, il programma del 6 marzo
prevede la piantumazione di nuovi
alberi dedicati ai Giusti, (ore 11.00,
Marzo • 2014
Giardino dei Giusti al Monte Stella)
alla presenza del sindaco di Milano
Giuliano Pisapia, di Gabriele Nissim, Giorgio Mortara, Consigliere
Ucei, del console armeno in Italia
Pietro Kuciukian e dei famigliari dei
Giusti. Primo fra i nomi, anche in
ordine di celebrità internazionale,
Nelson Mandela, scomparso recentemente, ex presidente sudafricano
che si è battuto tutta la vita contro
apartheid e discriminazioni razziali nel suo Paese; Angelo Giuseppe
Roncalli, meglio conosciuto come
Papa Giovanni XXIII che, quando
era delegato apostolico, ha protetto
gli ebrei a Istanbul e che successivamente, col Concilio Vaticano II,
riformò la visione della Chiesa riguardo agli ebrei; Beatrice Rohner,
che diede rifugio ai bambini armeni
in Turchia; Giuseppe Sala, Fernanda Wittgens e don Giovanni Barbareschi che hanno aiutato gli ebrei
durante la Shoah.
In serata invece, spazio alle note
con “Musica per la gratitudine”,
concerto che si è tenuto nella prestigiosa cornice di Palazzo Marino
con diversi strumentisti importanti,
come il Maestro Gaetano Liguori.
Spostandosi verso la Capitale, a
Roma, poco prima, il 3 marzo, la
Camera dei Deputati aveva ospitato il convegno “Giusti dell’umanità.
Memoria del bene e prevenzioni dei
genocidi” (ore 15.00, Sala del Mappamondo), a ridosso della presentazione
della proposta di legge per istituire la Giornata della memoria dei
Giusti dell’umanità. L’incontro ha
coinvolto una serie di personalità di
spicco. Fra queste Marina Sereni,
vicepresidente della Camera, Mario
Giro, sottosegretario Affari Esteri, il
deputato Emanuele Fiano, il senatore Gabriele Albertini, Liliana Picciotto dela Fondazione Cdec, il giornalista del Corriere Antonio Ferrari e
il professore universitario Marcello
Flores. A introdurre l’iniziativa c'era
l’Onorevole Michela Santerini, che
a proposito della Giornata ha messo
Il Sindaco Pisapia al Giardino dei Giusti di Milano
in evidenza il significato universale
del ricordare la memoria del Bene,
comune ai Giusti della Shoah, valorizzandone l’importanza. Senza nulla togliere all’unicità della tragedia
ebraica, ma trovando nei Giusti del
mondo, anche se molto diversi tra
loro, il paradigma della capacità di
opporsi alle atrocità, di dire no davanti al Male. «La proposta di legge
italiana - ha aggiunto - è uniformata
a quella europea e intende istituire il
ricordo del Bene, e delle persone che
si sono battute contro i totalitarismi,
nelle scuole e nelle istituzioni, con
iniziative culturali in questo senso».
Riguardo all’iniziativa si è espressa anche la regista teatrale Andreè
Ruth Shammah, che ne è stata fra
le sostenitrici. «Ci sono molte manifestazioni in merito perché molte
persone della nostra epoca tendono
a vivere senza spessore e mancano
racconti di storie che possano costituire un modello. I media valorizzano tutto il negativo e mai il positivo,
mentre è importante rimarcare il fatto che nell’uomo c’è anche il Bene
e non è per forza un gesto di eroismo. Recentemente - ha continuato
la Shammah - ho letto un’intervista
a Giorgio Perlasca che ha risposto
di aver fatto solo il suo dovere. Bisogna ricordare il Bene e non solo
le atrocità e ci dovrebbero essere,
come per il Giorno della Memoria,
più Giornate dei Giusti e non solo
una. È molto importante esaltare il
Bene, specialmente in un’epoca in
cui qualcuno nega quanto è accac
duto».
Bollettino
9
mostre, voci, incontri sull’identità ebraica
attualità / Italia
Da sinistra: Joseph
Sassoon, Yoram Ortona,
Ester Silvana Israel,
alcuni dei "milanesi"
fotografati di Peter
Rigaud. Poi le viennesi
Denise Kandel e Sabine
Schwitz.
Essere ebrei, essere Comunità:
riflessioni, visioni, emozioni...
Su che cosa poggia l’identità ebraica milanese? Che cosa significa fare
Comunità? Essere ebrei è sempre stato difficile: e oggi? Un tema al centro di
dibattiti, mostre, libri, conferenze e... polemiche. Dite la vostra sul sito Mosaico
e raccontate: “Sono ebreo perché...”. I più bei post verranno pubblicati su
queste pagine
di Fiona Diwan e Ester Moscati
L
o Stato di Israele è nato da
10 anni e il primo ministro
David Ben Gurion si trova
di fronte a un grave problema, che può cambiare il futuro del
giovane Paese. La Legge del Ritorno,
promulgata dalla Knesset nel 1950,
è per certi versi in contrasto con la
Halakhà, laddove consente di diventare cittadino israeliano anche a chi
abbia relazioni parentali con ebrei, al
di là della discendenza matrilineare.
Nel luglio del 1958 una commissione
governativa viene investita del
compito di decidere in merito
all’iscrizione allo stato civile
dei figli di matrimonio misto.
Questo è fonte di discussioni,
polemiche, dolorose lacerazioni. Perché in Israele c’era, e c’è
tutt’ora, un vuoto giuridico,
un vulnus, nella legislazione
dello Stato, che ha delegato alcune
questioni, il matrimonio ad esempio,
alle autorità religiose, tagliando fuori
tutto ciò che altrove è materia “civile”, laica, secolare. Così Ben Gurion
prende una decisione: interpellare 50
saggi d’Israele, cui porre la domanda
10
Bollettino
“Che cosa significa essere ebreo?”.
Grazie a Proedi, all’Ucei e all’Associazione Hans Jonas, oggi possiamo
leggere le risposte dei Saggi (Eliezer
Ben Rafael, Che cosa significa essere ebreo?
50 saggi rispondono a Ben Gurion, Proedi editore, ebook gratuito sul sito www.
proedi.it). E sono risposte plurali,
complesse, che testimoniano di un
universo ebraico fatto di tradizioni
diverse, sensibilità, storie e stili di
vita a volte molto contrastanti, che
tuttavia hanno un comune denominatore: l’orgogliosa, pervicace
rivendicazione della propria
identità. “Io sono ebreo”. Le
voci sono quantomai autorevoli, e David Ben Gurion ha
il merito, inconsapevole, di
aver travalicato la necessità
contingente del suo quesito
per fornire, anche a decenni
di distanza, un compendio variegato
e di rara profondità per la riflessione
sul tema dell’identità ebraica, in tutte
le sue declinazioni.
La spinosa domanda è stata anche al
centro del progetto, che oggi è una
mostra fotografica, Essere ebrei / un
progetto sull’identità ebraica, del fotografo
austriaco Peter Rigaud, oggi a Palazzo Sormani, organizzata grazie
alla Biblioteca Comunale Centrale
di Milano e il Forum Austriaco di
Cultura. Nato nel 2011 in collaborazione con il Museo Ebraico di Vienna,
Essere ebrei è un progetto che racconta
l’identità ebraica attraverso una serie
di ritratti e che viaggia attraverso l’Europa continuando ancora a crescere.
Chi sono gli ebrei? Su cosa si fonda
l’identità ebraica individuale? Sulla
base di queste domande il fotografo ha
intervistato e ritratto alcuni modelli,
chiedendo poi a loro di indicare un’altra persona da fotografare. Il progetto
si è così sviluppato attraverso una serie
di dittici, che si moltiplicano di città
in città. I pannelli esposti presentano
a sinistra la persona intervistata (ego) e
a destra l’altra persona (l’alter ego). Un
concetto che ha permesso alla serie
di crescere in maniera imprevedibile,
lasciando emergere storie, intrecci,
spaccati di vita, voci, assolutamente
sorprendenti. Tra i milanesi prescelti
per i ritratti di Peter Rigaud ci sono
Joseph Sassoon, che ha indicato come
Marzo • 2014
alter ego Yoram Ortona, e Ester Silvana Israel che ha segnalato il marito,
Enrique Konigsman.
Ma di che cosa parliamo quando
diciamo Io sono ebreo? Risponde per
primo Joseph Sassoon: «Sono ebreo
perchè mi sento parte di una storia e
di un destino. Sentire di appartenere
a un popolo con uno spirito molto
speciale. Sentire un legame profondo
con una religione e una lingua. Sentire che quando sono in Israele sono a
casa mia. Sentirmi immediatamente
vicino ad altri ebrei incontrati per
caso, magari di Paesi molto lontani.
Sentire che non potrei essere altro.
Questo è per me l’identità ebraica.
E una ulteriore dimensione di questa identità è il desiderio che i miei
figli proseguano nel cammino della
vita come parte di Am Israel, e così
i miei nipoti e le generazioni future.
Comunità e identità sono poi legate
da un vincolo importante. Un legame
che nel corso della mia vita è stato
soggetto ad oscillazioni, a volte più
forte, altre meno. Penso che nella diaspora sia molto importante mantenere
il legame con la Comunità perché
aiuta proprio a mantenere l’identità.
Anche se non penso che il sentirsi
“fuori luogo”, “erranti”, sia una condizione necessaria dell’essere ebreo.
In Israele, mi sento a casa, mentre in
Italia sento comunque il legame con
Israele. Lo “spaesamento“, quando
c’è, è determinato dalle condizioni
storiche cui il popolo ebraico è stato soggetto, non da qualcosa insito
nell’anima ebraica. In Israele questa
tensione, quando c’è, può finalmente
trovare pace. È stato piacevole fare
parte di questo progetto fotografico,
penso che il fotografo Peter Rigaud
Marzo • 2014
sia riuscito a cogliere i tratti peculiari
e differenti di ciascuno. Ho segnalato
Yoram Ortona per la sua passione,
per l’entusiasmo e la generosità con
cui vive la sua identità». La parola
quindi Ortona: «Che cosa significa
per me essere ebreo? Penso che la
mia identità ebraica, andando avanti
negli anni, si sia rafforzata, proprio
come senso di appartenenza ad un
popolo antico, complesso, variegato
eppure moderno. Con una sua lingua,
riscoperta nella quotidianità dopo
secoli, grazie a Ben Eliezer, e la sua
terra. L’identità ebraica è per me la
percezione spirituale e sentimentale di
una tradizione religiosa e del legame
- fortissimo - con la terra dei Padri.
Legame oggi rafforzato, reso più saldo
dal fatto che mio figlio ha scelto di
vivere in Israele. Anche se, va detto,
io non sono cittadino di quello Stato,
e mi sento cittadino italiano - pur
essendo nato a Tripoli, la mia famiglia era italiana da secoli, mio nonno
ha combattuto nella Prima Guerra
Mondiale, e io sono impegnato attivamente nella società italiana -; ma
l’amore verso Israele resta fortissimo.
Penso inoltre che la crisi che l’Italia
e l’Europa stanno attraversando, non solo economica ma soprattutto
di valori -, abbia rafforzato in me
l’appartenenza ebraica, con tutto ciò
che comporta proprio in termini di
valori. Non potrei mai rinunciare alla
mia identità e neppure a Israele. L’atmosfera che si respira oggi in Europa, con la rinascita di nazionalismi e
dell’antisemitismo in Francia, Belgio,
Ungheria, Ukraina... mi fanno vedere
sempre di più Israele non come un
rifugio, ma come una meta ideale. È
un paese antico e moderno insieme e
il mio rapporto con Israele mi rende
più sicuro anche come ebreo italiano, più libero di manifestare la mia
identità. Si fa fatica, oggi, a vedere il
futuro dell’Europa, alla quale pure la
civiltà ebraica ha dato tanto. I padri
fondatori di Israele venivano da qui,
il legame c’è ed è forte, ma oggi la
situazione è davvero grave. Gli ebrei
fuggono dalla Francia, è terribile...
Per me e per mia moglie è stato importante trasmettere ai nostri figli la
tradizione e l’identità ebraica, anche
se li abbiamo lasciati liberi di seguire
la loro strada. Ciascuno ha scelto il
proprio percorso e sono entrambi legati al nostro popolo. Poi, sono stato
segnato profondamente dalla fuga
da Tripoli, a 14 anni. Negli anni,
anche con l’impegno nelle istituzioni
ebraiche, in Comunità e all’UCEI, la
mia identità ebraica si è sempre più
consolidata. Nel ’67, durante la guerra
dei sei giorni, fu chiesto a David Ben
Gurion: che cosa significa essere ebrei? La
risposta: Essere ebrei significa chiedersi
ogni giorno che cosa significa essere ebrei.
Ho partecipato alla mostra Essere
ebrei del pittore Peter Rigaud grazie all’amico Joseph Sassoon, che
ha indicato il mio nome e gli sono
riconoscente. Il fotografo è riuscito a
cogliere, in ogni ritratto, i sentimenti
di stima, affetto, memoria, amicizia
che legano i soggetti dei dittici».
Ester Silvana Israel Konigsman
«I miei nonni o, meglio ancora, i miei
bisnonni non avrebbero avuto nessuna esitazione nel rispondere a questa domanda. Per loro la definizione
dell’identità ebraica era in qualche
modo automatica. Erano ebrei perché
i loro genitori erano ebrei, perché i
loro amici erano ebrei e la
Bollettino
11
>
mostre, voci, incontri sull’identità ebraica
attualità / Italia
> società attorno a loro li riconosceva
come ebrei. In qualche modo posso
applicare anche a me stessa quella
definizione perché sia mio padre che
mia madre appartenevano a due famiglie ebraiche molto tradizionali e
hanno trasmesso a me e mio fratello
tutto il loro sistema di valori che non
poteva che essere ebraico.
Altro è definire l’identità ebraica.
Intorno a questo tema si sono svolti
innumerevoli convegni e scritti centinaia di volumi. La nascita dello
Stato di Israele e le problematiche
dell’epoca post-moderna arricchiscono
il panorama del dibattito che mai
si è esaurito. La mia scelta è stata,
ed è, quella di cercare di dare dei
contenuti all’ebraismo che mi è stato
trasmesso, consapevole di essere parte
di un Popolo dalla storia millenaria».
Vita ebraica e Comunità
Ma che cosa deve e può fare la Comunità come istituzione per gli ebrei,
perché possano mantere la propria
identità nella vita - ebraica - quotidiana? Lo chiediamo a Rav Alberto
Somekh, autore tra l’altro del libro
Essere Comunità (Morashà).
«Nel recente scambio di opinioni tra
Sanino Vaturi e Walker Meghnagi ho
visto il ripetersi di una controversia,
riportata nelle fonti rabbiniche, su
quale linea debba prevalere nella direzione di una Comunità. È il concetto
di Rov, maggioranza, che ispira le
scelte e le decisioni della vita ebraica.
I poli sono però rappresentati da due
termini che in ebraico sono quasi
un gioco di parole: Minian e Binian.
Minian è letteralmente “numero”,
mentre Binian significa “costruzione, struttura”. Esiste un rov minian e
un rov binian, cioè una maggioranza
numerica e una maggioranza della
struttura, una sorta di maggioranza
“qualitativa”. Possiamo infatti definire
Minian l’insieme degli ebrei che sono
iscritti alla Comunità, a prescindere
dal loro orientamento; mentre Binian
è quello che banalmente chiamiamo
“lo zoccolo duro”, quelli che si impegnano nella vita ebraica comunitaria.
Quale sia la maggioranza che debba
12
Bollettino
Da sinistra: Rav Roberto Della Rocca,
Haim Baharier, Donatella di Cesare,
Rav Alberto Somekh.
prevalere è questione aperta. È evidente che senza il minian, il “numero”,
la comunità non si regge; ma d’altra
parte, anche senza la “struttura” una
comunità non ha futuro. È imperativo
che si trovi un modus vivendi tra le
due componenti, e la comunità deve
capire in quali campi deve prevalere
il rov minian e in quali il rov binian.
Insomma, dare a ciascuno il suo. È
difficile a volte decidere, può essere
indisponente verso una parte; per
esempio, sulla questione della kashrut,
secondo me, deve prevalere il rov binian. Altrimenti, per non scontentare il
“numero”, si punisce chi veramente è
interessato a un servizio fondamentale
per gli ebrei. Il rov minian può invece
essere seguito per tutte le questioni
che riguardano la rappresentanza
dell’ebraismo verso l’esterno.
C’è un terzo tipo di tematica comunitaria in cui il rov minian e il rov binian
possono confliggere, ed è la gestione
delle istituzioni comunitarie come la
casa di riposo. Qui va assolutamente
cercata la mediazione. Nel capito V
dei Pirké Avoth è scritto: “Qualsiasi
controversia in nome del Cielo è destinata a mantenersi”. Che cosa significa? Propendo per l’interpretazione
letterale: la discussione va mantenuta
aperta. È sano il dibattito, la ricerca
di soluzioni condivise, quando ognuno
porta la propria visione delle cose con
lo spirito di arricchire l’altro e non di
sopraffarlo. La Comunità vive delle
due posizioni.
Ma può un ebreo vivere senza comunità? No, non può. Anche se oggi le
spinte in questo senso sono fortissime
e l’idea stessa di Comunità è in crisi,
non solo in Italia. In un mondo globalizzato, la reazione paradossale è
quella che gli individui si ripiegano
sempre di più verso se stessi. È vitale che la Comunità sappia proporsi,
andare incontro agli ebrei, senza dimenticare le proprie fonti ispiratrici,
contro le scelte isolazioniste che ci
sono sia tra i laici, sia tra gli osservanti. La sfida per la Comunità è
quella di contemperare il rov minian
e il rov binian, per il bene di tutti».
Identità: riflessioni di
Haim Baharier, Roberto
Della Rocca, Donatella
di Cesare
Sul tema dell'identità ebraica c'è stato
anche un recente e vivace dibattito
di Kesher, condotto da rav Roberto
Della Rocca, alla Residenza Arzaga,
ospiti lo studioso di Torà Haim Baharier e la docente di filosofia teoretica
all’Università di Roma, Donatella
di Cesare. «Difficilmente troviamo
nella Torà una definizione dell’essere
ebreo. Alla domanda: e tu chi sei?, il
profeta Giona risponde “io sono ebreo,
yvrì anochì, e temo il Signore del cielo e
della terraferma”. Ecco: questa è l’unica
volta che troviamo nel Tanach una
risposta di qualcuno che definisce se
stesso in quanto ebreo», spiega rav
Della Rocca. «Oggi, non nascondo di
essere un po’ preoccupato. Mi trovo
a registrare, con un certo sconforto,
che sempre più, gli unici protagonisti
della discussione interna e forse i soli
vettori dell’identità ebraica sono, ahimè, tematiche come la celebrazione
della Shoah e l’ostentazione retorica
dello Stato di Israele. Sicuramente
due temi forti, importanti, che non
lasciano indifferente nessun ebreo,
che fanno leva sui sentimenti e il vissuto di ognuno di noi. La Shoah è il
dolore della memoria, è la paura del
suo ritorno, ma è anche un tema che
troppo spesso contribuisce a lavare
le coscienze di coloro che ritrovano
il loro ebraismo solo pochi giorni
all’anno, di quelli che si commuovono
per ciò che è stato, dimenticandosi
del corpo vivo dell’ebraismo, di tutto ciò che ancora l’ebraismo è, qui
e ora. Finendo così per consegnare
la responsabilità di una vita ebraica
“militante” e attiva a mani altrui,
Marzo • 2014
visto che è molto più difficile costruire
una vita ebraica giorno dopo giorno
che non rimpiangere ciò che altri
hanno tentato di distruggere. E che
dire di Israele? Un sogno per tutti,
certo. Una speranza, ovviamente.
Una contraddizione. Ma anche una
spada per coloro che lo trasformano
in un’arma a sostegno di battaglie
ideologiche e strumentali. Israele senza se e senza ma, Israele nonostante
tutto, dicono alcuni. Ma troppi di
noi hanno costruito proprio dietro
a questi temi una identità ebraica
povera, senza preoccuparsi di capire
e di studiare, senza consapevolezza,
senza umiltà. Finendo così per generare una identità fragile e fratturata,
facilmente sovrastabile dal contesto
circostante che con la forza di uno
tsunami può annullarla. Mi spiace,
ma non bastano cerimonie commemorative, un viaggio ad Auschwitz,
una testimonianza, per sentirsi ebrei.
Non basta inneggiare ad Israele senza sforzarsi di conoscerne la storia,
la lingua, la cultura, la letteratura,
i dibattiti, le yeshivot, i kibutzim...
Non basta parlare a vuoto di “etica
ebraica”, come se fosse una coppa
riposta in una bacheca, come fosse
un trofeo impolverato da sbandierare quando ormai, da ebrei in via
di assimilazione, ci ricordiamo distrattamente chi siamo e da dove
veniamo. Queste sono scorciatoie
identitarie, un pret-a-porter ebraico
facile da indossare e a poco prezzo.
Ecco perchè la Comunità dovrebbe
essere il luogo vivo dove tutti vanno a
cercare dialogo e consiglio», dichiara
rav Della Rocca, con una riflessione
ampia, accorata, che tira in ballo
quello che molti considerano essere
l’identità ebraica contemporanea. E
prosegue: «Oggi molti si sentono ebrei
solo se si tira in ballo l’antisemitismo.
E così ci si sente ebrei solo davanti
al pericolo, solo se in presenza di
una sindrome di accerchiamento:
Marzo • 2014
(“sono tutti antisemiti e quindi mi
devo difendere dal nemico”). A costo
di essere sgradevole e provocatorio,
io dico che questo è un ebraismo che
non sa stare in piedi da solo, non è
proattivo, capace di guardare avanti
e non invece indietro. Ricordiamoci
che gli altri ci vedono nel modo in
cui noi ci rappresentiamo. Se noi ci
vediamo protagonisti di un ebraismo
lacrimoso, con le spalle al muro, in
punta di piedi o che si vergogna di
respirare, gli altri ci vedranno così.
Se noi ci identifichiamo solo con
Israele, con la Shoah o con il male
che ci viene fatto, penso che questo
sia un modo regressivo di coltivare la propria identità; che è invece
molto più ricca e complessa di così.
Sì, sono preoccupato - conclude
della Rocca -: registro un ebraismo
a due velocità. Da un lato c’è una
maggior autorevolezza del mondo
ebraico verso l’esterno, verso le nostre istituzioni pubbliche. Siamo più
visibili, più positivamente accolti,
più ascoltati. Dall’altro, ci manca
una identità autoreggente, capace
di stare in piedi da sola. Insomma,
non vedo una produzione autonoma
di pensiero ebraico, non vedo crescita ebraica: manchiamo di creatività
spirituale e forse noi rabbanim dovremmo cercare di rilanciare proprio
questa creativitità.
Infine, in tema di identità, vorrei
aggiungere qualche parola sugli
ebrei che si autodefiniscono “laici”
e di “sinistra”, paladini della “democrazia” e del rispetto per gli altri.
Li vedo avvicinarsi, con non poca
incoerenza, alle questioni "religiose"
con il distacco di chi con la religione
non vuole sporcarsi le mani. Perché,
chiedo loro, non sforzarsi ad assumere
atteggiamenti più coerenti, umili?,
perché invece di limitarsi a esibire,
o a richiedere, solo in poche occasioni strumentali, gli insegnamenti
dei Maestri, non cercare di costruire
una identità più aderente sullo studio
dei testi?».
Per Haim Baharier invece, «essere
ebrei vuol dire coltivare una identità
di domande e non di certezze: l’ebraismo è molto di più di una religione,
è un percorso identitario, è studio
e ricerca». Il rapporto con la terra
d’Israele è certamente importante,
dice lo studioso: ma a patto che sia
una terra di santità, una terra donata
che va abitata senza essere posseduta,
e non una roccaforte religiosa.
«Per secoli, l’ebreo si è identificato
con la propria Comunità e penso
all’ebreo del ghetto. Poi, con l’avvento
dell’Illuminismo, Moses Mendelssohn
disse che dovevamo “essere ebrei a
casa e cittadini -italiani, francesi, tedeschi…-, per strada”. Per noi, questo
non è più possibile. Oggi la modernità
ha incrinato questa identità, questo
senso di appartenenza», spiega la
filosofa Donatella di Cesare. «È molto
complesso sapere oggi che vuol dire
essere ebreo. Si è verificato quello che
io chiamo il Passaggio a Occidente:
la modernità e l’assimilazione sono
un serio problema. Qual è oggi il
compito e il ruolo dell’essere ebrei
in Occidente? Come si può essere
Comunità mantenendo la propria
individualità? Rispondo: solo grazie a
un rapporto dialogico tra l’individuo
e il gruppo. Spesso oggi assistiamo a
episodi di grave intolleranza al nostro
interno. Viviamo immersi in un clima
di contrapposizione e di conflitto,
in una perenne belligeranza, una
conflittualità che snatura il senso
profondo dell’essere Comunità come
luogo di accoglienza, di dibattito,
di identificazione. Inoltre, sovente
facciamo l’errore di trasferire sulla
Comunità la conflittualità quotidiana
che emerge nella nostra esistenza.
Abbiamo la tendenza ad incolpare
gli altri se il nostro ebraismo non ci
soddisfa, invece di assumerci la responsabilità chiedendoci: ma io che
cosa faccio? Qual è il mio contributo
personale al senso del kahal ebraico?
Ed è drammatico vedere oggi quanto
poco i giovani sentano l’appartenenza
c
alla Comunità».
Bollettino
13
da Riga all'Italia, il mio mondo di ieri
Marina J arre
Nella pagina accanto: Marina Jarre insieme a
Marina Gersony. A fianco, da sinistra: il padre
Samuel; Marina con la sorellina Sisi e con la
madre; una veduta di Riga dal fiume Daugava.
