Diapositiva 1 - Biblioteca Nazionale di Napoli

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Diapositiva 1 - Biblioteca Nazionale di Napoli
BIBLIOTECA
NAZIONALE DI NAPOLI
News Speciale 11 settembre
RASSEGNA
STAMPA
A cura di
Lydia Tarsitano
bnnufficiostampa tel . 0817819381
[email protected]
NEW YORK 11 settembre: l’attentato che cambiò la storia
Da oggi fino al 16 settembre (orario 9-18) alla Biblioteca Nazionale - Sala
Emeroteca Matilde Serao
Un’ esposizione di giornali a stampa ripercorre quelle drammatiche ore. Terrore , emozioni,
sgomento di fronte alle Torri Gemelle in fiamme ed il dolore per le circa 3.000 vittime affiorano
dalla cronaca dei giornali di tutto il mondo . In mostra anche libri, saggi e romanzi per testimoniare
il dibattito e gli interrogativi che seguirono l’attentato terroristico, che aveva colpito il paese
simbolo dell’Occidente, gli Stati Uniti d’America.
In mostra in particolare le prime pagine dei giornali italiani che offono uno spaccato sull’ impatto
e sulla partecipazione emotiva e politica che l’evento ebbe in Italia ed in tutto il mondo .
Seguendo il percorso espositivo, diviso per sezioni, si avverte la tempestività con cui i mass media
italiani percepirono la gravità dell’evento e soffermandosi sulle testate della nostra città si rivive la
paura dei giorni successivi sui rischi di possibili attentati anche alle basi della Nato, e tra queste
Napoli.
Articoli ,video e foto su
http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=161952&sez=MONDO
11 settembre 2011
06/09/2011 -
Tutte le foto e tutti i
video
http://multimedia.last
ampa.it/multimedia/1
1settembre2011/
E solo ora appare un video del volo 93
PAOLO MASTROLILLI
INVIATO A NEW YORK
Ci sembra di sapere tutto sugli attentati dell’11 settembre, e invece pezzi di verità continuano a riemergere in
continuazione. Adesso è la volta di un video che mostra le prime immagini del volo United 93, poco dopo lo
schianto in un campo della Pennsylvania, vicino Shanksville. Probabilmente sono le più recenti, riprese
quando la nuvola di fumo nero provocata dall’esplosione aveva appena iniziato ad alzarsi in cielo.
Difficile dire se possano aggiungere qualcosa alla dimanica del dirottamento che aveva fallito il suo obiettivo
a Washington, a causa della rivolta dei passeggeri a bordo. Di sicuro aggiungono emozione al 10˚
anniversario che arriva domenica prossima.
Quella mattina il volo United 93 era partito da Newark, nel New Jersey, per raggiungere San Francisco. A
bordo c’erano sette uomini di equipaggio e 37 passeggeri. Quattro di loro erano terroristi di al Qaeda
incaricati di dirottare l’aereo e farlo schiantare su un obiettivo di Washington, ancora oggi non identificato con
precisione: forse Capitol Hill, forse la Casa Bianca.
A causa di un ritardo dovuto al traffico a terra, il volo 93 era decollato quando ormai gli altri aerei attaccati da
al Qaeda erano già arrivati o si avvicinavano ai loro obiettivi. Quindi i passeggeri, chiamando i parenti con i
cellulari, avevano potuto capire esattamente quale sorte li aspettasse. Si era ribellati, decidendo di riprendere
il controllo dell’apparecchio, e il grido di Todd Beamer «Let’s roll» era diventato il simbolo dell’eroismo di
quelle persone e della determinazione degli americani a reagire.
Proprio in quei minuti Dave Berkebile si trovava con la moglie Cathy nella loro casa di Berlin, che guardava in
direzione del campo dello schianto. Sentito il rumore dell’impatto, Dave aveva preso una piccola telecamera
che teneva sempre a portata di mano, ed era andato sul patio a riprendere.
Le immagini mostrano una nuvola nera che si alza da terra e poco dopo riempie il cielo. In sottofondo la voce
incredula di Dave: «L’esplosione ha scosso la nostra casa. Sono uscito fuori e ho visto il fumo. Non so
cos’altro stia accadendo: alcuni arei sono andati contro il Pentagono e il World Trade Center. Stavamo
guardando la tv, quando è successa questa cosa. Forse c’era una bomba a bordo».
Berkebile non poteva immaginare la battaglia avvenuta sul volo 93, ma il suo sgomento descrive bene lo
stato d’animo dell’intera America. Per anni la sua famiglia ha tenuto il video per sè. A febbraio, però, Dave è
morto, e la moglie Cathy ha deciso di darlo agli storici del National Park Service.
Forse non servirà a risolvere alcuni misteri di quella mattina, ad esempio se i passeggeri fossero riusciti ad
entrare nella cabina. Ma riaprirà le ferite di chi in quella nuvola nera rivedrà la fine dei propri cari.
La vita del cronista, specie nella categoria dei corrispondenti di guerra, comporta molti rischi ma al
tempo stesso offre loro l'opportunità di assistere ai maggiori avvenimenti internazionali e conoscerne i
protagonisti. Io, ad esempio, ho avuto la fortuna di imbattermi trent'anni fa nel grande comandante
afghano Ahmad Shah Massud e, da allora, di frequentarlo assiduamente fino al giorno della sua tragica
fine, il 9 settembre del 2001.
Quanto segue è un racconto fitto di ricordi (un misto di misteri gaudiosi e dolorosi) oltre che un omaggio
al «leone del Panshir» nel decimo anniversario della sua scomparsa: una belva tutto sommato
mansueta, il nostro eroe, che si aggirava nella valle natia, teatro di tutte le sue imprese, e poteva
affermare poco prima di morire di «non aver mai giustiziato un prigioniero né aver mai dato ordine di
farlo». Massud rimaneva perennemente inchiodato sui monti e nelle trincee del suo Panshir. Ed era
proprio lassù che dovevi andare, se volevi incontrarlo. Tre settimane di cammino (in gran parte a piedi o
con l'ausilio di mezzi di fortuna, un carretto, un furgone o magari un camion che procedeva rantolando
sull'ultimo, ripidissimo tratto) per coprire circa 130 chilometri di strada. Arrivammo a Bazarak — il suo
villaggio natale — che era già notte. Massud stava seduto al tavolo con un gruppetto di amici: parlavano
a bassa voce mangiando noccioline e uva passa. «E tu chi sei?», mi chiese in farsi (persiano) sgranando
gli occhi. Parlava bene il francese, che aveva imparato a Kabul fin da ragazzo e quindi al liceo della
capitale. S'era poi iscritto alla facoltà d'architettura, ma non riuscì a conseguire la laurea, travolto
com'era dagli «impeti rivoluzionari» che, scriverà un suo biografo, «gli avevano mandato in fiamme il
cuore e il cervello». Era in sostanza un carbonaro, una testa calda. La crociata di Massud era cominciata
nel '75 con un tentativo di sollevamento nel Panshir, subito fallito. La stessa cosa e lo stesso fallimento
ebbero luogo quattro anni dopo, quando il potere sembrava saldamente nelle mani del presidente Nur
Muhammad Taraki e del primo ministro Afizullah Amin. Al tempo del nostro primo incontro, nell'81, l'ex
studente universitario fuori corso aveva appena 26 anni ma era già leggenda: che le epiche battaglie dei
mujahidin contro gli sciuravi — i russi — avrebbero via via ingigantito.
Ricordo un giovane piuttosto schivo e taciturno, un volto pallido affilato, gli occhi grandi e scuri quasi
sempre offuscati da un velo di malinconia. Niente di altero o d'autoritario nella sua persona, sapeva
imporsi grazie alla sua forza interiore, impartiva ordini quasi senza parlare, gli bastavano gli occhi e un
gesto sbrigativo nella mano per dire ai suoi ragazzi cosa fare, dove andare. Esibiva un pizzetto nero
striato di fili d'argento che gli conferiva un'aria da cadetto moschettiere ottocentesco, ulteriormente
accentuata dal Pacul, il mantello che sempre l'avvolgeva, qualunque fosse la stagione. Un coro quasi
unanime di lodi si levò in quei giorni sulla «abilità strategica» di Massud oltre che sull'«efficienza della
sua rete d'informazione», senza le quali — diagnosticò un ufficiale — «il grande baluardo della
Resistenza del Panshir avrebbe potuto essere spazzato via una volta per tutte». E si arriva quindi a
febbraio dell'89 quando ha inizio il graduale rientro in patria dell'Armata Rossa e sul ponte dell'Amu
Darya s'intravedeva la sagoma di un generale sovietico che, mano alla visiera, saluta l'Afghanistan per
l'ultima volta. Ma la pace non si addice a questo Paese, che pure in anni non troppo lontani sembrava
un'oasi relativamente felice e spensierata, quando in Chicken Street — la strada più famosa della
capitale — hippies e figli dei fiori bivaccavano lievemente inebetiti dall'alcol e dalla marijuana. Lo stesso
presidente Karzai descrive in un libro autobiografico Kabul come «una città pulita, ordinata e
discretamente cosmopolita...».
Nella mia ultima visita, tre anni or sono, trovai una Kabul «blindata», con matasse di filo spinato per le
strade e posti di blocco ad ogni crocicchio: mentre sui muri delle case e nelle piazze giganteggiavano
ovunque i ritratti di Ahmad Shah Massud, che è rimasto «il solo vero eroe nazionale, rimpianto da tutti».
