Qui - Mondadori

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Sono nato, sono morto
Sono nato il 30 ottobre 1947, all’imbrunire, brandello di carne rigettato con furia da un altro corpo, concepito nove mesi prima da un
soldato reduce dalla più grande guerra mai combattuta su questo
pianeta e da sei anni di campo di concentramento, e da una domestica non più giovane, sventrata al momento del parto dalla mia
grossa testa infelice.
Sono morto il 30 ottobre 2010, nel cuore della notte, investito da
una macchina mentre camminavo per strada succhiando un tronchetto di liquirizia e fantasticavo.
Finora solo qualche grande poeta antico ci aveva raccontato la
discesa di eroi vivi nel regno dei morti, o aveva preteso di essere
andato di persona, da vivo, nell’aldilà e di esserne poi ritornato. Io
sono il primo che vi racconta, da morto, quello che succede nel regno dei morti.
Si sente dire spesso, tra i vivi, che nessuno ci ha mai raccontato
davvero quello che c’è dopo.
Bene, adesso qualcuno c’è.
Che cosa vedono i vostri occhi quando uno muore? Quello che
vedono è la decomposizione dei corpi, l’autodigestione delle cellule che non controllano più gli enzimi, il liquido che esce dalla struttura delle cellule divorate, la desquamazione, lo sguantamento, le
mosche vomitorie che mangiano il grasso sottocutaneo, i batteri
che si ingozzano delle scolature che escono dalle cellule massacra9
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te, i corpi che si gonfiano, le labbra e la lingua che si gonfiano per i
gas di scarico dei microrganismi che banchettano e cagano dentro
le carcasse espugnate, gli occhi che si seccano, la disintegrazione
degli apparati digerenti e respiratori gremiti di colonie di batteri
in esplosione demografica per l’enorme quantità di cibo a disposizione, la schiuma del cervello trangugiata passando attraverso
il palato demolito, i muscoli divorati fibra dopo fibra dagli scarafaggi carnivori, i corpi che collassano su se stessi, si autoinghiottono, franano.
Questo è ciò che vi sbattono in faccia i vostri occhi, è ciò che i vostri occhi vedono dall’interno della stessa visione consustanziata
dei corpi che si stanno disattivando. Questo siete voi da morti, sono
i vivi da morti, non i morti.
Invece sta succedendo tutt’altro.
Tunnel nell’iperspazio, ponti di Einstein-Rosen, finestre che
portano a un altro universo parallelo dei morti? Che cosa andate
a pensare... La situazione è molto più semplice, così semplice che
voi vivi non riuscite neppure a immaginarla. Per fortuna, perché
altrimenti non sareste in grado di sostenerla. Tutte le vostre strutture crollerebbero, l’organizzazione delle vostre vite e del vostro
mondo, i vostri assetti mentali, le vostre interpretazioni e le vostre
proiezioni concettuali basate sul dualismo di vita e morte, la decifrazione della realtà in cui credete di essere immersi, le vostre istituzioni, i vostri codici, i vostri sistemi, tutta la vostra relazione con
ciò che percepite attraverso i vostri sensi si dissolverebbe all’istante, la vostra presenza non avrebbe più relazione con l’immagine
che vi siete fatti di voi stessi e del mondo.
Ma, a questo punto, voi mi chiederete: “D’accordo, ma che cosa
succede quando si muore?”.
Niente.
“Niente? Com’è possibile che non succeda niente, se prima ci
siamo e dopo non ci siamo?”
Le cose non stanno esattamente così. Né prima ci siamo né dopo
non ci siamo.
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Ma voi non vi accontenterete della mia risposta, non capirete neppure quello che sto cercando di dirvi. “Sì, sì, d’accordo” insisterete, “però che cosa succede in quel preciso momento?”
Difficile dirlo. Provo a farvi un esempio.