Alla ricerca delle radici paterne:
dalla foresta di Rumbula al
fiume Daugava. Alle soglie dei
novant'anni la scrittrice italolettone si racconta e rievoca la
propria infanzia a Riga: la fuga,
il padre ucciso in un'esecuzione
di massa, l'ebraicità, quel
mondo ormai scomparso
Ritorno in Lettonia, nel buio della notte
«N
el momento in cui
alla partenza da Torino l’aereo prese a rullare, seduta accanto al
finestrino mi voltai,
coprii il viso con la mano e incominciai a piangere. Pietro se ne accorse e
scherzò: “Mamma - disse - , hai ancora tempo per metterti a piangere…”».
Quel giorno del 1999, Marina Gersoni
(mia omonima), sposata Jarre, il cognome del marito, andava a Riga con
suo figlio Pietro, dov’era nata nel 1925
e da dove, nel 1935, la madre l’aveva portata via con la sorella piccola.
«I miei genitori stavano divorziando.
La mamma decise di portare me e la
mia sorellina in Italia. Partimmo di
nascosto da mio padre su una strada
ferrata secondaria; mia madre temeva
che il tribunale decidesse di affidarci a
lui», ricorda la scrittrice. Una fuga che
avrebbe salvato loro la vita. Le armate
di Hitler, allora, erano ancora lontane.
Attraversarono tutta l’Europa per
approdare a Torre Pellice, dove si sarebbero stabilite nella casa della nonna materna. Una partenza appunto
segreta, all’insaputa del padre, e uno
strazio abissale. La piccola Marina
non avrebbe mai dimenticato quello
strappo brutale, il doversi lasciare alle
spalle la casa paterna di Andreja Pumpura iela numero 2 senza aver potuto
salutare il padre che rimarrà per sempre una figura sospesa e rincorsa nella
14
Bollettino
di Marina Gersony
vita. Un padre che lei aveva “tradito”.
Dieci anni dopo la guerra, da una
lettera fortuita di una lontana cugina
scampata, seppe che egli era morto
nella strage di Riga del 30 novembre
1941 con la figlia di cinque anni Irene, avuta da una relazione con una
giovane infermiera tedesca. Ricorda
l’ultimo cenno di vita giunto da lui:
«Era l’ottobre del ’41, io iniziavo il
liceo a Torre Pellice. Un giorno alla
fine di luglio arrivò inopinatamente
una strana lettera da nostro padre, che
ci supplicava con insistenza di aiutarlo
a venire via da Riga. Non spiegava il
perché, affermava di essere malato.
Era una lettera molto lunga. In una
piega centrale del foglio, sottolineata
con un segno irregolare, la frase che
non capii a quel punto fatale: “perché
ricordatevi che anche voi siete ebree”.
Tuttora la rivedo distintamente, parola per parola». In Italia, almeno fino
al processo di Norimberga, si ignorò
la realtà della fine degli ebrei dell’est
Europa e, a dire il vero, si ignora in
parte ancora oggi. Meno che mai se
ne aveva notizia durante la guerra.
Così ricorda Marina Jarre, 88 anni,
scrittrice italiana, una quidicina di romanzi all’attivo (tra cui i più celebri e
premiati Ritorno in Lettonia, Negli occhi
di una ragazza e I padri lontani), molti
pubblicati da Einaudi e Bollati Boringhieri, oggi uno scricciolo di donna
e una vita familiare così dolente da
portarla sui luoghi dell’infanzia con
65 anni di ritardo.
Il padre di Marina si chiamava Samuel
Gersoni, «un uomo selvaggio e caotico, molto bello e coraggioso». Samuel
aveva combattuto nell’Armata rossa
fra il 1918 e il 1919, poi, ritornato in
Lettonia, era stato allenatore sportivo
e in seguito rappresentante della Michelin per i Paesi Baltici. Tombeur de
femmes, dotato di sense of humor e
affascinante, si era sposato nel’25 con
la valdese Clara Coïsson conosciuta
a Riga dove lavorava come lettrice
di italiano all’Università. La nascita
delle due figlie, Marina e Annalisa
(Sisi), non bastò a tenere in vita un
matrimonio che presto si logorò tra
incomprensioni, tradimenti e liti fino
al divorzio. Dopo la fuga in Italia della
moglie e delle figlie, Samuel rimase in
Lettonia. «A quei tempi molti ebrei
lettoni vivevano bene. I miei nonni e
zii abitavano in belle case nel quartiere più elegante di Riga. Noi in un
complesso allora moderno sulle rive
della Daugava. Per noi il fiume era
la Düna, detto in tedesco, la nostra
lingua. Il ghetto non esisteva più già
quando, nel 1886 era nato mio padre,
in una casa accanto alla conceria del
nonno. Nessun ebreo poteva essere
dipendente statale, ma erano professionisti, medici, dentisti, industriali,
commercianti. Una borghesia benestante. Riga era d’altronde una grande
Marzo • 2014
città europea».
Non fu più così quando il 1 luglio 1941
la città venne occupata dalle truppe
naziste. Gli ufficiali dell’Einsatzgruppe A spinsero i nazionalisti locali a
procedere a quelle che venivano brutalmente chiamate azioni di “auto
pulizia” (Selbstreinigungsaktionen). Gli
ebrei vissero un regime di terrore con
aggressioni quotidiane, brutali cacciate
dalle case e confische di beni; divieto
di usare i mezzi di trasporto pubblico e di camminare sui marciapiedi,
senza contare l’obbligo di portare la
stella gialla. Storie tristemente note.
Fino alle esecuzioni di massa nel bosco di Bikernieki e nella di foresta
di Rumbula. L’azione più massiccia
e sistematica ebbe luogo verso
la fine del 1941.
Samuel Gersoni era un ebreo
consapevole e orgoglioso di esserlo. Nei suoi documenti la
sua nazionalità era “giudaica”
e la sua fede “mosaica”, definizioni ancora dell’impero
russo nella libera Repubblica
lettone nel 1925, quando gli
ebrei a Riga erano 30.000, quanti ce
ne sono in tutta l’Italia oggi. Marina Jarre non sa fino a che punto egli
sapesse dell’incredibile antichità del
proprio cognome e del significato del
nome Gersoni, che racchiuderebbe in
sé, marchio del futuro esilio, la radice
ebraica gher, straniero. «Era ombrosamente fiero della sua appartenenza, come di un marchio scomodo e
inevitabile - afferma la figlia -. Ogni
volta che penso agli avi di mio padre,
migliaia d’anni fa, quando vennero
dall’Egitto e varcarono il Mar Rosso
verso la terra promessa, mi coglie una
vertigine d’incredulità e di miracolo. Il
loro nome è giunto fino a me, in mio
padre - e in me -, si ripetevano i loro
lineamenti».
Samuel venne ucciso il 30 novembre
1941, una domenica mattina, lasciando in eredità la dolorosa incertezza
su come si sia svolta esattamente la
sua fine e quella degli altri parenti.
Del resto, come ricostruire una sorte
individuale in un eccidio di massa?
«La morte di mio padre si era inMarzo • 2014
stallata dentro la mia vita con lenta
persuasione, non con il clamore di un
colpo imprevisto. Intanto lavoravo, mi
sposavo, avevo figli, poi nipoti, scrivevo, invecchiavo. I frammenti di quella
prima remota stagione, non collegati
tra di loro, quadretti immutabili, stavano fissi nella forma in cui li avevo
custoditi e rappresentati nel mio libro
autobiografico, I padri lontani».
Una ricerca senza fine per una figlia
devastata dai troppi perché di una perdita mai davvero metabolizzata: «La
strage mi aveva sfiorata, inconsapevole, e portavo il peso di un lutto improprio, in cui gravi vicende personali
si erano intrecciate così strettamente
con l’atrocità della storia. Mi sentivo
colpevole verso mio padre e mi
pareva di non avere diritto a un
lutto». Ed è proprio in questo
momento che Marina Jarre
decide, quasi controvoglia, di
accettare la proposta del figlio
Pietro nel 1999, di tornare, sessant’anni dopo, in quel mondo
perduto di ricordi sospesi e di
incolmabili vuoti. «Non cercavo affatto di ricucirmi addosso le
mie straziate radici paterne, ero tesa a
medicare un passato del tutto intimo,
confuso e insanabile, non a scandagliarlo». Tuttavia, al ritorno da Riga
- ormai quasi ottantenne e vedova - la
ricerca di notizie sul padre diventa la
ricostruzione del calvario degli ebrei
di Lettonia e del loro annientamento
che Marina avrebbe poi raccontato
nel libro Ritorno in Lettonia (Einaudi),
vincitore nel 2004 del Premio Grinzane Cavour. Sono pagine intense che
descrivono lo scenario dell’orrore che
si mescola crudelmente con la bellezza dei luoghi: posti incantevoli come
Kaiserwald (oggi Mežaparks), ad occidente di Riga nella piana sabbiosa
tra la Daugava rossa e le magnifiche
ville Liberty. Kaiserwald, “Bosco degli
imperatori” in tedesco, si trasformò in
uno dei tanti campi di concentramento nei periodi più oscuri della Storia.
Dice Jarre: «In seguito sono tornata in
Lettonia un paio di volte e ho notato
che i lettoni stanno cercando di venire
a patti con il loro passato di collabo-
razionisti con i tedeschi. Nel museo
dell’Occupazione - quella sovietica c’è un repartino con notizie precise
sulle stragi naziste di ebrei; sulle rovine
dell’incendiata sinagoga di Via Gogol
sono esposte foto e notizie dei lettoni,
pochi e coraggiosissimi che hanno cercato di aiutare gli ebrei, infine il luogo
della strage, il bosco di Rumbula, è
diventato un luogo pubblico (soltanto avvallamenti del terreno di qua e
di là coprono tombe di massa che i
tedeschi non hanno avuto il tempo di
“ripulire”) percorso da una grande
strada di accesso per automobili e ha
perso ogni aspetto di segreto orrore… “Nessuno vi crederà”, dicevano
i nazisti. Bruciavano e registravano,
bruciavano e registravano. “Anche se
per caso qualcuno di voi sopravvive e
riferisce, nessuno crederà mai a quello
che racconterete”, ripetevano e contavano con precisione i cadaveri disseppelliti per bruciarli prima dell’arrivo
dell’incombente armata sovietica».
Nota dell’articolista: oggi Marina Jarre
è vicina ai novant’anni. Lasciatemelo
dire: è una persona di grande pensiero e di umanità profonda. Portiamo
entrambe il nome Marina e - il caso
vuole - il cognome Gersoni(y). Coincidenze identiche, tranne il dettaglio
della “y” finale. In comune abbiamo
i legami con Riga, nonché una lunga
storia di infinite erranze. Siamo cugine lontane con padri lontani, ebrei
sefarditi espulsi dalla cattolica Isabella, sospinti di paese in paese dall’intolleranza e dalla miseria dei ghetti
europei. Qualcuno ha viaggiato verso
Nord, fino in Polonia e da lì, all’inizio
del XIX secolo a Mitau, capoluogo
del Granducato di Curlandia, oggi
regione della Lettonia. Altri si sono
sparpagliati nel mondo, Stati Uniti,
Canada, Spagna, Brasile…
Il destino ci ha fatto incontrare in Italia, in occasione del suo Ritorno in Lettonia. Siamo diventate amiche, legate
da quel filo invisibile e indistruttibile
che si dipana da generazione in generazione per raccontare una storia
individuale e insieme collettiva.
Che niente e nessuno potrà mai
c
spezzare.
Bollettino
15
dibattiti: storia, celebrazioni e memoria
cultura
A sinistra: una scena di Schindler’s list. Qui a fianco: Vera Vigevani Jarach; Sami Modiano;
Liliana Segre; i volontari dell’associazione Figli della Shoah al
Binario 21.
di Mino Chamla
Che cosa succederà “dopo
l’ultimo testimone”? Come
può il Giorno della Memoria
mantenere il suo senso senza
che diventi un rituale ripetitivo e
vuoto? Ecco un’analisi fuori dal
coro e un contributo al dibattito
in corso. A partire dal processo
Eichmann... Perché anche la
memoria ha la sua storia
Memoria: che cos’è che manda
“fuori di testa” gli antisemiti
Q
uando venne istituito
il Giorno della Memoria (in Italia nel 2000,
dall’ONU nel 2005 e
altrove in altre date),
si poté considerarlo come il punto
d’arrivo d’una presa di coscienza
dell’opinione pubblica mondiale, e
specialmente di quella europea e occidentale. A più di cinquant’anni (!)
dalla fine della guerra si riconosceva
la specificità - dal lato delle vittime: il
popolo ebraico -, di quello che Churchill già immediatamente aveva definito “probabilmente il più grande e
il più orribile crimine mai commesso
nell’intera storia del mondo”.
In realtà, si trattava di qualcosa
ch’era iniziato qualche decennio
prima, quando, a partire dagli anni
Settanta (ma forse dal 1961 e dal
processo Eichmann in Israele), il
dibattito storiografico e la rappresentazione attraverso la letteratura,
il cinema..., avevano conosciuto
un’impennata straordinaria, come
se davvero fosse finalmente insorta,
dopo lunga maturazione, una nuova
consapevolezza, uno sguardo sullo
sterminio degli ebrei che riusciva a
16
Bollettino
di Mino Chamla
staccarlo dallo sfondo, a stagliarlo e
illuminarlo di luce propria rispetto
alle complessive vicende della Seconda Guerra Mondiale.
Certo, erano stati in particolar modo
gli ebrei che non soltanto si erano già
dati un loro “Giorno della Memoria”
tra il 1953 e il 1959 (Yom ha-Shoah),
ma soprattutto avevano già da un
pezzo rielaborato in profondità la
loro memoria ed anzi il loro vissuto,
individuale e collettivo, dell’Evento;
nel frattempo, era la coscienza pubblica “generale” ad essere maturata
abbastanza da invocare una giornata
memoriale che fosse significativa e parlasse a tutti e soprattutto alle nuove
generazioni. Naturalmente, gli ebrei
non potevano che vedere con favore
tutto quel lavorio, che pareva davvero
annunciare piena giustizia storica e,
per il presente e il futuro, nuova consapevolezza e nuovo rispetto nei loro
confronti. Mentre erano da considerarsi fisiologiche e un po’ scontate,
finché minoritarie, le voci dissonanti
di chi accusava la parte ebraica di
vittimismo esagerato, esclusivismo
e magari anche utilizzo improprio
della memoria storica per giustificare
l’esistenza e tutta l’azione nel presente
dello Stato d’Israele.
In realtà, al di là del richiamare alla
memoria, appunto, quel ch’è stato,
quali potevano essere le finalità più
profonde e radicali nell’istituire una
ricorrenza del genere? Il Giorno
della Memoria doveva senza dubbio
testimoniare del significato universale di quanto accaduto al popolo
ebraico (ma anche ad altri, beninteso,
e soprattutto agli zingari), durante
la Seconda Guerra Mondiale e far
riflettere, contemporaneamente, sulla
inaggirabile questione del: “perché gli
ebrei?”. In effetti, i nazisti tedeschi e
i loro complici vollero certo annientare l’uomo che era nell’ebreo, ma
forse ancor più l’ebreo che è in ogni
uomo, e cioè la forza superbamente
umana, e davvero “universale”, della
differenza, dell’individualità e della
libera identità. Poiché è questa la
vera, profonda universalità della condizione ebraica, quella che alla fine
provoca l’antisemita e il “fascista” di
ogni tempo e che spiega, tra l’altro,
la radicalità e l’unicità della Shoah.
Ancora: com’è ormai consapevolezza diffusa, una Giornata della Me-
Marzo • 2014
moria aveva la funzione primaria di
far riflettere la collettività nazionale
dei diversi Paesi su quelle che erano
state anche le proprie responsabilità,
traendone il massimo di coscienza
storico-politica per il presente e per
il futuro.
Infine, e più in generale: la memoria
non poteva che rimandare continuamente alla Storia ricostruita sempre
meglio e sempre più in profondità.
Anche perché soltanto una Storia
così intesa avrebbe permesso di riconoscere le responsabilità e di riflettere
sui rapporti tra passato e presente.
Laddove la pura memoria corre il
rischio di trasformarsi in un’inerte
e sentimentale contemplazione del
male. Ora, sappiamo tutti come
quelle aspettative nei confronti del
Giorno della Memoria siano andate,
nel tempo, - e forse non poteva essere altrimenti- , largamente disattese
e deluse. Molti, ebrei e non ebrei,
non possono che prendere atto delle
derive di una memoria così spesso
istituzionalizzata, banalizzata, ritualizzata, rappresentata e celebrata nella pura ripetizione. Dove persino la
ricorrente e giusta osservazione che
la memoria non possa essere coltivata soltanto un giorno all’anno ma
debba esserlo sempre, tutti i giorni
dell’anno, è diventata una banale
ovvietà, di quelle che rinviano soltanto la risposta che si deve dare a
un problema senza averne compreso
il significato reale.
Proprio la figura del testimone, senza dubbio quella al centro di tutti
i processi storico-memoriali che si
sono richiamati sin qui, riassume in
sé molte delle difficoltà e delle problematiche cui ci troviamo di fronte.
Non soltanto perché la sua era, epoca,
secondo l’espressione ormai celebre
di Annette Wiewiorka, volgerebbe
ormai al termine. E, a ben vedere,
anche il topos del “dopo l’ultimo testimone” sembra ormai portare in sé una
consapevolezza estrema e terribile:
dopo, quando non ci saranno più,
perderemo certo tutto il senso au-
Marzo • 2014
tentico e la forza del loro racconto.
Ma allora: a cosa sarà mai servito che
essi parlassero, in quel determinato
momento e non un attimo prima
o dopo? Dove evidentemente ci si
confonde tra valore assoluto della
testimonianza, una volta emersa,
e sua “ripetibilità”. Ma soprattutto
(come da più parti è stato sostenuto),
il testimone troppo spesso rischia di
essere trasformato nell’oggetto di un
culto civile, e molto mediatico, cui
non corrisponde sempre, nel pubblico, e in particolare in quello giovanile, un’effettiva e stabile crescita
della coscienza storico-politica. In
altre parole: mi commuovo di fronte al racconto del sopravvissuto, ma
non declino poi quella commozione
in reale sensibilità verso vecchie e
nuove vittime di ingiustizie e soprusi, né tantomeno, - ed è la cosa più
importante -, in indignazione per
le motivazioni di quelle ingiustizie.
D’altra parte, e in generale: perché
non ammettere che il “mai più!”, gridato da noi con tanta fierezza specialmente nelle occasioni celebrative ed
ufficiali, si accompagna praticamente
sempre all’impotenza, se non addirittura all’indifferenza, verso quel che
capita ora, in questo preciso istante,
ad altri, nel mondo?
Mentre, per contro, si è assistito e
si continua ad assistere alla sempre
crescente banalizzazione delle parole
e dei concetti, con qualunque cosa
che diventa comparabile, in qualche
misura, con la Shoah, ed anzi diventa
proprio “come la Shoah”. Senza contare quello che massimamente, e a
ragione, indigna soprattutto la parte
ebraica, e cioè la tentazione di molti
ad onorare gli ebrei morti e oltraggiare invece quelli vivi, contrapponendo
con facilità l’ebreo buono e vittima
inerme di ieri a quello aggressivo e
colpevole, oltreché “armato”, di oggi.
Ancora: cosa può il Giorno della Memoria di fronte alla crisi del nostro
tempo, non solo economico-sociale
ma anche etico-politica e valoriale,
che non solo conferma la ripetibilità
del male, ma persino una ripetizione puntuale di quel male, o almeno
dei suoi presupposti fondamentali,
e dunque l’antisemitismo, e il negazionismo, e le mille altre cose orribili che puntualmente rialzano oggi
la testa, e con tanto maggior vigore
nella società della “comunicazione
globale”?
Eppure, nonostante tutto quel che si
è detto, la “memoria”, e persino quella
più ufficiale e retorica, mantiene il
suo carattere di necessità, appunto
perché ciò di cui stiamo parlando,
nella sua realtà storica ma anche nella sua proiezione verso il presente e
verso il futuro, è cosa che oltrepassa
ogni nostra possibile strategia esistenziale e anche politica. E nessuno si
offenda se proprio gli ebrei sembrino qualche volta mantenere, verso
il Giorno della Memoria, un atteggiamento cauto e un po’ distaccato,
come da ospiti d’onore alquanto riluttanti. In realtà, è un atteggiamento
che dovrebbero mantenere tutti, in
questa materia. Poiché proprio non
si può, in nessun modo, rispetto ad
essa, uscire d’obbligo. Ovvero che, rispetto alla Shoah, non potremo mai
cavarcela a buon mercato, e tantomeno, con “una memoria per forza,
una memoria che obbliga la gente a
c
partecipare”.
Mino Chamla (Marsiglia, 1957) è laureato e addottorato in filosofia. Insegna presso
le Scuole della CEM. Si è occupato di filosofia morale; Spinoza; il pensiero ebraico
contemporaneo; storia ebraica; i rapporti tra
Ebraismo e cinema... È autore di numerose
pubblicazioni, tra cui: “Spinoza e il concetto
della tradizione ebraica (1996); “Ebrei e
redenzione, da Spinoza a Rosenzweig” in:
“Franz Rosenzweig. Ritornare alle fonti,
ripensare la vita”, 2012; “Di uomini, anche ebrei, e di animali”, in: “Gli animali e
la sofferenza” (“La Rassegna Mensile di
Israel”) 2013.
Bollettino
17
dibattiti:
dibattiti:storia,
storia,celebratività
celebrazioni e memoria
cultura
Il pamphlet provocatorio di Elena Loewenthal
ha aperto un dibattito sull’opportunità e i modi
di celebrare il ricordo della Shoah. Parla l’autrice
Il Giorno della
Memoria non
riguarda gli ebrei
C
he cos’è diventato
oggi il Giorno della
Memoria, a 14 anni
dall’approvazione in
Italia della legge che
ha stabilito, per il 27 gennaio, il
dovere di ricordare? Se lo è chiesto
la scrittrice, traduttrice ed ebraista
Elena Loewenthal in un libro dal titolo provocatorio Contro il giorno della
Memoria.
Forse il titolo è però un po’ forzato? Quello
cui lei si oppone mi sembra piuttosto il
“fraintendimento” del GdM.
Sì, il titolo è provocatorio e un po’
forte, del resto è quello che richiede
il mercato editoriale. È stato invece
per me un libro molto sofferto; è il
frutto di una riflessione che facevo
da lungo tempo e che partiva da una
sensazione di disagio, di imbarazzo, ogni volta che mi si chiedeva di
parlare come ebrea, come scrittrice
e addirittura come “testimone” -anche se sono nata nel ‘60-, alle celebrazioni del GdM. Per un periodo
ho dato un taglio netto, non ho più
voluto intervenire. Il libro è nato
dall’esigenza di riflettere sul perché
di questo sentimento. E ho capito.
C’è qualcosa di profondamente sbagliato, un equivoco di fondo che mi
disturba: il Giorno della Memoria
viene percepito come un tributo agli
ebrei, quasi un risarcimento per il
18
Bollettino
di Ester Moscati
quale dovremmo essere grati. E invece no. Paradossalmente gli ebrei non
c’entrano con la storia della Shoah,
perché la storia appartiene a chi la
fa e non a chi la subisce.
Bisognerebbe quindi cambiare il soggetto
del racconto, della rievocazione: non “Gli
ebrei furono deportati” ma “I tedeschi, gli
italiani, i francesi... deportarono”. Perché
è una storia europea.
Esattamente questo. La Shoah devono ricordarla gli altri, non necessariamente per coltivare il senso di
colpa, che non porta mai a nulla di
buono. Ma per conoscerla, rifletterci,
meditare. Gli ebrei no, non hanno
bisogno del Giorno della Memoria
per pensare alla Shoah. Per
me è un fatto quotidiano,
tanto che io invoco l’oblio.
Se potessi rinascere, vorrei
rinascere senza questo peso.
E l’ho scritto nel libro perché
vorrei che la gente si rendesse
conto che per noi è pesante,
doloroso, penoso ricordare.
Che ne faremmo a meno. E
c’è anche un altro motivo, un
aspetto deleterio del GdM: la “sublimazione” della memoria; la pretesa
illusoria che la memoria sia etica,
morale e soprattutto “utile”. E che
sia un dovere imprescindibile. Invece
non è così, tanto che per vent’anni
dopo la fine della guerra l’imperativo
era “dimenticare”. La chiave di volta
è stato il Processo Eichmann, che
ha dato voce ai testimoni. Ma deve
essere chiaro: ricordare non ci rende
migliori, più buoni. Non è vero. Non
bisogna illudersi.
È necessario quindi che sia chiarito
un fatto. Il GdM non è un tributo che
gli altri fanno agli ebrei, ma è l’anniversario dell’apertura dei cancelli di
Auschwitz, quando i soldati russi, capitati lì per caso nell’avanzata verso
Berlino, “videro”. Per la prima volta
l’Europa vedeva la Shoah e oggi gli
europei, quel giorno, devono riflettere sulla propria storia.
Mi ha colpita una sensazione ricorrente, che
manifesta nel libro: che il tempo trascorso
dalla Shoah sia insieme troppo
vicino e troppo lontano.
È una mia percezione ed è
uno dei motivi per cui mi
sento inadeguata a parlare
della Shoah. Non bisogna
illudersi di capire perché la
Shoah è incomprensibile.
Sono figlia di sopravvissuti
e quindi sento una terribile
vicinanza. Perché ho visto
negli occhi dei miei genitori ciò
che hanno passato. Ma ho anche la
certezza che non potrò mai capire
né tantomeno sentire ciò che è stato.
Primo Levi diceva che la vera Shoah
sta nei sommersi, non nei salvati.
E poi c’è la “banalizzazione” della
Shoah, che fa da corollario alla pre-
Marzo • 2014
Nella pagina accanto: Elena Loewenthal. Da sinistra: Jean Cocteau
e Francine Weisweiller nella casa
che ha ispirato La lenta nevicata
dei giorni; l’apertura dei cancelli di
Auschwitz, il 27 gennaio 1945. Qui
sopra: i disegni di Cocteau nella
villa Santo Sospir a Cap Ferrat.
tesa di capire. In una scuola, un’insegnante che aveva accompagnato gli
studenti “in gita” ad Auschwitz mi
raccontò che si era rotto il riscaldamento del treno, e così - disse - avevano la sensazione di essere come
i deportati, al freddo. E no!