Nella meticolosa biografia tracciata dallo scrittore Michael Barry, il «leone del Panshir» viene definito, per
la gentilezza dei modi e per un «profondo sentimento di pietà e clemenza» da cui non erano esclusi
neanche i suoi nemici, Amer-Sahib, comandante-signore. In proposito, ricordo che aveva una cura
Di ETTORE MO IL Leone Gentile del Panshir
estrema della propria persona, che si alzava prestissimo al mattino ma scendeva a colazione solo dopo un paio d'ore,
profumato di lavanda. L'esodo degli sciuravi non pose fine alla belligeranza, come molti speravano. Per tre anni, il
Paese è nelle mani del regime filosovietico di Najibullah, ma nel '92, dopo la spettacolare occupazione di Kabul da parte
del comandante tagiko e dei suoi guerriglieri, si ricomincia a sparare. Dal '96, Massud rimase assediato nella sua vallata
dall'orda dei «guerrieri di Dio», dimenticato da tutti. Lo vidi per l'ultima volta a Strasburgo, dov'era approdato il 7 aprile
del 2001 per chiedere aiuto all'Europa. Si è presentato col suo vestito afghano, di lino bianco, il berretto di felpa buttato
indietro sulla dura lana dei capelli. Aveva solo 47 anni ed era angosciato. «I governi europei — confidò con amarezza —
non capiscono che io non combatto solo per il mio Panshir, ma per bloccare l'espansione dell'integralismo islamico
scatenato a Teheran da Khomeini... Ve ne accorgerete».
L'attentato mortale ebbe luogo il 9 settembre del 2001 nelle baracche di Khoja Bahauddin, quartier generale
dell'Alleanza del Nord, dove Massud s'era rifugiato per sfuggire ai suoi assassini che, eliminandolo, toglievano di mezzo
un grande protagonista della Resistenza e anche il solo che godesse di rinomanza e prestigio internazionali. Fu così che
i due kamikaze magrebini, presentandosi come giornalisti, lo accopparono con una videocamera imbottita di esplosivo.
Qualche tempo dopo, in un colloquio col braccio destro di Massud, Khalili, che rimase gravemente ferito nell'attentato
ma sopravvisse, appresi che i due strateghi avevano fatto le ore piccole discutendo di Victor Hugo e di Dante Alighieri.
«Sai — mi confidò — il Capo non aveva fatto l'accademia militare, ma sapeva tutto di armi e strategia. Però era anche
un uomo molto pio e un intellettuale. Nei ritagli di tempo leggeva poesie ai suoi soldati. Sostiene inoltre che quei
farabutti di talebani, col loro fanatismo, avevano respinto l'Afghanistan indietro di cinque secoli».
Il «leone del Panshir» venne sepolto a Sareeka, sulla collina dei martiri, un'arida montagnola a nord di Bazarak, alla
presenza di una folla enorme. Un mare di gramaglie. La vedova con i sette figli, sei ragazze e un maschietto,
quest'ultimo di 13 anni, il più piccolo della brigata. Diversamente da Osama bin Laden e da Gulbuddin Hekmatyar che
continuano a sognare la restaurazione di una teocrazia islamica che giustifica, anzi incoraggia i kamikaze a immolarsi
per la «causa di Allah», Ahmad Shah Massud non ha mai assecondato questo genere di esaltazioni mistiche. Pur
facendo parte di un partito fondamentalista — lo Jamiat-i-Islami, che fa capo a Rabbani — è rimasto per indole nel solco
della moderazione, dove la ragione ha il predominio. Non si faceva scrupolo nell'ammettere che nel suo eventuale
governo si sarebbe fatto spazio alle donne e avversava apertamente i talebani che le volevano mummificare nel chador
e nel burqa.
Visitando il santuario di Sareeka, un anno dopo la sua morte, ho avuto l'impressione che benché s'inginocchiasse
cinque volte al giorno come vuole la tradizione islamica, il suo sguardo si rivolgesse più alle cose terrene che a quelle
celesti. Una «deviazione» che i due kamikaze magrebini non potevano tollerare e che gli costò la vita.
11 Settembre 2001, Parigi. Avvertito da un amico per telefono, mi precipito davanti al televisore, come centinaia di milioni
di individui nel mondo. Affascinato, seguo in tempo reale un Boeing 767, il volo AA11, infilarsi in una delle due torri del
World Trade Center. Poi, diciassette minuti dopo, ecco apparire un altro Boeing, il volo UA175, che urta in pieno la
seconda torre dello stesso World Trade Center, l'orgoglio di New York.
Cosa ho provato davanti a quelle immagini oggi celebri? Innanzitutto, sono rimasto affascinato, come davanti ai migliori
film catastrofici di Hollywood. Non assorbiamo forse l'immagine prima del suo contenuto? Sì, riconosco che ero soggiogato
dalla perfezione con cui l'attentato era stato organizzato ed eseguito. Solo dopo aver realizzato che le silhouette che si
gettavano nel vuoto dal 300° piano per sfuggire alle fiamme non erano manichini ma esseri umani, come voi e me,
condannati a morte da un'ideologia folle che invocava Allah, sono stato preso dall'orrore. Orrore che provo ancora oggi.
Nulla d'originale, mi sembra. Chi, dieci anni fa, ha assistito all'attacco contro i due più grandi grattacieli del mondo ha
certamente reagito come me.
di MAREK HALTER Il nemico dell'Occidente: dopo l'Urss venne Al Qaeda
E dopo? Dopo mi sono chiesto cosa avrei fatto se fossi stato una delle 17.400 persone presenti nelle
due torri quel mattino. Alla fine, sono riemersi i ricordi: gli incontri con il mio editore americano al 48°
piano della Torre Sud, una cena con gli amici al ristorante Windows of the world al 107° piano della
Torre Nord, da cui si gode un panorama incomparabile di New York, le discussioni con un mio
cugino designer nel suo atelier di TriBeCa, all'ombra delle Torri gemelle. È solo più tardi che sono
stato assalito dalle domande: perché? Come? Chi? Quali conseguenze sull'evoluzione del mondo?
Nel settembre del 1981, venti anni esatti prima dell'attentato al World Trade Center, mi trovavo in
Afghanistan. Renzo Rossellini, Bernard-Henri Lévy ed io eravamo andati a portare emittenti radio al
comandante Massud, uno dei più celebri resistenti all'occupazione sovietica. Un gruppo di
mujahiddin, che doveva scortarci fino alla vallata del Panshir dove si trovava Massud, ci aspettava a
Peshawar, alla frontiera pachistano-afghana. L'albergo Continental, in cui eravamo scesi, era pieno
di americani. Membri dei servizi segreti? Curiosamente, i loro interlocutori afghani erano per lo più
rappresentanti dei gruppi religiosi più fanatici. Ben presto, fummo messi all'indice. Eravamo gli unici
ad essere attorniati da uomini armati in maggioranza laici.
All'epoca, nel 1981, il mondo era diviso in due blocchi: occidentale democratico e comunista
totalitario. Tutti coloro che si trovavano a Peshawar partecipavano in un modo o in un altro alla
guerra del Bene contro il Male. E, per gli americani, ogni mezzo era buono per la difesa
dell'Occidente. Il comunismo sovietico non rappresentava forse un sistema aggressivo che
interveniva militarmente ovunque, là dove il proprio impero appariva minacciato, e che aveva fatto
costruire a Berlino un muro per proteggersi da qualsiasi tentazione democratica? I talebani
combattevano i comunisti. Erano quindi, agli occhi della Cia, alleati perfetti nel braccio di ferro che
l'America aveva ingaggiato con il diavolo.
Questa battaglia, l'America l'ha vinta. I sovietici lasciarono l'Afghanistan nel 1989 e i talebani presero
il loro posto. Il muro di Berlino crollò qualche mese dopo. In Urss, nacque la parestroïka. Il destino
volle che mi trovassi lì. Con il violoncellista Mstislav Rostropovich, andammo a cercare nel suo esilio
Andreï Sacharov, premio Nobel per la pace, e lo riportammo a Mosca, dove Mikhail Gorbaciov aveva
appena sciolto il Partito comunista. L'Occidente perdeva il suo migliore nemico. Dal momento che il
sistema liberale era stato accettato su scala planetaria e la democrazia era divenuta un riferimento
universale, alcuni credettero persino alla fine della Storia. Avevano dimenticato che il mondo era e
sarà sempre un'arena dove si affrontano il Bene e il Male, il Bene cambiando ogni volta campo e il
Male cambiando volto.
Per decenni, il Male ci è stato presentato sotto forma di parate militari sulla piazza Rossa e di carri
armati incolonnati sulla piazza Tien An Men. Non ci siamo accorti che esperti in Male e in Bene
avevano già trovato un nuovo volto al diavolo: l'Islam. Avremmo dunque dovuto poter prevedere la
sua offensiva contro l'Occidente. Ma il nostro razzismo naturale ce l'ha impedito. Come potevano, i
musulmani, sui quali abbiamo regnato per secoli, esser capaci di realizzare un giorno uno degli
attentati più perfetti della Storia?
Per noi, che eravamo a Peshawar vent'anni prima, questo appariva evidente. L'assassinio del
comandante Massud, il 9 settembre 2001, due giorni prima dell'attacco contro le Torri gemelle di
New York, era — cosa che gli americani non avevano capito — una dichiarazione di guerra. Una
delle rare voci democratiche del mondo musulmano, la stessa che si fa risentire di questi tempi con
la «primavera araba», fu soffocata a vantaggio dei talebani e della jihad, la guerra santa. Come
un'eco al grido dei crociati del Medioevo, Dio lo vuole, qualche secolo più tardi risuona Allah Aqbar,
Dio è grande.