Quando ero vivo, c’erano degli insettini a forbice che avevano
fatto il nido dentro le vecchie ante di legno di una delle mie finestre. All’inizio li facevo volare via con un soffio, se li sorprendevo
a correre sul davanzale, messi a nudo dall’apertura repentina delle ante, di mattina, dopo che mi svegliavo. Ma si vede che riuscivano a risalire ogni volta dal fondo del cortile, perché me li ritrovavo di fronte il giorno dopo, quando riaprivo la finestra. Così ho
cominciato a sterminarli. Col palmo della mano, col pugno, tutti,
senza eccezioni, quelli appena nati, quelli ancora magri e veloci,
quelli grassi e lenti, probabilmente le femmine con le trippe piene
di nuove forbicine pronte a balzare fuori da qualche pertugio del
loro corpo. Mi restavano sempre pezzi di insetti morti attaccati alle
mani, andavo a lavarli via e a staccarli nel lavandino. E intanto pensavo: “Come sono fortunati questi insetti: un colpo fulmineo e di
una violenza sproporzionata li annienta in una frazione d’istante,
senza che si rendano conto di niente. E sono proprio io che gli faccio un simile dono! Ecco, anch’io vorrei morire così, senza avvertire il passaggio dalla vita alla morte. Ma quale sarebbe l’equivalente di una morte simile per un essere come me? Che un altro essere
molte, molte migliaia di volte più grande mi spiattellasse sul piano
della mia vita con un pugno altrettanto violento e improvviso, oppure la caduta di un corpo che precipita dallo spazio, un meteorite,
meglio ancora un enorme cubo di piombo che cade dall’alto esattamente sopra la mia testa e il mio corpo. E allora al diavolo tutta
questa pena e tutta questa miseria e tutto questo intollerabile orrore. Al diavolo anche quel sogno che ho continuato a sognare attraverso la cruna della letteratura. Solo quest’ultima cosa aliena
che finalmente ho di fronte, la più verticale, la più ardimentosa, la
più travolgente, la più disperata, la più incantata, quella che porterà tutta l’orbita cominciata ventisei anni fa con Gli esordi e pro11
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seguita con Canti del caos fino al suo punto di congiunzione e di
innesco e al suo inveramento”.
Ecco, diciamo che, quando si muore, le cose vanno pressappoco
così. Non ci si rende conto di niente. Non ci si rende conto di niente perché non succede niente.
Ora non mi resta che farvi balenare per un’ultima volta qualcosa, da qui dove sono, da dopo, da prima. Vi farò arrivare il riverbero di figure e di voci che provengono dal continente dei morti,
in modi e forme che possano essere intesi da voi, da questo tempo compresente e allagato, attraverso il residuo scritto di questa
lingua che i vostri occhi stanno vedendo mentre sono immerso in
un’inerenza che non può più essere significata attraverso le spoglie del linguaggio, adesso che sono infinitamente più calmo, più
dolce, più calmo, più dolce, più calmo, più disperato, più dolce...
La vita non c’è più. Non resta che la morte.
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Le città dei morti
È tutto buio. Ci sono dappertutto macchine piene di morti, treni
pieni di morti, aerei pieni di morti, nelle città sprofondate nel sonno, lungo le strade, le ferrovie, negli aeroporti, nel cielo. Tutto il
mondo è attraversato dalle carovane dei morti.
Viene da ogni parte un rumore sordo, un fragore, come se stesse
piovendo a dirotto, diluviando, e tutta l’acqua si stesse trasferendo dal continente capovolto del cielo a quello della terra. Ma forse
non sta piovendo, non sta diluviando, è solo un modo di percepire con le superfici dislocate dei corpi quello spazio dalla consistenza diversa, l’allagamento verticale del tempo.
Metrò che corrono nelle gallerie buie sotto la linea dell’orizzonte, dalle vetture tutte piene di morti. Morti che camminano attoniti
lungo le strade, come bendati. Macchine guidate da morti e piene
di morti che guardano fuori dai finestrini bui con le loro facce morte. Aerei che si alzano in volo guidati da piloti morti e tutti pieni
di morti. Stazioni gremite di morti che aspettano il loro treno, fermi lungo le banchine e sotto i tabelloni elettronici degli orari dalle
tessere che ruotano senza mai fermarsi. Treni che corrono con i vagoni illuminati nel buio, tutti pieni di morti... Non vi è mai capitato
di vederne, con le luci sfuocate per la velocità, mentre vi oltrepassano in pochi istanti sulle rotaie a fianco della vostra auto che corre sull’autostrada, e voi continuate a guidare sbadigliando con gli
occhi socchiusi, velati da quelle lacrime che si formano per il son13
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no, e intanto pensate, fantasticate di avere intercettato nel buio del
mondo un fascio di vite che corrono come voi nella notte?
Non è così, quei treni sono tutti pieni di morti.
