Gilles Deleuze e il Perí Physeos di Louis Wolfson

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Gilles Deleuze e il Perí Physeos di Louis Wolfson
Kasparhauser 2 - Louis Wolfson 1 - Metodi del delirio
ISSN 2282-1031
Gilles Deleuze e il Perí Physeos
di Louis Wolfson
di Marco Baldino
Les moralistes chrétiens cherchaient les traces de la chair qui
s‟étaient logées dans les replis de l‟âme.
Deleuze et Guattari, pour leur part, guettent les traces les plus
infimes du fascisme dans le corps.
M. Foucault
Nella Prefazione al libro di Louis Wolfson, Le
schizo et les langues (Gallimard, Paris, 1970), Gilles
Deleuze rileva quanto segue: Wolfson è egli stesso
schizofrenico. Tema del libro è il „procedimento‟
messo in atto da Wolfson per governare la propria
esperienza o, per essere del tutto chiari, la propria
follia.
Deleuze critica la psicanalisi, ma non si tratta di
una critica di prammatica. La psicanalisi — egli dice
— ha un solo torto, quello di ricondurre le avventure
della psicosi al circolo familiare, all‟eterno ritornello
papà-mamma, cioè alla questione edipica. In realtà
lo schizofrenico, in quanto tale, pensa e agisce non
all‟interno di categorie “familiari”, ma all‟interno di
categorie mondiali o addirittura cosmiche. Secondo
Deleuze, il giovane Wolfson potrebbe per esempio
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accettare tranquillamente i suoi padre-e-madre così
come sono, modificando alcune delle sue
conclusioni spregiative nei loro confronti e magari
ritornare alla lingua materna che egli, con
l‟invenzione del procedimento, vorrebbe in verità
uccidere. Quello che la psicanalisi non vede è il fatto
che Wolfson è malato non nel suo “padre-e-madre”,
ma del mondo.
Ora, tutta la questione del “procedimento”
sembra, a prima vista, girare proprio intorno alla
figura della madre e del padre, alla resistenza nei
confronti di tutto ciò che è metaforicamente
riconducibile alla madre: la lingua madre, il cibo, la
malattia e all‟esaltazione di tutto ciò che rinvia
metaforicamente al padre: il sapere, le catene di
atomi, le lingue straniere... È questo che la
psicanalisi insegna a vedere, è con queste categorie
che insegna ad affrontare la psicosi. Ma non
funziona. Ciò che lo studente di lingue schizofrenico
chiama “madre” è in realtà un‟organizzazione di
parole che gli è stata messa nelle orecchie:
1. «non è la mia lingua ad essere materna: è la
madre che è una lingua»;
2. «non è il mio organismo che deriva dalla
madre: è la madre che è una collezione di
organi, la collezione dei miei organi».
Ciò che Wolfson chiama „Madre‟ è in realtà la
„Vita‟ e ciò che chiama „Padre‟ è in realtà l‟estraneità,
ossia tutte le parole che non conosce, tutti gli atomi
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che continuano a entrare e uscire dal corpo: «non è
il padre che parla le lingue straniere e conosce gli
atomi, sono le lingue straniere e le combinazioni
atomiche a essere mio padre»; il padre è il popolo
dei suoi atomi e l‟insieme delle sue glossolalie —
insomma, il padre è il sapere.
Tra il sapere e la vita vi è una lotta irriducibile. Il
problema dello studente di lingue schizofrenico non
è quindi un problema legato a questioni familiari
(come liberarsi della madre malata, come
assomigliare al padre assente), ma un problema
metafisico: come giustificare la vita così com‟è, cioè
sofferenza, a volte urlo, sempre «cattiva materia
malata».
In un primo momento Wolfson sembra optare per
la seguente soluzione: la sola giustificazione della vita
è il sapere, il quale è di per sé il Bello e il Vero.
Ma un giorno incontra la vera „rivelazione‟: la vita
è assolutamente ingiustificabile, e allora la vita e il
sapere non si contrappongono più, anzi, non si
distinguono neanche più. Ecco allora il senso del
procedimento: tutte la parole raccontano una storia
di vita e di sapere; questa storia è ciò che c‟è di
impossibile nel linguaggio, il suo fuori. Questa storia
è resa possibile solo da un procedimento che
testimonia la follia.
Il limite del procedimento di Wolfson è però che
esso spinge sì il linguaggio al limite, ma non lo
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oltrepassa. Il problema, secondo Deleuze, è invece
attraversare da vincitore le regioni della „sragione‟,
«affrontare dall‟altro lato del limite [del linguaggio] le
figure di una vita sconosciuta e di un sapere
esoterico».
Secondo Deleuze questa navigazione pericolosa è
riuscita a Roussel, a Brisset, a Artaud, ma non a
Wolfson, anche se Wolfson ha messo a nudo la
trama del procedimento. Il libro di Wolfson — scrive
Deleuze — non è un‟opera scientifica. Un metodo
scientifico implica sempre la determinazione di una
totalità formalmente legittima, mentre è del tutto
evidente che la totalità di riferimento di Wolfson
(l‟insieme indefinito di tutto quanto non è la “lingua
madre”) è una totalità illegittima (mancano del tutto
le regole sintattiche che facciano corrispondere i
sensi a suoni e ordini le trasformazioni dell‟insieme
di partenza). Wolfson vive perciò il proprio pensiero
come il duplice simulacro di un sistema poeticoartistico e di un metodo logico-scientifico.
