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QUADERNI DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLE MARCHE
Luigi Speranzini
Detti
modi di rire
e proverbi
di casa nostra
QUADERNI DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLE MARCHE
Sfogliando le care pagine ingiallite dall’ usura della lettura e del
tempo del libro di Luigi Speranzini “Detti, modi di dire e proverbi di
casa nostra”, una certezza mi ha pervaso: “Questo libro ed il bagaglio
di saggezza che esso racchiude devono essere divulgati”.
In un tempo come il nostro, in cui si corre il grave rischio di
“navigare a vista”, la stella polare di Luigi e della sapienza popolare
di cui si fece portavoce potranno guidarci nella quotidiana e difficile
traversata.
Luigi ha rappresentato la memoria storica della sua città, ha rinsaldato il legame tra passato e presente, riportando alla luce tradizioni,
detti, modi di dire e proverbi laurentini.
Luigi è ricordato ancora oggi, a San Lorenzo in Campo, come “Il
Maestro” per eccellenza, un vero simbolo del paese, del suo dialetto,
della sua cultura.
Nato da una famiglia di coltivatori diretti, si dedicò alacremente
allo studio, conseguendo prima il diploma magistrale e poi la laurea
in Pedagogia all’ Università di Urbino; ma Luigi non cadde mai nell’
errore di reputare la cultura popolare come un sapere di livello inferiore rispetto alla cultura conseguita attraverso il percorso scolastico.
Come lui stesso ha più volte affermato, ha prestato la sua penna
alla gente di campagna tanto semplice ed umile, ma nel contempo
tanto laboriosa e saggia. Le loro espressioni assumono un valore
inestimabile non tanto sotto il profilo lessicale, piuttosto perché
offrono un chiaro spaccato del loro modo di affrontare con serietà,
impegno e spirito di sacrificio la dura realtà quotidiana del tempo.
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In ragione di tutto ciò, abbiamo accolto con entusiasmo la richiesta
di ristampare nella versione originale, con l’ introduzione dell’ indimenticato Dino Tiberi, già Presidente della giunta regionale delle
Marche e cultore anch’ egli della nostra tradizione popolare, il libro
di Luigi Speranzini, onorati di ospitarlo nella collana editoriale “I
quaderni del Consiglio”.
Vittoriano Solazzi
Presidente del Consiglio
Regionale delle Marche
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Introduzione
Leggere “I detti” di Luigi Speranzini è un piacere e per chi lo
conosce di persona è, più ancora, una fortuna. E ciò per l’imporsi
del personaggio, accorto e perspicace come gli antichi capoccia del
Cesano. Lui, maestro di campagna, approdato all’insegnamento con
il seme migliore di una cultura senza fronzoli; quella capace di dare
senso alla storia locale, fuori dalla celebrazione e dal rifiuto, con
il rispetto dei valori che sono segno di continuità nel pensiero, nei
problemi e nella crescita dell’uomo.
Un caro collega, Speranzini, che avevo già seguito in altri scritti
e in particolare nel libro “Una civiltà al tramonto” (AGE 1992),
spaccato di civiltà contadina, fonte preziosa nella messa a punto del
mio “Dono alla memoria”. Un modo di narrare semplice, soprattutto
fedele ai risvolti della tradizione in una terra ricca di significati,
di saggezza e di venature linguistiche. E lo fa quasi assillato dal
timore che la fretta e la superficialità dell’oggi portino a disperdere
il patrimonio su cui ha modellato la sua quarantennale esperienza
didattica e le ragioni stesse del vivere in un angolo di mondo per il
quale non vede eguali.
Più di un secolo fa il mondolfese Ivo Ciavarini Doni, introducendo i suoi detti e proverbi, sosteneva che essi sono “la parola
scritta e viva del popolo, la grammatica, il lessico, lo stile. Grande
e animoso - diceva - è lo studio che va facendosi di questi; grande
e infecondo in alcuni filologi manuali, ricco e fecondo in altri che
dalle indagini comparative traggono certe ed utili notizie di storia,
come dai fossili il geologo”.
Speranzini sembra aver raccolto, entusiasta, il messaggio del
suo illustre ma dimenticato vicino di casa ricostruendo, paziente, la
trama di una storia nella quale nulla sfugge delle antiche genti del
Cesano: la moralità, la prudenza, il lavoro, la famiglia, l’arguzia, i
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vizi, le abitudini, l’egoismo e quant’altro poteva, allora, essere “guida
o remora nel vivere”, precisa ancora il Ciavarini.
È così che i suoi detti finiscono sotto gli occhi del lettore, non
per lo stimolo a curiosare, quanto per l’intento di approfondire le
straordinarie verità raccontate dai nonni.
“A Natale metà pane, a Pasqua metà vino”
“Arivà dopp i fochi”
“Bocca sott ’al crino”
“Buttasse su l’imbraca”
Espressioni genuine che stanno per finire nel dimenticatoio. Un
impatto che sorprende; che è la riprova di come sia difficile penetrare
il senso di queste e di altre sentenze, a volte contorte e misteriose da
sembrare dei rebus. Tanto per dirne un’altra, pensate all’espressione
“’L foco ha preso moje”, comunissima anche nel Montefeltro. Lì per
lì si potrebbe supporre un felice e naturale connubio di affetti. L’intendimento invece mira all’opposto, sebbene con una buona dose di
scherzosa ironia. A dimostrare cioè che il fuoco che si spegne segue,
di fatto, la sorte dell’uomo che si ammoglia. Ma capita anche di
scoprire interpretazioni diverse da vallata a vallata, pur rimanendo
il proverbio una sentenza su misura per tutti. Nel Cesano, stando a
Speranzini, “l’ha strollgato” equivale a dire che l’astrologo (l’indovino) ha plagiato il proprio interlocutore portandolo ad assecondare
tutto ciò che vuole. Nell’urbinate invece “l’ha strolighet” si riferisce,
per lo più, all’uomo conquistato o “cotto” da una donna, a tal punto
da mutare d’improvviso vita e uso della ragione.
L’autore, oltre a riproporci queste sentenze nel colorito vernacolo
della vallata, le lega fedelmente al passato e le presenta chiamando
personaggi, vicende paesane. Insomma, le espressioni più varie e
significative del vivere, nobile ma gramo, della società agricola del
tempo.
Un lavoro encomiabile, per il quale non c’è da aspettarsi davvero
il grazie di una certa cultura maggiore, o presunta tale, che raramente
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ha trovato, almeno nella nostra provincia, il gusto di risalire alle
origini della vita rurale, lo stimolo alla ricerca e alla memoria storica
sì da lasciare, sul piano letterario, un qualche frutto apprezzabile.
Se una pretesa c’è in pagine come queste, essa sta nel dare senso
ai valori che il passato ci tramanda; di cogliere in essi riflessioni e
riferimenti e il nesso stesso di una continuità della quale abbiamo
pensato di fare a meno, ignari di quanto essa pesi invece nell’inquietudine e nel vuoto morale delle nuove generazioni.
Diciamo infine che da uomo di scuola, appassionato ed attento,
Luigi Speranzini ci offre una stimolante occasione per guardare
indietro e far vivere i ricordi, gli stessi che egli sembra aver sottratto
da un vecchio baule dimenticato in soffitta.
Auguriamoci che perseveri su questa strada, memore del detto
“C’ arvedemme a paja nova!”
Dino Tiberi
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Prefazione
Sono trascorsi più di dieci anni da quel Natale ‘84 quando è stato
pubblicato in sordina quel mio quadernetto sui “Detti, modi di dire e
proverbi di casa nostra”, pubblicato dalla Pro-Loco di S. Lorenzo in
Campo. L’idea di questi detti era nata per caso, mentre stavo guidando
i miei alunni di quinta elementare in una ricerca sulla civiltà contadina
nel nostro territorio. Mi resi conto che molti detti e proverbi se non
fossero stati fissati sulla carta, nel volgere di pochi decenni sarebbero
scomparsi definitivamente dal momento che alcuni di essi già allora
restavano solo nella memoria dei vecchi. Scrissi quel quadernetto
in pochissimo tempo e, una volta stampato, mi resi conto di averne
tralasciati tanti, anzi troppi.
Qualche mese dopo la pubblicazione del quadernetto il direttore del
periodico mensile “La nostra valle” ha messo a mia disposizione una
pagina del suo periodico. E così ogni mese ho riportato e commentato detti e proverbi. Dove li prendevo? Portavo sempre con me un
foglietto di carta ed una penna e quando, in piazza, all’osteria o in
altro luogo veniva fuori un detto o un proverbio non ancora preso
in considerazione me lo annotavo. Nel fare questo lavoro ho sempre
cercato di tenere nella massima considerazione quei detti,, modi di
dire e proverbi tipici delle nostre campagne. Alcuni sono “nostri”,
altri sono simili ai nostri, altri ancora sono uguali ai nostri anche se
cambia la forma.
All’inizio citavo la ricerca sulla civiltà contadina; quella ricerca
ha dato l’avvio ad un lavoro conclusosi nel ‘92 con la pubblicazione
di “Una civiltà al tramonto” (AGE - Urbino ‘92).
Adesso grazie al contributo della Banca di Credito Cooperativo di
Pergola è la volta di questo volume che contiene sia i detti, modi di
dire e proverbi pubblicati dieci anni fa sia quelli pubblicati mensilmente su “La nostra valle” dal giugno ’85 ad oggi.
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Nel fare questo lavoro mi sono sforzato di trasmettere lo spirito
ed il modo di vedere e di pensare di quella gente umile, semplice,
laboriosa e previdente qual è sempre stata la gente di campagna.
I nostri vecchi hanno coniato detti e proverbi che io conosco fin
da quando ero bambino, io ho messo a disposizione di quel mondo
pressoché dimenticato solo la mia penna. Certi valori con il tempo
si perdono ed occorre recuperarli prima che sia troppo tardi. Nel
nostro caso sono i valori del dialetto che vanno recuperati. E vanno
recuperati non tanto per il loro valore linguistico quanto per quel
loro modo di affrontare le fatiche e le privazioni di ogni giorno.
Forse dovremo riflettere su quell’espressione di Petrolini, anche se
può sembrare un paradosso: “Tornate all’antico, faremo progresso!”
Luigi Speranzini
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IL DIALETTO DELLA VALLATA DEL CESANO
Modificazione delle parole
- Rispetto alla lingua italiana c’è la scomparsa del dittongo uo
trasformato in o. Così ad esempio suono e fuori diventano “sono”
e “fora”.
- Spesso scompaiono le doppie. Così è ad esempio per le parole
carriola e laggiù che diventano “cariòla” e “lagiù”. A volte succede
l’inverso: così ad esempio al posto delle parole libro e invidia abbiamo
“libbro” e “inviddia”.
- Scompare qualche volta una vocale al centro di una parola: così
le parole tutolo e peronospera diventano “tutlo” e “prònòspra”.
- In alcuni casi scompare una sillaba al centro di una parola:
poveretto ed eccolo diventano “pòretto” ed “èllo”.
- Spesso in una parola scompare l’ultima lettera. Ad esempio le
parole con e tutto diventano “co”’ e “tutt”’.
- Scompare la prima sillaba in alcuni verbi. Così abbaiare, attra-’
versare ed accendere diventano: “baia”’, “traversa”’ e “cènde”.
- Si ha il troncamento della sillaba finale in alcune parole. Così
è ad esempio che le parole dove e cosa diventano “do” (o ndo’)”
e “co”’. Il troncamento c’è sempre nei verbi all’infinito presente.
Così i -verbi mangiare, bere e dormire diventano: “magna”’, “be’”
e “durmi”’.
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- A volte la o si trasforma in u. Ad esempio le parole formica e
coltello diventano “furmica” e “curtello”.
- Il digramma gli diventa j. Aglio e veglia diventano “ajo” e “veja”.
A volte il digramma scompare come nelle parole pigliare e figliare
che diventano “pia”’ e “fia”’.
- A volte parole che finiscono in aio si trasformano in - aro. Così
pagliaio e mugnaio si trasformano in “pajaro” e “mulinaro”.
- La lettera m davanti a p e b diventa quasi sempre n.
- Nei comparativi di maggioranza e di minoranza c’è sempre
l’uso pleonastico di “nn è” (non è). Così il proverbio “È meglio
perdere l’amico che la botta” diventa: “È mejo perde l’amico che
nn è la botta”.
- La lettera n da sola, se ha il segno dell’elisione prima (’n) indica
l’articolo indeterminativo un, ma se ha l’elisione dopo (n’) indica
la negazione non.
- Il prefisso ri- dei verbi che indicano un’azione ripetuta, diventa
ar. Così rinnovare, rileggere e risentire diventano “arnova”’, “arlegge”
e “arsenti”’.
- Molte parole del vocabolario della lingua italiana sono del tutto
assenti dal nostro dialetto specie i tanti sinonimi. La nostra è la lingua
che fa uso solo dei termini essenziali, perché è la lingua della gente
comune che va sempre al sodo, senza tante sottigliezze. L’importante
è il contenuto e non la forma. E così spesse volte, per far prima nel
dire, viene tralasciata una o più lettere o una sillaba.
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- Alcune parole sono storpiate, anche se il suono è simile. Così
ad esempio è per le parole sciarpa e storpio che diventano “scialpa”
e “struppio”.
- Vi sono infine alcune parole (a dire il vero poche) che non hanno
niente a che fare con la lingua italiana; sono probabilmente i resti
delle lingue parlate dai barbari che invasero le nostre terre nell’alto
Medio Evo. È il caso delle parole “burchio” e “roccia” che significano stalletta e verga (o piccolo ramo).
La grammatica
Le note che seguono fanno riferimento solo alle principali forme
irregolari, mentre non vengono considerate quelle forme che sono
regolari o quasi.
Articoli
Gli articoli il, un, uno ed una sono: ’1, ’n, ’no, ’na.
Nomi
I nomi degli alberi sono sempre al femminile. Alcuni nomi femminili diventano maschili così la lepre e le dita diventano ’1 lepre e i diti.
In alcuni casi l’aggettivo diventa parte integrante del nome. Così tua
madre, tuo padre e tuo nonno diventano: mammta, babbto e nonnto.
Aggettivi
Possessivi: mio, tuo, suo sono: mia, tua, sua messi di solito dopo
il nome.
Dimostrativi: (manca codesto) questo, quello sono: sto, chel o clo.
Indefiniti: nessuno/molto
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sono: nisciuno, ’n bel po’ de. Così: molti alberi si dice: ’n bel
po’d’ piante.
Cardinali: 1, 8, 11, 12, 13...
sono: sett’, ott’, undce, doddce, treddce...
Pronomi
Personali: tu, egli, lei, noi, voi, essi
sono: te, lu, lia, noia’, voia’, lora.
Verbi
Essere: le voci: io sono, noi siamo, voi siete, essi sono diventano:
io so, noia’ semme, voia’ sete, lora enne.
Le voci: noi eravamo, voi eravate, essi erano
diventano: noia’ eraiamme, voia’ eraiate, lora èrne.
Le voci: io sarei, tu saresti, egli sarebbe, noi saremmo, voi sareste,
essi sarebbero
diventano: io sarìa, te sarisci, lu sarìa, noia’ sarissme, voia’ sarìste,
lora sarìene.
Nella 1a persona plurale della 1a coniugazione la desinenza -iamo
del presente diventa -amme, nella 2a coniugazione diventa -emme
(esempio bevemme), nella 3a coniugazione diventa -imme (esempio
dormimme). Nella 3a persona plurale le desinenze -iano ed -iono
diventano -ne. Così si ha: magnne, bevne, dormne. I verbi vengono
usati in tutti i tempi del modo indicativo, ad eccezione del passato
remoto che di solito viene sostituito dal passato prossimo.
Così invece di mangiai si usa “ho magnato”. Il gerundio è poco
usato e viene sostituito da una locuzione. Così: sta scrivendo diventa
“sta a scrive”, andando diventa “mentre givo”, essendo furbo diventa
“siccome io so birbo”.
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Avverbi
Di tempo: adesso, dopo, subito sono: adè, doppo, subbto.
Di luogo: lì, là/laggiù, sotto, fuori, dentro, dove, in alto, in basso
sono: malì, malà, malagiù, sotta, fori, drento, do’ o ndo’, su alto,
giù basso.
Di quantità: molto
è: n bel po’ o ’na mucchia.
Di affermazione: sì, davvero, certo
sono: sci, per davero, tropp’è.
Di negazione: non, affatto
sono: nn o en, pe’ gnente.
Preposizioni
Semplici: di, in, con
sono: de, nten, co’ (ma spesso si usa “sa”). Articolate: agli, della,
nel, nella, nei, nelle
sono: aj, dla, ntel, ntla, nti, ntle.
Per la lettura (note di fonetica)
- Le vocali e ed o possono avere suono aperto (è ò) come nelle
parole festa, bove oppure suono chiuso (è, o’) come nelle parole
cena, bocca.
Nel testo vengono segnate solo quelle vocali aperte o chiuse che
sono di dubbia interpretazione.
- La c’ ha suono dolce, come nella parola cena.
- La g come pure la e, seguita da h hanno suono duro. Così è in:
raghno (ramarro) e manchne (mancano).
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DETTI, PROVERBI E MODI DI DIRE
A chi mazza cani e gatti van male i suoi fatti
(A chi ammazza cani e gatti, van male i suoi interessi)
Molto prima dell’Impero Egizio le antiche civiltà sviluppatesi
sulle rive del fiume Indo conoscevano il gatto. Gli Egiziani lo veneravano come un dio: famosa è la gatta di Bubasti, rappresentata con
gli orecchini e a volte anche con un anello prezioso al naso.
Tutti questi “idoli viventi” erano, dopo la morte, accuratamente
imbalsamati e la loro mummia, fasciata di bende, veniva deposta in
una delle numerose necropoli che erano meta di pellegrinaggio. In
tutte le grandi religioni antiche i gatti furono simbolo del sole, cioè
della regalità e della forza. Molto spesso i gatti furono rispettati di
più degli uomini; basti pensare agli schiavi.
Anche il cane è stato l’amico dell’uomo fin dagli albori della
civiltà. Sono stati ritrovati resti fossili preistorici di cane nei luoghi
dove era vissuto l’uomo. L’uomo addomesticava il cane per fare la
guardia e per essere aiutato nella caccia.
Dobbiamo quindi concludere che cani e gatti sono stati da sempre
gli amici dell’uomo. Chi non li rispetta era ed è considerato incivile e
crudele più di chi non rispetta le persone; il nostro proverbio rincara
la dose dicendo che a chi ammazza (volontariamente, s’intende!)
cani e gatti, le cose non andranno per il verso giusto.
A chi nn j preme nn j ciacca
(A chi non interessa non sente dolore)
Chi non è direttamente interessato non sente dolore, o meglio, non
sente l’urgenza di fare una certa cosa. Il detto viene usato quando si
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vorrebbe che un certo lavoro o una certa pratica venisse sbrigata al
più presto mentre l’incaricato a svolgerla non sembra intenzionato
a fare presto.
Ade, domatina appena che m’alzo... Ade, doppo...
(Adesso, domattina appena alzato... Adesso, dopo...)
Le espressioni vogliono indicare un adesso... al più presto possibile, ma solo nell’intenzione. In realtà espressioni del genere si usano
per indicare che una certa cosa verrà fatta con sollecitudine, anche se
“adesso” non è proprio... adesso. Insomma l’avverbio sta ad indicare
la volontà di fare subito ma nella realtà bisognerà aspettare un po’.
A denti secchi; a bocca asciutta
I due detti hanno uguale significato, anche se il primo vuol dire
stare senza mangiare mentre il secondo stare senza bere.
In senso figurato si usano per dire che non si è ricevuto niente di
quanto si pensava di ricevere o di quanto effettivamente ci spettava.
A fa’ ’l bene ai somari s riceve i calci
(A fare il bene ai somari si ricevono i calci)
Il detto vuol ricordare che non è sempre consigliabile fare
del bene a certe persone che si mostrano poco intelligenti, perché da
esse invece di ricevere un grazie possiamo essere contraccambiati
con i “calci” (cioè rimproveri o peggio).
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A la Candelora
da l’inverno semo fora;
si ce nengue o si ce piove
ce n’è più d’ quarantanove,
ma se piove e tira ’l vento
ce n’è più d’ cento.
(Alla Candelora dall’inverno siamo fuori;
se alla Candelora nevica o piove
ci sono ancora più di quarantanove giorni,
ma se piove e tira il vento
ce ne sono ancora più di cento)
La Candelora cade il 2 di febbraio e il calendario ci dice che
è la presentazione di Gesù al tempio. Vediamo un po’ di chiarire.
Secondo la legge mosaica ogni primizia del popolo eletto (primogenito, prodotti del campo o bestiame) avrebbe dovuto essere offerta
a Dio come testimonianza che tutto era un suo dono.
Il primogenito, dopo 40 giorni dalla nascita, veniva presentato al
tempio dal sacerdote per essere riscattato con l’offerta di una vittima
(un agnello o un paio di tortore). Con tale sacrificio si effettuava la
purificazione legale anche della mamma del primogenito. La Presentazione in seguito (sec. X nella liturgia gallica) si arricchì del rito
della benedizione delle candele che servivano per la processione.
Da qui il termine Candelora.
Da noi, fino agli anni Cinquanta, c’era l’usanza da parte delle
donne che avevano partorito di portare, dopo 40 giorni dall’evento,
una candela in chiesa per la propria purificazione.
Secondo il nostro proverbio con il giorno della Candelora finisce
l’inverno, o meglio, il freddo. Ma se quel giorno il tempo fa i capricci
(e li fa quasi sempre) allora ci aspettano altri giorni di freddo per un
periodo più o meno lungo. Osservare il tempo il giorno della Candelora serve per prevedere la durata dell’inverno meteorologico. Ma
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i nostri vecchi avevano anche un altro modo per fare le previsioni
del tempo dell’inverno e della restante parte dell’anno e lo facevano
osservando i giorni “contarei” (contarelli). Erano detti così i primi 24
giorni di Gennaio, perché i giorni dall’1 al 12 “contano”, o meglio,
rappresentano i vari mesi da Gennaio a Dicembre e dal 13 al 24
rappresentano gli stessi mesi, ma questa volta tornando indietro da
Dicembre a Gennaio. Così ad esempio per sapere che tempo farà
a Febbraio si devono osservare i giorni 2 e 23. Il tempo che farà in
un certo mese dell’anno dunque potrebbe essere rafforzato da una
riconferma quando si torna indietro da Dicembre a Gennaio, ma
potrebbe essere anche contraddetto; in quest’ultimo caso in quel
mese il tempo sarà “variabile”.
Al d’ ingiù ogni merda corre
A parte la traduzione letterale, il detto sta a significare che le cose
facili le sanno fare tutti.
A l’ Emmaria:
l’donne a casa e j ommne via
(All’Ave Maria:
le donne a casa e gli uomini via)
Questo detto, tipico delle nostre campagne, sta ad indicare che
un tempo all’imbrunire (all’Ave Maria) le donne si ritiravano in
casa mentre gli uomini andavano in paese a fare la chiacchierata o
la partita a carte all’osteria o andavano a sbrigare gli affari di casa.
Come è facilmente comprensibile il detto è chiaramente antifemminista.
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A le pule
(A pule)
Le pule sono le glumelle che racchiudono i chicchi di grano.
L’espressione viene usata per indicare chi al gioco ha perduto tutto,
proprio come la spiga che, avendo perduto ogni chicco, non ha più
altro che... le pule.
Così l’espressione “è armaste a le pule” (è rimasto a pule) sta ad
indicare chi non ha più niente, per aver perduto tutto al gioco.
Almeno n’ c’ tacca l’ inviddia!
(Così non ci attacca l’invidia!)
Una credenza popolare molto radicata vuole che fatture e malocchio - causate dall’invidia di qualche persona che ha l’occhio “tristo”
- siano causa di molte disgrazie, di molti mali e persino della morte
delle persone. Si possono prevenire fatture e malocchio portando
con sé il gobbetto, il cornetto - meglio se con il pelo del tasso -, il
ferro di cavallo, il tredici.
Almeno n t’ mordne i cani
(Almeno non ti mordono i cani)
Il detto viene rivolto a chi ha messo un indumento al rovescio.
Con questa frase si vuoi intendere che la persona che ha indossato
l’indumento al rovescio sembra un essere anormale, quasi una bestia
rara dalla quale anche i cani si tengono alla larga.
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A Natale mtà pane a Pasqua mtà vino
(A Natale metà pane, a Pasqua metà vino)
Per comprendere questo proverbio dobbiamo ritornare indietro nel
tempo quando i nostri agricoltori dovevano fare i conti con le leggi
della sopravvivenza. A quei tempi ogni agricoltore doveva sapere (e
lo sapeva benissimo) che a Natale non doveva aver consumato più
della metà del grano da macinare (pane) ed a Pasqua non doveva
aver bevuto più della metà del vino. Chi non conosceva queste regole
d’oro andava incontro a lunghi periodi di fame o di astinenza dal vino.
Anch’ la ciovetta loda i fioi sua!
(Anche la civetta loda i propri figli!)
Il verso che comunemente emette la civetta è un “cuccù-meo”,
che viene interpretato come un “cocco mio”, e quindi il verso della
civetta sarebbe una lode continua dei suoi figli. Tutti i genitori, chi
più chi meno, lodano i propri figli, ma c’è chi esagera e viene facilmente notato. Così, a chi loda troppo i propri figli, viene ricordato
che “anche la civetta loda continuamente i propri figli”.
Anch’ la miseria vol lo sfogo
(Anche la miseria vuol lo sfogo)
Si dice per giustificare chi, notoriamente povero, conduce un
tenore di vita superiore alle sue possibilità.
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Anch’ la prescia vole ’l tempo
(Anche la fretta richiede del tempo)
Questo proverbio ricorda, secondo l’esperienza dei nostri avi, che
anche chi ha fretta non può fare a meno di quel minimo di tempo
necessario per fare le cose come debbono essere fatte. Noi diciamo
spesso che... il presto e bene non vanno d’accordo.
Anch’ l’pulce han la tosse!
(Anche le pulci hanno la tosse!)
Quando pensiamo alla tosse ci vengono in mente persone o
animali che possono essere affetti da questa malattia, ma non ci passa
neanche per l’anticamera del cervello che la pulce - insetto piccolo
per antonomasia - possa avere la tosse.
Questo modo di dire sta ad indicare che anche un bambino (la
pulce) a volte ha la pretesa di voler fare cose che sono tipiche dei
grandi. L’espressione viene usata per mettere in evidenza che certe
persone del tutto digiune in un certo campo - pulci in fatto di preparazione o di vedute - hanno la pretesa di dire la loro (tossire) alla
pari o al di sopra degli stessi esperti.
Anse’ si qualcuno n’ viene tajelo!
(Anselmo, se qualcuno non viene taglialo!)
Anselmo era il tuttofare nella frazione di Montalfoglio: era falegname, bottaio, arrotino e... barbiere! I suoi arnesi non erano molto
efficienti, ma soprattutto era fuori uso la sua macchinetta per tagliare
i capelli. Un giorno andò da lui “per farsi i capelli” un ometto di
nome Vincenzo (era un mio zio) che era noto per le sue battute spiri25
tose. Anselmo iniziò il taglio dei capelli, ma già fin dall’inizio la
macchinetta cincischiava e tagliava male. Molti dei capelli, più che
tagliati, venivano strappati. Vincenzo, per non dire al suo barbiere
che i capelli glieli strappava invece di tagliarglieli, disse: “Anse’, si
qualcuno n’ viene tajelo!”
A paga’ e muri’ ven sempre in tempo
(A pagare e morire c’è sempre tempo)
Il detto viene usato da certi debitori incalliti che non pensano
proprio a pagare i propri debiti, anzi! Ricordano con compiacenza
la buon’anima di Tumisguilli che ebbe a dire: “I debti vecchi n’ s’
paghne perché enn vecchi; quei nuovi basta fai invecchia’”.
I debitori conoscono a memoria la loro cantilena:
“Lundì non c’ i ho,
Martdì non t’ i dò;
Merculdì è San Clemente,
Giuvdì n’ t’ dò gnente.
Vence Vennerdì a bon’ ora
o Sabto a qualunqu’ ora.
Se per Domennca n’ t’ ho pagato
Lundì arcominciamm da capo”.
(Lunedì non ce li ho, Martedì non te li dò; Mercoledì è San
Clemente, Giovedì non ti dò niente. Vienci Venerdì a buon’ora o
Sabato a qualunque ora. Se per Domenica non ti ho pagato Lunedì
ricominciamo daccapo).
Insomma è proprio vero che certe persone sono convinte che “a
paga’ e muri’, ven sempre in tempo”.
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Aprile: dolce dormire;
Maggio: l’assaggio;
Giugno: l’insummio.
(Aprile: dolce dormire; Maggio: è un assaggio; Giugno: è un sogno)
In primavera il crogiolarsi nel letto è sempre stata una delle cose
più desiderate dall’uomo.
In Aprile anche l’agricoltore dei vecchi tempi poteva permettersi
di indugiare un pochino sotto le coperte, ma nel mese seguente, a
Maggio, i sonni erano rotti dalle preoccupazioni per i lavori impegnativi - si pensi alla fienagione o al “far la foglia” per i bachi da
seta -. Bisognava “alzasse a bonora” (alzarsi presto) ed il sonno in
questo mese era solo un... assaggio.
A Giugno poi era un finimondo: c’era la mietitura - un lavoro da
schiavi che durava 15/20 giorni, dall’alba al calar delle tenebre ma bisognava anche star dietro ai bachi nella fase culminante della
“magnarella” (la furia).
Il sonno a Giugno era proprio... un sogno!
A quaranta e du’ figure
(A quaranta e due figure)
Nel gioco di tressette vince chi per primo arriva a quarantuno. A
chi è arrivato a quaranta e due figure manca solo un terzo di punto
per vincere, cioè manca pochissimo per arrivare alla fine del gioco.
Il detto, usato in senso figurato, può voler indicare che una persona
è arrivata alla fine dei suoi giorni, ma anche che per una certa situazione è facilmente prevedibile quale sarà la fine. Così si dice che è
arrivato a “quaranta e du’ figure” un fuoco che ha finito di ardere e
quindi sta per spegnersi, un albero talmente mal ridotto che sta per
seccarsi, un ubriaco che barcolla e sta per cadere e così via.
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Arcoje su broda e acene
(Raccoglie broda e acini)
Occorre subito precisare che in questo detto il termine “acini” sta
ad indicare i semi dei vari legumi.
Di solito, quando a tavola si porta una zuppa di legumi, si mangiano
i legumi lasciando spesso nel piatto la broda o una parte di essa. Chi
“arcoje su broda e acene”, è una persona che mangia senza tanti
complimenti sia i legumi che la broda. Il detto sta ad indicare chi
non sa distinguere (e poi scegliere) il buono dal meno buono.
Ardaj, Mari’, co’ sta gamba!
(Ridagli, Maria, con questa gamba!)
È un po’ difficile capire quale sia l’origine del detto. Si possono
immaginare delle situazioni nelle quali qualcuno si è espresso con
“Ardaj, Mari’, co’ sta gamba!”, ma il trovare il perché qualcuno si
è espresso così non è per noi la cosa essenziale. Quello che a noi
interessa qui è il significato del detto. Esso viene usato per dire “non
fare sempre la stessa cosa” oppure “non continuare a mettere il dito
sulla piaga”, non insistere sempre sullo stesso argomento.
Il detto viene usato anche nei confronti di chi dice o fa una certa
cosa per la prima volta, ignaro che altri abbiano già detto o fatto
quella stessa cosa.
Arde comm i solfanei
(Arde come gli zolfanelli)
Gli zolfanelli, considerati i fiammiferi dei poveri, erano un tempo
disponibili in ogni casa di campagna. Gli zolfanelli erano steccoline
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di canne stagionate che avevano ad una estremità una capocchia di
zolfo fuso; erano fatti in casa. Avvicinati ad un carboncino di brace
si accendevano come un normale fiammifero e servivano per riaccendere la legna semispenta.
Queste steccoline ardevano con facilità e per questo la combustione degli zolfanelli è diventata proverbiale.
Arfa’ la boccia
(Rifare la boccia)
Il detto si usa quando si rende la pariglia o, come si dice, si
rende “pan per focaccia”. Aria roscia:
o piove o soffia
(Aria rossa:
o piove o soffia)
Il termine “aria” vuoi indicare il cielo in genere, mentre “soffia”
è il soffiare del vento.
Nel contesto il proverbio significa che quando il cielo è arrossato
c’è da aspettarsi o la pioggia o il vento.
Questo proverbio fa a pugni con quell’altro a tutti noto: “Rosso di
sera buon tempo si spera”. Il nostro proverbio parla di “aria rossa”
senza specificare in quale ora del giorno e quindi è pensabile che si
riferisca anche alla sera, ma ad analizzare bene il proverbio “rosso
di sera buon tempo si spera”, c’è quel “si spera” che indica speranza
e niente di più, mentre nel nostro c’è la certezza, anche se poi...
Comunque i proverbi vanno presi per quel che sono, senza
pretendere che siano infallibili; sono solo indicativi e vanno presi
cum grano salis.
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Ariva’ dopp’ i fochi
(Arrivare dopo i fuochi)
Il detto si rifa ai vecchi tempi quando si accendevano i fuochi alla
vigilia dell’8 settembre, festa della Madonna, detta anche “la Madonna
degli 8”. Già fin dai giorni precedenti i ragazzi delle frazioni e dei
vari rioni dei paesi si preoccupavano di radunare una gran quantità
di fascine trasportandole con carretti e persino sulle spalle nei luoghi
prestabiliti. La sera del giorno fissato, dopo cena, si accendevano i
fuochi che duravano fino a tarda notte. Chi arrivava in ritardo aveva
perduto un grande spettacolo, un’occasione irripetibile.
Arrivare dopo i fuochi significava e significa arrivare a cose fatte.
“Arnova’ i pagne”
(Rinnovare i vestiti)
Con il termine “pagne” si intende ogni capo di vestiario. Un
tempo, specie in campagna, quando c’era la miseria vera, la povera
gente portava sempre i soliti vestiti o le solite vesti, tutte toppe e
rammendi. Solo in rari casi riusciva a comperare la stoffa e andare
poi dal sarto o dalla sarta per farsi confezionare un vestito, una gonna,
una camicia od altro.
Per gli indumenti di lana si provvedeva direttamente con lana di
pecora. Erano le donne che, nelle lunghe sere d’inverno, filavano la
lana con la rocca e il fuso e poi facevano le maglie od altro, stando
vicino al focolare o nella stalla al calore animale.
I capi di vestiario nuovo venivano “arnovati” (cioè messi per la
prima volta) in un giorno festivo e questo rinnovo, quando si faceva,
avveniva soprattutto in una delle maggiori feste dell’anno, quali la
Pasqua o il Natale.
Spesso si vedevano alla Messa di mezzogiorno, a Pasqua o a
Natale, persone che ci andavano solo per osservare chi aveva il
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vestito o il cappotto nuovo o per mostrare agli altri un capo nuovo.
“Arnova’ i pagne” era dunque un avvenimento raro, e per questo
il fortunato pagava da bere agli amici per “sbagna’ i pagne”. Questo
vecchio uso è tuttora in vigore.
Arven la paja al balzo
(Ritorna la paglia al balzo)
Nel detto si usa la parte per il tutto. Paglia sta ad indicare la spiga
del grano che prima o poi finisce per essere stretta nella pressa - quella
a mano s’intende - ed essere legata dal balzo (filo di ferro usato per
legare i covoni).
L’espressione indica che prima o poi ci si può rifare nei confronti
di chi ci ha fatto un torto e ci sarà l’occasione d’“arfa’ la boccia”.
A S. Andrea:
o la neve o la bufea
(A S. Andrea:
o la neve o la bufera)
Il giorno di S. Andrea cade il 30 novembre e per quel giorno o
meglio per quei giorni - prima e/o dopo - bisogna mettere sul conto
i primi freddi. È un proverbio tipico delle nostre campagne e sta ad
avvertire gli agricoltori di fare le dovute provviste di farina e di legna
in modo da poter stare in casa tranquilli.
A Santa Barbara:
sta vicino al foco e guardla
(A Santa Barbara stai vicino al fuoco e guardala)
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Santa Barbara è il 4 dicembre e il detto ci ricorda che inizia il
freddo intenso e che bisogna stare attorno al fuoco, magari guardando
l’immagine della Santa.
Aspetta che Maggio venga
Il detto si riferisce a una persona che pur potendo non agisce e
magari perde un’occasione unica. Si può sollecitarla dicendo: “Chi
ha tempo non aspetti tempo”.
A te le cose t’ bocchine prima ntel culo che nn è ntla testa
(A te le cose ti entrano prima nel culo che non nella testa)
Alvaro era un bravo insegnante elementare che ha esercitato la
sua professione per molti anni a Montalfoglio e per due anni anche
insieme a me.
La scuola al tempo dei fatti si trovava fra la torre campanaria e
l’arco di entrata di questo paesetto medioevale. C’erano due aule
spaziose ed uno stanzino ristretto che faceva parte della torre vera
e propria. Appena si entrava nello stanzino e si alzavano gli occhi
si vedeva una grossa pietra, in parte scalzata dal muro e pareva che
dovesse caderti addosso da un momento all’altro.
Gli scolari quando non studiavano proprio, a volte finivano lì
dentro e Checco ci finiva spesso, anche perché invece di stare attento
chiacchierava con il suo compagno di banco.
Il poveraccio cercava di giustificarsi dicendo al maestro che lui si
impegnava - così diceva lui - ma le cose non le ricordava. Un giorno
che Checco chiese la stessa spiegazione per l’ennesima volta, il
maestro Alvaro un po’ spazientico gli disse: “A te le cose t’ bocchne
prima ntel culo che nn è ntla testa”.
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Ave’ i uc(e)letti ntle mane
(Avere gli uccelletti nelle mani)
L’espressione vuol paragonare i morsi del freddo alle bezzicate
degli uccelli. Il detto si usa quando si hanno i primi sintomi di congelamento alle mani.
Ave’ la faccia comme ’l culo
(Avere la faccia come il sedere)
È detto di persona che ha la faccia tosta.
Ave’ ’l bon nome e sta a la strada
(Avere il buon nome e seguire la strada)
E questa la raccomandazione che dovrebbero fare tutti i genitori
ai propri figli: occorre avere una buona reputazione, ma bisogna
meritarsela rigando dritto, seguendo la strada giusta.
Bacia’ ’l culo a la vecchia
(Baciare il sedere alla vecchia)
Il detto è riferito a chi va per la prima volta in una località nella
quale non è mai stato. Stando a questo detto, chi si recava in un centro
mai visitato prima doveva baciare il sedere alla prima vecchia che
incontrava. Il detto sta ad indicare che chi va in una località per la
prima volta deve pagare il noviziato.
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Bada gi’, che t’ho visto!
(Vai pure, che ti ho visto!)
Rafellino era sarto a San Lorenzo in Campo prima della guerra.
Un giorno di autunno inoltrato andò da Spallaccia, un contadino suo
cliente che abitava a San Cristoforo, con l’intenzione di riportare a
casa qualche cosa. Giuanne, il capoccia, offrì da bere a Rafellino,
gli diede una sporta di mele e poi gli disse che il martedì precedente,
giorno di mercato, aveva comperato la stoffa per fare la giacca al
piccolo Andrea. Giuanne, pensando che Rafellino volesse prendere
le misure, chiamò Andrea che con una cesta era quasi arrivato sotto
la grande quercia ad una trentina di metri da casa, per raccogliere le
ghiande. Andrea sentendosi chiamare provò a tornare indietro ma, fatti
pochi passi, sentì la voce del sarto che strillava: “Bada gi’ che t’ho
visto!”, che era come dire: Non c’è bisogno di prenderti le misure.
Il detto si usa oggi ironicamente per indicare chi lavora a braccio,
con conseguenze facilmente immaginabili.
Balla la vecchia
(Balla la vecchia)
Capita a volte, a causa del calore estivo, di vedere all’orizzonte
il vapore che da terra sale verso l’alto e questo vapore ci fa vedere
le cose come attraverso un vetro traslucido e per di più le vediamo
traballare. Quando guardando lontano vediamo le cose offuscate
dalla caligine, allora diciamo che “balla la vecchia”, forse per indicare il modo incerto del traballare apparente delle cose che vengono
paragonate al ballo insicuro di una vecchia.
Ma il detto, più che fare riferimento a questo fenomeno atmosferico causato dal calore, viene usato per far rimarcare che il gran
caldo è in arrivo.
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Balla su ’n soldo
(Balla su un soldo)
Il soldo, in uso fino alla seconda guerra mondiale, era la ventesima
parte della lira e circolava come monetina di rame da 5 centesimi.
Il nostro modo di dire sta ad indicare una persona agile e sveglia,
ma anche chi sa far bene certe cose.
Bastonate e acqua fresca
Era questa un’espressione rivolta ai bambini che, avendo commesso
qualche maracchella, dovevano aspettarsi le botte. “Bastonate e acqua
fresca” significava che le bastonate sarebbero state tali da necessitare
l’acqua fresca per lenire il dolore.
Questa espressione ci ricorda che i genitori di un tempo non
erano tanto teneri con i propri figli, anche se certe punizioni erano
ritenute necessarie.
Becca su le mane
(Becca sulle mani)
A proposito di creduloni a San Lorenzo c’è chi ricorda ancora ciò
che capitò al tempo della prima guerra mondiale a Manone.
Costui era un agricoltore che abitava in una casupola vicino al Rio
Freddo. Era l’ultima casa del territorio di San Lorenzo. Per arrivarci
si percorreva una stradina di terra battuta che a malapena lasciava
passare un biroccio. Tolti i pochi mesi estivi la strada era difficile
percorrerla anche a piedi. Manone conduceva una vita quasi da eremita
e solo raramente - sì e no a Pasqua e Natale - lo si vedeva al paese.
Il poveraccio il giorno della fiera d’Agosto venne a San Lorenzo
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per vendere una manza. Il fattore trovò quasi subito l’acquirente
giusto ed in poco tempo strinse il contratto. Manone si trovava
come spaesato fra quella marea di gente: avrebbe voluto curiosare
per la fiera, ma non vedeva l’ora di tornare a casa; si sentiva fuori
dal suo ambiente, era proprio come un pesce fuor d’acqua. Lasciato
il campo boario, mentre stava attraversando la piazza fu attratto da
una strana merce che si trovava dentro una cassettina posata a terra.
Chiese di cosa si trattasse ed il venditore rispose che erano “capple”
(vongole). Manone si fece coraggio e chiese al venditore a che cosa
servissero. Questi per tutta risposta disse semplicemente che era
roba da mangiare. Manone insoddisfatto della risposta chiese dove
le aveva prese. Il venditore capì di aver a che fare con un ingenuo.
Gliene diede un cartoccio e gli disse: “Eccotene un po’. Una parte la
puoi mangiare cruda ed una parte sarà bene che la pianti. Ricordati
che queste vanno coltivate nelle buche come si fa con i fagioli, ma
hanno bisogno di tanta acqua!”.
Un mese più tardi a sella del suo cavallo arrivò il fattore a casa
di Manone a portargli i soldi che gli spettavano per quella manza
venduta alla fiera.
Dopo aver parlato del più e del meno Manone, raccontò delle
capple e concluse: “Quelle crude erne dure e nn i l’ho fatta a ciaccalle coi denti. Quelle c’ho piantate l’ho dacquate tutti i giorni, ma
ancora nn enne nate!” (Quelle crude erano dure e non sono riuscito
a schiacciarle coi denti. Quelle che ho piantate le ho annaffiate tutti
i giorni, ma ancora non sono nate).
“Bocca’sott al crino”
(Entrare sotto il crino)
Il “crino” era un cesto - oggi in disuso - a forma di botticella, alto
circa 70 cm. e di circa 40/50 cm. di diametro.
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Era intrecciato con vimini grossi che lasciavano fra di loro ampi
spazi. Serviva per contenere erbe corte che non potevano essere legate
a fascio, ma soprattutto veniva usato per contenere la “fronda”, cioè
le foglie di certi alberi, quali: moro o gelso, acero, vite ed anche la
foglia delle canne. Tutte queste foglie venivano sfrondate per i bovini.
Quando in una famiglia di agricoltori nasceva un altro figlio, la
mamma metteva temporaneamente il più grandicello sotto il crino il boxe del nostro tempo - per accudire al nuovo arrivato o ad altre
faccende.“Entrare sotto il crino” significava per il bambino più grandicello perdere la sua importanza a favore del fratellino più piccolo.
Oggi il detto si usa per indicare una persona che viene sottomessa
da un’altra.
Bocca unta e culo squartato
(Bocca unta e sedére stracciato)
Il detto veniva usato spesso in passato per evidenziare che c’era
gente che mangiava bene (bocca unta), mentre non si preoccupava
di comprarsi degli indumenti decenti. A quei tempi era facile vedere
bambini, ma anche adulti, con i pantaloni stracciati nel sedere (culo
squartato).