Anche gli alberghi sono pieni di morti. Nelle stanze ci sono corpi morti incastrati e compenetrati tramite i loro inguini e i loro apparati escretori morti. Negli atri e ai banchi delle reception si accalcano donne e uomini in partenza per il regno dei morti. Ritirano i
documenti, i bagagli, si mettono in fila sotto le pensiline in attesa
del loro turno, mentre i taxisti morti continuano a caricarli, mettono le loro valigie nei bagagliai, ripartono per le stazioni, gli aeroporti, e non c’è nessun tassametro da guardare durante il viaggio,
il display è vuoto, solo la faccia dell’autista che guida con gli occhi
come bendati riflessa nello specchietto retrovisore. Mentre qualcuno indugia ancora un po’ nelle stanze, ai piani più alti, vicino alla
valigia già pronta, e guarda per l’ultima volta da dietro i vetri le
città dei vivi illuminate a perdita d’occhio.
Anche i cinema si stanno svuotando alla fine dell’ultimo spettacolo, gli spettatori morti si sono già alzati dalle loro poltrone, si allineano verso le uscite, dopo essere rimasti seduti al buio a guardare con gli occhi chiusi i volti ingigantiti degli attori morti sopra
lo schermo. Anche i teatri, con i loro palcoscenici pieni di corpi attoriali e canori morti. Anche i ristoranti, dove camerieri morti portano i piatti pieni di cibo alle tavolate dei masticatori morti, aiutano i clienti e le clienti a indossare le giacche, i cappotti foderati e
col colletto di pelo, i piumini, li coprono con l’ombrello all’uscita,
come se piovesse a dirotto, anche se non piove, è solo il tempo che
viene giù all’incontrario nella densità dello spazio vuoto, mentre
davanti alla porta aspetta già il taxi a motore acceso, col tassametro
spento. Anche gli stadi illuminati dai riflettori alla fine delle partite
notturne, coi calciatori morti che lasciano il campo e vanno a fare
la doccia negli spogliatoi, e le folle dei tifosi morti nelle strettoie
dei corridoi che portano verso le uscite, fino ai grandi torpedoni in
attesa a motore acceso, i loro autisti morti con le mani già sopra le
ruote dei volanti, inalberati su sedili altissimi come troni. Anche le
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sale dei videogiochi, con le loro bolle colorate su cui palpitano impulsi morti, gli internet point con le loro schiere di volti attoniti di
fronte agli schermi al plasma, gli ippodromi dove corrono sagome
elettrizzate di cavalli morti, le piazze gremite di moltitudini di ragazzi morti in fusione nella catastrofe ritmica dei concerti. Anche le
grandi discoteche accecate, dove rimbombano negli intestini masse
di suoni morti, tra quella ressa di corpi in cui è già iniziato il travaso di liquidi dalle strutture delle cellule divorate. Escono imbambolati da quelle pance piene di liquami di luce e suoni. Qualcuno
li sorregge ai lati mentre barcollano ubriachi, impasticcati, drogati, li spinge a forza nelle macchine e nei taxi che si fermano con le
portiere spalancate davanti a quelle metastasi di particelle morte
di luce, li carica uno dopo l’altro, a badilate, i vestiti scomposti, la
biancheria tormentata, le pompe cardiache in tumulto, i corpi ancora ricoperti di sudore morto e di liquidi seminali seccati...
Ma poi non lo so se sono davvero treni, macchine, aerei, alberghi,
cinema, teatri, ristoranti, stadi, sale di videogiochi, internet point,
ippodromi, piazze, discoteche... Mi esprimo così, in modo figurato, per cercare di farvi capire. Tutto il mondo è un transito di morti.
Non si vede niente, è come se ti bendassero e poi ti facessero
ruotare molte volte su te stesso per farti perdere l’orientamento.
È tutto buio. Nessun punto di riferimento. L’oscurità più profonda, come non è dato conoscere ai vivi, neppure quando si trovano in qualche posto isolato e fuori dal mondo dove sono andati per separarsi da tutto e da tutti e sparire, dopo avere visto come
stavano veramente le cose e averne avuto abbastanza, e piove a
dirotto da tre giorni e tre notti, diluvia, e anche la pioggia è nera,
e la luce nella casa è saltata, l’unico lampione che c’era fuori è stato sbatacchiato e poi fracassato dalla violenza del vento, il cielo è
completamente coperto di nuvole nere che occludono ogni varco
alla luce, ed è notte fonda, non un bagliore, un riflesso, da nessuna parte, dalla terra, dal cielo, guardano fuori dalla porta e non vedono niente, assolutamente niente, il mondo cancellato, scomparso, non si scorgono i contorni delle cose, il piano su cui poggiava il
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creato, non si distingue la terra dal cielo, a fare un passo in avanti
sembra di tuffarsi in una massa nera che sta divorando le forme.