Che fortuna per George Bush, che già si vedeva nelle vesti di San Giorgio che abbatte il dragone!
«La nostra guerra contro il terrorismo comincia con Al Qaeda. Ma non si fermerà qui», proferì dopo
l'attentato contro il World Trade Center, dichiarando guerra all'Afghanistan.
Pensavo a tutto questo, l'11 Settembre 2001, o anche un po' più tardi? Non lo so. Oggi, i ricordi, le
analisi, le letture si confondono. Ricordo tuttavia d'essere andato a New York un mese dopo
l'attentato. Eravamo centinaia a contemplare, increduli, il buco di Ground Zero, tutto quel che restava
di quel gioiello architettonico e delle migliaia di persone che vi lavoravano. Gli operai, sgombrando il
terreno, avevano lasciato qualche trave a forma di croce. Sulla palizzata che circondava il vuoto,
qualcuno appese una bandiera americana. Un fotografo riprendeva i passanti e l'indomani espose le
foto sulla palizzata. Fu così che ritrovai il mio volto, l'immagine di un uomo sorpreso, sbalordito,
soprattutto in collera. Oggi, dieci anni più tardi, il recinto e le foto sono scomparsi, ma il buco di
Ground Zero non è ancora del tutto riempito. Il cantiere del One World Trade Center, edificio di 1.776
piedi di altezza, è avviato.
(Traduzione
di Daniela Maggioni)
Il crollo delle Torri, ferita da 50 miliardi
Alla tragedia umana si aggiunge il peso economico dei risarcimenti e del nuovo World Trade Center
Claudio Gatti NEW YORK. Dal nostro inviato
•A 10 anni di distanza non sono stati ancora trovati i resti di tutte le vittime. Il 23 agosto scorso il DnaWorld Trade Center
Identification Group dell’ufficio di medicina legale del Comune di New York ha annunciato di aver identificato il Dna di
Ernest James. Aveva 40 anni e lavorava all’88esimo piano della TorreNord. Conisuoi, sonostatiindividuati i resti di 1.629
persone. Ne mancano ancora più di mille. Insomma, non è finita. AP/LAPRESSE Ricominciare da Ground Zero. Una
turista osserva il cantiere dove sorgerà il nuovo World Trade Center a New York
Non c’è dubbio: l’attacco ha lasciato unaferita indelebile nella psiche della città. Lo si è visto il 23 agosto quando,
sentendo il pavimento tremare per il terremoto, i più hanno sospettato una bomba. Ma è anche vero che dopo i primi
giorni di shock la vita quotidiana a Manhattan è velocemente ripresa. Come prima. Eoggile frotte di turisti italianiche si
riversanoogni giornosuFifthAvenueacacciadisaldie occasioni notano soprattutto una cosa: che rispetto a 10 anni fa il loro
shopping costa moltomenopervia di uncambio ben più favorevole.
Latentazionepotrebbequindi essere di ritenerla una tragedia indimenticabile da cui gli Stati Uniti sono però usciti. Osama
bin Laden è stato scovato e ucciso e al-Qaeda è stata quasi decimata. Ma se è vero che Osama ha perso, è anche vero
che Obama non ha vinto. Non solo perché l’Afghanistan rimane un potenziale buco nero e l’Iraq un punto interrogativo,
bensì perché l’11 settembrehascatenatounaseriedi reazioni a catena che hanno contribuito a mettere in grande difficoltà
non solo l’economia del Paese ma la sua stessa leadership politica. A livello sia locale che internazionale.
Quel 40% di calo del dollaro sull’euro che oggi fa gioire i turisti italiani è una cartina di tornasole, indicativa di un calo di
peso e di prestigio senza precedenti. La sconfitta di al-Qaeda ha avuto un costo altissimo. Che ha portato i più pessimisti
a decretare addirittura l’accelerazione della fine dell’impero americano.
Suqueicosti Il Sole 24 Orehacercatocifre precise. Apartire daicompensi ai familiari delle vittime e alle aziende
danneggiate. Il Fondo federale di compensazione delle vittime dell’11 settembre, coordinato dall’avvocato
KennethFeinberg, hasaldato i conti con il 97% dei potenziali beneficiari (il restante 3% ha preferito mettersi nelle mani dei
tribunali). Sono stati finora pagati 7 miliardi di dollari. Più di 2 milioni sono stati erogati in media alle famiglie delle 2.880
persone uccise negli attacchi a New York, Washington e in Pennsylvania e quasi 400mila dollari ai 2.680 feriti.
Le assicurazioni private invece hanno erogato un miliardo e settecentomilioni alle vittime oailoro familiari, mentre 23,3
milioni sono andati a compensare i danni a negozi, uffici e attività commerciali.
Il think tank californiano Rand Corporation ha calcolato che sono stati pagati in totale 38,1 miliardi. La quota più grossa 19,6 miliardi - dalle assicurazioni. LoStato haerogato 15,8 miliardi e organizzazioni umanitarie o istituti di beneficenza i
restanti 2,7. «È stato il più massiccio programma di risarcimento mai condotto nella storia», spiega Lloyd Dixon, autore
dello studio della Rand assieme a Rachel Kaganoff Stern.
Allo Stato sarebbe costato ancora di più se a fine luglio i repubblicani della Camera non avessero bloccato un disegno di
legge democratico che avrebbe stanziato 3,2 miliardi di dollari per terapie e cure mediche a favore dei quasi 60mila
soccorritori e residenti di Downtown Manhattan ammalatisi a causa di polveri sottili e sostanze tossiche prodotte dalle
macerie delle Due Torri.
Poi c’è il costo della ricostruzione di Ground Zero, il cui budget nel corso di dieci anni è arrivato a 11 miliardi di dollari.
Incluso in questa cifra è il prezzo del più costoso edificiodella storia architettonicaamericana: la cosiddetta FreedomTower
(1 World Trade Center) dovrebbe costare 3,3 miliardi.
«Per molti la ricostruzione di Ground Zero ha un valore simbolicoenorme», harecentemente scritto l’opinionista del New
York TimesJoeNocera. «Eperquestomotivo, la Port Authority of New York & New Jersey (l’autorità portuale proprietaria
del terrenoe responsabile del progetto, ndr) ha usato fondi che avrebbe potuto utilizzare in ben più utili lavori di
ammodernamentodelleinfrastrutturemetropolitane per costruire una cattedrale nel deserto che aggiungerà 240mila metri
quadri di uffici di cui la città non ha alcun bisogno». Secondo Nocera, l’antieconomicità el’impatto finanziario sui
newyorchesi dell’operazione immobiliare voluta dalla Port Authority sono provati dal recente pacchetto di aumenti dei
pedaggi sui ponti che collegano l’isola di Manhattan. Il giornalista del NewYorkTimesl’ha denunciata come una tassa
occulta sul nuovo World Trade Center.
Ma per le guerre il conto è a 12 zeri
Afghanistan e Iraq
Nel lontano settembre di dieci anni fa, quando alla
Casa Bianca c’era George W. Bush, la questione del
deficit del bilancio federale non interessava a
nessuno. Ancheperché era in attivo. È stato l’ultimo
anno. Anche e soprattutto a causa delle guerre dell’11
settembre.
La prima stima dei costi dell’invasione dell’Iraq venne
offerta nel primo anniversario dell’attacco alle Torri
Gemelle daLawrence B. Lindsey, all’epoca consigliere
economico della Casa Bianca. Disse che il suo costo
sarebbe oscillato tra i 100 e i 200 miliardi di dollari.
Cinque mesi dopo, a meno di una settimana dall’avvio
delle operazioni militari, il vice-Presidente Dick
Cheney disse che «la guerra in sé costerà 80 miliardi
e la ricostruzione di Baghdad altri 10 miliardi di
dollari».
Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti. Eancor
più stime sui costi delle guerre, Iraq e Afghanistan. Il
primo a superare la barriera dei dodici zeri,
sconfinando nei trillion, fu il Premio Nobel per
l’economia Joseph E. Stiglitz, che nel 2006 parlò di
costi "macro-economici" totali superiori ai duemila
miliardi. Nel febbraio 2008, un rapporto del Comitato
economico del partito democratico al Senato arrivò a
prevedere che per il 2017 si sarebbero toccati i 3.500
miliardi: 46.400 dollari per ogni famiglia di quattro
persone. Nel marzo scorso il Congressional Research
Service, centro-studi bipartisan del Congresso, ha
annunciato che in questi dieci anni le guerre dell’11
settembre sono già costate agli americani 1.283,3
miliardi di dollari. A giugno, i professori della Brown
University, Neta Crawford e Catherine Lutz, hanno
contabilizzato anchegli interessi: «La guerra è stata
finanziata quasi interamente con soldi presi in
prestito... e nonè irragionevole dire chesi siano
superati i 400 miliardi solo di interessi». La loro
conclusionesui costi totali: «Se i combattimenti
cessassero oggi, le guerre sarebbero costate 2.800
miliardi». Ma la stima "conservatrice" dei costi da
sostenere fino al 2050 è di 3.700 miliardi.