No! questa è la retorica banalizzante che non accetto.
Un altro aspetto che lei stigmatizza è quello che chiama “società eventuale”. Non c’è memoria
senza un evento. E questo vale
per la cultura in genere, spesso
più spettacolo e meno riflessione.
Come se si volesse compensare,
con la spettacolarizzazione, la
superficialità del pensiero.
Lo vedo soprattutto nell’ambiente
editoriale, che è quello che conosco
meglio. Siamo la Società dell’Evento.
Nei libri, ci sono le strenne natalizie, poi le uscite per il Giorno della
Memoria (tra le quali peraltro è stato collocato anche il mio libro; per
l’editore non avrebbe avuto senso
pubblicarlo, per dire, in aprile...), poi
San Valentino, la Festa della Donna.
Ma quando il ciclo delle idee segue
questo percorso è artificioso, ripetitivo. Mi dà fastidio.
Ho trovato interessante la considerazione
che lei fa del GdM come una cerimonia
ritualizzata che però contiene in sé il suo
contrario: l’ansia di proporre sempre qualcosa di nuovo. Perché avviene?
Perché è la cartina di tornasole della debolezza della ricorrenza in sé.
Della sua dissonanza. Sarebbe meglio che il Ministero della pubblica
istruzione prescrivesse per quella
giornata la lettura di una pagina di
Primo Levi. E basta. In Israele, del
Marzo • 2014
resto, per Yom HaShoah c’è il suono
della sirena. Poi la vita riprende. Ma
oggi, proprio per l’equivoco di fondo
su che cosa sia davvero il GdM, non
si sa bene che cosa farne. Si torna al
peccato originale di questa giornata.
Rito, ma anche il suo contrario, la novità. È come se
ci fosse la paura di annoiare
con la ripetizione, e si volessero compiacere gli ebrei facendo ogni volta di più.
Infatti il GdM quest’anno è stato
particolarmente ricco di eventi,
almeno in Lombardia (una sola
associazione - non ebraica - ne ha
organizzati ben 37!) Non pensa
che ci sia comunque una ricaduta educativa
e formativa per il lavoro che viene fatto
nelle scuole?
Ma sì, c’è ovviamente anche il lato
positivo. È giusto che nelle scuole se
ne parli. I ragazzi leggono dei libri e
ne discutono, arrivano al 27 gennaio molto preparati; molti insegnati
fanno un’opera meritoria. Devo dire
che anche del mio libro si è discusso
molto, e in fondo è stato compreso
ciò che intendevo dire. Ne sono contenta. Ci si è fatti delle domande ed
è quello che volevo davvero.
È appena uscito un suo nuovo romanzo, La
lenta nevicata dei giorni, che prende il
titolo da una poesia di Primo Levi. Parla
del “dopo”, di due giovani sposi che durante
la guerra sono rimasti nascosti nel Sud
della Francia e poi lentamente tornano alla
vita. Mi sembra che André possa essere il
paradigma di chi, felice di essere sopravvissuto, si riappropria della ‘vis vitalis’ con
tutto se stesso, mentre Fernande rappresenta
la difficoltà di dimenticare, di tornare alla
quotidianità, conservando a lungo un male
oscuro nel fondo dell’anima. Che cosa ha
voluto comunicare con questo romanzo?
C’è un andamento ciclico nel tempo
del romanzo, la cronologia è invertita. La fine è l’inizio e viceversa. E c’è
un interludio. Perché l’idea di fondo è che la Shoah è un passato che
non passa. I personaggi declinano
in modo diverso il loro essere “sopravvissuti”, anche se sono stati dei
privilegiati. Sono rimasti nascosti in
una grande villa sulla costa francese
per quasi due anni.
Ma, sia pur romanzata, la storia oltre alle pagine sulle deportazioni
che sono assolutamente verosimili
dal punto di vista storico - contiene
alcuni spunti e personaggi di realtà.
La Casa del Sogno è una villa sotto
Cap Ferrat (la villa Santo Sospir a St
Jean-Cap-Ferrat, la maison “tatouée” da
Jean Cocteau, ndr). E Fernande è ispirata a Francine Weisweiller, che fu
proprietaria della casa, mentre il Poeta è lo stesso Cocteau. Ho raccontato luoghi che conosco bene e con
i quali ho un rapporto amorevole.
Anche i personaggi, come me, non
hanno vissuto direttamente questa
storia, la Shoah, ma Fernande, come
me, ne sente il peso come una pietra
sul cuore, sui polmoni.
Sì, sarei più libera senza questa storia. Tanto che, nel mio libro Conta
le stelle se puoi, ho voluto cambiarla.
Ho fatto morire Mussolini nel 1924.
L’Olocausto non c’è. Perché la Shoah non era ineluttabile né “necessaria”; soccombere non è il destino degli ebrei. Ma poi, di Shoah ho scritto
ancora e forse ancora lo farò. Perché
questo è davvero un passato che non
c
passa. Mai.
Bollettino
19
eventi, mostre, incontri per il giorno della memoria
cultura
Quasi ottomila
visitatori
nei due giorni
di Open day
al Binario 21
Un risultato
incoraggiante
per il futuro del
Memoriale come
“ateneo di civiltà”
I
l “visitatore” più giovane aveva
appena 12 giorni e il più anziano 90 anni. Intere famiglie, dai
nonni ai nipotini in passeggino, hanno affollato gli spazi del
Memoriale della Shoah di Milano,
il 26 e 27 gennaio per l’apertura al
pubblico in occasione del Giorno
della Memoria. 4.000 persone il
primo giorno, domenica e 3.500
il secondo, nonostante la giornata
lavorativa. Roberto Jarach, vicepresidente del memoriale della Shoah,
è soddisfatto dei dati sull’affluenza,
e dice «Ottimo anche il riscontro
delle scuole, obiettivo primario della
nostra attività di trasmissione della
memoria. Le visite sono state quasi
tutte prenotate fino a fine febbraio».
Grande partecipazione, sala piena
20
Bollettino
e tante personalità di spicco della
scena politica e del mondo della
cultura anche il lunedì precedente, 20 gennaio, per l’inaugurazione
dell’Auditorium del Memoriale della
Shoah dedicato ai genitori di Gabriele Nissim, presidente della Fondazione Gariwo, Joseph e Jeanne. Lo
spazio, che accoglie 200 posti, verrà
destinato a conferenze e convegni
storico-culturali. Presenti alla serata,
condotta dal giornalista del Corriere
della Sera Antonio Ferrari, il ministro
per l’Integrazione, Cecile Kyenge, il
vicesindaco Ada Lucia De Cesaris,
l’assessore Filippo Del Corno e il
presidente del consiglio provinciale
Bruno Dapei. Fra le personalità del
mondo ebraico, oltre a Roberto Jarach, il presidente della Comunità
Walker Meghnagi, il vicepresidente Daniele Cohen e la storica del
CDEC Liliana Picciotto.
Per il 26 e 27 gennaio, la Fondazione
Memoriale, l’associazione Figli della
Shoah, le guide, i volontari hanno
attivato una macchina informativa
che ha consentito ai gruppi di visitatori di sostare di fronte ai pannelli
storici, ai video, al treno coevo - e
forse proprio uno dei convogli - a
quelli che dal 1943 al 1945 deportarono ebrei e prigionieri politici verso
i lager; e di ascoltare la narrazione
dell’orrore con parole chiare e forti.
Parole che non si dimenticano e toccano le corde più intime, quelle che
portano a dire “mai più” ma anche
e soprattutto a sentirsi coinvolti in
una memoria militante. Perché anche oggi, in Europa, la xenofobia e
l’antisemitismo sono sentimenti e
ideologie tutt’altro che sconfitti. Basti pensare all’orribile provocazione
delle tre teste di maiale inviate, nei
giorni immediatamente precedenti
il Giorno della Memoria, alla Sinagoga, all’Ambasciata di Israele e
al Museo della Storia di Roma. Al
profluvio di eventi, - teatro, musica,
incontri, dibattiti - decine solo a Milano, organizzati per commemorare la Shoah, ha fatto da contraltare
quest’anno una penosa serie di atti
di antisemitismo, graffiti ingiuriosi,
tentativi di contromanifestazioni negazioniste e campagne antiebraiche
sul web e non solo.
Ma torniamo a Milano, al Memoriale: sorge in quel luogo nascosto,
nella “pancia” della Stazione Centrale di Milano, di cui per tanti anni
ai più è stata ignota l’esistenza e la
funzione negli anni bui della deportazione. “Scoperto” da Liliana
Picciotto della Fondazione CDEC e
Marcello Pezzetti, nel 1995, è stata la
Comunità di Sant’Egidio a farne per
prima luogo di memoria; già da anni
celebra in quel luogo l’anniversario
della partenza del convoglio del 30
gennaio 1944, con la testimonianza di Liliana Segre che quel giorno
partì per Auschwitz con il suo papà,
quando era una ragazzina di appena
13 anni. Tornò sola.
E anche quest’anno, il 30 gennaio
la Comunità di Sant’Egidio ha organizzato un incontro alla presenza
di Liliana Segre, con la partecipazione del ministro dei Beni e delle
Attività Culturali Massimo Bray e
di Vera Vigevani Jarach, una madre
di Plaza de Majo e una “militante
della Memoria”. Ad Auschwitz perse
suo nonno, ebreo italiano che fino
all’ultimo pensava che in Italia sarebbe stato al sicuro. I genitori di Vera,
invece, partirono per l’Argentina e
si salvarono. Ma sua figlia Franca è
una desaparecida, uccisa dal regime di Videla a 18 anni. Alla vita di
Vera Vigevani Jarach è dedicato il
documentario “Il rumore della memoria”, realizzato dal regista Mario
Bechis, che è stato online dal 20 al 27
gennaio sul sito Corriere.it. La storia
di suo nonno e di sua figlia Franca
è la sintesi dell’orrore del Novecento. Viaggi della Morte: il treno per
Auschwitz e gli aerei che gettarono
nell’oceano i corpi dei 30.000 giovani desaparecidos argentini.
Le parole di Vera Vigevani Jarach
danno il senso e il valore del Giorno
della Memoria. Non per il passato
Marzo • 2014
ma per il futuro e soprattutto per il
presente. Le deportazioni e la morte sono l’ultima tappa di un lungo
cammino, iniziato per gli ebrei con
la perdita dei diritti civili nel ’35 in
Germania e nel ’38 in Italia. Quando si diventa cittadini senza diritti,
quando si viene disumanizzati, visti
attraverso le lenti del pregiudizio, diventa poi facile la violenza e l’orrore.
E che cosa facciamo oggi, quando
invece di un uomo vediamo un clandestino? Quando diciamo che “loro”
vengono a rubare il lavoro e le case?
Milano rifiuta l’indifferenza
Con una cerimonia sobria ma solenne, sono state deposte il 24 gennaio
due corone davanti all’Hotel Regina,
sede del comando SS e Quartiere
generale della Gestapo negli anni
1943-1945, in via Silvio Pellico a
Milano, dove dal 2008 c’è una lapide che ricorda le vittime che in
quel luogo furono torturate e uccise
dai nazisti – partigiani e antifascisti,
ebrei e no. Numerosi gli interventi
che si sono seguiti durante l’evento,
patrocinato dal Comune di Milano,
Fondazione Memoria della Deportazione, Comunità Ebraica di Milano,
Comitato Permanente Antifascista.
«È fondamentale anche oggi non
essere indifferenti al destino dell’uomo e dare la giusta importanza alla
vita dell’essere umano – ha spiegato
Daniele Nahum -. Spesso si sente
dire ‘Italiani brava gente’: purtroppo
invece tutto ciò che è successo – dal
Binario 21 alla retata del Ghetto
di Roma – è stato possibile grazie
al contributo dei fascisti e di tutti
coloro che sono stati indifferenti
nei confronti di chi era in pericolo.
In un’epoca di rigurgiti antisemiti,
islamofobia e razzismo inaccettabili,
non bisogna mai dimenticarsi di chi
sta male».
In quest’ottica, un ruolo fondamentale è quello svolto dai luoghi “della
memoria”, in cui si svolse la tragica
storia di quegli anni. «A Milano sta
nascendo un percorso della memoria
Marzo • 2014
– ha dichiarato Roberto Jarach, vice
presidente del Memoriale della Shoah e dell’Ucei -, di cui fanno parte il
Memoriale e l’Hotel Regina, e a cui
andranno ad aggiungersi tanti altri
luoghi della città. In questo modo
la città di Milano vuole restituire
l’identità ai 774 concittadini ebrei
che furono deportati ad Auschwitz e
che furono privati della loro dignità
umana».
«Stiamo battendoci per fare riconoscere la Loggia dei Mercanti come
luogo della memoria – ha aggiunto
Roberto Cenati, Presidente ANPI -.
Ci batteremo fino in fondo perché
questo luogo sia tolto dal degrado».
Ma l’impegno per la rivalutazione
dei luoghi della memoria interessa
anche altre località: si pensi alla colonia di Selvino, dove furono salvati
migliaia di bambini, ebrei e no, durante e dopo la guerra, al centro di
una petizione organizzata dallo storico e giornalista Marca Cavallarin.
Pisapia: “Non voltate la testa
Sempre il 24 gennaio si è tenuto a
Palazzo Reale l’incontro intitolato
“Il valore della testimonianza”, a cui
hanno partecipato oltre 300 studenti
di licei milanesi, fra cui anche quello
della Scuola della Comunità: hanno però potuto seguire la mattinata
scuole di tutta Italia grazie alla diretta streaming. Sono intervenuti il
sindaco Giuliano Pisapia, Sindaco
del Comune di Milano, Venanzio
Gibillini, deportato a Flossenburg
e Dachau, e Liliana Segre, deportata
a Auschwitz, che hanno commosso e
coinvolto tutti i presenti con le loro
tragiche testimonianze.
«Non si costruisce il futuro senza
storia – ha dichiarato il sindaco di
Milano Giuliano Pisapia -. La memoria e il ricordo sono la garanzia di
un futuro e di una democrazia basata
sul rispetto reciproco. Il fascismo e il
nazismo riuscirono a perpetrare crimini atroci anche perché molti non
vollero prendersi il rischio, non vollero ribellarsi, anche qui a Milano.
Da sinistra: il Memoriale della Shoah; il concerto
al Conservatorio, Roberto Jarach, Marco
Cavallarin e Daniele Nahum all’Hotel Regina;
Gioele Dix al Binario 21; il Sindaco Pisapia con
i testimoni e gli studenti.
Allora a voi giovani dico: quando
c’è un sopruso prendete posizione,
non voltate la faccia, non siate indifferenti: perché anche una presa in
giro può essere il primo passo verso
soprusi ben più gravi».
A margine del suo intervento, abbiamo chiesto al Sindaco cosa vuole
dire oggi per Milano avere un luogo
come il Memoriale della Shoah. «Significa potere evitare che qualcuno
possa dire “tutto ciò non è successo. Ed è fondamentale per lavorare sull’altro importante messaggio,
quello della pericolosità dell’indifferenza: con questi luoghi possiamo
davvero insegnare ai giovani quanto
lontano possa portare l’indifferenza
verso il destino degli altri». Oltre al
memoriale della Shoah, Milano ha
il Giardino dei Giusti e per l’Expo 2015 sarà pronta la Casa della
memoria, nel quartiere Isola, in
cui saranno raggruppate tutte le
associazioni impegnate nel ricordo
di partigiani, deportati di guerra e
c
vittime del terrorismo.
Visite al Memoriale. Per le scuole, i
giorni di apertura sono il mercoledì e giovedì
mattina. Per prenotare, scrivere a
[email protected].
I giorni previsti per l’apertura al pubblico
sono il primo e terzo giovedì di ogni mese
(fascia pomeridiana) e l’ultima domenica
di ogni mese. Per prenotare, inviare una
richiesta all’indirizzo
[email protected]
Bollettino
21
eventi, mostre, incontri per il giorno della memoria
cultura
Milano
ricorda.
In musica
L’evento principale del
Giorno della Memoria,
al Conservatorio,
è stato un momento
di profonda riflessione
e grande emozione
S
erata emozionante in
una sala del Conservatorio stracolma, quella
del 27 gennaio. Tanta
musica: opere di Leone
Sinigallia, compositore torinese vittima della Shoah, ricordato in occasione del 70esimo anniversario dalla
sua morte; e di Mario Castelnuovo
Tedesco, che trovò rifugio in America. E poi discorsi e testimonianze
dei reduci dei lager, Liliana Segre e
Goti Bauer, al centro dell’iniziativa.
Alla manifestazione, organizzata
dall’Associazione Figli della Shoah,
dal Conservatorio, dalla Comunità
ebraica, dal CDEC e dalla Fondazione Memoriale, assieme a Lydia
Cevidalli e a Christian Bellisario e a
vari docenti del Conservatorio, hanno partecipato numerose autorità.
Fra queste il presidente della Regione, Roberto Maroni, il presidente del
consiglio provinciale, Bruno Dapei,
il vicesindaco De Cesaris, il presidente della Fondazione Memoriale
e direttore del Corriere, Ferruccio De
Bortoli e diverse personalità comunitarie: il presidente Walker Meghnagi,
il vicepresidente Daniele Cohen, il
Rabbino Capo, Rav Alfonso Arbib
e i consiglieri Raffaele Besso, Davide
Hazan, Guido Osimo e la consigliera
22
Bollettino
Nava Semel
Ucei, Sara Modena.
«Sono molto orgoglioso di vedere una sala tanto piena, in questa
quattordicesima giornata della Memoria», ha esordito Alessandro Melchiorre, Direttore del Conservatorio.
Dopo la sua introduzione, ha lasciato
spazio a numerosi interventi, primo
fra tutti quello di Rav Arbib. «Cosa
dobbiamo ricordare? Cos’è la giornata della Memoria? È fondamentale
il tema della responsabilità, che è il
contrario dell’indifferenza che c’è
stata in passato e che è ben presente
anche nella società in cui viviamo,
nella quale si tende a scaricare sugli
altri le nostre responsabilità. Essere
responsabili significa trasformare i
sentimenti in azioni. Questo è un
concetto molto importante anche nel
pensiero ebraico, tanto che il maestro americano di origine lituana,
Joseph Soloveitchik, riprese Cartesio
dicendo: ‘sono responsabile, quindi
esisto’ e quando noi scarichiamo le
responsabilità, scarichiamo la nostra
umanità».
Subito dopo ha parlato Ferruccio
De Bortoli, che ha messo in luce le
proprie preoccupazioni riguardo a
«una certa stanchezza del Giorno
della Memoria, sottolineata anche
dal libro di Elena Loewenthal».
Proprio riguardo al testo Contro il
Giorno della Memoria, che sta suscitando vivaci polemiche, De Bortoli
ha detto che «esso pone interessanti interrogativi riguardo a una certa
ridondanza e alla sovrabbondanza
di questo rituale della Memoria.
Bisogna stare attenti al messaggio,
che non riguarda solo gli ebrei ma
tutta la nostra società; l’Italia non
è stata solo un punto di passaggio,
ma in quegli anni ci sono state molte
complicità oltre a grandi atti di eroismo». Dopo i discorsi istituzionali, la
parola è passata alle testimoni, intervistate dal direttore della Fondazione
CDEC Michele Sarfatti.Goti Bauer e
Liliana Segre si sono soffermate sulla
trasmissione della memoria agli studenti che, hanno sottolineato, «non
Nava Semel ha presentato all’Auditorium della
Shoah il suo romanzo Testastorta, ambientato in
Piemonte durante la Seconda Guerra Mondiale
deludono mai, sono sempre pieni di
domande e di curiosità».
Finale in musica con i cori delle voci
bianche e l’Orchestra da Camera
del Conservatorio, inframezzati
dagli aneddoti di Claudio Ricordi,
conduttore della rubrica di Musica
Classica su Radio Popolare, che ha
ricordato varie figure di musicisti
morti nella Shoah e di sopravvissuti.
Prima delle note musicali, Ricordi
ha rievocato la vita e l’opera del
compositore praghese Hans Krasa
e la sua opera Brundibar, composta
per i bambini orfani; il trombettista
ebreo danese Paul Aaron Sandfort,
uno dei pochi sopravvissuti del lager
di Terezin, del quale Ricordi ha fatto
ascoltare una delle sue ultime interviste. E poi Leone Sinigallia «il più
germanico dei compositori italiani».
Era un artista sempre alla ricerca
di nuove forme espressive «influenzato dalla musica popolare. Nato
a Torino nel 1868 conobbe artisti
eccellenti come Puccini, Toscanini,
Brahms e Dvorak». Una vicenda tragica, quella di Sinigallia, che ebbe
una vita divisa in due parti: prima la
fama come acclamato compositore
a livello europeo fino agli anni ‘30;
poi l’avvento delle Leggi razziali. Da
lì la sua situazione peggiorò sempre
di più fino alla morte, il 16 maggio
1944, in campo di concentramento.
Alla fine della serata, il chitarrista
Emanuele Segre ha eseguito melodie
per chitarra, ispirate dall’amicizia
fra Castelnuovo e Andres Segovia
come “Melanconia” e “Primavera”
per poi concludere con un bellissimo “Andantino alla Romanza” dal
Concerto n. 1 diretto da Amedeo
c
Monetti. Tanti gli applausi.
Marzo • 2014
Scrivo per i Giusti
della Shoah italiana
“P
er me è una grande
emozione presentare
questo libro in Italia. E
poi in un luogo così intenso come il
Memoriale della Shoah…Prima di
arrivare qui pensavo fosse solo un
Museo della Shoah. Mai avrei pensato a un posto così evocativo, con
il rumore dei treni di sottofondo».
Non nasconde la sua emozione la
scrittrice israeliana Nava Semel durante la presentazione dell’edizione
italiana di Testastorta (edizioni Salomone Belforte & C.), il suo ultimo
romanzo ambientato nell’Italia della
Seconda guerra mondiale. L’incontro
si è tenuto il 23 gennaio al Memoriale
della Shoah nell’Auditorium Jeanne
e Joseph Nissim alla presenza di Rav
Giuseppe Laras, organizzato dall’Associazione Italiana
Amici dell’Università di Gerusalemme in collaborazione
con il Memoriale della Shoah
di Milano.
L’autrice, nata a Tel Aviv da
genitori sopravvissuti alla
Shoah, è tra le più talentuose
e importanti figure della letteratura israeliana contemporanea,
autrice di Il Cappello di Vetro, Come si
avvia un amore e E il topo rise (Atmosphere Libri). In tutti, la Shoah e
il tema della memoria sono sempre
presenti, in quanto temi profondamente vicini alla vita dell’autrice.
“Anche in Israele la memoria della
Shoah ha faticato ad affermarsi, per
la volontà dei sopravvissuti di voltare pagina e di andare avanti – ha
Marzo • 2014
di Ilaria Myr
spiegato -. Solo a poco a poco mia
madre ha cominciato a raccontarmi
cosa aveva vissuto. Per esempio, che
quando era su un treno per andare
da Auschwitz in un campo di lavoro
in Germania, a una stazione aveva
cominciato a chiedere da bere, agitando la mano dalle grate. Improvvisamente, una mano le aveva dato un
bicchiere d’acqua. Questo non solo
le aveva salvato la vita, ma le aveva
anche restituito un briciolo di fiducia
nel mondo e nelle persone, e la forza
che forse valeva la pena vivere. Ed è
proprio delle persone che “porgono
il bicchiere d’acqua” che ho voluto
parlare nel mio ultimo libro”.
Testastorta parla infatti di Giusti, di
persone buone che in Piemonte, a
Borgo San Dalmazzo, nascondono un ebreo a rischio
della loro vita, ma anche del
lato buio di questo orribile
periodo, di fascisti e nazisti
indottrinati e ciechi davanti
alla sofferenza di esseri umani. Tutto ruota intorno al
protagonista, Tommaso, un
bambino che è convinto che
nella soffitta ci sia una principessa,
che altri non è che un ebreo che le
due donne hanno adottato e il bimbo stanno nascondendo. Sono loro
a chiamare bugiardo e “testastorta”
il piccolo Tommaso, umiliandolo e
offendendolo, ma, in realtà, con il
solo obiettivo di zittirlo e fare in modo
che la Gestapo non si insospettisca e
vada a controllare se effettivamente
c’è nascosto qualcuno.
Tutto parla italiano in questa storia:
l’ambientazione geografica, le persone, le vicende di un’Italia sconvolta
dalla guerra. Ma Nava Semel non
ha nessun origine italiana, nessun
legame personale con il nostro Paese.
Allora, da dove la scelta di scrivere un
romanza storico sulla Shoah italiana?
«Non so se sono le storie che aspettano me o se sono io che trovo le
storie - ha spiegato -. Di sicuro, nel
caso di questo libro è stata la storia che ha trovato me. Otto anni
fa ero stata invitata a Fossoli per
un convegno su Primo Levi e, in
seguito, in Piemonte: era la prima
volta in assoluto che visitavo questa
Regione. Un giorno passeggiavo per
Borgo San Dalmazzo, affascinata
dai tetti spioventi che in Israele non
esistono: a un certo punto, ho visto
un tetto con sotto una soffitta. E’
lì che ho avuto la rivelazione: mi è
sembrato di vedere qualcuno al suo
interno, ho sentito che lì era accaduto
qualcosa. ‘In questa casa avevano
salvato degli ebrei durante la guerra’,
mi confermò la mia guida italiana.
Così nacque Testastorta: una storia
sul tema del prezzo che si paga per le
proprie azioni. Ma anche una storia
d’amore fra una delle protagoniste,
Maddalena, e Salomone Levi, l’ebreo
nascosto».
La stesura del romanzo impegna Nava
Semel per ben sei anni: un impegno
intenso, che la assorbe talmente da
portarla a fermarsi, poi, per due anni.
Uscito due anni fa in Israele (solo oggi
è disponibile in italiano), il testo è
stato subito accolto con entusiasmo
e interesse dalla critica israeliana.