Magari è successo anche a voi, in un momento della vostra vita in
cui non volevate più avere niente davanti agli occhi, più nessuno,
più niente, per nessun motivo, per sempre, in cui anche il cuore si
era stancato di sanguinare, la mente di pensare, di sognare, di soffrire, di ricordare. Ecco, l’oscurità in cui siete immersi è mille volte più profonda, non ha termini di confronto.
Siete arrivati al limite dell’esponenzialità della luce e del mondo.
C’è sempre quel leggero fragore come di pioggia oppure di spazio sostanziato. Percepite la presenza buia di altri corpi che compenetrano le vostre spalle con le loro spalle soffici. State correndo
anche voi su una di quelle macchine che solcano a carovane la notte nera del mondo.
Non vedete niente, perché è come se vi avessero bendato gli occhi. La vostra testa è dentro un cappuccio molle che è il cappuccio
nero del mondo. La macchina corre immobile, come su un piano
inclinato, ma percorso dall’incontrario, da dentro. Il fragore sale.
Percepite la massa soffice dei due corpi seduti vicino a voi, che vi
accompagnano, che vi scortano, i busti eretti, i colli arcuati, le teste un po’ arrovesciate, gli occhi come bendati.
“Dove mi trovo?” vi domandate. “Che regno è questo? Che sia
il regno dei morti?”
Perché, dentro la morte, non si percepisce la morte.
Le strade sono nere, non si distinguono i limiti tra le strade e il
resto non tracciato del mondo. Ci devono essere altri due anche sul
sedile davanti. Nella macchina nessuno parla, c’è un profondo silenzio. L’autista guida con la testa un po’ inclinata sul fianco, come
se cantasse. Però non canta. Non esce un suono dalla sua bocca. Ha
gli occhi chiusi, bendati. Oltre i finestrini si cominciano a evidenziare masse buie dentro cui si divincolano forme.
«Chi sono quelli?» provate a domandare a chi sta premuto contro di voi in quello spazio buio che corre inclinato sopra l’inclinazione del mondo.
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«Sono i morti.»
«Che città sono queste?»
«Sono le città dei morti.»
La macchina corre senza fare rumore. Siete dentro una carovana di luci che si spostano nel buio rovesciato del mondo. Il viaggio è lungo, non si capisce se è interminabile o se è istantaneo, non
lo si può capire, non lo si è mai capito, perché la massa spostata e
la velocità dello spazio e del tempo ruotano all’incontrario attorno
a un unico perno. Un numero sempre più grande di morti sta facendo ala al vostro passaggio. Sono le schiere dei vecchi morti che
accolgono l’arrivo delle carovane dei nuovi morti. Uomini, donne, bambini, di ogni luogo, di ogni tempo, allineati ai lati di quelle
voragini che si possono percepire come strade, anche cani seduti a
fianco dei loro padroni morti, anche altri animali che spalancano
le loro ali nel buio. A perdita d’occhio, lungo i percorsi che conducono alle sconfinate città dei morti che ricoprono il mondo.
Il fragore cresce. Il muro dei morti che fa ala al vostro passaggio
diventa sempre più spesso. Viene un suono di finimondo da quella poltiglia di figure agglutinate e intraviste. Rumori e voci di esultanza e sfracello. Tutta l’aria vibra di clangori e di suoni, come se
un numero sterminato di braccia stesse battendo con forza le spade contro grandi scudi, nel buio.
«Che cos’è questo clangore?» provate a chiedere ancora.
«Sono le risate dei morti.»
Rimanete così, la testa girata verso il finestrino, contro quelle barriere di figure balenanti e di suoni che salgono dal profondo dello spazio e del tempo.
«I morti ridono?»
«Sì, ridono. È così che accolgono i nuovi morti.»
«Ma perché ridono?»
«Ridono perché ormai sanno cosa succede dopo. Perché sanno
che la morte non c’è, non c’è mai stata. Perché sanno che nel mondo non sta avvenendo una distruzione, che non esiste neppure la
consolazione della distruzione.»
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Il demone e l’angelo
Quando ero vivo, quando mi percepivo ancora come vivo, una
volta avevo sentito dire che la morte è il dolore più grande perché
in quel momento avviene dentro di noi una terribile lacerazione:
l’anima si separa dal corpo a cui era unita, con cui era stata una
cosa sola fin dalla nascita.
