La sensibilit giapponese per la natura e le stagioni

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La sensibilit giapponese per la natura e le stagioni
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Haiku Poesia del Futuro - Seconda Conferenza Italiana Haiku
domenica 28 giugno 2009, Circolo dei Lettori, Torino - Italy
LA SENSIBILITÀ GIAPPONESE PER LA NATURA E LE STAGIONI
di Fabia Binci
Il rapporto con la natura è alla base della tradizione culturale e artistica del Giappone, che ha permesso
nel tempo di rielaborare culture e fedi religiose diverse con profonda originalità. Questo legame avverte Irene Iarocci - è talmente connaturato nell'uomo giapponese che per indicare la natura si usa
soltanto il termine cinese shizen, come se prima del contatto con la cultura cinese il Giapponese non
considerasse la natura un'entità indipendente. Forse il segreto di questo legame è celato nel paesaggio
che lo circonda: montagne, mare, nebbia e verde.
Ogni manifestazione naturale, dalla roccia alla pianta all’evento atmosferico, è animata da un Kami.
Le concezioni animistiche che risalgono al primitivo sciamanesimo uro-altaico trovano nello
shintoismo la loro espressione religiosa e quando dalla Cina arriva il buddhismo (VI-VII sec.) si
compenetrano ad esso potenziando il legame con la natura.
Lo sviluppo dell’introspezione e la scoperta delle leggi che regolano e sublimano le passioni umane
finisce per riversarsi anche nel rapporto con la natura, ma non in senso romantico: l’uomo non
attribuisce alla natura i propri sentimenti, ma capta qualcosa che avviene e lo coinvolge come parte del
tutto. La vita cosmica si esprime nell’avvicendarsi di luci, colori, fremiti che noi chiamiamo ritmo
delle stagioni. In ogni manifestazione della natura si avvertono i bagliori della divinità immanente
diffusa nel cosmo, di cui l’uomo è una piccola parte, ma il buddhismo ha insegnato che tutto è
illusione, impermanenza, transitorietà. Raggiungere il Nirvana, allora, è sgombrare la mente dai
processi illusori di Maia, che ci mostra scorporata da noi la realtà di cui siamo compenetrati. Non vi è
dualismo tra oggetto e soggetto. Il mondo è manifestazione di una sostanziale unicità.
Lo srotolarsi delle stagioni nella danza cosmica accentua l’aspetto transeunte della realtà e lo
struggente fascino della bellezza.
“Se l’uomo non svanisse come le rugiade di Adashimo, se non si dileguasse come il fumo sopra
Toribeyama, ma rimanesse per sempre nel mondo, a che punto le cose perderebbero il loro potere di
commuoverci!” dice Yoshida Kenko (1283-1350), poeta di corte e monaco zen.
Dalla compenetrazione dello scintoismo e del buddhismo nella sua formulazione zen nasce la
particolare visione del mondo che è alla base dell’estetica giapponese in tutte le sue espressioni. La
realtà si coglie senza mediazioni intellettuali nella pienezza del momento, è esperienza del qui e ora,
per vivere la quale condizione primaria è svuotarsi di preconcetti e sovrastrutture ideologiche. Una
coppa vuota può contenere l'universo, quella piena deve potersi svuotare per ricevere. La mente
diventa uno specchio perfettamente pulito, senza segni o polveri che intralcino il rispecchiarsi delle
immagini.
Bashō insegna ai propri discepoli che la via per aderire completamente alla realtà consiste nel lasciarsi
permeare dalla natura, fino ad essere tutt’uno con essa: "Impara dai pini. Impara dai bambù". In questo
modo si può cogliere in ogni aspetto naturale l'unicità del divino e, secondo lo spirito buddhista,
godere nell'illuminazione dell'ineffabilità del reale mai totalmente rivelato.
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Nella natura risiede immortalità dell’istante. "Quando il tempo s’arresta e fermi come alberi o pietre
dentro il cosmo si avverte il ritmo delle sfere, lo scorrere infinito e lento delle stagioni".