Le spese per i reduci affossano il
bilancio
Veteran Administration in rosso
Il 27 luglio scorso a Crystal Nicely tremava la voce mentre
parlava della riabilitazione di suo marito Todd, caporale dei
Marines tornato dall’Afghanistan dopo che un "ordigno
improvvisato" gli aveva fatto perdere braccia e gambe. E
per i membri della Commissione reduci del Senato che la
ascoltavano non è stato facile nascondere la commozione.
Ma quando Crystal haspiegato che l’approvazione della
richiesta di protesi eranostati necessari 70giorni, la
reazione più diffusa è stata di sdegno. Il pensiero del
caporale Nicely per oltre due mesi immobilizzato su un letto
di un ospedale militare perché i burocrati della Veteran
Administration (Va) avevano impiegato tutto quel tempo per
autorizzare le quattro protesi era stato troppo anche per chi
ha grande familiarità con le lentezze burocratiche.
Poco più di un mese dopo, il 30 agosto scorso, in un
discorso al più importante raduno annuale di reduci, il
presidente Barack Obama ha preso un impegno: «Come
nazione non possiamo, non dobbiamo e non faremo pagare
la crisi del bilancio ai nostri reduci». Insomma, tagli al
bilancio sì, ma non a spese di chi si è sacrificato per il
Paese. Per Obama e i repubblicani il problema è che, a
seguito delle guerre in Iraq e in Afghanistan, le spese per i
reduci stanno facendo sprofondare nel rosso violaceo il
bilancio della Veteran Administration.
In una dichiarazione al Congresso, la principal analyst for
Military and Veterans’ Compensation, Heidi Golding, ha
presentato il conto al Congresso. «Nel 2010 la Va ha speso
1,9 miliardi di dollari per la cura di 400.100 reducidelle
dueguerre», ha spiegato. «Eprevediamoche nel prossimo
decennio, tra il 2011 e il 2020, la spesa sanitaria dei reduci
di quelle guerre oscillerà tra i 40 e i 55 miliardi di dollari». Il
che si andrà a sommare ai 6 miliardi spesi fino al 2010.
L’11 SETTEMBRE DI MCCARTNEY
L’ex Beatle: «Ho visto le torri in fiamme e ci ho fatto un film»
Nessuno potrà mai scordare l’11 settembre 2001. L’attacco terroristico alle Torri
Gemelle di Manhattan tolse molte certezze all’uomo del Duemila lasciandogli un profondo e
radicato senso di inquietudine. Sir Paul McCartney, l’ex Beatle, quel giorno si trovava su un
aereo, pronto a decollare dall’aeroporto newyorchese JFK con destinazione Londra. Erano
quasi le nove del mattino e McCartney stava consumando la colazione a bordo quando venne
distratto dal tragico quadretto che apparve sul finestrino del jet. «Era una splendida mattina di
fine estate e gettai l’occhio verso le Twin Towers. Da una delle torri mi accorsi che usciva un
pennacchio di fumo, pensai ad una illusione ottica. Non ci feci caso né mi allarmai, poteva
essere un incendio di lieve entità... Pochi minuti dopo, però, notai che anche dall’altra torre
apparve del fumo. Cominciai a preoccuparmi anche perché la nostra partenza venne ritardata
misteriosamente», ricorda l’ex Beatle. La cui testimonianza agghiacciante è raccontata con
dieci anni di ritardo come se Paul avesse esorcizzato il terrore soltanto ora: «Abbiamo
guardato questa scena per un po’, poi uno degli steward si è avvicinato e mi ha detto
bruscamente: signor McCartney, ci spiace, sta succedendo qualcosa di molto grave a New
York e abbiamo appena ricevuto l’ordine di uscire tutti dall’aereo. Spaventato, sono tornato a
casa mia, a Long Island, per seguire in tv quello che succedeva... Fu tremendo, non potevo
fare niente, nessuno di noi poteva farlo… C’erano migliaia di morti… Volevo andare a
Manhattan ma a nessuno era permesso di andare lì per giorni e, mentre pensavo a cosa
potevo fare, mi venne l’idea che forse si poteva organizzare un concerto in memoria di NY».
Insieme al ricordo raccapricciante di quegli attimi terribili arriva ora un film, firmato dallo
stesso McCartney, che ha deciso di riaprire quella nefasta stanza della memoria. L’ex
Beatles, evidentemente, non ha mai rimosso l’esperienza e ha deciso di raccontare il suo
personalissimo 11 settembreattraverso un documentario dal titolo The love we make. Il film,
voluto dall’ex Beatle ma girato dal regista Albert Maysles, narra quella interminabile e tragica
giornata attraverso gli occhi dell’autore di Yesterday e di Let it be. Volutamente girato in
bianco e nero - come i due colori scelti per la locandina - il film non si limita al racconto di
McCartney ma narra anche il lavoro svolto dall’ex Beatle per la pianificazione e la
preparazione del Concert for New York City, lo show corale svoltosi al Madison Square
Garden sei settimane dopo gli attacchi aerei. Paul, difatti, ama New York con passione: in
quella città conobbe il successo planetario ai tempi del Beatles, dando vitaa showleggendari
comel’esibizione allo Shea Stadium nel 1965 (60.000 paganti, un evento per l’epoca). Per le
strade di Manhattan si concretizzò l’amore per la prima moglie, Linda, scomparsa nel 1998. Al
Dakota House andò a trovare e fece pace con John Lennon, poco prima dell’assassinio
dell’amico. E a Long Island, pocodistante dalla Grande Mela, andràad abitare con Nancy
Shevall, la miliardaria destinata a diventare la terza signora McCartney.
Le riprese di The love we makehanno seguito Paul durante le prove del concerto e, nelle
immagini, si vede il bassista mentre cammina nei dintorni di Ground Zero e presenzia le
interviste realizzate nel backstage alle star accorse sul palco: David Bowie in una delle ultime
esibizioni live, Steve Buscemi, Eric Clapton, l’ex presidenteUsa Bill Clinton che si esibì al sax,
e poi Sheryl Crow, Harrison Ford, Mick Jagger, Jay Z, Billy Joel, Elton John, la figlia di Paul,
Stella, nota stilista, Keith Richards e James Taylor. Il film verrà trasmesso in anteprima dalla
pay tv statunitense Showtime-CBS nella notte tra il 10 e l’11 settembre prossimo, per poi
approdare nei cinema.
«Ho voluto organizzare quel concerto in memoria dei tanti vigili del fuoco periti durante i
soccorsi. Mio padre era stato un fireman, a Liverpool, durante la seconda guerra mondiale
quando i bombardamenti di Hitler colpirono pesantemente le zone dei Docks. Quella del
Madison è stata una serata intensa, un modo per ridare fiducia a New York», confessa
McCartney. Il quale, a 69 anni, è vitale come non mai e preso da molti progetti: le nozze
imminenti con Nancy; l’idea di diventare il testimonial musicale che inaugurerà le Olimpiadi di
Londra 2012 (a 50 anni esatti dal primo disco del Beatles…); e l’uscita del cd che contiene le
musiche scritte per il balletto classico Ocean’s Kingdom che debutterà il prossimo 22
settembre proprio a New York. «Ho voluto mettere in musica le mie emozioni», ha spiegato
Paul, «la sfida era quella di tradurre in note paura, amore, rabbia e tristezza di una vita, e ho
trovato tutto questo molto stimolante». Dieci anni dopo quel terrificante e, purtroppo,
indimenticabile 11 settembre.
Corriere Italiano di Quebec -7 set 2011-pag 4 e 5
OBAMA E BUSH INSIEME A GROUND ZERO
6 set 2011 Libero pag 17 ESTERI
La Cina tarocca la guerra al terrorismo
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In 10 anni nel mondo 35.000
condanne: la metà a Pechino e
Ankara. Che sfruttano
l’emergenza per reprimere il
dissenso
RECORD TURCO
MAURIZIO STEFANINI
Sono 119.044 le persone arrestate per terrorismo dall’11
settembre 2001, 35.117 quelle condannate. Costruito
dall’Associated Press, questo bilancio mondiale sui dieci anni di
Guerraal Terrore iniziati con gli attentati alle Torri Gemelle non è
esaustivo: si riferisce infatti a solo 66 Paesi, perché da altri per
una ragione o per l’altra non si è potuto avere cifre. Ma sono i 66
Paesi da cui viene il 70% della popolazione mondiale, e dunque
danno statisticamente almeno i due terzi del totale.
Probabilmente, anche di più.
Ma davvero erano tutti terroristi? In effetti, già il fatto che solo un
terzo degli arrestati sia poi stato condannato potrebbe dare un
po’un’idea di caccia all’uomo generalizzata, e spesso isterica.
Attenzione: non è stata colpa degli americani. Pur essendo stati
le principali vittime dell’offensiva di al Qaeda, gli Stati Uniti
hanno contribuito per una quota di condanne che rappresenta
poco più del 7% del totale: 2568. Il fatto che questa cifra sia
riferita a 2934 inquisiti, pari all’87,52%, spiega poi come negli
States si sia colpito relativamente a colpo sicuro. Cioè, in linea
generale non si è processato che coloro per i quali c’erano
ragionevoli certezze che sarebbero stati condannati. Se no, si è
lasciato perdere: prassi generale del sistema giudiziario Usa,
come ha mostrato agli europei anche l’evoluzione del caso
Strauss-Kahn. Limitandosi ai 200 casi più gravi, infatti, la
proporzione di condanne aumenta: 178, pari all’89%. È un po’ il
contrario dell’Italia, dove si arresta in via preventiva con la
massima facilità, ma poi gran parte dei processi si sgonfiano, e
gran partedelle condanneche comunque vengono poi svuotate
tra condoni e condizionali.