Allora ero ancora un ragazzo. Mi trovavo nella piccola chiesa
di un seminario. Era pomeriggio inoltrato, quasi sera, fuori dai
finestroni stava diventando sempre più buio. Eravamo tutti seduti ai nostri banchi, con i piedi posati sugli inginocchiatoi. Non
c’erano candele accese, anche la luce era spenta, si vedevano solo,
tutt’intorno nella penombra, le sagome nere delle vesti. Il padre
priore teneva la meditazione. Parlava sommessamente, non si distingueva quasi la sua voce dal resto del silenzio del mondo. La
chiesina era buia. La meditazione stava finendo. Dopo un po’ ci
saremmo alzati dai nostri banchi, avremmo chiuso i messalini che
tenevamo aperti tra le mani, con i segnalibri colorati oltre i bordi dorati delle pagine, li avremmo messi nei piani ribaltabili degli inginocchiatoi, saremmo usciti in silenzio dalla chiesa, avremmo raggiunto il refettorio camminando in fila lungo la ringhiera
di marmo da cui si vedeva sul fondo della pianura la città illuminata a perdita d’occhio.
Il padre priore, seduto di fronte a noi nella penombra con la sua
grossa testa smottata che spuntava dal bianco collare di celluloide,
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aveva detto questo: che nel momento della morte avviene una terribile lacerazione, e anche che avviene un combattimento tra il demone e l’angelo per la conquista della nostra anima.
Ma io, morendo, non ho assistito a nessun combattimento, nessuno ha combattuto per me e per la mia anima. E poi, se davvero
ci fosse stato, come sarebbe potuto essere questo combattimento?
Cosa sarebbe avvenuto sopra il mio corpo in preda allo scatenamento degli enzimi e all’autodigestione delle cellule? Cosa avrebbe detto il demone alla mia anima per convincerla ad andare con
lui? E cosa avrebbe detto l’angelo?
Demone: “Allora, che cosa hai deciso di fare?”.
Angelo: “Allora, che cosa hai deciso di fare?”.
La mia anima: “In che senso?”.
Demone: “Vuoi venire con me?”.
Angelo: “Vuoi venire con me?”.
La mia anima: “Qual è la differenza?”.
Demone: “Vuoi stare con la vita?”.
Angelo: “Vuoi stare con la vita?”.
La mia anima: “Ma mi chiedete tutti e due la stessa cosa!”.
Demone: “Vuoi stare con la morte?”.
Angelo: “Vuoi stare con la morte?”.
La mia anima: “Ma mi chiedete ancora la stessa cosa!”.
Demone e angelo: “Sì, però devi scegliere lo stesso!”.
La mia anima: “Ho una scelta?”.
Demone e angelo: “No”.
Un’altra volta, mentre andavo in giro di notte per una città dei
vivi, e non ci vedevo quasi perché ogni tanto smettevo di respirare,
me ne dimenticavo, continuavo a camminare così, come asfissiato,
e c’erano dappertutto quelle luci morte che ci sono dentro le luci
vive, e mi scorrevano ai lati quelle schiume rabbrividenti di volti irrorati e di bocche, passando vicino a un palco centrato dai riflettori,
all’aperto, ho intravisto la testa opalescente di un filosofo che stava
dicendo a una folla di ascoltatori che il dolore e la morte sono eternamente oltrepassati dalla gioia e che noi siamo dentro la gioia e
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dentro la gloria. Mi sono fermato per un po’, in piedi, ad ascoltare
la sua voce larvale che usciva ingigantita da un microfono a gelato.
Ho aspettato che finisse di parlare, che si disperdesse anche l’eco
dell’ultimo applauso, prima di avvicinarmi alla base del palco.
«Ah, sì? Allora io sarei nella gloria?» non sono riuscito a trattenermi dal chiedergli a muso duro, indignato, facendomi largo tra
la ressa di quelli che gli si accalcavano attorno con i libri aperti e la
penna in mano per chiedergli un autografo.
«Certo!» mi ha risposto facendo ruotare la testa, con la sua larga bocca a tagliola.
«Ah, sì? Allora io sarei nella gioia?» gli ho chiesto ancora.
«Certo.»
«Ma com’è che invece mi sembra...»
Non mi ha fatto finire la frase.
«Ha detto bene: le sembra.»
Si erano girate tutte verso di me, le molte teste abbagliate che gli
si accalcavano intorno come per proteggerlo da quell’intruso che
gesticolava e gridava.