Il tempo non si misura con l’anno solare ma con la perfezione dell’essere: non passato non futuro, nel
fluire del tempo ogni attimo ha valore, non esiste che il sospiro dell’attimo, il canto della cicala, lo
splendore dei susini, i convolvoli nella brina. Il profumo del vento…
L’intima percezione delle cose e della loro impermanenza pervade di sé ogni aspetto della vita e
dell’arte e conduce allo stato d’animo aware (sentimento della nostalgia, del rimpianto, del tempo che
passa, avvertito senza sofferenza)
L’intensità del rapporto uomo-natura si sviluppa a tutti i livelli di età e di appartenenza sociale. Il
sillabario non era ordinato un tempo con un criterio razionale ma in modo da formare una poesia da
imparare a memoria, di cui sarebbe autore il monaco Kōbō Daishi (774-835) .
Questa poesia-sillabario costituisce l’abbiccì del rapporto con la natura;
“Sebbene i fiori risplendano di colori sono presto caduti e chi nel nostro mondo è libero dai
mutamenti? Oggi dobbiamo varcare la montagna dell’illusione mondana e lasciarci indietro i nostri
sogni; ebbri mai più”.
Uomini e fiori strettamene congiunti sono soggetti al continuo mutare entro il mondo delle
manifestazioni, che è illusorio anche se appare solido come una montagna.
La perfetta fusione tra la concezione più speculativa sino-indiana del buddhismo con quella scintoista
della natura si raggiunge agli inizi dell’XI sec. con la grandiosa Storia di Genji scritta dalla dama di
corte Murasaki Shikibu. Il principe splendente (ideale umano della raffinatissima cerchia culturale
della capitale imperiale del 1000, Heiankyō, odierna Kyōto) contempla la luna argentata, ascolta il
verso delle anatre selvagge, assapora la vita in tutte le sue manifestazioni.
Nella grande opera che per la prima volta illustra il racconto (Genji monogatari emaki) il trascorrere
delle stagioni è reso dall’architettura delle scene a tetto scoperchiato, in cui scopriamo assonanza
sentimentale tra l’uomo e la natura, tra il dentro e il fuori.
“Ogni persona nasce con la sua stagione e non può fare a meno di preferirla - dice il principe
splendente - Spero che mi resterà un po’ di tempo per quelle cose che mi piacciono veramente, i fiori,
le foglie d’autunno, il cielo, tutti quei mutamenti e prodigi quotidiani che ogni anno porta con sé…”
Ambiente umano e naturale si compenetrano. La casa non è barriera che isola ma luogo di ristoro e di
riflessione in cui si lascia entrare la natura; è struttura aperta e organica, la cui costruzione segue
l’andamento del terreno su cui sorge. Si modifica con il mutare delle stagioni per mezzo di pareti
esterne e interne scorrevoli (shōji) che si aprono, chiudono, spostano.
Chi è dentro la casa può partecipare così allo spettacolo della natura: le intense macchie di colore delle
azalee di tarda primavera, il rosso degli aceri contro il verde delle conifere in autunno, il bianco manto
della neve che attutisce ogni suono. La natura è rappresentata sulle pareti, sulle porte scorrevoli, sui
paraventi. Nella nicchia (tokonoma) della sala più importante della casa viene appeso un dipinto su
rotolo verticale o una calligrafia (tanka o haiku) o una composizione floreale. Le grandi vetrate di
carta di riso lasciano passare la luce, il verde trionfa.
Il Giappone è uno splendore di verde: chilometri di azalee giganti che fanno da siepe alle strade,
cipressi (cripotmerie) altissimi di un tenero verde e poi gli aceri, i momiji, bellissimi in autunno con i
loro rossi fiamma e i ciliegi in fiore, sakura, che si va ad ammirare in gruppo (festa di hanami), le
foreste di "sugi" il pino-cipresso giapponese, i boschetti di bambù, specchi d’acqua e cascate, laghetti
coperti da ninfee…
Nelle costruzioni viene usato il legno in luogo delle pietre perché nulla è stabile ed eterno. La stessa
terra di natura vulcanica ha abituato alla fragilità delle cose.
Nel Giappone della tradizione le case sono di legno e i tetti di paglia, perché la pietra sottrae l’uomo
alla natura. A volte si usa anche la pietra ma in modo tale che non separi dalla natura, dalla bellezza di
alberi, giardini, acqua di laghi e fiumi.