Bocca unta n’ dice mai male
(Bocca unta non dice mai male)
Si dice di chi ha ricevuto o riceverà bustarelle o regalie; costui
ha tutto l’interesse a non dire male di chi gli ha “untato le ruote”.
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Botta chi, zecca là
(... qui,... là)
Il detto è di difficile traduzione letterale, perché i termini “botta”
e “zecca” possono essere verbi, ma anche nomi.
Nel primo caso “botta” ha valore di “bottare”, cioè colpire, mentre
“zecca” ha valore di azzeccare o, meglio, centrare il bersaglio; significa che “chi vuoi colpire qui centra là”: si dice di una persona che
nel parlare inizia un discorso e poi passa bruscamente ad un altro,
senza un filo logico.
Nel secondo caso la “botta” è il colpo e la “zecca” è un piccolo
ramo; pertanto significa: “un colpo qui, un rametto (tagliato) là”.
Nell’un caso o nell’altro si tratta di una persona che non sa fare
un normale discorso logico, ma che... “salta di palo in frasca”.
Bruma:
davanti me scotta e dietro m’ consuma
(Bruma:
davanti mi scotta e dietro mi consuma)
Bruma è il pieno inverno. E chi sta davanti al fuoco in questo
periodo sente davanti un gran calore e dietro un freddo pungente.
Il detto si usa per dire che in inverno, anche se stiamo vicino al
fuoco, il freddo lo sentiamo ugualmente.
Bubblà: batte el trentadue
(Tremare dal freddo, battere il trentadue)
“Bubblà” o “bibbia” è un verbo tipico del nostro dialetto e indica
una persona che trema dal freddo. Con la seconda espressione “batte
il trentadue” si vuoi indicare una situazione nella quale il freddo si
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fa sentire ancor di più. Bisogna tener presente che con il “trentadue”
si vuoi indicare la dentatura completa di un individuo e pertanto chi
“batte ’1 trentadue” è una persona che batte i denti per il freddo.
Queste espressioni oggi stanno scomparendo anche perché, tolti
rari casi, nessuno soffre più il freddo. Ai nostri giorni disponiamo di
indumenti adatti a difenderci dal freddo e le nostre case sono provviste di sistemi di riscaldamento adeguati.
Bussa’ co’ i piedi
(Bussare con i piedi)
Per capire questo modo di dire bisogna ritornare agli anni Cinquanta
e precedenti quando il mezzadro divideva con il padrone del fondo
i prodotti dei campi al 50% ed inoltre era costretto a portare ogni
tanto regalie al padrone e al fattore. Se non portava queste regalie
veniva minacciato di essere mandato via dal podere. Quando l’agricoltore portava i regali - dagli animali da cortile alla frutta e verdura
- doveva avere le mani talmente impegnate da essere costretto a
“bussa” co’ i piedi”.
Butta giù l’pacche del cielo
(Butta giù le pacche del cielo)
Ai vecchi tempi quando il cielo si faceva improvvisamente nero,
foriero di tempesta, il sacrestano suonava le campane per allontanare
il pericolo di una grandinata. Ma se nonostante ciò incominciava a
grandinare, Stefano - che aveva il più grande podere di Castelvecchio - sganciava dal camino il catenaccio che sosteneva il caldaro
e lo buttava fuori casa per far cessare la caduta della grandine. Era
questa una delle tante credenze senza una spiegazione logica, ma
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non era facile far capire alla gente che non c’era alcun nesso fra la
grandine ed il catenaccio buttato fuori casa.
Il cielo, secondo l’ingenuo modo di pensare dei nostri bisnonni,
non era altro che un’immensa cupola posta sopra le nostre teste e da
questa scendeva la pioggia. Quando dal cielo veniva giù la pioggia
torrenziale, allora i nostri vecchi immaginavano che la grande cupola
si spezzasse in due e che queste due metà (“pacche”) crollassero sulla
terra assieme a tutta l’acqua che contenevano.
Questa espressione ci da un’idea del modo di pensare di chi
ricerca una spiegazione del perché di un fenomeno e, non riuscendo
a trovare una risposta, ne dà una apparentemente ovvia. È questo un
modo di dire molto calzante che ci fa capire lo stato d’animo di chi
assiste ad un fenomeno fuori del normale.
Buttasse su l’imbraca
(Buttarsi sull’imbraca)
L’imbraca è la parte di dietro dei finimenti dei cavalli da tiro
e serve a trattenere il carro in discesa. Quando il cavallo si butta
sull’imbraca si rifiuta di tirare. La persona che si butta sull’imbraca
è quella che non fa più niente.
Cacacalze
È un modo di dire formato da due parole: caca e calze. Mentre la
prima parola non ha bisogno di traduzione, la seconda, cioè calze,
significa pantaloni. (Quelle che in italiano vengono chiamate calze,
nel nostro dialetto sono indicate come “calzetti”). Il “cacacalze” è
chi se la fa nei pantaloni perché ancora piccolo.
Il modo di dire viene usato per lo più nei confronti dei bambini
che vogliono fare cose che spettano ai grandi o prendono atteggiamenti tipici di persone mature.
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Caccia ’l naso anche ‘ntel cul’ del diavolo
(Mette il naso anche nel culo del diavolo)
Questo modo di dire sta ad indicare una persona che potrebbe
essere definita, usando il nostro dialetto, un “caccianaso”, cioè una
persona che si impiccia delle cose degli altri. Si tratta spesso di una
persona che va alla ricerca di pettegolezzo o di persona che cerca di
scoprire cose che danno fastidio agli altri.
A chi si comporta in questo modo occorre ricordare quanto avvertiva un vecchio proverbio: “Non metter bocca dove non ti tocca!”.
Campara’ ’n antra magnata d’ cece
(Campata un’altra mangiata di cece)
Nei tempi passati quando la vita era... un po’ più dura di quella
di oggi si usava spesso - forse anche troppo - pranzare o cenare con
una zuppa di cece. Tenuto conto che questa cucina era frequente è
facile capire che il detto stava ad indicare una persona poco lontana
dalla sua fine.
Cani e villani n’ chiudne l’porte
(Cani e maleducati non chiudono le porte)
Una volta l’unico mezzo di riscaldamento era il fuoco. Nelle case
di campagna in ogni cucina c’era un ampio camino nel quale durante
la brutta stagione ardeva in continuazione un bel fuoco. Serviva per
scaldarsi, per cuocere gli alimenti e per ogni altro uso.
Per mantenere il calore si aveva cura di tenere chiusa la porta che
dava sull’esterno; ricordiamo che quasi sempre la cucina era la prima
stanza in cima alla scala esterna della casa. Sotto la cucina c’era la
stalla dalla quale saliva il calore animale, ma la cucina era un grande
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stanzone da riscaldare e lì dentro si radunava tutta la famiglia.
La famiglia di allora era di tipo patriarcale: a capo c’erano i genitori
anziani (il “capoccia” e la “vergara”), poi venivano i figli che a loro
volta potevano essere sposati e con un certo numero di figli propri.
Si avevano così nuclei familiari formati anche da trenta-quaranta
persone ed a volte anche di più.
Il continuo via vai obbligava ad aprire e chiudere la porta causando in continuazione perdita di calore; quando la porta restava
aperta c’era sempre chi strillava: - La porta! - ed aggiungeva: - Cani
e villani n’ chiudne 1’ porte! -.
Caricat’ comme ’n chiavaro
(Caricato come un chiavato)
Il chiavaio o chiavaro è colui che fa o ha in custodia le chiavi. Le
chiavi un tempo erano grosse e pesanti ed il fabbro che le forgiava
e le portava ai destinatari trasportava un grande peso.
Il detto si addice a persona che trasporta più cose e pesanti, ma
viene riferito anche a chi gliene hanno dette di tutti i colori.
Carta canta e villan dorme
(Carta canta e villano dorme)
Questo modo di dire significa che la carta scritta parla e il campagnolo non lo sa o meglio non le dà importanza. Ciò che sta scritto
non può essere negato: ci si rende conto che la “carta canta” quando
ad esempio si ha a che fare con una scrittura o una multa.
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C’ arvedemme a paja nova
(Ci rivediamo a paglia nuova)
La paglia è il gambo secco delle biade; normalmente noi la identifichiamo con il gambo secco del grano. Se “ci rivediamo a paglia
nuova”, vuoi dire che ci rivediamo al nuovo raccolto. È come dire:
“Ci rivediamo alla prossima occasione”.
Insomma il detto è un augurio vero e proprio.
C’chiappa la chioccia co’i pulcini
(Ci prende la chioccia con i pulcini)
La chioccia con i pulcini rappresenta la famiglia al completo. Non
che il padre non conti, ma nel caso specifico è notorio che il gallo
non si preoccupa né della chioccia né dei pulcini.
Il nostro detto fa riferimento ad un incendio o ad un alluvione che
non risparmia niente e nessuno; viene usato ad esempio nel caso di
una grandinata che cade nel mese di Luglio: distrugge tutti i prodotti
agricoli più importanti: grano, orzo, granoturco, uva, frutta ed ortaggi.
Ce né tanti che t’ cavne i occhi
(Ce ne sono tanti che ti cavano gli occhi)
Il detto si usa quando si vuoi indicare una grande quantità di
animali o di cose.
È come dire che per il tanto guardare gli occhi rischiano di uscire
dalle orbite.
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C’entra camme ‘n cazzo e ‘n paternostro
(C’entra come un cazzo ed un paternostro)
Il detto è un po’ irriverente, ma di grande effetto. Il passare o
il collegare un ragionamento con un altro di tutt’altro tipo è come
passare da un discorso osceno ad uno sacro. È un lontano parente
del detto in italiano: c’entra come i cavoli a merenda.
Ce sta p’la pelle
(Ci sta per la pelle)
Il detto sta ad indicare chi per un’idea o per un interesse sostiene,
a parole e/o a fatti, il suo punto di vista con accanimento tale che
darebbe la pelle (la vita) pur di vedere realizzata la sua convinzione.
C’ha du’ occhi bagarei!
(Ha due occhi assonnati!)
Bagareo deriva forse da baco da seta nell’ultima fase di sviluppo
quando dalla bocca incomincia ad uscirgli il filo; ed è imbambolato.
Chi ha gli occhi “bagarei” è assonnato ed imbambolato.
C’ha la bocca sott’ al naso
(Ha la bocca sotto il naso)
La bocca serve per mangiare - anche se non solo - e tutti ce
l’hanno sotto il naso.
La bocca è sinonimo di mangiare e quando si dice di una persona
che “c’ha la bocca sotto il naso” si vuoi intendere che quella persona
si lascia corrompere facilmente.
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Questo vecchio proverbio sembra coniato per certi personaggi
della società di oggi.
C’ha ‘l pepe ntel culo
(Ha il pepe nel sedere)
Chi non sta mai fermo è come se avesse il bruciore del pepe nel
sedere. Il detto si usa per indicare chi è molto vivace, come certi bambini.
C’ha l’ vacche ntle gambe
(Ha le “vacche” nelle gambe)
“Vacche” sono dette quelle macchioline rossastre causate dal
calore che compaiono nelle gambe di chi rimane per molto tempo
davanti al fuoco.
C’ha ‘na ciafagna!
(Ha una debolezza!)
La traduzione a dire il vero non è proprio esatta se si tien conto
che “ciafagna” è un termine intraducibile che corrisponde grosso
modo a debolezza, sonnolenza, imbambolamento fusi insieme! Chi
ha la “ciafagna” di solito è chi non ha dormito o chi ha straviziato
o chi è ammalato.
C’ha ‘na faccia da matto ch’arconsola
(Ha una faccia da matto che riconsola)
Da sempre in ogni paese ci sono delle persone un po’ bizzarre che
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si comportano in maniera diversa dagli altri. Si tratta di individui
che di solito non danno fastidio e che con il loro comportamento ci
fanno tornare di buon umore. Dal loro modo di agire qualcuno si
rende anche conto se cambia il tempo!
C’ha ‘n palmo d’ lardo
(Ha un palmo di lardo)
In passato i maiali si allevavano non tanto per la carne che era pur
sempre considerata, quanto per il lardo che in alcune zone costituiva
l’unico condimento. C’era sì anche l’olio, ma l’usavano con disinvoltura solo coloro che lo producevano o i benestanti.
Già prima del giorno della mattazione del maiale si facevano
previsioni e scommesse sullo spessore del lardo. Un maiale che
aveva un palmo di lardo era il massimo per chi lo aveva allevato.
Oggi “c’ha ‘n palmo d’ lardo” è un modo di dire, usato generalmente nel gioco delle carte. Si dice così quando una partita, che
avrebbe dovuto essere perduta, si è invece vinta per la bravura nostra
o per la leggerezza dell’avversario.
Insomma il modo di dire significa che in quella partita abbiamo
conseguito un risultato quasi insperato.
C’ha ‘na scucchia!
(Ha un mento sporgente in fuori!)
Chi ha la “scucchia” evidente, se sdentato, rischia che mento e
naso si tocchino!
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C’ha ‘na sventla!
(Ha una sbornia!)
I termini dialettali per indicare sbornia sono tanti. Oltre a “svenda”
ricordiamo: castagna, bebbla, cuccuma, girandla, scuffia, calandra,
mina...
I termini per indicare sbornia sono tanti perché un tempo le sbornie
erano molto più comuni di oggi. Ciò era dovuto forse al molto lavoro
ed allo scarso cibo.
Chi balla senza sono
o ch’è matto o che nn ha del bono
(Chi balla senza suono
o che è matto o che non ha del buono)
Il detto sta ad indicare che non è da persone normali ballare senza
musica.
Chi bella voi comparì, qualco’ ha da suffrì.
(Chi bella vuoi comparire, qualcosa deve soffrire)
Il detto è riferito ai vari tipi di tortura che sopportano le donne
per apparire diverse da quelle che sono. Si pensi alla foratura delle
orecchie per mettere gli orecchini o alla messa in piega, ai bigodini
o alle altre diavolerie per cambiare la forma e/o il colore dei capelli.
Chi beve prima dla minestra vede ‘l meddco da la finestra
(Chi beve prima della minestra guarda il medico dalla finestra)
Secondo il nostro proverbio è una buona abitudine quella di bere
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prima dei pasti. Oggi si usa bere un aperitivo, ai vecchi tempi come
si vede si consigliava di bere e basta. La Marietta si limitava a bere
acqua e lei non aveva avuto in vita sua una sola malattia, non aveva
avuto neanche la tosse o il raffreddore. Non conosceva né medici
né medicine.
Era ricorsa qualche volta al medico del paese il dottor Cardini,
per un suo figlio di pochi anni, per qualche inconveniente di poco
conto. H medico le aveva fatto notare che era troppo apprensiva per
quel figlio, ma la Marietta non se ne dava per inteso.
Un giorno la donna vedendo il bambino cosparso di puntolini
rossi lo portò dal medico dicendo: “Dottor Gardlino, sto monello
c’ha la rusulìa”.
Il dottore diede un’occhiata al bambino e poi disse seccato: “Io
non sono il dottor Cardellino e questa non è rosolia, ma sono vere
morsicature di pulci!”
Forse la Marietta avrebbe dovuto a quel suo figlioletto farlo bere
prima della minestra.
Chi cerca trova e... chi camina inciampa
È normale che uno che cammina possa inciampare, come uno
che cerca una certa cosa la possa trovare. È questa una considerazione ovvia ed il nostro detto sta lì a ricordare a chi cerca qualcosa
di mettere impegno nella ricerca, perché prima o poi riuscirà a ritrovare l’oggetto cercato.
Il nostro detto è un invito alla costanza ed alla metodicità in
qualsiasi lavoro.
Chi c’ l pane n c’ ha i denti,
chi c’ ha i denti n’ c’ ha l pane
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(Chi ha il pane non ha i denti,
chi ha i denti non ha il pane)
Questo proverbio ci vuoi ricordare che spesso chi ha le possibilità
o le capacità di fare una certa cosa non ha voglia di farla, mentre chi
ha buona volontà non ha i mezzi per farla.
Il proverbio viene usato con un senso di invidia, ma più spesso
con un senso di rammarico, per indicare una persona che non sa
cogliere un’occasione favorevole ma soprattutto che non sa sfruttare
le sue doti.
Chi c’ha magna e chi n’ c’ha sta a vede
(Chi ha mangia e chi non ha sta a vedere)
I proverbi, che sono nati nei tempi antichi, fanno riferimento molto
spesso ai grandi problemi di sempre: quelli della fame, del freddo,
della miseria e così via.
Molti sono i proverbi che si riferiscono al mangiare, ma soprattutto alle disuguaglianze fra i ricchi da una parte e la povera gente
dall’altra. Ed è proprio il caso del nostro proverbio che dice che chi
ha la possibilità mangia e chi non ce l’ha è costretto a guardare chi lo
sta facendo.
Naturalmente il proverbio è ancor oggi di attualità anche se non
si fa più riferimento al mangiare inteso in senso stretto ma alle
possibilità economiche di permettersi o meno certe necessità o certi
lussi.
Chi disprezza, compra e vole
(Chi disprezza, compera e vuole)
Spesso chi disprezza una persona, un animale o una cosa, lo fa
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per sminuire il valore in modo che gli altri gli lascino campo libero
perché a lui interessa e la vuole (quando si tratta di una persona) o
la vuole comperare (quando si tratta di animali o cose).
Chi è furtunato ntl’amore è sfurtunato a l’ carte
(Chi è fortunato in amore è sfortunato alle carte)
E un detto che sta ad indicare che non si può avere tutto, anche
se c’è veramente chi crede al contenuto letterale del detto.
Questo detto ne richiama alla mente un altro simile; “I sold’ e la
salute n’ s’ possne ave” (“I soldi e la salute non si possono avere”).
Quest’ultimo detto viene rivolto con significato letterale e con una
punta di sarcasmo a chi è ricco ed accusa qualche malanno.
“Co’ volete i sold’ e la salute?”.
Chi fa colazione a casa, va a cena col mulinaro
Fino alla metà degli anni Sessanta il pane nelle case di campagna
era ancora fatto in casa e cotto nel proprio forno. Il pane “compro” e
la farina “compra”, cioè acquistati al negozio, erano una eccezione
ed un lusso. Ogni agricoltore provvedeva al proprio fabbisogno di
farina caricando sul biroccio alcuni sacchi di grano assieme ad altre
granaglie per il bestiame e andava al mulino. Capitava spesso però
che fossero in molti a ritrovarsi davanti al mulino e così bisognava
fare la fila per aspettare il proprio turno. Ancora oggi è molto in uso
il detto “Chi arriva prima macina”, o l’altro meno usato “a la Messa
e al mulino nn aspetta’ mai ’1 vicino”. Naturalmente chi arrivava
tardi al mulino a volte tornava a casa che era ormai buio. E proprio
a questo fa riferimento il nostro proverbio: “Chi fa colazione a casa”
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Chi fatiga ‘na camiscia e chi n’ fatiga due
(Chi lavora una camicia e chi non lavora due)
Il proverbio vuoi ricordare che spesso gli sfaticati sbarcano il
lunario meglio delle persone laboriose. Questo detto ci fa venire in
mente l’altro: “Quant’ Natale ha poca luna, tutt’ l’putane han furtuna”.
Chi gioca al lotto e spera de vence,
sgappa dai stracce e bocca nti cence
(Chi gioca al lotto e spera di vincere,
esce dagli stracci ed entra nei cenci)
Con questo proverbio si vuoi ricordare a tutti che non è facile
migliorare il proprio stato di vita semplicemente giocando al lotto,
anzi!... Chi gioca al lotto (o chi tenta la fortuna col gioco in genere)
quasi sempre peggiora la propria situazione economica: dagli stracci
(indice di povertà) passa ai cenci (indice di una povertà maggiore).
Chi la sappa, chi la scura, ’l più cojon tien su la luma
(Chi la zappa, chi la scure, il più coglione regge il lume)
Le persone menzionate (colui che usa la zappa, colui che usa
la scure e colui che regge il lume) non fanno parte di un gruppo
omogeneo, ma sono piuttosto persone prese a caso; c’è chi fa un
lavoro per un compenso (lo zappatore e lo spaccalegna) e chi come
il fesso che regge il lume presta la sua opera senza un compenso e
per di più viene di solito preso in giro; è pur sempre colui che regge
il moccolo! Il proverbio vuoi farci notare che fra tanta gente il fesso
non manca mai.
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Chi magna e non invita, se strozzasse ogni mulica
Chi mangia e non invita, si strozzasse ad ogni mollica)
Per capire questo detto bisogna rifarsi a quando anche da noi c’era
gente che aveva fame - quella vera - e così quando vedeva qualcuno
mangiare desiderava essere invitato. In caso negativo pronunciava
il detto che suonava come una maledizione a chi pensava solo a sé.
Chi n c’ piove
(Qui non ci piove)
Chi pronuncia questa frase, contemporaneamente rappresenta
con le mani un ombrello: atteggia una mano a mo’ di emisfera e la
tocca sotto al centro con l’indice dell’altra per rappresentar il manico
dell’ombrello. Questa espressione come l’altra: “Chi n’ e’ s’pianta ‘I
chiodo” sta ad indicare che chi parla non si lascerà sopraffare da altri.
Chi nn è bono pel re
nnè bono manch pla regina
(Chi non è buono per il re,
non è buono neanche per la regina)
È noto che per essere dichiarati “buoni per il re” cioè abili alla
leva militare, si viene sottoposti a visita medica e ad un formale
colloquio per la destinazione all’arma.
Peppe e Giuanne molti decenni fa andarono, cartolina alla mano,
al distretto militare di Pesaro. Dopo la visita medica furono fatti
entrare insieme per il colloquio attitudinale. Prima fu la volta di Peppe
che alla domanda cosa sapesse fare rispose: “anicò” (ogni cosa), la
stessa domanda fu posta a Giuanne che subito rispose: “lo gnente,
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sa fa anico tu’” (Io niente, sa fare ogni cosa lui). Non sarà stato per
questa risposta ma Giuanne fu scartato. Il proverbio “chi nn è bono
pel re nn è bono manch pla regina” viene ricordato a chi è inabile al
servizio militare. È come dire: non hai il fisico per fare il militare e
pertanto non ce l’hai neanche per fare l’amore.
Chi nn è morto s’arvede
(Chi non è morto si rivede)
Avolte ci capita di non vedere per lungo tempo una persona che
ci deve pagare e ci viene il sospetto che quella persona possa essere
scomparsa; poi un certo giorno la rivediamo e allora usiamo il detto,
come per dire: Pensavo che fossi morto. Finalmente ti rivedo!
Altre volte il detto si usa nei confronti di chi arriva con molto
ritardo e sta al posto di: Arrivi adesso? Credevo che fossi morto!
Chi nn è svelt’ a magnà,
nn è svelt’ a fatigà
(Chi non è svelto a mangiare,
non è svelto a lavorare)
Il detto era notorio in campagna un tempo. Di solito chi aveva lavorato sodo aveva anche un grande appetito. Il detto serviva a stimolare
i commensali a consumare il pasto in fretta in modo che si potesse
dedicare più tempo al lavoro. A Montalfoglio c’era un modo un po’
particolare per avvisare i mietitori che era ora di pranzo e che quindi
potevano partire dal campo: la massaia metteva un panno bianco ad
una finestra di fronte al campo. Così non c’erano contrattempi e si
era più svelti a fatigà!
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Chi nn ha bona testa ha bone gambe
(Chi non ha buona testa ha buone gambe)
Spesso ci capita di andare da qualche parte (in giardino, in cantina
o in soffitta) per fare o prendere una certa cosa. Solo quando siamo
ritornati ci rendiamo conto di aver dimenticato il vero scopo del nostro
spostamento, e a quel punto dobbiamo ripercorrere la stessa strada.
Il proverbio ci ricorda che chi ha dimenticato di fare qualcosa
(“chi non ha buona testa”) dovrà ritornare sui suoi passi (“ha buone
gambe”).
Chi non piscia in compagnia o è ’n ladro e è ‘na spia
(Chi non piscia in compagnia, o è un ladro o è una spia)
Il detto sta ad indicare che quando si è in compagnia si fa sempre
quello che fanno gli altri pur di rimanere insieme.
Chi n’ risiga n’ rusiga
(Chi non rischia “non rosicchia)
Questo proverbio si addice a chi è negli affari ed in genere a tutti
coloro che svolgono un lavoro di commercio, oltre naturalmente a
chi gioca al totocalcio, al lotto o a chi gioca d’azzardo.
A dir il vero non sempre chi rischia rosicchia, perché a volte chi
rischia subisce una perdita anche grave.
Comunque il proverbio ci vuoi ricordare che senza rischio non
c’è profitto.
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Chi n’sa legg la su scrittura
è ’n somaro addirittura
(Chi non sa decifrare la sua calligrafìa
è un somaro vero e proprio)
Un tempo nella pagella della scuola elementare c’era anche la
voce “calligrafia e bella scrittura” e molti erano gli insegnanti che
al dettato davano due voti: uno per l’ortografia e uno per la “bella
scrittura”. Oggi non si tien conto della calligrafia, anche perché i
bambini imparano a scrivere imitando le lettere dell’alfabeto senza
seguire una tecnica specifica e così vengono fuori le grafie più strane,
a volte difficili da decifrare.
Le cose poi peggiorano con il passare degli anni, cosicché a volte
un alunno del secondo ciclo della scuola elementare scrive proprio
“come un medico o un farmacista”.
Fra gli insegnanti c’è chi sostiene che la calligrafia non è poi
importante: quel che importa è il contenuto.
Purtroppo però a volte può capitare che qualcuno non riesca a
decifrare quello che lui stesso ha scritto. Nel qual caso c’è sempre
chi gli ricorda il nostro proverbio.
Chi n’ s’ guzza ’n chiodo
(Qui non si aguzza un chiodo)
Oggi i chiodi si comprano a chili e vengono tenuti in poca considerazione, ma un tempo erano fatti dal fabbro alla forgia e richiedevano un minimo di tempo ognuno.
Era logico quindi che a quei tempi i chiodi usati venissero riutilizzati, raddrizzando quelli storti ed aguzzando quelli spuntati. Ma
già allora i fabbri rimandavano il fare i chiodi a periodi nei quali
scarseggiava il lavoro, perché il fare chiodi dava poco guadagno. Se
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dava un guadagno modesto a chi era del mestiere e li produceva “in
serie”, possiamo immaginare quanto poco guadagno ne ricavasse
chi si metteva a far la punta a un chiodo.
“Chi n’ s’ guzza ‘n chiodo”, ma anche “chi ri s batte ‘n chiodo”
(dove battere sta ad indicare il martellare) significano che non si fa
niente di utile.
Chi pel foc’ e chi pia legna,
per magna’ ognun s’ingegna
(Chi per il fuoco e chi per la legna,
per mangiare ognuno s’ingegna)
C’è sempre chi attizza il fuoco e chi porta la legna quando si tratta
di preparare da mangiare. È normale che quando delle persone si
trovano insieme e devono preparare da mangiare, tutte si diano da fare.
Chi pia prima, pia du’ volte
(Chi prende prima, prende due volte)
E vero che quando c’è da dividere qualcosa chi prende per primo,
se c’è la possibilità, prenderà anche per la seconda volta mentre gli
altri rimarranno a bocca asciutta.
il detto è un invito a voler approfittare subito quando si presenta
un’occasione favorevole.
Chi piscia tra ’l foco,
va l’inferno e n’ trova loco.
Chi piscia tra l’acqua,
va l’inferno e nn ariscappa
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(Chi piscia tra il fuoco,
va all’inferno e non trova riposo.
Chi piscia tra l’acqua,
va all’inferno e non riscappa)
Talete di Mileto, uno dei sette Savi dell’antichità e uno dei filosofi
della Scuola Ionica, riteneva che l’acqua fosse il principio di tutte le
cose, forse perché la vita è accompagnata sempre dall’acqua (come
nel caso della germinazione delle piante) o da un elemento umido
(come l’inizio della vita degli animali e delle piante).
Empedocle di Agrigento, anch’egli grande filosofo, riteneva
che i principi delle cose fossero: l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco.
In tutti i tempi l’uomo ha sempre ritenuto che l’acqua e il fuoco
fossero i due elementi purificatori di tutte le cose. I nostri antenati
ebbero sempre grande rispetto per l’acqua e per il fuoco e nessuno
si sarebbe mai azzardato a pisciarci sopra ed il proverbio suona a
maledizione a chi lo fa.
Oggi purtroppo il rispetto per l’acqua è solo un ricordo. Il fuoco
poi... viene usato per distruggere i boschi!
Chi pole
n’ vole,
Chi vole
n’ pole;
chi fa
nnel sa,
chi sa,
nnel fa,
E cuscì che ’l mondo va
(Chi può
non vuole,
chi vuole
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non può;
chi fa
non lo sa,
chi sa,
non lo fa.
E così che il mondo va)
“Pole” nel dialetto di oggi è poco usato, ma un tempo era di uso
comune; attualmente si usa “po’” con valore di “può”.
Il proverbio è molto eloquente e ci spiega come in certi casi o in
certi periodi vada il mondo. E un mondo che procede al rovescio:
chi può agire non lo vuole fare, chi lo vuole fare non può (perché
impedito da altri), chi fa non sa fare, chi sa fare non fa. Se ci giriamo
intorno ed osserviamo attentamente la realtà ci rendiamo conto che
questo vecchio proverbio può essere tranquillamente citato anche
ai nostri giorni.
Chi prima de San Marco se spoja, s’arveste co’ n’ gran voia
(Chi prima di San Marco si spoglia, si riveste con grande voglia)
Chi si toglie i vestiti pesanti prima di S. Marco, cioé verso la fine
di Aprile, se li rimetterà in gran fretta. Il proverbio ci consiglia di
non alleggerirci prima del tempo. Nella Vallata del Cesano, quando
qualcuno va in maniche di camicia prima del tempo si usa dire, in
tono ironico, che “ha smaggiato”, il che è comne dire: si è vestito
come se fosse già passato maggio.
“Chi risparagna, ’l gatto se l’ magna”
(Chi risparmia, il gatto se lo mangia (il risparmio)
La Marietta che abitava in una casupola di campagna nei dintorni
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di S. Cristoforo aveva avuto in regalo una bella forma di formaggio.
Gigetto, il marito, avrebbe voluto fettarla e mangiarsela ancora fresca,
ma la Marietta tanto disse e tanto fece che alla fine convinse il marito
a metterla sulla vecchia tavola del pane nel magazzino.
Ogni tanto la Marietta andava nel magazzino, saliva sopra la sedia
appoggiata di fianco alla tavola e rigirava la forma di formaggio.
Gigetto ogni tanto sbirciava la forma e pensava a quando avrebbe
potuto almeno assaggiarla.
Certo assaggiarla non mangiarla perché la Marietta aveva già
deciso cosa farne: formaggio grattugiato e nient’altro.
Un brutto giorno la Marietta andò nel magazzino per rigirare il
formaggio, ma non ci fu bisogno. I gatti si erano occupati di quella
bella forma, riducendola a pochi pezzetti rosicchiati.
Quando la Marietta informò dell’accaduto Gigetto, questi senza
batter ciglio disse: “Chi risparagna, ’1 gatto se 1’ magna!”.
Chi scola paga
(Chi scola la bottiglia, paga)
Spesso ci capita di andare al bar o all’osteria e, trovandoci in comitiva, ordiniamo una bottiglia. Dopo aver versato da bere ai presenti,
può succedere che una parte rimanga ancora nella bottiglia. Si beve
e poi c’è chi si versa ancora da bere; è allora che qualcuno, anche
se scherzosamente, avverte che “chi scola paga”.
Chi sgappa da ’n punto sgappa da mille
(Chi esce male da una situazione, esce male da mille altre situazioni, legate alla prima)
Il povero Luchetta, un agricoltore di Fabriano, non aveva voluto
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comprare il podere di Checchino il Guercio perché secondo lui il
prezzo era troppo alto e il terreno era solo di pochi ettari. Aveva i
soldi necessari ma aspettava tempi migliori.
La moglie Adele che era stata sempre favorevole all’acquisto incominciò a portargli il muso. Intanto passò il tempo e i prezzi lievitarono e quando Luchetta si decise per l’acquisto si accorse di disporre
solo della metà somma necessaria. Si accontentò di acquistare una
vecchia casa cadente con un orticello ma non riuscì mai ad aggiustarla anche perché il muratore che andò a vedere il da farsi gli disse
che avrebbe dovuto riprenderla dalle fondamenta. Il che era come
dire rifarla nuova o quasi. Così Luchetta non potè mai sistemarla.
Potete immaginare la rabbia di Adele che continuò a rimproverare
ogni giorno il marito per quell’affare mancato.
Checchino si ammalò e rimase infermo per tanti anni. Un giorno
riferendosi a quel mancato acquisto e alle sue conseguenze disse
all’Adele: “Chi sgappa da ‘n punto sgappa da mille”.
Checchino morì povero e disperato, forse anche per un destino
avverso.
Chi s’ loda
s’ sbroda
(Chi si loda
si sbroda)
Menco era un agricoltore che a Castellone era noto per quel
suo parlare senza interruzioni. Sapeva sempre tutto e su tutti ed a
casa sua secondo il suo modo di dire tutto andava per il meglio.
Le sue vacche poi erano fra le migliori di tutti gli agricoltori delle
due vallate che dominava dall’alto del suo podere. Erano in verità
vacche sempre ben strigliate e con le corna lucidate, ma Menco era
anche l’unico che si fermava a pulir loro il sedere dopo che queste
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avevano soddisfatto i propri bisogni corporali. Lo faceva ovunque
ed aveva sempre all’uopo qualche straccio pulito a portata di mano.
I vicini però raccontavano volentieri i suoi modi anomali di trattare le vacche e sua moglie che guidava la “stroppa”, durante l’aratura. Quando le vacche si fermavano Menco senza usare la frusta di
carpignano le incitava a voler proseguire dicendo: “Calate giù, Bio’;
calate giù, Faorì” dando quindi alle vacche del voi. Se poi le vacche
non accennavano a muoversi, allora Menco si rivolgeva alla moglie
gridando: “Tocca giù ste vacche, puttana!”.
Chi sputa ai cristiani
fa la morte dei cani,
chi sputa ai poretti,
fa la morte di uc’letti
(Chi sputa alle persone
fa la morte dei cani,
chi sputa ai poveretti,
fa la morte degli uccelletti)
Lo sputare addosso a una persona è sempre stato considerato atto
di volgarissima offesa o di supremo disprezzo. Nel nostro idioma il
termine “cristiani” ha valore di “persone” e si usa spesso quando si
vuoi far distinzione fra persone ed animali (“I cristiani... le bestie...”),
ma si usa anche quando si vuoi rimarcare che anche il più delinquente
o il più disgraziato è pur sempre una persona “è ’n cristiano, nn è
’na bestia!” (è una persona non è una bestia!).
La prima parte del nostro proverbio “Chi sputa sui cristiani fa
la morte dei cani” ci vuoi far riflettere su un fatto evidente: chi si
comporta in maniera incivile viene quasi sempre evitato da tutti e
finisce con il rimanere solo, proprio come un cane. Chi poi, come è
detto nella seconda parte, “sputa addosso ai poveretti”, o più sempli-
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cemente a coloro che non possono o non sanno difendersi, farà una
morte ancora peggiore: prima o poi troverà qualcuno che gli farà fare
la morte degli uccelletti: morirà cioè di una schioppettata.
Chi sputa pr aria j arcasca addosso
(Chi sputa per aria gli ricade addosso)
Il proverbio viene usato sempre in senso figurato e sta a signifi
care che chi sparla degli altri finirà con l’essere disprezzato da tutti,
cosicché il suo “sputare” (disprezzare o calunniare) sugli altri gli si
ritorcerà contro.
Chi tardi inossa, tardi infossa
(Chi sviluppa la propria dentatura tardi, va nella fossa tardi)
Il proverbio è in lingua italiana e fa pensare che ad inventarlo
sia stata una persona colta, forse un esperto della crescita. Non so
quanto ci sia di vero sulle affermazioni di questo proverbio, anche se
osservando un bambino o una bambina che mostra qualche ritardo
nello sviluppo fisico, in seguito con il passare degli anni quella stessa
persona ci sembra molto più giovane di quanto non sia realmente.
Chi va a caccia
i pagni straccia,
niente piglia e
rovina la famiglia
Questo proverbio mette alla berlina il cacciatore perché si strappa
i vestiti (passando fra rovi e sterpi di ogni genere) e torna a casa quasi
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sempre a mani vuote portando in rovina la sua famiglia.
Teniamo presente che ai vecchi tempi era necessario lavorare sodo
per tante e tante ore al giorno e pertanto chi trascorreva del tempo a
girovagare per le campagne era considerato persona che non pensava
agli interessi della propria famiglia.
Chi va a la veja e nn è invitato
arva’ a casa sconsolato
(Chi va alla veglia e non è invitato
ritorna a casa sconsolato)
In campagna si usava andare alla veglia da un vicino, su invito. La
veglia generalmente si svolgeva nella stalla al calore animale. Mentre
si mangiavano lupini o castagne e si beveva vino brulé, si giocava
a carte e si parlava dei lavori dei campi o si ascoltavano racconti
fantastici su malocchio, spiriti, streghe, lupi marinari e così via. La
veglia poteva poi essere rallegrata dalla fisarmonica che era suonata
ad orecchio. La musica era uno zibaldone di note un po’ simili per
tutti i balli: furlana, mazurka, polka, saltarello, valzer...
Le persone non invitate alla veglia non erano gradite e spesso si
recitava:
“Piove, piove, mal temp’ è, a casa d’altri n’ se sta be’. E s’ io fussi
a casa d’altri come j altri a casa mia piana la spiccia e girìa via!”.
(Piove, piove, cattivo tempo è,
a casa d’altri non si sta bene.
E se io fossi a casa di altri,
come gli altri a casa mia,
in fretta me ne andrei via).
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Chi va dal letto al foco
perde ’l loco
(Chi va dal letto al fuoco
perde il posto)
Bisogna riandare con la mente alle fredde sere d’inverno quando
si stava attorno al focolare. Spesso capitava che attorno al camino ci
fossero più persone di quante potesse ospitarne. Chi per una ragione o
per un’altra si allontanava dalla “prima fila” spesso aveva la sorpresa
di vedersi soffiare il posto. Ed allora l’usurpatore si giustificava citando
il nostro detto, o quell’altro: “Chi va a Roma perde la poltrona” che
è come dire: chi parte perde il posto.
Chi vole ’l prete, camina
(Chi vuole il prete, cammina)
Nei tempi passati il prete, specie nei piccoli centri, era una delle
persone più in vista. Generalmente dotato di buona cultura, era colui
che più di altri era in grado di consigliare, ma anche di risolvere
molti problemi. Era naturale quindi che molti fossero coloro che si
recavano in parrocchia alla ricerca di una soluzione dei loro problemi
che potevano essere di ordine morale o più semplicemente quelli
riguardanti la mancanza di beni di prima necessità. Molto spesso
O prete dava di che sfamarsi o indirizzava verso qualche persona
agiata che avrebbe potuto darle una mano. Il detto “chi vole ‘1 prete,
camina” si usa per dire che chi ha la necessità deve darsi da fare e
non pensare che lo facciano gli altri per lui.
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C’ho ’n magone!
(Ho un dispiacere!)
Chi ha il “magone” ha un grosso dispiacere che naturalmente può
derivare da varie cause. ‘
Chi usa questa espressione è una persona che non riesce più a
tener dentro di sé la sua pena e cerca di scaricarsi facendo partecipe
del suo dispiacere l’interlocutore.
C’ho ’n rusighino
(Ho qualcosa “dentro” che mi rosicchia).
Chi ha il “rusighino” è chi ha dentro di sé livore nei confronti di
qualcuno per un’offesa subita e non vede l’ora di esternare la sua
rabbia.
C’ho ’n so che
(Ho un so io che cosa)
Il modo di dire viene usato quando non si vuoi mostrare subito
una certa cosa, ma si vuoi tenere l’interlocutore in sospeso.
L’espressione significa: “Ho (per te) una certa cosa” Insomma “n
so che” è sempre una sorpresa.
Cinque diti e ‘na paura
(Cinque dita e una paura)
Il modo di dire si usa quando si vuoi indicare la provenienza di
qualcosa che è stato rubato. Le cinque dita rappresentano la mano
che ha eseguito il furto e la paura è quella del ladro all’atto del furto.
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Le mamme hanno sempre insegnato ai propri figli, fin dalla più
tenera età, che non si deve mai rubare e facevano imparare loro
questa filastrocca:
Il pollice dice che ha fame,
l’indice che non c’è il pane,
il medio dice: “Come faremo?”,
l’anulare risponde: “Ruberemo!”
il mignolo: “Nicchia, nicchia,
chi ruba s’impicca”.
Il mignolo, cioè il più piccolo dei cinque fratelli, è il più saggio e
la sua considerazione suona così: “Nicchia, cioè fai pure l’indeciso
se rubare o no, ma ricordati che il ladro si usa impiccarlo!”.
C’ magna l’ovo bnedetto
(Ci mangia l’uovo benedetto)
n modo di dire si usa nei confronti di chi esegue un certo lavoro
con estrema lentezza. È come dire che ci impiegherà fino a Pasqua.
Co’ aspetti Maggio?
(Cosa aspetti Maggio?)
Il detto si usa per sollecitare una persona a voler agire subito senza
aspettare ancora per chissà quanto tempo.
Co’ c’entra la gatta, si la padrona è matta!?
(Cosa c’entra la gatta, se la padrona è matta!?)
Il gatto (o la gatta), si sa, frequenta volentieri la cucina e qui può
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succedere che chi è alle prese con i fornelli possa lasciare incustodito pesce, carne o altro. È normale che il gatto ne approfitti con
conseguente disperazione della cuoca, ma “che colpa ha la gatta se
la persona è distratta?”
Il proverbio viene usato anche quando per negligenza degli adulti
a combinare qualche guaio sono i bambini piccoli o gli animali in
genere.
Co’ è ‘sta rusmaia?
(Che cos’è questo avanzo?)
“Rusmaia” deriva da “rusumi” (avanzi di pasto degli animali) da
non confondere con “rusume” (prurito).
L’espressione sta ad indicare persone, animali o cose di poco conto.
Co’ è? ‘L pista pi dindi?
(Che cos’è? Il pisto per i dindi?)
Il “pisto” - dal tardo latino - è il pesto, cioè il risultato del pestare
o battere col manarino, riducendo qualcosa (nel nostro caso le erbe,
di solito le ortiche) ad una poltiglia che viene poi data da beccare ai
dindi o tacchini. La locuzione di solito sta ad indicare una minestra
o una pasta passata di cottura («sghiozzata»).
Co’fai l’ nozz’ coi fonghe?
(Cosa fai le nozze con i funghi?)
Un tempo, a differenza di oggi, era facile procurarsi i funghi.
Bastava andare nel vicino bosco e raccoglierli. Forse per questo
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erano considerati cibo di nessun conto. Il pranzo di nozze è sempre
stato molto costoso e farlo con i funghi voleva dire spendere molto
poco, il che era un contronsenso.
Il detto sta ad indicare chi, in certe occasioni, vuoi spendere
troppo poco.
Co’ hai fatt’ la fuga al lepre?
(Cosa hai fatto la fuga alla lepre?)
Questo modo di dire viene rivolto a chi è “galato”, cioè senza
voce. Di solito dopo una sudata se si sta fermi in un luogo ventilato
si perde la voce. Secondo la fantasia popolare chi ha perduto la voce
è una persona che ha cercato di acchiappare una lepre, cioè ha fatto
una bella corsa con conseguente sudata ed è rimasto esposto all’aria.
Il nostro modo di dire cerca di spiegare umoristicamente il perché
si è persa la voce, ma in realtà la domanda viene posta per conoscere
le ragioni dell’afonia.
Co’ la bellezza n’ c’ho cenato manch’ ’na sera
(Con la bellezza non ho cenato neanche una sera)
Ieri più di oggi non si andava tanto per il sottile e si ricordava a
chi pensava al matrimonio che bisognava guardare la consistenza
economica e non la bellezza, perché con questa non si mangiava.
Co l’aco e la pezzola
si, mantìen la famiiolà
(Con l’ago e la pezzuola
si mantiene la famigliola)
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Oggi questo proverbio è un po’ fuori moda. Non si usa più mettere
le pezze ai vestiti da lavoro anche perché a volte costa meno comprarli
nuovi che rattopparli. E poi le toppe non le vuole più nessuno se non
certi giovani di oggi che se le fanno mettere sui loro indumenti, ma
solo per il gusto di farsi notare. Una volta invece era una necessità
e spesse volte rattoppando gli indumenti si riusciva a tirare avanti
la famiglia.
Il proverbio era un invito al volersi adattare alle situazioni di
quel tempo.