«Mi piace l’idea di potere contribuire
ad approfondire la conoscenza sulla
Shoah italiana – ha commentato -,
di cui in Israele non si sa molto, e su
cui non penso esista una letteratura
c
di narrativa»..
Bollettino
23
eventi, mostre, incontri per il giorno della memoria
cultura
di Maurizio Meschia
H
o scritto qualche riga
al rientro dal mio recente viaggio ad Auschwitz Birkenau, un
viaggio della memoria
per me particolare in quanto figlio
di uno dei pochissimi membri della
Comunità di Rodi sopravvissuti alla
deportazione.
Due giorni sotto la pioggia ed il gelo
ad ascoltare Marcello Pezzetti e le
voci degli anziani sopravvissuti senza
poter fare a meno di pensare alle
migliaia di nostri fratelli in vestiti di
tela e zoccoli di legno condannati
a morte certa dalla scientifica programmazione nazista.
Mi si chiede cosa penso del dibattito in corso rispetto al significato
del giorno della Memoria; esprimo,
da non addetto ai lavori, alcune riflessioni rispetto alle quali ritengo di
avere trovato una sorta di riscontro
anche nell’ambito di questa mia recente esperienza.
Parto da una considerazione espressa da più voci, e ricordo quella del
Presidente della CER, Riccardo Pacifici, rivolto alle scuole romane. Il
Giorno della Memoria non è per noi
ebrei, ma per coloro che ebrei non
sono. Funziona questa formula nei
riguardi del target di coloro che ci
circondano? O siamo invece prigionieri della retorica che impedisce che
un messaggio universale si diffonda
realmente?
La mia conclusione è che funzioni. Nel corso del mio soggiorno in
compagnia di scuole pubbliche e di
autorità ho notato, una volta di più,
come il bisogno di conoscere e l’acquisizione di consapevolezza riguardo all’Olocausto investa le coscienze
di giovani ed adulti allo stesso modo.
Non dimentico che, per molti anni,
lo studio delle vicende storiche nel
tempo più vicine a noi, veniva in
buona misura trascurato nelle scuole
e che, nel dopoguerra, ci sono state
generazioni che hanno concluso il
programma delle superiori giungendo a coprire a malapena il secondo
24
Bollettino
Se non ci fosse un Giorno
dedicato, nessuno ne parlerebbe
È un’occasione
per conoscere
Raffaele Turiel
conflitto mondiale, certamente senza nieri di Auschwitz, ci troveremmo
tempo per approfondire lo studio del in un simile contesto di attenzione,
più esteso genocidio di massa.
comunicazione, dibattito.
Erano gli anni, ante giorno della E creatività che non ti aspetti. Come
memoria, del ricordo intimo, delle definire il sobrio documentario in
cerimonie per pochi, dell’elabora- bianco e nero realizzato dalla telezione del lutto da parte dei soprav- visione commerciale per eccellenza,
vissuti alcuni dei quali, solo dopo Sky, traendo spunto dal libro sull’alanni, si convinsero della necessità lenatore Arpad Weisz deportato ad
di raccontare la propria esperienza. Auschwitz? Una efficace leva non
Sono anni che hanno lasciato una convenzionale per relazionarsi con
sorta di vuoto.
gli alunni, come attesta una maestra
Quando ci poniamo, correttamen- ringraziando l’autore del libro. Si sate, in una prospettiva critica, a volte rebbe mossa Sky, se non motivata
estremamente critica, rispetto alla dalla volontà di offrire un proprio
“gestione” di questi temi probabil- contributo giornalistico originale alla
mente sottostimiamo l’efgiornata del 27 gennaio?
fettivo livello di conoscenza
Che le strade per accedere
dei nostri interlocutori. Così
e confrontarsi con questo
come accade per Israele,
terribile abisso della storia
quando abbiamo la possibimoderna siano le più dilità di introdurre le persone
sparate, posso confermaralla conoscenza dei fenomelo ricordando un episodio
ni che ci coinvolgono, la riil cui ricordo mi lega alla
sposta è straordinariamente
memoria di mio padre Boaz
positiva
Z”L. Dovevo essere un adoNon sono le cerimonie pub- Raffaele Turiel lescente assai fastidioso,
bliche del 27 gennaio, ma
con il vizio di continuare
l’indotto di iniziative generate a a chiedere dei campi di sterminio,
corollario di questa ricorrenza che dinanzi al quale mio padre mi sugle conferiscono valore. Mi riferisco gerì, per soddisfare la mia curiosiai progetti scolastici di ricerca de- tà, di leggere non già un trattato
dicati, al numero di scuole italiane di storia, ma un romanzo, QBVII
che visita i campi di sterminio, alla di Leon Uris. Un best seller degli
presenza ormai famigliare dei testi- anni ‘70 dell’autore di Exodus, diffimoni che diffondono tra i giovani cile da reperire, che ho riacquistato
gli anticorpi alla discriminzazione. on line per farne omaggio alla mia
Non c’è controprova, ma trovo dif- compagna di viaggio, Maria Chiara
ficile pensare che, in assenza di una Carrozza, Ministro dell’ Università
bandierina nel giorno del calendario e della Ricerca e che consiglio a tutti
c
che segna la liberazione dei prigio- i lettori del Bollettino.
Marzo • 2014
La strada
di Haim
Tra romanzo, saggio,
biografia. Esce il nuovo
libro di Haim Baharier
N
di Maurizio Meschia
on si può dire che Haim
Baharier non riesca a sorprenderci. Studioso e maestro del pensiero di Israel,
oltre che psicanalista e matematico,
ermeneuta che riempie i teatri e le
aule universitarie con le sue lezioni
di Torà, oggi Baharier ha deciso anche di raccontarsi e scrivere. Così,
questo “arredatore di precipizi”, in
questi anni ci ha consegnato quattro
interessanti testi (La Genesi spiegata da
mia figlia, Il tacchino pensante, Le Dieci Parole, Qabbalessico) mentre oggi
approda nelle librerie la sua quinta
opera: La valigia quasi vuota (Garzanti). È probabile che nelle intenzioni
dovesse essere un romanzo, ma gli
è sfuggito (meravigliosamente) di
mano. Questo libro è molte cose
insieme. Non è un romanzo ma lo
sembra, non è un’autobiografia ma
ci somiglia, non è un saggio ma molto di più, non è un “giallo” ma ne
ha alcune innervature. È uno sciur,
una lezione? Sì, anche. Tanti insegnamenti sgorgano, con naturalezza,
dal testo. E anche quando la pagina
vorrebbe essere “leggera”, per Baharier è irrimediabilmente mezzo di
interpretazione-trasmissione di Torà.
Il “racconto” si snoda fra Parigi,
Milano e altre parti del mondo, in
un cambio frequente di scena tra
passato e presente. Una materia
ibrida e pulsante, veritiera (molto)
e immaginaria (poco), che si presterebbe egregiamente per ricavarne
un film. La Parigi di sottofondo è
quella dell’immediato dopoguerra, degli anni Cinquanta. Sono gli
Marzo • 2014
anni dell’infanzia e dell’adolescenza
dell’autore, che viveva con il fratello
più piccolo e con i genitori, entrambi
polacchi scampati da Auschwitz, in
un angusto appartamento del Marais. Padre e madre lavorano duramente in quel “buco”, in compagnia
del ritmo ossessivo delle macchine
per cucire, da cui nascerà una grande impresa. Baharier si racconta e
lucida i ricordi con nuove consapevolezze. Il ragazzino che era ascolta
e assorbe tutto, cresce imbevuto di
quell’atmosfera pesante e cupa che
regna sull’ambiente dei reduci dai
campi, le infinite sigarette, il whisky
o il rum e il poker all’uscita di Shabbat a casa sua o di qualche amico di
famiglia. Riunioni di “uomini e donne, dai volti scavati, cadaveri lisciati a
festa per il funerale”. E poi il tempio,
precettori narcolettici, rabbini senza
tempo, una toccante figura di sarto
maestro di Talmud che formano o
supportano il suo ebraismo. E ancora, i problemi a scuola, la strada, le
insolenze antisemite che il ragazzo si
trova a dover fronteggiare. Su tutto
questo dipanarsi di scene intagliate
con esattezza cinematografica aleggia onnipresente la figura paterna,
discreta e potente, gelida e protettiva, e soprattutto quella di Monsieur
Chouchani, il protagonista del libro.
Enigma vivente, Chouchani appare
e scompare periodicamente in quella
Parigi. Non si sa da dove venga e
dove vada. Porta con sé una valigia
malconcia legata con una corda.
L’aspetto è quello di un clochard,
senza età né patria, con un eterno
cappotto nero sdrucito, maleodorante ma dignitoso, sembra sceso da un
altro pianeta. La sua immagine poco
rassicurante è però compensata da
un sapere che sembra illimitato. A
Parigi viene atteso e conteso dalle
migliori menti: accademici, scienziati, medici, filosofi, rabbini, che a lui
si rivolgono per venirne illuminati.
Non ha un buon carattere, è scostante e di poche scolpite parole. Sa
ovviamente tutto di Torà e quando
parla in Tempio
lo fa per scuotere,
verso i reduci non
ha atteggiamenti
consolatori. Durante lo Shabbat
viene saltuariamente ospitato in
casa Baharier, il
ragazzino ne ha
ripulsa e timore ma con il tempo
intuisce la straordinarietà di quegli
incontri che lo accompagneranno
per sempre e saranno linfa per il
suo percorso di studioso. Monsieur
Chouchani, qui êtes-vous? Questo barbone lunare è venuto a testimoniare la fierezza della claudicanza, la
precarietà della condizione umana.
Chouchani impersona l’universale
miniaturizzato e viene a dirci - attraverso l’autore - che l’onniscienza non
è nulla senza il senso della caducità
e della miseria dell’essere umano,
che si può rimanere grandi pure ritraendosi e lasciando spazio, “rimpicciolirsi senza diminuirsi”. Senza
sconti, Chouchani consegna il suo
messaggio aspro richiamando alla
responsabilità individuale e collettiva
nella costruzione di una società più
giusta ed equa per scongiurare, se
non quella fisica, la morte delle civiltà. E lo porge al suo popolo di Israele
perché se ne faccia portavoce, consapevolmente claudicante, prima di
scomparire e ritornare nell’ignoto da
cui era venuto. La valigia quasi vuota
è un libro più difficile da raccontare
che da leggere, godibile e profondo,
imprendibile come la poesia con i
suoi segnali d’altrove, permeato da
un sottile magnetismo che cattura
e che, se ci distraiamo, ci batte delicatamente sulla spalla. Già ma la
valigia? Verrà aperta e il contenuto
svelato quasi alla fine del libro. c
Maurizio Meschia, nato a Milano, 1952. Ha
pubblicato le raccolte di versi “Il geometra nel
deserto” (Crocetti), “Stazioni di quieto esilio”
(Book Editore), “Poeta in cucina” (Viennepierre), “Esercizi di piccola salvezza” (Casabianca)
e i racconti “L’uomo su cui cadono piume” (Ed.
Nuove Scritture).
Bollettino
25
eventi, mostre, incontri
cultura
Aleppo sul lago di Como
In un libro, l’incontro tra Piero
Fornasetti e Miro Silvera
E
ra quasi ottantenne quando l’ho incontrata, a Londra, durante un’intervista.
La conoscevo di nome, e
per me non era solo la grande fotografa delle star, l’amica di Marylin
Monroe, di Liz Taylor e di Malcom
X. Eve Arnold, per me, era l’eroina
assoluta del fotogiornalismo, tra le
poche donne reporter, una viaggiatrice inarrivabile per fibra emotiva,
tempra fisica e acutezza di sguardo,
molto simile, in questo, ad un’altra
eccezionale reporter, Alexandra
David Neel, ebrea anch’essa, morta
centenaria - come Eve -, e sofisticatissima giramondo. Eve Cohen, conosciuta come Eve Arnold, fu tra le
poche americane a essere ammessa,
negli anni Settanta, nella Cina comunista; a entrare in Arabia Saudita e a
visitare, per Life e per il Sunday Times,
la Mongolia, l’India, l’Afganisthan; a
entrare a Harlem in piene rivolte razziali, quando nessun bianco avrebbe
trovato igienico metterci piede. Era
riuscita e penetrare nella Russia degli
anni Cinquanta, a Cuba e perfino
in Vaticano. Autrice, ancora, tra le
immagini e i ritratti più memorabili
del XX secolo, da Malcom X a Indira Gandhi, da Marlene Dietrich alla
Monroe. Oggi, una mostra a Torino,
a Palazzo Madama, la celebra con 83
dei suoi scatti più famosi, ma anche
con clic inediti o più affettivi (fino al
27 aprile).
Nata il 21 aprile 1912, a Philadelphia, da immigrati russi, inizia la
carriera fotografica nel 1946 a New
York. Segue i corsi di Alexey Brodovitch, art director di Harper’s Bazaar,
che per primo ne intuisce il talento e
In alto: L’addestratrice di cavalli in Mongolia;
Eve Arnold (foto di Robert Penn). A destra:
Anthony Quinn e Anna Karina sul set del
film Gioco perverso; Marylin Monroe sulla
copertina del catalogo della retrospettiva.
Di origini russe, mitica fotorepor ter, fu
l'unica donna dell'agenzia Magnum: 83 scatti
in mostra oggi a Torino
Eve Cohen, in arte Arnold:
la regina del clic di Fiona Diwan
le commissiona dei servizi di moda.
Henri Cartier-Bresson la nota e la
introduce nel collettivo dell’agenzia
Magnum, prima come freelance, nel
1951 e dal 1957 come membro effettivo. A metà degli anni Sessanta, Eve
Arnold si stabilisce a Londra, dove
morirà a 99 anni. Proveniva da una
famiglia di ebrei fuggiti dai pogrom
e dalle persecuzioni del primo Novecento, in Russia. Il padre, un rabbino,
non parlava l’inglese ma sbarcherà a
New York; per mantenere la famiglia
di otto bambini aveva fatto di tutto,
incluso il venditore ambulante, ed era
riuscito a inculcare nei figli l’amore
per la lettura, a dare loro una grande curiosità verso il mondo. Eve non
poté frequentare l’università e trovò
lavoro in vari uffici. «L’America non
ci aveva portato ricchezza, ma la libertà di esser noi stessi e la possibilità
di lavorare», diceva spesso. Divenne
fotografa da adulta, per caso, a trentadue anni. «Una professionista instancabile, che amava girare da sola e
fotografare gente semplice, che fosse
sul set di un film o a tu per tu con la
folla, con uomini e donne che facevano le loro cose, nella loro intimità,
a casa e al lavoro. Eve riusciva a farsi
accettare dalla gente che fotografava
e a conquistare la loro fiducia, perché
era diretta, onesta e genuinamente
curiosa», scrive di lei, nel saggio del
bel catalogo Silvana Editrice, la scrittrice Simonetta Agnello Hornby. E
spiega, ancora: «L’Addestratrice di cavalli in Mongolia è un piccolo capolavoro
fotografico: un cavallo bianco disteso
su un prato, la sua addestratrice vestita di rosa confetto e stivali, sdraiata sull’erba, la mano destra poggiata
sul suo fianco. Il verde profondo del
prato punteggiato da margheritine
bianche avvolge cavallo e ragazza.
Una composizione apparentemente
idillica, densa di pathos. E di suprema bellezza. Eve amava molto quella
fotografia, le ricordava la gente fiera
e combattiva che l’aveva accolta a
braccia aperte. “Erano poveri”, diceva, “e mi offrivano tutto quello che
c
avevano”».
L’
incontro non sarebbe potuto essere più eccentrico: un
giovane poeta cosmopolita,
nato ad Aleppo e di origine
ebraica e un artista lombardo visionario e intriso di cultura classica.
Eppure, a renderli affini, era un certo
gusto surrealista e vagamente
metafisico, nonché un amore
sconfinato per le forme, le
arti applicate e la decorazione d’interni. Siamo a Milano,
negli anni Sessanta e stiamo
parlando di Piero Fornasetti
(1913-1988) e Miro Silvera
(1942). Un incontro speciale,
avvenuto al crepuscolo della
vita artistica del genio lombardo del design industriale,
vissuto a lungo a Varenna,
sul lago di Como.
La duplice occasione per riparlarne è oggi non solo la
bella mostra alla Triennale,
Fornasetti, 100 anni di follia pratica (molto ben restituita dal catalogo Corraini), ma anche la ripubblicazione di
Liber Singularis di Miro Silvera (Sefer
Books), testo di poesie e prose uscito
nel 1977 con 10 disegni inediti, molto belli, fatti ad hoc da Fornasetti
per il giovane amico scrittore (la
di Fiona Diwan
nuova edizione della raccolta poetica è stata presentata in Triennale,
all’interno della mostra, proprio dal
figlio Barnaba Fornasetti e da Michela Moro). Vale la pena riflettere
su quell’incontro riconducendolo
alla fame di modelli di riferimento
talentuosi e artistici di cui
andava a caccia il trentenne
Silvera e il bisogno di entrambi, il vecchio e il giovane, di
attivare corto circuiti creativi che fossero stimolanti e
fantasiosi. Così nacque Liber
Singularis (pubblicato nel 1977
nella prestigiosa collana di
poesia di Scheiwiller e oggi
disponibile in edizione limitata o in versione e-book,
4,99 euro). Entrambi, Piero
e Miro, coltivavano il senso
di mistero che circonda l’arte
e la vita, un sentimento arcano e insieme razionale che
governa la creazione della bellezza
(sappi/che l’arcano/ regna/ sovrano/ e
che il sovrumano/ si traveste/ d’umano,
scrive in una poesia Silvera; “Non
apparteniamo a questa terra. Siamo ospiti,
invasori. Come vi siamo giunti ne partiamo. Poveri e stupidi. Ognuno possiede una
chiave diversa, per un’altra casa che non
conosce. È la commedia degli equivoci,
in perpetuo”). Entrambi, il vecchio e
il giovane, amano i riferimenti alla
pittura metafisica, amano la sensibilità surrealista per i giochi di parole,
hanno una predilezione per i tripli
sensi o il non-sense, coltivano un gusto onirico per le visioni fluttuanti e
rarefatte, purché racchiuse in un rigore compositivo che dia loro ordine.
Fantasia, eleganza, rigore, humour.
Questo troviamo negli oggetti e nei
pattern di Fornasetti, questo leggiamo nelle righe di Miro Silvera, un
divagare immaginifico che sollecita
un divertissement erudito e giocoso.
Non che le poesie di Silvera non conoscano la dimensione del tragico,
ma semmai la vogliono ignorare,
lasciare ai margini.
La sua è una dimensione orfica, misterica, dove lo scorrere del tempo è
un tornare all’inquieto rosicchiare della
vita, al compromesso. Sono deserto tra i
deserti... In definitiva, scrive di se stesso, je ne suis qu’un drame en cravate, non
sono che un dramma in cravatta. E
aggiunge, ancora ironico: Ho, in fondo,
sempre vissuto come al cinema. Aspetto che
la luce si accenda.
Altri versi invocano le stelle /che navigate / nelle mie carni/ che governate/
dall’alto le armi/ i carmi/ degli sconfitti/
il passo/ dei delitti / m’avete impresso...
Poesie in cui l’Io è un cristallo che sogna... Che cos’è l’amore se non la sua
attesa? Per che cosa ci risparmiano
gli angeli?, si chiede il poeta.
«Questo piccolo libro è un grazie a
Fornasetti per l’insegnamento che mi
ha lasciato, per la sua grande libertà
creativa e per quel suo burbero scansare cose e persone che non gli sembravano degne d’attenzione. Anche
quella è stata una lezione magistrale
che però non so ancora applicare
bene», dice Silvera. «La qualità ha
un prezzo che si paga con la solitudine. Ma lui è ancora qui, in mezzo
a noi, fra tanti bellissimi oggetti; ed è
anche nelle pagine di questo piccolo
libro. A lui vorrei oggi dire grazie:
grazie Piero, di essere presente per
noi, Maestro nella grande tradizione
italiana del Decoro e del Bello». c
A sinistra: Miro Silvera ritratto da Fornasetti. In alto:
una geografia del cuore, disegno di Piero Fornasetti.
Bollettino
27
nel segno
eventi,
dellaanniversari,
Società Umanitaria
incontri
cultura / città
Concepì un modo diverso di fare il
Bene e di abitare Milano: più solidale,
condiviso, sociale. Oggi, il Quartiere
Solari 40 rilancia il progetto che fu
del suo ideatore originario: Prospero
Moisè Loria, il mecenate ebreo
dell’Ottocento -di cui il 7 aprile si
celebra il bicentenario della nascitache regalò ai poveri di Milano la
Società Umanitaria
Da sinistra: pranzo nell’area della ex bocciofila (foto Alessandra Attianese); la
biblioteca; il Quartiere ai primi del ‘900; il giardino comune; l’insegna d’epoca.
L’Umanitaria e l’utopia realizzata
di Prospero Moisé Loria
«V
ede? Abbiamo riaperto il ‘giardino
d’estate’. E presto
la sede del comitato dei cittadini,
presso la vecchia panetteria del
quartiere. Nella Casa del Popolo,
diventata sede dell’Arci Solari, si realizzano corsi di musica e ginnastica.
E nella bocciofila c’è il palco, dove
d’estate presentiamo libri e musica.
Tutte occasioni per stare insieme».
Mario Gaeta, anima del comitato
Solari 40, è l’entusiasta cicerone
che mi presenta il Progetto per la
riqualificazione del quartiere fondato
dalla Società Umanitaria nel 1906,
e ne racconta il passato - nei muri,
nella corte, nel retro delle vecchie
botteghe artigiane, nei luoghi di aggregazione-.
Il Quartiere Solari 40 sarà la sede,
lunedì 7 aprile, di un incontro dedicato a colui che volle, con lascito
testamentario, istituire la Società
Umanitaria: quel Prospero Moisè Loria, ebreo mantovano che a
Milano realizzò le sue imprese, e
di Ester Moscati
che nel 1884, lanciando l’idea di
costituire la Società Umanitaria,
diceva: “si potrebbe applicare alla
Beneficenza tutti i criteri che possono derivare dal grande e fecondo
principio d’associazione, all’intento
di coordinare tutto ciò che esiste di
filantropico (...) tutti quei provvedimenti che valessero ad assicurare
vitto, alloggio e lavoro alle classi bisognose, affinché i poveri abbiano a
popolare le officine e i campi, che
col lavoro moralizzano e producono.
La Società Umanitaria si prenda a
cuore l’incremento del lavoro utile,
adattandolo alle vocazioni e capacità
dei singoli lavoratori, facendolo insomma diventare, da penoso, come
spesso è oggi, piacevole e attraente”.
Lungimirante, innovatore, generossissimo - il suo lascito ammontò a 13
milioni di lire nel 1893 - Loria gettò le basi per l’emancipazione delle
classi povere attraverso il lavoro e lo
studio, considerando la semplice elemosina umiliante e inutile ai fini del
riscatto sociale. Applicò il concetto
ebraico di tzedakà e fu molto più
di un filantropo, un vero innovatore
sociale. A rievocare il suo messaggio
e la sua figura, nell’incontro del 7
aprile, bicentenario della nascita,
saranno, tra gli altri, il Sindaco di
Milano Giuliano Pisapia, il Rabbino
Capo Rav Alfonso Arbib, lo storico
Bruno Pellegrino, autore del libro
appena uscito Il Filantropo. Prospero
Moisè Loria e la Società Umanitaria (Minerva edizioni).
Ma torniamo nel Quartiere Solari
40. Oggi va di moda (ed è una bella
moda): si chiamano “social street”,
gruppi di abitanti di un quartiere
che decidono di “socializzare” con
le persone del vicinato e valorizzare
spazi comuni. Ce n’è già una decina,
attive a Milano. Ma qui è diverso: la
storia è antica, le strutture c’erano
già cento anni fa, racchiuse entro
le mura di un quartiere che, oltre
ai palazzi di appartamenti - con un
gusto art nouveau ancora leggibile
nelle ringhiere di ferro battuto e nelle
cornici delle finestre - , contava una
scuola Montessori, l’Università popolare, la Casa del Popolo al centro
del cortile, bagni, docce e lavatoi dava all’aggettivo “umanitaria” non
comuni (addirittura con “asciugatri- il senso di semplice assistenza e beci” per preservare gli appartamenti neficenza, ma l’assistenza mediante
dall’umidità!), il giardino e il campo lo studio, l’istruzione, il lavoro. Uno
da bocce, un piccolo orto.
statuto che allora si imponeva per
Basta varcare oggi la soglia di via una differenza sostanziale rispetto a
Solari 40 e ci si lascia alle spalle il quei tempi: perché l’assistenza ai più
rumore del traffico. Non sembra deboli, nel pieno rispetto della loro
neppure di essere a Milano, ma in dignità, doveva porsi non come una
una provincia tranquilla, dai ritmi caritatevole elemosina, bensì spindiversi, in cui tutti si conoscono e gendoli ad elevarsi da soli ricercando
si danno una mano. La signora an- i propri valori intellettuali ed umani,
ziana del terzo piano non sta bene, grazie all’impegno individuale poci si divide tra chi va a farle la spesa sto negli studi, nell’istruzione e nel
e chi le fa un po’ di compagnia. Le lavoro». Un tipo di beneficenza che
botteghe artigiane che si affacciano ha nel concetto ebraico di Tzedakà
sulla strada tengono aperte le vetrate la sua matrice originaria. «Abbiamo
sul cortile interno e chi ha bisogno di voluto nel nostro statuto ricordare
piccole riparazioni e un aiuto veloce espressamente Loria - dice ancora
si affaccia e chiama.