L’uomo deve rimanere nella natura, perché lui stesso è natura. Nel giardino si porta tutta la natura,
sabbia, rocce, acqua vegetazione; la porta in casa con i bonsai, i piccoli alberi che in dimensioni
minime esprimono tutta l'energia racchiusa in una pianta grande. E con l’ikebana, che ha rami e fiori
disposti quasi sempre a formare un triangolo: il ramo più lungo, più importante, si avvicina al cielo, il
ramo più corto rappresenta la terra e il ramo intermedio l'uomo. Ne studia le forme nelle fragili forme
degli origami, alla cui base vi sono i principi del ciclo vitale.
I templi shintoisti, microcosmi di simboli che nell'antichità non erano edifici ma semplicemente
montagne e foreste, sono costruzioni in legno in luoghi elevati a contatto con l’ambiente naturale.
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Il rapporto con le stagioni riguarda ogni aspetto della cultura e dell’arte: la calligrafia, la poesia, il
teatro, la pittura, la grafica, l’architettura, la scultura, l’estetica dei giardini, la cerimonia del the, le arti
marziali, la musica che include il paesaggio sonoro...
Perfino la preparazione dei cibi. Ogni stagione deve avere i propri cibi anche sotto il profilo dei
rapporti cromatici per un intimo bisogno di comunione con i ritmi della natura. Si mangia con la bocca
e con gli occhi. Nutrirsi diventa assumere con il cibo anche i messaggi particolari della natura.
Da questo particolarissimo modo di rapportarsi alla natura nasce nell’haiku l’esigenza del kigo, il
riferimento a una delle quattro stagioni (è un termine riguardante la flora, la fauna, avvenimenti
religiosi e popolari giapponesi o cibi caratteristici), che ha la funzione di stabilire un legame con la
natura di cui si percepisce ad ogni istante il respiro mutevole e il suo influsso sulla vita del singolo.
Indica il qui ora. Vi è un’attenzione spasmodica ad ancorare l’attimo, tanto che l’anno viene diviso in
72 spazi di tempo di 5 giorni l’uno (18 per stagione), che prendono il nome da un tipico fenomeno
stagionale. Il 28 giugno è caratterizzato dal solstizio d’estate.
Nel tempo si sono codificati i Saijiki o "Antologie delle Quattro Stagioni", che nel corso dei secoli
sono stati sempre ampliati seguendo ancora il calendario lunare (nonostante l’introduzione del
calendario gregoriano).
I kigo contenuti vanno dai 15.000 ai 25.000 termini e sono raggruppati secondo le stagioni. Primavera
(Haru), Estate (Natsu) Autunno (Aki), Inverno (Fuyu). Non è facile riconoscere il kigo, se non si
comprende profondamente la cultura giapponese: la parola “rana” indica la primavera; il “ventaglio”
(per scacciare l’ultimo caldo) è kigo dell’autunno, il bramire dei cervi indica la fine di novembre.
Negli haiku passa il soffio leggero dell’anima giapponese e del suo mondo evanescente come la
rugiada che imperla le cose e svanisce al primo sole. Un mondo in cui si avverte la divinità in ogni
manifestazione della natura, nei petali in fiore, nell’acqua chiara che scorre, nel frusciare leggero del
vento.
Un mondo sensibile al divenire delle stagioni.
Per comporre un haiku è essenziale immergerci nella natura (Ginko), lasciarla entrare in sé, respirarla,
la mente come specchio vuoto, senza preconcetti. La poetessa Momoko Kuroda che coordina una delle
800 scuole di poetica haiku in Giappone ogni mese organizza a Tokyo un Ginko seguito da due Kukai,
sessioni di lavoro in cui si rielaborano le immagini catturate al volo.
Allo sguardo tutto è haiku.
Irene Iarocci (a cura di), Cento haiku, Guanda 1987
Murasaki Shikibu, Storia di Genji, il principe splendente, Einaudi 1992
Katō Shuichi, Storia della letteratura giapponese (a cura di A. Boscaro) Marsilio 1996
Gian Carlo Calza, Stile Giappone, Einaudi 2004
AA VV; Ma - la sensibilità estetica giapponese - ed. Angolo Manzoni, 2004
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