Col tempo e la paja s’maturne le nesple
(Col tempo e la paglia si maturano le nespole)
Le nespole in questione sono quelle dalla bacca bruna della grandezza di una piccola mela che maturano in novembre. Queste nespole
sono mangiabili solo se molto mature, quando sono quasi marce e
non prima perché contengono una grande quantità di tannino che
le rendono molto aspre. Per farle maturare si usava metterle tra la
paglia per molti giorni.
Il proverbio ha valore di: dare tempo al empo.
Comanda e fà da te e sarai servito
(Comanda e fai da te se vuoi essere servito)
Comandare è un imporre o se si vuole un manifestare la propria
volontà perché sia eseguita una certa cosa. Ma il più delle volte è
inutile comandare perché o la cosa viene eseguita male o non viene
eseguita affatto. L’unica soluzione è quella di fare da soli.
Il detto vuoi significare che: “Se vuoi che una certa cosa sia fatta
bene ed essere accontentato, fattela da solo!”.
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Come si vede gli sfaticati non ci sono solo oggi ma sono sempre
esistiti anche se il detto è forse di attualità più oggi che un tempo.
Combatt’ la lima e la raspa
(Combatte la lima e la raspa)
Lima e raspa sono due arnesi simili ed entrambi servono per
assottigliare, rodere e pulire; il primo serve per lavorare il ferro e il
secondo per lavorare il legno.
Lima e raspa, per sfregamento riducono in polvere ferro e legno,
ma se vengono sfregate fra di loro che cosa succede? Dato che
entrambe sono di acciaio è difficile dare una risposta.
Comunemente noi usiamo dire “combatt’ la lima e la raspa” quando
si affrontano due persone simili ed è quasi impossibile prevedere
chi avrà la meglio.
Com va?
Com chi lavora co’ i cani:
mal d’insù e pegg d’ingiù!
(Come va?
Come chi lavora con i cani:
male all’andata e peggio al ritorno!)
Alla domanda “come va?”, chi risponde è una persona convinta
che le cose vadano proprio male se in quel momento paragona l’andamento della sua vita al risultato di un’immaginaria aratura con
i cani che sostituiscano i buoi nella trazione dell’aratro. Anche se
l’aratro fosse a misura di cani il risultato sarebbe proprio desolante!
Il proverbio serve a rimarcare che le cose vanno male e basta.
A volte per commentare che le cose non vanno per il verso giusto
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si usa anche un’altra espressione: “Van male i bozzi!”.
Ricordiamo che ancora nel dopoguerra era in uso nelle nostre
campagne allevare i bachi per la produzione dei bozzoli da seta.
Allevare i bachi era da parte degli agricoltori un aggiungere al
già duro lavoro di quei tempi un super lavoro. Basti pensare che
allevare i bachi voleva dire lavorare per più di quaranta giorni per
molte ore, in aggiunta ai già tanti lavori pressanti e proprio nei mesi
di maggio e giugno quando occorreva prestare tante cure alle viti
e ai fieni. Il correre dietro ai bachi era un’impresa se si pensa che
l’ultimo periodo di voracità dei bachi (la “magnarella” cioè la furia)
coincideva spesso con l’inizio della mietitura.
Se poi, dopo tanto affannarsi, i bachi, proprio quando stavano per
trasformarsi in bozzoli, si ammalavano... allora era proprio il caso
di esclamare: “Van male i bozzi!’.
Comm va?
Comme ’l somaro del compa’:
più lo tocchi e meno va
(Come va?
Come il somaro del compare:
più lo pungoli e meno va)
Quando ad una persona alla quale le cose non vanno bene, gli
chiedi come va ti puoi sentire rispondere: “Come il somaro del
compare che anche se pungolato, s’impunta e non vuoi saperne di
andare avanti”.
Il proverbio si usa per evidenziare che più ci si da da fare e peggio
è. Questo proverbio ha un significato ancora più forte di quello
precedente. Serve per indicare che le cose vanno proprio tutte storte.
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Co’ sfuticchi? Co’ struficchi?
(Cosa fai?!)
Il verbo “sfuticchtó” significa fare qualcosa senza riuscirci, mentre
O verbo “struficchià” significa fare qualcosa senza mettere grande
impegno nel lavoro che si sta facendo. Entrambi stanno a significare
un fare senza un vero risultato.
Co’ sgaggi!?
(Cosa gridi!?)
Di solito gli agricoltori usano un tono di voce più alto di altre
persone. Ciò forse è dovuto al fatto che sono abituati a parlarsi da
un campo all’altro.
Il tono di voce alto, a volte stridulo, da fastidio a quelle persone
che non ci sono abituate e per questo le senti dke al proprio interlocutore: “E co’ sgaggi!?”
“Sgaggiare” è fare il verso della “gaggia” (gazza), è oltretutto un
modo di comunicare poco aggraziato.
Co’Sgaucci?
(Cosa grufoli?)
“Sgaucciare” è un verbo quasi intraducibile: è il grufolare, ma
anche il rovistare maldestro alla ricerca di qualcosa. Lo “sgaucciare”
è tipico del porcello al quale un tempo per impedkgli di grufolare
gli veniva infilato al grugno un filo di ferro legato ad anello. Non
dimentichiamo che il maiale spesso si lasciava libero intorno a casa
ed il suo grufolare poteva rendere impraticabile l’aia.
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Costa ’n sangue
(Costa un sangue)
Con questo modo di dire si vuoi mettere in evidenza il prezzo
esagerato (o ritenuto tale) di una certa cosa.
Con valore simile ma sicuramente con una carica emotiva maggiore
viene usato l’altro: “Costa ‘n colpo e mezzo”.
Entrambi i modi di dire trovano un riscontro nella lingua italiana
nell’espressione: “Costa un occhio della testa”.
Costa più che ’l sale a Perugia
Perugia è capoluogo dell’Umbria e l’Umbria è l’unica regione
dell’Italia Peninsulare che non è bagnata dal mare. Il sale a basso costo
è quello delle saline che si ottiene mediante l’evaporizzazione dell’acqua del mare.
Un tempo (quando non era ancora monopolio di Stato ed il prezzo
variava secondo il mercato) andarlo a comprare a Perugia voleva
dire pagarlo al più alto prezzo.
Il nostro proverbio - “costa più che ‘1 sale a Perugia” - sta ad
indicare l’alto costo di un certo prodotto o di una certa prestazione.
Co’ ’sti lumi d’ luna!
(Con questi lumi di luna!)
Un tempo le case erano illuminate con lumi a petrolio; Pilluminazione ad acetilene era spesso un lusso perché il carburo aveva un
costo superiore a quello del petrolio, e la candela, come oggi, era
usata solo in casi di emergenza.
L’illuminazione che non costava niente era quella del “lume di
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luna”, cioè quella della luna, ma chi aveva solo questo tipo di illuminàzione era una persona che non aveva proprio niente.
Alla domanda: “Come va?”, chi attraversa un periodo particolarmentè difficile sul piano economico o chi vuoi far notare una situazione critica in generale, risponde: “Co’ ’sti lumi d’ luna!”.
Cova fatta e gaggia morta
(Cova fatta e “gaggia” morta)
Il termine dialettale “gaggia” da solo non specifica niente, dal
momento che esiste la “gaggia brusca” cioè la ghiandaia e la “gaggia
da la coda lunga” cioè la gazza. Quella cui fa riferimento il proverbio
è la “gaggia brusca” cioè la ghiandaia. È questa un uccello di media
dimensione, di color grigio rossiccio, con le coprotrici delle ali striate
di nero e di azzurro. Questo uccello dalla livrea sgargiante si incontra
facilmente nelle nostre campagne dove nidifica ed è stazionario.
Questa “gaggia” è soprannominata “brusca” perché è scontrosa,
ombrosa e sospettosa a tal punto che il suo comportamento è diventato
proverbiale. Si dice infatti: “Permaloso comm’ la gaggia brusca”. È
permalosa a tal punto che se si accorge che qualcuno si aggira nei
pressi del suo nido lo abbandona specie se ancora non sono nati i
piccoli. Così osservando un nido recente di ghiandaia sui rami più
alti di un pioppo o di una quercia e non vedendo più il viavai della
ghiandaia è ovvio pensare: “Cova fatta e gaggia morta”.
Il nostro proverbio viene comunemente usato per indicare che
spesse volte chi costruisce la sua nuova casa non sopravvive a lungo
alla sua “cova”.
A volte il proverbio dice il vero, ma nella maggior parte dei casi
si tratta di persone ormai anziane che dopo tanti anni di sacrifici si
costruiscono una casa. E ad una certa età è facile... partire con la
casa o senza. Ci sono persone che hanno cercato di sfatare questo
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proverbio con un rimedio semplicissimo: non completano mai la
casa - magari lasciando incompiuto uno stanzino di poco conto - in
modo che non si possa parlare di “cova fatta”. Secondo costoro,
morire solamente perché la cova è fatta cioè completa è proprio
da... “gaggiotti!”.
Cristo i fa, po’ i compagna
(Cristo li fa, poi li accoppia)
Giuacchino e la Clurinda erano due vecchietti di Montevecchio
che in vita loro non fecero altro che risparmiare. Si privavano di tutto
pur di mettere da parte pochi spiccioli. Andavano nel bosco a far
la legna, andavano a badare le loro tre pecore per fare il formaggio
ed ogni centesimo veniva messo da parte. Giuacchino era vestito
sempre allo stesso modo anche la domenica e la gente quando lo
vedeva passare diceva: “Quello è uno che scordcarìa ‘I pidocchio
per pia’ la pelle” (Quello è uno che scorticherebbe il pidocchio per
prendere la pelle). E della Clurinda dicevano che non era da meno:
“Quella n’ magna pe’ n caca’” (Quella non mangia per non cacare).
C’era poi chi faceva notare che “Cristo i fa, po’ i compagna”
(Cristo li fa, poi li accoppia).
Cristo manda l’ freddo second’ i pagne
(Cristo manda il freddo, più o meno intenso, a seconda dei vestiti
che hanno le persone)
Secondo questa espressione Dio si comporta con comprensione
nei confronti di chi non ha di che coprirsi o ripararsi dal freddo.
In senso lato sta ad indicare che la miseria che affligge le persone
di solito è commisurata alle capacità di sopportazione delle stesse.
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Croce crocione
Formula di giuramento dei bambini che l’accompagnavano incrociando i due indici fra loro, mentre qualcuno dei presenti “guastava
la croce” ad indicare che credevano nel giuramento. Intanto chi
giurava recitava: “Croce crocione, ‘1 diavolo sul forcone e chi dice
la bugia non è figlio di Maria. Non è figlio di Gesù, quando muore
va laggiù; va laggiù da quel vecchiaccio che si chiama diavolaccio.
C’ sei nuto o t’ c’ han portato?
(Ci sei venuto o ti ci hanno portato?)
Il detto sta a significare: “Cosa sei venuto a fare?”; ma anche:
“Di cosa t’impicci?”.
Daj e daj:
la cipolla diventa l’aj
(Dagli e dagli:
la cipolla diventa l’aglio)
Questo detto viene usato per dire che insistendo si arriva a cambiare
l’andamento delle cose. Ma il cambiamento può avere sia risvolti
positivi che negativi.
Da ’na paja ne fa ’n pajaro
(Da ima paglia ne fa un pagliaio)
Si addice a chi esagera smisuratamente nel raccontare un torto
ricevuto.
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Daj ’na torqlata.
(Dagli un colpo con un bastone)
“Torqlata” deriva dal latino “torquere” (torturare) e significa
torturata o meglio tortorata o randellata.
Daj ’n mazzacunile
(Dagli una grossa botta alla nuca)
Il “mazzacunile” è il colpo forte e deciso che si usa assestare alla
nuca del coniglio per ammazzarlo.
Il detto si usa quando si sollecita qualcuno a farsi giustizia da solo
ricorrendo a maniere forti e decise.
Dammne ’na gemmna
(Dammene una giumella)
“Gemmna” (deriva dal vocabolo latino “gemina”, che significa
gemella): è il contenuto che sta nel cavo delle mani che sono gemelle
quando sono unite fra loro.
D’ botta o de stolzone
(Di colpo o di scossone)
Tradotto alla lettera è “di colpo o di scossone”, anche se l’espressione sta al posto di “in un modo o nell’altro, ma saltuariamente”.
Saltuariamente e in un modo o nell’altro si può fare una certa cosa
sotto forma di lavoro o di divertimento, ma saltuariamente si può
subire un certo danno per se stessi o per le proprie cose. Così c’è chi
lavora “d’ botta o de stolzone”, o chi ad esempio - usando scalpello
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e martelo - “d’ botta o de stolzone”, si da qualche martellata sulle
dita.
De ’n bove arpiassi ’n pelo!
(Di un bue potessi almeno riprendere un pelo!)
Capita a volte che qualcuno avendo fatto un cattivo affare o
essendo stato bidonato si renda conto di non riuscire a riprendere
il suo avere. A questo punto l’interessato si augura di riprenderne
almeno una piccola parte (‘n pelo), dal momento che non riavrà mai
l’intero (‘n bove).
D’inverno: sembla e cendra
(D’inverno: semola e cenere)
Era il vecchio detto diffuso nelle nostre campagne per indicare
che nella brutta stagione si consumava senza produrre. La semola e
la cenere sono i resti del grano e della legna.
In passato era sempre presente lo spauracchio della fame e frequentemente i nostri vecchi all’arrivo dell’inverno erano preoccupati
perché non erano sempre sicuri di “sbarcare O lunario”.
Disgraziata cla nora ndo’ c’è la matre e la fiala
(Disgraziata quella nuora dove c’è la madre e la figliola)
La sposa che va in casa e trova madre e figlia, cioè suocera e
cognata, non ha certo fatto un tredici. Almeno questo è il senso del
nostro proverbio.
È vero che quando accostiamo i termini “suocera” e “nuora”
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è come se parlassimo del diavolo e dell’acqua santa. È vero che
spesso ci sono incomprensioni e litigi, ma è anche vero che ci sono
tanti casi nei quali suocera e nuora vanno perfettamente d’accordo.
D’altra parte il termine “suocera” viene affibbiato a quelle donne che
in famiglia hanno sempre da ridire e riprendere gli altri componenti.
Quindi “suocera” è anche chi... non ha la nuora!
Disgraziate cle case ndo’ la galina canta e ’l gallo tace
(Disgraziate quelle case dove la gallina canta e il gallo tace)
Questo proverbio, molto in uso negli anni andati, fa riferimento
al ruolo del padre (gallo) e della madre (gallina). Ancora nel dopoguerra esisteva la famiglia patriarcale (i vari figli sposati vivevano
con il padre), nella quale il “capoccia” era colui che disponeva tutto
ed era il portavoce della casa. Quando a parlare era sua moglie o
peggio ancora erano le nuore, allora era segno che la grande famiglia
si stava sfasciando.
Do’ c’è ’l sono dle campane
c’enne anche le putane
(Dove c’è il suono delle campane
ci sono anche le puttane)
È un proverbio che veniva citato spesso nella nostra vallata, quasi
a significare che in ogni paese c’erano donne di facili costumi. Alla
nostra gente pareva di sentire una interessante conversazione fra le
diverse campane che suonavano. E seguendo ritmi e tonalità delle
campane la gente ripeteva ciò che le campane sembravano dire.
Mentre una campana diceva:
“Din, don, din, don,
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le donne del pian
enn tutte putan”
(Din, don, din, don,
le donne del piano
son tutte puttane)
Il nostro proverbio non va preso alla lettera perché anche nelle
famiglie dirette dalla madre (matriarcato) spesso le cose andavano
bene. Per dimostrare l’esistenza di residui di matriarcato basti pensare
a quelle famiglie nelle quali i componenti vengono ancora indicati
come: “Piero dia Peppa”, “Checco dia Giuanna” facendo così riferimento alla madre e non al padre.
Un’altra a distanza rispondeva:
“Anch da nò, anch da nò anch da nò, anch da nò”.
(Anche da noi, anche da noi, anche da noi, anche da noi).
Una terza, cercando di distogliere il discorso, pareva che dicesse:
“I dindi en bon, en bon, en bon; en tanti bon, en tanti bon.
(I dindi son buoni, son buoni, son buoni son tanto buoni, son
tanto buoni).
Ma le prime due campane ripetevano il loro ritornello.
Domine non son degno,
la scorsa arsomeja al legno
(Signore, non sono degno,
la scorza somiglia al legno)
La prima parte di questo proverbio riporta le parole che il Centurione disse a Gesù in un passo del Vangelo. La frase esatta, a onor
del vero, è: “Domine, non sum dignus” (Signore, non son degno).
La seconda parte che è quella che ci interessa è messa vicino alla
prima solo per assonanza o forse anche perché, messa vicina ad
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una frase di sapore latino, dava più autorevolezza al proverbio. “La
scorza arsomeja al legno” nel nostro caso è una asserzione che sta
ad indicare che due persone parenti fra di loro hanno rassomiglianza
in negativo sotto l’aspetto morale.
Du donne e ’na pignatta e la fiera è fatta!
(Due donne e una pignatta e la fiera è fatta!)
Questo detto fa riferimento alle donne in genere considerate spesso
a torto o a ragione un po’ troppo loquaci.
Secondo il detto citato bastano due donne che parlano di un argomento qualsiasi ad esempio di una pignatta e si avverte subito quel
continuo vociare tipico di una fiera con tanta gente.
Du gai ’nte ’n pollaro: n’ s’fa mai giorno
(Due galli in un pollaio: non si fa mai giorno)
E il gallo ad annunciare all’alba l’arrivo di un nuovo giorno.
Quando i galli sono più di uno non cantano all’unisono.
Il detto vuoi significare che quando a comandare sono due o più
non si conclude mai niente di buono.
Dura ’l ben volè fin ch’ dura ’l ben servì
(Dura il voler bene finché dura il ben servire)
D nostro proverbio può essere tradotto così: dura l’amore fin che
dura il servire. Fa riferimento a chi mostra di voler bene e portare
rispetto ad una certa persona fino a quando questa gli fa comodo (ad
esempio quando questa gli presta dei servizi senza alcun compenso,
gli fa dei regali o gli porta a casa la pensione). Quando vengono a
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mancare questi utili viene a mancare anche il voler bene. Natural mente
questo non è amore vero perché dura fino a quando viene “pagato”.
È albanese (o mezzo albanese)
L’Albania, pur essendo di fronte alle coste abruzzo - pugliesi, è
una nazione con pochi contatti con l’Italia e l’albanese è una lingua
per noi sconosciuta. Nella mente della gente comune questa lingua
è incomprensibile o quasi.
Chi è ubriaco generalmente si esprime in modo incomprensibile
e per questo si dice che è “albanese” o “mezzo albanese”, a seconda
del grado di ubriachezza.
È alto ’n pipino e ’n sassetto
L’espressione generalmente si usa quando si vuoi indicare sarcasticamente una persona bassa oltre misura.
A proposito di statura sono molti quelli che ricordano e citano la
battuta spiritosa di mio padre: “Chi è più alto di me è argiunto, chi è
più basso è tappo”. L’altezza ideale era... il suo metro e cinquantasette!
È a ’n tiro de schioppo
(È a un tiro di fucile)
Il piombo di uno schioppo (o fucile) arriva ad una distanza modesta:
intorno ai settanta metri un tempo ed ai cento e più metri oggi che
le polveri esercitano una maggior spinta.
Il detto sta per indicare che una certa strada, via, abitazione o
luogo in genere si trovano molto vicini.
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La distanza non va sempre presa alla lettera nel senso che se si
mettono a confronto due località una a mille chilometri e l’altra a
cinquanta chilometri si dice che la seconda rispetto alla prima “è a
‘n tiro de schioppo”.
E ardotto comme ’n lugignlo
(È ridotto come uno stoppino di candela)
L’espressione viene usata per indicare una persona alta ma talmente
magra da essere paragonata allo stoppino di una candela. La persona
può essere ridotta così per malattia o per stravizio.
È ardott’ tutt’ ’recchie
(È ridotto tutto orecchie)
Modo di dire per indicare una persona che in poco tempo è dimagrita visibilmente.
Di solito l’espressione viene usata maliziosamente per indicare
chi, sposato da poco tempo, è mal ridotto... dal troppo zelo per i suoi
doveri coniugali.
È rmasta per S. Antogno
(È rimasta per S. Antonio)
La donna che non si è sposaa si dice che è rimasta zitella; l’uomo
che non ha preso moglie è detto “giodco”. Zitelle e “giodchi” sonorimasti per S. Antonio. Con ciò si vogliono indicare persone che
vivono per proprio conto come S. Antonio Abate che viveva eremita
nel deserto.
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È comme Barbanera: c’induvina quanto nne sbaja
(È come Barbanera: c’indovina quando non sbaglia)
Si dice nei confronti di chi si vanta di prevedere ciò che succederà in futuro.
Ancora oggi circola nelle nostre campagne un libretto: “Barbanera di Foligno”. È un manualetto che contiene consigli sui lavori
dei campi e degli orti. Mette in evidenza le fasi lunari - ricordiamo
che molti lavori vanno fatti “a luna bona”, cioè a luna nuova - e le
previsioni del tempo. Queste previsioni essendo state fatte per un
intero anno tirano a indovinare e spesso sono sballate.
E comme da l’ mlarance ai porci
(È come dare le arance ai porci)
Il detto fa riferimento a chi non sa apprezzare qualcosa di pregiato
e viene paragonato al maiale che rifiuta le arance.
E comm’ di’ putana a la volpe
(È come dare della puttana alla volpe)
Certamente la volpe non si cura di eventuali “titoli” che le possono
essere affibbiati e continua ad agire come sempre. Così è quando si
rivolgono dei rimproveri a certe persone che si dimostrano indifferenti ad ogni richiamo.
E comme di’ sfacciato al gatto
(È come dare dello sfacciato al gatto)
Questo detto viene usato per indicare chi, continuando a compor-
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tarsi in maniera sfrontata nei confronti degli altri, non sente vergogna
e non si cura dei rimproveri. Ha valore simile a quello precedente.
È comm’ la gatta d’ San Giovanni: ’n pezzo ride e ’n pezzo piagne
(È come la gatta di San Giovanni: un po’ ride e un po’ piange)
Questo modo di dire non ha niente a che vedere con “la gatta” di
San Giovanni Battista, di San Giovanni Evangelista o di qualsiasi
altro San Giovanni; è stato coniato semplicemente per assonanza.
Il modo di dire che la gatta di San Giovanni ora ride ed ora piange
si usa quando si ha a che fare con persone che cambiano d’umore
da un momento all’altro, proprio come fanno di solito i bambini.
E comm’ la merda: più la muscini e più puzza
(È come la merda: più la rimesti e più puzza)
Il proverbio viene usato per far rimarcare che certe situazioni o
discussioni sarebbe bene lasciarle così come sono perché, sperando
di migliorarle, si finisce invece con il peggiorarle.
E un proverbio poco... odoroso, ma è sicuramente molto incisivo.
Il suo intento è quello di farci capire che in certe situazioni è più
prudente non rimestare la frittata.
E comm’ l’amore dla sora Vincenza:
lu’ la fa e lia n’ c’ pensa
(È come l’amore della Signora Vincenza:
lui la fa e lei non ci pensa)
Il detto è rivolto a chi ama - o dice di amare - senza essere ricambiato e spesso addirittura all’insaputa della persona interessata.
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È comme ’l cane di contadini: bàja da lontano
(È come il cane dei contadini: abbaia da lontano)
Il proverbio fa riferimento a chi sparla con altri, ma poi sta zitto
davanti al diretto interessato.
È comm’ l’ peq.re del diavlo: n’ c’ s’ pia nnè cacio nnè lana
(È come le pecore del diavolo: non ci si prende né cacio né lana)
Le pecore del diavolo secondo il nostro detto non danno i prodotti
che danno tutte le altre pecore: formaggio e lana. Certe persone
vengono paragonate alle pecore del diavolo perché non ci si prende
niente, ma soprattutto non si riesce a capire che cosa vogliono anche
perché cambiano parere con facilità.
Un detto simile a quello citato è: “N’ c’ s’ pia ‘n accapezzo” (non
ci si prende un accapezzo, o meglio, non ci si raccapezza niente).
Si dice quando parlando con una persona non si riesce a capire che
cosa voglia dire o quali idee abbia per la testa.
È comme ’l pidocchio: magna e svergogna
(E come il pidocchio: mangia e svergogna)
Il pidocchio come è noto è un insetto parassita e come tutti i
parassiti vive a spese degli altri. Questo parassita per eccellenza fa
vergogna alla persona che lo porta in testa.
Non ci sono insetti ma anche persone parassite che vivono alle
spalle degli altri. Questi parassiti sono sempre esistiti e già nelle
commedie greche e latine venivano messi in scena: persone sempre
pronte a fare i leccapiedi pur di scroccare pranzi e cene.
Il parassita è vecchio quanto il mondo e il nostro detto non fa
che confermare l’esistenza; semmai vuoi rimarcare che quasi
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sempre il parassita, oltre che vivere alle spalle degli altri, è sempre
pronto a “sputare nel piatto” nel quale mangia.
È comme ’n fantasma
(È come un fantasma)
È un detto ricorrente che fa riferimento a chi compare all’improvviso o a chi altrettanto all’improvviso scompare alla vista.
A proposito di fantasmi ecco una storia vera di tanti e tanti anni
fa raccontatami più volte dai diretti interessati.
La notte di S. Giovanni mio padre Amedeo, suo fratello Vincenzo
ed il loro inseparabile amico Romeo Borri - un omone di forza eccezionale - poco prima della mezzanotte si trovavano nel crocevia di
S. Cristoforo a un tiro di schioppo da Montalfoglio per giocare un
brutto scherzo ad eventuali malcapitati che si trovassero a passare
di lì verso la mezzanotte.
Era quella la notte delle streghe, ma loro pensarono di assumere le
sembianze di fantasmi. Avevano portato l’occorrente: tre teli bianchi
con buchi per gli occhi, due vecchi coperchi, un bidone mezzo sfondato ed una catena arrugginita.
La luna piena rischiarava la strada imbrecciata che si snodava
come un serpente su per i tornanti fino al paesetto di Montalfoglio
che sembrava addormentato lassù in cima al cucuzzolo. Una civetta
posata sul punto più alto del campanile della chiesetta di S. Cristoforo
ogni tanto faceva un breve volo e ritornava sul campanile emettendo
i suoi lugubri versi marcati come per segnare la presenza dei tre;
ma questi diedero poca importanza alla civetta e tantomeno al canto
insistente dei grilli. Aspettavano ormai da più di mezz’ora quando...
aguzzano la vista verso S. Vito. È da quella parte che proviene un
cigolìo di ruote di carro. Ognuno indossa subito il proprio lenzuolo e
prende il suo strumento: mio padre i suoi due coperchi, zio Vincenzo
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il bidone e un bastone da sbattere su quell’improvvisato tamburo,
mentre Romeo afferra la robusta catena.
Poco dopo ecco spuntare dal dosso - che si trova a poco più di
una decina di metri da loro - un grosso cavallo che arranca tirandosi
dietro un carro a quattro ruote con un uomo a cassetta.
Da dietro gli olmi che si trovano a pochi metri dall’incrocio
sbucano le tre figure bianche: due piccole ed una molto alta mentre
un fracasso infernale squarcia il silenzio della notte. Il carro si arresta
ed il fracasso aumenta. Dopo pochi minuti uno sparo e poco dopo
un altro e un altro ancora, poi silenzio assoluto. Pochi minuti dopo
si sente lo schioccare della frusta ed un “va là!” del carrettiere che
incita il suo cavallo a voler proseguire per la sua strada. Ora si sente
solo il cigolìo del carro e il rumore sordo degli zoccoli del cavallo
che lentamente prosegue dopo aver imboccato la strada della Gessara
che porta giù verso il ponte dei Sospiri.
Intanto i tre amici inseparabili sono corsi nel campo di grano
buttando frettolosamente i loro strumenti e liberandosi del lenzuolo,
ora strisciano verso il primo filare di viti e da lì scappano a gambe
levate verso San Lorenzo.
Avevano fatto male i loro conti: a passar di lì quella notte era
stato Antogno di Ciampicone, un carrettiere del luogo che ritornava
da Montevecchio trsportando una vecchia botte. Era un carrettiere
che non conosceva la paura, abituato com’era ad affrontare le
insidie della strada e gli eventuali malintenzionati.
Il giorno dopo all’osteria di Egidio il carrettiere grattandosi la testa
da sopra la berretta raccontava che la notte precedente aveva sparato
non so quanti colpi di rivoltella contro tre fantasmi - due piccoli ed
uno molto grosso - che aveva incontrato al crovevia di S. Cristoforo.
Rivolgendosi a Romeo che era lì presente disse: “Uno era grosso ed
alto come te!” Romeo rimase serio, sgranò i suoi occhioni ed ingoiò
tutto d’un sorso il vino rimasto nel bicchiere, mentre i presenti pensarono che il racconto fosse del tutto inventato.
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È comme ’n pulcino ntla stoppia
(È come un pulcino nella stoppia)
La stoppia è la parte della paglia che rimane nel campo dopo la
mietitura del grano o dell’orzo. Ai vecchi tempi il grano era molto
più alto delle diverse varietà coltivate oggi e la mietitura fatta a mano
lasciava nel campo paglia più alta di quella che resta oggi dopo la
mietitrebbiatura.
Un pulcino in mezzo ad una tale stoppia si trovava in difficoltà
per uscirne fuori. Così è per certe persone che in particolari situazioni incontrano grosse difficoltà a causa della loro timidezza o del
loro impaccio.
È comme riscalda’ la bretta a ’n morto
(È come riscaldare la berretta a un morto)
Quando una persona si ammala si ha cura di farla stare a letto al
caldo; una volta morta, il caldo purtroppo non serve più ed è inutile
riscaldargli il berretto da notte.
Il nostro proverbio si usa per dire che certe cose non possono
essere fatte quando ormai è troppo tardi. Il corrispondente del nostro
proverbio è quello in italiano: “Chiudere la stalla quando sono scappati i buoi!”.
E comme tira’ fori ’l sangue da ’na rapa
(È come tirare fuori il sangue da una rapa)
Questo modo di dire sta ad indicare una cosa che è impossibile che
si verifichi, così come è impossibile tirar fuori O sangue da una rapa.
Di solito l’espressione viene usata quando si vuoi indicare che
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da una certa persona non si può pretendere che paghi un debito dal
momento che non ha una lira.
E co’ va a foco?
(E cosa va a fuoco?)
Quando nei tempi passati scoppiava in campagna un incendio tutti
gli agricoltori del vicinato accorrevano per spegnerlo. Gli agricoltori si aiutavano fra di loro in qualsiasi occasione: dalla trebbiatura
allo sfalcio dello strame, dall’aratura alla semina, dall’aggiustare il
biroccio al rifare il pularo.
In caso malaugurato di incendio tutti si davano da fare.
A quei tempi la gente di campagna non sapeva nemmeno che
esistessero i pompieri ed erano loro che correvano il più in fretta
possibile per portarsi sul luogo dell’incendio.
Il nostro detto: “È co’ va a foco?” viene usato per dire: “Che
fretta hai?”.
E fatiga a fatiga’. E fatiga a lavora’!
(E fatica a faticare. È fatica a lavorare!)
“Fatiga”’ significa lavorare in genere.
“Lavora”’ non significa lavorare ma arare. L’aratura, fino agli inizi
degli anni Sessanta, era fatta con il “perdicaro” (aratro) tirato da uno
o due paia di buoi o vacche e durava dall’alba al tramonto per alcuni
mesi. Era un lavoro da schiavi e per questo arare era detto “lavora”’.
All’aratura generalmente provvedeva il garzone aiutato da un
ragazzetto che guidava la “stroppa” (secondo e/o terzo paio di vacche
che tiravano l’aratro contemporaneamente al primo paio) incitando
le vacche coi nomi di “Bio”’ (Bionda) e “Favori”’ (Favorita) ed i
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buoi con “Faico”’ (Faicosa, cosa fai?) e “Namora”’ (Innamorato).
Il garzone, che era un po’ lo schiavo della famiglia, durante l’ara
tura non vedeva l’ora che piovesse per potersi riposare un po’. Quando
pioveva il “capoccia” o la “vergara” commentavano amaramente:
“La notte sta ’1 sereno
e ’1 giorno piove.
È questa la stagion
che ’1 garzon vole”.
(La notte sta al sereno
e il giorno piove. È questa la stagione
che il garzone vuole).
“È fatiga a fatiga’” vuoi significare che il lavoro costa fatica. Il
detto viene rivolto quasi sempre agli sfaticati.
È fatiga a ferrà l’oca: c’ha l’ugna tenera
(È fatica a ferrare l’oca: ha l’unghia tenera)
La ferratura di bovini ed equini è iniziata nel Medioevo ed è
proseguita fino ai nostri giorni. Ma nessuno si è mai sognato di
ferrare l’oca, sia perché sarebbe una tortura inutile per l’animale sia
perché sarebbe di difficile attuazione pensando alla struttura palmata
dejle sue zampe. Il nostro modo di dire ci richiama proprio a questa
strana operazione quando vogliamo fare qualcosa che difficilmente
riusciremmo a compiere o a far compiere.
È lenta comm’ la cacarella
(È lenta come la cacarella)
Il detto è riferito a cose che in condizioni normali sono abbastanza
solide ma che per varie cause sono divenute quasi liquide; spesso fa
riferimento a persone lente nell’agire.
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È ’l viaggio de l’orto!
(È il viaggio dell’orto!)
L’orto si trova quasi sempre vicino a casa ed il tragitto dall’abitazione all’orto è molto breve.
Il detto viene usato in senso ironico per indicare una località molto
lontana e sta per dire: “Non è mica la distanza che c’è fra la casa e
l’orto!” oppure “Non è mica un viaggio tanto breve”.
Questo detto è esattamente il contrario di quello già citato: “E a
‘n tiro de schioppo”.
È mejo ch’ dole che nnè ch’ puzza
(È meglio che duole piuttosto che puzzi)
Il proverbio fa riferimento a chi, malato, si lamenta del dolore che
sente in una certa parte del corpo. Mentre l’ammalato si lamenta per
il dolore che lo affligge c’è sempre chi lo rincuora dicendo: “è mejo
eh’ dole che nnè eh’ puzza” intendendo con ciò che fin che si sente
dolore c’è una reazione del corpo al male e quindi si può sperare
nella guarigione, mentre quando la parte del corpo ammalata puzza
vuoi dire che è infetta e quindi c’è serio pericolo per la vita.
Il proverbio è un invito a chi sta male a voler sopportare pazientemente in attesa della guarigione.
È mejo ’n tristo cappello che ’na bona pioggia
(È meglio un cattivo cappello che una buona pioggia)
Quando piove e chi viene bagnato dall’acqua non è un agricoltore
certamente non pensa agli effetti benefici della pioggia per i campi,
ma pensa piuttosto che in quel momento gli farebbe comodo un
cappello qualsiasi anche se mal ridotto.
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Il proverbio si usa per dire che è meglio avere qualcosa per sé
piuttosto che avere benefici per gli altri.
E miga i caca ’n cane!
(E mica li caca un cane!)
Il detto, che fa riferimento ai soldi, si usa di solito quando si parla
di una discreta somma di denaro che non si ha a propria disposizione
e che deve essere sborsata subito o in breve tempo oppure quando
qualcuno della famiglia ha fatto una spesa di una certa rilevanza
senza avvertire il nucleo familiare e così via.
L’espressione può essere sostituita con quella italiana: “E mica
si trovano per strada!”.
È ’na bazza!
(È una bazza!)
La “bazza” è la mano fortunata alle carte quando si gioca a briscola.
L’espressione sta ad indicare una cosa di difficile realizzazione,
proprio come a briscola è difficile fare la bazza. Chi gioca la schedina del totocalcio lo fa perché spera di .vincere ma... “è ‘na bazza!”.
D’altra parte c’è anche chi assicura di aver avuto una bazza (o almeno
così crede) essendo riuscito a comprare qualcosa a basso prezzo.
E ’na gran giamblandana
(È una grande trasandata)
“Giamblandana” è considerata quella donna dall’aspetto trasandato che va sempre in giro per le vie del paese a chiacchierare e che
trascura le faccende di casa e la famiglia.
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È ’na ploia! Fa ’na ploia!
(È una lagna! Fa una lagna!)
I detti vengono usati per significare il ripetersi continuo dello
stesso argomento fino a diventare un tormento per chi ascolta.
È ’na scarpa e ’no tzocco
(È una scarpa e uno zoccolo)
Nessuno si metterebbe in testa di calzare una scarpa ed uno
zoccolo, semplicemente perché sono due cose del tutto diverse. D
detto viene usato per indicare cose che non sono in sintonia tra di
loro, più spesso il detto si usa per indicare un accoppiamento o un
accostamento sballato.
È ’n freddo!
Eeh! C’enn tutti i ucei scodati!
(È un freddo!
Beh! Ci sono tutti gli uccelli scodati!)
Quando in autunno si fanno sentire i primi accenni al freddo c’è
chi si lamenta dicendo che è proprio freddo. Ed allora c’è sempre
qualche scanzonato che fa osservare che il freddo è tanto intenso
che ha fatto cadere la coda a tutti gli uccelli.
Checco era il primo a mettere la maglia alla fine dell’estate quando
l’aria rinfrescava un po’ mentre la gente si metteva semplicemente
la camicia. Quando poi gli altri si mettevano la maglia, lui portava
già la giacca ed in seguito sopra la giacca ne metteva una seconda
ed anche una terza giacca. E tutti lo conoscevano col soprannome di
Settegiubbe. Ho avuto modo di incontrarlo per la prima volta casualmente su un colle di Montevecchio una domenica mattina di metà
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Ottobre mentre andavo a caccia. C’erano due segugi che facevano
la canizza dietro ad una lepre e qualcuno gridava: “Vien verso di
te!”. Io sentivo la canizza che si dirigeva verso una dirczione diversa
dalla mia e poco dopo sentii due spari. Andai da quella parte, mentre
i cani proseguivano la loro corsa per tutt’altra dirczione. Arrivai in
una stra-detta di terra proprio mentre due cacciatori stavano discutendo animatamente. “Ma comm hai fatt’ a buga’?” (Ma come hai
fatto a spadellare?). “N’ m’è gitta su bene la doppietta” (Non sono
riuscito ad impostare bene la doppietta!”. “Con tutt’ chi pagni ch’ c’
hai! Già! N’ t’ chiamariene Settgiubbe!” (Con tutti quei panni che
hai! Già! Non ti chiamerebbero Settegiubbe!”).
È ’n freddo che pela i gatti
(È un freddo che pela i gatti)
È un modo di dire usato per significare che è un freddo pungente
fuori della norma.
Enn comm quei d’ Sasferrato: culo rotto e carcerato
(Sono come quelli di Sassoferrato: culo rotto e carcerato)
I proverbi a volte come nel nostro caso possono sembrare sfacciati,
ma l’intenzione è sempre buona. Ho detto “possono” perché invero
quel “culo rotto” sta ad indicare i pantaloni strappati nel sedere, che
si potevano vedere un tempo addosso alla gente povera.
È necessario fare anche un’altra precisazione: Sassoferrato viene
citato come potrebbe essere citato un paese qualsiasi; qui si tira in
ballo Sassoferrato semplicemente perché fa rima con “carcerato”.
Il proverbio sta a significare che chi è povero o chi ha subito una
umiliazione spesso finisce con il subirne anche altre.
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Enn d’Acqualagna: Crist’ i fa, pò i accompagna
(Sono di Acqualagna: Cristo li fa, poi li accoppia)
Anche in questo caso Acqualagna viene citato solo per comodità
di rima. Il nostro proverbio vuoi ricordarci che certe persone hanno
come amici chi la pensa o agisce come loro. A volte il proverbio fa
riferi-metno a persone che si sposano con difetti fisici simili.
Il proverbio è antichissimo: basti pensare al “similes cum similibus” (simili con i simili) degli antichi Romani.
Enn fnite l’ noce a Bacucco che c’ n’ aveva sett’ solari!
(Sono finite le noci a Bacucco che ce ne aveva sette solai!)
Bacucco è un nome che ci richiama alla mente la parola “cucca”,
usata dai bambini per indicare la noce. Bacucco dunque è sinonimo
di noci e questo signore doveva averne tante se il proverbio ci dice
che ne aveva riempite sette soffitte. Bacucco doveva essere di manica
larga se a forza di regalarle a questo ed a quello un brutto giorno
rimase a secco. Il nostro proverbio viene usato quando una persona
o un gruppo di persone largheggia più del dovuto e prima o poi si
ritrova senza una lira.
Dante Alighieri nel suo viaggio nell’Aldilà trova gli spendaccioni nel quarto cerchio dell’inferno insieme agli avari, perché ad
entrambi è mancato il senso della misura sia nello spendere che
nell’accumulare il denaro. Il proverbio è un invito a voler meditare
sul senso della misura.
E notte e n’ c’è ’n pel d’erba
(È notte e non c’è un filo di erba)
Il detto sta ad indicare che si è fatto buio e non si è provveduto
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all’erba per i conigli. La locuzione più in generale significa che è la
fine della giornata e ancora non si è concluso niente.
È ’n passro d’ cova: becca su le mane!
(È un passero di cova: becca sulle mani!)
Un passero ancora nel nido può essere allevato dall’uomo e in
alcuni casi, anche se adulto, continua a beccare sulle mani.
Il nostro proverbio si usa per indicare persone un po’ troppo ingenue
che si fidano ciecamente degli altri e spesso si lasciano raggirare; più
frequentemente il detto si usa per indicare persone che “beccano”
cioè che credono a tutto quello che si dice anche quando è evidente
la non veridicità di una certa cosa.
E ’n... Signor c’ guarda!
(È un... Signore ci guardi!)
Il detto va più esattamente tradotto così: è un elemento... che il
Signore ci guardi dall’incontrarlo! È come dire: Tizio è una persona
che semina scompiglio nella normale vita delle persone.
Di solito il detto viene usato per indicare un bambino (o una
bambina) di pochi anni che inizia ad avere una certa autonomia e
per questo, senza rendersi conto, mette a soqquadro la casa.
È ntel fior del bel canta’
(E nel momento giusto per fare una certa cosa)
Si dice ad esempio che è “ntel fior del bel canta’” una ragazza
che si trova nell’età giusta per prendere marito.
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Entra la Quaresima, entra l’inverno
Secondo questo proverbio - uno dei pochi in lingua italiana -l’inverno va dietro alla Pasqua e quindi non c’è da illudersi che il freddo
finisca anche se si è in aprile. Questa è una previsione che riguarda
un ristretto periodo dell’anno; per conoscere l’andamento meteorologico di ogni mese occorre, secondo una convinzione popolare, tener
d’occhio i “giorni contarci” dei quali ho già parlato a proposito del
proverbio “A la Candelora da l’inverno semo fora”.
Questi “giorni contarci” termometro dell’andamento stagionale
dell’intero anno.
È passato pel bugo dla gattara
(È passato per il buco della gattaiola)
Il buco della gattaiola era un piccolo sportello di circa 15 cm.
che si trovava in un angolo basso della porta d’ingresso della casa.
Era incernierato nel lato superiore ed oscillava in avanti e indietro.
Serviva per far passare il gatto in qualsiasi ora del giorno e della
notte. Naturalmente come si può ben immaginare era comodo per
il gatto, ma un po’ meno per i padroni di casa: pensiamo al vento
freddo che entrava in inverno o alla polvere che entrava in estate,
senza contare i vari insetti ed animaletti.
Il nostro detto si usava nei confronti del bambino che non era
stato promosso o, come si diceva allora, che non era “passato”. Così
quando ad un genitore veniva chiesto: “È passato sto’ monello?” (È
stato promosso questo ragazzo?). La risposta poteva essere: “Sci...
pel bugo dia gattara!”...
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È più facile pia’ ’n ape co’ ’na goccia d’ miele che co’ ’na bigonza
d’aceto
(È più facile prendere un’ape con una goccia di miele che con
una bigoncia d’aceto)
II proverbio non ha bisogno di spiegazioni, semmai dovrebbe essere
oggetto di riflessione per tutti, specie da parte di chi, nei confronti
degli altri, non sempre fa uso di quella “goccia di miele” (un minimo
di bontà), ma pensa di conquistare o sottomettere gli altri con l’uso
di una “bigonza d’aceto” (violenza e prepotenza)
È più vicino l’ dente che nn è ’l parente
(È più vicino il dente che non il parente)
Questo detto viene usato tutte le volte che si ha qualche boccone
ghiotto e c’è l’intenzione di lasciarlo per una certa persona, ma si
finisce poi col mangiarlo.
In senso lato il detto sta ad indicare che troppo spesso si pensa
per se stessi dimenticando che esistono anche gli altri.
È sgulmito
(È striminzito)
“Sgulmito” è un termine che sta ad indicare un animale che non
ha la pancia perché è molto tempo che non mangia.
Si potrebbe tradurre con: striminzito, anche se il termine non è
del tutto corrispondente a quello dialettale.