Mario Gaeta - scrivenC’è la sede provvisoria del
do che ‘il Comitato si fa
Comitato con una piccogarante della memoria di
la biblioteca. Ma nella ex
Prospero Moisé Loria senpanetteria sono già pronti
za il contributo del quale
i nuovi scaffali per i libri
questo Quartiere non esie la sala riunioni dove, atsterebbe e non sarebbe
torno a un ampio tavolo di
sorto nella forma e nella
vetro, sono state recuperaispirazione anche da lui
te meravigliose sedie privoluta’. Vogliamo valorizmo Novecento di metallo
zare questa memoria per
Mario Gaeta
traforato. Alle pareti, fotorecuperare l’idea originaria
grafie d’epoca che rievocano i tanti dell’autogoverno degli abitanti nella
momenti condivisi nel quartiere: la gestione delle case. Un autogoverno
scuola, le recite, le feste in giardino, che allora era reso possibile dal conil dopo-lavoro con le partite a bocce. tributo di intellettuali che collaboL’importante è socializzare, spezzare ravano con la Società Umanitaria e
l’isolamento a cui la città ci abitua. che oggi si realizza anche grazie alla
«La Società Umanitaria - si legge nei disponibilità del Comune e di tante
documenti diffusi dal Comitato dei associazioni vicine al comitato dei
cittadini - è una delle più importanti cittadini, per la riqualificazione di
istituzioni di Milano. Ente morale, è tutto il quartiere». E così si pensa di
nata nel 1893 grazie al lascito testa- riattivare, nei locali che furono l’Unimentario di Moisè Loria, mecenate versità popolare - la cui frequenza
milanese di origine mantovana, che non era obbligatoria ma fortemenA sinistra: panoramica di Stefano Yuber
te caldeggiata - iniziative che ripropongano quel connubio tra Popolo e
intellettuali. A ripercorrere la storia
del quartiere, si resta infatti colpiti
e affascinati dalla potenza etica che
ne stava alla base. Dal modo in cui
venivano affrontati e risolti controversie e problemi tra gli inquilini,
si scopre che il quartiere operaio,
costruito e gestito dall’Umanitaria,
voleva rappresentare un modello di
gestione autonoma, in cui tutti dovevano sentirsi spronati alla solidarietà, al rispetto del bene comune,
all’emancipazione morale, intellettuale ed economica. E oggi? «Oggi
- dice Mario Gaeta - sono diverse
le associazioni che in questi anni
hanno collaborato con il Quartiere; è importante sottolineare questo
aspetto perché è un po’ la ripetizione
di quanto accadde nel secolo scorso,
quando professionisti e intellettuali
milanesi accompagnarono l’emancipazione degli abitanti. Mi riferisco al
MuseoLab6, Naba, Dynamoscopio,
Esterni, IED, l’Arci Solari, l’Istituto
Stainer, I Custodi sociali, Consiglio
di Zona 6, Cittadini Solari, e soprattutto Spazio Abitare (della direzione
generale casa del comune) che oltre
a occuparsi della ristrutturazione
del Quartiere è il luogo dove tutte
le iniziative vengono confrontate e
c
sviluppate».
Bollettino
29
libri, cinema, teatro, mostre
cultura libri
Della Russia, il sublime inganno
L’assedio di Leningrado: fame, freddo, atrocità. Olga
resiste fino allo stremo. E scrive un memorabile diario
di Fiona Diwan
D
Olga Berggol’c, Diario proibito - La verità nascosta
sull’assedio di Leningrado,
Marsilio, pp.159, 14,00 euro
ai microfoni di Radio Leningrado
la sua voce vibra: nei 900 giorni
dell’assedio delle armate di Hitler,
Olga Berggol’c conforta i compatrioti, li rinfocola, scherza, legge loro poesie e diventa il
simbolo dell’inimmaginabile resistenza dei
leningradesi. Di giorno infonde coraggio,
di notte piange: il marito morto di stenti,
la fine di amici e innamorati, dei bambini
e dei vecchi che ha amato e che cadono
come mosche. Nel suo diario annota la
disperazione quotidiana e la retorica di
regime che falsa tutto, poi scrive un poema
e alla fine seppellisce tutto in un cortile,
per paura della censura staliniana. Dall’8
settembre 1941 al 27 gennaio 1944 - tanto
durò l’assedio-, si dipana l’altalena di agonia
e speranza, bombardamenti e allarmi aerei,
e quell’enormità numerica impossibile da
calcolare secondo il normale metro della sofferenza, un milione e 250 mila morti. Olga
è bella, carismatica, fervente bolscevica,
Top ten DaVAR
I dieci libri più venduti in febbraio alla
libreria Davar, via San Gimignano 10,
tel 02 48300051
1. Angelo Pezzana, Mosè ci ha
portato..., Bollati Boringhieri, € 8,50
2. Gheula Canarutto, (Non) Si
può avere tutto, € 12,90
3. Michael Laitman, Lo Zohar
rivelato, Urrà, € 21,00
4. David J. Lieberman, Non farti
fregare, Armenia, € 14,90
5. The Family Midrash Says,
The Book of Daniel, € 35,00
6. Ines De Benedetti, Poesia
nascosta ricette di cucina,
La Zisa, € 18,00
7. Faye Kellerman, Il falso
profeta, Cooper, € 18,00
8. Jonathan Sacks, Studi sulla
Torà, Lulav, € 18,00
9. Sefer Ha Todà Vol 3,
Morashà, € 24,00
10. Meghillat Ester, Tradotto e
traslitterato, Morashà, € 22,00
ebrea, poetessa: viene violentata dagli agenti
della polizia segreta comunista e il danno
si insinua nella sua vita. Annota pensieri,
sensazioni, episodi, disperazioni; cerca la
verità di tutto quell’immane soffrire; e trova
la falsità di un regime che vuole fare dei
leningradesi degli eroi morti e non degli
esseri umani vivi. Le parole della Berggol’c
sono un documento toccante sull’enormità
della tragedia del suo popolo, sulla pagina più nera della storia sovietica e sulle
contraddizioni di una società schizofrenica
e disumanizzante. Riflessioni scomode:
sul Grande Terrore staliniano, sulle stragi
degli innocenti, sulla menzogna pervasiva
degli apparati di Stato. Così scrive Olga,
nel Poema di febbraio, 1942: Ma chi di noi non
ha vissuto, mai crederebbe/ che cento volte più
arduo e valoroso/ è nell’assedio, accerchiati dai
carnefici,/ belve e mostri non diventare/ Mai
un’eroina sono stata... / Ma noi non piangiamo...
le lacrime dei leningradesi ormai sono di ghiaccio.
La giornalista Lisi,
detective per caso
È la protagonista di una gustosa
serie firmata Shulamit Lapid
di Ester Moscati
L
isi Badichi è una
giornalista dell’edizione locale de La
Gazzetta del Sud e vive nella
capitale del Neghev. Un po’
goffa, trentenne, indossa
orecchini orrendi ed è preda di ansie da prestazione,
per cui non manca mai di
seguire anche l’avvenimento più insignificante; ma sa
fare il suo mestiere. E così,
anche quando la storia che
deve seguire - un complicato caso di omicidio nel
jet set di Be’er Sheva - si
intreccia con i suoi sentimenti e affetti, non perde il
suo istinto e la sua lucidità.
Dalla nostra corrispondente di
Shulamit Lapid (scrittrice
nata a Tel Aviv nel 1934
e madre dell’astro nascente della politica israeliana
Yair Lapid, ex anchorman
dal carisma luciferino) è un
giallo/poliziesco ben costruito. Venato di sottile
umorismo (ah! le domande della “corrispondente
del giornale francese” alle
conferenze stampa!) e autoironia, è però anche una
finestra sulla società israeliana, sul kibbuz, le città
e il deserto, il mondo del
lavoro e la vita dei giovani,
tra delusioni e speranze.
Ne emerge un quadro dettagliato e sincero, senza
infingimenti o blandizie:
la crisi economica e ideale
del kibbuz, dove i vecchi
conservano però un’etica
battagliera cui i giovani si
adeguano un po’ riluttanti;
il mondo accademico, così
autoreferenziale e noioso;
le famiglie attraversate
da conflitti laceranti. Ma
tutto questo è contorno. Il
piatto forte è Lisi Badichi,
determinata a seguire il filo
della notizia, capace di destreggiarsi tra informatori e poliziotti, testimoni e
sospetti, senza mimetismi
o sotterfugi. Un bel personaggio, in cui è facile identificarsi e che, alla fine del
libro, è difficile lasciare.
Ma niente paura.
Pubblicato nel 1996 da La
Tartaruga con il titolo Pro-
Narrativa /Una cavalcata appassionante tra storia, vita, arte
Narrativa / Curt Leviant racconta una crisi morale
Nachman, il rabbi innamorato
1913, l’anno che cambiò il XX secolo
iamo nell’anno di grazia 1800: Goethe sta componendo versi,
Napoleone sta conquistando l’Europa, Beethoven mette in musica una sinfonia, Rabbi Nahman di Bratzlav canta le lodi della
Creazione e... s’innamora. 1800: ovvero il numero che è cento volte
18, che in ebraico significa chai, vita. Quindi 100 volte vita. E Nachman scopre
appunto la... vita sotto le sembianze di una bionda fanciulla. Così il celebre rav
perde il senno, si scorda dell’alfabeto ebraico, si interroga sullo yetzer-ha-rà, su Eva
che fu data ad Adamo come aiuto contro se stesso, ezer quenegdò, sull’amore, sullo
sconforto che segue l’euforia delle passioni. Scansa la depressione, troppo facile,
dice lui, perché la depressione è una forma di ubriachezza morale e gli ebrei non
sono degli ubriaconi. C’è una tensione tra uomo e Dio, e questa tensione è come la
corda di un violino: più la corda è tesa, migliore è la melodia. Entrando e uscendo
dagli insegnamenti del famoso maestro chassidico nipote del Besht, Curt Leviant
imbastisce un bel romanzo il cui cuore tematico è la crisi spirituale di una grande
figura morale. Traduttore dallo yiddish e autore tra i più noti della letteratura
ebraico americana, Leviant ci racconta vita e carattere del mitico leader di Breslav.
Amore, avventura, immaginazione mistica. Il Rabbi sa, qabbalisticamente, che
in ogni male c’è una misura di bene. Così parte per un viaggio che lo porterà a
Vienna (qui stringe amicizia con Beethoven), fino a Gerusalemme. (Fiona Diwan)
P
Curt Leviant, L’uomo che pensava di essere il Messia, Giuntina, pp. 289, 15 euro
Florian Illies, 1913, l’anno prima della tempesta, Marsilio, pp 285, 19,50 euro
S
Marzo • 2014
er chi se lo fosse perso, è tempo di rimediare. Un po’ saggio un po’ racconto,
ecco un vero libro-gioiello che ci racconta la storia d’Europa nel 1913, l’anno
prima della Grande Guerra. Annus mirabilis per la messe di talenti artistici,
letterari, filosofici, per la concentrazione di personalità geniali e visionarie, per
un’intellighentzia ebraica che fu numerosa, prolifica, feconda come mai. Un
fuoco d’artificio. Ma anche un tempo in cui nessuno fu in grado di prevedere la
catastrofe della guerra (a un secolo di distanza, fanno ammutolire alcune similitudini politicoeconomiche con i nostri giorni). Ma il 1913 ha una grandeur artistica inarrivabile, suggerisce
l’autore Illies, storico eccellente e grande narratore. È la stagione in cui, oltre a Freud, a Vienna
danno eccezionale prova di sé Arthur Schnitzler, Egon Schiele, Gustav Klimt, Adolf Loos, Karl
Kraus, Otto Wagner, Hugo von Hofmannsthal, Ludwig Wittgenstein, Georg Trakl, Arnold
Schönberg, Oscar Kokoschka. Tra loro si stabilisce una rete di curiose interrelazioni. Che
include Robert Musil, a cui un medico diagnostica «chiari segni di nevrastenia». A Praga, un
altro «nevrastenico» letterario, Franz Kafka, dice a Milena di non riuscire a scrivere perché è
troppo disturbato da famiglia e lavoro. In Inghilterra, Virginia Woolf, nel pieno di una depressione, porta a termine La crociera. Marcel Proust pubblica la Recherche («La vita è troppo breve
e Proust troppo lungo», lo stronca Anatole France). A Monaco, Kandinskij stringe amicizia
con Paul Klee e Albert Schweitzer vende i suoi beni e si trasferisce in Africa... Un libro pieno
di storie e aneddoti, per una grande, divertente, festa del sapere. (F.D.)
Marzo • 2014
fessione giornalista, oggi
è r ipreso
da Astoria
(si conferma casa
editrice di
ottimo fiuto e gusto,
con le sue
edizioni in
formato agile di gradevole
impaginazione, anche su
ebook) che ha deciso di
dare alle stampe l’intera
serie di sei libri, scritti dal
1989 al 2007.
Anche il secondo volume
uscirà quest’anno, la crisi d’astinenza sarà breve.
Quindi, alla prossima, Lisi
Badichi!
Shulamit Lapid, Dalla
nostra corrispondente,
t r a d uz i o n e d i E l e n a
Loewenthal, pp. 240, euro
16,00 (ebook 9,99)
Top Ten Claudiana
I dieci libri più venduti in febbraio alla
libreria Claudiana, via Francesco Sforza
12/a, tel. 02 76021518
1. Haim Baharier, La valigia quasi
vuota, Garzanti, € 14,90
2. Etty Hillesum, Diario (edizione
integrale), Adelphi, € 35,00
3. Etty Hillesum, Lettere (edizione
integrale), Adelphi, € 22,00
4. Donatella Di Cesare, Israele.
Terra, ritorno, anarchia, Bollati
Boringhieri, € 12,50
5. Ines De Benedetti, Poesia
Nascosta: le ricette della cucina
tradizionale ebraica italiana, La
Ziza, € 18,00
6. Corrado Israel De Benedetti, Un
amore impossibile nella bufera,
Claudiana, € 13,50
7. Paola Fargion, Diciotto passi,
Rusconi, € 14,90
8. Yotam Ottolenghi/ Sami Tamimi,
Jerusalem, Bompiani, € 35,00
9. Vera Paggi, Vicolo degli azzimi,
Panozzo, € 14,00
10. Nava Semel, Testastorta, Salomone Belforte, € 22,00
consiglio e giunta
comunità
Un serrato confronto su progetti, nuove iniziative,
tributi. Con l’impegno del controllo di spesa
Scelte condivise
D
opo l’approvazione dei
verbali delle sedute precedenti, la seduta del Consiglio della Comunità del
4 febbraio si è aperta con
le comunicazioni del presidente, a
proposito della decadenza o meno di
alcuni consiglieri: Joseph Ico Menda,
Ruben Gorjian, Daniele Schwarz,
ormai assenti da diversi mesi dai
lavori consiliari, benché la giustificazione delle assenze impedisca la
loro estromissione de jure, a norma
di statuto.
«In dicembre - ha esordito il presidente Walker Meghangi - avevo
detto che avrei parlato con Menda
e Gorjian. L’ho fatto. Ico ha trovato
lavoro in Israele e non rientrerà a
Milano. Quindi, dopo aver rimesso la
delega alla Comunicazione, ora invierà anche le dimissioni dal Consiglio.
Ruben invece sarà assente ancora
qualche mese, ma non ha ancora
fatto una scelta definitiva, quindi,
sentendosi molto legato alla Comunità, desidera rimanere in Consiglio».
Segue tra i consiglieri, con interventi di Nahum, Terracina e Gabbai,
una discussione sui tempi, dato che
la presenza e l’operatività di tutti i
consiglieri è importate in una fase
in cui sono molteplici le questioni da
32
Bollettino
di Ester Moscati
affrontare. Daniele Cohen rileva che
Gorjian è assente ormai da sei mesi
e dovrebbe scrivere al Consiglio per
chiedere di non essere escluso, ma
intanto sarebbe corretto rinunciasse
alla delega alla sicurezza. È d’accordo
Claudia Terracina, facendo presente
che il responsabile operativo della
sicurezza ha manifestato difficoltà a
non avere un referente, che per di più
era molto attivo. «È giusto avere una
comunicazione formale. Dovremmo
stabilire regole più rigide perché ci
siamo fatti eleggere per lavorare»,
conclude.
Per Daniele Nahum è necessario
«separare deleghe e posto in consiglio. La delega di Ruben è operativa,
va rimessa e riassegnata. Anche il
caso Schwarz va risolto. Io vorrei
rimettere la mia delega (ai rapporti
istituzionali), visto il mio impegno
nel PD milanese come responsabile cultura. Sono a disposizione del
Presidente, ma la delega non più è
opportuna».
Guido Osimo rileva invece che «Non
si tratta, per nessuna delle tre persone, di una questione formale. Nel
regolamento non c’è nessun appiglio
per cui i consiglieri possano essere
sanzionati. Nessuno ha fatto tre assenze non giustificate. Ma tutti e tre
devono chiarire la posizione per una
questione sostanziale».
Rami Galante sottolinea che le dimissioni di Ico Menda sono una grave
perdita per tutto il Consiglio: «Non
vorrei che si dimenticasse che è stato
tra i più votati. Rappresenta una bella
fetta di comunità e soprattutto una
certa visione della comunità. Dobbiamo indirizzargli un ringraziamento
ufficiale per il suo lavoro».
Agli interventi dei consiglieri segue la
replica di Walker Meghnagi. «Ruben
Gorjian, visto che non potrà essere
operativo a breve, desidera rimettere
la delega alla sicurezza, che peraltro è
di competenza del presidente. Quindi
la assumo io, coadiuvato da Simone
Mortara, che sul tema ha già una
consolidata esperienza. Chiederò a
Ruben di scrivere al Consiglio per
chiedere ufficialmente di non essere escluso fino al momento in cui
potrà, entro giugno, prendere una
decisione. Daniele Schwarz mi ha
detto che rientrerà al più presto, ma
è giusto sollecitarlo per una risposta chiara, entro i prossimi giorni.
Ringrazio Daniele Nahum perché è
stato piacevole lavorare insieme, e in
questi mesi si è sempre comportato
correttamente nei confronti della
comunità. Mi spiace che rimetta la
delega ai rapporti istituzionali, che
assumerò io. Con le dimissioni di
Menda e l’ingresso del primo dei non
eletti, cambieranno gli equilibri. Ma
se portiamo avanti il lavoro bene e se
c’è buona volontà andremo avanti».
La riunione è proseguita passando ad
un altro punto all’ordine del giorno,
la relazione dell’assessore alla cultura
Daniele Cohen sulle attività per il
Giorno della Memoria: «La serata al
Conservatorio è andato molto bene,
come gli Open Day del Memoriale
Binario 21, visitato da oltre 7500
persone. Desidero ringraziare Roberto Jarach Sara e Modena per il
lavoro fatto dalla Fondazione Memoriale. La struttura penso rappresenti un cambiamento epocale per
la città di Milano ed è bello che ad
Marzo • 2014
occuparsene siano anche persone
importanti della nostra comunità.
Da sottolineare anche l’adesione della Comunità all’evento organizzato
all’Hotel Regina e a Palazzo Reale,
dove è intervenuto Daniele Nahum,
cui ha partecipato il Sindaco e altre
autorità. Nonostante il libro di Elena Loewenthal Contro il Giorno della
Memoria, che peraltro è una giornata
ufficiale dello Stato Italiano, penso
che la risposta della cittadinanza sia
stata eccezionale e che, anche con
un po’ di retorica, resti un valore
assoluto».
Cohen ha poi annunciato il patrocinio
della Comunità alla rassegna Nuovo
Cinema Israeliano organizzata del
CDEC allo Spazio Oberdan dal 22 al
27 febbraio e l’adesione al Comitato
Gariwo, per la quale Gabriele Nissim
ringrazia la Comunità. Ci sarà quindi
un impegno diretto nella Giornata
dei Giusti del 6 marzo.
Si è parlato poi dell’anteprima di Monuments Men, l’11 febbraio, organizzata
grazie a Franco Modigliani il cui
ricavato andrà a favore dei movimenti
giovanili. Anche del film di Roberto
Faenza Anita B. si sta organizzando
un’anteprima con il regista per la
comunità e forse anche per il film
Hannah Arendt.
Sempre a proposito di Memoria, Gad
Lazarov ha raccontato l’evento organizzato dall’assessorato ai Giovani:
il Torneo della Memoria al Vigorelli, un grande torneo di calcio tra i
movimenti giovanili ebraici (Bnei
Akiva, Hashomer Hatzair, Maccabi,
Ghetton), le Acli di Milano, CoReIs,
gli scout milanesi in memoria del calciatore e allenatore deportato Arpad
Weisz. La premiazione al Memoriale
è stata ripresa da Sky Sport. La Comunità ha consegnato due targhe di
riconoscimento all’autore del libro
Dallo scudetto ad Auschwitz Matteo Marani e a Federico Buffa di Sky Sport
che ha firmato il documentario tratto
dal volume. Il documentario è stato
donato alla videoteca del CDEC.
Altro tema affrontato nel corso del-
Marzo • 2014
la serata, il buon risultato del Fund
Raising per la sicurezza, quasi 50.000
euro. Il consigliere Nassimiha ha
rilevato come le campagne di raccolta mirate e trasparenti siano le
più efficaci e incentivanti. Simone
Mortara, coordinatore del Consiglio
ha ringraziato gli organizzatori della
serata per la Sicurezza, Gabrielle Fellus, Lilly Kalifa e Piergiorgio Segre.
Gad Lazarov, consigliere con delega ai Tributi, ha poi presentato la
situazione del settore e ha chiesto
al Consiglio l’approvazione di un
questionario da sottoporre a coloro
che chiedono uno sgravio rispetto
al contributo richiesto alla Comunità. Anche senza pretendere la certificazione Isee ai contribuenti, si è
pensato ad una serie di domande
che possano fornire un quadro realistico della situazione economica
degli iscritti in modo da procedere
con equità e giustizia. «Vorremmo
creare strumenti standard che ci consentano di fare una analisi e uno
screening». Il Segretario Generale
Alfonso Sassun precisa che l’idea è
quella di avvicinarsi a ciò che si fa
per le rette a scuola: un minimo di
domande, non troppo invasive, ma
che riguardino il nucleo famigliare,
anche per aggiornare l’anagrafe.«È
anche un deterrente, lo somministreremo nei casi dubbi, non certo agli
anziani pensionati».
Successivamente l’assessore alla Comunicazione Guido Osimo ha fatto il
punto sul progetto di rinnovamento
della Newsletter comunitaria (più
chiara e agile) e sul sito Mosaico,
che conterrà un’area riservata agli
iscritti, per un collegamento diretto
a determinati servizi, dalla modulistica alla richiesta di certificati, alla
relazione con gli assessori, oltre ad
un portale dei pagamenti per tributi,
rette e donazioni.
Ultimo tema all’ordine del giorno, lo
Spaccio comunitario, per il quale è
stato deciso di acquistare una cella
freezer (al costo di 8.000 euro) per lo
stoccaggio della carne, che consenti-
rà di ridurre il costo dei trasporti e
avere sempre l’approvvigionamento.
Oggi si spendono 15.000 all’anno
per il deposito esterno. È stata anche approvata l’implementazione di
un nuovo software, a lettori ottici,
che costa circa 4000 euro, per la
gestione delle vendite e il controllo
del magazzino merci, soprattutto in
vista di Pesach, per gestire il maggiore afflusso. Altro punto relativo
all’Ufficio Rabbinico, la cessione al
Beth Shlomo di Rav Rodal di uno
spazio all’interno di Via Guastalla.
Si è deciso di valutare la cosa anche
dal punto di vista della sicurezza.
La seduta si è chiusa con la calendarizzazione delle prossime riunioni
di Giunta, che saranno dedicate ai
temi del Personale e del Controllo di
gestione economica, per tenere sotto
c
controllo conti e bilancio.
in breve
Quietanze
liberatorie 2014
Gentili Iscritti, da marzo 2014
è possibile chiedere all’Ufficio
Relazioni con il Pubblico, presso la Comunità, il rilascio della
quietanza liberatoria relativa al
pagamento dei contributi 2013.
La quietanza può essere richiesta nei seguenti modi:
• personalmente nei nostri uffici aperti nei seguenti orari:
Lunedì – giovedì: 8.00 – 17.00
Venerdì: 8.00 – 13.00
• inviando una mail, specificando il proprio nome e cognome e
quello dei familiari, ai seguenti
indirizzi di posta elettronica:
zizi.ozlevi@
com-ebraicamilano.it
maria.grande@
com-ebraicamilano.it
L’URP provvederà a recapitarvela via mail o per posta,
nel più breve tempo possibile.
Per info: 02-483110-256/235
Bollettino
33
personaggi, autorità, people watching
comunità
C
ostruire le linee guida
per una programmazione complessiva di
tutto l’istituto scolastico, che vada dalla
scuola dell’infanzia alle superiori: è
l’obiettivo del progetto avviato nelle Scuole della Comunità Ebraica
dall’ottobre di quest’anno e presentato il 20 gennaio nell’Aula Magna
Benatoff della Scuola. Sviluppato
in collaborazione con esperti del
MIUR (Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca) e
finanziato da Fonder (Fondo Enti
religiosi), il progetto è frutto della
normativa vigente sul sistema scolastico italiano e prevede la costruzione di un curricolum verticale, ovvero
la programmazione di un percorso
didattico organico che assicuri la
continuità dell’apprendimento nei
passaggi fra i vari ordini di scuola.
In pratica, da ottobre a oggi, sotto la
guida dell’esperta Vanna Monducci, dirigente dell’istituto C. Bassi di
Castel Bolognese (Ravenna) e dirigente scolastico del Miur, un gruppo
di lavoro costituito da docenti della Scuola ha analizzato e studiato
tutto il materiale normativo sulla
materia: le indicazioni del Ministero dell’Istruzione italiano e i quadri
di riferimento dell’Unione Europea
per i sistemi di istruzione degli Stati
membri.
«In questi mesi sono stati riordinati
in progressione i traguardi di competenza richiesti per ogni percorso
scolastico, così come indicati dal Ministero - spiega Vanna Monducci -.
34
Bollettino
Continuità didattica tra tutti gli ordini di studio
Afshin
Afshin Kaboli
Kaboli con
con la
la Ghetton
Ghetton
I vincitori della categoria
16-17 anni: Bnei Akiva
Un progetto per una
Scuola all’avanguardia
Partendo da macro-competenze per
ogni area disciplinare, il gruppo di
lavoro, costituito da 12 docenti, ha
successivamente elaborato obiettivi
specifici per ogni annualità di corso.