Ho tirato fuori il giornale che avevo in tasca.
«Guardi qui! Guardi qui!» ho provato ancora a dire, con la voce
sempre più alterata e più alta per coprire il brusio della folla che cominciava a inveire contro di me, spalancando il giornale e cercando febbrilmente una pagina. «Ho letto proprio stamattina questa
sua frase: “Si fa innanzi il Giorno che salva dalla Notte”. Ma come
si fa a scrivere una frase simile? Non si vergogna? È questo il destino della filosofia? Quello di diventare cattiva letteratura?»
Si è girato di nuovo, ad afferrare altre penne, a firmare.
Adesso sono qui, vi sto parlando con un’altra voce, che però era
già dentro la mia voce. Sarà una voce fatta di un’infinità di altre
voci che arriveranno a voi attraverso qualcosa che non è neppure
più il tempo, lo spazio, perché qui anche gli estremi confini percettivi sono saltati, mentre vi porterò attraverso questo regno nero,
incantato, fino alla fine di questo regno.
E poi, e poi...
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È difficile farvi capire. Provate un po’ a immaginare queste carovane di macchine con le luci accese nel buio, attraverso le strade del mondo, le autostrade, le file di luci dei treni ad alta velocità
che corrono nella notte verso le sterminate città dei morti, le lucine
degli aerei che si spostano nel cielo nero come costellazioni. E poi
le barriere crivellate di luci nel buio delle prime città che appaiono all’improvviso di fronte ai vostri occhi da cui una mano ha appena tolto in silenzio la benda, se era una benda, alte, turrite, mentre state già attraversando le loro periferie che crescono a macchia
d’olio collegandosi le une alle altre in un’unica, sterminata colonia
di luci che ricopre il mondo, tanto che non si può dire se si tratta di
una città formata da molte città o di molte città che si serrano fino
a formare una sola città che si espande a perdita d’occhio. E intanto crescono ai lati le folle dei morti che fanno ala al vostro passaggio e cresce sempre di più anche quel clangore di bocche che si spalancano e ridono nello spazio infinitamente buio.
Le città dei morti sono davanti a voi. State già entrando nelle loro
strade irte di grattacieli vertiginosi in penombra. Siete già scesi da
quella macchina buia gremita di spalle soffici. State già salendo con
la valigia e lo zaino verso uno dei piani più alti di un grattacielo.
L’ascensore sale lentamente, sul display non appaiono i numeri dei
piani, ma devono essere molti, molti di più di quelli che si riescono anche solo a concepire da vivi, perché non smette mai di salire.
Contro la parete lo specchio è nero, o forse siete voi che, guardandovi dentro, rendete nero lo specchio.
D’un tratto l’ascensore si ferma, la porta si apre.
«Sei qui, finalmente!» vi sta dicendo con esultanza una voce.
Voi alzate gli occhi.
C’è una ragazza in abito da sposa che vi aspetta al piano.
Ha un nastro bianco attorno alla fronte, una nuvola di capelli.
«E tu chi sei?» provate a dire, con emozione. «Sei la cameriera
al piano?»
La ragazza non risponde. Vi guarda con gli occhi socchiusi, vi
sorride.
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Poi si gira su se stessa, comincia a camminare in silenzio davanti a voi, lungo il corridoio, ma lentamente, così lentamente che si
può vedere la scia del suo corpo che prima si avvolge su se stesso
e poi si dispiega di fronte ai vostri occhi come uno strascico.
Si ferma davanti a una delle porte. Gira leggermente la testa
sormontata dalla nuvola di capelli, per accertarsi che siate alle sue
spalle. Vi fa vedere come si apre la porta, infilando e sfilando una
tessera magnetizzata da una fessura, con le sue mani dalle nocche
leggermente in rilievo sotto la morbida pelle, le unghie trasparenti e tagliate corte.
Entrate nella vostra stanza, lasciate cadere sul pavimento la valigia e lo zaino, vi guardate attorno.
Quando vi girate di nuovo verso la porta rimasta aperta alle vostre spalle, la cameriera in abito da sposa non c’è più. Si sente solo
il rumore elastico dei suoi passi che si stanno allontanando lungo
il corridoio.
Ma a notte fonda – se nel regno dei morti ci fossero il giorno e
la notte –, mentre state coricati nel vostro letto, nell’assoluto silenzio del sonno che dormono i morti, vi sveglia un fragore assordante mai sentito prima.