Ma quale è stato allora il Paese che ha condannato più
terroristi? In realtà, il posto numero uno spetta alla Turchia:
12.897 condanne. E il posto numero due alla Cina: oltre
7000. Data la reputazione dei due Paesi, sembra abbastanza
chiaro che sia il governo di Ankara che quello di Pechino
hanno usato l’alibi dell’allarme al Qaeda per colpire nel
mucchio del dissenso. È vero: dissenso spesso armato in
Turchia, dove comunque la guerriglia curda del Pkk è un
problema annoso. Mentre in Cina è notorio che vengano
considerati «terroristi» anche i seguaci del Dalai Lama e della
Falun Gong. Anzi, tecnicamente la legge che punisce «i tre
mali» mette sullo stesso piano terrorismo, separatismo e
estremismo. Due anni fa l’imprenditore uiguro Dilshat Perhat
è stato condannato a cinque anni di carcere per terrorismo,
per via di un appello a manifestare contro i cinesi che era
stato posto sul suo sito Internet in uiguro: anche se lui lo
aveva subito denunciato alla polizia.
In dieci anni, al livello mondiale certificato da Ap fa una media
di oltre 3500 condanne all’anno, mentre prima dell’11
settembre non oltrepassava l’ordine delle centinaia all’anno.
C’è stata sicuramente più attenzione, c’è stato un incremento
degli attentati terroristi. Negli stessi Stati Uniti, la cifra è
cresciuta in una decade di otto volte Ma ci sono state anche
leggi antiterrorismo particolarmente restrittive
In Turchia una nuova legge antiterrorismo è stata adottata nel
2006. Sono bastate le sue nuove definizioni perché, in un
contesto di ordine pubblico non troppo differente, le condanne
passassero dalle 273 del 2005 alle 6345 del 2009. Più di
recente, l’accusa di contiguità ad al Qaeda è stata utilizzata
contro in manifestanti della Primavera Araba, e in Siria e
Bahrein gli arrestati durante le proteste sono stati appunto
inquisiti in base alle leggi anti-terrorismo.
Il caso inverso è quello del Pakistan è un Paese dove
talebani e qaedisti impazzano sul serio e le pressioni Usa
hanno fatto sì che in base alle nuove leggi anti-terrorismo del
2004 gli arresti siano cresciuti dai 1552 del 2006 ai 12.886
del 2009. Ma poi le condanne sono appena il 10%, e la gran
parte della gente che è arrestata viene poi posta in libertà. Il
tutto, da confrontare al rigore con cui invece i tribunali
pakistani applicano le leggi anti-blasfemia ai cristiani e a altri
cittadini non islamici.
Quanto all’Europa, il numero più alto di condanne è in
Spagna: oltre 140 all’anno. Lì si incrociano infatti i jihadisti
con l’Eta, e infatti quando ci furono gli attentati di Madrid
all’inizio si attribuì ai separatisti baschi quel che aveva invece
fatto al Qaeda
«Citiamo il meno possibile Al Qaeda». L’ordine di servizio è firmato da Obama, all’interno di due dispositivi inviati alle
ambasciate americane nel mondo che organizzeranno le cerimonie del decimo anniversario dell’11 Settembre.
L’amministrazione che aveva già deciso di eliminare il termine «attentati terroristici islamici» nei suoi comunicati,
sostituendolo con «eventi causati dall’uomo», ha inferto il colpo di grazia politicamente corretto alla guerra al terrorismo di
bushana memoria, in omaggio ad un futuro in cui il nemico principale sembra essere, per Barack Hussein, l’idea di che
pensa che esista uno scontro tra le civiltà, ovviamente tutte valide allo stesso modo. L’ideologia fondamentalista che è
viva e vegeta nel mondo musulmano, come dimostrano gli attentati che ancora fanno stragi in Afghanistan, Pakistan ed
anche in Iraq, non è pericolosa, non va neppure nominata. E invece è ovvio che questa ideologia e le sue organizzazioni
derivate, se potessero, farebbe volentieri il bis di Ground Zero su larga scala, e intanto si “accontentano” di coltivare
terroristi domestici sul suolo americano, come il maggiore di famiglia palestinese che ha ucciso 13 commilitoni in una
caserma texana.
Il decimo anniversario che sta per arrivare, nelle intenzioni di Obama, non dovrà essere la celebrazione di un atto di
guerra contro gli Usa: «Quel giorno noi commemoriamo i cittadini di oltre 90 nazioni che morirono negli attacchi dell’11
settembre. Onoriamo e celebriamo la resistenza di famiglie e comunità su ogni continente, a New York e Nairobi, Bali e
Belfast, Mumbai e Manila, Lahore e Londra». Invece di citare Washington, dove Al Qaeda ha attaccato il Pentagono,
Obama ha ricordato Belfast (?) , perché la sua idea dell’America è che è solo una provincia del mondo. Ma soprattutto
che i cattivi sono di tutte le religioni, tutte sullo stesso piano e ugualmente nefaste (infatti, a Ground Zero non parlerà
nessun esponente religioso). Gli attacchi, ricorda laicamente il presidente, possono essere «di matrice internazionale e
domestica».
Obama vuole la moglie ubriaca e la botte piena. Un giorno (ieri, parlando davanti ai militari della American Legion) si
gloria patriotticamente di aver ammazzato Bin Laden, ciò che sarà uno slogan (meritato) della sua prossima campagna.
Un altro giorno sfodera il suo multilateralismo ideologico che degrada l’America, e non solo il suo debito, a nazione come
le altre, vittima di un male senza nome nel mondo, come la Norvegia che ha il suo pazzo assassino ariano. L’intento è di
salvare l’Islam dalle sue responsabilità schiaccianti, non solo perché sono cigni bianchi, una su mille, le stragi non firmate
dalla diffusa corrente estremista che ha la sua rete globale da Teheran a Islamabad, dal Cairo alla Siria, dalla Palestina di
Hamas alle cellule dormienti negli Usa e nella Ue. Attaccare Al Qaeda sarebbe riconoscere chi è il nemico vero, ancora
oggi. Invece bisogna tendere la mano, e addirittura finanziare, i musulmani che vogliono sfruttare la democrazia dei Paesi
che li ospitano per espandersi, ma senza dare un taglio convincente con l’ala interna intollerante. I promotori della
moschea vicino a Ground Zero hanno chiesto 5 milioni di fondi federali, e l’iter per la concessione sta procedendo. Per
fermarlo, sono in corso raccolte di firme tra gli oppositori: come Dick Morris, ex consulente di Bill Clinton ma oggi
schierato contro Obama, che sul suo sito «invita tutti a unirsi agli Americani che in tutto il Paese non vogliono che i dollari
delle loro tasse finanzino una moschea a Ground Zero». I ripetuti messaggi di Obama oggettivamente a favore degli
islamici hanno fatto breccia: mentre il suo rating nazionale è ormai di un paio di punti sotto il 40%, tra i 2,75 milioni di
musulmani americani è del 70%, quasi il doppio. Nel sondaggio dell’indipendente Pew Research Center, il 6% dei
musulmani ha detto di ritenere che c’è un forte sostegno all’estremismo islamico, e per un altro 15% c’è un sostegno
importante. Persino per il 21% degli stessi musulmani negli Usa, che conoscono bene i loro fratelli, Al Qaeda resta il
grosso pericolo che in realtà è. Per Obama, che pure spara droni a destra e manca per ammazzarne i leader, citare Al
Qaeda fa troppo Bush.
8
Bush, l’eroe scomodo dell’11 settembre
Dieci anni sono tanti per fare un Memoriale, ma alla fine governatori,
sindaci e la Porth Authority che controlla l’area del WTC ce l’hanno
fatta. Ma dieci anni sono anche un tempo che ai newyorkesi
sembrava, quel mattino di settembre 2001, impensabile per un altro
traguardo: non subire nessun altro attentato grave in città, e neppure
nel resto del Paese. Invece è successo ma viene ora sottovalutato,
non se ne parla tanto, si guarda “oltre” rimuovendo quelle paure
(ricordate l’antrace?) che riempivano le giornate di tutti noiche
avevamovissuto da vicino l’attacco di guerra di Al Qaeda.
Le celebrazioni degli attacchi tacciono
sul vero protagonista della guerra a
Osama fino alla Primavera araba
È un silenzio assordante, questo sulla sicurezza conquistata, perché
porta il nome di George W. Bush fino al 20 gennaio 2009, e poi
quello di Obama, il suo fedelissimo seguace in politica antiterrore, di
fatto se non di retorica. Bush è un nome tossico per la stampa
dominante, che lo cita solo quando Barack, sempre più
pateticamente, accusa la passata amministrazione per il disastro
economico di oggi, che in realtà è ormai un parto tutto suo, visto che
governa da 31 mesi e che la recessione bis in cui rischia di
precipitare l’America è dovuta ai suoi stimoli e alle sue “riforme” che
paralizzano il business.
L’ex presidente ha scelto di non intromettersi nella politica Usa,
usando lo stile alto dello statista che lascia al successore onori e
oneri. Ma il suo marchio di qualità nella lotta al terrore rimane, e sarà
nei libri di storia anche se non entra nelle cronache dei quotidiani.