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È svelto comme ’l gatto a magna’ l’ajo
(È svelto come il gatto a mangiare l’aglio)
Tenuto conto che il gatto non mangia l’aglio, il detto viene usato
per mettere in evidenza una persona lenta per natura o una persona
lenta nel fare una certa azione. Il detto sta anche ad indicare una
persona che dimostra di non aver proprio voglia di fare una certa cosa.
E tutt’ a ’n culo e ’n par d’ brache
(È un tutt’uno come un sedere ed un paio di brache)
Le brache erano usate dai popoli barbari antichi, mentre non
le usavano Greci e Romani. Questi ultimi finirono con l’adottarle
quando vennero a contatto con i Celti e con i Germani.
Oggi al posto di “brache” si usa il termine “pantaloni”.
Il detto “formano un tutt’uno come sedere ed un paio di brache” si
usa ironicamente nei confronti di due persone che si vedono spesso
insieme e che vanno perfettamente d’accordo o almeno così sembra.
È tutto voce e penne comme l’ cucco
(È tutto voce e penne come il cuculo)
In maggio le nostre campagne risuonano dei versi sonori e monotoni del cuculo. Sembra un uccello grosso mentre in realtà è molto
più piccolo di quanto sembra; ci traggono in inganno le sue penne e i
suoi versi. Il detto si addice a chi fa tante chiacchiere ma po’chi fatti.
È una da sette soldi
Sette soldi non erano neanche mezza lira, perché per formarla ce
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ne volevano dieci. E la donna che aveva come prezzo sette soldi era
davvero una donna da poco. Ancor oggi sta ad indicare una donna
di facili costumi da pochi spiccioli.
Fa a cica
(Intraducibile)
“Cica” è un qualcosa di nessun valore.
Fare a cica significa far durare il più a lungo possibile un qualcosa
ridotto ai minimi termini.
L’espressione veniva usata spesso in passato quando ad esempio si
invitavano i bambini a mangiare il pane e “fare a cica” di companatico.
Fa casa d’inverno
(Fa come se fosse in una casa dell’inferno)
Il detto si usa per indicare chi strepita, urla ed impreca fuori misura.
Un detto simile è: “Fa casa del diav.lo” (fa come a casa del diavolo).
Nel primo detto si evidenzia il luogo dove la casa si trova - inferno
-, nel secondo si fa riferimento a chi abita in quella casa - diavolo -.
Entrambi i detti indicano persone che si comportano come se fossero
possedute dal diavolo, tanto è anormale il loro comportamento. Ma
a volte questi detti servono per indicare semplicemente chi “fa un
chiasso indiavolato”.
Fa crede ch’ Cristo è mort’ dal freddo
(Fa credere che Cristo è morto dal freddo)
Questa espressione viene indirizzata nei confronti di chi cerca di
far credere cose del tutto inventate come nel caso di chi fa credere
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che Cristo sia morto dal freddo e non in croce.
Ad indicare che una certa cosa è del tutto inverosimile si usa
l’espressione: “Fa crede eh’ Cristo è mort’ dal freddo”, seguita dal
commento “e 1’ legna erne tutt’ 1’ sua”, proprio per rafforzare l’idea
che si tratta di una bugia bella e buona.
Facce ’n mann.co d’foco
(Facci un manico di fuoco)
Spesso c’è chi crede di saper fare delle cose solo perché ha visto
qualcuno farle. E così prende gli arnesi e si mette al lavoro. In genere
si tratta di usare il legno, anche perché questo materiale si lavora più
facilmente rispetto ad un altro materiale. Ecco dunque il nostro Tizio
all’opera anche se non ha le minime cognizioni della lavorazione del
legno. I risultati sono facilmente immaginabili e così c’è sempre chi
suggerisce cosa fare del lavoro mal riuscito: “Facce ’n mann.co d’
foco” che è come dire: “Quel legno puoi solo bruciarlo!”.
Faccia tosta è mtà dla spesa
(Faccia tosta è metà della spesa)
Chi ha la faccia tosta spesso riesce con la sua sfrontatezza ad avere
una certa cosa a poco prezzo, anche perché spesso il venditore (o chi
regala) vuole levarsi di torno la faccia tosta.
Fa la maffia - Fa la vernia
Questi due modi di dire si equivalgono in quanto a significato.
Entrambi infatti significano: fare il lusso oltre le proprie possibilità, mettersi in mostra per fare invidia al prossimo.
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Fa la terra pel cece
(Prepara la terra per il cece)
Il detto si riferisce a persona o animale che è sul punto di morire.
È come dire che il suo corpo renderà fertile il terreno nel quale si
potrà piantare il cece.
Fa ’l bregno
(Fa il broncio)
“Bregno” o “trocco” è la vaschetta di forma rettangolare realizzata
in cemento o scavata in un blocco di pietra che serve per contenere
acqua o pastone per gli animali in genere.
Il “trocco” era l’immancabile contenitore che si trovava in ogni
stalla per maiali.
il modo di dire “fa ’l bregno” significa: “dispone la bocca a mo’
di vaschetta”, che è proprio l’atteggiamento del bambino che sta
per piangere.
Falciatura, fatiga dura
(Falciatura, fatica dura)
Era questo il detto che veniva ripetuto in campagna all’approssimarsi della fienagione. Certamente uno dei lavori più pesanti nella
vita contadina di un tempo era quello della falciatura dell’erbaio o
delle stoppie. Prima di iniziare questo lavoro i falciatori con l’uso
di una piccola incudine ed un apposito martello battevano la lama
della falce fienaia per renderla tagliente. Questo lavoro veniva fatto
ogni giorno della falciatura durante le ore di riposo e all’ombra di un
grande albero o di un pagliaio. I falciatori nel campo si disponevano
in riga ad un paio di metri l’uno dall’altro. Iniziava il primo che era
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quello che faceva l’andatura, poi seguiva il secondo e man mano
tutti gli altri. Chi si trovava in mezzo non poteva rallentare perché
così facendo faceva rallentare tutti quelli che lo seguivano. Quando
sembrava che la falce non tagliasse a dovere ci si concedeva il tempo
necessario per affilarla usando la cote che era infilata in un apposito
fodero fissato alla cinghia dei pantaloni.
Il segreto per lavorare di meno e meglio era quello di battere bene
la falce ed essere abili nell’affilarla con la cote.
Ricordo ancora la filastrocca dei falciatori:
- Fugge erba che ecco i falciatori.
- Co’ enne vecchi o giovni?
- Enne giovni, n’ sanne nnè batte nnè cota’.
- Basso la testa e i lascio passa’.
- Fugge erba che ecco i falciatori.
- Co’ enne vecchi o giovni?
- Enne vecchi, san ben batte e mejo cota’.
- E difficile che m’ posso salva.
Fa l’ bucce
(Fa le bucce)
Si dice di chi non si accontenta mai, ma soprattutto di donna o
uomo che rifiuta un buon partito. Ma il detto è riferito anche a chi
non accetta una situazione favorevole.
Fa l’fiare del foco
(Fa le fiamme del fuoco)
Tipico di chi si arrabbia molto e al quale sembra quasi che dagli
occhi escano le fiamme del fuoco.
Il detto sta ad indicare una persona arrabbiatìssima.
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Fa ’l macacco
(Fa il macaco)
Macacco (dal francese “macaque”) è la storpiatura del termine
“macaco” che è una scimmia senza coda.
Il detto letteralmente significa: “persona che scimmiotta”. In
genere chi “fa ‘1 macacco” è una persona che vuoi farsi notare ad
ogni costo, magari per il mezzo che usa o per il vestito che indossa.
Si tratta sempre di persona goffa e di poco conto.
Fa ’l magalotto
(Fa il malloppo)
Chi “fa ’1 magalotto” sottrae illegalmente al gruppo cui appartiene una parte degli introiti che andrebbero equamente ripartiti o
che dovrebbero confluire nel capitale del gruppo e lo fa in modo
che nessuno se ne accorga (o quasi). D detto può anche indicare chi,
semplicemente risparmiando ogni giorno, riesce a mettere da_ parte
qualcosa senza che gli altri se ne accorgano.
Fa ’l paino
(Fa il damerino)
“Paino” (dal latino “paginus”, derivante da pagus = borgo) è
sinonimo di provinciale, ma più esattamente va tradotto: bellimbusto
provinciale. Paino è chi ostenta un vestire ricercato e vistoso, ma
anche maniere affettate per mettersi in mostra di fronte agli altri.
C’è anche l’espressione: “Fa ’na spainata” che indica sia il
giovanotto che passeggia con una bella ragazza sia l’anziano che
fa mostra di sé andando a passeggio con una ragazza più giovane.
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Fa l’petrie
(Fa gli imbuti)
Il detto nella sua traduzione letterale non significa niente, ma ha
valore onomatopeico (imitazione del suono) e, nel nostro caso, per
il ripetersi di quel “pe... pe... pe...” di “petrie”.
“Fa 1’ petrie” chi pronuncia male e con difficoltà le parole. Può
trattarsi di persona che balbetta o tartaglia. La balbuzie è generalmente
un difetto congenito che dipende da una imperfezione degli organi
vocali, ma si può anche verificare in casi di ira, di vergogna o simili.
La persona che tartaglia ripete la sillaba iniziale di una parola più
volte come per prendere la rincorsa ed arrivare in fondo alla parola
il più presto possibile.
“Tartaglia” era così soprannominato Nicola Fontana, illustre matematico del ‘500, proprio perché tartagliava. Ma Tartaglia era anche
una maschera napoletana che impersonava il domestico astuto
che tartagliando faceva muovere a riso gli spettatori.
Fa ’tonto pr avè la crescia
(Fa il tonto per avere la crescia)
È un modo di dire che sta ad indicare una persona che fa la sorniona
per sapere o per ottenere qualcosa. Spesso la persona che assume
questo atteggiamento fa finta di non capire per saperne di più su un
certo argomento, specie su certe indiscrezioni.
Si tratta in genere di notizie che sotto sotto sono note ad una certa
cerchia e “chi fa ’1 tonto pr avè la crescia” le conosce già, ma vuole
una ulteriore riconferma.
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Fa ’na bella sbaioccata
(Fa una bella sbaioccata)
H baiocco era una monetina di rame del valore di 5 centesimi in
uso da noi al tempo dello Stato Pontificio. In seguito alla Unificazione
d’Italia il baiocco fu sostituito con il soldo che era dello stesso valore.
Sbaioccare di per sé significa spendere allegramente baiocchi, ma
nel detto qui citato “fare una bella sbaioccata” significa incassare
molti soldi.
Fa ’n fatto e du’servizi
(Fare una cosa che serve per due scopi)
Il detto viene usato allo stesso modo del “prendere con una fava
due piccioni”.
Fa più uno a spende che cento a mucchià
(Fa più uno a spendere che cento ad ammucchiare)
Il nostro proverbio, molto eloquente come tutti i proverbi, è di
facile comprensione: uno spendaccione riesce facilmente a dissipare
quanto è stato risparmiato (mucchiato) da più persone. È opinione
diffusa che il nonno accumula, il padre amministra saggiamente la
piccola o grande fortuna vivendo una vita tranquilla e il nipote che
non sa da dove vengono quei soldi spende con facilità e si ritrova
prima o poi senza una lira.
Spesso però il passaggio di mezzo non c’è: il padre accumula e
il figlio annulla i sacrifici del padre.
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Farà la fin del gatto d’ Goffo ch’è morto linito nten cantone
(Farà la fine del gatto di Goffo che è morto sfinito in un cantone)
“Linito” non è traducibile, ma “sfinito” è il vocabolo italiano che
più gli si avvicina. Si racconta che il gatto di Goffo fosse famoso per
le molte gat-tine che corteggiava.
Ma come si può ben immaginare sul finire della primavera finì i suoi
giorni sfinito in un cantone della cucina, proprio vicino al focolare.
Il detto è un ammonimento a chi “va a ruspo”.
Farà la fine dla capra d’ Baldella ch’è gitta al monte e è arnuta
gravida
(Farà la fine della capra di Baldella che è andata al monte ed è
ritornata gravida)
Un tempo il becco più vicino da noi era sul monte S. Angelo;
quando una capra si portava lassù, generalmente ritornava gravida.
Questo detto si usa quando certe donne si allontanano da casa
con un pretesto qualsiasi. Qualcuno malignamente già immagina la
fine e cita questo detto.
Fatiga, vecchio, che c’hai la pelle dura
(Lavora, vecchio, che hai la pelle dura)
Una volta non c’era la pensione per chi aveva lavorato per tanti e
tanti anni. E quasi sempre i vecchi lavoravano fino all’ultimo respiro.
Giuanne di Fontebona, frazione a monte di San Vito, soprannominato il “Gobbo”, abitava in una capanna in mezzo ad un bosco a
ridosso del torrente.
Anche se ormai vecchio non conosceva feste, lavorava dalle prime
luci dell’alba fino al tramonto. Per questo era
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conosciuto come “il Selvatico”. La sua pelle era più simile a quella
del rospo che a quella di un uomo. Le sue mani erano semichiuse
e non si aprivano più di tanto; faceva un lavoro talmente inumano
che una bestia forse non sarebbe sopravvissuta. Ma il Gobbo continuava a lavorare dicendo che questo era non solo il suo destino ma
il destino di tutti. Anche lui però nei momenti di sconforto cantava:
“Fa-tiga, vecchio, che c’hai la pelle dura”.
E lo faceva prima in sordina e poi sempre più forte. I vicini dicevano che quando il Gobbo cantava, il giorno dopo cambiava il tempo.
Erano contenti di avere il Gobbo dalle loro parti: chi altri sapeva
prevedere i cambiamenti del tempo?
Non certo Barbanera che secondo loro c’indovinava... quando
non sbagliava!
Fa tutt’ pappa e bomba (o bumbo)
(Fa tutto pappa e bumbo)
Pappa e bumbo sono due termini usati dai bambini per indicare
cibo e vino. Chi “fa tutt’ pappa e bomba” è persona che mette al primo
posto nella scala dei valori il mangiare ed il bere senza preoccuparsi
delle altre necessità e soprattutto senza nessuna preoccupazione per
il futuro che a volte riserva tempi di vacche magre.
Oggi chi pensa solo a mangiare e bere passa quasi sempre inosservato, ma un tempo era facilmente individuabile anche quando
passava per strada perché i meno abbienti se accontentavano la gola
non potevano vestirsi decentemente, tanto è vero che circolava l’altro
detto: “Bocca unta e culo squartato” che significa: “Chi ha la bocca
unta (chi pensa solo a mangiare) ha sempre i pantaloni squarciati
nel sedere”.
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Fin che dura
fa verdura
Una certa cosa dopo averla usata per lungo tempo ci si rende conto
che ormai è alla fine, ma si continua ad usarla fin che dura perché
ancora fa la sua finzione (fa verdura).
Il modo di dire viene usato per significare che quella certa cosa è
sì ormai verso la fine, ma si spera che ancora duri per un po’.
Fin che la bocca pia e ’l culo rende, acidenti a l’ medcine e chi
le vende
(Fino a quando si ha appetito e si digerisce facilmente accidenti
alle medicine e ai farmacisti)
Questo proverbio, peraltro molto colorito, vuole semplicemente
ribadire una cosa abbastanza ovvia: chi ha appetito e digerisce facilmente se ne frega delle medicine e di chi le vende.
Fin ch’ piove n’ s’ secca gnente
(Fintanto che piove non si secca niente)
La campagna - si sa - ha sempre bisogno di acqua ed è ben accetta
dagli argicoltori, ma a tutto c’è un limite ed in caso di eccessi c’è
chi completa questo proverbio aggiungendo: “Ma s’infradia anicò”
(si infradicia ogni cosa). E la pioggia, guarda caso, cade abbondante
sempre nei mesi di aprile e maggio, i mesi nei quali i nostri agricoltori
sono interessati all’erbaio che ha bisogno di acqua, ma sono anche
interessati all’erba tagliata che deve seccarsi.
Il fatto è che gli stessi agricoltori si rendono conto della contraddizione: c’è chi desidera la pioggia e chi vuole il sole, quando non
capita che lo stesso agricoltore vorrebbe la pioggia per un campo
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ed il sole per un altro. Ma poi tutti si consolano con il dire: “Quel
lassù fa come ha fatt’ sempre”. C’è anche chi molto filosoficamente
dice: “Si piove farimm com quei d’ Milano” (Se piove faremo come
quelli di Milano). E chi chiede come fanno quelli di Milano, gli viene
risposto: “La fann ni giù!” (la fanno venire giù!)
Fino a Natale n’ c’è nnè freddo nnè fame.
Da Natale in là fredd e fame in quantità
(Fino a Natale non c’è né freddo né fame.
Da Natale in là freddo e fame in quantità)
Questo proverbio è antico come la fame e il freddo, due calamità naturali che hanno sempre preoccupato l’uomo fin da quando
è comparso sulla faccia della terra.
L’uomo delle caverne non conosceva il fuoco o altri mezzi di
riscaldamento e si cibava di ciò che la natura gli offriva spontaneamente. Sopravvivere all’inverno era per lui sempre un’impresa.
Con il passare dei millenni si appropriò del fuoco ed imparò a
coltivare i campi, ma per varie ragioni (povertà, liti, carestie...) spesso
si trovò a dover affrontare lo spauracchio della fame e talvolta anche
quello del freddo.
Il proverbio, di attualità da noi fino agli anni Cinquanta, voleva
mettere in evidenza che fino a Natale (cioè nei primi mesi dopo O
raccolto) la fame non si faceva sentire e spesso neanche il freddo,
ma dopo Natale... si “batteva il trentadue” e soprattutto si incominciava a soffrire la fame.
Fori ’l verde
(Fuori il verde)
Era il gioco che si faceva nell’ultima quindicina che precedeva la
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Pasqua. Consisteva nel mostrare una foglia d’edera e pronunciare la
formula “Fori ‘1 verde”. L’interpellato, già d’accordo per il gioco,
mostrando a sua volta una foglia d’edera (spesso era fermata all’interno della camicia o maglia con una spilla) rispondeva: “Fori ‘I tua
che ‘I mia n’ perdei” (fuori il tuo che il mio non perde). Chi veniva
sorpreso senza foglia d’edera doveva pagare la posta già stabilita in
precedenza e... il gioco continuava.
Fortunato comme ’n pesce nten pajaro
(Fortunato come un pesce in un pagliaio)
I pesci si sa vivono solo ed esclusivamente in acqua e naturalmente il colmo della sfortuna per loro sarebbe finire in un ambiente
senz’acqua, se poi finissero in un ambiente completamente asciutto
come un pagliaio, allora sarebbe il massimo della sfortuna.
Il detto viene citato per indicare sia una persona perseguitata
dalla sfortuna sia chi viene accidentalmente a trovarsi in una situa
zione sfavorevole.
Gente trista, nominata e vista
(Gente cattiva, nominata e vista)
Quando si parla di qualcuno e questo arriva proprio nel bel mezzo
del discorso, si dice: “gente trista, nominata e vista”.
Il detto viene citato non per rimarcare che quella certa persona
sia cattiva, ma semplicemente per dire che proprio in quel momento
si stava parlando di lei. Certamente a volte c’è anche un pizzico di
malizia nell’indicare il nuovo arrivato, ma quando lo si vuoi fare
si usa un altro detto: “Quant’ s’ parla del diavlo j spunta la coda”
(quando si parla del diavolo gli spunta la coda), e se si vede spuntare
la coda... il diavolo non è molto lontano!
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Gì’ a fa’ la scampanata
(Andare a far la scampanata)
La scampanata era il prodotto dei vari suoni emessi da campanacci, barattoli e simili. Questa strana orchestra era messa insieme dai
buontemponi del posto ed aveva luogo la prima notte di matrimonio
davanti alla casa di vedovi o vedove che si erano risposati in avanzata età. Non era raro il caso che lo sposo per disperdere i musicanti
facesse uso del fucile sparando in aria a scopo intimidatorio.
Gì’ a garavella’
(Andare a racimolare)
Spesso dopo la vendemmia si andava lungo i filari alla ricerca
di qualche grappolo d’uva che poteva essere rimasto nascosto sotto
i pampini. Si poteva anche andare a “garavella”’ le pannocchie del
gra-noturco dopo il raccolto e così per altri prodotti agricoli. Generalmente chi andava a “garavella”’ erano i “nolanti” o “casanavolo”
(i paganti il nolo di casa), i più poveri delle nostre campagne fino
al dopoguerra.
Gì’ a pia’ l’acqua salata
(Andare a prendere l’acqua salata)
Durante l’ultima guerra il sale era diventato introvabile e così si
usava l’acqua salata (clorurata) che si andava ad attingere in certi
luoghi, come nelle vicinanze di Fratterosa in località Profondo. Ci si
metteva in fila e spesso si attendevano dei giorni prima che arrivasse
il proprio turno! L’acqua poteva essere fatta bollire fino a completa
evaporazione e così nel fondo del recipiente rimaneva il sale che a
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dir il vero rassomigliava per colore più alla fuliggine che al sale,
tanto era nero!
Si faceva grande uso anche di acqua “cucia” (bicarbonata) che
facilitava la cottura dei legumi. Il fango dell’acqua “cucia” inoltre
veniva usato per curare mali alle zampe degli animali, cospargendolo
abbondantemente nelle parti interessate. Questo impiastro era detto
“lubacata” (da “Lubachi”, campi dei quali era tipica questa creta).
Gi’ a pr aria
(Andare per aria: fallire)
Quando il sole all’orizzonte coperto da una grande nuvola, lascia
passare il suo primo raggio di luce ci sembra che questo raggio che
sale verso l’alto sia come impazzito.
Chi improvvisamente perde tutti i suoi averi viene paragonato al
raggio di luce che va verso l’alto; si dice che una persona va per aria
forse perché non ha più niente sulla terra.
Un tempo i fallimenti erano rari. E chi falliva veniva additato con
disprezzo dalla gente. Era un marchio infamante che spesso coinvol
geva anche i figli. Non era raro sentire delle espresioni come questa:
“Tu stai zitto, sei il figlio di un fallito!”.
Gi’ a ruspo
(Andare alla ricerca di avventure amorose)
Gindo e nindo
(Andando e tornando)
Le due forme verbali sono fuori di ogni uso, ma l’espressione
serve per prendere in giro chi vuole parlare in lingua italiana e non
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sa farlo. Chi parla come sa parlare senza voler sembrare quello che
non è non viene mai deriso, ma chi vuoi parlare “aguzzo” e dice
degli sfondoni è oggetto di risa e di prese in giro.
Gi’ ’n curina
(Andare in curina)
La curina è lo scirocco, vento caldo che spira in estate dalla Siria
e che può causare il ribollire del vino, facendogli perdere il suo
colore e sapore.
Il detto sta ad indicare una persona che perde il controllo e si
arrabbia.
Gi’ in ramenga
(Andare in dispianto)
Il termine “ramengo”, tipico della parlata veneziana, viene usato
per indicare il bastone che serve per andare a ramingo. Chi va ramingo
è una persona che va errando per il mondo senza una dimora fissa,
proprio come fanno gli zingari.
Un tempo per i poveri che non avevano niente non c’era altra
alternativa che quella di fare il mendicante. Era la professione di
chi bussava di porta in porta per chiedere qualcosa in elemosina: un
tozzo di pane, qualche vecchio vestito, pochi soldi... A quei tempi non
passava giorno che qualcuno non bussasse alla porta, ma di solito si
aveva compassione solo degli storpi o dei vecchi perché ai giovani
si era soliti ripetere: “Non ti vergogni di andare per l’elemosina? Vai
piuttosto a lavorare!”.
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Gira come l’ombra del pajaro
(Gira come l’ombra del pagliaio)
Il pagliaio nei giorni di sole proietta il suo cono d’ombra entro un
ristretto raggio di azione e la sua ombra gira seguendo il movimento
apparente del sole. Questo movimento dell’ombra, lento e ristreto
nello spazio, viene paragonato a quello di certe persone che non
riescono a muoversi più di tanto o a causa della loro avanzata età o
a causa di qualche malattia.
Gira comm ’na bizzarola
(Gira come una trottola)
Tutti sanno che la trottola è un giocattolo di legno di forma cilindrica e con una punta conica; si avvolge strettamente con uno spago
e tenendone il capo in mano si scaglia sul pavimento ritirando a sé
lo spago perché giri velocemente sulla punta. Si usa colpirla poi
con lo stesso spago che viene usato come frusta per farla girare più
velocemente.
Il nostro detto fa riferimento a qualcosa che gira vorticosamente;
esprime un senso di meraviglia o una constatazione di fatto.
Giust’ giust’ comme a ’l nozze d’ Cacone
(Giusto giusto come alle nozze di Cacone)
Chi fosse questo signore non è dato a saperlo.
Il detto sta ad indicare un qualcosa che, sebbene non calcolato
in precedenza, all’atto pratico risulta esatto, preciso, giusto, senza
eccesso né difetto, come se tutto fosse stato calcolato alla perfezione.
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Guarda che piangle!
(Guarda che piante di piedi!)
Come dire: “C’ha i piedi di San Paolo” (Ha i piedi di San Paolo).
Si immaginava che S. Paolo dovesse avere dei piedi fuori del normale,
se è vero, che ha percorso a piedi tanta strada come ad esempio il
viaggio da Gerusalemme a Roma.
Guardare e non toccare, è roba da crepare
La seconda parte del detto non sempre ha a che fare con la prima,
ma serve per darle più forza.
Questo detto si usa quando non si vuole che venga toccata una
cosa di valore.
Il detto non è in dialetto proprio perché chi volesse toccare senta
il distacco da chi parla.
Ha fatt’ ’n cul’ d’ neve
(Ha fatto un culo di neve)
I nostri bisnonni quando dovevano misurare qualcosa facevano
quasi sempre riferimento alle parti del corpo. Le unità di misura per
loro erano: i passi, i palmi, i “forcelli” (spanne), le braccia e così via.
Per quanto riguarda la quantità di neve caduta, il corpo umano
sembra trasformato in un “nivometro” se pensiamo alle espressioni:
“N’ha fatt’ ’na scarpa”, “n’ha fatt’ ’na gamba”, “n’ha fat’ ’n ginocchio”, “n’ha fatt’ ’n culo”. Piede, polpaccio, ginocchio e sedere
indicano le misure crescenti di neve caduta.
C’è anche l’espressione: “N’ha fatt’ ’na scasciata” (ne ha fatto
una spolverata) per indicare che la neve ha appena ricoperto il suolo.
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Ha fnito ’l lardo a Lardone...
(Ha finito il lardo a Lardone...
Secondo il detto, Lardone di lardo ne aveva sette solai, ma lo finì
tutto egualmente. il detto è rivolto agli scialacquatori che prima o
poi finiranno nella miseria.
Mio padre amava raccontare le vicende di un suo conoscente, un
certo Peppe dl’Abate che era ritornato dall’America con tanti dollari.
Peppe era proprio ricco sfondato. Ma credendo che le sue ricchezze
fossero infinite cominciò a spendere e spandere. A chi gli faceva
notare che spendeva troppo e che i suoi soldi prima o poi sarebbero
finiti, rispondeva immancabilmente: “Fnisc’ prima l’acqua ma ’1
mar!” (Finisce prima l’acqua al mare). Ma non fu così, perché Peppe
in capo a qualche anno si ridusse in miseria.
Hai da magna sett’ coppe d’ cendra
(Devi mangiare sette coppe di cenere)
Fino agli anni dell’immediato dopoguerra entrando in una casa di
campagna era normale nella brutta stagione veder cuocere qualcosa
sotto la brace. Poteva trattarsi di patate, cipolle, fave, olive, ecc.
Naturalmente quando si tiravano fuori dalla brace erano cosparsi
abbondantemente di cenere ma nessuno ci faceva caso: una soffiata
alla meglio e via.
Ai bambini che erano un po’ inesperti nell’eliminare la cenere e
che quindi si lamentavano, veniva data la solita risposta: “N’ t’ la
pia’, tant hai da magna sett’ coppe d’ cendra” (Non te la prendere,
tanto devi mangiare sette coppe di cenere).
Non era certo poca se pensiamo che il coppo (in dialetto “coppa”)
corrispondeva a circa 25 chili. Era questa una misura in uso nelle
nostre zone prima dell’Unità d’Italia e serviva per pagare la decima
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al clero. Naturalmente facendo i debiti conti era un’esagerazione,
ma una cosa è certa: di cenere ne mangiavano tanta.
Hai da spremette l’opra a miete
(Dovrai disdire le persone che hai impegnato per la mietitura)
Quando era tempo di mietitura l’agricolture aveva bisogno di aiuto
in questo lavoro abbastanza lungo e sempre molto pressante anche
perché il vento e la grandine erano i peggiori nemici - ricordiamo
che il grano di allora era solamente quello tenero e i chicchi quando
il grano era maturo cadevano facilmente dalla spiga -.
Ogni agricoltore per la mietitura faceva affidamento su un certo
numero di operai (“opra”) che potevano essere sia i nolanti (quelli
che pagavano il nolo) sia i montagnoli (quelli che abitavano nelle
vicinanze dei monti). Questi ultimi dovevano aspettare ancora
alcune settimane prima di mietere il loro grano e pertanto venivano
a prestare la loro opera da noi. Erano soprattutto loro che con i canti
della mietitura rallegravano questo lavoro che proprio allegro non era.
Disdire l’“opra”, cioè le persone impegnate per la mietitura, era
tona cosa che non avveniva tanto facilmente e così il proverbio “Hai
da spromette l’opra a miete” stava ad indicare una cosa che sarebbe
avvenuta chissà quando. Il proverbio potrebbe essere tradotto con
l’espressione: “A voja aspetta!” (dovrai aspettare ancora a lungo...
e forse vanamente).
Hai volut’ la bicicletta?! Pdala!
(Hai voluto la bicicletta?! Pedala!)
I Romani dicevano: “Quisque est faber fortume suae” (Ognuno è
artefice della propria sorte). La “fortuna” per i Romani era quella che
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per noi è la sorte, che può essere favorevole o sfavorevole a seconda
della scelta fatta. II nostro detto però non fa riferimento alla scelta
del lavoro o della professione o agli affari, ma fa riferimento a chi si
mette in una particolare situazione da lui cercata e voluta e che poi
vede solo i lati negativi e si lamenta dei sacrifici che quella situazione
comporta. Nei casi estremi può essere una persona che si è sposata
e poi maledice di averlo fatto o chi ha scelto di ricoprire una certa
carica che richiede impegno e responsabilità e poi si lamenta della
situazione nella quale si trova.
E così, quando si lamenta, si sente quasi sempre ripetere: “Hai
volut la bicicletta?! Pdala!”.
Ho fatt’ ’na bardella!
(Ho fatto una sudata!)
Aldo Montanari aveva lasciato il podere di Cagli - dove per i
trasporti usava la treggia - per uno più comodo a Mondavio. A Cagli
i suoi campi erano: le Ripe, la Selva, le Balze, il Fosso, la Selvatica e la Cupa. Già i nomi stessi ce la dicono lunga su quanto fosse
scomodo quel podere. Ad Mondavio la situazione era migliorata,
almeno a dar retta ai nomi: l’Alborata, la Tornalunga, la Pianella, il
Canneto e il Muntirozzo.
Nel nuovo podere però Aldo fece una brutta esperienza sul Muntirozzo (la Montagnola) quando dopo la mietitura era andato cpn buoi,
biroccio e sterzo a caricare i covoni. L’aiutavano in questa operazione
i suoi due figli, due ragazzi robusti; mentre lui sistemava i covoni sul
carro, i figli glieli portavano. In un paio di ore il carico già completo
e legato col “sarcio” (canapo) si avviava verso casa. Ma poco dopo,
in un punto dove il terreno presentava delle irregolarità, il carico si
piegava paurosamente, ondeggiava e poi si adagiava su di un lato.
Padre e figli dapprima osservarono sconsolati e poi si fecero
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coraggio e lavorarono con lena: sciolsero il carico, raddrizzarono
il carro con l’aiuto dei buoi e di nuovo ricomposero il carico e via
verso casa.
Sull’aia c’era già ad aspettarli la Peppa, la suocera di Aldo, una
vecchia curva e senza denti che alzando il suo bastone con un gesto
minaccioso e dopo aver urlato alcune invettive, disse:
- A st’ora s’ariva? E Aldo: “N’ m’ fa discorre! Ho fatt’ ‘na bar
della!”.
(- A quest’ora s’arriva?
- Non mi far parlare! Ho fatto una sudata!).
Ho fatto ’n palugine
(Ho fatto un pisolino)
A distanza di più di mezzo secolo c’è ancora chi a San Lorenzo
ricorda quello che successe a Bdollo di Montesecco dopo un pisolino
sotto un albero in attesa che il fabbro Giuanne de Tulino finisse di
assottigliare il vomere di un suo cliente.
Giuanne, dopo aver reso incandescente il vomere alla forgia,
assestò con il maglio dei colpi ben precisi e quando ritenne di averlo
ben assottigliato buttò il vomere a terra. Il vomere da rosso che era
all’inizio divenne in poco tempo blu. Giuanne chiamò Bdollo che
ancora un po’ assonnato si presentò sulla porta della bottega del
fabbro con un coltro legato con una cordicella per portarlo a tracolla.
Slegò la cordicella mentre il fabbro ravvivava i carboni sulla forgia.
Giuanne prese il coltro e lo immerse sotto i carboni, Bdollo si stroppicelo gli occhi e si avvicinò al fabbro per vedere meglio quello che
stava facendo. Ad un certo punto Giuanne si distolse dal suo lavoro,
cominciò a guardare in giro e ad annusare l’aria: solo quando vide
Bdollo saltare e correre verso la tinozza dell’acqua si rese conto che il
poveraccio aveva messo i piedi sopra il vomere incandescente. Bdollo
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lì per lì non si era accorto perché aveva la pelle dei piedi ispessita
dai calli. Giuanne un po’ preoccupato gli disse: “Ma dormi?” e il
povero Bdollo gli rispose: “No, ho fatt’ solo ‘n palugine”.
Ho ’na fame che n’ c’ veggo!
(Ho una fame che non ci vedo!)
Il detto viene usato da chi non mangia da molto tempo o da chi
sente quel languore persistente allo stomaco che è segno inequivocabile di fame vera.
I cavi riscaldati enn boni, ma n’enn graditi
(I cavoli riscaldati sono buoni, ma non sono graditi)
Che i cavoli riscaldati siano buoni o meno, graditi o meno è una
questione di gusti. Il nostro proverbio vuole semplicemente evidenziare che i ripensamenti (“I cavi riscaldati”) non sono mai graditi a
nessuno.
J dà a battecerquella
(Intraducibile)
“Cerqua” è la trasposizione di sillabe della parola “quercia” e
“cerquella” va tradotto con “quercella” o più esattamente con “querciolo”.
Un tempo le ghiande venivano raccolte con cura sia dagli agricoltori che dai nolanti per allevare maiali e conigli; schiacciate venivano date da mangiare anche alle oche ed alle anatre. Di solito le
ghiande venivano raccolte dopo alcune ore di vento, ma la raccolta
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più importante si faceva dopo la abbacchiatura che veniva effettuata
con lunghe pertiche. Abbacchiare le ghiande in una grande quercia
era spesso un’impresa e chi l’eseguiva stando in equilibrio su un
ramo a volte rischiava l’osso del collo.
“Battere” o meglio abbacchiare le ghiande in un querciolo era
un lavoro semplice e veniva effettuato in poco tempo. Chi “i dà a
bat-tercerquella”, è una persona che esegue il lavoro in poco tempo
anche se in modo approssimativo.
J da i cricchi
(Gli da i cricchi)
Il termine “cricchio” è onomatopeico di “ticchio”, che significa
capriccio. Chi dà i cricchi da modo - in genere ad un bambino - di
fare i capricci.
L’educazione dei figli nei primi anni di vita è compito della famiglia e in seguito anche della scuola. In genere i capricci vengono
tollerati da genitori permissivi e spesso dai nonni, un po’ meno dalla
scuola, specie quella elementare che nei vigenti programmi ha come
suo fine il dettato costituzionale della “formazione dell’uomo e del
cittadino”. Uomo e cittadino, inteso in senso autentico, non può
essere una persona che fa i capricci. Quello dell’educazione dei figli
è oggi uno dei problemi più discussi con punti di vista variegati e a
volte anche opposti quali il permessivismo e l’autoritarismo; queste
due posizioni estreme sono entrambe sbagliate. Nel campo dell’educazione non esiste una ricetta universale, valida per tutti. La stessa
scienza dell’educazione da degli indirizzi, dei suggerimenti, indica
metodi e mezzi, ma i risultati dell’azione educativa finiscono per
essere quasi sempre diversi da un soggetto all’altro.
Spesso l’intuizione e il buon senso dei genitori possono molto
più della scienza.
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J dà l’azzico
(Gli da l’azzico)
“Azzico” è un termine venatorio che sta ad indicare un uccello
vivo imbracato che serve per attirare uccelli della stessa specie. Si
usa di solito nella caccia allo storno. In passato si usava la civetta
inanellata e legata ad un trespolo per attirare le allodole. Nella caccia
ai colombacci si usano ancor oggi i piccioni addomesticati che con
il loro volo portano i colombacci sopra i capanni dei cacciatori.
Azzichi sono anche i tordi ai quali sono state tarpate le ali e che
vengono messi dentro un piccolo recinto situato nelle immediate
vicinanze del capanno di caccia. Gli azzichi sono sempre uccelli in
movimento che con la loro presenza attirano uccelli della stessa specie.
Il detto “j dà l’azzico” viene usato per indicare l’intenzione di
qualcuno a voler stuzzicare altri a dire più del dovuto o spingere
altri a fare certe azioni.
J darìa ’l pillotto!
(Gli darei il pillotto!)
Il pillotto è quell’arnese che serve per mettere il lardo fuso per
ùngere l’arrosto. Di solito sopra lo spiedo che gira si versa l’unto
bollente, già caduto in quel tegame bislungo detto “ghiotta” che si
trova sotto lo spiedo. Si può anche pillottare facendo colare, da un
cartoccio incendiato alla fiamma, del lardo fuso sopra l’arrosto.
Dare il pillotto vuoi dire versare olio bollente. L’espressione si
usa nei confronti di chi si vorrebbe punire severamente.
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J fa comm l’oio sul lume
(Gli fa lo stesso effetto dell’olio sul lume)
Lume (dal latino lumen) è lo strumento per produrre luce. Lume
quindi è qualsiasi oggetto che fa luce, ma nelle nostre campagne la
parola “lume” indicava un oggetto ben preciso: quel lumino a petrolio
usato in ogni casa e molto più indietro negli anni era la lampada
ad olio. Era buona norma prima di accenderlo controllare il livello
dell’olio e la lunghezza dello stoppino. A volte invece succedeva di
comportarsi come le vergini stolte ricordate nel Vangelo e così la luce
si affievoliva. Ma prima che si spegnesse si provvedeva a rimettere
l’olio nel lume e così la fiamma ritornava normale.
Il detto “j fa comm l’oio sul lume” si usa tutte le volte che si vuoi
indicare che una medicina produce subito i suoi effetti e in senso lato
indica il giusto rimedio per ovviare ad un inconveniente.
J fa male la nebbia sul monte
(Gli fa male la nebbia sul monte)
Per chi è lontano dal monte non ha importanza se sul monte nevica,
piove o tira il vento. Eppure secondo il nostro proverbio c’è chi si
ammala perché sul monte c’è la nebbia e questo per dire che ci sono
delle persone che si ammalano per un nonnulla.
Il proverbio si usa anche per indicare una persona che si arrabbia
senza una buona ragione.
J feta anche ’l gallo
(A lui fa le uova anche il gallo)
L’espressione si usa per indicare persone alle quali le cose vanno
meglio di ogni immaginazione.
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J manca la terra sott’ i piedi!
(Gli manca la terra sotto i piedi!)
Si usa dire così per indicare una persona che non si accontenta del
suo stato e che vuoi fare quante più cose possibili ai fini di realizzare
maggiori guadagni.
J manca sempre ’n soldo per fa’ ‘na lira
(Gli manca sempre un soldo per fare una lira)
Fino all’immediato dopoguerra erano ancora in circolazione i
soldi, la ventesima parte della lira. Una lira anche a quei tempi era
una moneta di poco valore; i soldi poi avevano un valore quasi insignificante come potrebbe essere oggi una monetina da cinque lire.
Se ad una persona mancava un soldo per arrivare ad una lira voleva
dire che era povera davvero. Il proverbio si usava e si usa ancor oggi
per indicare una persona povera che non riesce a migliorare la sua
posizione economica.
I monei c’hann j occhi più grandi che nnè la trippa
(I bambini hanno gli occhi più grandi della pancia)
I bambini sono spesso dei golosi e vorrebbero mangiare senza
limiti, almeno con gli occhi, ma quando poi in concreto si tratta di
mangiare è normale che anche la loro pancia non ne riceva più di
tanto. Accade spesso che i bambini facciano mettere nel loro piatto
molto più di quanto possono mangiare. La dimostrazione di ciò è
evidente osservando il loro piatto quando si sparecchia la tavola.
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J ne van più di pidocchi ai poretti
(Gliene vanno di più che i pidocchi ai poveri)
Questa espressione si usa nei confronti del giocatore fortunato
oltre misura a carte.
Insalata: poc’aceto e ben oliata
(Insalata: poco aceto e ben oliata)
Ai vecchi tempi l’insalata veniva “trattata” con un po’ di aceto e
sale, mentre l’olio glielo si faceva vedere da lontano. La gente sapeva
che l’insalata andava condita con molto olio e poco aceto, ma il detto
si ricordava solo quando si mangiava l’insalata a casa d’altri.
Io n’ l’ho con te: l’ho con chi t’ guema
(Io non ce l’ho con te: l’ho con chi ti dà da mangiare)
Questo detto è rivolto a chi, ormai adulto, vive senza far niente
alle spalle dei suoi genitori che continuano a sgobbare come hanno
sempre fatto, mentre lui se la spassa allegramente.
Io n’ vojo gì’ in paradiso per dispetto di santi
(Io non voglio andare in paradiso per dispetto dei santi)
Usiamo questo modo di dire quando siamo indispettiti perché
qualcuno non si decide a farci un certo lavoro o ce lo fa male. È
come dire: io non voglio le cose fatte per dispetto.
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I piatt’, ch’enne i piatt’, fan rumore
(I piatti, che sono piatti, fanno rumore)
I piatti essendo cose inanimate non dovrebbero emettere alcun
suono o rumore, ma naturalmente se vengono smossi anche loro
producono rumore.
I detto vuoi significare che rientra nella normalità che ci possa
essere qualche screzio fra persone che sono andate sempre d’accordo.
I poi e i monei smerdne la casa
(I polli e i bambini sporcano la casa)
In campagna anche oggi è facile che i polli entrino in casa e sporchino con i loro escrementi. Altrettanto facile è che i bambini piccoli
lascino all’interno della casa il segno del loro passaggio. Questo
il senso letterale. Ma il detto sta ad indicare che i bambini, bocca
della verità, generalmente raccontano cose che altri al di fuori della
famiglia non dovrebbero sapere.
I pulcini han portato a be’ l’oche
(I pulcini hanno portato a bere le oche)
Quando si gioca a carte può succedere che vinca chi è meno abile
e così si dice che i pulcini (i piccoli giocatori) hanno portato a bere
le oche (i grandi giocatori).
Il detto viene usato quando i deboli hanno avuto la meglio sui forti.
I sold enn comm i dolore: chi ci ha si tiene
(I soldi sono come i dolori: chi li ha se li tiene)
La lira è l’unità di valore della moneta italiana ma un tempo
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avevano valore anche i sottomultipli della lira come il soldo che aveva
soprattutto valore al tempo di Giolitti (fine ottocento e primi anni di
questo secolo) quando la lira (moneta in argento da 5 grammi) faceva
aggio sull’oro. In seguito il valore del soldo fu occupato dalla lira.
Il nostro proverbio non è altro che una constatazione: il denaro è
di chi lo possiede ed è inutile desiderarlo, come è impossibile scaricare sugli altri i dolori che ci tormentano: ognuno si tiene quelli che
ha: soldi e dolori!
I soldi fan gi’ l’acqua d’insù
(I soldi fanno andare l’acqua verso l’alto)
L’acqua come tutti i liquidi scorre se ha una certa pendenza; se
la pendenza manca, ristagna. Per andare “d’insù”, cioè verso l’alto,
ha bisogno di macchine che la sollevino e le macchine naturalmente
hanno un costo. Insomma per “fa gi’ d’insù l’acqua” ci vogliono “i
soldi”.
Chi per primo ha coniato questa espressione doveva essere una
persona che si era resa conto che anche quelle cose che si oppongono
alle leggi della natura possono essere realizzate: basta spendere.
I somar’ d’ Frontone enn tutt’ uguali
(I somari di Frontone sono tutti uguali)
Frontone, Comune alle pendici del monte Catria, ha oggi un’economia fondata su piccole fabbriche, sull’agricoltura e sul turismo.