Vi gettate fuori dal letto, correte verso la finestra, cercate di aprirla. Tirate i tendoni, continuate a spingere e a forzare il meccanismo
di apertura della finestra, ma nelle città dei morti le finestre non
si aprono come in quelle dei vivi. Finalmente la finestra si apre, la
fate scorrere sulle sue guide, mentre da fuori continuano ad arrivare sempre più forti quei suoni cadenzati e assordanti.
Sporgete la testa all’esterno. Tutt’intorno ci sono gli altissimi
grattacieli dei morti. Molti segmenti di finestre sono illuminati qua
e là ai piani più alti, ma le strade in basso, là in fondo, sono buie,
non c’è l’illuminazione, nessuno che stia rincasando in piena notte da solo, sprofondato nei suoi pensieri, con le mani in tasca, la
testa in tumulto, nessuna coppia che ritorni a casa avvinghiata, i
marciapiedi sono un po’ dissestati, anche le pareti dei grattacieli,
a vederle così da vicino, sono in rovina. Ci sono tutt’intorno molte
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altre teste che sporgono dalle finestre, spenzolate sugli spazi vertiginosi. E piangono, piangono. Era quello il fragore che avevate
sentito da dentro, anche se le finestre della vostra stanza erano sigillate, anche se eravate sprofondati nell’inconcepibile sonno dei
morti. Arrivano da tutte le parti quei lamenti altissimi, quei pianti cadenzati e assordanti, quelle grida.
«Ma perché piangete?» provate a chiedere, anche voi gridando,
con la testa spenzolata su quei precipizi. «Ci avete accolti ridendo
mentre entravamo a carovane nelle città dei morti, ridevate fino
a slogarvi le mascelle, per esprimere nell’unico modo possibile la
cosa impensabile che i vivi hanno sotto gli occhi ma che non vedono e che i morti capiscono in un istante morendo: che non si vive,
che non si muore. Si sentivano da tutte le parti i clangori delle vostre risate che salivano fino al cielo. E adesso invece piangete, tutta la notte è piena dei vostri lamenti e delle vostre grida. Ma perché piangete?»
«Perché è tutto spaccato in due» vi risponde qualcuno dei morti
da uno dei grattacieli vicini. «Perché anche la vita e la morte sono
spaccate in due. Perché la morte non esiste, però noi siamo morti.»
«E perché è tutto così in rovina: i grattacieli, le strade?» provate a chiedere ancora, con la testa e il busto fuori dalla finestra del
vostro grattacielo, gridando. «A guardarle da lontano, le città dei
morti sono un unico bagliore di luci, ma da vicino sembrano abbandonate, le strade sono buie, i marciapiedi sono rotti, sfondati,
sembra che ci sia appena stato il terremoto.»
«Sì, è così» vi risponde una voce diversa da un’altra finestra dello stesso grattacielo, molti piani più in basso. «Le nostre città sono
sottoposte a continue scosse di terremoto.»
«Ma perché, dopo, nessuno le aggiusta?» domandate ancora, gridando. «Perché vengono lasciate andare in rovina così?»
«Perché non c’è il tempo!» vi risponde un altro ancora che stava
piangendo a uno dei piani più alti di un grattacielo vicino. «Perché il tempo non esiste, però esistono le cose o le parvenze delle
cose nel tempo. Perché la distruzione non esiste, ma esiste ciò che
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viene distrutto. Perché le città dei morti non muoiono, però sono
morte. Perché se noi le aggiustassimo diventerebbero le città dei
vivi. Perché ci sono sempre nuovi morti che fondano sempre nuove
città di morti.»
«Ma perché c’è il terremoto, qui nel regno dei morti?» vi viene
in mente di domandare ancora, con la testa fuori, gridando. «Da
dove vengono queste scosse, se qui è tutto morto? Da dove viene
questa forza che continua a tormentare la morte?»
Nessuno risponde. Si sentono solo, per un po’, quegli urli disperati e quei lamenti e quei pianti che riempiono da tutte le parti il
cielo buio dei morti nelle sterminate città dei morti.