Non a caso, due giornalisti del New York Times, Eric Schmitt e
ThomShanker, esperti in sicurezza, hanno scritto già un libro
dedicato alla battaglia condotta dalla Cia e dalle altre agenzie ad Al
Qaeda. “Counterstrike. The Untold Story of America’s Secret
Campaign against Al Qaeda” (“Contrattacco. La storia non
raccontata della campagna segreta dell’America contro Al Qaeda”)
racconta come la macchina governativa abbia funzionato a dovere,
al di fuori dei riflettori, per vincere la guerra contro Bin Laden. Ci
sono gli oscuri esperti del ministero del Tesoro che si sono dedicati a
smascherare i finanziatori degli estremisti, ne hanno bloccato i conti,
li hanno costretti alla “macchia economica”. E poi c’è il cambio
epocale rispetto al tempo di Bill Clinton sul terreno
dellacooperazione tra Fbi, Cia, esercito, National Security Agency ed
altri enti.
IL MEGAFONO DEL POMPIERE
La famosa immagine di George Bush che abbraccia il vigile del
fuoco Bob Beckwith di fronte alle macerie del World Trade Center di
Manhattan dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 Prima
c’era la muraglia cinese, e nessuno scambio di notizie perché
ognuno riferiva solo ai suoi superiori. Una linea che si fondava sul
malinteso senso della protezione della privacy: il governo di Clinton
era preoccupato principalmente di scalfire il diritto personale di un
sospetto terrorista e dei suoi contatti. Bush cambiò tutto, ma non fu
un fatto tecnico. Il suo merito fu di “capire” a fondo la natura di Al
Qaeda, che aveva già fattounattentato nel 1993condiversi morti alle
Torri Gemelle, ed altri micidiali nelle ambasciate Usa in Africa, ma
era stata trattata come una banda mafiosa. Bush elevò lo scontro a
“guerra”, e dichiarò sulle ceneri di Ground Zero «che i nemici presto
ci sentiranno». Tutto il suo governo agì di conseguenza: vennero
Guantanamo per detenere i «nemici combattenti», che non avevano
i diritti dei normali soldati secondo la Convenzione di Ginevra;
vennero gli interrogatori duri, con i celebri 3 o 4 casi dei simulati
affogamenti ai pezzi più grossi di Al Qaeda, che permisero il
progressivo smantellamento delle cellule fino alla scoperta di Bin
Laden. La vate su quanto accede nell’altra sponda del mediterraneo
E la conferma del ruolo da protagonista di BHL – nato in
Algeria da genitori ebrei-sefarditi – è arrivata
dall’indiscrezione fatta dal quotidiano Le Monde, che ha
rivelato come il filosofo, da settimane, sia protetto dalla
polizia per il timore di rappresaglie di agenti di Gheddafi,
prosua eliminazione è merito diretto diObama, allievo
modello, cheha dato l’ordine di ucciderlo. Ma è un
successo che nasce con Bush. E Obama ha anche
moltiplicato l’uso dei letali droni in Pakistan e Afghanistan,
che era stato, anche questo, introdotto da Bush. E che dire
della dottrina del cambiamento democratico di regime?
L’impatto sui movimenti della cosiddetta “Primavera araba”
che i discorsi di Bush sulla necessità di esportare la
democrazia possono aver avuto è un tema ancora tutto da
approfondire; ma negare a priori il legame è assurdo.
La stampa denigratoria ha scritto migliaia di articoli su Abu
Ghraib, su Gitmo, sui trasferimenti forzati dei sospetti nelle
carceri estere della Cia, sempre associandoli a George
Bush. Ma il Paese, che aveva bene inteso quanto stesse
facendo il presidente “di guerra” per difendere l’America,
gli ha fatto vincere il bis nel 2004 contro Kerry, e con un
margine maggiore rispetto alla prima vittoria anche se si
era in piena guerra in Iraq.
Lo “scomodo vincente” Bush sarà difficile da rimuovere
completamente nei prossimi giorni, però. Intanto sarà sul
luogo dove conquistò il 90% dei favori popolari, 10 anni fa,
brandendo quel megafono passatogli dal pompiere. Sarà a
fianco di Giuliani, altro eroe dell’11 settembre, e di chi è
venuto dopo, Obama e Bloomberg. In Tv, non poteva che
essere lui ad aprire la serie delle interviste di
commemorazione ospitate dal canale Tv del National
Geographic. Usa la dignità del riserbo che ha mantenuto
rigidamente da quando è un ex, ma chi lo ha apprezzato, e
anche chi lo odia ancora oggi, sabenissimoche luiaveva
visto giusto, e che è lui che ha salvato chissà quante vite
umane dopo l’11 settembre 2001.
ESPRESSO
i commenti all'attentato delle Torri Gemelli usciti dieci anni fa sull'Espresso:
Che cos'è il fondamentalismo
In ogni forma di integrismo vi è una dose di intolleranza. Ma negli integrismi
teocratici... di Umberto Eco
(18 ottobre 2001) In queste settimane si parla molto del fondamentalismo musulmano. Tanto da dimenticare che esiste
anche un fondamentalismo cristiano, specie in America. Ma, si dirà, i fondamentalisti cristiani fanno spettacolo nelle
televisioni domenicali mentre i fondamentalisti musulmani fanno crollare le due torri, e quindi è di loro che ci preoccupiamo.
Tuttavia, fanno quello che fanno in quanto fondamentalisti? O perché sono integristi? O perché sono terroristi? E, così come
ci sono musulmani non arabi e arabi non musulmani, ci sono fondamentalisti che non sono terroristi? O che non sono
integristi?
Di solito si considerano fondamentalismo e integrismo come concetti strettamente legati, e come due forme d'intolleranza.
Ciò che ci spinge a pensare che tutti i fondamentalismi siano integristi e dunque intolleranti, e dunque terroristi. Ma anche
se ciò fosse vero non ne deriverebbe che tutti gli intolleranti siano fondamentalisti e integristi, né che tutti i terroristi siano
fondamentalisti (non lo erano le Brigate rosse e non lo sono i terroristi baschi).
In termini storici il fondamentalismo è legato all'interpretazione di un Libro Sacro. Il fondamentalismo protestante degli Stati
Uniti del XIX secolo (che sopravvive ancora oggi) è caratterizzato dalla decisione d'interpretare letteralmente le Scritture,
specie per quanto riguarda quelle nozioni di cosmologia, da cui il rifiuto di ogni forma di educazione che tenti di minare la
fiducia nel testo biblico, come accade con il darwinismo. Del pari legato alla lettera del libro sacro è il fondamentalismo
musulmano.
Il fondamentalismo è necessariamente intollerante? Si può immaginare una setta fondamentalista che assume che i propri
eletti abbiano il privilegio della retta interpretazione del libro sacro, senza peraltro sostenere alcuna forma di proselitismo e
voler pertanto obbligare gli altri a condividere quelle credenze, o battersi per realizzare una società politica che si basi su di
esse. Si intende invece con integrismo una posizione religiosa e politica per la quale i propri principi religiosi debbono
diventare al tempo stesso modello di vita politica e fonte delle leggi dello Stato.
Se il fondamentalismo è in linea di principio conservatore, ci sono degli integrismi che si vogliono progressisti e rivoluzionari.
Ci sono movimenti cattolici integristi che non sono fondamentalisti, che si battono per una società totalmente ispirata ai
principi religiosi senza peraltro imporre una interpretazione letterale delle Scritture, e magari pronti ad accettare una teologia
alla Teilhard de Chardin. Ci sono però forme estreme di integrismo che diventano regime teocratico, e magari si innestano
sul fondamentalismo.
Tale sembra essere il regime dei talebani con le sue scuole coraniche. In ogni forma di integrismo vi è una certa dose di
intolleranza per chi non condivide le proprie idee, ma questa dose raggiunge punte massime nei fondamentalismi e
integrismi teocratici. Un regime teocratico è fatalmente totalitario, ma non tutti i regimi totalitari sono teocratici (se non nel
senso che sostituiscono a una religione una filosofia dominante, come il nazismo o il comunismo sovietico).
E il razzismo? Parrà curioso, ma gran parte dell'integralismo islamico, benché antioccidentale e antisemita, non si può dire
razzista nel senso del nazismo, perché odia una sola razza (gli ebrei) o uno stato che non rappresenta una razza (gli Usa),
ma non si riconosce in una razza eletta, bensì accetta come eletti gli adepti della stessa religione, anche se di razza
diversa. Il razzismo nazista era certamente totalitario, ma non c'era nulla di fondamentalistico nella dottrina della razza
(esso sostituiva al libro sacro la pseudo-scienza ariana).
E l'intolleranza? Si riduce a queste differenze e parentele tra fondamentalismo, integrismo, razzismo, teocrazia e
totalitarismo? Ci sono state forme d'intolleranza non razziste (come la persecuzione degli eretici o l'intolleranza delle
dittature contro i loro oppositori), ci sono forme di razzismo non intollerante («non ho nulla contro i neri, se lavorano e
stanno al loro posto possono stare da noi, però non vorrei che mia figlia sposasse uno di loro»), e ci sono forme di
intolleranza e razzismo diffuso anche tra persone che si giudicherebbero non teocratiche, non fondamentaliste, non
integriste - e ne abbiamo la prova in questi giorni.
Fondamentalismo, integrismo, razzismo pseudo-scientifico sono posizioni teoriche che presuppongono una Dottrina.
L'intolleranza e il razzismo popolare si pongono prima di ogni dottrina. Hanno radici biologiche, si manifestano tra gli animali
come territorialità, si fondano su reazioni emotive (non sopportiamo coloro che sono diversi da noi).