Un tempo era invece basata in parte sull’agricoltura e in gran parte
sull’allevamento del bestiame per lo più lasciato al pascolo sul monte.
Fra gli animali si annoveravano oltre che bovini, ovini e caprini,
anche un certo numero di muli e somari, adibiti al trasporto della
legna dei boschi.
129
I tanti somari usati per il trasporto della legna non erano certamente molto diversi fra loro. Questo proverbio che ci ricorda che i
somari di Frontone sono tutti uguali, viene rivolto a chi dice che è
sua una certa cosa che si trova in mano di altri.
il nostro proverbio ci vuoi ricordare che tutti i somari si rassomigliano e volerne distinguere uno da un altro non è facile, così come
è quasi impossibile distinguere due cose uguali.
J tira ’l culo
(Gli tira il sedere)
È un modo di dire comune dalle nostre parti che significa: è arrabbiato per una cosa da niente, oppure: è arrabbiato e non si sa per che
cosa. Un altro modo di dire che ha lo stesso significato ed è altrettanto
colorito è: “C’ha ’l culo stempro!”.
La bocca fa ’l forno:
o ch’ha fame o ch’ha sete o ch’ ha sonno
(La bocca fa il forno:
o che ha fame o che ha sete o che ha sonno)
L’espressione “la bocca fa il forno” ci fa pensare alla bocca che si
atteggia come un forno quando è aperto; fa riferimento a chi sbadiglia.
Secondo questo proverbio chi sbadiglia lo fa perché: o ha fame
o ha sete o ha sonno.
La casa loggia, ma n’ guerna
(La casa alloggia, ma non dà da mangiare)
È stato sempre un luogo comune pensare all’uomo dei campi come
130
a colui che, più di ogni altro, assiste ai meravigliosi spettacoli della
natura: dalle bianche nevicate silenziose ai temporali fragorosi, dalle
albe rosate ai rossi tramonti. Ma l’agricoltore ha sempre dovuto fare
i conti con la dura realtà, fatta di lavoro sodo e per ore interminabili.
Ai vecchi tempi il ritmo di lavoro non era regolato dall’orologio ma
dalle ore di luce e dalle stagioni. Dalla primavera all’autunno l’agricoltore lavorava dall’alba fino al calar delle tenebre. Solo durante
le ore più calde dell’estate, quando il sole scottava e rendeva l’aria
irrespirabile, il contadino si concedeva un paio di ore di riposo per
riprendere il suo lavoro fino al buio della sera.
Durante la mietitura lavorava instancabilmente e si allontanava dai
campi solo per dormire. Lo si vedeva di continuo chino, a testa bassa,
intento a tagliare le messi con la caratteristica “falce da grano” o ad
ammucchiare i covoni quando anche i gufi erano andati a dormire.
Quelli erano tempi nei quali la povera gente era proprio convinta
che “la casa loggia, ma n’ guerna” e per questo lavorava tanto e lo
faceva semplicemente per poter sopravvivere.
La casa piatta, ma n’ ruba
(La casa nasconde, ma non ruba)
Ci capita a volte di non ricordare dove abbiamo messo qualcosa di
importante. Mettiamo sottosopra la casa e quando dobbiamo arrenderci nella ricerca, allora ci consoliamo pensando a quel proverbio
che ci ricorda che la casa nasconde le cose ma non ce le porta via.
Quasi sempre poi ritroviamo la cosa cercata anche se ormai possiamo
aver provveduto diversamente.
La donna sfacendata, fa ’l pane e la bocata
(La donna sfaccendata, fa il pane e il bucato)
Un tempo ogni massaia cuoceva il pane nel suo forno. Fare O
131
pane voleva dire alzarsi presto per impastare, dare la forma al pane,
riscaldare il forno e seguire la cottura del pane. Queste operazioni
impegnavano più persone per molte ore.
Il fare il bucato significava: far bollire nella “caldara” molta
acqua, mettere i panni lavati già con due “passate” ed insaponati
nella “mastella”, mettere sopra i panni il “cenerale” (tela che tratteneva la cenere) passata al setaccio per eliminare i carboni spenti o
altre impurità, versare sopra la cenere acqua bollente. Quest’acqua
detta “ranna” veniva conservata per un certo tempo perché serviva
per lavare altri panni o per lavare... i capelli. Si doveva poi aspettare
che l’acqua si freddasse, togliere il Generale con cenere, risciacquare
i panni e stenderli al sole.
Come si può ben capire fare il bucato impegnava la donna per
molte ore, se poi faceva anche il pane...
Il detto veniva ricordato con sarcasmo a quelle donne che volevano fare più faccende impegnative nello stesso tempo.
Ladro è ’l campo
(Ladro è il campo)
Anche nei tempi peggiori quando la povera gente cercava di
sopravvivere ricorrendo a volte a piccoli furti dei prodotti agricoli
il contadino non se la prendeva più di tanto; era solito invece ripetere che “ladro è 1’ campo” per sottolineare che se i prodotti erano
abbondanti ce n’erano per tutti.
A proposito di ladri c’è ancora chi ricorda due persone ormai scomparse che un tempo erano note per i loro furtarelli. I due un giorno si
incontrarono per la via principale del paese. Uno disse all’altro: “A
San Vito han rubbato sei dindi. Ntla zona i ladri semine solo noia’
due. O te m’ dai la parte o io fo la spia” (A San Vito hanno rubato
sei dindi. Nella zona i ladri siamo solo noi due. O tu mi dai la mia
parte o io faccio la spia).
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La fame fa sgappà ’l lupo da la tana
(La fame fa uscire il lupo dalla tana)
Qualche secolo fa il lupo scorrazzava per le nostre campagne e
le denominazioni di luoghi e di chiesette del nostro Appennino e
subap-pennino ci ricordano la presenza di questo carnivoro.
Era il nemico dichiarato dei contadini e di pastori e per questo era
costretto a tenersi alla larga dalle case e restare a lungo in luoghi per
lui sicuri. Ma naturalmente spesso, dopo tanto digiunare, la fame lo
spingeva ad uscire allo scoperto; meglio morire di morte violenta
che morire di fame.
Il nostro proverbio viene citato di solito per indicare quelle persone
che escono di casa solo per necessità, proprio come fa il lupo.
La fatiga nn è unta
(La fatica non è unta)
Quando una ruota, un ingranaggio o un qualunque meccanismo
si inceppa o non scorre nei modi dovuti allora si usa ungere la parte
o le parti interessate per riportare le cose alla normalità. Anche la
fatica a volte - anzi spesso! - non scorre nei modi dovuti, ma non c’è
nessun olio - se si eccettua quello di gomito - adatto a rendere più
agevole la fatica. E così mentre i più stringono i denti e proseguono
per la loro strada c’è chi si arrende dopo aver iniziato un lavoro e
c’è anche chi si spaventa prima e non inizia neanche. Un detto con
significato identico è: “È fatiga a fatiga!” (si fa fatica a lavorare).
Come si vede da questi proverbi l’allergia alla fatica è una malattia
molto vecchia.
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La gaggia pel(e)la, ma n’ la fa’ strìde
(La gaggia pelala, ma non la fare stridere)
Per capire questo proverbio bisognerebbe immaginare una persona
che sta spennando una gazza viva e che lo fa senza esagerare, senza
cioè farla stridere. Il proverbio viene indirizzato nei confronti di chi
spreme un po’ troppo le tasche del prossimo; lo potrà forse anche
fare, ma... via, non esageri troppo!
La galina che n’ becca ha beccato
(La gallina che non becca ha beccato)
A chi forza una persona che non ha fame a voler mangiare di
solito viene ricordato un po’ maliziosamente che “la gallina che
n’ becca ha beccato”; è come dire che quella persona non mangia
perché ha già mangiato. Questo detto si usa in genere per indicare
che chi non fa una cosa piacevole vuoi dire che l’ha già fatta e non
sente il bisogno di ripeterla.
La galina chi l’ha magnata l’ha magnata
(La gallina chi l’ha mangiata, l’ha mangiata)
La Celestina e Gigione abitavano nelle campagne di Montalfoglio
conducendo una vita sempre uguale: il lavoro dei campi, la domenica
al paese per la Messa e qualche rara volta ad un mercato o ad una
fiera a San Lorenzo, ma niente di più.
Era da tempo che la Celestina non vedeva l’ora di andare a Serra a
trovare il suo unico fratello. Dopo la trebbiatura prese l’essenziale per
il viaggio e mise il tutto nella “guluppa” (fazzoletto da spesa con gli
angoli opposti annodati), la infilò in un bastone, se la mise in spalla
134
e partì alla volta di Serra per rimanervi alcuni giorni. Gigione salutò
a malincuore sua moglie, anche perché di cucina non era esperto. I
primi due giorni mangiò solo pomodori e cetrioli con un po’ di sale,
il terzo giorno si fece una bella frittata, ma il quarto giorno, mise
a bollire la più bella gallina del pollaio, anche se si ren deva conto
che se la Celestina l’avesse saputo l’avrebbe trattato come un cane.
Gigione si mangiò tutta la gallina ed ebbe cura di sotterrare le ossa
nel campo del vicino (le penne le aveva già bruciate). Il giorno dopo
che era tornata, la Celestina si rese conto che mancava la gallina e
chiese a Gigione se ne sapeva niente. Alla ri sposta negativa di costui
la Celestina incominciò a mandare colpi ed accidenti all’autore del
furto ed il secondo giorno non fu da meno. Il povero Gigione dapprima
fece finta di niente, ma poi sbottò: “Basta co’ ste sentenze! La galina
chi l’ha magnata l’ha magnata!” (Basta con queste maledizioni! La
gallina chi l’ha mangiata l’ha mangiata!). Il detto si usa ancora oggi
per dire: “È inutile prendersela. Ormai è fatta”.
La gola è ’n bugo stretto: ingoia la casa e ’l tetto
(La gola è un buco stretto:ingoia la casa e il tetto)
Il proverbio ci ricorda che chi asseconda smodatamente la propria
gola spesso finisce col mangiarsi la casa, tetto compreso. Naturalmente non si mangerà la casa intesa in senso stretto ma il suo valore.
Il che è come dire ridursi in miseria.
La morte dle peqre è la furtuna di cani
(La morte delle pecore è la fortuna dei cani)
Una pecora morta può essere un buon pasto per i cani ed il nostro
proverbio ci vuoi ricordare che a volte le disgrazie per alcuni possono
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essere la fortuna per altri. Queste situazioni erano già note nei tempi
antichissimi; i Romani avevano un proverbio simile al nostro: “Mors
tua vita mea”, (La tua morte è la mia vita).
L’an del mai e ’l mes’ del poi
(L’anno del mai ed il mese del poi)
L’espressione sta ad indicare che una certa cosa non sarà mai fatta
o una certa situazione non si verificherà mai.
L’anno è lungo e i giorn’ en fitte
(L’anno è lungo e i giorni sono fitti)
In tempi di miseria era necessario tirare la cinghia per poter
arrivare alla fine dell’anno mangiando quel tanto che bastava per
sopravvivere.
Oggi l’espressione viene usata in senso metaforico e non con il
valore che aveva un tempo. È semplicemente un invito al risparmio.
La pianta tocca ’ndrizzarla fin eh’è picqla
(La pianta occorre raddrizzarla fin che è piccola)
Ogni agricoltore che si rispetti provvede a tirar su gli alberi diritti,
mettendo accanto ad essi un sostegno fin da quando sono piccoli. Un
albero di tanti anni non si raddrizza e, se proviamo a farlo, si spezza.
Ma il proverbio fa quasi sempre riferimento alle persone che vanno
raddrizzate - cioè corrette - quando ancora sono in tenera età. Quando
sono grandi e si manifestano certi difetti forse è tardi per correggerli
ed allora ripensiamo al nostro proverbio e alla sua fondatezza.
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La prima è ’n vleno
(La prima è un veleno)
Il proverbio si usa generalmente nel campo del gioco: carte, lotto,
lotterie, ecc. Ed ha un senso: spesso chi gioca e vince continua a
giocare pensando di vincere ancora ma il più delle volte finisce con
il perdere.
L’arcrocc(o)la
(Gli fa le coccole)
La traduzione fatta sopra è letterale e non rispecchia il significato che in dialetto diamo al verbo. “Arcrocc(o)la” dovrebbe essere
tradotto diversamente, in quanto chi “arcrocc(o)la” è generalmente
la madre che agisce così per difendere a torto o a ragione il figlio dai
rimproveri o dalle busse di parenti o estranei. “Arcrocc(o)la” dunque
ha valore di “prendere le difese”.
La robba fa ’l prezzo
(La roba fa il prezzo)
Una cosa può costare molto o poco a seconda del suo valore. Al
mercato o ad una fiera è facile sentire un commerciante pronunciare
il detto per convincere gli acquirenti che una determinata merce costa
molto, semplicemente perché ha quel valore.
A volte, valutando a distanza di tempo, diamo ragione al commerciante: quella certa cosa l’abbiamo pagata molto ma ne valeva la
pena. Non sempre però veniamo consigliati bene.
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La robba tocca buttalla via tre giorni doppo che puzza
(La roba si deve buttar via tre giorni dopo che puzza)
Questo proverbio si usa quando si vuoi far capire a qualcuno che
non bisogna disfarsi facilmente di cose che prima o poi potrebbero
tornarci utili.
È un proverbio che oggi viene citato molto meno che in passato
quando qualsiasi cosa veniva riutilizzata in un modo o in un altro.
Dobbiamo buttar via solo quel che marcisce e solo dopo che puzza,
ma il proverbio esagera un po’ specie oggi che la società dei consumi
invita a volerci disfare di tante cose. Certamente bisognerà seguire
una via di mezzo tra il buttare e il conservare, ma non è facile sempre
seguire questa via di mezzo.
La robba trovata
nn è mai rubbata, ma quant’ s’ trova ’l padrone
j sa da rdà
(La roba trovata non è mai rubata,
ma quando si trova il padrone deve essergli restituita).
È questo un proverbio che invita coloro che trovano qualcosa a
restituirla ai legittimi proprietari.
L’arpì su la schina del lepre!
(Lo ripigli sulla schiena della lepre!)
La lepre è proverbiale per la sua velocità - si dice: “corre come
una lepre!” - e riprendere una cosa sulla schiena della lepre è come
dire che non verrà mai ripresa.
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Lasc’me ’l cacanotlo
(Lasciami il... (?))
“Cacanotlo” è un termine intraducibile, ha valore di “il più piccolo
della covata”.
Ancor oggi c’è chi ritiene che il più piccolo (che non sempre è
l’ultimo nato) una volta adulto darà i migliori risultati.
Un tempo i più poveri quandi dovevano comprare un maialino da
allevare acquistavano il “cacanotlo”, non tanto perché credevano che
il più piccolo della covata sarebbe cresciuto quanto o più degli altri,
ma semplicemente perché il più piccolo... costava meno.
Oggi il detto è rimasto e viene rivolto in senso ironico a chi indossa
un capo di abbigliamento un po’ strano. È come dire: “lasciami il più
piccolo... dal momento che io non posso permettermelo!”.
L’aspetto a la grella...
(L’aspetto alla grella...)
“Creila” fa riferimento al grillo. I grilli cantano all’imbrunire e
questo è il momento più opportuno per aspettare la persona della
quale ci si vuole vendicare. Ma si può anche aspettare “a la grella”
la lepre nelle notti di luna.
La staccia ha da gi’ d’in qua e d’in là
(La staccia deve andare da una parte e dall’altra)
Il setaccio è un oggetto ormai raro e in via di estinzione. Un tempo
veniva usato dopo la macinatura del grano per separare la farina dalla
crusca e dal tritello.
Posto sopra la “panara” (spianatoia) veniva spinto bruscamente
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avanti e indietro per far sobbalzare il macinato in modo che le parti
più minute (la farina) potessero passare attraverso la fitta rete che
si trovava tra due cerchi di legno mentre la rimanente parte restava
nel setaccio.
Il nostro proverbio sta ad indicare che se si vuoi avere qualcosa
bisogna anche dare qualcosa; se si vogliono favori è necessario
contraccambiare.
Insomma ci dovrebbe essere il dare e l’avere: il pareggio bilancio!
La toss’ d’istate e la cacarella d’inverno, se sta bene ma s’ campa
poco
(La tosse d’estate e la cacarella d’inverno, non provocano fastidi
ma si campa poco)
Il proverbio vuoi mettere in guardia la gente nel non voler sottovalutare questi inconvenienti fuori stagione. Possono passare come
disturbi di poco conto, ma spesso non è così.
La tosse e la trippa n’ se piattne
(La tosse e la pancia non si nascondono)
È ovvio che chi ha la tosse non può trattenersi, così come chi ha
la pancia non può nasconderla.
Il nostro proverbio viene citato tutte le volte che qualcuno cerca
di nascondere cose o fatti che sono sotto gli occhi di tutti.
La vanga e la sappa
a lu’ poc’ j s’aggrappa;
lo spito e la padella
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sci ch’è ’na cosa bella!
(La vanga e la zappa
a lui poco gli si aggrappano;
lo spiedo e la padella
sì che sono cose belle!)
Questo detto girava un tempo per le nostre campagne e serviva
per rimarcare persone poco portate per il lavoro; un po’ più per la
buona cucina.
“S’aggrappa” è l’aggrapparsi dell’attrezzo alle mani. Noi oggi
più semplicemente diciamo: impugnare un attrezzo. Può sembrare
che quel “s’aggrappa” sia stato usato a sproposito, ma a pensarci
bene non è così: il detto vuoi mettere in evidenza che a quei tempi
gli attrezzi si adoperavano per tante, troppe ore ed era come se gli
stessi si aggrappassero a chi li usava.
Vanga e zappa erano, fra i piccoli attrezzi, quelli più usati dai
nostri agricoltori e coloro che cercavano di evitarli erano considerati
dei fannulloni. Per di più questi scansafatiche di solito vedevano di
buon occhio spiedo e padella, simboli della buona cucina. A quei
tempi il grosso problema era quello di trovare qualcosa da mettere
sotto i denti per sopravvivere, non era certo il caso di pensare al
mangiar bene!
Lavora come ’n can’ lgato
(Lavora come un cane legato)
L’espressione viene usata nei confronti di chi non fa niente. Costui
viene paragonato ad un cane alla catena che non può certo in quello
stato svolgere alcun lavoro, quale il cacciare o l’andare a tartufi.
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’L bene avuto nn el leva nisciuno
(Il bene avuto non lo toglie nessuno)
Nessuno riuscirà mai a portar via uno stato di benessere trascorso.
Seguendo questo principio c’è chi va continuamente alla ricerca del
benessere quotidiano senza preoccuparsi del domani. Già al tempo
dei Romani era noto a tutti il “carpe diem” (godi l’oggi) di Orazio.
Il nostro proverbio viene usato come una constatazione di fatto
ma più frequentemente viene usato da chi trovandosi in difficoltà si
consola ricordando tempi passati migliori.
L’ bestie n’ s’ confessne
(Le bestie non si confessano)
Chi si confessa si pente.
Le bestie si comportano sempre alla stessa maniera e spesso sono
pericolose.
Il proverbio è un monito a non fidarsi delle bestie in genere.
’L braccio al petto, la gamba al letto
(Il braccio al petto, la gamba al letto)
Quando ad una persona gli fa male un braccio mette la “bracciarola” (fascia che partendo dal collo sorregge il braccio) e così facendo
il braccio sta riposato sul petto, mentre chi ha male ad una gamba
deve tenerla riposata a letto.
Il nostro proverbio è frutto di quella medicina popolare che ai
vecchi tempi era tenuta in grande considerazione. A quei tempi i
poveri non si riguardavano molto e spesso, pur essendo in qualche
modo impediti, continuavano per necessità a lavorare, ma il proverbio
raccomandava: “Il braccio al petto, la gamba al letto”.
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’L caldaro dic’ male dla padella
(Il caldaio dice male della padella)
Caldaio e padella per l’uso quotidiano si coprono ogni giorno
di più di fuliggine. È difficile stabilire quale dei due sia più sporco,
anche se il proverbio dice che il caldaio critica la padella facendole
notare che è sporca.
Anche nella vita di tutti i giorni c’è chi vede i difetti degli altri
e non vede i propri. A dir male di solito è sempre chi ha tanto da
pensare per sé.
L’ cerque n’ fan ’ mlarance
(Le querce non fanno le melarance)
Un albero come la quercia che ha sempre dato le ghiande, frutti
immaginabili, non potrà mai dare dei frutti squisiti come quelli
dell’arancio.
Anche gli uomini come gli alberi, secondo il proverbio, se sono
cattivi generano figli cattivi; se sono un po’ lenti nel comprendere
generano figli poco svegli e così via. “Talis pater talis filius” (tale
padre tale figlio) avrebbero detto i Romani.
’L contadino, ’l prete e ‘ passro: ndò l’ vedi mazlo
(Il contadino, il prete e il passero: dove lo vedi ammazzalo)
Per capire questo detto dobbiamo tornare ai tempi del potere
temporale dei papi, quando le nostre terre facevano parte dello Stato
Pontificio ed i preti erano considerati come dei questuanti rompiscatole, quando i padroni odiavano i contadini perché vedevano in loro
chi li derubava di una parte dei raccolti e quando infine i passeri erano
143
visti come uccelli che devastavano i campi di grano.
Oggi il detto non viene più usato, anche perché i preti di oggi
non mandano più i sacrestani per la questua e fanno parte di una
categoria di persone povere; i contadini a mezzadria non esistono
più; i passeri non si vedono più a nuvoli come un tempo e perciò
non arrecano gravi danni ai raccolti.
’L difficile è scordcà la coda
(Il difficile è scorticare la coda)
Scorticare un animale è un lavoro relativamente facile, ma
scorticare la coda diventa un po’ difficile anche per i più esperti. Il
proverbio non fa riferimento allo scorticare la coda in senso stretto,
ma all’ultima fase di un qualsiasi lavoro che quasi sempre presenta
difficoltà nella rifinitura.
L’ donne d’ poc’ onore
vèjne col lume e dormne col sole
(Le donne di poco onore
vegliano con il lume e dormono con il sole)
Il detto fa riferimento a quando le donne, oltre alle loro normali
mansioni, la sera dopo cena filavano, tessevano, cucivano, rammendavano e facevano la calza. Succedeva spesso che prolungavano il
lavoro notturno più del normale, con la conseguenza che al mattino
si svegliavano tardi.
Oggi diremmo che la cosa è normale ma a quei tempi non era
vista così perché vegliare più a lungo del solito voleva dire consumare molto più petrolio e la gente povera questo non se la poteva
permettere.
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La raccomandazione che faceva il “capoccia” o la “vergara” era
sempre quella di vegliare poco la sera per alzarsi presto al mattino.
Vegliare con il lume e dormire con il sole era considerato come una
cosa riprovevole.
Oggi il detto viene rispolverato quando le donne dormono più
del dovuto al mattino.
L’educazione sta bene anch’ giù la stalla del porcello
(L’educazione sta bene anche nella stalla del porcello)
Spesso si crede che certe parole siano termini dialettali. Basterebbe
consultare un normale dizionario di lingua italiana per rendersi conto
che le cose non stanno così. Termini come: prescia, sorcio, porcello
fanno parte a pieno titolo della nostra lingua.
A volte nelle nostre scuole con l’intento di allontanare i termini
dialettali si è finito con l’allontanare un sinonimo del tutto italiano.
Così è stato per “prescia” sinonimo di fretta e “porcello” sinonimo di
maiale. Anche certi termini tecnici vengono scambiati per parole non
appartenenti alla lingua italiana. Chi direbbe che il termine “martinicca” (il freno del biroccio) appartiene alla lingua di Manzoni?
Andate a controllare e vedrete.
Ma torniamo al nostro proverbio. Il maiale è stato sempre
considerato a torto o a ragione un animale sporco e quindi di poco
riguardo; eppure il nostro proverbio ci dice che anche a casa sua va
usata educazione.
Certamente il proverbio può sembrare fuori del tempo, vista la
maleducazione imperante un po’ ovunque, ma proprio per questo è
il caso di meditare seriamente su questo proverbio che sta lì a ricordarci la regola fondamentale del vivere civile: l’educazione.
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Lègg’ lègg, ’l mond’ è sempr’ pègg’
(Leggi, leggi, il mondo è sempre peggio)
Questo detto era citato spesso ai vecchi tempi in campagna perché
non si vedeva di buon occhio chi si metteva a leggere. Il leggere a
quei tempi era considerato tempo perso perché secondo il parere della
maggior parte della gente di campagna il leggere e/o lo scrivere non
portavano alcun utile.
I bambini erano sconsigliati dall’andare a scuola dopo aver appreso
la tecnica del leggere e dello scrivere. Molto spesso dopo aver frequentato la seconda o la terza elementare a scuola non ci andavano più,
anche perché i grandi volevano che andassero a guardare le pecore
o i branchi di oche e di anatre o di tacchini.
Quando i bambini non avevano queste faccende da sbrigare ne
avevano altre: dovevano andare a raccogliere le ghiande per i porci,
dovevano andare a cercar le cipollacce fra le zolle del maggese,
ma dovevano anche portar le “pecorelle” (mannelli di spighe) alla
pressa durante la mietitura, dovevano guidare la “stroppa”, dovevano
raccogliere le spighe dopo la mietitura e gli acini di uva dietro ai
vendemmiatori. L’elenco delle faccende che venivano comandate ai
bambini sarebbe molto lungo: basti pensare alle faccende spicciole di
ogni giorno: dall’andare a prendere la legna all’accendere il fuoco,
dall’an-dare a spillare il vino in cantina all’andare ad attingere acqua
alla fontana, dall’annaffiare l’orto al dar da mangiare agli animali.
A quei tempi per significare che il leggere non portava miglioramenti, ma semmai peggioramenti - allora si badava soprattutto
al lato economico e chi studiava non produceva, ma spendeva - si
diceva: “Lègg’, lègg’, ‘1 mond’ è sempr’ pègg’”. Ma il nostro detto
faceva anche riferimento a chi leggeva il giornale e vi trovava delle
brutte notizie. Sotto questo aspetto il detto è di grande attualità oggi
che i giornali riportano ogni giorno un sempre maggior numero di
fatti di cronaca nera.
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Legg, pulenta e religione en fatte p’i cojone
(Legge, polenta e religione son fatte per i minchioni)
Come già detto le Marche fecero parte dello Stato Pontificio (fino
al 1860) e pertanto nelle nostre campagne non mancavano gli anticlericali, ma anche chi non credeva nelle leggi e nella giustizia umana.
Il detto certamente ha un suo fondo di verità quando la legge
non è uguale per tutti, quando gli squilibri sociali sono troppo forti
o quando chi predica non è convinto di quel che dice.
L’erba trista n’ more mai
(L’erba cattiva non muore mai)
Con l’espressione “erba trista” si comprendono sia quelle erbe
che non sono commestibili da persone e da animali sia quelle che
danneggiano le piante. Queste varie specie di erbe purtroppo sopravvivono, ricrescono e si moltiplicano nonostante si cerchi in ogni
modo di estirparle ricorrendo anche ai moderni trattamenti chimici.
Tutti conoscono la gramigna e sanno quanto sia difficile estirparla
anche perché le sue radici scendono in profondità tali che la vanga
non riesce a scalzarla completamente.
Il nostro proverbio fa riferimento non tanto alle erbacce quanto
alle persone cattive che di solito vivono più a lungo delle persone
buone, anche se questa è solo una nostra impressione dato che la
morte non guarda in faccia a nessuno.
Le scarpe enne comm’ i parenti: più enne strette e più fan male
(Le scarpe sono come i parenti: più sono strette e più fanno male)
Dionisio era un grande lavoratore, conosciuto in Apecchio come il
più abile dei carbonai. Era però un po’ scorbutico, non aveva amicizie
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e litigava spesso con i suoi fratelli. Era un gran camminatore ed i
maligni facevano osservare che non poteva essere diversamente dal
momento che era “tutto piedi”.
Dionisio un giorno che era andato al mercato a Serravalle si fermò
davanti ad una bancarella di scarpe. Ce n’era un paio che forse erano
adatte ai suoi piedi. Chiese il prezzo e poi se le misurò. Il piede vi
entrò a stento, ma il venditore convinse Dionisio che portandole
queste scarpe si sarebbero adattate al piede. Ma così non fu e l’anno
dopo alla stessa fiera Dionisio andò dall’ambulante e mostrandogli
le scarpe che aveva a tracolla gli disse: “Queste enne comm’ i fratei
mia: è tanto che ce sto insieme ma ancora non i sopporto”. (Queste
sono come i miei fratelli: è tanto che ci sto insieme ma ancora non
li sopporto).
Le società hann da esse dispari, ma nn hann da esse più d’ due
(I componenti di una società devono essere di numero dispari,
ma non devono essere più di due)
Una società è una convenzione fra due o più persone che pongono
in comune beni o denari per un’industria, un’impresa o altro, al fine
di ottenere utili che poi vengono ripartiti tra i vari componenti.
Se i componenti di una società devono essere di numero dispari
ma non superiore a due, vuoi dire che la società dovrebbe essere
costituita da una sola persona: come dire che le società non dovrebbero esistere. Franco d’Trippanera ripeteva spesso questo modo di
dire perché era rimasto scottato dal suo socio in affari.
Leva’ l’ cataracchie
(Levare le cataratte)
Le cataratte sono le porte che si alzano o si abbassano nei canali
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per far entrare o non entrare l’acqua; nel nostro caso sono le basette
che vengono forzatamente alzate.
Per “leva” 1’ cataracchie” i capelli delle basette venivano attanagliati fra il pollice e l’indice, mentre il malcapitato non poteva che
alzarsi sulla punta dei piedi per evitare momentaneamente un po’
di dolore.
Era questo lo scherzo, a dir il vero poco simpatico, che veniva
fatto ai bambini.
’L foco ha preso moje
(Il fuoco ha preso moglie)
Questo modo di dire si usa per indicare che il fuoco si è spento.
Chissà perché?! Se chi ha preso moglie è finito come il fuoco...
Sicuramente questo detto è stato inventato da qualcuno che non
vedeva di buon occhio il matrimonio. A ben guardare se avesse
riflettuto un tantino si sarebbe forse accorto che.se il proprio padre
non avesse preso moglie egli non sarebbe nato e non avrebbe potuto
pronunciarsi.
Non voglio difendere chi si sposa ma non credo che chi non si
sposa abbia una vita tanto più facile.
L’fratte n’ c’ hanne l’ recchie, ma l’ mettne
(Le siepi non hanno le orecchie, ma le mettono)
Questo modo di dire ci vuoi ricordare che se anche ci troviamo
in aperta campagna e confidiamo un segreto ad un amico senza ab
bassare il tono della voce c’è pericolo che ci sia qualcuno che
magari involontariamente ascolti dietro ad una siepe od altro riparo
naturale che diciamo. “Non parlare che il nemico ti ascolta” avrebbe
detto qualcuno dei tempi passati.
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’L fumo va ai bei
(Il fumo va verso i belli)
Quando il fuoco scoppietta allegramente nel focolare è normale
che qualche volta quando il vento cambia dirczione o quando la legna
è verde ci sia del fumo che, fuoriuscendo dalla cappa del camino,
invada la cucina.
A consolazione di chi “piange” per il fumo si dice: “Il fumo va
verso le persone belle”. L’espressione però non finisce qui, perché
completa è: “’L fumo va ai bei, ai brutti, ai fiotti e sciugabotti” (beoni).
Così, riportato per intero, il detto sta ad indicare che il fumo non
guarda in faccia a nessuno: prende ogni possibile dirczione e non
fa distinzioni.
’L gioco, ’l letto e ’l foco n s’ contentne mai d’ poco
(Il gioco, il letto e il fuoco non si contentano mai di poco)
Chi inizia a giocare d’azzardo difficilmente smette, anzi aumenta
continuamente la posta con conseguenze spesso disastrose. La stessa
cosa si può dire che accada a chi sta pigramente a letto: più sta a
letto e più a lungo ci vorrebbe stare. Il fuoco poi una volta acceso
divora con sempre maggior veemenza tutto ciò che incontra nel
suo cammino. I proverbi - come si sa - vogliono sempre insegnarci
qualcosa. Il nostro ha lo scopo di metterci in guardia nei confronti
del gioco, del letto e del fuoco.
L’ha strollgato
(Intraducibile)
La “strollga” è l’astrologa, cioè colei che legge il futuro osservando le stelle.
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Nel nostro caso sta ad indicare la zingara che legge la mano e
nell’uso comune significa: ha cercato di carpire, mediante domande,
ciò che diversamente non avrebbe mai saputo.
Lillà e bacilla
(Intraducibile)
I due verbi, di origine incerta, possono essere usati da soli ma
spesso vengono usati insieme per rafforzare l’espressione. In ogni
caso hanno sempre lo stesso significato: indicano il modo di agire
di una persona molto lenta ed insicura.
Chi va per le spicce infatti usa dire: “Io n’ la bacillo tanto” o
“Io nne sto tanto a lillà”, o anche usando un altro modo di dire più
comune: “Io n’ c’ bado tanto” (io non ci impiego tanto).
L’insalata nn’ è bella si n’ c’è la pimpinella
(L’insalata non è bella se non c’è la pimpinella)
La pimpinella (o selvastrella) è un’erba aromatica che si trova
facilmente nei campi incolti. Ha foglie ovali a margine seghettato, di
sapore acidulo. Serve per completare un’insalata fatta di varie erbe,
quali: lattuga, indivia, radicchio, cappuccina, lattughino e così via.
Ne va messa poca, ma è necessaria, come dice il nostro proverbio.
L’invernata nn armane in cielo
(L’invernata non rimane in cielo)
“La natura non fa salti” e le stagioni si alternano regolarmente
anche se a volte con piccole varianti. Anche quando sembra che
l’inverno non si faccia vedere prima o poi farà la sua comparsa.
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L’ male manch’ ai cani arrabbiti
(Il male neanche ai cani affetti da rabbia)
Nei momenti d’ira c’è chi prorompe in imprecazioni contro qualcuno, ma nei momenti di riflessione e di calma tutti sono concordi
nell’affermare che il male non va augurato neanche ai cani affetti
da rabbia.
’L matt’ fugg’, ma la casa no
(Il matto fugge, ma la casa no)
Veniva spesso rivolto dai grandi ai bambini che, avendone combinata una delle loro, fuggivano da casa.
Rimaneva in loro l’incubo del ritorno perché ricordavano ciò che
era stato detto loro mentre correvano allontanandosi da casa: “stasera
farim’ i conti” (stasera faremo i conti). La sera infatti i bambini erano
costretti a rientrare e allora erano sculacciate.
’L mejo c’ha la rogna
(Il migliore ha la rogna)
La rogna è una malattia della pelle, conosciuta anche come scabbia.
Si tratta di una malattia causata da un insetto parassita che si scava un
cunicolo nell’epidermide dell’uomo e vi deposita le uova. H sintomo
predominante di questa malattia è il prurito molto forte in certe parti
del corpo quali: mani, gomiti, ginocchi, malleoli, ecc.
È stata sempre considerata una brutta malattia da evitare ad ogni
costo e per questo bisognava stare lontani da chi ne era affetto.
Il nostro proverbio usato quasi sempre nei confronti di un piccolo
gruppo di persone vuoi rimarcare che di quel gruppo il migliore è da
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tener lontano come si fa nei confronti di chi ha la rogna. E se così è
del migliore, che sarà degli altri?
“’L mejo c’ha la rogna” è sicuramente una delle espressioni più
crude del nostro dialetto che viene usata per indicare il massimo
disprezzo nei confronti di un gruppo che ha quasi sempre un comportamento anomalo.
’L mejo è ‘l cane
(Il meglio è il cane)
Spesso ad una persona che ha un modo di fare o di dire poco
consono al vivere civile, vien detto: “Ma va a fa’ ‘1 cane’” (“Ma
vai a fare il cane!”). L’espressione indica la poca considerazione
ed in parte anche un certo disprezzo che si ha in quel momento per
quella persona.
Quando poi vengono fatte delle considerazioni su un gruppo o
una famiglia poco ben vista dalla gente c’è chi dice: ‘”L mejo è ‘1
cane!” e c’è anche chi aggiunge: “e quello m’ha morso!”.
’L mulinaro da la bianca farina
co’ j occhi guarda e co’ le mani rampina;
’l mulinaro da la farina bianca
co’ j occhi guarda e co’ le mani rampa
Entrambi i verbi “rampina” e “rampa” stanno ad evidenziare il
prendere lesto del mugnaio nell’attimo in cui il suo cliente è distratto.
Un tempo il mugnaio era una persona che economicamente stava
bene, ma gli agricoltori non lo vedevano tanto di buon occhio. Quella
linguaccia di Checco, conosciuto da tutti come il Cagnarotto, diceva
che il grano veniva scambiato dal mugnaio. Gli agricoltori però per
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essere sicuri di riprendere la farina del loro grano scelto e non quella
del grano scarto destinato ai polli andavano di persona al mulino.
L’oro tira l’oro,
la vacca tira ’l toro
e ’l poretto tira ’l carretto
(L’oro attira l’oro,
la vacca attira il toro,
ed il poveretto tira il carretto)
Il “tira” del nostro dialetto corrisponde sia al verbo “tira” che al
verbo “attira”; di qui l’uso indifferenziato dello stesso verbo nelle tre
espressioni. Il proverbio fa una constatazione di fatto: come la vacca
attira il toro così i ricchi attirano i ricchi, mentre i poveri saranno
sempre costretti a lavorare. Il proverbio ci ricorda - se ancora ce ne
fosse bisogno - che chi è ricco sarà sempre più ricco e chi è povero
resterà tale.
L’orto t’ vole morto
(L’orto ti vuole morto)
Chi possiede un orto anche piccolo e lo coltiva con amore sa che
ha bisogno di ogni sorta di cure. Chi poi fa l’ortolano di mestiere sa
bene di non avere un minuto di tempo libero. E giustamente Felice,
un omone che faceva l’ortolano vicino a Maretta, era solito ripetere
il detto: “L’orto t’ vole morto”. Lo diceva con convinzione perché,
quando gli pareva di aver eseguito tutti i lavori possibili era ora di
ricominciare. Forse Felice, contrariamente al suo nome, era l’eterno
scontento ma a volte aveva delle valide ragioni. Si racconta che
Felice, per le sue idee politiche, finì un brutto giorno al tempo del
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Ventennio a Rocca Costanza. Capitò in quel carcere un suo amico
che non credendo ai propri occhi vedendolo lì gli chiese: “Me sbajo
o te sei Felice?” (Mi sbaglio, o tu sei Felice?) e quello rispose: “So
Felice, ma sto in galera!” (Sono Felice, ma sto in galera!).
L’ ovo a Pasqua, la botta quant’ e casca.
Mejo perde l’amico che nnè la botta
(L’uovo a Pasqua, la battuta quando ci vuole. Meglio perdere
l’amico che la battuta)
La “botta” è la risposta salata che si da in caso di provocazione.
I due proverbi che hanno identico valore ci ricordano che con
certa gente non dobbiamo subire ma rispondere per le rime.
’L pan de ’n giorno, ’l vino de ’n anno e la serva d’ diciott’anni
(Il pane di un giorno, il vino di un anno e la serva di diciotto anni)
I nostri vecchi avevano le idee chiare riguardo al tempo ideale che
dovevano avere pane, vino e serva, anche se non potevano permettersi certi lussi.
Il pane infatti, cotto nel forno della casa colonica, non era quasi
mai di un giorno dal momento che se ne faceva una grande infornata
perché il pane duro e spesso anche ammuffito durava di più.
Il vino poi, che avrebbe dovuto avere un anno, lo si beveva
sia quando era ancora mosto sia quando aveva preso di aceto non
badando al tempo.
La serva infine, che secondo il nostro proverbio avrebbe dovuto
avere diciotto anni, poteva avere qualsiasi età a patto che fosse robusta
e resistente ai lavori più duri.
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L’paure n’ s’ meddchne
(Le paure non si medicano)
In effetti le paure non possono essere curate con una medicina
vera e propria e pertanto l’espressione è un invito a non mettere
paura soprattutto ai bambini.
’L peggio è per chi more
(II peggio è per chi muore)
Spesso vedendo delle persone afflitte per la morte di un loro congiunto
pensiamo che in quei giorni la loro è una situazione molto difficile ma,
riflettendo a chi non c’è più, ci viene spontaneo osservare che forse
chi sta peggio è proprio chi è morto. Non tutti però sono d’accordo
su questo punto. Già fin dall’antichità c’era chi non aveva paura della
morte. Una massima di Epicuro suona più o meno così: “Della morte
non c’è d’aver paura, perché quando arriva lei andiamo via noi!”
L’ pia sempre do’ nne scotta
(Lo piglia sempre dove non scotta)
In senso figurato il detto vuoi far capire che c’è sempre chi cerca
una mansione facile. In un lavoro di gruppo c’è sempre chi esegue
le cose più semplici lasciando agli altri quelle più impegnative: la
parte dove scotta!
L’ quaje s’ pinne perché cantne
(Le quaglie si prendono perché cantano)
È detto di chi per voler parlare troppo finisce per far sapere ad
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altri anche cose che avrebbe dovuto tenere per sé.
Di questa persona si dice anche che “è stagno comme ‘n canestro”
(è stagno come un canestro).
’L’ sa anche ’l gatto: Pasqua tre, Natale quattro
(Lo sa anche il gatto: Pasqua tre, Natale quattro)
Ai vecchi tempi i giorni di festa e quindi di un certo riposo erano
solo quelli indicati in rosso sul calendario; nessuno aveva mai sentito
parlare di “ferie”. Si conoscevano solo le domeniche e le feste “comandate” e fra queste ultime le più importanti erano quelle di Pasqua e
di Natale e per ricordare quanti erano i giorni di festa c’era il detto:
“L’ sa anche ‘1 gatto: Pasqua tre, Natale quattro”. A Pasqua erano tre:
il Sabato Santo, la Pasqua ed il Lunedì dell’Angelo; a Natale erano
quattro: il Natale, Santo Stefano, San Giovanni e gli “Innocentini”.
Questa era l’ultima festa ed a ricordarlo c’era il proverbio: “Passati
i Nocentini, fhite le feste e miti e quadrini” (Passati i S.S. Innocenti
finite le feste e finiti i quattrini).
’L sacco tant’ tiene al dritto e tant’ al rovescio
(Il sacco ha uguale capienza sia al dritto che al rovescio)
Serve per indicare che se c’è una esagerazione in un senso c’è da
aspettarsi altrettanta esagerazione in senso contrario. Può sembrare il
noto principio di meccanica “ad ogni azione corrisponde una reazione
uguale e contraria”, ma in realtà il detto serve per fare considerazioni
sull’andamento del tempo meteorologico che quando esagera in un
senso c’è da aspettarsi che lo faccia altrettanto in senso contrario.
Questo detto oggi è di attualità più che mai: a lungi periodi di
freddo seguono altrettanti lunghi periodi di caldo, senza alcun rispetto
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per le stagioni; a siccità impreviste seguono altrettante impreviste
lunghe piogge.
’L sacco voto ’nne sta su dritto
(Il sacco vuoto non sta in piedi)
E un fatto che un sacco vuoto non sta in piedi ma il proverbio
viene citato per il suo significato metaforico. Una persona che non
si nutre o che non si nutre abbastanza non può fare quello che fanno
tutti gli altri e specificatamente non può lavorare.
Il proverbio veniva particolarmente citato in tempi lontani quando
il procurarsi il cibo necessario talvolta era un problema e chi non
mangiava abbastanza cibo non era in grado di lavorare.
Oggi il proverbio viene ricordato a chi non ha appetito ed è come
dire: mangia, se non vuoi finire a letto.
’L santaro s’frega ’na volta sola
(Il santaro si inganna una volta soltanto)
Uno dei racconti che si tramanda da generazioni è quello del
Santaro. Fratel Rinaldo era, frate laico a Fonte Avellana ed ogni
anno passava per la “cerca” (questua) del grano lungo la vallata del
Cesano. Era benvoluto da tutti e lui, passato anche una sola volta,
ricordava località, strade e stradine da percorrere e i nomi dei vari
agricoltori. Aveva insomma una memoria di ferro.
Dopo che l’agricoltore gli aveva dato qualche manciata di grano
o poco più fratel Rinaldo gli regalava - secondo che l’offerta fosse
stata più o meno generosa - uno o più santini e per questo era conosciuto come il “Santaro”.
Un giorno d’agosto, con l’aria quasi irrespirabile, il Santaro bussò
alla porta di casa di Lorenzo. Questi sbucando da dietro un pagliaio
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si stropicciò gli occhi e visto il frate lo fece subito accomodare in
casa. Dopo aver scambiato poche parole prese un piatto, andò nel
magazzino e ritornò poco dopo con il piatto colmo di grano. Lo versò
nella bisaccia del frate e questi, mentre diceva “II Signore te ne renda
merito”, gli consegnò un santino. Lorenzo posò il santino sopra il
tavolo poi prese da una vetrinetta il fiasco ed un bicchiere per offrire
da bere all’ospite ma questi, ricordandosi che il vino bevuto l’anno
precedente era aceto, lo fermò con la mano dicendo: “No grazie! ‘L
Santaro s’ frega ‘n volta sola!”