Questa prima fase del progetto, che
si è svolta da ottobre a dicembre, ha
previsto 35 ore di formazione della
commissione di lavoro, che ha a sua
volta coinvolto gli altri colleghi nella
definizione degli obiettivi annuali».
Gli strumenti messi a punto in questi mesi hanno un duplice obiettivo: mettere ‘a sistema’ un progetto
formativo della scuola, dettagliato
anno per anno, che copra tutti i
percorsi scolastici; fornire la base
per la valutazione di tutti i soggetti
coinvolti, studenti, istituto scolastico, docenti, direzione. Mentre i
traguardi dei primi sono già misurati sia internamente alla scuola con
gli strumenti di valutazione in uso
presso gli insegnanti, sia mediante le
valutazioni esterne standard effettuate dall’Invalsi, per una valutazione
dell’istituto è attualmente in fase di
elaborazione un questionario destinato agli insegnanti, agli studenti e
ai loro genitori. Da febbraio si procederà alla individuazione di metodi,
strumenti e indicatori per valutare le
pratiche di insegnamento dei docenti. Anticipando quanto si prevede nel
piano per la performance, non ancora
attivo sul territorio nazionale.
È proprio su questo fronte della valutazione che la nostra Scuola mette
a segno un primato nazionale. «La
Scuola Ebraica è infatti la prima in
Italia ad avere già iniziato questo
percorso - aggiunge Monducci -,
mentre altre 300, che partecipano
al progetto VALeS, sono nella fase
iniziale. Un bel motivo di orgoglio».
L’iniziativa fin qui analizzata si inserisce nel più ampio quadro del percorso di evoluzione che da dieci anni
caratterizza il mondo dell’istruzione
in Italia e all’estero e che pone al
centro non più solo le conoscenze,
ma anche le competenze. Già dal
1999, con il Regolamento per l’autonomia scolastica, in Italia viene
richiesto alle scuole di esplicitare il
Curricolo che, come si legge sul sito
del Ministero, “è espressione della
libertà di insegnamento e dell’autonomia scolastica”. Le nuove Indicazioni nazionali del 2012, e le
precedenti Linee guida per i Licei
e gli Istituti tecnici e professionali
hanno posto in rilievo la necessità di
rivedere e riprogettare l’intera offerta
formativa della scuola. Mentre nel
2013 è stato introdotto il regolamento sulla valutazione.
«Mentre una volta esisteva un programma dettagliato da svolgere in
classe e sulla conoscenza di questo
venivano valutati i ragazzi, oggi c’è
un approccio più olistico e a 360 gradi - spiega la preside Esterina Dana-.
Dal 2000 il Ministero dà delle indicazioni sulla base delle quali ogni
docente costruisce un programma
che implica i saperi essenziali ma che
tiene anche conto delle esigenze e
delle attitudini di ogni studente: la
personalizzazione del piano di studi
è infatti una delle novità principali di
questo nuovo approccio». La scuola
vuole prima di tutto formare delle
persone. Alla Scuola Ebraica, vi è
anche la convinzione che gli insegnamenti della tradizione ebraica siano
una preziosa base per educare gli
c
adulti di domani. (I. M.)
Marzo • 2014
Le squadre femminili in campo
La
La Ghetton
Ghetton femminile
femminile
Roberto Jarach e Rossella Tercatin
alla premiazione
Hashomer e Bnei Akiva insieme
I vincitori della categoria
14-15: Hashomer Hatzair
Il Bnei Akiva in campo
Torneo della Memoria
I
In ricordo di Arpad Weisz, “dallo scudetto ad Auschwitz”,
partite, incontri, commemorazioni e premi
n occasione del Giorno della Memoria, l’Assessorato ai Giovani della Comunità
Ebraica, l’Associazione Ipsia - Acli, il Memoriale della Shoah di Milano e le
startup Sportboom e Sportilia.com hanno organizzato, il 2 febbraio presso lo
stadio Vigorelli, la terza edizione del torneo calcistico “Coppa della Memoria
in ricordo di Árpád Weisz”, dedicata allo storico allenatore che fu vittima delle leggi
razziali. Árpád Weisz ha scritto la storia del calcio, ricoprendo il ruolo di tecnico
dell’Ambrosiana Inter e del Bologna negli anni ’30 e mettendo a segno ben tre
scudetti e altri prestigiosi riconoscimenti in meno di un decennio. Fu costretto a
lasciare l’Italia a causa delle leggi razziali e fu dapprima arrestato e poi deportato
ad Auschwitz, dove morì insieme alla moglie e ai figli. Al torneo hanno partecipato
sedici squadre tra le quali: l’Unione delle Chiese Valdesi ed Evangeliche milanesi,
il Coreis (comunità religiosa islamica italiana), il Centro I.R.D.A – ragazzi dell’arcobaleno, la Federazione Rom Sinti Insieme, il CIG centro d’iniziativa Gay (Arcigay
Milano Onlus) e i movimenti Scoutistici Ebraici Hashomer Hatzair e Bnei Akiva.
Il primo posto della categoria 14-15 anni è stato vinto dall’Hashomer Hatzair, quello
della categoria 16-17 dal Bnei Akiva, nella categoria over 18 anni ha vinto la Ghetton mentre per le squadre femminili hanno raggiunto il primo posto le ragazze della
squadra “Bambini in Romania”. La premiazione, condotta da Rossella Tercatin, è
avvenuta al Memoriale ed è stata ripresa in TV da Sky Sport con la partecipazione
del giornalista sportivo Federico Buffa, autore del documentario proiettato in sala
dedicato ad Arpad Weisz basato sul libro del direttore del Guerin Sportivo Matteo
Marani: “Dallo scudetto ad Auschwitz”. Buffa e Marani hanno ricevuto una targa di
ringraziamento dal presidente della Comunità ebraica Walker Meghnagi e dal presidente del CDEC Michele Sarfatti. Roberto Jarach, vice presidente del Memoriale,
ha aperto la premiazione dando la parola all’Assessore ai Giovani Afshin Kaboli,
che ha sottolineato come l’indifferenza delle persone abbia permesso che un personaggio tanto celebre e noto come Weisz finisse i suoi giorni nei lager insieme
alla sua famiglia. Filippo Jarach, consigliere comunale della Zona 1 e Ruggero
Gabbai hanno portato il saluto del Comune di Milano, che ha patrocinato l’evento
ampiamente annunciato e documentato dalle più importanti testate giornalistiche.
Per la gioia dei giocatori, le coppe sono state consegnate ai vincitori dall’ex stella
dell’Inter Evaristo Beccalossi.
Meghnagi consegna
le targhe a Buffa e Marani
Evaristo
Evaristo Beccalossi
Beccalossi
con
con la
la Ghetton
Ghetton
L’Acli Ipsia over 18
L’Acli Ipsia 14-15
L’Hashomer
Hatzair
in campo
vita e destino: parlano i grandi vecchi della comunità
comunità / STORIE
Vita e destino: voci dalla Residenza Arzaga.
Diamo la parola ai nostri anziani e alla loro
memoria storica, per passare il testimone
Luciana Del Vecchio:
“Come la fortuna ci
ha aiutato a salvarci”
«C
osa vuole che le racconti? Durante la guerra a
me e alla mia famiglia
non è successo niente di
grave: siamo rimasti nelle Marche,
ad Ancona e poi a Recanati. Nessuno
è venuto a cercarci, nessuno ci ha
portato via, come invece è successo
a tanti altri. La nostra famiglia era
ben vista in città; e poi, certo, ab-
biamo avuto fortuna. Quindi, non
so davvero cosa raccontarle».
Iniziare un’intervista con qualcuno
che dice che non sa cosa dirti non è
mai un buon segno… Alcuni casi,
però, fanno eccezione, soprattutto
quando si parla del periodo della seconda guerra mondiale e degli ebrei:
perché, purtroppo, a fare notizia è
quello che non è successo, come cioè
si sia riusciti ad attraversare senza
di Ilaria Myr
tragedie né perdite drammatiche
quel buio periodo. E allora parlando,
scavando, ti rendi conto che il solo
fatto che siano salvi e che siano oggi
qui a dirci che non hanno subito
tragiche esperienze, merita già da
solo un articolo e una profonda riflessione su quanto la fortuna sia stata
a quei tempi l’unico - irrazionale,
imprevisto e imprevedibile - motivo
per cui ci si salvava.
La vita di Luciana Del Vecchio è
uno di questi casi. Nata nel 1924
ad Ancona in una famiglia ebraica
tradizionale, Luciana cresce felice
nella sua città con i genitori e i fratelli: il papà Carlo, che ha un negozio
di tessili, la madre Enrica Pardo, e
le due sorelle, Paola e Laura. «Vivevamo di fronte alla questura, e
tutti sapevano in città che eravamo
ebrei, non era un segreto – spiega -.
Festeggiavamo le feste principali a
casa dei nonni: si cantava, si parlava.
Era bello stare in famiglia. Per il
Bat Mizvah, ricordo la cerimonia in
sinagoga con mia sorella e un cugino
di Roma. I regali? Ne ricordo uno
solo: una penna stilografica d’oro».
Nel novembre del 1938, però, vengono emanate le leggi razziali e per
gli ebrei la vita cambia radicalmente.
«Per capire che cosa è stata la questione razziale bisogna averla vissuta, perché davvero ha cambiato la
vita degli ebrei. Pensi all’effetto che
faceva andare al cinema e vedere
scritto “Vietato l’ingresso ai cani e
agli ebrei”. Noi bambini abbiamo
dovuto lasciare la scuola pubblica e
andare a studiare da dei professori
ebrei: a fine anno, poi passavamo
gli esami di Stato per andare avanti nel corso di studi. I parenti che
avevano dei gradi militari sono stati
abbassati di livello, mentre mio zio
professore è stato espulso dall’università dove insegnava. Mi ricordo
che mia nonna, all’epoca già molto
vecchia, vedendolo a casa, gli chiese:
“Oggi non vai in università?”, e lui,
mentendo: “Mi sono preso una vacanza”. Il giorno dopo l’emanazione
di quelle leggi mia nonna morì».
Nonostante però le privazioni e i
divieti antisemiti, la famiglia Del
Vecchio non è oggetto di episodi
spiacevoli di antisemitismo: le ragazze mantengono le amicizie con
gli ex compagni di scuola, e la famiglia continua a vivere di fronte
alla questura, senza subire mai una
perquisizione o un controllo.
Con l’8 settembre, la situazione
peggiora precipitosamente. La casa
dei Del Vecchio ad Ancona viene
occupata dai tedeschi e loro, che
sono da agosto a Recanati in villeggiatura, non hanno altra scelta
che rimanere fuori città. «Quando
abbiamo capito che saremmo rimasti
lì a lungo, abbiamo lasciato l’albergo dove eravamo ospiti e abbiamo
preso in affitto una casa. E lì siamo
rimasti fino all’aprile del 1945. Non
sbandieravamo il fatto di essere ebrei,
ma neanche dicevamo che eravamo
cattolici: facevamo semplicemente la
nostra vita. Si mangiava quello che si
trovava e che riuscivamo a comprare con i risparmi che avevamo: ma
erano tempi di guerra, e il cibo era
razionato per tutti, indistintamente.
A Recanati stavamo bene: è una cittadina splendida. Se vedesse il colle
dell’Infinito di Giacomo Leopardi
quando è pieno di ginestre…: una
vera meraviglia».
Il 1 luglio 1944 Recanati viene liberata dall’VIII Armata Alleata e dal
Gruppo polacco. «Un giorno ci venne
chiesto se potevamo ospitare uno di
questi soldati, che era un rabbino
polacco. Ovviamente accettammo,
immaginando i tesori che ci avrebbe
portato: cioccolato, sigarette, cibo…
Invece arrivò con degli spazzolini
e del dentifricio: eravamo delusi!».
Finisce la guerra, e Luciana conosce
quello che diventerà suo marito, Carlo Mondolfo, un livornese trasferitosi
in Brasile dopo l’emanazione delle
leggi razziali: si sposano nel 1950
e tornano a Sao Paulo. «Frequentavamo un grande gruppo di ebrei
italiani: c’erano i Musatti, la Paola
Sereni. Eravamo felici».
Nel 1962 tornano in Italia, ma nel
1964 Carlo muore, e Luciana rimane sola a crescere la figlia Giulia.
Trova un lavoro per l’Enciclopedia
Britannica come agente di vendita,
e poi per un’assicurazione. Nel 1972
si trasferisce a Milano; dal 2009 vive
nella Residenza per anziani della
Comunità ebraica, dove partecipa
regolarmente al gioco di ginnastica
mentale “Paroliamo” e dove, quando
può, segue le conferenze. E, soprattutto, con la tv si tiene aggiornata
sull’attualità. «Ma l’ha sentita questa storia delle “baby squillo? - dice
sgomenta -. Ma i genitori oggigiorno
dove sono? Non si rendono conto
di cosa fanno i figli? A 14 anni io
andavo dalla vicina di sopra, che era
cieca, a leggerle un’opera enorme, in
cambio di un cioccolatino. Mica mi
divertivo: ma mia madre mi diceva
che dovevo farlo, e io non discutevo.
Oggi, invece, i ragazzi a quest’età
sono totalmente autonomi, senza
nessuno controllo. Ma a quest’età
si era bambini allora, e lo si è ancora
adesso! E poi non c’è più istruzione
e cultura. Allora le dico una cosa:
se questa è la modernità, meglio i
c
nostri tempi “antichi”».
premio giornalistico
Riconosciuto
l’impegno civile
di Ruggero Gabbai
N
el l’ambito del Premio Francese, conferito a Palermo dall’ordine dei giornalisti siciliani, è stato
premiato, tra gli altri, il regista Ruggero Gabbai, per l’impegno civile nella memoria della Shoah e nella lotta
alla mafia, con i film Memoria, Il viaggio più lungo e Io ricordo. Il riconoscimento è legato alla memoria del cronista del Giornale di Sicilia ucciso dalla
mafia il 26 gennaio 1979. Il Premio
Mario Francese è andato a Pif per il
film La mafia uccide solo d’estate.
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Bollettino
Marzo • 2014
*Le tariffe, soggette a specifiche restrizioni e a posti limitati, sono comprensive di tasse aeroportuali e supplemento carburante
(entrambi soggetti a variazione) diritti di emissione non inclusi.
SEGUICI SU
in giro per il mondo
comunità
Da sinistra: Daniel Soria, Alberto Treves con la famiglia, Meir Sasson, Filippo Costi con moglie e figlia
Dalla Lombardia all’Australia, alla Cina, a Panama,
a Dublino...: come adattarsi? Come può vivere qui
un ebreo proveniente dalla Comunità meneghina?
Lo racconta chi si è trasferito all’estero, cinque storie
di vita ebraica, tutte a loro modo speciali
Io, ebreo di Milano e la mia
vita dall’altra parte del mondo
C’
è Meir che, nella
Cina profonda, riesce a osservare la
kasherut, le feste
ebraiche e a studiare
Torà. C’è Daniel che, a Nottingham,
ha trovato un ambiente ebraico freddo
e poco ospitale. Ma anche dall’altra
parte del mondo, a Panama, Filippo
non è stato accolto bene nella molto
organizzata ma altrettanto chiusa comunità ebraica locale. Katia invece, a
Dublino, ha migliorato il suo ebraico e
ha persino imparato a fare la challà. E
Alberto, nell’Australia dell’outback selvaggio, ha trovato chi, da Brisbane, gli
manda libri sull’ebraismo per i bambini…Sono tante e diverse le storie degli
ebrei milanesi che, per vari motivi - per
lavoro, per studio, per amore - hanno
lasciato la propria città per stabilirsi
altrove. Ma cosa succede se si va a vivere in luoghi molto lontani dal proprio
Paese di origine? Nazioni in cui non
esiste una Comunità ebraica, oppure
dove quella che c’è è molto differente
da quella che si conosce? L’identità si
rafforza o, al contrario, si indebolisce
quando vengono meno i punti di riferimento a cui si è stati abituati per anni?
La parola ai diretti interessati, milanesi
in “diaspora”, tra nostalgia, voglia di
casa o, viceversa, nessun rimpianto.
38
Bollettino
di Ilaria Myr
PANAMA
A Panama Filippo Costi arriva sette anni fa, dopo avere vissuto a New
York, Madrid e Caracas. Classe 1961,
Filippo fa tutto il corso di studi alla
Scuola ebraica di Milano, frequenta
l’Hashomer Hatzair ed è molto attivo
nelle organizzazioni giovanili nazionali e internazionali. «Ho partecipato a
un paio di convegni europei del Joint
per Young Leadership - spiega - ; ho
inoltre realizzato la grafica della campagna a favore degli ebrei russi durante le olimpiadi russe a Mosca. Mentre
durante la Guerra del Golfo, con il
Ministero del Turismo Israeliano, ho
organizzato un viaggio in Israele in
appoggio al Paese, coinvolgendo 500
persone fra amici, politici e personalità
pubbliche».
Arrivato a Panama, Filippo incontra
una realtà ebraica diversa da quella di
Milano, che pur non vantando grossi
numeri - 10.000 persone su oltre 3
milioni di abitanti nel Paese - si presenta molto forte e ben organizzata
al suo interno. La compongono due
gruppi principali: quello sefardita, il
più rappresentato, e quello askenazita.
A questi si aggiunge un nucleo Reform
in cui convergono famiglie in qualche
modo assimilate o nuovi venuti non
accettati dalla Comunità ortodossa.
«Qui le varie organizzazioni ebraiche
hanno contribuito molto allo sviluppo
del Paese, - continua Filippo - adoperandosi in aiuto della popolazione
locale meno fortunata e sostenendo
alcune iniziative civiche, come il nuovo museo della biodiversità progettato
da Frank Gehry, che sarà inaugurato
quest’anno. Questo fa sì che vi sia un
grande rispetto per la comunità ebraica e che si possa circolare per strada
con kippà e zizzit fuori dalla camicia
senza che nessuno ti guardi stralunato
(come invece accade a Milano…)».
A livello di servizi ebraici, poi, a Panama c’è l’imbarazzo della scelta: sei
sinagoghe, quattro scuole ebraiche,
che complessivamente educano 1300
bambini, due cimiteri, due grandi supermercati kasher, un club con quattro
ristoranti e sale per feste, e fuori dalla
città un Club con piscine e attività
per bambini. Una comunità coesa,
organizzata e molto viva, quella di
Panama, che ha tutte le possibilità
per essere calorosa e accogliente. Ma
la realtà è ben diversa da quello che
sembra, nota amaramente Costi: appena arrivato, Filippo si trova davanti
a un mondo esclusivista e chiuso, che
lo taglia letteralmente fuori. «Avevo
un conoscente che mi facilitò l’entrata alla sinagoga - spiega Costi -. Ma
poi, però, dato che mia moglie non è
ebrea, mi hanno di fatto impedito di
partecipare alla Comunità cui sono
più affine, quella sefardita: mi è stato
detto che se volevo iscrivermi dovevo
sbattere fuori casa moglie e figlia o
andare dai Reform, in cui tuttavia non
mi riconosco. Alla richiesta di iscrivere mia figlia alla scuola ebraica mi è
stato chiesto: “secondo te, in un cesto
di mele quelle sane possono rendere
sana una marcia?, o è il contrario?”.
Immaginerete la mia reazion….». Un
ambiente, dunque, molto diverso da
quello di Milano, dove Filippo è cre-
Marzo • 2014
sciuto «nell’insegnamento che si doveva rispettare ogni correligionario e
fare di tutto, in ogni momento, per
accogliere i vari gruppi che arrivavano
- continua -: gli egiziani come i libici, i
persiani come i libanesi. Qui a Panama, invece, se non segui le regole della
Comunità più forte - quella “halabì”,
gli aleppini - sei “out”».
CINA
Da un storia di esclusione a una di
integrazione: è quella di Meir Sasson,
che dal 2009 vive con moglie e due
figli a Shenzen, in Cina, città con 20
milioni di abitanti. Classe 1976, nato
e cresciuto a Milano, dove ha frequentato la scuola della Comunità, Meir
ha trovato in Cina una dimensione
ebraica che lo soddisfa. «Qui esiste
una Comunità ebraica composta da
400 persone, quasi tutti israeliani spiega -, che vivono nello stesso quartiere. Grazie al Beit Chabad c’è un
asilo ebraico e viene fornita la carne
kasher, acquistata o da Hong Kong
o da Shanghai. Gli shabbatot e i haghim sono festeggiati al tempio, dove
sono offerti anche i pasti. Capita poi
spesso che per le festività sbarchino in
casa, senza invito, persone sconosciute: siamo in Cina ed è nostro dovere
tenere le porte aperte a chi ne abbia
bisogno». Quella di Shenzen è dunque
una comunità piccola ma organizzata,
dove Meir e la sua famiglia possono
osservare lo Shabbat, la kasherut e studiare Torà quasi tutti i giorni. Manca
però una scuola, dove i figli possono ricevere un’educazione ebraica. «Prima
o poi mi trasferirò a Hong Kong - confessa -, l’unica comunità che ha una
scuola ebraica che va dalle elementari
alle superiori». Del resto, lasciare un
luogo per andare in un altro non è un
problema per Meir, che rifiuta categoricamente l’idea che la lontananza dal
proprio Paese di origine crei un legame
Marzo • 2014
maggiore con l’ebraismo. «Lontananza da dove? - chiede -. L’Italia non è
il Paese degli ebrei, né il Paese di mio
padre, e neppure il Paese di mio padre
era il suo. L’ebreo in quanto tale non
ha una terra: quando ce l’ha è Israele,
e allora diventa un israeliano».
AUSTRALIA
Ora un salto in Oceania, dove Alberto Treves vive con la sua famiglia,
da qualche mese. Non però a Sidney
o a Melbourne, dove esistono forti
comunità ebraiche, bensì a Chinchilla: una cittadina nella regione del
Queensland, agli estremi orientali
dell’Australia, la cui popolazione è
“esplosa” con il boom del gas naturale, raggiungendo le 12.000 persone.
«Qui non c’è praticamente niente: due
supermercati, tre pub, e basta - spiega
Alberto -. Brisbane è a 300 km da qui,
a quattro ore di macchina, mentre per
andare dal medico si deve andare a
Towwomba, a due ore di strada».
Un luogo dunque isolato, inesistente
dal punto di vista ebraico, certamente molto diverso dalla realtà milanese
in cui Alberto, classe 1968, è cresciuto: una vita alla Scuola ebraica, poi
l’Hashomer Hatzair, fondamentale per
la sua formazione laica e sionista, e un
passaggio al Dor Hemshech. Queste
le tappe di un ebraismo milanese impegnato e attivo che, una volta iniziato a lavorare e a viaggiare all’estero,
rallenta.
Eppure, nonostante l’oggettivo isolamento di Chinchilla dai centri in
cui esiste una vita ebraica, Alberto
è riuscito a trovare il modo per dare
un’educazione ebraica alla figlia Vittoria. «Anche se sono totalmente laico,
tengo profondamente alla mia identità
ebraica - continua -. Tramite gli ebrei
progressisti di Brisbane ho quindi contattato una signora, Sheila Levine, che
periodicamente mi invia dei libri in cui
si spiega l’ebraismo ai bambini. E poi
cerchiamo di festeggiare le feste più
importanti e di fare il kiddush ogni
venerdì sera. Che cosa mi manca della
vita ebraica di Milano? Sicuramente
le feste della scuola e i ritrovi di kvutzà
con i Reshafim e gli Hazorea, i balli
israeliani, Kippur e Rosh Hashanà al
tempio, dove rivedo volentieri amici
di vecchia data».
Poco è meglio di niente: soprattutto
se in precedenza, per due anni, hai
dovuto nascondere la tua identità di
ebreo. Per un biennio, infatti, Alberto
ha lavorato in Iraq, mentre la famiglia
è rimasta a Londra, dove vivevano fino
ad allora. La vita in Iraq non è certo
facile per un occidentale: si vive chiusi
in compound, si circola con macchine
blindate e scorta, non si può mai uscire. Figurarsi per un occidentale ebreo.
«Ho vissuto come un marrano. Non
potevo né dire né fare niente di ebraico: addirittura, il venerdì sera, con mia
moglie al telefono usavamo un codice.
“Hai giocato al calcio balilla?” voleva
dire “Shabbat Shalom”….».
NOTTINGHAM
Ma anche restando in Europa, un
ebreo milanese può avere difficoltà a
trovare la sua dimensione ebraica. È
il caso di Daniel Soria (classe 1980)
che dal 2006 vive a Nottingham, nel
Regno Unito. Fino ad allora, a Milano, frequenta l’Hashomer Hatzair, di
cui diventa anche shlichon, dopo un
anno in Israele. «Per anni ho mantenuti forti legami con i compagni di
kvutzà - spiega -, che rimangono dei
punti fermi nelle nostre vite. Si era anche costituito un gruppo di ex-bogrim,
“shomrim lashalom”, che organizzava
attività per giovani dopo l’uscita dal
movimento. Ma poi ho deciso di partire, e mi sono pian piano allontanato
dalla vita comunitaria».
A Nottingham, dove Daniel va a fare
Bollettino
39
>
giovani e futuro
comunità
Katia Moscato
> il dottorato, esistono due comunità:
una molto religiosa e un’altra liberal/reform (Nottingham Progressive
Jewish Congregation. «Durante il mio
dottorato (2006-2009) ho cercato di
far parte della Jewish Society dell’università (le societies sono piccoli gruppi
formati e diretti dagli studenti stessi,
ndr) - spiega Daniel -. Ogni tanto organizzavano cene a casa di un rabbino
e la prima attività a cui partecipai fu
un cineforum: alla fine del film cercai
qualcuno a cui presentarmi, ma l’accoglienza fu tremendamente fredda,
mi misi a disposizione per fare qualche ballo israeliano ma non furono
minimamente interessati. Mi sembrò
che non essendo inglese fossero tutti
molto scettici nei miei confronti. Ne
fui alquanto deluso e smisi di interessarmi alla Jewish society». Una volta,
poi, Daniel viene invitato al seder di
Pesach da un suo professore che frequenta la comunità reform/liberal.
