“Volevo trovare l`uccello del paradiso” HANS ULRICH OBRIST

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“Volevo trovare l`uccello del paradiso” HANS ULRICH OBRIST
“Volevo trovare
l’uccello del paradiso”
02 Gennaio 2008
Colloquio
HANS ULRICH OBRIST
MILANO
Il critico e curatore di mostre svizzero Hans Ulrich Obrist ha più volte intervistato Sottsass. In questo articolo ci
racconta le sue ultime riflessioni.
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Per Milano, perdere Ettore Sottsass sarà come per New York è stato perdere Andy Warhol o per Roma perdere
Alighiero Boetti. Milano senza Sottsass non sarà mai più la stessa città. È stato uno dei grandi inventori del
ventesimo secolo. Designer, architetto, artista, fotografo...un protagonista impossibile da codificare in una unica
disciplina.
Ho intervistato Sottsass tre volte. La prima volta per il mio libro Intervista, la seconda, insieme a Stefano Boeri e
agli artisti Fischli e Weiss, per Domus, infine durante una conversazione pubblica per la Fiera di Basilea l’anno
scorso. Queste tre conversazioni sono state tra le esperienze più straordinarie della mia vita: piene di sorprese,
brillanti, esplosive. Conversazioni infinite, come diceva Blanchot. Ettore mi spiegava la differenza tra l’architettura e
le case: in ogni città, diceva, ci sono migliaia di case ma, se siamo fortunati, ci sono appena due o tre pezzi di
architettura. L’architettura non è soltanto esteriore ma è il design di un luogo; «è qualcosa che quando tu ci entri, ti
metti a piangere».
Abbiamo parlato dei suoi allestimenti visionari, realizzati lungo più di cinque decenni, come ad esempio il recente
straordinario allestimento a Monaco per Pigozzi e la sua collezione africana. Oppure delle sue mostre. Ettore diceva
che le esposizioni hanno giocato un ruolo fondamentale nella sua vita.
Ettore Sottsass era sospinto della curiosità per le realtà parallele su cui stava investigando e lavorando: design,
fotografia, testi e progetti architettonici. Mi diceva sempre: «Sono curioso di provare tutto».
Una curiosità che spiega la sua passione per i viaggi. Lo ho spesso ascoltato mentre parlava dei suoi straordinari
viaggi con Barbara Radice attraverso il mondo. Come quando percorsero un fiume nella Nuova Guinea, perché
Ettore era affascinato dalla storia dell’uccello del paradiso e dal mistero di questo luogo dove ancora oggi si puo
trovare una cultura presitorica. Una volta mi raccontò del suo viaggio a Mosca e della sua visita alla tomba di
Majakovski; della lunga ricerca della tomba di Malevic e del magico momento della sua scoperta.
Nelle interviste abbiamo parlato spesso del suo rapporto con la fotografia. «Ero curioso di provare la fotografia.
Sono un fotografo dilettante, non professionista. Faccio queste cose perché amo farle.» Diceva Ettore: «Per me un
viaggio è come una strana scuola dove posso imparare qualcosa, vedere qualcosa, dove le cose mi parlano».
O ancora abbiamo parlato di cosa sia stato Memphis. Ettore mi spiegava che ogni idea forte dura poco tempo. Il
cubismo classico è durato pochi anni perché: «Le idee forti sono forti, scendono sulla terra come un fulmine». E mi
parlava dei colori: «Nei primi anni ho utilizzato dei colori infantili, primitivi che poco a poco sono diventati più
violenti, adesso che sono vecchio».
Nelle interviste abbiamo parlato di Bruno Munari e di Milano, del denaro svizzero, dell’astrazione di Max Bill, della
vita, della società e delle relazioni tra l’individuo e la società. Abbiamo discusso del Rinascimento e della nuova
visone del mondo, della nuova interpretazione della vita. Delle montagne e di Innsbruk e di Giovanni Segantini che
diceva: «Voglio vedere le mie montagne». Abbiamo parlato di ateismo e della metafisica e del dubbio e del cosmo.