Il detto viene citato per ricordare che le persone possono essere
ingannate solo una volta.
’L sole è alto ’na canna
(Il sole è alto una canna)
L’altezza di una canna è intorno ai tre metri. Il sole che si trova a
questa altezza sulla linea dell’orizzonte indica approssimativamente
un orario corrispondente ad un paio d’ore prima del tramonto. Il
detto, ora pressoché scomparso, si usava un tempo per intendere che
c’erano ancora un paio d’ore di luce, cioè di lavoro.
Allora gli agricoltori erano particolarmente esperti nel valutare
l’ora guardando il sole. Sapevano stimare agevolmente pesi e misure.
Erano molto bravi nei calcoli orali, anche se molti di loro erano
analfabeti o semianalfabeti.
L’ tiene comme la rosa al naso
(Lo tiene come la rosa al naso)
La rosa profuma e tenerla vicino al naso è una cosa che fa piacere
e per questo si ha cura di mantenerla in vita il più a lungo possibile e
nella situazione ottimale. Il proverbio viene usato per indicare qual159
cosa di particolarmente caro per il suo valore affettivo e del quale si
ha la massima cura. Potrebbe trattarsi di persona alla quale si porta il
massimo rispetto e si usano tutti i mezzi per proteggerla da eventuali
pericoli o insidie, ma potrebbe trattarsi anche di animali o di cose.
Lungo filaccia, tristo sartaccio
(Lungo filo, cattivo sarto)
Nei tempi passati le donne, molto più di oggi, si dedicavano a
cucire, rammendare e rattoppare. Alle ragazze più giovani che iniziavano ad usare ago e filo si raccomandava di non fare una agugliata
troppo lunga se non volevano trovarsi in difficoltà nel cucire perché
il filo troppo lungo poteva ingarbugliarsi. Il colmo sarebbe stato se ad
usare una agugliata lunga fosse stato un sarto: sarebbe stato proprio
un pessimo sarto.
L’ vacche brutte fan i fioj bei
(Le vacche brutte fanno i figli belli)
A volte da una madre non bella possono nascere figli veramente
belli ed allora senza ricercare il perché, senza scomodare la biogenetica ci ricordiamo di questo proverbio.
L’ vacche vecchie armanghne ntle mane di cojoni
(Le vacche vecchie rimangono nelle mani dei coglioni)
Gli agricoltori, fino al dopoguerra, avevano solo una parte del loro
terreno (circa un terzo) coltivato ad erbaio che doveva alimentare
i tanti animali e così il foraggio scarseggiava per il prevalere della
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coltivazione dei cereali (grano ed orzo). Erba e fieno non bastavano
e nei periodi estivi si provvedeva a raccogliere ogni sorta di verde: si
tagliava il falasco nei greppi e nei fossi, si sfrondavano i rami di certi
alberi quali olmi ed aceri, ma non si disdegnava neanche di ripulire
le canne delle loro foglie. Dopo la vendemmia si spogliavano le viti
dai loro pampini. La fronda fin dai tempi antichi ha sostituito durante
l’estate l’erba che veniva seccata per l’inverno. Per sfamare le pecore
in inverno si usavano fasci di rami di quercia e/o di pioppo tagliati
a settembre e lasciati seccare. Ai conigli durante l’estate venivano
dati di solito rami di acacia e di salice e questi roditori li ripulivano
non solo delle foglie ma anche della scorza.
Nell’inverno per i bovini c’erano fieno e paglia passati alla trinciaforaggi che poi venivano mescolati accuratamente e portati alle
greppie. Ma spesso non bastavano neanche la paglia e lo strame (quello
falciato dopo la mietitura) ed alla fine dell’autunno si rastrellavano
foglie secche di ogni tipo che servivano per rifare il letto al bestiame.
Erano quelli tempi difficili per sfamare gli animali e naturalmente
gli agricoltori cercavano di evitarne ad ogni costo la perdita, ma
soprattutto di rimanere con le vacche vecchie che non erano più in
grado di tirare l’aratro. Quando si sapeva che si avvicinavano alla
vecchiaia, o si ingrassavano per il macello o si vendevano. Solo ai
fessi rimanevano le vacche vecchie: era un po’ come l’asso di bastoni
al gioco dell’orno nero.
’L vino ntel fiasco, a la sera è bono e a la marina è guasto
(Il vino nel fiasco, alla sera è buono e alla mattina è guasto)
Il vino di un tempo, fatto con sistemi tradizionali, era sensibile
all’aria. Se si iniziava il fiasco e non si beveva tutto in giornata,
spesse volte si aveva la sgradita sorpresa che il giorno dopo il vino
cambiasse colore o sapore. Per evitare tutto ciò, alla sera la rimanenza
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del fiasco la si metteva in una bottiglia.
Ricordiamo che a quei tempi anche il vino era un bene prezioso:
serviva per dare un po’ di carica o... per attenuare i morsi della fame.
’L volem fa’ papa?
(Lo vogliamo fare papa?)
Era uno scherzo comune che i bambini facevano a uno di loro. Al
povero malcapitato, steso a forza per terra, gli tiravano giù i pantaloni
e gli sputavano nel pisellino.
Il disprezzo per il sesso si addice a chi... viene fatto papa.
Maccaroni e lasagne: case grosse diventne capanne
(Maccheroni e lasagne: case grosse diventano capanne)
Nei tempi passati si mangiavano maccheroni e lasagne - segno
di abbondanza e agi - solo nelle grandi occasioni e a volte molta
gente di campagna non sapeva neanche cosa fossero le lasagne. In
proposito ricordo un simpatico dialogo che ho ascoltato quando ero
in tenera età e che mi è sempre rimasto impresso. Un Tizio disse:
“Le lasagne sono molto buone!”.
L’interlocutore chiese: “E tu come lo sai?” E Tizio: “Le ha viste
babbo mangiare a casa del nostro padrone”.
A parte questa breve disgressione, va detto che il proverbio veniva
ripetuto dai nostri bisnonni per frenare i golosi della loro famiglia
perché accontentare la gola voleva dire ridurre notevolmente i propri
risparmi.
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Ma chi t’ha sciolto?
(Ma chi ti ha sciolto?)
Il detto si usa nei confronti di chi ha un modo di ragionare fuori
della norma. Sentendola parlare pensiamo che questa persona sia
stata sempre tenuta sotto controllo come si fa con il cane alla catena.
Magna che è sgrofanato
(Mangia come uno scorfano)
Il termine “sgrofanato” è la storpiatura di scorfanato che ha valore
di “trasformato in scorfano”. Lo scorfano è un pesce di colore rossastro
con macchie scure, particolarmente ricercato per la zuppa di pesce.
Generalmente si da dello scorfano sia a chi è molto brutto e di
carattere scorbutico sia a chi a tavola è insaziabile.
Il modo di dire indica una persona che mangia in fretta e sempre
a bocca piena.
Magna, chi magna magna, ma l’ bute han da esse pari
(Mangiare, chi mangia mangia, ma le bevute devono essere pari)
Questo detto deve essere stato inventato da qualcuno che amava
particolarmente il bere, mettendo in secondo ordine il mangiare.
Quando si è fra amici al bar o all’osteria si cita il detto per costringere anche i più moderati a bere. E se qualcuno si rifiuta di farlo
adducendo qualche scusa allora si tira fuori lo spirito di gruppo ed
è subito pronto quel colorito modo di dire: “In compagnia ha pres’
moje anche ’n frate” (in compagnia ha preso moglie anche un frate).
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Magna e bozza!
(Mangia e sopporta!)
Il detto potrebbe sembrare simile a quello in lingua “Vivi e lascia
vivere”, ma nel nostro viene evidenziata una acquiescienza a volte
obbligata da parte di chi è più debole perché il reagire potrebbe
comportare conseguenze spiacevoli. Il detto significa: “anche se sei
convinto che sarebbe giusto reagire, parlare, contraddire è meglio
che tu lasci perdere”. Non tutti però sono d’accordo con questa filosofia della sopportazione, specie quelli che hanno un carattere forte.
Magna’ la panzanella, i frescarei, i cioncioni, le patacchelle...
(Mangiare... i cibi poveri)
La cucina dei piatti qui citati viene descritta nel mio libro “Una
civiltà al tramonto” Ed. AGE - Urbino 1992 nell’ultimo capitolo.
La base dei piatti della cucina campagnola erano quasi sempre
farina di grano, di granoturco, di fava ed acqua per impastare. Era
una cucina proprio povera.
Magna’ la pappa masticata
(Mangia la pappa masticata)
il detto si usa per indicare una persona che ripete cose dette o
suggerite da altri. Chi “magna la pappa masticata” è una persona
senza personalità che non ragiona con la propria testa ma con quella
degli altri. È insomma un pappagallo.
Un detto simile è “Va a pappa fatta”; in questo caso si tratta di
una persona che non agisce perché aspetta che altri lo facciano al
suo posto.
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Magna pe’ ’n cecce
(Mangia quanto un “cecce”)
Il “cecce” è lo scricciolo, l’uccellino più piccolo che nelle nostre
campagne immigra durante l’inverno.
Pappagalli e scansafatiche sono persone che nessuno vorrebbe
fra i propri amici perché non c’è proprio niente da imparare né dagli
uni né dagli altri.
Il detto quindi sta ad indicare una persona (in genere un bambino
piccolo) che mangia molto poco, e spesso è “sciaganito” (mingherlino). Nel modo di dire citato è evidente la preoccupazione dei familiari che temono che l’interessato faccia “la terra pel cece” (prepari
la terra per il cece: muoia).
Magnarai sempre ’l pan duro,
bevrai sempre ’l vin forte,
farai ’l contadino fin a la morte
(Mangerai sempre il pane duro,
berrai sempre il vino che sa di aceto,
farai il contadino fino alla morte)
Il contadino mangiava il pane duro perché così... durava di più;
beveva il vino forte perché quello buono lo vendeva per tirare avanti.
In questo detto dei nostri nonni agricoltori c’era la convinzione (o
rassegnazione) di restare sempre nei campi come ai tempi dei servi
della gleba (servi della zolla) quando il figlio di un agricoltore non
aveva altra prospettiva se non quella del lavoro di suo padre.
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Magnaria anche ’l ciborio
(Mangerebbe anche il ciborio)
U “ciborio” è la pisside, il contenitore delle ostie. Chi “magnarla
anche ‘1 ciborio” è persona che sembra avere uno stomaco senza
fondo, una di quelle che quando ti sembra che sia sazia continua a
mangiare proprio come se si fosse messa a tavola in quel momento.
E nel nostro caso la persona in questione è talmente vorace che si
mangerebbe persino... il piatto! Il detto viene anche usato in senso
figurato per indicare chi si appropria, in modo più o meno legale,
degli averi degli altri e più se ne appropria e più gli cresce la voglia
di appropriarsene.
Male, malanno e l’uscio addosso
Malanno è una grave disgrazia o un grave danno. A chi oltre ad
avere male e malanno cade addosso anche l’uscio di casa, bisogna
riconoscere che è una persona disgraziata oltre ogni dire.
Sicuramente questo proverbio è più incisivo dell’altro che dice:
“N” c’è due senza tre”, che sta a significare che “le disgrazie n’ venghne mai sole”.
C’è poi un altro proverbio che rafforza la tesi di quello citato
all’inizio e dice che ‘”1 peggio nn’è mai morto” (il peggio non è mai
morto). Questo vuoi ricordarci che se ci sono capitate delle disgrazie
anche gravi ci può capitare ancora di peggio.
Potrei proseguire sull’argomento ma mi sembra che po_ssa bastare
anche perché potrei essere scambiato per una civetta, uccello tradizionalmente ritenuto di malaugurio.
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Manda giù i bovi coi corn’ e tutto
(Inghiottire i buoi con le corna e tutto)
Sta ad indicare chi deve subire tutto senza poter reagire.
Marzo, ’l villano va scalzo; Aprile, ’l villano e l’ gentile
(Marzo, il campagnolo va scalzo; Aprile, il campagnolo e il
cittadino)
Villano non inteso nel senso dispregiativo ma secondo quello
dell’etimologia latina (villa = casa di campagna), significa: “colui
che abita in campagna”.
“Gentile” ha valore di persona delicata e opposto al termine
“villano” sta ad indicare il cittadino.
Secondo questo proverbio Marzo è un mese abbastanza mite se
il campagnolo (quello d’un tempo s’intende) riesce a camminare
scalzo senza sentire i morsi del freddo; Aprile poi è un mese ancora
più mite se anche le altre persone riescono a camminare scalze.
Certamente la prima parte di questo proverbio (“Marzo, ‘1 villano
va scalzo”) non persuadeva molto i nostri bisnonni se usavano citare
anche: “Febbraio Febbraietto, corto e maledetto”. Come si poteva
infatti pensare che Febbraio fosse maledettamente freddo mentre
Marzo, lo stretto coetaneo, fosse un mese mite?
Marzo, Marzotto, tanto ’l dì e tant’ la notte
(Marzo, Marzotto tanto il dì e tanto la notte)
In marzo il tempo del dì è uguale a quello della notte; è in questo
mese (precisamente il 21) che cade l’equinozio di primavera.
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Matto come ’n crovello
(Matto come un crivello)
Il crivello che è una specie di setaccio se dovesse essere giudicato per i suoi movimenti apparentemente irregolari si direbbe che
è proprio matto.
Il detto viene usato in modo bonario nei confronti di chi scherza
spesso e volentieri.
Me fischiene le recchie
(Mi fischiano le orecchie)
Secondo questo detto quando ci fischiano le orecchie, o meglio
quando sentiamo quella specie di ronzio nelle orecchie, è segno che
qualcuno ci pensa o sta parlando di noi.
Ci sarà capitato di sentirci chiedere: “Ieri ti fischiavano le orecchie? Abbiamo parlato di te”.
Naturalmente il detto che fa riferimento ad una delle tante credenze
popolari ha un riscontro di veridicità solo in rarissimi casi, ma c’è
ancor oggi chi ci crede.
... m’è fuggito l’ucello!
(... m’è fuggito l’uccello!)
Ciccioli era conosciuto da tutti a San Lorenzo e nei paesi limitrofi come un grande maestro nell’addestrare gli uccelli da richiamo
usati nei capanni di caccia. Fra gli altri aveva un fringuello da verso
che non stava mai zitto. Era il suo vanto e tutti si fermavano sotto la
finestra di casa sua che dava sulla via principale del paese ad ascoltare i versi di questo uccello dentro una vecchia gabbia appesa ad
un chiodo del muro.
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Un giorno alcuni amici si fermarono estasiati ad scollare questo
fenomeno del canto. Ciccioli, lusingato, volle mostrare da vicino
questo fuori classe e presa la gabbia scese in strada. I suoi amici
ancora una volta si complimentarono per le doti del tutto eccezionali
di questo fringuello ma poi il discorso prese ben altra piega: si finì
col parlare di una donna del paese che se la dava un po’ con tutti.
Quando O discorso si fece più animato del solito qualcuno inavvertitamente battè con un piede la gabbia e poco dopo il fringuello
- fortuna sua! - volò libero nell’aria. E fu allora che Ciccioli disse le
famose parole: “Col cazz’ dla fica... m’è fuggito l’ucello!”.
Mejo ‘na quaja presa che cento da pia’!
(Meglio una quaglia presa che cento da prendere!)
Il proverbio corrispondente noto a tutti è: “meglio un uovo oggi
che una gallina domani”.
Mette l’unto sopra ’l bullito
(Mettere l’unto sopra il bollito)
Il bollito - come tutti sanno - è la carne con una parte di grasso
che viene cotta in pentola. Il mettere l’unto sopra il bollito è fare
qualcosa di sbagliato, ma è soprattutto un buttar via i soldi.
Il detto si usa per indicare un’azione nettamente sbagliata o un
fatto accaduto che porta danno su danno preesistente.
Mettlo a rimboccone
(Mettilo capovolto)
“A rimboccone” significa “con la bocca (o apertura) rivolta verso
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il basso”. L’agricoltore usava mettere “a rimboccone” ad esempio
“la crina” (cesta grande e bassa fatta con grossi vimini, intrecciati a
cestole rade) per tenerci momentaneamente animali da cortile.
M’fa stremuli’
(Mi fa rabbrividire)
Si può rabbrividire dal freddo o nel bere certe sostanze, ma si può
rabbrividire anche vedendo una scena raccapricciante o sentendo
certe espressioni o ripensando a certe situazioni.
M’ manca l’anima
(Mi manca l’anima)
Quando ad una persona sta per mancare l’anima vuoi dire che sta
per morire e a quanto mi risulta nessuno desidera morire.
L’espressione significa: voglio tener lontana quella certa situazione, anche se prima o poi dovrò affrontarla.
Moje a chi tocca e marito a chi l’trova
(Moglie a chi tocca e marito a chi lo trova)
Nella grande famiglia patriarcale c’erano delle regole ferree da
seguire e non poteva essere diversamente, pena il dissolvimento
della grande famiglia. Fra queste regole, non scritte s’intende ma
che erano una consuetudine, c’era anche quella che i figli maschi si
sposassero secondo la scala dell’età, mentre le figlie se trovavano
marito potevano sposarsi anche se non era il loro turno.
Baldo di Fontebona che era il capoccia di una grande famiglia di
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quattro “getti” (quattro figli sposati in casa) era preoccupato che, fra
tanti giovanotti in età da matrimonio, il più grande non si decidesse o
non trovasse una fidanzata. Se il più grande non si fosse sposato era
un bel pasticcio per Baldo, anche perché lui aveva sempre sostenuto
e ripetuto all’osteria della Nena che la regola più importante di una
famiglia perbene era quella del rispetto della “moglie a chi tocca”.
A rompere questa regola però ci pensò Quarto, l’ultimo maschio,
che aveva sedici anni e che mise incinta la Giovanna, una vispa
ragazzina dagli occhi azzurri. Il povero Baldo acconsentì a malincuore che il più piccolo dei suoi nipoti si sposasse per primo. E al
matrimonio, alla Nena che lo apostrofò: “E la moglie a chi tocca?!”,
Baldo rispose seccamente: “A sposasse, a chi tocca tocca!”.
Morto a la cuccia
(Morto alla cuccia)
L’espressione sta a constatare che un animale qualsiasi è morto
nella propria cuccia o stalla o porcilaia, ecc. Generalmente il detto
viene usato per indicare che quella carne venduta a basso prezzo è
di un animale che non è stato ammazzato intenzionalmente, ma che
è morto o per malattia o per infortunio. È il caso di una mucca morta
per parto o perché ha ingerito un corpo estraneo.
Si tratta quasi sempre di carne venduta “a bassa macellazione”,
con regolare certificato del veterinario.
Morte n’ venga e guai co la pala
(Morte non venga e guai con la pala)
La paura della morte è una paura atavica, di sempre.
È una paura presente in tutti anche in chi dice di non averne. Forse
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fa eccezione San Francesco che nel Cantico delle creature chiamava
la morte “sorella”.
Quando arrivano i guai di solito la gente è preparata e sopporta;
a volte si aspetta di peggio ed è solita ripetere che “n’ c’è due senza
tre”. E quando i guai persistono, spesso si rassegna consolandosi
con il detto: “Morte n’ venga e guai co’ la pala”, che è come dire
vengano pure tanti guai, basta che stia lontana la morte, perché “la
morte n’ s’armedia”.
M’ pari ‘n lampione!
(Mi sembri un lampione!)
Il lampione - come tutti sanno - è quel palo di ferro o di cemento
che serve per rilluminazione e sta... sempre fermo.
D detto si usa nei confronti di chi sta impalato ed è di impiccio a
chi lavora; è un invito alla persona che sta immobile a volersi dare
da fare o a levarsi di torno.
M’ rode ’l culo: arcresce ’l sale
(Mi rode il sedere: rincara il sale)
Secondo il nostro detto il prurito al sedere fa prevedere un aumento
del costo del sale. Naturalmente questa è una vecchia credenza
popolare che ha poco da spartire con la realtà. Ma una spiegazione
al detto potrebbe essere data: il prurito al sedere è stata sempre una
cosa normale, come lo era un tempo il rincaro del sale, dovuto soprattutto alla distanza dell’approvvigionamento ed alle tante dogane e
dazi che dovevano essere pagati. Il rincaro del sale ha portato così
ad associarlo al prurito al sedere.
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M’ sa ch’ho pisciato ntel battesimo
(Ho l’impressione di aver pisciato nel fonte battesimale)
Il neonato fa la sua prima uscita ufficiale in occasione della cerimonia del Battesimo e se in tale occasione fa la pipì inizia male la sua
presentazione. Oggi con l’uso dei pannolini nessuno più si accorge
se il piccolo ha fatto la pipì, ma un tempo tutti i presenti si rendevano conto di ciò che stava succedendo e pensavano che portasse
sfortuna al neonato.
Chi suppone di aver “pisciato ntel battesimo” è chi si sente perseguitato dalla sfortuna.
M’ sa milland
(Mi sa mille anni)
Il detto significa non vedo l’ora.
Muri co’ le scarp’ lgate
(Morire con le scarpe legate)
Generalmente chi muore di morte naturale fa un periodo più o
meno lungo di malattia e quindi sta a letto non certamente con le
scarpe, ma chi muore di morte improvvisa di solito muore con le
scarpe ai piedi.
il nostro detto fa riferimento a persona che non considera il pericolo e fa cose che fanno presagire una morte imprevista alla quale va
incontro con troppa facilità. Così è per chi corre spericolatamente in
moto o in auto, ma anche chi rischia un po’ troppo nel lavoro senza
prendere le dovute precauzioni.
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M’ va poc’ a cece
(Mi va poco a cece)
Corrisponde al detto: “Non mi va a fagiolo”.
Ha valore di: “Mi va poco a genio”.
’Na breccia arbalta ’l carro
(Una breccia rovescia il carro)
Un tempo le strade principali erano imbrecciate. Molto spesso
erano sconnesse e un carro che percorreva una strada a pendenza
laterale poteva essere rovesciato da una breccia che - come la goccia
fa traboccare il bicchiere - lo faceva fatalmente sbilanciare e poi
rovesciare.
Metaforicamente il detto significa che basta poco per cambiare
il corso degli eventi.
’N’ aria d’foco e ’n’aria d’ cantina
fa bene a la sera e a la matina
(Un’aria di fuoco e un’aria di cantina fa bene alla sera e alla mattina)
Il proverbio vuol evidenziare che quando fa freddo lo stare accanto
al fuoco e il bere un buon bicchiere di vino fa sempre bene. Entrambi
riscaldano e in certi giorni è proprio quello che ci vuole.
’Na scarc.lata n’ butta giù ’na cerqua
(Un colpo di scure non abbatte una quercia)
Un sol copo di scure non può abbattere un albero - nel caso specifico una quercia - ed il nostro detto viene usato quando si vuoi dire
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che si può fare uno strappo alla regola, come nel caso - una tantum
- di una spesa imprevista che certamente non manda in dispianto.
Natale al sole, Pasqua al tizzone
Il tizzone è un pezzo di legno o carbone che brucia. Secondo il
nostro proverbio se a Natale c’è il sole a Pasqua bisognerà stare attorno al fuoco. Chissà perché ma le cose stanno quasi sempre così.
D proverbio, frutto di osservazioni fatte nei secoli, evidenzia questo
comportamento anomalo del tempo. E dire che abbiamo sempre
sognato un Natale con la neve ed una Pasqua con il sole!
’Na volta per uno n fa male a nisciuno
(Una volte per uno non fa male a nessuno)
Quando capita qualche fatto increscioso a qualcuno, è d’uso
ricordare che “una volta per uno non fa male a nessuno”, che è come
dire che sono cose che possono capitare a tutti, anche a coloro che
proprio non se lo aspettavano.
’Na volta fugge ’l can’ ‘na volta l’ lepre
(Una volta corre il cane, una volta la lepre)
La lepre è un animale timido e non.sa affrontare certi pericoli e
per questo scappa, specie se inseguita dai cani. Anche il cane scappa
ma solo in casi di stretta necessità e non certo di fronte alla lepre.
Il nostro detto, vuoi far notare che non sempre a battere in ritirata
sono gli umili e i deboli, anche i forti ed i prepotenti prima o poi
trovano chi li fa correre. Il detto viene anche usato per indicare che
qualche volta gli avvenimenti costringono le persone a cambiare
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abitudini e comportamenti, come nel caso di persone ricche che
diventano povere o di persone povere che diventano ricche.
N’ butta via manch’ j osse dla pulenta
(Non butta via neanche gli ossi della polenta)
La polenta si sa non ha ossi. E chi si tiene anche ciò che non esiste è
proprio una persona che non butta via davvero niente. Queste persone
esistevano quando la gente povera era semplicemente poverissima;
oggi non ci sono più o sono come le mosche bianche.
Questo modo di dire è forse oggi fuori del tempo tanto è vero
che viene usato raramente e da persone molto vecchie.
N’ c’è più nnè puzza nnè bruciaticcio
(Non c’è più puzza né bruciaticcio)
L’espressione si usa per indicare che di una certa cosa non c’è
rimasta alcuna traccia, neanche i rimasugli, perché di quella cosa che
è stata bruciata per farla scomparire non c’è più neanche la puzza
del bruciaticcio.
N’ c’è terra da fa’ pallette
(Non c’è terra da fare pallette)
“Palletta” è una piccola palla che nel nostro caso è fatta con terra
bagnata. Se per un attimo immaginiamo un tale che si trova in mezzo
ad un deserto e che voglia appallottolare la terra, è proprio il caso
che dica: “non c’è terra per fare pallette”.
Il detto viene usato tutte le volte che si vuoi indicare che una
cosa è impossibile da eseguire e che proprio non c’è niente da fare.
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N’ c’ha manch’ la fede del boncostume
(Non ha neanche la fede del buoncostume)
Il detto ci riporta a quando era “buoncostume” (cioè norma) avere
la fede in Dio. Non avere neanche la fede, come voleva il buoncostume, era come dire di non avere niente, cioè come si dice oggi
“essere poveri in canna”.
Geppetto quando ebbe finito di fare il suo burattino decise di chiamarlo Pinocchio perché aveva conosciuto una famiglia di Pinocchi
che se la passavano bene. Il più ricco di loro... chiedeva l’elemosina!
N’ c’ha manch’ ’l temp’ d’ batte j occhi
(Non ha neanche il tempo di battere gli occhi)
L’espressione sta ad indicare colui che avendo molte faccende
da sbrigare non riesce a fare neanche cose pur necessarie e naturali
come il... battere le palpebre degli occhi.
Un’altra espressione che rasenta l’inverosimile e che per certi
versi richiama la precedente è: “N’ c’ ha manc’ i occhi per piagne”
(Non ha neanche gli occhi per piangere). In questo caso si tratta di
persona talmente povera che non possiede proprio nulla,... neanche
gli occhi per piangere il suo stato di miseria.
N’ c’ha manco ’n soldo per fa’ canta’ ’n ceco
(Non ha neanche un soldo per far cantare un cieco)
In tempi andati i minorati fisici erano numerosi ed era facile
incontrarli alle fiere, per le strade e anche sull’uscio di casa nell’atto
di stendere la mano. Di solito i ciechi per sollecitare l’elemosina
cantavano accompagnandosi con il violino; spesso era la gente stessa
che chiedeva loro di cantare in cambio di un soldo.
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Chi non aveva un soldo per far cantare un cieco era una persona
che non aveva proprio nulla. La frase si usa anche oggi per evidenziare la povertà di una persona, di una famiglia o di un gruppo.
N’ c’ mettemme ’l cappello che la Messa nn è fnita
(Non ci mettiamo il cappello perché la Messa non è finita)
Durante la Messa si sta a capo scoperto e solo alla fine cioè all’uscita ci si rimette il cappello. È chiaro che se la Messa non è ancora
terminata nessuno pensa di mettersi il cappello.
Il proverbio vuoi mettere in evidenza che non si deve dire o fare
una certa cosa prima del tempo.
N’ c’ n’è un da la grazia!
(Non ce n’è uno dalla grazia!)
Questa espressione può essere riferita indifferentemente a persone,
animali o cose e vuoi mettere in evidenza che nel gruppo preso
in considerazione non c’è nessun elemento che si presenti come
dovrebbe o per l’aspetto esteriore (animali o cose) o per il comportamento (persone).
Di solito questo detto viene usato nei confronti di un gruppo
ristretto di persone - una famiglia, ad esempio - per esprimere un
giudizio negativo sul loro comportamento.
N’ cresce e n’ crepa
(Non cresce e non crepa)
Il detto viene usato per indicare una persona, un animale o un
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vegetale che stenta a crescere anche se non da segni evidenti di essere
alla fine dei suoi giorni.
Nel caso che il soggetto in questione diminuisca il volume o di
peso si usa dire che “arbocca ntel crocc(i)olo” (ritorna nel guscio).
Quest’ultima espressione viene particolarmente usata per i bambini
che stentano a crescere.
N’ c s’ combatte
(Non ci si combatte)
Il detto viene usato per indicare una persona con la quale non ci
si ragiona. Si tratta quasi sempre di una persona volgare e violenta.
N’c’s’pia ’n acapezzo
(Non ci si prende un accapezzo)
L’espressione ha valore di “non ci si capisce niente” ed è riferita
a persona che parla senza seguire un filo logico.
Un’espressione simile è quella citata: “È comme le pecore del
diavolo: n’ e’ s’ pia nnè cascio nnè lana” (È come le pecore del
diavolo: non ci si prende né cacio né lana). Quest’ultimo modo di
dire sta da indicare una persona dalla quale non ci si capisce mai
niente né da un lato né dall’altro: né quando parla né quando agisce.
N’ c’ s’ vede manch’ a bestemmià
(Non ci si vede neanche a bestemmiare)
Il bestemmiare non richiede certo la luce, tuttavia il buio a volte
è talmente fitto che sembra impossibile fare qualsiasi cosa, anche lo
stesso bestemmiare. L’espressione sta ad indicare il buio più pesto.
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N’ c’ va manco ’l diavlo pe’ ’n’anima
(Non ci va neanche il diavolo per un’anima)
Nessuno mette in dubbio che il diavolo andrebbe a prendere un’anima in qualsiasi posto essa si trovi.
Quando si vuoi indicare un luogo che sembra inaccessibile per
le infinite difficoltà da superare si dice che in quel luogo “n’ c’ va
manco ’1 diavlo pe’ ’n’anima”.
N’ da manch’ nti muri d’ Caj
(Non da neanche nei muri di Cagli)
Le mura di cinta di Cagli sono note per la loro ampiezza e così
chiunque guarda Cagli anche a distanza gli saltano subito agli occhi
queste mura. Chi guarda la città di Cagli e non da nelle mura (non
vede le mura) non è una persona normale.
L’espressione sta ad indicare chi parla a vanvera.
N’ da retta ai sogni che n’ dicchne ’l vero
(Non dar retta ai sogni che non dicono il vero)
È condivisione comune che una cosa sognata, solo raramente si
avvera e così quasi nessuno fa caso a ciò che sogna.
Il detto però non fa riferimento a cose sognate ma vuoi ricordare
che una cosa molto desiderata, quasi fosse un sogno, non si ottiene
facilmente. Ci sarà capitato a volte di aver sognato di essere in possesso
di tante monete d’oro o di fare un bel viaggio, ma questo non vuoi
dire che le cose si siano poi avverate. C’è, è vero, chi consulta il
libro dei sogni per individuare i numeri da giocare al lotto sperando
in una vincita ma anche qui restiamo nel mondo dei sogni!
Il detto è un invito a non sognare ad occhi aperti!
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Ndo’ caca lascia la merda
(Dove caca lascia la merda)
Il detto rievoca i vecchi tempi quando nelle case di campagna
non c’era un gabinetto vero e proprio. Nel migliore dei casi era una
costruzione simile ad un capanno da caccia fatto con materiale di
fortuna e posto in un angolo della concimaia.
A volte fungeva da gabinetto un luogo un po’ riparato dagli sguardi
indiscreti e così si formavano qua e là costellazioni indesiderate.
Oggi il detto indica una persona che non riordina le sue cose.
Ndo’ n’ c’ ariva c’ tira ’l cappello
(Dove non ci arriva ci tira il cappello)
Il detto è riferito soprattutto al Don Giovanni che prova a far la
corte a tutte le donne che incontra anche se non sempre i risultati
sono quelli sperati.
Ndo’ vai? A pia’ ’l papa pia barba?
(Dove vai? A prendere il papa per la barba?)
Il detto viene rivolto a chi gira senza una meta prestabilita o va
in un posto senza una ragione specifica.
Ndo’ n’ c’ ariva c’ tira ’l cappello
(Dove non ci arriva ci tira il cappello)
Il detto è riferito soprattutto al Don Giovanni che prova a far la
corte a tutte le donne che incontra anche se non sempre i risultati
sono quelli sperati.
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Nengue fino fino: ne fa’ ’n blichino
(Nevica fino fino: ne fa un ombellichino)
I nostri vecchi che avevano esperienza del comportamento del
tempo non si spaventavano della neve che cadeva a grandi fiocchi
perché quella era di breve durata. Era invece motivo di preoccupazione la neve che cadeva a piccoli fiocchi fitti. In questo caso prevedevano che la nevicata durasse più a lungo del solito e che di neve
ne cadesse tanta da arrivare... all’ombellico!
N’ fa l’ materie!
(Non giocare!)
La frase era rivolta spesso dai grandi ai bambini che giocavano.
In questo modo di dire c’era la preoccupazione dei grandi perché
i bambini non giocassero, ma li aiutassero invece nei vari lavori, a
I nostri vecchi che avevano esperienza del comportamento del
tempo non si spaventavano della neve che cadeva a grandi fiocchi
perché quella era di breve durata. Era invece motivo di preoccupazione la neve che cadeva a piccoli fiocchi fitti. In questo caso prevedevano che la nevicata durasse più a lungo del solito e che di neve
ne cadesse tanta da arrivare... all’ombellico!
N’ ganga ’n’aria
(Intraducibile)
“Ganga”’ è il lamentarsi di un bambino che desidera qualcosa.
In italiano il verbo con significato simile è “ganghire”, ma è poco
usato. Il nostro detto sta ad indicare mancanza assoluta di vento (e
quindi mancanza di qualsiasi forma di... lamento dell’aria); è quello
che a volte si verifica nel colmo della calura estiva.
C’è anche il detto “nn ha gangato” e viene usato per indicare un
animale che è morto sul colpo senza aver avuto il tempo di lamentarsi.
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N’ha but’ ’na doga
(Ne ha bevuto una doga)
Doga è una delle striscie di legno che compongono la botte. Bere
il vino per l’altezza di una doga è un bere senza fine.
N’ha da pia’ più del somar’ d’ Berti
(Ne dovrà prendere più del somaro di Berti)
Berti era un mugnaio che aveva il mulino lungo il corso del Rio
Freddo di Fratterosa. Questo mugnaio - come del resto gli altri
mugnai - andava a prendere i cereali da macinare nelle case degli
agricoltori e poi li riportava con l’aiuto del suo somaro. Si dice che
questo somaro fosse molto testardo ed il padrone non aveva né il
tempo né la pazienza per correggerlo. E per questo il povero asino
che spesso si impuntava su per le salite di Frtterosa di botte ne prendeva a non finire. A noi è rimasto il detto: “N’hai da pia’ più del
somar’ d’ Berti” che vuoi dire che se tu continui a comportarti così
sei destinato a prenderne tante.
N’ha fatt’ più d’ Bertoldo
(Ne ha combinate più di Bertoldo)
Sono proverbiali le tante maracchelle di Bertoldo e pertanto
l’espressione viene affibbiata a chi ne ha combinate di tutti i colori.
N’ la di’ sott’ al tetto
(Non la dire sotto il tetto)
L’espressione si riferisce alla cova. Secondo una credenza popolare particolarmente radicata fra i bambini non si doveva dire ad
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altri dove si trovava un certo nido quando si era sotto il tetto, perché
la serpe poteva udire ed andare a distruggere il nido. Se per caso
succedeva di indicare inavvertitamente il luogo bisognava recitare
questo scongiuro:
“Serpe, serpe sbrigolata
non anda a la mia covata,
c’è ’na falce ruginita
che ti taglia, che ti trita
fina fina
comme ’l fior de la farina”
(Serpe, serpe variegata
non andare alla mia covata,
c’è una falce arrugginita
che ti taglia, che ti trita
fina fina
come il fiore della farina).
N’ lugrà ’l petrolio
(Non sprecare il petrolio)
Il lume era strettamente necessario durante la cena e quando le
donne filavano o tessevano, diversamente doveva essere spento
perché... si sprecava il petrolio! Era un invito al risparmio fra gente
che aveva appena quel che bastava per sopravvivere.
Nn è gnente, nn è gnente... e ’l somaro è morto
(Non è niente, non è niente... e il somaro è morto)
Occorre ricordare che un tempo per alcuni il somaro rappresen-
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tava la maggiore ricchezza e quando il somaro moriva questa era
una grande disgrazia.
Il detto di cui sopra sta ad indicare che quando si sta male non si
deve pensare o dire che non è niente: occorre invece correre ai ripari
fin che si è in tempo.
Nn è né dì nn è ora
(non è giorno né ora)
Il detto si usa per indicare che un avvenimento o un incontro
fastidioso sono avvenuti del tutto fuori orario; più specificamente
fa riferimento al mattino presto quando ancora è buio e dobbiamo
alzarci anche se non abbiamo proprio finito il sonno.
Nn è sempre festa quant’ sonene le campane
(Non è sempre festa quando suonano le campane)
Le campane possono suonare per vari motivi: perché è mezzogiorno, perché c’è un temporale in arrivo, perché inizia una funzione
religiosa e così via. Insomma quando suonano non è sempre festa.
Il proverbio ci vuoi ricordare che non dobbiamo pensare che le
cose vanno sempre per il verso giusto. Le campane possono suonare
perché è festa, ma anche perché è morto qualcuno.
Nne sta’ a splendone
(Non stare con le mani a penzoloni)
L’espressione è un invito a chi sta senza fare niente a volersi
sbrigare e fare qualcosa.
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Nn ha fatt’ manch’ la capezzagna
(Non ha fatto neanche la cavedagna)
La cavedagna è quella striscia in cima e in fondo ad ogni campo
che, non potendo essere arata o seminata secondo il verso della lunghezza, viene arata o seminata secondo la larghezza, con l’ultima
passata. Come facilmente si capisce si tratta di una piccolissima parte
del terreno rispetto all’intero campo.
Il detto sta ad indicare chi di un certo lavoro ne ha fatto ancora
solo una parte insignificante rispetto al tutto.
Nn ha sonno
(Non ha sonno)
Chi non ha sonno per forza di cose sta sveglio e il detto viene
riferito a chi è sempre attento e pronto sia nel parlare che nel fare. Di
una persona del genere si usa anche dire che: “n’ dorme da piedi”. Per
capire quest’ultimo detto, con significato uguale al primo, bisogna
ritornare indietro nel tempo quando in un letto matrimoniale dormivano anche quattro persone e in caso di necessità una quinta persona
poteva dormire di traverso in fondo al letto. Naturalmente coloro
che non dormivano “da piedi” (in fondo al letto) erano le persone
più accorte.
Nn j da’ da di’
(Non gli dare modo di dire)
Ci sono persone che sembrano nate apposta per infastidire gli altri.
E quando si accingono a farlo ci può essere qualcuno di giudizio
che li invita a non infastidire chi in quel momento sta zitto e si fa
gli affari suoi.
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“Nn j da’ da di’” è l’invito a non dar modo ad altri di dire... qualcosa di poco corretto. Insomma è come dire: “Non gli dar fastidio”.
Nn j fa ’l colletto
(Non fargli il collarino)
La frase è detta durante la mescita delle bevande ed è un invito
all’oste o al barista o ad altri a non voler lasciare nel bicchiere tanto
spazio vuoto, quasi quanto il colletto del prete.
N’ m’inciurlì
(Non mi assordare)
“Ciurlo” è un tappo di legno e serve per chiudere un buco, ad
esempio quello di una cannella tolta in una botte. “Inciurlire” ha
valore di mettere un tappo alle orecchie cioè di rendere sorda una
persona usando un tono di voce stridulo ed acuto emesso vicino
all’orecchio di chi ascolta.
L’espressione ha valore di: non strillare.
N’ parla e n’ muge
(Non parla e non muggisce)
Si dice quando si vuoi indicare chi non parla quasi mai.
Il detto indica una persona che non solo non si comporta come
fanno gli esseri umani che per natura comunicano con gli altri, ma
non si comporta neanche come gli animali che bene o male emettono
la loro voce e a modo loro comunicano con i propri simili.
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N’pol paidi’
(Non può digerire)
E detto soprattutto dei volatili da cortile, nati da poco, quando non
viene dato loro un becchime adatto nei primi giorni di vita e quindi
non possono digerire.
N’ sa fa manch’ ’n o co’ ’n bicchiere
(Non sa fare neanche una “o” con un bicchiere”)
La lettera “o” è quel piccolo cerchio che tutti dovrebbero essere
in grado di tracciare. Più facile ancora dovrebbe essere tracciare un
tondo usando il fondo di un bicchiere. Chi non riesce neanche a fare
questo è una persona che non sa fare neanche il lavoro più semplice.
Insomma si tratta di un buono a nulla.
N’ s’ guadagna manch’ l’acqua per lavass’ l’ mane
(Non si guadagna neanche l’acqua per lavarsi le mani)
Oggi l’acqua potabile è un bene prezioso e il contatore sta a dirci
che ha un prezzo, ma un tempo l’acqua potabile non aveva alcunvalore: si trattava semplicemente di andare ad attingerla alla fontana
pubblica anche se a volte poteva essere lontana.
L’acqua potabile dunque non aveva valore e quella per lavarsi le
mani meno ancora, perché era acqua non potabile e per di più bastava
quella poca contenuta in un mezzo catino.
Chi non si guadagna neanche l’acqua per lavarsi le mani è una
persona che pur mettendo buona volontà non riesce a ricavare un
utile evidente dal proprio lavoro.
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N’ te fa più vede nnè te nnè ’l tempo tristo
(Non ti far più vedere né tu né il tempo cattivo)
Questo modo di dire viene indirizzato nei confronti di una persona
indesiderata che viene paragonata al tempo cattivo e come il tempo
cattivo, dovrebbe stare sempre alla larga.
Ntel libbra di poretti segnmce che c’ so nato, ntel libbro dei
cojoni... scassme
(Scrivi il mio nome nel libro dei poveretti perché ci sono nato, in
quello dei fessi... cancellami)
Il detto viene ricordato da chi è consapevole di essere povero e
non ne fa mistero anzi sembra esserne fiero. Il povero però non vuole
essere scambiato per un fesso - perché povero non è sinonimo di
fesso - e nel caso che qualcuno avesse scritto il suo nome nel libro
dei fessi lo cancelli pure.
Ntl’ anno bisesto, chi s’ la cava è lesto!
(Nell’anno bisesto, chi se la cava è lesto!)
L’inventore dell’anno bisestile fu Giulio Cesare. Seguendo i
consigli dell’astronomo alessandrino Sosigene rimise ordine nel
calendario. Per prima cosa fissò la lunghezza dei mesi - che è quella
di oggi - e stabilì che l’anno solare fosse di 365 giorni, ma che ogni 4
anni fosse aggiunto un giorno in più dopo il sesto giorno (bis - sesto)
avanti le calende di Marzo; così Febbraio, che era di 28 giorni, ogni 4
anni ebbe un giorno in più e l’anno fu detto bisesto. E proprio l’anno
bisesto, al quale fa riferimento il nostro proverbio, porta sfor-tuna
e chi se la cava è bravo. Questo proverbio come tanti altri rientra in
quella serie di credenze popolari che quasi sempre sono infondate
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ma che si continuano a tramandare proprio perché c’è ancora chi
crede a queste cose.
Nt’ogni mlaro c’è sempre qualch’ mela fradia
(In ogni melato c’è sempre qualche mela fradicia)
Il “melare” veniva predisposto su un grosso albero - per lo più
olmo o moro - potato e guidato in modo da contenere un enorme
nido fatto di tralci di viti con all’interno uno strato di paglia. Dentro
questa grande cavità l’agricoltore metteva le mele raccolte nel proprio
podere in ottobre-novembre. Il tutto poi lo ricopriva con paglia per
proteggere i frutti dai freddi invernali. Quando andava a prelevare
le mele era anche naturale che ne trovasse qualcuna... fradicia.
Il detto sta ad indicare che anche da una famiglia esemplare può
venir fuori la “pecora nera”.