«Per me abituato all’ebraismo italiano
è stato uno shock. Innanzitutto tutto
il seder era condotto da una donna,
e poi era intervallato da una sorta di
“pub-quiz”, in cui ogni famiglia doveva rispondere a domande inerenti
Pesach. Anche l’Haggadà aveva un
ordine diverso dal solito (ma la parola
Seder non vuol dire ordine)?».
Nonostante le difficoltà, Daniel cerca
di portare avanti le tradizioni di famiglia, anche se durante le feste ebraiche
cresce la nostalgia di casa e il senso
di essere solo nella sua ebraicità. «Mi
manca il poter festeggiare in famiglia
- confessa -. Non avendo alcun legame
con ebrei che vivono qui, è anche difficile tenermi aggiornato sulle iniziative
che vengono organizzate, un seder di
Pesach comunitario a cui poter partecipare nel caso in ui non riesca a
tornare a Milano».
DUBLINO
Da Nottingham a Dublino, la distanza
geografica non è molta. Ma la differenza sul fronte dell’organizzazione
ebraica è invece abissale: accoglienza
e integrazione sono infatti le parole
chiave della vita ebraica nella capi-
40
Bollettino
tale irlandese, dove vive da tre anni
e mezzo Katia Moscato, classe 1972,
frequentatrice della scuola ebraica e
dell’Hashomer Hatzair. «Arrivata in
Irlanda sono rimasta molto stupita:
credevo fosse una comunità morta, e
invece mi sono dovuta ricredere - confessa -. È una realtà più viva che mai
ed in continua evoluzione. Rispetto
all’Italia ho trovato molte meno divisioni, ma penso che sia normale,
considerate le diverse dimensioni delle
due comunità». In effetti, il nucleo di
ebrei locali, che da secoli risiedono
nella città - storicamente nel quartiere
di Portobello, dove sorge oggi il Museo
ebraico - è oggi costituito prevalentemente da anziani o persone di mezza
età. A loro però si sono aggiunti dal
2006 molti giovani e famiglie straniere venute in Irlanda per lavorare.
«Dublino è diventata la Silicon Valley
d’Europa con i quartieri generali europei di grandi aziende come Google,
eBay, Facebook, Yahoo!, dove lavoro
io, Intel, e altre - continua Katia -.
Per accogliere tutti, nel 2007 la vecchia casa di riposo ebraica era stata
addirittura adibita a dormitorio per
studenti ebrei, e veniva chiamata appunto “Bait Hayehudi”: qui studenti
e giovani professionisti si incontravano tutti i venerdì per fare la Kaballat
Shabbat. Nel 2012 però è stata chiusa
per mancanza di fondi, e purtroppo
non abbiamo più un luogo di incontro
fisso». Una grande vitalità viene però
data dal giovane rabbino Chabad, rav
Zalman Lent, e da sua moglie, che per
ogni festività organizzano qualcosa
nel tempio centrale, coinvolgendo gli
stranieri ebrei e gli israeliani. E poi c’è
l’ambasciata israeliana, che ha portato
nel cinema centrale della città un festival del cinema israeliano. Nonostante
vi siano in tutto tre sinagoghe nella
città, la vita ebraica ruota intorno a
quella centrale: è nella sala adiacente,
dotata anche di cucina, che vengono
organizzate la maggior parte delle attività. « Non è possibile paragonare
la vita ebraica milanese con quella di
Dublino: sono due realtà completamente diverse – commenta Katia –.
Qui non c’è spazio per divisioni o intolleranze: essendo la comunità molto
piccola, dobbiamo essere molto aperti
e tolleranti, per spronare la gente a
partecipare. Questo approccio è senza
dubbio premiante: grande infatti è il
coinvolgimento di israeliani, studenti
e gente venuta da fuori come me ai
vari eventi ebraici. Perché un ebreo
lontano da casa ha bisogno di trovare una comunità, delle attività e
dei luoghi d’incontro. E qui ci sono».
Ultimamente, poi, le autorità governative stanno dimostrando grande interesse nei confronti della vita
ebraica a Dublino. In quest’ottica
devono essere viste la visita alla sinagoga del presidente Michael Higgins
poco dopo la sua elezione nel 2011,
l’organizzazione da parte della municipalità di una cerimonia di accensione delle candele di Channukkà e
la decisione di ampliare nel prossimo
futuro il Museo ebraico di Portobello.
Le occasioni per in contrarsi dunque
non mancano. «Di recente è stata anche organizzata una serata per insegnare alle donne a fare la challà.
Eravamo almeno 60 tra israeliani,
ebree irlandesi e straniere. Ognuna
ha ricevuto un kit con gli ingredienti,
il grembiulino, i guanti ….e tutte ad
impastare! Non mi sarei mai immaginata che avrei imparato a fare la
challà proprio in Irlanda! E ancora
più sorprendente è che proprio qui
ho migliorato il mio ebraico!». Ma
un po’ di nostalgia per la Milano
ebraica? «Di Milano mi mancano i
negozi dove comprare prodotti israeliani e kasher, che qui difficilmente si
trovano –. E poi, se fossi adolescente
probabilmente sentirei la mancanza dei movimenti giovanili, che qui
non ci sono. Ma per me quel tempo
c
è passato... ».
Marzo • 2014
Il viaggio delle
seconde Superiori
In Israele,
insieme
E
ra da quasi un anno che la
mia classe ed io stavamo
aspettando il viaggio in Israele. Eravamo tutti carichi di grandi
aspettative, dovute ai racconti dei
ragazzi più grandi che ci erano già
stati, ma anche di paure e timori,
come sempre avviene prima di qualcosa atteso così a lungo.
Fin da subito abbiamo visitato luoghi
pieni di significato per la cultura e la
tradizione ebraica, di cui avevo sentito parlare sin da quando ero piccola.
Ci siamo recati immediatamente al
Muro del Pianto, passando per gli
strettissimi sotterranei del Minharot
HaKotel, una vera e propria prova
di resistenza per una claustrofobica
come me! Tuttavia, questo viaggio
non è stato solo visite, musei e passeggiate, ma anche tanti momenti
di vita quotidiana e di semplicità
che hanno unito molto tutti noi: tra
questi ricordo, soprattutto, le infinite contrattazioni fatte in ebraico
per accaparrarmi il miglior narghilè
per il mio migliore amico, piuttosto
che la quantità immensa di “falafel”,
“rogalach” e caramelle che abbiamo
comprato.
Marzo • 2014
Non sono mancati, ovviamente, i
momenti ricchi d’intensità come
la visita allo Yad Vashem, ora ricostruito e modificato, ma vietato ai
minori di quindici anni fino a poco
tempo fa.
Qui ho sentito storie incredibili che
mi sarebbe stato difficile anche solo
immaginare: ad esempio, i nazisti
che ricavavano dalla Torà la suola
delle loro scarpe, oppure un video
che ci ha mostrato come i corpi ossuti e provati dalla fatica venissero
rimossi senza alcuna cura e rispetto
con una macchina simile ad una
spalatrice.
In questo viaggio ho capito, poi,
l’importanza di sentirsi Ebreo e al
contempo un membro dello Stato
d’Israele. Infatti il racconto fatto dalla nostra guida al museo dell’esercito
a Latrun mi ha profondamente colpita e, lì per lì, avrei giurato di essere
pronta ad arruolarmi nell’esercito
israeliano come paramedico!
Anche la religione, comunque, può
creare grande unità: ne è un esempio
lo shabbath che abbiamo passato al
Kotel. In un primo momento eravamo chiuse nel cerchio formato dalle
mie compagne di classe, poi questo si
è allargato sempre di più includendo
anche le nostre amiche della comunità romana, alcune donne religiose
residenti a Gerusalemme, le madrichot e visitatori provenienti da ogni
parte del mondo. Cantavamo tutti
insieme e le nostre mille voci sembravano quasi una sola che intonava
la stessa canzone.
Di questa vacanza mi rimarranno
senza dubbio nel cuore i paesaggi
unici che ho potuto vedere, come
le rocce calcaree del deserto dove
incidemmo con un sassolino il nome
del nostro gruppo, o il bellissimo panorama di Jaffa.
Posso affermare che questo viaggio
ha segnato una grande svolta per
tutti noi: non solo culturalmente,
ma anche emotivamente.
Devo ammettere che non mi sarei
mai aspettata di legare fortemente
con svariate persone, che ho avuto
la possibilità di conoscere meglio,
grazie alle circostanze e all’ambiente in cui ci siamo trovati. Sostenevo
già prima, e continuerò a sostenere
ora, che questo viaggio è la migliore
esperienza per maturare e iniziare
a capire la strada che si vuole intraprendere. Il messaggio che ci viene
trasmesso è unico e molto chiaro:
“facciamo parte tutti dello stesso popolo, apparteniamo tutti allo stesso
stato ed essere Ebrei è solo un orgoglio”. Penso, quindi, che sia stata una
delle vacanze più importanti per me
e, se dovessi esprimere un giudizio,
farei lo stesso gioco fatto durante
l’ultima sera: con una candela accesa, accenderei a mia volta la candela
dei miei compagni, delle madrichot e
dei professori, ringraziando ciascuno
per il piccolo o grande contributo
che ha dato a questa meravigliosa
vacanza!
Joelle Bassal
Bollettino
41
idee, eventi, progetti, work in progress
comunità / OFFICINA
una iniziativa
dell’ufficio Giovani
I nonni
raccontano
di Sylvia Sabbadini
È
partito il progetto I nonni
raccontano, promosso dall’Assessorato ai Giovani per far
conoscere ai ragazzi la storia e le
origini delle famiglie che compongono la Comunità ebraica di Milano.
Il tema, già affrontato dal CDEC
con il Progetto Edoth e dall’Adei
Wizo con Storie di famiglia, piace sempre di più anche ai giovani
che, spinti dalla curiosità di sapere come sono arrivati gli ebrei dai
Paesi del Nord Africa, dal Libano,
dall’Egitto, dalla Turchia, dalla
Persia , dall’Afganistan e dall’Europa dell’Est, hanno partecipato entusiasti ai primi incontri con i nonni e
i genitori dei loro amici.
Le prime due famiglie ospitanti sono
state la famiglia Darwish seguita
dai Musani, provenienti rispettivamente da Beirut e da Tripoli, che
hanno aperto il loro salotto, offrendo squisiti dolci tipici del loro Paese
di origine, e mostrando ai ragazzi le
fotografie dei loro famigliari e delle
città nelle quali sono cresciuti.
Mouffach e Jenny Darwish, hanno raccontato come il loro arrivo a
Milano negli anni ’80 fosse stato del
tutto casuale e non programmato,
un viaggio di piacere per trascorrere le vacanze; a causa della Guerra
scoppiata in Libano si è trasformato
in un trasferimento.
Il signor Mouffach, arrivato a Beirut da Bagdad con la sua famiglia
quando aveva solo 3 anni, ricorda
con un velo di tristezza e nostalgia
gli anni trascorsi nella città di Bei-
42
Bollettino
rut, il mare e le palme del lungomare, le serate trascorse con gli amici
arabi nei bar e le gite fuori città. Il
legame e l’integrazione con la popolazione locale erano talmente forti
che quando un giorno scoprì di essere stato derubato del camion che
conteneva la sua merce, bastarono
poche telefonate agli amici, che ricoprivano alte cariche governative,
per far riapparire dopo due giorni
la refurtiva.
«Gli ebrei erano amati e rispettati
dagli arabi - aggiunge la signora
Jenny - siamo tornati a Beirut per
mostrare alla nostra figlia minore
Valerie, che è nata a Milano, le nostre origini e i luoghi dove abbiamo
trascorso dei bei momenti».
«Quando gli arabi cristiani governarono in Libano - precisa il signor
Mouffach - gli ebrei godettero di
una relativa tolleranza. Nella metà
degli anni ‘50, circa 7.000 ebrei vivevano a Beirut. La guerra civile fra
musulmani e cristiani, combattuta
nel 1975-76, anche intorno al quartiere ebraico a Beirut, danneggiò
molte case ebraiche, negozi e sinagoghe. La maggior parte dei rimanenti 1.800 ebrei libanesi emigrò
nel 1976, temendo che la crescente
presenza siriana in Libano avrebbe
ridotto la loro libertà di emigrazione».
Ben diversa invece è l’esperienza
della famiglia Musani, che ricorda
con amarezza e tristezza il famoso
6 giugno del 1967, giorno che ha
segnato il destino degli ebrei tripolini. Una folla di manifestanti arabi
bruciava case e rompeva le vetrine
dei negozi degli ebrei, dando la caccia ai sionisti come protesta contro
la guerra dei sei giorni, iniziata il 5
giugno.
«Nel novembre 1945, un selvaggio
pogrom a Tripoli uccise più di 140
ebrei e ne ferì altre centinaia - racconta Musani - quasi tutte le sinagoghe furono depredate. Nel giugno 1948, alcuni rivoltosi uccisero
altri 12 ebrei e distrussero 280 case
La famiglia Musani
Maccabi Milano:
bilancio delle
prime attività in
vista del torneo
Kids United
ebraiche. Migliaia di ebrei fuggirono dal Paese, dopo che la Libia
ottenne l’indipendenza ed entrò a
far parte della lega araba, nel 1951.
Dopo la guerra dei sei giorni, la
popolazione ebraica, che contava
7.000 individui, subì altri pogrom
in cui furono uccisi 18 ebrei, molti
altri furono feriti, causando un esodo così esteso che rimasero meno di
100 ebrei in Libia».
Momenti di terrore e disperazione,
una fuga per la sopravvivenza di
una nota famiglia di commercianti
di tessuti, che hanno trovato la loro
salvezza a Milano, dove il fratello
di Jaky Musani, qualche anno prima, aveva fondato la sede milanese
dell’impresa di famiglia, prevedendo che le cose per gli ebrei si sarebbero messe male a causa del conflitto arabo-israeliano.
«Una settimana prima del terribile
giorno, avevo acquistato i biglietti
della nave per Napoli per mia moglie e i miei tre figli piccoli - ricorda
Jaky Musani - mi sono accordato
con un amico arabo per prenderli ed accompagnarli al porto. Mia
moglie ha preso una borsa con poco
cibo e una piccola somma di denaro
secondo le restrizioni imposte».
«Una volta sbarcati a Napoli - aggiunge Ilde Musani - i bambini
avevano fame ed io avevo finito le
provviste e i pochi soldi che avevo,
bastavano giusto per acquistare i
biglietti del treno per Milano, così
entrai in una pizzeria e chiesi un
pezzo di pizza che mi fu donato con
generosità. Questo è il mio primo
ricordo del nostro arrivo in Italia.
Marzo • 2014
Per un mese non ebbi notizie di mio
marito, che era rimasto a Tripoli e
ci raggiunse successivamente a Milano». Alla fine della serata quando
viene chiesto ai signori Musani se
vorrebbero tornare a visitare la loro
bella casa a Tripoli, la cui fotografia
appare su alcuni libri che trattano
la storia degli ebrei libici, all’unanimità rispondono che il trauma e i
brutti ricordi di quei momenti sono
talmente vivi in loro, che non vorrebbero mai più tornarci.
I protagonisti delle due storie hanno
divertito i ragazzi e gli stessi nipoti, raccontando anche aneddoti ed
episodi divertenti della loro vita.
In entrambe le serate l’atmosfera
è stata molto simpatica ed è stato
veramente bello vedere con quanto
entusiasmo e passione i nonni raccontassero al pubblico di giovani i
frammenti della storia che ha comc
posto il puzzle della loro vita.
A
distanza di 4 mesi dalla riapertura della stagione sportiva delle attività del Maccabi
Milano, ecco un primo bilancio ed
un aggiornamento sulle varie attività.
«Partiamo con l’affermare che la
stagione 2013/14, sin dalle prime
battute, ha mostrato segnali chiari
e forti circa la fidelizzazione dei nostri
iscritti degli anni precedenti che, con
l’aggiunta di nuovi iscritti, ci dà un
bilancio totale record di oltre 230
partercipanti. - dicono i responsabili
- Non possiamo che essere orgogliosi
e felici della fiducia che ci viene data
da parte delle famiglie. Naturalmente
ciò non sarebbe possibile senza il
costruttivo supporto della Comunità
e dell’apparato della Scuola di via
Sally Mayer».
Circa le varie discipline selezionate in
questa stagione, emergono con grande
forza il calcio, il basket, la capoeira, i
giochi con la palla e il coordinamento psicomotorio orientati per i più
piccini, danza, ginnastica artistica
onoranze funebri
Impresa
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e in tutto il mondo.
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e ritmica, kung-fu e per completare
l’opera anche la zumba. «Con grande
piacere abbiamo aggiunto anche il
calcetto femminile, che ha riscosso
un primo timido successo.
Nella nostra lista di nuovi iscritti
abbiamo avuto il piacere di annoverare anche i più adulti, con corsi
di zumba e balli israeliani».
Anche quest’anno Maccabi Milano
sarà presente ad un torneo calcistico
(squadre da 7 elementi) inter-scolastico, Kids-United, che avrà luogo
presso l’Arena Civica nella quarta
settimana di marzo. Il torneo si svolge
fra 6 squadre ed è riservato ai ragazzi del 2005/2006. Lo scorso anno
il Maccabi Milano si è fatto onore
piazzandosi 2° in classifica «e sarà
nostra cura fare in modo che i nostri
ragazzi arrivino preparati e ben determinati a conquistare un decoroso
piazzamento anche quest’anno», sostengono gli organizzatori.
Nelle prossime settimane saranno
organizzati incontri di basket e le
date verranno comunicate alle famiglie con dovuto anticipo e con le
stesse modalità fino ad ora seguite.
«Desideriamo ringraziare le istituzioni, le famiglie e tutte le persone che
contribuiscono a rendere piacevole e
soddisfacente il lavoro del Maccabi
Milano. I nostri più fervidi auguri
per un felice Pesach» - concludono.
La Casa Funeraria
San Siro è a disposizione
per tutti i membri
della Comunità Ebraica
e le loro famiglie.
Sala del commiato per
funzioni e celebrazioni.
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scoprite l’accoglienza
e l’efficienza della struttura.
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comunità / OFFICINA
Grazie ai
ragazzi per
la nostra
sicurezza
Un successo la
serata di fund raising
È
con grande successo che si è
svolta il 29 gennaio la serata a favore della Protezione
Civile della nostra Comunità. L’aula magna era gremita di gente, soprattutto di giovani. I nostri giovani
che dedicano una parte importante
della loro vita a difenderci.
Un’iniziativa nata dal Presidente
Walker Meghnagi, dal Segretario
Generale Alfonso Sassun, e dall’Assessore alle Finanze Raffaele Besso,
che hanno incaricato un team composto da Piergiorgio Segre, Lilly
Kalifa e Gabrielle Fellus per l’organizzazione dell’evento.
A tutti pareva doveroso fare qualcosa per aiutare e sostenere meglio i
nostri ragazzi che ci fanno da scudo
in ogni momento e che sono sempre
a protezione di tutti i nostri luoghi
Alessi, Ford, Inter,
Pictet, Sephora,
Banca Sella, Camper,
LCF Rothschild,
DuPont, Epson,
North Sails, Freshfields...
hanno scelto
di Silvia Hassan Silvers
per traduzioni e servizi linguistici.
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siamo in
Via Boccaccio 35 - Mi l a n o
Tel. 02 48.01.82.52
E-mail: [email protected]
Web: www.studiointerpreti.it
in breve
Grazie al Volontariato
Federica Sharon Biazzi
Il KKL a Scuola per
Tu Bishvat. tutti
piccoli giardinieri
e dei nostri eventi. Un settore della
nostra Comunità messo ultimamente sempre più sotto pressione: è bene
che tutti noi ne siamo coscienti.
Doron, il Responsabile della Protezione Civile, autodefinitosi il “papà
dei 600 bimbi” della scuola, fa veri
salti mortali per riuscire a far quadrare ogni giorno le poche risorse
con le continue e aumentate necessità. Un’impresa divenuta assai
ardua e a cui il Presidente è molto
sensibile.
Non per niente si è deciso di rafforzare il settore e abbiamo assunto dei
nuovi professionisti.
Un appello di aiuto però è stato
fatto a tutta la Comunità perché
la nostra vita, quella dei nostri cari
nonché quella dei nostri ragazzi è il
bene più grande che abbiamo.
Ospiti d’onore Gianni Z., coordinatore nazionale per la Sicurezza
UCEI; Stefano Gatti, Ricercatore
e redattore del portale “Osservatorio Antisemitismo” CDEC che con
i loro interessanti interventi di hanno esposto sotto varie angolazioni le
problematiche inerenti alla nostra
sicurezza.
Tutti hanno risposto con grande
partecipazione. In qualità di membri e genitori si sono subito resi
conto della necessità in cui versa
questo settore e dei bisogni che la
nostra Comunità deve affrontare in
questi ultimi tempi, in conseguenza
della crisi economica e dell’ondata
di antisemitismo dilagante a livello
nazionale.
In questo settore più che mai è importante e strategico avere più per-
sonale, attrezzature e tecnologie
adeguate e all’avanguardia.
Infine la consegna della targa a
Roberto Segre e famiglia che hanno permesso con la loro generosa
donazione di poter costruire la sala
operativa all’entrata della scuola.
Un progetto tanto desiderato e che
si è potuto finalmente realizzare.
Ma le vere star della serata sono
stati i ragazzi, con Riky C. Capo
delegato al volontariato e i suoi più
stretti collaboratori, che con grande
passione ed energia ci hanno mostrato il loro valore e la loro preparazione.
Una serata sentita, di raccoglimento, dove si respirava un clima di
affetto e di solidarietà verso i nostri
giovani. Kohl hakavod!
Stefania Girod
L’AME dona alla Scuola
un defibrillatore
e organizza corsi
per imparare ad usarlo
Per la prima volta la scuola riceverà
un defibrillatore donato dal AME.
Con l’occasione l’AME (Associazione Medica Ebraica) intende organizzare corsi gratuiti di BLSD (basic
life support defibrillation), vale a dire le
manovre da compiere per intervenire in caso di arresto cardiaco. I corsi
sono rivolti prevalentemente a studenti e insegnanti, avranno luogo a
scuola e verranno tenuti da anestesisti e cardiologi certificati.
Doron G.
Marzo • 2014
Cartunito
per i piccoli
N
ella Scuola di Via Sally Mayer, il 19 Gennaio si è tenuto uno spettacolo davvero
spassoso per i bambini delle scuole
ebraiche, materne ed elementari
di Milano: “Cartunito”, organizzato da Efes Junior con la collaborazione del KKL Italia Onlus. La
compagnia circense Cartunito ha
offerto un allegro show con sketch
di abilità, travestimenti e battute;
sul palcoscenico dell’Aula Magna
si sono avvicendati i più noti personaggi dei cartoni animati, dai classici
americani Topolino e Minnie alla
recente scoperta britannica Peppa
Pig, e poi giocolieri e clown che, a
ritmo di musica, hanno animato il
piovoso pomeriggio domenicale. I
piccoli spettatori interagivano alle
divertenti sollecitazioni del clown e,
tra un popcorn e un assaggio di frutta, scoppiavano in fragorose risate.
Dopo lo spettacolo, il Keren Kayemeth ha offerto uno “spazio verde”
dedicato, in cui ciascun bambino ha
potuto svolgere un’attività di giardinaggio aiutato dai responsabili del
KKL; i piccoli, dai tre anni in su,
hanno provato il piacere di interrare
una piantina con le proprie mani:
hanno spostato la terra all’interno
del vaso per creare lo spazio adeguato e con molta delicatezza hanno messo a dimora il tenero germoglio, ricoprendone le radici. Questa
esperienza educativa ed ecologica è
piaciuta molto ai piccoli ma è stata
apprezzata anche dai genitori, per
il suo valore simbolico. Gli Ebrei,
celebrando le proprie feste, come
appunto TuBishvat, esaltano i cicli
della natura come la semina, il raccolto, le primizie, gli alberi; e questo
è molto importante per imparare a
rispettare l’ambiente e stabilire una
felice armonia tra uomo e creato.
Al termine dell’attività, i bambini
hanno realizzato 12 grandi vasi che
saranno posti sui davanzali delle loro
classi: un tocco di colore in cambio
delle loro benevoli cure!
c
P. Avigail Senigaglia
“Il mio grazie speciale va alla
Signora Joice Anter Hasbani,
che si occupa di tutti noi vecchietti con dedizione e premura.
Inoltre desidero complimentarmi con tutti i volontari del
Volontariato Federica Sharon
Biazzi che offrono la loro professionalità meravigliosa a
tutti noi. Voglio ricordare con
grandissimo affetto e riconoscenza il Signor Fausto Rossi.
Ricordo quando nel 2005 mi
venne a prendere all’ospedale
Pio X dopo che avevo subito un
intervento al ginocchio destro.
Il mio pensiero e la
mia gratitudine vanno anche a Rossella
Inzerilli, la volontaria che spesso mi
viene a prendere a
casa, con la quale
ho instaurato un
bellissimo e tenero
dialogo.
Non voglio dimenticare Claudio e Maurizio, che
come tutte gli altri svolgono
con tanta dedizione la loro
missione.
Non dimentico Silvia, che una
volta alla settimana viene a
prendermi per farmi camminare
un po’ all’aria aperta.
Ricordo io stessa con grande
piacere gli anni in cui ho prestato servizio come crocerossina
da giovane. Un’esperienza che
mi fece sentire davvero utile.
Come utilissimi sono tutti i
collaboratori del Volontariato
Federica Sharon Biazzi.
Un grazie dal profondo del mio
cuore a tutti voi del Volontariato
Federica Sharon Biazzi.”
Leda Tedeschi Arditti
Bollettino
45
FondazioneScuola
La Newsletter della Fondazione per la Scuola della Comunità Ebraica di Milano
‫א‬
‫ב‬
Ospite d’onore John Elkann, presidente di Fiat e
vicepresidente di Fondazione Agnelli: la cena di
Gala della Fondazione, prevista per il 18 marzo,
si presenta come l’evento clou della stagione
Fondazione per la Scuola
della comunità ebraica di milano
ha il piacere
di invitarla alla
A cena con Mister Fiat
U
n evento imperdibile, un
ospite d’onore d’eccezione, un conduttore che è
tra le migliori firme del
giornalismo italiano e una
cena firmata da uno chef stellato:
questo e molto di più attende chi
sceglierà di partecipare alla serata di
Gala della Fondazione, che si terrà
a scuola il 18 marzo prossimo.