Si potrà dire che con queste poche note non ho contribuito a chiarire le idee, bensì a confonderle. Ma non sono io che
confondo le idee, è che ci accade di discutere su idee confuse, ed è meglio capire che sono così, per ragionarci meglio
sopra.
ESPRESSO
i commenti all'attentato delle Torri Gemelli usciti dieci anni fa sull'Espresso:
25 agosto 2011
Quelli che "capiscono" Bin Laden
di Umberto Eco L'unico modo di non fare il suo gioco è rifiutarsi alle
crociate in bianco e nero e coltivare la capacità di fare distinzioni
(15 novembre 2001) Veramente viviamo in tempi oscuri. E non solo per le cose tragiche che stanno
accadendo, ma anche perché, per capire che cosa accade, occorrerebbe essere molto sottili, e invece
questi non paiono tempi di sottigliezze. Intorno a noi si procede a sciabolate.
Bin Laden nel suo ultimo messaggio rinuncia persino alla distinzione da cui era partito (un occidente
cattivo fatto di americani e israeliani, e gli altri, che per il momento non nominava) ed è passato a
parlare di scontro contro i "cristiani" in genere (che ai suoi occhi comprendono evidentemente anche gli
ebrei, i laici, gli ex materialisti sovietici e forse persino i cinesi). Ma, almeno a parole, non va meglio a
casa nostra. Se ti accade di dire che Bin Laden è un briccone, ti rispondono che allora vuoi ammazzare
i bambini di Kabul, e se auspichi che a Kabul non muoiano bambini ti definiscono un sostenitore di Bin
Laden. Eppure l'unico modo di non fare il suo gioco è rifiutarsi alle crociate in bianco e nero coltivare
quella profonda saggezza che la nostra cultura ci ha trasmesso, la capacità di fare distinzioni.
Alcune settimane fa è apparso un sondaggio secondo il quale pareva che una grande maggioranza
della sinistra "comprendesse" le ragioni di Bin Laden. Apriti cielo. Dunque chi aveva risposto così
approvava la distruzione delle due torri? Non credo. Penso piuttosto che, comunque fosse stata posta
la domanda, in momenti come questi la gente non riesce a distinguere bene, per esempio, tra spiegare,
capire, giustificare e condividere.
La ragazza Erika è accusata di aver accoltellato la madre e il fratellino. Si può spiegare questo evento?
Certo, e dovrebbero farlo gli psicologi e gli psichiatri. Si può capire Erika? Se mi spiegano che era in
preda a un raptus di follia, la posso capire, perché con la follia non si ragiona. Si può giustificare? Certo
no, tanto è vero che occorre che un tribunale in qualsiasi modo condanni il suo gesto e la metta nelle
condizioni di non nuocere. Si può condividere quello che ha fatto, nel senso che lo faremmo anche noi?
Spero proprio di no, se non siamo di quei dissennati che le mandano messaggi di solidarietà.
E' fresca una polemica sulla comprensione di coloro che hanno aderito alla repubblica di Salò. Si può
spiegare storicamente perché alcuni hanno fatto quella scelta? Certo, ed è stato fatto. Si può capire
perché molti l'hanno fatta? Si può capire benissimo e capire non solo chi l'ha fatta in buona fede ma
anche chi l'ha fatta per disperazione, o per qualche interesse. Si può giustificare, storicamente, quella
scelta? No, almeno dal punto di vista dei valori del mondo democratico. Si capisce la persona, ma non
si giustifica la scelta. Si può condividere? Io nel 1943 avevo solo undici anni e mi chiedo sovente che
cosa avrei fatto se ne avessi avuto venti, ma almeno col senno di poi spero che non l'avrei condivisa.
Si può spiegare la strage della notte di San Bartolomeo, col massacro fatto dai cattolici nei confronti dei
protestanti? Certamente, ci sono libri e libri che spiegano perché quel fatto è accaduto. Si possono
capire le ragioni di chi lo ha compiuto, magari ritenendo di guadagnarsi il paradiso? Studiando la
psicologia di quella gente di cinque secoli fa, il clima sanguinoso delle guerre di religione, e tante altre
cose, si può. Si può giustificare quel massacro? Dal nostro punto di vista di uomini moderni ovviamente
no, e tanto meno lo si può condividere, nel senso che ogni persona di senno oggi riterrebbe delittuoso
fare altrettanto.
Sembra tutto così semplice. Si può spiegare l'azione di Bin Laden, in parte come l'ha spiegata lui nel
suo primo messaggio, in termini di frustrazione del mondo musulmano dopo la caduta dell'impero
ottomano, e in parte tenendo conto dei suoi interessi politici ed economici (si spiega l'azione di Bin
Laden col fatto che vuole mettere le mani sul petrolio saudita). Si possono capire i suoi seguaci? Certo,
tenendo conto dell'educazione che hanno ricevuto, della frustrazione di cui si diceva, e di tante altre
ragioni. Si possono giustificare? Evidentemente no, infatti li si condanna e si auspica che Bin Laden
venga messo nelle condizioni di non nuocere.
ESPRESSO
i commenti all'attentato delle Torri Gemelli usciti dieci anni fa sull'Espresso:
La loro teocrazia, la nostra libertà
di Eugenio Scalfari Autonomia della società civile rispetto al
magistero ecclesiastico. È la soluzione democratico-liberale con cui deve
rispondere l'Occidente
(27 settembre 2001) La casa editrice Adelphi, per tanti aspetti benemerita, pubblica una raccolta di
saggi di Isaiah Berlin con il titolo "Le radici del Romanticismo" che si aggiunge agli altri già editi
dello stesso autore e segue a circa un anno di distanza il volume dal titolo "Controcorrente".
Segnalo questa nuova uscita che rende chiaro un tratto essenziale della storia delle idee e della
posizione di Berlin rispetto all'Illuminismo e alla civiltà dei Lumi che dal pensiero dei "philosophes"
prese le mosse.
La pubblicazione di "Controcorrente" fu l'occasione di un ampio dibattito che si svolse
principalmente su "Repubblica" ma non soltanto. Toccò proprio a me di darvi inizio; in esso
intervenne il meglio della cultura filosofica e storica italiana; l'editore Laterza l'ha raccolto in un
volume che uscirà nel prossimo mese di ottobre. Lo spunto iniziale ebbe come approccio la tesi di
Berlin sui danni provocati dall'Illuminismo nella cultura europea e perfino nella storia politica del
continente; danni gravi secondo Berlin, anzi gravissimi, emersi soprattutto nel Novecento, le cui
aberrazioni vennero fatte risalire almeno in parte alla irragionevole fede nella Ragione che i
"philosophes" avrebbero mitizzato e addirittura divinizzato sprigionando da quella perniciosa utopia
i mostri del nichilismo e di quanto ne derivò.
Nel corso della discussione però alcuni interventi contestarono che Berlin fosse anti-illuminista e
cercarono invece di dimostrare che il suo pensiero si era sempre mosso nell'ambito tracciato dai
"philosophes", dei quali aveva, sì, segnalato errori, contraddizioni e limiti riconoscendo tuttavia il
loro contributo essenziale allo sviluppo della cultura moderna.
Dicevo che i saggi sul Romanticismo ora disponibili nella traduzione italiana, fanno definitivamente
chiarezza sulla posizione di Berlin che appare, con incontestabile evidenza, nettamente schierata
contro la civiltà dei Lumi cui si riconosce il solo merito oggettivo d'aver provocato la nascita del
movimento romantico, vera matrice - essa sì - di quanto di positivo si può ravvisare nella modernità
occidentale (il negativo "c'est la faute à Voltaire et c'est la faute à Rousseau").
Non entro qui nel merito del libro di Berlin, mi riprometto di farlo in altra occasione. Mi preme invece
cogliere un aspetto della civiltà dei Lumi, del resto ben noto al pensiero laico ma proprio in questi
giorni colto anche dalle correnti più aggiornate e aperte del pensiero cattolico.
Subito dopo la tragica giornata dell'11 settembre scorso e la dichiarazione di guerra al terrorismo da
parte dell'America e di tutto l'Occidente, si è molto discusso dell'Islam e delle differenze non solo
teologiche ma culturali rispetto alla civiltà cristiano-occidentale. E' stato sottolineato con ragione che
le società islamiche si sono formate sotto il segno della teocrazia, cioè dell'identificazione religiosa
della società civile. Non così il cristianesimo che, per una molteplicità di cause che non è questa la
sede per esaminare, è nato in presenza di poteri e articolazioni sociali e culturali non
necessariamente religiosi.
Questa dialettica permanente tra spirituale e temporale ha avuto uno svolgimento molto complesso,
ha visto in periodi diversi alternarsi la supremazia di un potere sull'altro e infine si è assestata in un
equilibrio che ha dato il tono alla cultura moderna e che può riassumersi nella forma di "libera
Chiesa in libero Stato" in cui si configura uno dei valori fondanti della civiltà occidentale.
Questo valore, sul quale si basano i regimi democratico-liberali, deriva direttamente dall'autonomia
della ricerca scientifica, dall'autonomia della morale e dall'autonomia della società civile rispetto al
magistero ecclesiastico: principi che furono acquisiti proprio attraverso l'Illuminismo, la fine dell'
"ancien régime" e la nascita della cultura moderna.