Riassumendo
Le caratteristiche fondamentali
“procedimento” sono quindi le seguenti:
di
tale
1. ad esso non corrisponde alcun metodo
scientifico - tale procedimento manca infatti
del necessario riferimento ad una totalità
formalmente legittima data;
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2. esso non possiede regole in base alle quali
ordinare le trasformazioni dell‟insieme di
partenza;
3. simula nello stesso tempo l‟andamento di
un
sistema
poetico-artistico
e,
contraddittoriamente, quello di un metodo
logico-scientifico.
Il procedimento di Wolfson è tuttavia un modo
per governare un‟esperienza che si presenta a tutta
prima ingovernabile e quindi, in un certo senso, esso
è proprio una sorta di Perí Physeos, una sorta di
ontologia sorgiva.
Il procedimento di Wolfson non consente di
esplorare le regioni del fuori per tornarne dentro
vittoriosi (Wolfson non è Roussel, Brisset, Artaud),
il suo procedimento è piuttosto la registrazione
strumentale del travaso delle forze del fuori nella
regione del dentro, o anche del venir meno della
stessa frontiera dentro/fuori. Quello di Wolfson non
è quindi un problema di trasgressione, quanto un
problema di implosione.
Questa „implosione‟ produce una sospensione
confusiva del pensiero e del non-pensiero, tanto da
modificare irreversibilmente lo statuto stesso del
filosofico.
Si tratta della desintetizzazione dell‟Occidente: la
„desintetitazzione‟ è ciò che consuma tutte le totalità
legittime e, insieme, i procedimenti eroici di
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esplorazione del fuori: non c‟è più un vero e proprio
fuori, o c‟è sempre meno, e quindi non c‟è più
nemmeno un vero e proprio dentro.
In una società — scrive Deleuze — razionale è il
modo in cui la gente cerca di raggiungere e di
realizzare i propri interessi, ma giù, sotto, troviamo
desideri, investimenti di desiderio che non possono
essere confusi con gli investimenti di interesse, si
tratta di ogni genere di flussi libidinali inconsci che
preparano il delirio di questa società e che in
qualche misura ne fanno parte, ne costituiscono il
principio di rovesciamento1. Per capire a fondo
questo spunto è necessario riferirsi al binomio buco
nero/parte bianca, a cui Deleuze e Guattari sono si
spesso riferiti. Se il buco nero è il bozzolo del
pensiero invorticato intorno a se stesso, al proprio
centro, al proprio asse, diciamo la caratteristica di un
pensiero identitario e arrotolato intorno al sistema
della propria tradizione (edipico o caratterizzato dal
ritornello papà-mamma nel caso di Wolfson),
pensare, nel senso di Deleuze, è invece inventare
una linee di fuga o di abbandono del buco nero,
avventurarsi sulla parete bianca, bianca perché priva
degli specifici riferimenti di quella tradizione (per
esempio il procedimento di Wolfson). Questo
abbandono o fuga è, dice testualmente Deleuze “una
specie di delirio”, laddove „delirare‟ significa
propriamente “uscire dal solco”. Ogni società, si
1
G. Deleuze e F. Guattari, «Capitalismo: un delirio molto
speciale», trad. it. di M. Baldino, “Tellus”, n. 22, gennaio 2000,
pp. 109-110.
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potrebbe dire, ha il suo proprio delirio, anzi lo
coltiva come un baco nel suo intimo. Il fatto che ci
sia esplosione o implosione dipende dalle
caratteristiche della società stessa, come una stella
che, nella sua evoluzione, può divenire una
supernova o un buco nero o una gigante rossa in
base alla sua massa di partenza.
Non c‟è un modo di lottare contro questo o
quello, non c‟è una “razionalità rivoluzionaria”
rinvenibile a priori, ma solo la coltivazione di un
Perí Physeos, di una visione del cosmo. Se questa
finisce per dar luogo a un grande bouleversement,
come nel caso di Roussel, Brisset, Artaud, allora
abbiamo i grandi rivolgimenti spirituali, le rivoluzioni
del pensiero, nascono così le supernovae. Se,
all‟opposto, abbiamo l‟elaborazione di un modo di
stare al mondo che è solo un personale stratagemma
(procedimento) per resistere in questo mondo così
com‟è, come nel caso di Louis Wolfson, allora
questa strana cosmologia, per Deleuze rientra a
pieno titolo nel novero delle esperienze in perdita e,
per quanto il suo profilo sia “molto speciale”, è e
resta follia. Deleuze decreta pertanto la morte di
Louis Wolfson nella forma della gigante rossa: una
stella che muore per rarefazione, ingigantendosi e
raffreddandosi, che inghiotte tutta la materia su cui
riesce ad estendere il proprio „procedimento‟, per
geniale che esso sia.
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