Al tavolo d’onore siederà John Elkann (figlio di Margherita Agnelli e
di Alain Elkann, giornalista e scrittore), attualmente presidente della
Fiat e vicepresidente della Fondazione Agnelli, da anni impegnata nel
mondo della scuola e in particolare
coinvolta in progetti di valutazione
della qualità di programmi, docenti
e strutture.
Dopo aver accettato di fare da testimonial alle attività della Fondazione
Scuola, anche per onorare le sue
radici ebraiche (il nonno è stato a
lungo il presidente della Comunità
ebraica di Parigi), John Elkann ha
insistito perché siano i ragazzi della
nostra scuola a fargli le domande nel
corso dell’evento. Domande libere,
spontanee, alle quali risponderà certamente con la franchezza e la competenza che lo contraddistinguono.
La serata verrà condotta da Mario
Calvo-Platero, nato a Tripoli dove è
vissuto fino al 1967. Platero è giornalista economico, conduttore di una
trasmissione quotidiana su Radio24
ed è a capo della redazione americana de Il Sole 24 Ore a New York, da
dove segue i maggiori eventi politici,
finanziari ed economici americani
e internazionali. È anche uno dei
molti ex allievi eccellenti della nostra
scuola e in questa veste ha accettato di mettere le sue competenze
professionali al servizio della buona
riuscita di un evento essenziale per
garantire la realizzazione di importanti progetti. Sarà curioso ascoltare
il giornalista, che ha intervistato alla
Casa Bianca i presidenti Ronald Reagan, George Bush Sr. e George W.
Bush, Bill Clinton e Barack Obama,
alle prese con i nostri ospiti e con
Cena di Gala
il pubblico in sala. A completare le
buone ragioni per segnare fin da
subito la data del 18 marzo prossimo
sull’agenda, ci sarà anche il menu
disegnato espressamente per la serata della Fondazione da Masayuki
Kondo, lo chef de La Locanda del
Pilone, ristorante che ha recentemente guadagnato una stella nella
prestigiosa guida Michelin. Kondo
guida le cucine della Locanda create
dallo chef napoletano Antonino Cannavacciulo (noto al grande pubblico
per la trasmissione televisiva Cucine
da incubo) per dare una opportunità
di crescita professionale agli allievi
della sua scuola di cucina. Il menu di
Kondo verrà preparato nel rispetto
delle norme della kashrut sotto la
sorveglianza del nostro rabbinato e
sarà quindi una rara opportunità per
sperimentare piatti da alta cucina.
La cena di Gala raccoglierà fondi per i seguenti progetti:
• 53 borse di studio per studenti meritevoli e con reddito insufficiente a coprire la retta scolastica;
• ristrutturazione e innovazione tecnologica del nostro istituto.
La Fondazione sostiene ormai da anni gli studenti con borse di studio, che hanno consentito anche a famiglie che
non potrebbero sostenere la spesa di una scuola privata di dare ai propri figli una educazione ebraica. La crisi
economica ha però colpito duramente molti membri della nostra Comunità e le richieste di aiuto sono progressivamente
aumentate. Per questo è necessario potenziare il contributo di tutti al fondo per le borse di studio.
Nel frattempo la nostra scuola, che ormai ha superato i cinquant’anni, è una bella signora bisognosa di qualche
ritocco. Muri, aule, attrezzature ma anche infrastrutture (dai riscaldamenti alla rete internet) hanno bisogno di
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. È questo il progetto sul quale la Fondazione ha deciso di puntare
quest’anno, anche per via della sua importanza per i ragazzi che meritano di studiare in una scuola attrezzata,
luminosa e confortevole.
Bollettino
martedì 18 marzo 2014 - ore 19.30
a favore della raccolta per 53 Borse di studio
e per il progetto di riqualificazione della scuola
l’ Ospite d’OnOre
Ing. John Elkann
preSidente Fiat S.p.a
Vice preSidente Fondazione GioVanni aGnelli
interverrà sul tema
“la saggezza di rambam mosè maimonide.
la scuola e il futuro del nostro paese.”
presenta la serata
Tanti progetti per una scuola più bella
46
‫בײה‬
Marzo • 2014
mario calvo-platero
capo della redazione americana del sole 24 Ore
aula magna “a. Benatoff”
scuole della comunità ebraica di milano
via sally mayer 4/6
Per prenotazione e biglietti rivolgersi a:
Segreteria 345.3523572, Consiglieri della Fondazione Scuola, [email protected]
la voce dei lettori
comunità / LETTERE
Lettere, annunci e note si ricevono
solo via email a: [email protected]
Non saranno accettati al telefono, né scritti a mano
Vittorio Basevi, un ricordo
Profondamente credente
ma anche di animo artistico e ispirato, Vittorio
Basevi era un personaggio complesso e affascinante che ha lasciato un
buon ricordo in tutte le
persone che lo hanno conosciuto.
Scomparso a 95 anni nel
marzo del 2013, ha avu-
Bollettino
u b t k h n c
, h s u v h v
v k v e v
i u t y c
della
Comunità
Ebraica
di Milano
ANNO LXIX, n° 03
marzo 2014
Mensile registrato col n° 612 del
30/09/1948 presso il tribunale di
Milano. © Comunità ebraica di Milano,
via Sally Mayer, 2 – MILANO
Redazione
via Sally Mayer, 2, Milano
tel: 02 483110 225/205
fax: 02 48304660
mail: [email protected]
Abbonamenti
Italia 50 €. Estero 56 €.
Lunario 8 € . Ccp 31051204
intestato a: Bollettino della
comunità ebraica di Milano
Direttore Responsabile
Fiona Diwan
Redazione
Ester Moscati,
Dalia Sciama (grafico)
Progetto grafico
Isacco Locarno
Hanno collaborato
Luciano Assin, Aldo Baquis,
Joelle Bassal, Mino Chamla,
Marina Gersony, Stefania
Girod, Maurizio Meschia,
Ilaria Myr, Sylvia Sabbadini,
Paola Avigail Senigaglia,
Leda Tedeschi Arditti,
Raffaele Turiel, Roberto
Zadik.
Foto
Alessandra Attianese, Orazio
Di Gregorio, Mario Golizia
Fotolito e stampa
Ancora - Milano
Responsabile pubblicità
Dolfi Diwald
[email protected]
cell. 393 8369159
cell. 336 711289
chiuso in Redazione il 20/02/14
to una vita intensa attraversando momenti anche
molto difficili, come il periodo del nazismo, quando cercò rifugio in Svizzera, con la moglie ebrea
tedesca e l’amico di sempre Gualtiero Morpurgo.
Rav Elia Richetti, i cui
genitori erano amici di
famiglia, lo ricorda affettuosamente come un
uomo sereno e conciliante. Ebreo veronese, affabile e cordiale, era una
persona semplice, serena,
modesta e umile che da
adulto si avvicinò alla religiosità. Fra le passioni
di Basevi, oltre all’insegnamento, da ricordare
anche l’amore viscerale
per la musica e per il suo
inseparabile violoncello.
Personalità generosa e
amichevole, cercò sempre
di rispettare le mitzvot
in ogni momento e anche nelle difficoltà non si
perdeva d’animo e manteneva la sua caratteristica
calma. Insegnante alla
scuola ebraica, impartiva lezioni di violoncello
a tanti studenti, ai quali
trasmetteva il suo vasto
bagaglio culturale e musicale e le tecniche per eseguire al meglio i brani.
Rav Richetti e i suoi studenti, come Elena Imbert,
ricordano la sua energia
positiva derivante da una
fede che non ha mai abbandonato, l’entusiasmo
nel rispettare le mitzvot,
il suo sottile senso dello
humour. Basevi aveva
un bel senso dell’ironia e
quando sentiva canzoni
vivaci il giorno di Kippur
diceva “questo somiglia a
uno spazzino che quando
lavora torna indietro a vedere se ha pulito bene e se
è così si mette a cantare”.
Roberto Zadik
Milano
Grazie ai
docenti
Tra il 17 dicembre ed il 2
gennaio le Seconde Superiori si sono recate in Israele per il famoso viaggio
di istruzione.
Partendo dalla base a
Yerushalaim, nella Havat haNoar haZioni,
abbiamo visitato luoghi
interessanti,
divertenti
ed emozionanti, come la
città antica ed i quartieri
religiosi, il museo sulla
Shoa di Yad Vashem, il
cimitero militare di Har
Herzl, la Knesset, per poi
viaggiare verso il Neghev,
Tel Aviv, Massada, Mar
Morto, Cesarea e Kibbuz
Sasa. Molti di noi erano
già stati in Israele, ma
passare un’esperienza del
genere con i propri compagni ed amici ha un valore speciale.
E questa piccola striscia
di terra che tutti noi consideriamo una seconda
casa è speciale. Nonostante le numerose difficoltà
alle quali deve fare fronte
Israele, ogni anno ci ritroviamo davanti al Kotel, il
simbolo di Yerushalaim e
Israele, a pregare assieme
e ballare con i nostri fratelli. Ringraziamo la professoressa Zarhi per il suo
impegno nell’organizzare
il viaggio, la preparatissima guida Naama e in
particolar modo i professori Cohenca, Mander e
Careri, con i quali abbiamo stretto un bellissimo
rapporto nel corso di questa esperienza indimenticabile!
Beny Hakimian
Milano
Mishloah manot!
Per PURIM i movimenti giovanili Benè Akiva e
Hashomer Hatzair hanno
preparato delle esclusive
Mishloah manot!
Acquistatele, il ricavato
sarà devoluto totalmente
ai due movimenti giovanili, il futuro della nostra
comunità. Hag Sameach!
Per informazioni e
consegne a domicilio
contattare i numeri:
Sharon - 335 8366523
Lia - 3283965758
Grazie a lia
Cammeo dagli
amici del Bridge
Cara Lia,
è stata una gradita sorpresa leggere la tua lettera sul
Bollettino di febbraio.
Pensare che una giovane
e brillante signora si interessa a noi vecchietti mi
ha fatto quasi sentire importante ed ho apprezzato i tuoi complimenti tra
l’ironico e l’affettuoso.
Vorrei aggiungere che
questo sodalizio, che è in
continuo rinnovo anche
per ragioni della natura,
ha inizio negli anni ‘60,
quando c’era un tavolo di
‘elites’ formato da Italo
Diena, Renato Levi, Felice Osimo ed Enrico Tedeschi, chiamati I Quattro
Moschettieri.
A quel tempo noi mogli
giocavamo in sott’ordine
e c’è voluta la nostra tenacia per essere ammesse al
loro tavolo.
Speriamo di mantenere sempre questa che è
ormai una tradizione,
sia per il piacere di partecipare a questi piccoli
tornei, abilmente diretti
da Aldo Ottolenghi, sia
soprattutto per il piacere
di ritrovarsi con amici la
domenica pomeriggio.
Ti mando i miei cordiali
saluti,
Graziella Colonna
Osimo
Milano
Cara Lia,
il tuo spiritoso e affettuoso, articolo apparso sul
Bollettino a proposito di
“Quelli del bridge” che
abbiamo letto tutti noi
‘del bridge’, ci ha molto
divertito e anche commosso.
È vero: tutte le domeniche
ci troviamo insieme per
fare delle partite: non a
soldi, naturalmente, ma
in una gara di cui Aldo,
alla fine, fa un conteggio
per vedere in che ordine
siamo arrivati.
È una cosa che facciamo
molto volentieri, sia per
ritrovarci insieme, sia per
tenere la mente in esercizio: infatti, come certamente saprai, il bridge è
un gioco interessante che
tiene la mente attiva e ci
aiuta a ragionare, riflettere, confrontare e ricordare.
Ebbene, noi ‘del bridge’,
abbastanza anziani anche
se non tutti dagli 85 anni
in su: ce n’è una che ha
solo, beh, si fa per dire, 80
anni!, giocando a bridge
teniamo la mente in esercizio.
Ma parliamo anche fra
di noi per ricordare tante
cose piacevoli del passato,
anche se durante la guerra abbiamo trascorso momenti tragici.
Questi non ti sembrano motivi sufficienti per
continuare almeno fino ai
meah ve’esrim, fino ai 120
anni?
Lo consigliamo vivamente anche a te, quando
avrai raggiunto la nostra
età: anche se forse troverai un altro modo per tenere la testa in esercizio!
Comunque il tuo articolo
dimostra spirito e intelligenza! Grazie!
Quelli del Bridge
Milano
Studio Juva
Effetto lifting
immediato:
New Golden Lift
Esiste un trattamento in grado
di tonificare e rimodellare il viso
e il collo senza la chirurgia
donando un effetto lifting
immediato? Sì, il New Golden Lift.
New Golden Lift è una
radiofrequenza frazionata
che grazie all’innovativa formula
dei micro aghi, permette
non solo di levigare la pelle,
ma dona tensione creando
un effetto simile al lifting.
La particolarità di questo
trattamento è che la stimolazione
avviene senza danneggiare la pelle,
ottenendo effetto finale di
- Tensione di viso e collo
con effetto lifting,
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e acido ialuronico,
- Chiude i pori ed elimina
le micro rughe.
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insegnare in una scuola ebraica.
La scuola secondaria di primo grado “Emanuele Artom”
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abilitato/a. I candidati dovranno far pervenire il loro curriculum alla direzione della Scuola Ebraica - via Sant’Anselmo, 7 - 10125 Torino - entro il 15 maggio 2014.
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Note tristi
Evy Conti Grunberg
Cara Evy, sì, te ne sei andata in
Gan Eden lasciando dietro di
te figli, nipoti e pronipoti, ma
soprattutto lasciandoci il dolce
ricordo della tua vivace intelligenza, il tuo humour, il tuo bel
sorriso e la tua forza interiore. Ci
stringiamo forte a Sissi, Teddy e
Anna Landau in questo momento difficile e doloroso.
Nanette con Clio e Maya
BRUNO GAD SEGRE
Il giorno 4 febbraio 2014 è
mancato a Haifa (Israele) presso l’ospedale Bnei Zion, Bruno
Gad Segre. Lo annunciano con
profondo dolore la figlia Ada
con la mamma Donata Ravenna, il fratello Luciano con tutta
la sua famiglia. Si associano al
lutto tutti i cugini e parenti ricordando i loro forti legami familiari, la sua sempre affettuosa
accoglienza, la simpatia e la sua
gioia di vivere. Lo ricordano
anche i numerosi amici che gli
sono stati vicini con grande affetto in questi anni di malattia.
In suo ricordo, si possono fare
offerte ad Alyn, associazione
che si prende cura dei bambini
in difficoltà.
Alberto Fiorentino
Il 14 gennaio all’età di 92 anni,
ha lasciato i suoi cari Alberto
Fiorentino. Nato a Milano, da
60 anni viveva ad Ivrea dove riposa nel cimitero ebraico.
Luciana Kafka
Il 30 dicembre scorso la nostra
cara mamma Luciana ci ha lasciati. È stata e sarà sempre per
noi un esempio da seguire di profondo amore, generosità e cultura. I figli Ari, Dinny, Debbie e
Michel Kafka, nipoti e famigliari tutti la ricordano con immenso
affetto.
rachele fresco
Clementina Calfon e sorelle ricordano con immenso affetto
l’adorata madre Rachele Fresco,
mancata il 20 febbraio 1995,
donna retta, giusta, dedita alla
famiglia e alle mitzvòt.
Yehuda Arie Leib Leon
Szulc Z’’L,
Nel 17° anniversario della scomparsa di Yehuda Arie Leib Leon
Szulc Z’’L, amatissimo marito,
padre e nonno Lo ricordano con
immenso affetto la moglie, i figli,
le nuore e i nipoti. Riposi in pace
in Gan Eden.
Ernesto Bauer
Caro Papà, gli anni sembrano
passare alla velocità della luce.
Quattordici sono gli anni passati
da quando ci siamo dovuti salutare. Il tempo é passato, é vero,
ma ciò che é rimasto in noi sono
i bellissimi ricordi di momenti
passati assieme, di parole dette,
di sorrisi condivisi, che ci portiamo con noi giorno per giorno.
Ci sei sempre, parliamo sempre
di te, sei nelle nostre case, sei nei
nostri discorsi di tutti i giorni,
nei nostri pensieri, e spesso ti
chiediamo consigli quasi non
te ne fossi mai andato. Ci piacerebbe fossi ancora con noi,
avremmo veramente bisogno di
passare quei bellissimi momenti
spesi assieme in passato. Ti pensiamo sempre e ti vogliamo bene
più che mai.
Pupa, Daniele, Gabriele, Raffaele
Sono mancate dal 14 gennaio al 15
febbraio le seguenti persone: Magg y
Bigio, Moshe Lerner, Luciana Pardo,
Elio Lopez Pegna, Anita Caminada,
Vally Coen, Raffoul Chammah, Eva
Conti, Edi Kan, Riso Ventura, Isidoro Schmill, Gabbai Del Val, Giuditta
Nathan, Romano Paggi. Sia la loro
memoria benedizione.
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ROMY Blanga
Romy Blanga è nata a
Londra il 3 dicembre 2013.
Mazal tov ai genitori Roy &
Sandy e alla sorellina Noa
dai nonni David(Dodi) &
Rachel (Shouly).
Bianca Soria
Il fratellino Nicola Soria,
con i genitori Alex e Francesca, annunciano con
gioia la nascita di Bianca avvenuta il 17 gennaio
2014 (16 Shevat 5774). Si
uniscono alla loro felicità
i nonni Orietta e Marco e
lo zio Daniel, augurando
a Bianca ogni bene e una
vita serena e ricca di soddisfazioni.
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Lettura della Meghillat Esther - Mishtè Purim (tradizionale banchetto di Purim) per famiglie.
ore 14.00 Il grande Burattinaio di Praga Simha per grandi e piccini. Ricca lotteria con fantastici premi!
Concerto di musica kletzmer a cura del Trio Dreidel
Attività giovanili a cura del Bené Akiva e Hashomer Hatzair
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Agenda Marzo
Kesher
Nuovo Centro Diurno Residenza
Arzaga, via Arzaga 1
Giovedì 6 marzo - ore
20.30. Ciclo “Dagli scritti
di rav Sachs”. La nascita
della responsabilità, 3a
parte. Con rav Alberto
Somekh.
Agenda
assessorato
Giovani
“Ti invito per shabbat”.
Se hai voglia di offrire la
tua casa anche per poche
persone per la cena di
shabbat, noi inviteremo le
persone e ti aiuteremo ad
organizzare la cena. Sarà
una bellissima opportunità
per creare nuove amicizie
e per coinvolgere chi non
“festeggia” lo shabbat. Scrivici e fisseremo insieme la
data che vorrai. efesdue@
gmail.com
religione messianica?
L’EBRAISMO È UNA
Save the date: Lunedì 5
maggio alle 20.30 la Comunità ebraica di Milano
festeggerà Yom Haazmaut
con la Terza Edizione del
Festival della Canzone
Ebraica. Se cantate o volete
segnalarci complessi musicali validi con repertorio
ebraico, contattateci via
mail [email protected]
o al numero 3457911694.
Con rav Alfonso Arbib e rav Ygal Hazan
Introduce e modera rav Roberto Della Rocca
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PROGRAMMA
MARZO 2014
– ADAR
1/ADAR 2 5771
5774
PROGRAMMA DICEMBRE
2010
- KISLEV/TEVET
Martedì 4 dalle ore 15.00 alle 18.30 in Sede
Pomeriggio di Gioco di carte libero (bridge e burraco)
Giovedì 2 in Sede ore 17.00
Prenotazioni
: 02 6598102, Scarlett Sorani 02 4816872, Claude Cohen 335
Proiezione del film A serious man di Joel e Ethan Coen.
5869751
DAL 30 MARZO AL 3 APRILE 2014
Il viaggio di Kesher
Prima della proiezione Rav Simantov accenderà i lumi del secondo giorno di Hanukkà.
ADEI WIZO
Sabato 8 ore 20.30 - Emporio 56 via Washington, 56 a Milano
Martedì 14 in Sede ore 17.00
Il gruppo Aviv dell’Adei-Wizo invita alla serata di gala 5th edition Casino Royale
Presentazione del libro Dal campanile di Giotto ai pozzi di Abramo
Cena
– casinò – danze – open bar. Il ricavato della serata sarà devoluto al progetto
di Yoel De Malach, Giuntina. Parleranno del volume e di questo geniale agronomo
“Prevenzione
violenza sulle donne” Info : 02 6598102
Elena Vita Finzi e Roberto Jona, docente della Facoltà di Agraria all’Università di Torino. In collaborazione con il Gruppo Sionistico Milanese.
Martedì 11 dalle 16.30 alle 18.30 in Sede
Pomeriggio
per
bambini:
Purim insieme. Laboratorio di
Proposte perartistico
gennaio e
febbraio
2011prepariamo
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maschere
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Purim
con
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bambino
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Inizio metà gennaio (minimo 8 iscritti) Info 340 2566775
Martedì
18 oreebree,
17.00anche
in Sede
- Voci di donne
poetiche: tre incontri con Laura Voghera Luzzatto.
PerDate
il ciclo
“Storie
di
famiglia”
Clara Kopciowski racconta Come mi sono salvata
da definire con inizio febbraio.
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ebraica di Milano e UCEI).
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Tel. 02.659.81.02
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Martedì 25 ore 20.00 in Sede L’Adei-Wizo con i Movimenti Giovanili
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cena
con Karini compleanni
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e
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realtà
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Lunedì 3 marzo
Ore 20.30, presso l’Auditorium San Fedele in Via
Hoepli, 3/b, il Bené Berith
organizza la serata “I nuovi
predicatori dell’odio” libertà di espressione ed istigazione all’odio: come reagirebbe l’Italia ad un caso
Dieudonné? Interverranno:
Lorenzo Cremonesi, giornalista, Corriere della Sera;
Philippe Karsenty, fondatore Media-rating e vicesindaco di Neuilly-sur-Seine;
Claudia Shammah, avvocato penalista; Betti Guetta,
Ricercatrice, Fondazione
CDEC. Moderatore: Prof.
Avv. Giorgio Sacerdoti
GIOVEDÌ 20 MARZO - 20.30
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Cognomi ebraici
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Cognomi & Parole
a cura di Ilaria Myr
Farhi
S
ui membri della famiglia Farhi è stato scritto molto. Il primo di cui si ha notizie è Isaac ben Moise, soprannominato Ishtori haFarhi (1280-1355). Rabbino, traduttore e viaggiatore del periodo dei Rishonim, nacque
a Florenza, in Andalusia, da una famiglia orginaria di Arles: da qui il suo soprannome “Ish-tori” (“uomo
di Tours”) e Farhi (il nome Florenza richiama la parola “fiore” che in ebraico si dice “perah”). Studiò in Francia,
ma dopo l’espulsione del 1306, si trasferì in Palestina, dove scrisse le Sefer kaftor ouferach, un trattato di legge ebraica
che contiene descrizioni dettagliate sui suoi viaggi in Eretz Israel.
In seguito si hanno notizie della famiglia Farhi nel XV secolo a Zaragoza e ad Avila, in Spagna, e si sa che fu
espulsa nel 1492. Molto noto è anche Haim El Muallim Farhi: politico e filantropo, dal 1789 al 1818, quando fu
assassinato, fu il Vizir finanziario e l’amministratore di Acca (oggi Acco) e della sua provincia. Durante la Shoah
circa 67 Farhi (spose comprese) morirono nella Shoah: uno di questi veniva dall’Italia. Interessante è il sito www.
farhi.org, che traccia la storia e gli alberi genealogici della famiglia Farhi, di quelle ad essa connesse e delle famiglie
ebraiche di origine egiziana. Oggi si contano alcune famiglie Farhi anche a Milano.
SPACCIO
SHER
A
K
E
N
R
CA
Se volete raccontarci la storia, l’etimologia e le vicende legate al vostro cognome, scrivete a [email protected]
Parole ebraiche
a cura di Roberto Zadik
xuyn Q
Matos
uando si prende un volo, i passeggeri israeliani salgono a bordo di un matos. Con questo termine
viene designato l’aereo e in ogni viaggio verso o da Israele si sente sempre questa parola assieme a
“Naamal teufà” che significa aeroporto. Però nella lingua ebraica esiste un sinonimo molto interessante e
usato specialmente dai bambini, aviron. Questo vocabolo nacque nei primi anni del Novecento, ai tempi di
Eliezer Ben Yehuda, considerato universalmente come il “padre dell’ebraico moderno” e, coniato da suo
figlio Itamar Ben-Avi, divenne molto popolare nella società israeliana del tempo. Venne citato nei giornali,
negli articoli di Nahum Sokolov, uno dei primi cronisti in lingua ebraica, e trova la radice nel francese,
dove aereo si dice avion. Tutto è cambiato però nel 1928, quando il grande poeta Haim Bialik consigliò
ai membri del Comitato della Lingua Ebraica di sostituire a quella parola, più indicata per il volo degli
uccelli, un derivato del verbo latus, volare: matos, appunto. Specialmente da quando è stata istituita nel 1948
l’Aviazione israeliana El Al, il termine aviron è rapidamente caduto in disuso. Ma la canzone “Vieni giù da
noi, aeroplano” scritta dalla maestra d’asilo Chinga Singer, fa sì che resti la più amata dai bimbi israeliani.
Giulia Remorino Ibry
Psicoterapeuta analitica
Esperta in clinica,
mediazione culturale
e familiare
Consulente del Tribunale
di Milano per i problemi
del bambino e dell’adolescente
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Ebraica di Milano sono disponibili diversi media:
il Bollettino della Comunità (20.000 lettori, tra cui tutte
le famiglie ebraiche di Milano e provincia e un selezionato
indirizzario nazionale e internazionale),
Volantini da allegare al Bollettino,
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(20.000 contatti al mese),
la Newsletter del Lunedì (4000 destinatari ogni settimana)
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