Ogni volta che quei principi di autonomia si indeboliscono le nostre società occidentali entrano in
crisi. Ricordiamocelo affinché questa esperienza ci serva di guida nel nostro pensare e agire
quotidiano.
ESPRESSO
i commenti all'attentato delle Torri Gemelli usciti dieci anni fa sull'Espresso:
Il "troppo" che ci governa
di Giorgio Bocca La strage di Manhattan ha fatto scoprire
all'uomo contemporaneo che l'eccesso di tutto (di abitanti, di auto, di
tecniche, di uffici, di linguaggi...) si offre indifendibile alle offese del
Maligno. E ci rendono più fragili
(18 ottobre 2001) Su migliaia di giornali e di televisioni l'uomo contemporaneo si affanna a
cercare le spiegazioni della tragica confusione in cui gli tocca campare o tentare di farlo. Eppure la
ragione è chiara, riassumibile in una parola: troppo.
La strage di Manhattan non può distinguersi dal troppo delle città verticali, nelle due torri sono
andate distrutte le sedi di quattrocentotrenta società, per pagare i danni le assicurazioni dovranno
sborsare un mare di miliardi, la Cantor Fitzgerald ci aveva mille impiegati, la banca di investimenti
Kefe e Bruyette ha perso nel crollo centocinquanta bancari, l'intera aviazione civile è in crisi, alla
già solidissima Swissair non è servito trasferire la direzione commerciale nell'India dei
superinformatici, ha dovuto sospendere i voli e vendersi alle banche.
L'uomo contemporaneo sta scoprendo che il troppo di tutto, di abitanti, di auto, di tecniche, di
uffici, di linguaggi, di stati si paralizza da sé, si offre indifendibile alle offese del Maligno. Il troppo
delle nazioni "indipendenti" le centinaia di bandiere, di costituzioni, di governi fanno più fragile la
umana società.
L'Onu è più debole della già debolissima società delle Nazioni. Chi si azzarda a mettere le mani in
questo troppo di tutto provoca disastri globali, l'Islam del Saladino è diventato una comunione
religiosa ingovernabile, spesso incomunicabile, di un miliardo e trecento milioni di fedeli. Se vai a
cercare un terrorista islamico nell'Afghanistan fai in qualche modo una chiamata di correo dei
troppi terrorismi del mondo, il ceceno, l'irlandese, il basco, l'ugandese, l'iraniano. Con il troppo
legale mescolato con il troppo criminale e nessun confine credibile fra i due: un mondo di sfere
concentriche e inseparabili di tanti, troppi fanatismi, di tanti, troppi interessi, di tante, troppe
ambiguità.
Come pensare che gli Stati arabi, le loro classi dirigenti, le loro polizie, i loro servizi segreti non
abbiano in qualche modo protetto, tollerato il troppo di un terrorismo che ha migliaia di adepti e
milioni di simpatizzanti? Mai nella storia il motto estremista e radicale dell'"o con noi o contro di
noi, o di qua o di là" è stato così vanificato dal troppo delle distinzioni. Troppo laicismo dentro il
troppo fideismo, troppi occidentali buoni e pacifici dentro i troppi avidi e violenti, troppi arabi
tolleranti in mezzo ai troppi della guerra santa.
Anche il globalismo, anche le reti informatiche che dovevano collegare i diversi e riunificare il
mondo sono affogati nel troppo di tecniche a disposizione di tutti. Il troppo ha sconfitto la nuova
utopia del globalismo. La tragedia imprevedibile di Manhattan era fra le cose più previste e
prevedibili, ma non scongiurabili, di un mondo in cui il troppo delle rivoluzioni tecnologiche si è
congiunto con il troppo della povertà e della arretratezza.
Tutti i troppi che ci sovrastano sono prevedibili e previsti, ma non scongiurabili: chi non sa che la
urbanizzazione della Cina con lo spostamento di seicento milioni di persone dalle campagne alle
megalopoli costerà decine di milioni di morti? E chi non sa che il troppo delle automobili circolanti
anche da noi renderà l'aria irrespirabile? Eppure chi governa il troppo demografico della Cina e il
troppo della motorizzazione non ce la fa a frenare i crescenti e spesso assurdi desideri delle
masse.
La buonanima di Adolf Hitler pregava Iddio di "perdonargli gli ultimi minuti di guerra", il troppo di
tecnica e di follia con cui sperava di annientare il troppo del nemico. Eppure anche il troppo del
Führer, anche la sua concezione razzista e schiavista del mondo sembra, non diciamo superata,
ma spesso pareggiata da un tempo in cui si ricomincia con i genocidi, le guerre di religione, le
stragi degli innocenti. Anche questo previsto. Il troppo stroppia come dice l'adagio popolare.
ESPRESSO
i commenti all'attentato delle Torri Gemelli usciti dieci anni fa sull'Espresso:
Io, guerriero riluttante
di Giampaolo Pansa Oggi mi sento uno dei tanti che si sentono sperduti
dentro un gioco crudele ed enormemente più grande di loro
(04 ottobre 2001) E' dentro di noi che tutto è cambiato, dall'11 settembre di New York. Qualche sera fa non
riuscivo a prender sonno per una domanda tormentosa: dove potrei comprare una maschera antigas? Poi
mi sono quietato dandomi un compito: devo cambiare le pile della mia torcia elettrica, che manda una luce
debole, inservibile in un'emergenza. L'indomani la mia attenzione si è accesa su una notizia dagli Stati Uniti:
pare che lì siano in vendita candele capaci di durare 150 ore. A quel punto, ho scoperto di vivere in uno
stato d'animo mai provato: ridicolo e orribile, gonfio di ansia impaurita per il futuro e d'impotenza per il
presente.
Siamo in guerra oppure no? La memoria non ti aiuta a scovare una risposta. Ho visto la seconda guerra
mondiale da bambino e in una città del nord, sino all'ultimo istante. Ma proprio perché avevo dieci anni non
ho ricordi orrendi. Pippo l'Aviatore, l'aereo solitario che ronzava come un calabrone notturno. Le bombe
alleate sui ponti del Po. Qualche morto nel quartiere lungo il fiume. I partigiani di Tom condotti in catene alla
fucilazione. I repubblichini fatti sfilare nelle gabbie di legno.
Da adulto ne ho scritto più volte, come se raccontassi un film, non una storia vera. E se lo confronto con
l'angoscia di oggi, quel tempo (so di dire una bestemmia) mi appare quasi felice.
Poi ho vissuto da cronista i diciannove anni del terrorismo di casa nostra. Dal 1969 di piazza Fontana al
1988 dell'assassinio di Roberto Ruffilli, senatore dicì, uno studioso, un uomo di pace. In quel tempo ho
avuto paura di essere anch'io gambizzato, ucciso, sequestrato. L'ho schivata per un pelo. Ma anche allora
non mi sono mai trovato nel marasma di oggi. Avevo delle certezze. La prima è che avremmo vinto noi, gli
italiani tranquilli, contro i killer rossi e neri. La seconda che bisognava respingere la linea suicida di chi
gridava: né con lo Stato né con le Br. La terza era che, per farcela, occorreva essere duri nella risposta. E
difatti il terrorismo cominciò a perdere quando s'iniziò l'epoca del generale Dalla Chiesa, delle irruzioni nei
covi, delle carceri speciali, dei pentiti.
Oggi sono uno dei tanti che si sentono sperduti dentro un gioco crudele ed enormemente più grande di
loro. Siamo costretti a concentrare lo sguardo su una scena in gran parte buia. Dove s'intravvedono
soltanto alcuni fantasmi: Bush, Bin Laden, le cellule di terroristi islamici acquattate dovunque nel mondo, le
folle che vogliono la guerra santa contro i nuovi crociati e gli ebrei. Tutti spettri che, in un'istante, ci fanno
sentire inezie svaporate le domande di ieri. Come sarà la finanziaria di Berlusconi? E il conflitto d'interessi?
E il congresso dei Ds, chi lo vincerà? Avremo un autunno caldo o no?
Ma vivere nell'ansia di un terrore sconosciuto ha anche un altro effetto. Guardo in tivù i big della politica
italiana e mi accorgo che tutti, anche quelli che sento più vicini, sembrano maschere del passato. Hanno
facce, voci, grinte, slogan stantii, inadeguati, al di sotto del caos in agguato. Mi domando: in chi posso
riconoscermi? A chi posso domandare qualche briciola di fiducia e di speranza?
I cattolici hanno il Papa. I credenti hanno il loro Dio, che poi non è così giusto, visti gli orrori del mondo. E
se ha permesso che, nella sola New York, in una manciata di minuti, undicimila bambini si scoprissero
orfani. Io chi ho?
I pacifisti credono nella pace. Ma pacifisti lo siamo tutti, sia pure in forme diverse. Lo sono anch'io. Però ho
una domanda per i pacifisti integrali, che sempre di più vedremo in piazza. La domanda, in realtà, è
un'ipotesi. Provo a descriverla così: c'è l'attacco dell'11 settembre, l'America decide di non reagire, di
rivolgersi all'Onu per chiedere mozioni, indagini, tribunali internazionali... Che cosa fanno gli altri, quelli che
hanno mandato gli aerei contro le Torri Gemelle. Si fermano? Si accontentano della resa dell'Occidente che
comincia a pentirsi della propria potenza, della ricchezza, delle arroganze verso la metà del mondo, quella
povera e che muore di fame? Oppure, questi "altri" vanno avanti, per assestare nuovi colpi devastanti, da
guerra chimica, batteriologica, nucleare?