N’ trova loco
(Non trova luogo)
Chi “n” trova loco” è una persona che non trova - o da l’impressione di non trovare - un luogo adatto per fermarsi e riposare un po’.
In genere è una persona che smania, si agita, si strugge per qualche
ragione ben precisa ma può anche trattarsi di persona irrequieta
per natura. A volte però l’espressione si usa anche per indicare una
persona che è continuamente indaffarata.
Nuvole e pan fresco
(Nuvole e pane fresco)
Il detto fa riferimento ai tempi passati quando gli agricoltori
avevano alle dipendenze i garzoni con contratto annuale. I garzoni
190
erano ragazzi, giovanotti o uomini maturi che svolgevano i lavori
più umili e più duri ricevendo una paga molto modesta.
Il garzone era colui che eseguiva l’aratura o che guidava la “stroppa”
ma il garzone era anche colui che vangava l’orto, che falciava l’erbaio o lo strame, che zappava, rastrellava, che custodiva le viti, che
sbrigava i vari lavori nella stalla e così via. Il più delle volte lavorava
da solo mangiando un tozzo di pane duro. Questo poveraccio non
vedeva l’ora che qualche pioggia o temporale interrompesse il ritmo
pressante dei suoi interminabili lavori e che il pane duro finisse per
poter mangiare una fetta di pane fresco.
“Nuvole e pan fresco” era quindi l’augurio che il garzone faceva
a se stesso.
Nvelle
(Da nessuna parte)
Questa espressione, se di origine latina, pò derivare da “in villa”
(in campagna)’e quindi ha valore di: “non c’è” o meglio “da nessuna
parte”.
Quando non si vuole andare da nessuna parte, nel nostro dialetto
si dice: “N’ vo nvelle” (non vado da nessuna parte).
N’ vola ’na bebbla
(Non vola una farfalla)
Il detto indica calma assoluta e quasi mancanza di ogni forma
di vita. Ciò si verifica nella calura del colmo dell’estate, in assenza
assoluta di vento. È quella che nella scala dei venti del Beaufort
viene indicata come forza zero.
191
O dento o ganascia
Il detto viene pronunciato da chi è deciso ad arrivare fino in fondo
ad ogni costo. Naturalmente questo detto - riferito al dentista - va
preso in senso metaforico; sentite cosa è successo a me.
Ero al terzo anno delle magistrali. Frequentavo spensieratamente
la scuola ad Urbino e mi trovavo bene: si studiava sì ed anche per
tante ore, ma ogni tanto, come si diceva lassù, si faceva “sgarraticcio”, cioè si marinava la scuola. E così fu per alcuni di noi della
terza A: invece di andare a scuola andammo in giro per la fiera in un
caldo giorno di Maggio. Curiosammo fra le bancarelle poi ritornammo nella piazzetta centrale dove ci fermò una giovane zingara
che leggeva la mano. Qualcuno del gruppo non disdegnando le sue
fattezze si fece avanti. A me non interessava la lettura della mano ma
dopo che tutti gli altri si erano fatti leggere la mano fu la volta mia.
Mi prese la mano, me la scrutò a lungo, poi mi previde una vincita al
gioco, un felice matrimonio e così via. Le solite baggianate pensai,
ma quando mi disse che presto avrei dovuto cavarmi un dente allora
diventai serio perché avevo veramente un dente che ogni tanto mi
procurava un dolore insopportabile. E quando aggiunse: “Giovanotto,
non ti preoccupare, chi ti caverà il dente sarà una persona decisa: o
dente o ganascia” le sue parole mi fecero raggelare.
Passò Maggio e gran parte di Giugno. Finita la scuola tornai a
casa per le vacanze estive.
Ogni tanto sentivo quel maledetto dolore al molare ma quando
vedevo il dentista cercavo di cambiare strada. Anche perché Lellino,
il dentista, di diminutivo aveva solo O nome; era un omone ben
proporzionato, sempre con il sorriso sulle labbra. Sì, ma io lo tenevo
sempre a distanza anche se eravamo amici, anche se aveva lo studio
accanto a quello legale di mio fratello dove io andavo a battere a
macchina. In una afosa giornata di fine giugno lo incontrai al bar e
dopo aver bevuto insieme ad un tavolo, gli parlai del mio molare che
192
in quel momento mi doleva da morire. Gli raccontai quello che mi
aveva previsto la zingara in quel giorno di fiera ad Urbino. Lellino
sorrise e mi disse di passare la sera stessa nel suo studio dentistico.
Ci andai deciso a non farmi togliere il dente, ma Lellino con quel
suo sorriso suadente mi disse che se le zingare potessero prevedere il
futuro degli altri farebbero prima di tutto le previsioni per loro stesse.
Compilerebbero una schedina vincente della sisal (il totocalcio di oggi)
e non avrebbero bisogno di andare nelle fiere ad adescare la gente.
Mi convinse e così mi decisi per l’estrazione. Lellino mi fece delle
piccole iniezioni intorno al dente e qualche minuto più tardi prese
una strana pinza fra le tante disposte in fila. La disinfettò, io aprii la
bocca e lui armeggiò un po’ e quando mi mostrò il dente estratto mi
sembrava che avesse fatto un gioco di prestigio. Non avevo sentito
alcun dolore. Secondo la zingara il dentista mi avrebbe tolto “o dente
o ganascia”; per fortuna Lellino mi aveva tolto solo il dente e per di
più senza procurarmi alcun dolore!
Ogni lasciata è persa
(Ogni occasione non colta è perduta)
Le occasioni favorevoli vengono spesso offerte dalla fortuna
e possono essere di vario genere: si va da quelle che potrebbero
cambiare la nostra situazione economica o il nostro lavoro a quelle
del divertimento in genere. Ed è a queste ultime che fa riferimento
il detto invitando tutti a non lasciarsi sfuggire le occasioni.
Ognuno al mestier sua e ’l lupo a l’peqre
(Ognuno al suo mestiee e il lupo alle pecore)
Questo proverbio vuoi dire: ognuno faccia le cose che sa far bene
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come il lupo nello sbranare le pecore. Il proverbio con molta saggezza
vuoi ricordare a quelli che si mettono in testa di saper fare un certo
mestiere o una professione che per far ciò occorre una specifica
competenza, diversamente poi nella pratica andranno incontro ad
un fallimento quasi sicuro. Nei tempi passati l’artigiano prima di
esercitare il suo mestiere frequentava per molti anni la bottega per
imparare bene tecniche e segreti.
Anche chi si preparava a esercitare una professione dopo studi
seri, prima di esercitarla in proprio, seguiva un lungo tirocinio per
imparare quelle cose che si apprendono solo con la pratica.
Oggi non sono molti quelli che si sottopongono a questo lungo e
paziente tirocinio prima di esercitare un mestiere o una professione
e così ci capita ogni tanto di imbatterci in questi... guastamestieri!
D’altra parte anche ad ognuno di noi sarà forse capitato qualche
volta di essersi messo in testa di saper fare un certo lavoro - manuale
o intellettuale - e poi alla prova dei fatti di dover constatare che quel
lavoro non era pane per i suoi denti. Allora forse ci è tor nato in mente
il vecchio proverbio: “ognuno al mestier sua e ‘1 lupo a 1’ peqre”.
-Padre Fiolo e Spirto Santo
ho trovato ’l cojon fin che campo
- Acqua santa benedetta
si n’ basta ’l baston c’è la paletta
(Padre, Figlio, Spirito Santo
ho trovato il fesso fin che campo.
Acqua santa benedetta
se non basta il bastone c’è la paletta)
Terragobba, soprannominato così per quel suo stare curvo nei
lavori dei campi, era di Sassoferrato; tutti lo conoscevano come un
bravo coltivatore diretto ed un abile mediatore.
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Alla grande fiera che si svolge in agosto a San Lorenzo ebbe modo
di conoscere la Santina, una bella ragazza bionda con gli occhi azzurri
ed una tal parlantina da essere soprannominata “l’avvocatessa”. A
questa ragazza, figlia di un mezzadro di S. Lorenzo, piaceva il vestir
bene, un po’ meno il lavoro.
Terragobba si innamorò subito della Santina e l’anno dopo si
sposarono. Si dice che al termine della cerimonia, prima di uscire
dalla chiesa, la Santina segnandosi con l’acqua santa disse: “Padre,
Piolo e Spirito Santo, ho trovato ‘1 cojon fin che campo”. Terragobba
sorridendo mise la mano nell’acquasantiera e segnandosi continuò:
“Acqua santa benedetta si n’ basta ‘1 baston c’è la paletta” per ricordare alla sposa che a dettar legge sarebbe stato lui a costo di usare
la paletta del fuoco.
Il proverbio si addice a un modo di pensare ormai lontano nel
tempo quando le donne si sposavano pensando ad una sistemazione
e gli uomini pensavano di imporsi alle mogli usando la forza.
Credo che il proverbio oggi non abbia più senso o almeno lo spero!
Pagà a babbo morto
(Pagare alla morte del padre)
Ancora nell’immediato dopoguerra esistevano nelle nostre
campagne le famiglie patriarcali nelle quali chi comandava ed
amministrava tutto era il “capoccia” e in second’ordine sua moglie,
la “ver-gara”. Tutti gli altri - trenta ed anche quaranta persone o
più - non disponevano di una lira e così, a volte, contraevano debiti
con l’impegno di pagarli quando avrebbero ereditato, cioè dopo la
morte del padre.
Il pagare un debito in questo modo era come dire: “Te li dò quando
ce li ho”,, cioè... forse mai!
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Paga’ col sole d’Agosto. Paga’ co’ l’ombra del campanile
(Pagare col sole d’Agosto. Pagare con l’ombra del campanile)
In entrambi i proverbi è un pagare con qualcosa che non si può
avere in mano e che praticamente non ha alcun valore di scambio.
I detti vengono usati per indicare l’impossibilità di pagare da
parte di qualcuno.
Pare che sei statto a ’n funerale!
(Pare che tu sia stato ad un funerale!)
D detto viene rivolto a chi ha una espressione mesta e pensierosa. Un tempo però non tutti quelli che avevano seguito il feretro
avevano una faccia da funerale perché c’era anche chi ci andava per
ricevere una ricompensa.
Questa usanza era ancora in auge al tempo di mio nonno che
scherzando si ricordava di quando Menco, parente del defunto, fermò
tempestivamente sul cancello di entrata del cimitero il mesto corteo
dicendo: “Lee, ade’ pago a tutti!” (Fermi, perché adesso pago a tutti!).
Questa vecchia usanza di pagare chi non parente del defunto
partecipava al corteo funebre ha radici molto lontane: al tempo dei
Romani c’erano le “prefiche” che erano donne pagate per cantare,
piangere e lodare il morto.
Parla comm’ magni
(Parla come mangi)
Quando parliamo dobbiamo avere la stessa naturalezza che usiamo
nel mangiare. È questa la raccomandazione a chi cercando di parlare
in italiano colleziona una serie di sfondoni che sono motivo di sonore
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risate da parte di chi ascolta. Parlare in dialetto è la cosa più normale
di questo mondo in qualsiasi regione d’Italia. I più accaniti nemici
del dialetto sono quasi sempre gli insegnanti della scuola elementare,
anche se i programmi di questa scuola parlano di “far conseguire agli
alunni la capacità di comunicare correttamente in lingua, ma... va
anche rispettato l’eventuale uso del dialetto in funzione dell’identità
culturale del proprio ambiente”.
Certe espressioni dialettali tradotte in lingua perdono tutta la
loro vivacità ed il loro calore. Se poi a voler tradurre ad ogni costo
espressioni o termini dialettali in lingua è una persona come la sora
Teresa allora il bavaglino diventa “sbavaglio”, il geometra diventa
“geometro” e così via. Un giorno che il figlio era fuori della porta di
casa e la sora Teresa voleva farlo rientrare a causa del freddo, visto
che poco lontano c’era un signore distinto, disse al figlio: “Vieni qui
e bocca drento!”.
Passa ’l tempo e la morte s’allontana
(Passa il tempo e la morte si allontana)
Ai miei tempi fra bambini erano d’uso le “fregarelle”, cioè i
tranelli. Uno di questi era dire alla prima persona che si incontrava:
“Passa ‘1 tempo e la morte s’allontana”. Questa naturalmente correggeva il tiro e diceva: “Vorrai dire che la morte s’avvicina!”. Subito
si ribatteva: “E p’i cojoni n’ c’è la medicina” (E per i coglioni non
c’è la medicina).
L’ingenuità è una “malattia” che non si cura. Di persone ingenue
ce ne sono sempre state ovunque ma qui vale la pena di ricordare
una delle tante ingenuità di Checco, soprannominato Nasone per
quel suo naso grosso e bitorzoluto.
In una chiara notte d’estate Nasone, rientrando a casa dall’osteria
di San Vito dove forse aveva bevuto un po’ troppo, vide in un pozzo
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poco distante da casa sua la luna piena riflessa nell’acqua. La osservò
quasi estasiato come chi la vede per la prima volta. Corse nella stalla,
prese un secchio, lo legò con un pezzo di corda e ritornò al pozzo.
Dopo vari tentativi riuscì a far entrare la luna nel suo secchio e tutto
contento s’avviò verso casa. Ma quando si trovò a passare sotto i
grandi olmi la luna scomparve dal suo secchio. Tornò al pozzo e la
luna era di nuovo lì e pareva che risplendesse più di prima. Nasone
si riprese la luna e via di nuovo verso casa ma sotto gli olmi la luna
scomparve di nuovo ed anche questa volta Nasone ritornò al pozzo
e si riprese la luna, ma sotto gli olmi la luna scomparve e Nasone
desistette dall’impresa.
Tornò a casa, ripose gli arnesi nella stalla e andò a dormire. Non
accese il lume per non farsi sentire dalla moglie. Mentre si stava
spogliando la moglie che era ancora sveglia additando la finestra
disse: “Guarda che luna!” e Nasone: “L’ voi di’ a me? Ho picchiato
fin ade per portalla a casa!” (Lo vuoi dire a me? Mi sono dato da
fare fino adesso per portarla in casa!). Poi chiuse gli scuretti per non
vederla più. Ma l’aveva sempre davanti agli occhi e non gli dette
tregua neanche nel sonno perché la sognò per tutta la notte. Ancora
oggi a San Vito c’è un pozzo con la luna.
Pe’ gnente n mov’ la coda manco ’l gatto
(Per niente non muove la coda neanche il gatto)
Il detto vuoi significare che senza ricompensa non si ottiene niente
da nessuno. Il gatto, che è considerato il meno importante in una
famiglia e quindi è alle dipendenze di tutti, ebbene neanche lui non
fa niente (non muove neanche la coda) se non riceve una ricompensa.
A proposito di gatto ricordiamo l’altro detto: “L’ sa anche ’1 gatto!”
(lo sa anche il gatto) per indicare una cosa nota a tutti.
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Pe’ ’n cazz’ d’ mosca
(Per un cazzo di mosca)
L’espressione sta ad indicare che c’è mancato un niente al verificarsi o al non verificarsi di un certo fatto.
A parte la crudezza la frase è molto calzante e spesso sembra
insostituibile.
Per guarì’ i calli c’ vole ’l sudor di cantonieri
(Per guarire i calli ci vuole il sudore dei cantonieri)
Una persona che fa’ un lavoro manuale pesante ha generalmente i
calli alle mani ed i calli permangono se la persona continua a lavorare.
Secondo il nostro proverbio c’è un solo rimedio per guarire da questi
calli: occorre spalmare su di essi il sudore dei cantonieri. Ma secondo
l’opinione comune dei vecchi tempi questo sudore non si trovava.
Alcuni maligni sostengono che ancor oggi è la stessa cosa.
Se le cose stanno proprio così, allora chi ha i calli se li tiene.
Fortuna vuole però che i calli non sono una malattia ma se mai un
vanto dal momento che chi li ha è sicuramente una persona che lavora
e pertanto una persona di tutto rispetto.
Per magna c’ vol’ la fame
(Per mangiare ci vuole la fame)
Questo proverbio oggi è fin troppo ovvio. Ma un tempo quando il
cibo spesso era immangiabile il capoccia ricorreva al nostro proverbio
come per dire: non è che non mangi perché il cibo è cattivo ma semplicemente perché non hai fame. Naturalmente quando si aveva fame,
fame vera, si mangiava qualsiasi cosa e ci si consolava con il dire:
“quel che ‘nne strozza, ingrassa” (quello che non strozza, ingrassa)
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oppure rivolgendosi a chi non mangiava gli si diceva: “La galina
che n’ becca ha beccato’ (La gallina che non becca ha beccato); il
che era come dire: non mangi perché hai già mangiato.
Un giorno si discuteva fra amici sul come è buona la polenta ed
ognuno diceva la sua. Uno dei presenti saggiamente tagliò corto
dicendo: “Sapete comm’è bona la pulenta? Co’ la fame!”.
Per questa volta sorvoliamo
Giovanni Guerra era di corporatura robusta e per questo lo chiamavano Giovannone o più semplicemente “Giuanon”. Era guardia e
scopino a Fratterosa al tempo della prima guerra mondiale. Nel paese
lo ricordano per un episodio curioso che si è tramandato nel tempo.
Un giorno mentre era in servizio notò una gallina che razzolava
tranquillamente in una via del paese, poco distante dalla casa della
Marietta. Giuanon, vista la Marietta sull’uscio di casa, l’apostrofò
dicendo: “Guardate, Marietta, che sete in contravvenzione, perché
c’avete ’na gallina fori” (Guardate, Marietta, che siete in contravvenzione, perché avete una gallina fuori).
E la Marietta: “Guardate, Giuanon, che la galina e dl’Anastasia”
(Guardate, Giuanon, che la gallina è dell’Anastasia). L’Anastasia
era la moglie di Giuanon. Allora Giuanon, facendo un bel sorriso,
disse: “Per questa volta sorvoliamo!”
Per Santa Caterina: o la neve o la strina
(Per Santa Caterina: o la neve o il gelo)
Ricordiamo che Santa Caterina cade il 25 novembre e quindi è
da aspettarsi che intorno a questa data ci possa essere neve o gelo.
Questo proverbio, che ci richiama l’altro: “A Sant’Andrea: o
200
la neve o la bufea” (A Sant’Andrea: o la neve o la bufera), ci vuoi
ricordare che sul finire di novembre siamo già in inverno.
Pia gambone
(Prende gambone)
Gambone nella lingua italiana significa orgoglio, baldanza. E chi
prende gambone è una persona che incomincia a fare un po’ troppo di
testa sua. Mentre per un adulto fare o ragionare con la propria testa
è un pregio, per un bambino di pochi anni agire secondo il proprio
istinto potrebbe essere dannoso per lui e per chi gli sta intorno.
Occorrendo quindi ridimensionare questo comportamento si cita il
detto che di solito fa rifermento a quel bambino che sta prendendo
il sopravvento sui suoi genitori o su chi per loro.
Pia’ ’na grastica
(Prendere una “fregata”)
Il termine grastica può essere tradotto sia con “averla” (uccello
migratore del genere dei passeriformi) sia con “vescicola” (si tratta
di quella vescicola sieroso-ematica che si forma nelle dita per la
rottura dei capillari in seguito ad una pizzicatura causata da arnesi
quali tenaglie o pinze). Nel nostro caso “grastica” fa riferimento
proprio alla vescicola e l’espressione equivale a prendere un bidone
o più semplicemente a “prendere una fregata”.
Pia’ ’na rimbeccata
(Prendere una “rimbeccata”)
Rimbeccare è beccare di nuovo e l’animale che becca in conti201
nuazione non fa altro che aprire il becco. E così fa chi ha la tosse o
una respirazione difficile.
Il modo di dire indica chi prende o ha preso la tosse e/o il raffreddore.
Pianta’ l’ cannelle
(Piantare le cannelle)
Qui cannella non è la droga usata in cucina, ma il rubinetto
dell’acqua e “pianta 1’ cannelle” che letteralmente significa collocare saldamente rubinetti, nel nostro detto ha valore di piantagrane
e chi sente di essere uno col quale non si piantano grane è solito
dire: “Chi n’ s’ piantne le cannelle!” (Qui non si piantano le grane!).
Espressioni con valore del genere sono: “Chi n’ e’ s’impicca la giachetta!” o “Chi n’ e’ piove!”.
Pianta ’l chiodo ndo’ c’ bocca
(Conficca il chiodo dove entra)
L’espressione si addice a chi fa il prepotente con chi è più debole
di lui ma fa poi il cagnolino con chi è più forte.
Più in generale significa che c’è chi fa soprusi con chi non sa
reagire.
P’i minchioni n’ c’è la medcina
(Per i minchioni non c’è la medicina)
Indovina, indovinello, chi fa.l’uovo nel cestello?
In genere si risponde: “La galina” e il commento che segue può
202
essere: “Merda in bocca a chi l’indovina” oppure: “E p’i minchioni
n’ c’è la medcina!».
A parte il falso indovinello in realtà per chi soffre di fessopatia
non è stata ancora scoperta nessuna medicina.
Piscia chiaro e fa i fichetti al meddco
(Piscia chiaro e fai gli sberleffi al medico)
La vecchia medicina popolare era fatta di ricette a base di erbe,
radici, semi e foglie ed insegnava come preparare tisane, infusi,
impacchi, ma dava anche dei consigli e delle indicazioni alla gente
circa il proprio stato di salute deducendolo dalle osservazioni che si
potevano fare di volta in volta.
Orinare chiaro era sintomo - e lo è ancor oggi - di buon funzionamento delle vie urinarie e più in generale di buona salute può ben
immaginare un nuvolo di insetti assalì la povera capra che morì
poco dopo.
Piscialetto e magnasorci
(Piscialetto e mangiasorci)
Era un detto famoso conosciuto da tutti gli abitanti della nostra
vallata. Il detto si usava nei confronti di chi faceva la pipì sul letto e
si credeva che il rimedio di questa malattia fosse quello di mangiare
sorci. E così c’era chi cuoceva qualche topolino per il bambino o la
bambina che la faceva sul letto. Naturalmente chi mangiava questo
topolino non sapeva di che carne si trattasse perché... anche i grandi
mangiavano carne.
Spesso però gli interessati si accorgevano che quella non era la
stessa carne che mangiavano i suoi familiari, sia perché si sentivano
203
ripetere “piscialetto e magnasorci” e quindi ci pensavano sia perché
si rendevano conto dall’aspetto del pezzo di carne che non si trattava
né di pollo, né di coniglio e tanto meno di bistecca o di fettina. ,
Più che medicina popolare, questa del far mangiare topi era una
credenza popolare e sicuramente una delle più ingenue.
Più semme e più comparimme
(Più siamo e più figuriamo)
Il detto significa “più siamo e più bella figura facciamo”; si usa
sia quando si è contenti che a far parte del gruppo ci sia qualche
persona in più sia quando si accetta che una persona non del tutto
gradita faccia parte della compagnia.
Podessi fa’ la fine dla capra d’Ottavio!
(Possa tu far la fine della capra di Ottavio!)
Ottavio era un noto invalido di guerra che viveva a Montalfoglio
ed aveva una bella capra che gli dava latte fresco. Un brutto giorno
la capra inavvertitamente calpestò una famiglia di vespe. Come si
può ben immaginare un nuvolo di insetti assalì la povera capra che
morì poco dopo.
È una “sentenza” (maledizione), una delle tante, che si può sentire
fra persone che stanno litigando.
Quanto canta ’l cucco, a la sera piove e a la matina è sciucco
(Quando canta il cuculo, a la sera piove ed al mattino è asciutto)
Questo proverbio sta ad indicare la facilità del variare del tempo
nel mese di maggio con alternanza di piogge e di venti.
204
Quant’ canta ’l gallo for d’ora,
se ’l tempo è brutto armijora
se è bello peggiora
(Quando canta il gallo fuori dell’ora,
se il tempo è brutto migliora
se è bello peggiora)
Il gallo di solito canta all’alba, se lo fa in un orario diverso la gente
cita il nostro proverbio per dire che il tempo cambierà.
Quanto fa’ ’l pane ’n poretto, s’ lama ’l forno
(Quando fa il pane un povero, crolla il forno)
Questo detto, famoso nelle nostre campagne, vuoi mettere in
evidenza che la sfortuna (“s’ lama ’1 forno”) si accanisce subito contro
il povero, appena questo fa un piccolo miglioramento (“fa ’1 pane”).
Quanto ’l contadino magna la galina,
o sta male ’l contadino o la galina
(Quando il contadino mangia la gallina,
o sta male il contadino o la gallina)
Peppe d’ Binotti era fabbro a San Lorenzo. Un giorno andò a S.
Vito a riscuotere il cottimo da Delino.
Peppe arrivò poco dopo mezzogiorno e già la famiglia di Delino
aveva mangiato la minestra in brodo ed al centro della tavola c’era
il lesso fumante di gallina. Peppe fu invitato a sedersi ed a voler
mangiare. Il fabbro restando in piedi chiese: “Chi sta male?”. Delino
quasi meravigliato rispose: “Nessuno. Perché?”. E Peppe: “Quanto
’l contadino magna la galina, o sta male ’l contadino o la galina”.
Quel giorno il fabbro riscosse il cottimo, ma non si fermò a pranzo.
205
Quanto ’l corpo sta bene, l’anima n’ fugge
(Quanto il corpo sta bene, l’anima non scappa)
È una constatazione di fatto: quando c’è la salute l’anima rimane
nel corpo. Il proverbio viene spesso citato da chi ama mangiare e
bere. Un tempo il mangiare a sazietà era un lusso di pochi. Il fattore
di allora, che era una delle poche persone benestanti e mangiava e
beveva a sazietà, aveva di solito una bella pancia. Quella per la gente
di campagna, era simbolo di benessere e la gente comune quando
incontrava un obeso era solita esclamare con una punta di invidia:
“Mi sembri un fattore!”. Ora le cose sono cambiate ed il mangiare
troppo non è certo sinonimo di salute e chi lo fa deve poi rivolgersi
ad un dietologo. Il nostro proverbio viene oggi citato solo raramente
e quando lo si fa c’è sempre un pizzico di ironia nei confronti di chi
mangia un po’ troppo.
Quando ’l gatto s’ lecca, ’l tempo argambia
(Quando il gatto si lecca, il tempo cambia)
Questo proverbio fa riferimento ad una vecchia credenza secondo
la quale il gatto che si lecca a lungo il pelo sente che il tempo sta per
cambiare. Si dice anche che quando il gatto gira il sedere al fuoco
vuoi dire che sta per nevicare. In realtà quando il gatto si lecca è
perché ha bisogno di pulirsi e quando si mette vicino al fuoco, qualsiasi posizione assume, lo fa perché... ha freddo!
Quanto ’l pesco mi fiorì
tant’ la notte e tanto ’l dì
Quanto ’l pesco si magnò
’n’antra volta era a chel mo’
206
(Quando il pesco mi fiorì
tanto la notte e tanto il dì.
Quando la pesca si mangiò
un’altra volta era a quel modo)
Questo proverbio fa riferimento agli equinozi - 21 marzo e 23
settembre - quando la durata della luce (il dì) e quella della notte
sono uguali (“tant’ la notte e tant’ ’1 dì”).
Il periodo nel quale si maturano le pesche va da giugno ad agosto,
ma quelle citate dal nostro proverbio sono le pesche rustiche i cui
alberi ancora oggi allignano spontaneamente nelle nostre campagne.
Possono considerarsi come dei “portainnesti” (alberi da innestare) e
questi alberi maturano i propri frutti a settembre. E così i conti tornano:
il pesco fiorisce a marzo e il suo frutto si mangia a settembre, mesi
durante i quali la notte e il dì hanno la stessa durata.
Quanto ’l porcello è stuffo arbalta ’l trocco
(Quando il porcello è sazio rovescia il truogolo)
Il maiale quando è sazio a volte rovescia il truogolo che ormai
non gli serve più. Il nostro proverbio però, più che al comportamento
del maiale, fa riferimento a persone che, dopo aver sfruttato una
situazione favorevole, cambiano posizione, fanno il voltafaccia e
disprezzano i loro benefattori.
Quanto ’l sorcio l’ha preso ’l gatto,
qual ch’ fa lu’ è tutt’ ben fatto,
(Quando il sorcio l’ha preso il gatto,
quello che fa lui (il gatto) è tutto ben fatto)
Se si mettono di fronte sorcio e gatto si conosce già in anticipo il
207
risultato. È scontato poi che il gatto che ha in bocca il topo è padrone
assoluto di fare del topo quello che vuole e non sarà certo il topo a
dettare condizioni.
Il proverbio viene usato per dire che i potenti, anzi i prepotenti,
fanno sempre quello che vogliono senza che nessuno possa interferire.
Quanto ’l tempo s’ annette d’ notte,
dura quanto ’n caldaro a’ pere cotte
(Quando il tempo si mette al buono di notte,
dura quanto un caldaro di pere “cotte)
Nei tempi difficili, fino agli anni Cinquanta, si usava cuocere
nel caldaro le pere acerbe cadute a terra. Queste pere cotte, anche
se erano molte, duravano poco perché venivano mangiate o meglio
divorate in poco tempo.
Come il caldaro di pere cotte dura poco così è per il tempo che
si rimette al buono durante la notte.
Quanto nengue su le foje,
arnengue su le foje
(Quando nevica sulle foglie,
nevicherà di nuovo sulle foglie)
È questo uno dei tanti proverbi che servono per la lettura dell’andamento meterologico. Quando nevica con grande anticipo sull’inverno
quando ancora le foglie devono cadere, nevicherà anche a primavera
inoltrata quando gli alberi avranno già messo le prime foglioline.
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Quanto nnè ceco nnè zoppo,
è bello troppo
(Quanto non è cieco né zoppo,
è bello troppo)
Ritornando indietro nel tempo, per una ragazza povera e non
molto bella lo sposarsi era un grosso problema, ma era un punto di
onore il farlo (“belle o brutte, si sposan tutte”).
Il consiglio che la gente dava alla ragazza in cerca di marito era
che il suo ragazzo non doveva avere doti speciali: bastava che non
fosse né cieco né zoppo, perché già così era fin troppo bello.
A quei tempi le conoscenze erano ristrette. Basti pensare agli
scarsi mezzi di trasporto ed alle tante ore di lavoro alle quali ognuno
si dedicava con la conseguenza di nori avere tempo a disposizione
per conoscere altre persone. Spesso c’era chi per sposarsi sperava
nell’aiuto del “ruffiano” (mediatore di matrimoni) e pertanto doveva
accontentarsi della persona che gli capitava, se gli capitava. Diversamente sarebbe rimasto “giodco” (scapolo) o “armasta” (zitella).
Quant ne voi te, pe’ ’n soldo!
(Quanto ne vuoi tu, per un soldo!)
Abbiamo già detto del piccolissimo valore di un soldo. Con cinque
soldi si potevano comprare alcuni spilli o pochi lupini. Con pochi
soldi insomma si potevano comprare solo cose di minimo valore. A
chi pretendeva con un soldo di comprare tante cose veniva rivolto il
detto citato. Oggi si usa sia nei confronti di chi con pochi spiccioli
pretende di acquistare cose di un certo valore, sia nei confronti di
chi chiede favori in continuazione senza contraccambiare.
La nostra espressione può anche essere rivolta ad una persona un
po’ ficcanasa che vuoi conoscere cose riservate senza dare mai risposte
alle nostre domande e che quando lo fa rimane sempre nel vago.
209
Quanto Pasqua ven d’ Maggio
(Quando Pasqua viene di Maggio
Un detto equivalente a questo è: “L mes’ del poi e l’an’ del mai”
(il mese del poi e l’anno del mai).
Le due espressioni stanno ad indicare una cosa che è impossibile
che si realizzi, dal momento che Pasqua - festa mobile - non cade
mài di maggio ed il mese del poi e l’anno del mai stanno ad indicare
un calendario sconosciuto a tutti.
Quanto semme ai Nocentine
fnite l’feste e fniti i quadrine
(Quanto siamo agli Innocentini
finite le feste e finiti i quattrini)
Il 28 dicembre è la festa degli Innocenti e secondo il nostro
proverbio è la fine delle feste natalizie e dei quattrini da spendere.
Quant’ tira la curina
’n pezzo tira e po’ urina
(Quando tira la curina
un pezzo tira e poi... piove)
La curina è lo scirocco, vento caldo che spira in estate dalla Siria.
Questo proverbio ci vuoi insegnare che lo scirocco spira per una
durata più o meno lunga, ma al suo cessare piove.
210
Quattr’aprilanti, quaranta dì duranti
(Il tempo del 4 aprile, durerà quaranta giorni)
È questo uno dei tanti proverbi che, basandosi su certe manifestazioni metereologiche di un certo giorno, fa delle previsioni sul
tempo che farà in seguito.
Nel nostro caso il proverbio ci vuoi far capire che se piove nei
primi di Aprile le piogge dureranno a lungo ed abbondanti.
Quei “quaranta dì duranti” ci fanno tornare alla memoria il diluvio
universale che secondo la Bibbia durò quaranta giorni. Ma come
già fatto notare per altri proverbi occorre tener presente che anche
questo non va preso alla lettera; i nostri avi volevano semplicemente
dire che i primi giorni di Aprile ci danno un’idea sull’abbondanza o
meno delle pioggie per il periodo seguente.
Quello e gnente j dà parente
(Quello e niente sono parenti)
È come dire: quella certa cosa e niente sono uguali. Il detto si usa
quando si riceve una ricompensa irrisoria invece di quanto meritato,
o si usa quando qualcuno ci da un consiglio che non risolve affatto
O nostro problema.
Questa è ’na fava che ’n s’ coce
(Questa è una fava che non ci cuoce)
È noto che i legumi hanno bisogno di molto tempo per cuocersi.
Per ridurre il tempo di cottura noi oggi usiamo il bicarbonato di
soda. Un tempo in campagna per cuocere fava, ceci e fagioli si usava
un’acqua particolare che sgorgava ed ancora sgorga in certi luoghi
211
che la gente di campagna ben conosce. Quest’acqua era conosciuta
come acqua “cucia o cottora”, cioè acqua che favoriva la cottura dei
legumi; ma a volte nonostante l’uso di quest’acqua la fava rimaneva
dura e allora si diceva: “Questa è ‘na fava che n’ s’ coce”.
Il nostro proverbio viene citato tutte le volte che non si trova la
soluzione a un certo problema.
Questa n’ s’arconcia (o n’ s’arciappla)
(Questa non si rimedia)
“Arconcia”’ è ricucire, mentre “arciapplà” è rappezzare.
I due modi di dire stanno ad indicare una situazione disperata alla
quale è difficile porre rimedio. È noto il detto: “Questa n’ l’ar-concia
manch’ Meletti” (Questa non la ricuce neanche Meletti). Me-letti
era un bravo chirurgo che operava all’ospedale di Pergola e se non
la rimediava lui...
Ragiona comm’ na scarpa rotta
(Ragiona come una scarpa rotta)
Di una persona che non segue un filo logico si usa dire che “ragiona
con i piedi”. Per evidenziare maggiormente la mancanza di logicità
si usa l’espressione: “ragione come una scarpa”. Il nostro proverbio
indica mancanza assoluta di ragionamento. Se ci pensiamo bene è
già grave “ragionare con i piedi” dato che la sede del ragionamento
è il cervello; ancor più grave è ragionare come una scarpa; se poi la
scarpa è rotta...
212
Ride p’ ’na pacca d’fava
(Ride per mezza fava)
“Pacca” è la meta di un animale o di una cosa. “La pacca del
maiale” è l’espressione più usata.Chi ride per una “pacca” di fava
ride per un nonnulla; è una persona sciocca.
Sa comda’ quattr’ovi nten piatto
(Sa disporre quattro uova in un piatto)
Mettere quattro uova in un piatto è la cosa più semplice di questo
mondo, ma disporle in modo appariscente non è da tutti.
Chi “sa comda’ quattr’ovi nten piatto” è una persona che sa esprimersi in modo convincente.
Sa fa’ j occhi a l’ pulce
(Sa fare gli occhi alle pulci)
Si dice di persona che sa fare con precisione tante cose, anche
fuori del proprio lavoro.
Sa l’arte e sa l’inganno
s’vive metà dl’anno,
sa l’inganno e sa l’arte
s’ vive ql’altra parte
(Con l’arte e con l’inganno
si vive metà dell’anno,
con l’inganno e con l’arte
si vive quell’altra parte)
L’arte nel nostro caso è il mestiere e il proverbio fa riferimento ai
213
bottegai che un tempo, a torto o a ragione, erano ritenuti imbroglioni.
Un noto proverbio fabrianese ne rincarava la dose: “40 mulinari, 40 macellai e 40 osti fan 120 ladri giusti giusti”. Naturalmente
quest’ultimo proverbio lo dobbiamo prendere con le pinze nel senso
che non si possono colpevolizzare artigiani e commercianti in blocco.
Se è vero che fra loro ci può essere qualche imbroglione ciò non
pregiudica le categorie menzionate perché la pecora nera la troviamo
in qualsiasi categoria. Ma ritorniamo al nostro proverbio.
Ad Anselmo, che era falegname a Montalfoglio da prima della
guerra, capitò un giorno fra le mani la porta di casa un po’ mal
ridotta di Mencone, noto capomastro del luogo. Anselmo prima di
iniziare il suo lavoro tolse la crosta di vernice e vennero alla luce
varie magagne riempite con lo stucco in modo impeccabile. Le indicò
al proprietario della porta e poi chiudendo gli occhi come per una
riflessione, commentò ironicamente: “Sa l’arte e sa lo stucco si frega
il mammalucco” (con l’arte e con lo stucco si inganna lo stupidotto).
Mencone, che stupido non era proprio, incassò la battuta ma non la
dimenticò mai. E la domenica, quando gli uomini si radunavano nella
piazzetta dopo la Messa delle undici, Mencone era lì, appoggiato alle
mura di cinta del paesetto medioevale, pronto a scambiare quattro
chiacchiere con chiunque. E quando era il caso ricordava con un
grande sorriso la battuta di Anselmo come per dire che negli affari
bisogna stare sempre molto attenti.
Salv’ m’tocco
(Salvo dove mi tocco)
Quando si mostra sul proprio corpo la parte ammalata di un altro,
si usa questa espressione che ha funzione di scongiuro.
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Salv’ sia
(Salvo io sia)
È la forma di scongiuro che si usa quando si nomina il male di
un altro.
San Marco è ’n gran santo
(San Marco è un grande santo)
Marco, assieme a Matteo, Luca e Giovanni, è uno dei quattro
evangelisti. Dire che S. Marco è un grande santo è la cosa più ovvia
di questo mondo.
Il detto si usa quando vogliamo dire: è naturale, per forza; è così
per forza di cose.
San Lorenzo antico,
se ce stai ceni’anni n’ te fai ’n amico;
se cel fai,
t’ n’ pentirai
(San Lorenzo antico,
se ce stati cent’anni non ti fai un amico;
se ce lo fai
te ne pentirai)
Questo detto sta a ricordarci la rivalità che un tempo esisteva fra gli
abitanti dei paesi limitrofi ed i Laurentini che così erano stati bollati.
Ma i Laurentini non erano certo stinchi di santo se ai Castelleonesi si impediva di scendere a San Lorenzo e si intimava loro di non
oltrepassare il ponte di Castelleone e tanto meno quello “dell’acqua
purgativa”. Quando oltrepassavano questi ponti era guerra aperta e
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si finiva col picchiarli o col... prenderle!
A quei tempi era particolarmente spiccato lo spirito campanilistico e quando non si poteva far di peggio si umiliavano gli abitanti
vicini con un soprannome.
Così si diceva:
A la Torre i Polverari,
a le Fratte i Pignatari.
A S. Vito le donne belle
a la Pergola i Conciapelle.
A Castiglione i Postinari,
a S. Andrea i Cotcari.
A S. Lorenzo i Cipollari,
a la Villa del Monte i Pisciapaiari.
A Montevecchio i Batticuli,
al Vergineto i Cacamuri.
Ad Orciano i Cordari
e a Bareni i Ranocchiari.
Santa Bibbiana, 40 giorni chiama
È questo uno dei tanti proverbi che fanno riferimento al tempo
meterologico. “Santa Bibbiana, 40 giorni chiama” significa che il
tempo che farà il giorno di Santa Bibbiana (2 dicembre) perdurerà
nei 40 giorni seguenti. E quindi il 2 dicembre veniva osservato attentamente dagli agricoltori che poi si regolavano nella programmazione
dei loro lavori al coperto e fuori.
Sant’Antogn’ che l’ guarda!
(Che Sant’Antonio lo/li protegga!)
E il detto che tuttora si usa pronunciare durante o alla fine della
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visita ad una stalla in cui ci sono degli animali. Chi visita una stalla e
non pronuncia questa frase viene sospettato di essere un fattucchiere.
Perciò tutti dicono: “Sant’Antogn che 1’ guarda!”.
La frase è una supplica a Sant’Antonio Abate affinchè voglia
proteggere il bestiame di quella stalla. Il rispetto dell’agricoltore per
il Santo è notorio. Ricordiamo che un tempo in ogni stalla c’era il
calendario del Santo sul quale si segnavano: inizio delle gravidanze,
nascite, ferrature delle vacche, inizio della domatura delle manze e
così via...
Il 17 gennaio, giorno dedicato al Santo, davanti alla porta della
chiesa ci sono foraggi, becchime e mangime di ogni specie per gli
animali, in attesa di essere benedetti dal sacerdote. Il pane per le persone
veniva ed è appositamente fatto per quell’occasione e la Compagnia
di Sant’Antonio con a capo il Priore provvede a far avere ai presenti
il pane benedetto. Ogni componente della famiglia dell’agricoltore
ne assaggia almeno un boccone. È come l’uovo benedetto a Pasqua.
Nell’alta valle del Cesano queste usanze si conservano ancora
gelosamente.
Sant’Antogno da la barba bianca,
mett’ la neve ndo’ ch’amanca
(Sant’Antonio dalla barba bianca,
mette la neve dove manca).
Questo proverbio sta ad indicare che per S. Antonio Abate (17
gennaio) nevicherà anche dove non ha ancora nevicato.
Sarà ’n curidore, ma la faccia n’ ce l’ha
(Sarà un corridore, ma la faccia non ce l’ha)
Il detto viene usato per indicare una persona che a prima vista non
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sembra adatta a svolgere una certa mansione o a rivestire una certa
carica. È sempre usato in senso ironico e denigratorio.
Sbaja ’l prete ntel pollaro!...
invece d’uno ne pia ’n paro!
(Sbaglia il prete nel pollaio!...
invece d’uno ne piglia un paio!)
Il proverbio corrisponde a quello italiano: “sbaglia il prete sull’altare” e vuoi mettere in evidenza la facilità di sbagliare. Ma il nostro
è sicuramente più pittoresco: il prete non è sull’altare, ma nel pollaio
e da sotto i paleti sui quali stanno i polli, per essere sicuro di prendere un pollo prende due zampe e tira giù due polli. L’errore ha del
comico ed il proverbio viene usato quando chi sbaglia non ha poi
commesso un errore irreparabile.
Scatizza’ la pipa (o ’l foco)
(Attizzare la pipa (o il fuoco))
Menchino de Mencone diceva sempre che il fuoco, così come le
donne, vanno stimolati per mantenerli sempre vivi.
S’ contne col naso
(Si contano con il naso)
Quando si contano persone, animali o cose sparse si usa farlo con
l’indice teso. Nessuno si sognerebbe di farlo usando il naso.
La nostra espressione si usa per dire che quelle certe persone,
animali o cose sono rarissime, come è raro - o forse non esiste - chi
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conta usando il naso. Potremmo dire che si contano con il naso coloro
che hanno vinto la lotteria di Capodanno.
Scordcarìa ’l pidocchio per pia’ la pelle
(Scorticherebbe il pidocchio per pigliarne la pelle)
Questo modo di dire vuoi evidenziare l’avarizia di qualcuno. Il
pidocchio si sa ha una pelle di nessun conto: è una pelle di minima
estensione e di nessuna resistenza, è una pelle che non ha alcun
valore, ma l’avaro vorrebbe impadronirsi anche di quella pensando
forse di ricavarne un utile. L’avaro si attacca a tutto anche alla pelle
del pidocchio che certamente non avrà mai un acquirente, ma l’avaro
in ogni momento pensa al guadagno.
Nel nostro gergo, con valore simile all’espressione citata, c’è il
detto: “N’ magna pe’ n’ caca’” (Non mangia per non cacare). Il detto
può sembrare che faccia riferimento al pigro che, non avendo voglia
neanche di defecare, ritenga di non dover mangiare; ma al contrario
di quanto detto fa riferimento a chi (l’avaro) è talmente dispiaciuto
di doversi liberare di qualcosa che gli appartiene (gli escrementi)
che si astiene dal mangiare. Il detto fa anche riferimento all’avaro
che è dispiaciuto di mangiare dato che il vitto comporta sempre una
spesa e i suoi soldi vuoi tenerseli sempre ben stretti.
Secco frusciato; mollo tzuppo
(Asciutto bruciato; bagnato inzuppato).