Della cibernetica e di Olivetti e dei suoi colossali e primitivi computer. Di Jaques Tati e dell’umanità e della filosofia.
E della cucina. Ma anche dei rituali sacri, del tempo e del cambiamento. E di Italo Calvino e di George Nelson e di
Shiro Kuramata.
Ma abbiamo soprattutto e sempre parlato del disegnare, della sua ossessione per la pratica quotidiana del disegno.
Per Ettore, disegnare era come scoprire; era, come dice John Berger, «misurare attraverso ritmi, masse e
spiazzamenti le distanze e gli angoli. E sentire la pressione delle linee; quello che accade ad un uccello quando
vola attraverso un albero o ad un marinaio quando sente la sua vela».
02 Gennaio 2008
“Abbiamo cambiato
l’immagine
della vita quotidiana”
«L’ultima volta ci siamo visti quest’estate a Filicudi. Un incontro tra vecchi amici; Ettore non stava benissimo ma
continuava a fare disegni, schizzi, progetti. Tante cose fattibili. Si trattava di rincontrarci a Milano ma, dimostrando
ben poca intelligenza, non mi sono premurato di andarlo subito a trovare. Pensavo: "Ettore certo ha 90 anni ma ha
ancora tanto tempo davanti”. Nè mi sembrava elegante fargli fretta». A ricordare con rimpianto l’ultimo appuntamento
mancato con Ettore Sottsass jr è Ernesto Gismondi, presidente di Artemide spa l’imprenditore che nel 1981
scommesse sul geniale architetto finanziando Memphis (Gismondi ne è stato anche il presidente) il movimento che
ha cambiato la faccia del mobile contemporaneo.
Ingegnere, com’è nato il suo rapporto con Sottsass?
«Nel nostro mondo ci si incontra, si beve, si chiacchiera. Ettore, personaggio straordinario, aveva già disegnato per
me Pausania, una lampada bellissima quando mi parlò del gruppo che aveva chiamato Memphis di giovani architetti
e designers che si ritrovavano periodicamente nel suo studio milanese per fare esercizio di progettazione. In quegli
anni le case e gli uffici erano grigi, i mobili rettangolari. Non c’era colore. Sottsass e i suoi amici volevano progettare
cose nuove, inesistenti, contro tutte le regole. Voleva cavalcare la rivoluzione!»
Assemblaggi insoliti di forme e materiali, esplosione di colori, mobili come sculture. Pensavate che avessero un
mercato?
«Ma figuriamoci! Era un esperimento. Siamo partiti con un piccolo gruppo di volenterosi disposto a produrre quelle
novità assolute senza nessuna garanzia. C’era Mario Godani che aveva un negozio in corso Europa d’arredamento,
Renzo Brugola per i mobili in legno, l’Abet print per i laminati plastici. Io ho aderito alla proposta di Ettore con
grandissimo entusiasmo. E così, ci siamo messi a fare vetri, ceramiche, tessuti, tutto ciò che poteva cambiare
l’immagine della vita in quel momento. Poi, accadde il miracolo: lo strepitoso successo, nel settembre 1981,
dell’inaugurazione da Godani della prima mostra Memphis. Duemila persone, il traffico bloccato. Presentammo dei
prototipi pensando che, se non fosse andata bene, tutto sarebbe finito lì. Ed invece visto il successo abbiamo colto
la palla al balzo. Il passo successivo fu organizzare la produzione di materiali così diversi, così unici».
Storia di un miracolo italiano. Da imprenditore di un grande marchio del design secondo lei è un miracolo ripetibile?
«Difficilmente. Prima di tutto la regola nelle nostre aziende è che il designer presenta il suo progetto, ci si confronta,
c’è discussione ma, la scelta finale, spetta a chi produce. Con Sottsass - lui era un vero capo - e il suo gruppo
fantastico di amici s’invertì il rapporto: il produttore faceva quello che Sottsass e i suoi volevano. Fu pura
innovazione e originalità. La libreria Carlton, per esempio, è fatta di pezzi separati, di materiali e colori diversi. Un
oggetto straordinario, costruito come un pezzo unico. Addio Ettore, il mondo oggi è in serie».