Le due espressioni hanno un rafforzativo: asciutto bruciato,
bagnato inzuppato.
Nel primo caso l’asciutto è tale che l’assenza di acqua è così assoluta che in quel certo qualcosa pare che ci sia passato il fuoco; nel
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secondo caso il bagnato è tale che l’acqua non è solo passata sopra,
ma vi è rimasta impregnata.
Secco comme no spito
(Secco come uno spiedo)
In questa espressione “secco” ha valore di “magro” ed è come
dire: “magro come uno spiedo”. Viene usato nei confronti di persona
o animale che è ridotto tutto pelle ed ossa.
Secondo l’ soldato j s’ da l’arma
(Secondo il soldato gli si dà l’arma)
Non tutte le persone sono uguali sia per caratteristiche fisiche
che per personalità.
È quindi naturale che ad ogni persona, nel caso specifico ad ogni
soldato, venga data l’arma che gli è più confacente.
Il nostro proverbio si usa per indicare che secondo i casi l’arnese
più grosso viene dato al più robusto, quello più piccolo al più debole.
In altri casi il proverbio sta ad indicare che gli incarichi vengono
affidati secondo le capacità di ognuno.
Semm arrivati a la fontana del papa
(Siamo arrivati alla fontana del papa)
Un tempo era uso andare in pellegrinaggio a Roma. Il lungo
percorso era fatto a piedi e durava tanti interminabili giorni.
Quando i pellegrini arrivavano nelle vicinanze del Vaticano la
prima cosa che appariva loro era una monumentale fontana che
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faceva bella mostra di sé, in mezzo ai giardini pontifici. Arrivati alla
fontana - dove fra l’altro si ristoravano - erano arrivati a destinazione.
Quando si dice “semm arivati alla fontana del papa” si vuoi dire che
siamo arrivati alla fine dei nostri giorni.
Semm d’acordo e n c’intendemme
(Siamo d’accordo, ma non ci capiamo)
Avviene spesso che due persone che intendono dire o fare la stessa
cosa siano in disaccordo perché non riescono a chiarire i termini del
loro dire o del loro fare. Una volta arrivati ad un chiarimento i due
si rendono conto di essere d’accordo sull’essenziale del discorso o
sulle modalità di eseguire un certo lavoro.
Se nn è ’n lupo è ’n cane nero
(Se non è un lupo è un cane nero)
Questo detto si ricollega ad un aneddoto che circolava nelle nostre
campagne quando ero piccolo. Uno spaccone un giorno racconta
di aver visto di notte lungo un sentiero di campagna un lupo. Agli
amici che gli fanno notare che da noi i lupi non esistono, quel tale
si giustifica dicendo che forse era un cane nero.
Quando i presenti gli fanno notare che nella zona nessuno possiede
un cane nero, risponde che forse quello che ha visto era una giacchetta. Gli amici lo incalzano facendogli notare che essendo in estate
nessuno poteva aver lasciato nel campo una giacchetta. Allora quel
tale ammette che forse era un... ciocco! Il detto sta ad indicare che
anche se ciò che si dice non è forse del tutto vero, ci sarà pur sempre
un minimo di verità.
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S’è rincigulito tutto
(Si è rimpicciolito tutto)
La parte mediana del termine “rincigulito” comprende la parola
“cigolo” o “cigulo” che significa piccolo; “rincigulito” quindi significa
“ritornare piccolo”. Il termine si usa per indicare indifferentemente
persona, animale o cosa che, per qualsiasi ragione, si è rimpicciolita.
Se sgappo da ’sta cacata, i sorbi nn i magno più
(Se riesco a defecare, le sorbe non le mangio più)
È notorio che le sorbe sono frutti particolarmente astringenti e
quindi causano stitichezza in chi le mangia.
La frase è detta da chi si trova in difficoltà per essersi comportato
in una certa maniera piuttosto che in un’altra. Ora si è pentito e non
vede l’ora di uscire da quella brutta situazione.
Sete parenti? Sci, mamma mia e...
(Siete parenti? Sì, mia madre e...)
Capita spesso che vedendo due persone insieme molto affiatate
chiediamo loro se sono parenti. A volte uno dei due ci da una risposta
alquanto singolare per spiegarci che non c’è parentela. Ironicamente
ci risponde: “Siamo parenti perché mia madre e sua nonna stendevano i panni da asciugare allo stesso sole”. Insomma fra i due l’unica
parentela è il sole che è comune a tutti.
Se voi servì l’amico:
carne d’ carpa e legna d’fico
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(Se vuoi servire l’amico:
carne di capra e legna di fico)
L’espressione è ironica.
La carne di capra - non quella di capretto - è fra le peggiori e
così è per la legna di fico che produce molta cenere e poco carbone.
Sfortunata è la capra che n’ c’ha la coda
(Sfortunata è la capra che non ha la coda)
Ci sono persone che quando le cose non gli vanno per il verso
giusto invece di reagire se la prendono con la sfortuna. A queste
persone che continuano ad insistere di essere sfortunate viene loro
detto che sfortunata è solo la capra semplicemente perché, poverina,
non ha... la coda!
S’ guadagna (o s’ pia) quel che s’ tira coi denti
(Si guadagna (o si prende) quello che si tira con i denti)
Tirare coi denti significa mangiare; quindi chi si guadagna quello
che tira con i denti è chi riceve come ricompensa solo quello che
mangia. L’espressione oggi può sembrare incomprensibile ma ritornando indietro nel tempo il detto ha una sua logicità. Ancora nel
dopoguerra nelle campagne c’erano i “nolanti” che andavano a lavorare nei campi quando gli agricoltori li chiamavano. Per i lavori più
importanti, questi braccianti agricoli venivano pagati, ma quando si
trattava di altri lavori meno importanti ci andavano solo per mangiare.
Era proprio il caso di dire che si guadagnavano quello che tiravano con i denti.
223
Sia di Venere che di Marte
non si sposa, non si parte,
non si dà principio all’arte
È una creenza popolare molto radicata un po’ ovunque. Questo
pregiudizio resiste ancora oggi: chi non ha sentito dire che il venerdì
porta sfortuna? Se poi il venerdì cade nel giorno diciassette...
Si era ’n cane m’aveva morso!
(Se era un cane mi aveva morso!)
A volte si cerca affannosamente una certa cosa e si rovista un
po’ ovunque senza arrivare ad un risultato concreto. Poi quando si
è perduta la speranza di ritrovarla ci si accorge che era lì a portata
di mano e che non c’era bisogno di cercarla chissà dove. In quel
momento ci viene spontaneo esclamare: “Si era ’n cane m’aveva
morso!” che è come dire: “Se quella cosa fosse stata un cane mi
avrebbe morso”, tanto era vicina.
Signore, datme la salute, la pace, ’l grano, ’l vino, i soldi da
spende... e doppo n’ v’ domando più gnente
(Signore, datemi la salute, la pace, il grano, il vino, i soldi da
spendere... e dopo non vi domando più niente)
Questo detto un po’ sarcastico è la preghiera di quegli agricoltori
che nella vita vogliono un po’ troppo. Si tratta di quelle persone che
non si accontentano mai e vogliono sempre molto di più degli altri
e molto di più di quanto possono realmente avere. E la preghiera dei
ricchi è: “Signore, fate tribola’ i poretti perché loro c’enne abituati”
(Signore, fate tribolare i poveri perché loro ci sono abituati).
224
Si i birbe n’ s’fregasene,
i cojon comm’ campariene?
(Se i furbi non si fregassero, i fessi come camperebbero?)
Il detto vuoi rimarcare che anche i furbi a volte incorrono in
errore e se così non fosse i fessi come potrebbero tirare avanti? È
normale che quelli che possono sembrare infallibili commettano
errori madornali come tutti gli altri.
Si la Vecchia n’ fà la bava
poco cece e meno fava
(Se alla Vecchia non piove
saranno magri i raccolti di ceci e di fave)
La Quaresima, per sue certe caratteristiche, veniva simbolica
mente rappresentata come una vecchia brutta e piuttosto antipatica.
La Quaresima non era ben vista e per questo si pensò di renderla
più accetta dimezzandola.
Così a mezza Quaresima si fa un po’ di baldoria; nei tempi passati
era uso andare per la questua di casa in casa cantando stornelli e
fingendo di tagliare con una sega la gobba della Vecchia, impersonata
da uno del gruppo. A mezzanote fra grandi falò si segava effettivamente in due un pupazzo che rappre sentava la Vecchia. Originariamente “Segalavecchia” stava ad indicare la mezza Quaresima che
oggi viene chiamata semplicemente “la Vec chia”.
Ed è proprio nel periodo della Vecchia che secondo il nostro
proverbio dovrebbe piovere per sperare in un buon raccolto di ceci
e di fave.
225
Si l’ culo avesse paura dia merda n’ cacarìa mai
(Se il culo avesse paura della merda non cacherebbe mai)
È questo un detto poco fine, ma dal momento che esiste non si
può fare a meno di menzionarlo.
Si usa per dire che se una persona avesse paura di fare una cosa
di per sé normale non farebbe mai niente. È un incitamento all’operosità senza remore di alcun genere.
Si uno fusse indovinello n’ saria poverello
(Se uno fosse indovino non sarebbe povero)
Indovini, astrologi, chiaroveggenti e maghi asseriscono di prevedere il futuro. Gli unici a mio parere che possono prevedere il futuro
sono i metereologi quando fanno le previsioni del tempo a breve
Solo comme ’l cucco
(Solo come il cuculo)
Il cuculo, uccello migratore che proviene dai tropici, arriva da
noi ai primi di aprile, nidifica e poi riparte tra luglio e agosto; prima
partono gli adulti, gli ultimi a partire sono i giovani. Ogni uccello
parte da solo e non in branchi come fanno tutti gli altri uccelli. È
noto che il cuculo non costruisce un nido proprio ma depone le sue
uova nei nidi degli altri uccelli deponendo di solito un uovo per
nido. Per fare questo la femmina del cuculo osserva gli altri uccelli
mentre nidificano. Quando il nido è al completo e l’ignaro genitore
adottivo ha deposto un uovo O cuculo sceglie il momento in cui la
madre adottiva è assente, tira fuori l’uovo dal nido, lo avvinghia e
lo fa cadere, poi molto rapidamente depone quello proprio. Quando
il piccolo del cuculo è diventato abbastanza robusto spinge i suoi
226
fratellastri fuori dal nido e rimane solo.
Il detto “solo comme ‘1 cucco” si usa per indicare una persona che
vive sola, ma soprattutto che si ritrova sola perché non ha amicizie.
Sòna la battistrangola
(Suona la...?)
Dal Giovedì Santo fino al Sabato Santo le campane tacciono e
così in passato per le vie del paese si suonava la “battistrangola”,
una tavola di legno munita di due battagli di ferro che produceva
dei rumori sordi.
Sòna p’ l’acqua bona
(Suona per l’acqua buona)
Quando in estate si addensano improvvisamente nel ciclo nuvole
nere c’è sempre pericolo di tempeste con grandine. Un tempo era O
campanaro che suonando le campane prima e durante il temporale
a volte riusciva ad evitare la caduta della grandine.
Sòna p’ l’ang(io)letto
(Suona per l’angioletto)
Era il suono festoso col quale la Chiesa annunciava la... salita al
ciclo dell’anima di un fanciullo. Un tempo data l’alta percentuale di
mortalità dei neonati era cosa di ordinaria amministrazione ascoltare
questo tipico suono di cam pane. E la gente fermandosi ad ascoltare
commentava: “Sona p’ l’an gioletto”.
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“Sordo cmme ’n greppo”
(Sordo come un greppo)
Dal momento che i greppi non hanno udito, paragonare una persona
ad un greppo equivale ad indicare chi è del tutto privo dell’udito (o
chi vuoi sembrare tale).
Spellaria ’l pidocchio per pia’ la pelle
(Spellerebbe il pidocchio per prenderne la pelle)
L’espressione si addice al taccagno che fa di tutto pur di accumulare ricchezze. Dello stesso valore è l’altra espressione già citata:
“N’ magna pe’ n’ caca’” (non mangia per non defecare).
Sta a cul puzzone
(Sta col sedere in aria)
Tipico di chi fa certi lavori come la raccolta dei prodotti della
terra o di chi fa la lavandaia.
Sta a la musa
(Sta a guardare)
Può trattarsi di una persona, ma più spesso di un animale che sta
senza mangiare perché costretto. Così può essere delle vacche che
stanno a la musa perché legate alla greppia ed alle quali nessuno
porta da mangiare o anche del cane alla catena.
Chi “sta a la musa” sta a guardare, aspetta, cerca il cibo con gli
occhi.
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S’ tacca anche nti spini
(Si appiglia anche agli spini)
Si dice di chi è avaro oltre misura.
Sta coi frati e sappa l’orto
(Sta coi frati e zappa l’orto)
Il detto indica una certa persona che fa quello che vogliono gli
altri e molto spesso viene citato per indicare chi non contraria mai
gli altri, anche se a volte si comporta così per il quieto vivere, per
evitare discussioni.
St’anno ’n bresciolo
’n antr’anno ’n fiolo
(Quest’anno un foruncolo
l’anno prossimo un figlio)
I foruncoli sono mali di gioventù e che cosa c’è di meglio per
farli sparire se non lo sposarsi ed avere dei figli?
Sta su ’n fico e ’na pacca
(Da importanza ad un fico e mezzo)
La “pacca” è la metà di qualcosa. Si dice “pacca” quella del maiale,
ma anche quella della porta, quando questa è divisa in due parti.
Il detto fa riferimento ai fichi che sono stati sempre considerati
come dei frutti di poco valore sia perché gli alberi del fico allignano
un po’ dappertutto sia perché i frutti sono facilmente deperibili. Chi
“sta su ‘n fico e ‘na pacca” è chi guarda le cose di poco valore o
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perché non ne trova di importanti o perché non sa distinguere quelle
importanti da quelle secondarie.
Il detto sta ad indicare chi si attacca anche a pochi spiccioli.
Sta su per pradca
(Sta su per pratica)
Si dice di persona molto debole o ubriaca che sta in piedi perché
è una cosa che fa da quando ha imparato a stare in piedi.
Sta tzitto che nne sbaj mai
(Stai zitto che non sbagli mai)
Pasquale era un fattore che amministrava pochi contadini ma che
sapeva il fatto suo. Un sabato Berto della Grigia portò a vendere i
suoi maiali alla fiera a Pergola e Pasquale, che era il suo fattore, gli
raccomandò di non chiacchierare tanto, come era suo solito. Gli fece
sistemare i maialini in un punto della fiera che sembrava favorevole
per la vendita e poi si allontanò dicendo: “Parla poco!”. Berto annuì
ma col passare del tempo non vedeva l’ora di scambiare quattro
chiacchiere con qualcuno.
Arrivarono alcune persone, osservarono i maialini e tirarono
avanti, poi ecco il fattore con due nolanti intenzionati a comperare un
maialino ciascuno. Pasquale si sbracciava mentre faceva le lodi dei
maialini dicendo che erano figli di una grossa fattrice, che erano di
bocca buona... e così via. Ma quando uno dei possibili acquirenti fece
osservare che erano piccoli, Berto intervenne dicendo: “Nn guardate
ch’enne picqui, ma ‘1 tempo ce l’hanne!” (Non guardate che sono
piccoli, ma il tempo ce l’hanno!). A Berto sembrava di aver parlato
bene, ma i presenti capirono che i maialini erano un po’ rachitici.
230
Fu allora che il fattore che quasi fuori dai gangheri si rivolse al
contadino dicendo: “Te sta zitto, che nne sbaj mai!”.
“Svelto comme ’na lucc’la”
(Lesto come una lucciola)
La lucciola, scintilla che sprizza dal fuoco, ha sempre un guizzo
rapido e chi viene paragonato ad una lucciola è persona sempre
pronta e lesta nell’eseguire un lavoro.
T’amova ’l lecco!
(Ti rinnova il boccino!)
Il “lecco” è il boccino al gioco delle bocce. È detto “lecco”
forse perché ogni giocatore cerca di far avvicinare ad esso - quasi a
“leccarlo” - il più possibile le proprie bocce.
“T’arnova il lecco!” ha valore di: “Ti mette a posto!”, o “Ti
sistema!” (usati in modo ironico).
T’ bocca prima ntel culo che nné ntla testa
(Ti entra prima nel sedere che nella testa)
I detti a volte sono un po’ sfacciati, ma l’intenzione è sempre buona:
vogliono farci capire subito ed in maniera incisiva un insegnamento.
H nostro detto si usava e si usa ancor oggi per indicare che certe
persone le cose non le capiscono e non le capiranno mai anche se
ripetute più volte ed in maniera semplice e chiara. Ma forse, più che
di persone poco intelligenti, molto spesso si tratta di persone caparbie
che continuano a pensarla a modo loro o non vogliono riconoscere
che il punto di vista degli altri è più giusto di quello proprio.
231
Te cachi ntla latta
(Tu cachi nella latta)
Ad una persona che minaccia di fare chissà che cosa nei confronti
di un’altra persona, quando si sa che non farà proprio niente di quanto
minacciato di solito gli viene detto: “Te cachi ntla latta” che è come
dire: “Tu non farai proprio niente fuori del normale”.
Te cresmo!
(Ti cresimo!)
Quando ero piccolo ed insieme ai miei coetanei andavo a dottrina
i grandi ci prendevano in giro per via della Cresima. Ci facevano
credere che durante la funzione della Cresima il Vescovo piantasse
un chiodo nella fronte di ogni cresimando e poi mettesse il nastro
sulla fronte come benda.
Questa innocente bugia di uso comune, a forza di ripeterla, era
quasi diventata una mezza verità e l’espressione “te cresmo!” significava e significa tuttora: “ti picchierò fno a farti venire il sangue!”.
Ci sono nel nostro gergo altre espressioni simili a questa, come:
“Te gonfio!”, che può essere tradotto: “ti gonfierò la faccia!”; “te
meno!”, che si traduce: “Ti picchio!”; “te le dò!”, “ti darò le botte!”;
ed infine: “Buschi!”, cioè “buscherai!” nel senso “ti guadagnerai le
botte”.
Come si vede, un tempo era quasi norma farsi giustizia da soji
forse perché non si aveva fiducia nella giustizia degli uomini, ma
soprattutto perché non si era abituati a ragionare anche dal punto di
vista degli altri.
232
Te l’fa p’ na prescia!
(Te lo fa in fretta!)
Il modo di dire è sarcastico e ha valore di “Non pensare che Tizio
ti faccia questa cosa in fretta!”. Si usa quando quel Tizio è noto per
rinviare le cose... alle calende greche. A proposito: rimandare alle
calende greche vuoi dire rimandare a tempo indeterminato, semplicemente perché nel calendario dei Greci non esistevano le calende.
Te l’fo de scarlancà,
che n’ s’pò mette e n’ s’pò cava’
(Te lo faccio di “scarlancà”,
che non si può mettere e non si può togliere)
Quando ero piccolo e vedevo gli altri bambini con vestiti o scarpe
un po’ particolari, era naturale per me chiedere a mia madre un vestito
o un paio di scarpe simili. Mia mamma per non dirmi che lei non
aveva la possibilità di comprarmi queste cose mi rispondeva in modo
sibillino che me le avrebbe fatte (o comprate) di “scarlancà”. Era
questa una parola che indicava un qualcosa di misterioso e nessuno
mi ha mai detto di che cosa si trattasse. Solo quando sono diventato
grandicello ho capito che mia madre - come tante altre persone - usava
questa parola per indicare un qualcosa che non esiste e se così è, è
ovvio che non si può né indossare né toglierselo di dosso.
Temp’ d’ guerra
enn più bugìe che zupp’ d’ terra
(Tempo di guerra
sono più le bugie che le zolle di terra)
Ad illustrare il nostro proverbio basterebbe ripensare alle notizie
233
che abbiamo ricevuto durante la guerra del Golfo: a notizie date
seguivano spesso smentite, quando non erano i fatti stessi a smentirle. Pensiamo per un attimo a noi, quali diretti interessati, come nel
caso dell’ultima guerra mondiale; tenendo presente che allora i mezzi
di comunicazione di massa - quali giornali e radio - erano scarsi,
una notizia anche se vera, passata di bocca in bocca diventava tutta
un’altra cosa da quella originale. Se poi si aggiunge che il regime del
tempo era interessato a darci solo le informazioni che gli facevano
comodo si può immaginare che quasi sempre si trattava di bugie.
Tenga caldo e rida la gente
Era il detto usato un tempo da chi si sentiva deriso perché era
vestito male. Ma erano tempi quelli nei quali l’indigenza la faceva
da padrona ed i capi di vestiario si riducevano allo stretto necessario. Tutti i contadini ad esempio, comprese le donne, avevano un
abito da lavoro per tutti i giorni ed uno da la festa, buono per tutte
le stagioni. Nonna Rosa portava la veste al rovescio e la rimetteva
per il verso giusto la domenica!
Di solito gli abiti da lavoro erano gli scarti di quelli da la festa. Era
regola che i bambini più piccoli mettessero vestiti e scarpe “sfuggiti”
(stretti) ai più grandi.
L’agricoltore marchigiano spesso durante l’inverno portava un
cappotto di bavella che era chiamato bagello (da bagio o baco), in
primavera ed autunno portava un camiciotto chiaro, fatto di canapa,
che gli arrivava fin sotto il ginocchio. Questo camiciotto, detto guazzarone, era trattenuto in vita da una cordicella. In testa portava una
berretta ed in estate un cappello di paglia, mentre le donne portavano
sempre il fazzoletto. Ai piedi l’agricoltore portava nell’inverno gli
zoccoli con il fondo in legno, alto il doppio del normale, mentre
andava scalzo in estate; nelle stagioni di mezzo a volte portava i
234
sandali che spesso eran fatti alla bell’e meglio da lui stesso. Il vestire
male dipendeva sicuramente dalla povertà, ma in parte anche dal
fatto che l’agricoltore lavorava nei campi e non in luogo pubblico.
Le toppe nei vari indumenti come si può ben immaginare erano tante;
spesso non si riusciva a capire quali fossero le parti che appartenevano all’originale. E questo era ancor più evidente in inverno quando
col freddo l’agricoltore era infagottato con tanti indumenti stracci.
Era naturale quindi che ci fosse chi rideva vedendolo vestito tanto
male. Ed era allora che l’agricoltore si difendeva dicendo: “Tenga
caldo e rida la gente”.
Te n’ m’imburcini!
(Intraducibile)
Burcino è il moscerino. Chi vuole “imburcinare” vuoi mettere i
moscerini negli occhi dell’interlocutore. Questo è un modo di dire,
cioè un’espressione che contiene qualcosa di immaginario come ad
esempio “Fare i castelli in aria”.
Il nostro modo di dire vuoi indicare che a volte una certa persona
ci vuoi mettere i moscerini negli occhi; cioè ingannare. Noi però non
ci lasceremo ingannare e subito precisiamo: “Te n’ m’ imburcini!”.
Te nnel sai quanti giri fa ’na boccia
(Tu non lo sai quanti giri fa una boccia)
È impossibile o quasi sapere quanti giri possa fare una boccia
lanciata da un giocatore.
È una espressione data in risposta a chi pone una domanda alla
quale non è facile rispondere. Una volta chiariti certi punti ci si rende
conto anche del perché dei tanti giri.
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Te parla quant’ piscia la gallina
(Tu parla quando piscia la gallina)
Questa espressione viene rivolta a chi si intromette a sproposito
in una discussione animata fra due persone ed è come dire: “Tu stai
zitto!”. Il malcapitato infatti per parlare dovrebbe aspettare che pisci
la gallina, cioè non dovrebbe parlare mai.
Te sdovezza!
(Ti svezza!)
Ha valore di: “ti sveglia!”. È detto di chi, avendo fatto qualche
scherzo un po’ pesante, è stato ripagato con la stessa moneta più gli
interessi.
Te se’ comme ’l vogolo del biroccio: sei sempre d’ dietro
(Sei come il volgolo del biroccio: sei sempre di dietro)
H volgolo è quel rullo che si trova dietro al biroccio e che serve
per tirare le corde avvolgendole attorno a se stesso al fine di fissare
saldamente il carro. Il volgolo serve anche per far scorrere la corda
della martinicca o freno del carro. Essendo l’ultimo pezzo del carro
viene paragonato a chi è ultimo per importanza e che pertanto non
conta proprio niente.
Te sei matto anche nti pagni
(Tu sei matto anche nei vestiti)
Questo modo di dire si usa nei confronti di chi fa o dice cose del
tutto fuori del normale.
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Te sei sporco, ma io n’ m’ lavo mai
(Tu sei sporco, ma io non mi lavo mai)
La Peppa d’ Palchetto era una donna sveglia e senza tanti peli
sulla lingua. Un brutto giorno si trovò improvvisamente vedova per
la morte di suo marito Adelmo.
La donna si trovò a dover sbarcare il lunario da sola senza alcun
aiuto né da parte dei parenti né da parte del Comune. Ma se la cavò
bene in ogni occasione e per sfamare i suoi tre figli ancora in tenera
età andò a fare il pane dal fornaio. Un giorno capitò a casa sua un
venditore ambulante di scarpe che, non riuscendo a concludere il
prezzo, le propose uno scambio: un paio di scarpe da donna di pelle
lucida in cambio di quattro conigli. La Peppa osservò le scarpe con
molta attenzione... e poi disse al venditore: “Te sei sporco, ma io
n’ m’ lavo mai. ‘Ste scarpe enne d’cartone!” (Tu sei furbo, ma io ti
supero. Queste scarpe sono di cartone).
Te sono l’Emmaria co’ la bigonza!
(Ti suono l’Ave Maria con la bigoncia!)
La bigoncia è un recipiente di legno, alto e stretto, con fondo di
forma ovoidale e che, pur allargandosi, mantiene tale forma fino alla
bocca. La bigoncia si usava per trasportare l’uva da pigiare.
Un tempo sul far della sera si udiva il suono delle campane che
invitava i fedeli a recitare l’Ave Maria o più esattamente l’Angelus
Domini. Il suono della campana a quell’ora ricordava a tutti che la
giornata volgeva al termine - allora l’orologio non era di uso comune
-. Per chi si trovava nei campi a lavorare - a meno che non avesse
dovuto portare a termine un lavoro urgente - era l’ora del rientro per
accudire al bestiame o alle faccende di casa. Il suono dell’Ave Maria
era squillante e si udiva anche a grande distanza. Chi avesse voluto
237
“suonare l’Ave Maria con la bigoncia” avrebbe dovuto battere sulla
bigoncia con forza sovrumana. Il modo di dire significa: “Te le darò
belle”, “Ti colpirò con tanta forza!”.
Te va giù fra latte e sangue
(Ti va giù fra latte e sangue)
Latte e sangue sono sinonimi di salute. Il nostro detto “te va giù
fra latte e sangue” sta ad indicare un cibo o una bevanda che quando
vengono ingeriti danno un senso di piacere e di benessere.
T’ fa d’ gozzo
(Ti fa di gozzo)
Il gozzo è la parte sporgente dell’esofago ed il nostro modo di
dire ha valore di: “ti fa gola”, “ti fa venir gola”. E detto quando qualcuno mostrandoti un certo cibo ti fa venire l’acquolina in bocca, ma
anche quando fa qualcosa per farti invidia o per farti venir voglia
di una certa cosa.
T’fa ’l cul nero
(Ti fa il sedere nero)
Questa espressione in senso letterale sta ad indicare che riceverai
una tal dose di sculacciate che il tuo sedere diventerà nero per i lividi.
Il detto in generale significa: riceverai una mortificante sconfitta.
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T ‘fa ’l piombo?!
(Ti fa il piombo?!)
Il detto sembra uscito dalla bocca di un cacciatore che dopo molto
penare dietro ad una preda è riuscito nel suo intento. Piombo sta per
pallini da caccia e nel caso citato è il piombo che è riuscito a far
sentire la sua forza.
T’ fa ’na testa come ’n mazzo
(Ti fa una testa come un mazzo)
“Mazzo” è una grossa mazza di legno. Si tratta di un blocco di
legno ricavato di solito dall’ultimo pezzo di tronco - dalla parte della
Il detto in senso figurato si usa nei confronti di chi non volendo
fare una certa cosa è stato poi costretto con le maniere forti a farla
o ad assumere un certo atteggiamento.
T’ fo magna dal Bobò
(Ti faccio mangiare dal Bobò)
Il Bobò è un essere pauroso, non bene identificato, che viene
sempre messo davanti per incutere spavento ai bambini per convincerli a fare o non fare una certa cosa.
A volte devono smettere persino di piangere se non vogliono
essere mangiati dal Bobò.
Oggi questo comportamento dei grandi viene decisamente condannato dagli esperti dell’educazione.
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T’fo ‘na faccia comme ’n pallone
(Ti faccio una faccia come un pallone)
Questo detto molto colorito ha lo stesso significato di “T’ gonfio!”.
Entrambi corrispondono al detto in lingua italiana: “Te le dò di santa
ragione”. Il primo dei nostri due detti ci da l’idea che la persona
picchiata alla fine ha la faccia gonfia come un pallone, mentre il
secondo ci da l’idea che la persona picchiata si ritrova gonfia in genere.
Il secondo detto è dunque minaccioso quanto il primo, anzi sembra
voler dire: “Ti gonfio in tutto il corpo”.
Tien su ’ l fiato sa i denti
(Trattiene il fiato con i denti)
Modo di dire che si usa per indicare una persona che trattiene il
fiato - cioè la vita - con i denti. Si riferisce a persona estremamente
debole alla quale resta un sottile filo di vita.
Simile a questo c’è quell’altro modo di dire, già citato: “Sta su
per pradca”.
Tira ’l vento e baja ‘l cane
nte la mattra n’ c’è più ’l pane
nte la botte n’ c’è più ’l vino
farò ’l mestier del contadino
(Tira il vento e abbaia il cane
nella madia non c’è più il pane
nella botte non c’è più il vino
farò il mestiere del contadino)
Mancano pane e vino e la soluzione è solo quella di produrli:
fare il contadino.
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Tira più ’n pelo d’fica che ’n par d’ bua
(Tira più un pelo di fica che un paio di buoi)
I buoi erano il simbolo della massima potenza. Ma se i buoi riescono
a fare grandi cose, il sesso femminile riesce a fare molto di più.
E la storia delle Eve e delle Cleopatre di ieri e di sempre!
T’ lamenti del brodo grasso?!
(Ti lamenti del brodo grasso?!)
Spesso ci capita di imbatterci in persone benestanti che si lamentano della propria situazione economica; e lo fanno talmente bene che
se non le conoscessimo finiremmo col dar loro una piccola offerta.
Queste sono le persone che si lamentano del brodo grasso.
Il detto viene rivolto a chi si lamenta senza ragione del proprio
stato di benessere.
T’ leva la sete co’ l’osso del presciutto
(Ti leva la sete con l’osso del prosciutto)
E detto quando qualcuno ti fa pagare qualcosa ad un alto prezzo.
Chi ti leva la sete con l’osso del prosciutto, facendo una certa cosa
ti peggiora la situazione. La sete infatti non si toglie con qualcosa
di salato come è l’osso del prosciutto.
Tocca a te comm’ l’osso pel cane!
(Tocca a te come l’osso per il cane!)
Si sa che il cane mangia gli ossi anche perché la carne... se la
mangia il padrone! Che al cane tocchino gli ossi è una legge che vige
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da sempre ed alla quale il cane non può sfuggire salvo casi eccezionali.
Il proverbio si usa per dire che tu devi fare una certa cosa e non
puoi sfuggire.
Tocca fa’ ’ na croce ndo’ che n’ s’arguasta
(Bisogna fare una croce dove non si disfa)
Si dice quando qualcuno fa un gesto inaspettato o fa un lavoro
che non aveva mai fatto in precedenza o quando avviene qualcosa
di positivo che sembrava non potesse mi avvenire.
Tocca gi’ arguasta’ la fattura
(Bisogna andare a “guastare” la fattura)
Secondo una credenza popolare esistono persone in grado di
eseguire operazioni malefiche (fatture) su altre persone mediante
un guardare insistente e invidioso (il malocchio). Le fatture possono
essere rivolte su persone, animali e cose. Per quanto riguarda le
persone e gli animali questi possono ammalarsi, avere breve vita o
addirittura morire. Per quanto riguarda le cose possono essere rese
inservibili o passare ad altro proprietario. La fattura può essere annullata solo da persone capaci di farlo; il più delle volte sono quelle
stesse che le fanno! Secondo una credenza popolare per “arguasta”’
la fattura i fattucchieri usano sgozzare una gallina nera ad un crocevia
in una notte di luna piena oppure, sempre in un crocevia, bruciano
un cuscino per la fattura ad un adulto, un “pisciotto” nel caso che si
tratti di un bambino.
Ma chi crede alle fatture e al malocchio si premunisce: inchioda
sulla porta della stalla il ferro di cavallo a protezione del bestiame;
porta sempre con sé un oggetto con potere di tener lontano ogni
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maleficio. Può scegliere indifferentemente fra i tanti: il fiocchetto
rosso, il gobbetto, il cornetto, il pelo del tasso, il tredici, il ferro di
cavallo. Ma nel caso che non abbia niente addosso, quando si avvicina una persona sospetta esser capace di fare fatture o malocchio,
incrocia le dita della mano sinistra accavallando il dito medio sopra
l’indice. Questo modo di fare è un “fare fico”.
Toccaria mettij la bardella
(Bisognerebbe mettergli la “bardella”)
“Bardella” è la tela che si mette al ventre del birro per impedirgli
in certi periodi il rapporto sessuale con le pecore.
L’espressione oltre che riferita all’ariete è detta anche nei confronti
di certi giovanotti... un po’ troppo esuberanti.
Tocca scuprì ’ l Crucifisso
(Bisogna scoprire il Crocefisso)
Di solito il Crocefisso viene scoperto dal sacerdote quando c’è
stato un avvenimento fuori del normale.
Il detto viene rivolto a chi ha mangiato oltre misura, per dire che
quello è un fatto del tutto fuori dalla normalità.
Tocca sta’ comm’ la foja su l’albero
(Bisogna stare come la foglia sull’albero)
Come sta la foglia sull’albero? È sempre in attesa di cadere. Nella
stessa situazione si possono trovare certe persone che si aspettano
che da un momento all’altro succeda qualcosa di poco piacevole. È
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il caso ad esempio di un bambino molto vivace che va dappertutto e
tocca o prende quello che vede; chi lo segue - in genere la mamma si aspetta che da un momento all’altro combini qualche guaio e per
questo “sta’ comm’ la foja su l’albero”.
T’puzza la salute!
(Ti puzza la salute?)
Questo monito viene rivolto al piantagrane per ricordargli che c’è
anche chi può fargli perdere la salute somministrandogli una buona
dose di botte. Espressione simile a questa è quella seguente.
T’puzza ’ l fiato?
(Ti puzza il fiato?)
L’espressione significa: “Ti dispiace respirare?”. Viene rivolta a
chi cerca la lite ad ogni costo. Naturalmente anche costoro possono
trovare “’1 pan p’i denti lora!” (il pane per i loro denti!).
Tra ’ l fugge e ’ l corre...
(Tra il fuggire ed il correre...).
Il detto viene usato per significare che due cose possono sembrare
diverse ma che in realtà sono la stessa cosa.
Tra l’imbra e l’ambra
(Tra lume e oscuro)
“Imbra” è una parola storpiata che sta al posto di ombra, mentre
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“ambra è una resina trasparente. “Tra l’ombra e l’ambra” è la via di
mezzo fra la luce ed il buio, situazione che si verifica all’alba ed al
crepuscolo.
Tre cose gabbne ’ l villano:
credenza, bon mercato e piove piano
(Tre cose gabbano il villano:
il credito, il buon mercato e la pioggerellina)
Il termine “villano” non sta ad indicare una persona sgarbata,
ma semplicemente chi abita in campagna, cioè il contadino che è
“persona del contado” (territorio attorno ad un centro).
In questo proverbio il contadino è visto come persona ingenua,
diversamente dall’altro proverbio in lingua italiana che dice: “Contadino, scarpe grosse e cervello fino”, cioè il contadino può essere
mal vestito, ma è intelligente. Il contadino, persona notoriamente
povera, come poteva non venire attirato dal credito che gli veniva
fatto per cose che costavano poco o dalla pioggerellina con la quale
spesso conviveva?
A proposito di pioggerellina, spesso si sente dire che “tanto è acqua
che non bagna” e l’origine di questo detto si fa risalire a quel tale che
avendo rubato una gallina e avendola nascosta dentro l’ombrello, a
chi gli chiedeva perché non aprisse l’ombrello dal mometo che stava
piovendo, rispose: “Questa è acqua che n’ bagna!”.
Trist’ chel dente ch’ magna la somente
(Cattivo quel dente che mangia la semente)
Un tempo in certi anni di carestia succedeva a volte che l’agricoltore si trovasse nella necessità di dover macinare le granaglie
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destinate a seme. Il seme per eccellenza a quei tempi era il grano, poi
veniva il granoturco; grano e granoturco erano i principali alimenti
con i quali si faceva il pane.
Ed il mangiare era mangiare pane, alternato a polenta. Quando il
seme veniva mangiato ancor prima di essere seminato voleva dire
che si era proprio in una situazione disperata.
Trist’ chel piatt’ eh’ seti’ ma’ rastellan
(Cattivo quel piatto che sette mani lo rastellano)
Dopo la minestra o la polenta, raramente la pastasciutta, sulla
tavola apparecchiata di un tempo si mettevano: la “bocaletta” (boccale
dell’acqua), il fiasco del vino, un unico bicchiere ed un “reale” che
conteneva il secondo.
E proprio questo è il piatto indicato dal nostro proverbio attorno
al quale sette mani (persone) prendono il cibo, proprio come fa il
rastrello che va avanti e indietro.
Il piatto è detto “tristo” che letteralmente significa cattivo, ma nel
nostro caso ha valore di “maledetto”, perché non riesce a sfamare le
tante bocche che gli stanno attorno.
T’ rode ’ l culo?
(Ti rode il sedere?)
Il detto viene rivolto con ironia a chi si mostra acido, invadente
o chi sparla con invidia.
Spesso non si attende neanche la risposta e si suggerisce il rimedio:
“Grattilo!” (grattatelo!), che è come dire: “Arrangiati! Io non posso
farti niente”.
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Trova’ Cristo ntl’orto
(Trovare Cristo nell’orto)
Il modo di dire significa avere fortuna o comunque avere vita facile.
Chi abita in campagna dispone di un orto che cura amorosamente
e che difende gelosamente. Ecco un curioso dialogo che si svolge
di notte fra un ladro di cavolfiori che si trova nell’orto ed il padrone
che si è affacciato alla finestra della sua camera per vedere chi è:
- Chi è giù st’orto?
- È ’ n’ anima senza corpo.
- Co’ s’ fa ntl’altro mondo?
- S’ pin pel collo e s’ tajen dal fondo.
- Quant’ se ne salva?
- Quei bei nisciuno, quei brutt’ tutti.
- Salutate ’ 1 por mi’ patre.
- Chiudit’ la fnestra e n’ dubitate.
Rispondendo alla prima domanda, il ladro dichiara di essere un’anima, ma più avanti fa riferimento ai cavolfiori.
Il padrone dell’orto continua a fare domande perché crede che le
risposte si riferiscano sempre al mondo dell’aldilà, mentre il ladro
parla dei cavolfiori.
T’ vojo bene comm’ a ’ na covata d’ sorce
(Ti voglio bene come a una covata di sorci)
I topi di campagna si moltiplicano con facilità e perciò sono diffusi
un po’ ovunque. Da sempre sono nemici dichiarati degli agricoltori
ed è facile capire come l’espressione venga usata in modo sarcastico,
perché ai sorci di bene non gliene vuole proprio nessuno.
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Un d’ meno e ’ n pezz’ d’più
(Uno di meno e un pezzo di più)
Il detto viene usato quando in un gruppo manca qualcuno e c’è
qualcosa da spartire fra i presenti. Il dividendo potrebbe essere solo
una porzione di cibo, ma potrebbe essere anche un dividendo in beni
o in denaro. All’origine il detto faceva riferimento soprattutto ad un
pezzo in più che c’era sulla tavola per i commensali.
Uno sul forno e un su la pala
(Uno dentro al forno ed uno sulla pala)
Per capire questo proverbio dobbiamo pensare al fornaio intento
al suo lavoro: ha sistemato una fila di pane dentro al forno, mentre
un’altra fila è già pronta sulla pala e sta per essere infornata. Le due
file di pane rappresentano due persone che stanno per fare la stessa
fine nel giro di poco tempo: si tratta quasi sempre di due persone o
molto vecchie o molto mal ridotte: è come dire che una è morente
e l’altra è poco lontano.
Va inciampella
(Va inciampando)
Con questo modo di dire si vuole intendere chi accenna ad incespicare o barcolla per debolezza e per ubriachezza.
Va in scirisciola
(Va vestito in maniera leggera)
Chi “va in scirisciola” è persona che durante la brutta stagione
va in giro in maniche di camicia.
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Vall’ a badurlà
(Vallo a trastullare)
La frase viene rivolta a chi deve trastullare un bambino che piange.
Di solito il bambino viene preso in braccio e cullato mentre gli
si canta “staccia minaccia” o qualche altra nenia.
Nel nostro gergo c’è un’altra espressione di valore simile: “È
comme un dindio quant’ ha avut’ ‘na scannata” (è come un dindo
quando ha avuto una scannata). Anche in questo caso si vuoi evidenziare un senso di intontimento.
Vecchie enne le strade!
(Vecchie sono le strade!)
È noto che le strade (o meglio i sentieri) furono tracciati fin da
quando sulla faccia della terra comparvero i primi uomini. È naturale
quindi che le strade siano vecchie.
Quando qualcuno dice di essere vecchio, generalmente per fargli
coraggio gli si risponde:”Vecchie enne le strade!”.
Vede la diavla
(Vede la diavola)
Vedere il diavolo è stato sempre sinonimo di spavento e di tribolazione. La diavola o la diavolessa era per i nostri bisnonni un essere
che incuteva terrore ancora più del diavolo stesso. Chi “vedeva la
diavla” era una persona che viveva tra fame e stenti lavorando dalla
mattina alla sera.
Chi “vede la diavla” ancora oggi è una persona che deve affrontare una vita molto difficile.
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Verde comme l’ajo
Nero comme ’l carbone.
Giallo comme ’n fango.
Bianco comme ’n pezz’ d’ carta.
Roscioo comme ’l foco
(Verde come l’aglio.
Nero come il carbone.
Giallo come un fungo.
Bianco come un pezzo di carta.
Rosso come il fuoco)
Per rendere più evidenti i colori spesso si usano fare dei paragoni:
così il verde è il colore dell’aglio, il nero è il colore del carbone
(spento), il giallo è il colore di una certa varietà di funghi, il bianco
è il colore della carta, il rosso è il colore del fuoco.
Si dice anche “roscio “nfrangato” nei confronti di chi è diventato
rosso in viso in seguito ad una corsa o per febbre, ira o vergogna.
Voi sempre ’l meccolo
(Vuole sempre “qualcosa di speciale”)
“Meccolo” (o “leccolo”, meno usato) sta ad indicare una cosa
particolare da mangiare. I bambini, si sa, non mangiano sempre
volentieri. Un tempo quando il cibo era scarso e non era gradito al
palato i bambini erano quelli che più di ogni altro si rifiutavano di
mangiare e così le mamme cercavano per questi figli un po’ schizzinosi dei cibi particolari al posto del solito tozzo di pane più o meno
ammuffito. In tal modo questi bambini si abituavano a mangiare - a
tavola o quando sbocconcellavano - qualcosa di diverso dagli altri
componenti della famiglia; mangiavano, come si dice ancor oggi in
gergo, “arcapato” (scelto).
Naturalmente questo qualcosa di diverso era sempre una piccola
250
quantità e così il “meccolo” stette anche per indicare una piccola
rimanenza di cibi a tavola; di solito chi sta per sparecchiare dice:
“Finisc’ d’ magna chel meccolo” (finisci di mangiare quel poco che
resta).
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Luigi Speranzini è vissuto a S. Lorenzo in Campo (Pesaro).
Figlio di coltivatori diretti, dopo il diploma magistrale si è laureato
in Pedagogia all’Università di Urbino. Ha fatto il segretario della
scuola media a S. Lorenzo in campo.
Vincitore di concorso ha insegnato per molti anni alle scuole
elementari di Caravaggio (Bergamo) e poi in seguito ad un nuovo
concorso è rientrato nella provincia di Pesaro insegnando per lo più
al suo paese di origine. Ha coltivato molti hobbyes: da quello dello
sbalzo del rame a quello della tassidermia, da quello della lavorazione
delle terrecotte a quello del teatro dialettale e studio del dialetto.
Scrittore, autore tra gli altri, del libro “Una civiltà al al tramonto”
edito nel ‘92 dall’ AGE - Urbino.
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