Poi una voce comincia a parlare dalla finestra di un’altra torre:
«Perché è tutto spaccato in due. Perché il numero dei morti
aumenta sempre di più, però aumenta anche quello dei vivi. Perché non c’è mai stato un numero così grande di vivi nel mondo,
attraverso tutto l’arco della vita umana su questo pianeta. Perché
la specie è esplosa. Perché il suo tempo e il suo spazio non ci sono
più, non ci sono mai stati, sono esplosi. Perché queste due enormi faglie dei vivi e dei morti si stanno fronteggiando, perché si cominciano già a sentire gli scuotimenti e i sussulti di questo movimento sismico di vita e morte che precipitano l’una contro l’altra
andando a occupare lo spazio unico che c’è dietro e dentro la vita
e dietro e dentro la morte».
«E dov’ero io poco fa mentre stavo dormendo, prima di venire svegliato dai vostri lamenti e dai vostri pianti? Com’è possibile che i morti dormano? Che differenza c’è tra il sonno e la morte,
quando si è morti? Che cos’è il sonno dei morti?»
Sale un fragore ancora più forte, da quel numero enorme di teste e di bocche di morti che spuntano dalle distese dei grattacieli
illuminati e sfasciati, prima che un’altra voce, da qualche altra parte, in mezzo a tutte quelle grida e a quei singhiozzi e a quei pianti, riesca a rispondervi, di qualcuno o qualcuna che si porta tutte e
due le mani alla testa, così almeno vi pare di scorgere in quell’oscurità crivellata di urla e di luci morte.
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«Non si riesce neanche a dire, perché tutto è spaccato in due! Tutto, tutto è spaccato in due! Anche il sonno e la veglia sono spaccati in due. Anche la vita e il sonno sono spaccati in due. Anche la
morte e il sonno sono spaccati in due. Si è creato uno spazio vuoto,
uno scarto, tra la vita e la morte, tra la vita e il sonno, tra la morte e il sonno, per questo spostamento tellurico di vita e morte che
si stanno fronteggiando e affrontando al termine della loro vita e
della loro morte, e che sta tormentando e scuotendo le nostre città
dei morti come quelle dei vivi. I vivi non sanno dove vanno mentre stanno dormendo da vivi. Noi non sappiamo dove andiamo
mentre stiamo dormendo da morti. Tutto, tutto, tutto è spaccato in
due! La morte non è un approdo.»
«E allora i sogni? Io prima, mentre dormivo, prima di venire svegliato dai vostri pianti, sognavo. Forse sto sognando anche adesso. Forse sto sognando che sono affacciato a questa finestra mentre voi gridate e vi disperate e piangete da tutti questi grattacieli
morti illuminati nel buio. Ma com’è possibile che i morti sognino?
Che cosa sono, che cosa possono essere i sogni dei morti dentro il
sonno dei morti?»
«Non solo la morte e il sonno, anche i sogni e il sonno sono spaccati in due. I sogni dei morti non sono più dentro il sonno dei morti. I sogni dei vivi non sono più dentro il sonno dei vivi. Noi, morti e vivi, ci stiamo fronteggiando ma non sappiamo dove stanno
avvenendo le prime avvisaglie di questo inimmaginabile scontro,
non sappiamo neppure dove siamo, se siamo. Se siamo spaccati in
due dentro la vita e dentro la morte o se stiamo facendo irruzione
gli uni dentro i sogni degli altri.»
Altre grida, altri pianti, altre voci che si levano dal finimondo
di voci per rispondere alla vostra testa spenzolata nel vuoto e alla
vostra voce che grida.
«Perché gridi?» vi domanda d’un tratto un’altra voce più in alto,
più lontana. «Qui non c’è bisogno di gridare per essere sentiti. Qui
ci si sente anche se non si parla. Qui il suono e il silenzio sono la
stessa cosa.»
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«E allora perché sento da tutte le parti questi vostri urli e questi
pianti?»
«Noi urliamo e piangiamo perché non si può più urlare e piangere.»
«E gli specchi dei morti?» domandate ancora, sporgendovi di più
dalla vostra torre, sullo strapiombo crivellato di luci morte. «Perché
ci sono degli specchi nel regno dei morti? Come possono i morti
guardarsi allo specchio? Che cosa vedono i morti quando si guardano dentro gli specchi? Io, mentre salivo verso il mio piano, ho
provato a guardarmi dentro lo specchio che c’era contro una parete dell’ascensore, ma era tutto nero, non si vedeva niente. Perché?
Lo specchio era nero perché era lo specchio dei morti o ero io che
lo rendevo nero guardandomi dentro?»
«Anche specchi e cose specchiate sono spaccati in due. Perché
anche la riflessione e la luce sono spaccate in due. Perché i morti
e gli specchi sono spaccati in due. Perché anche i vivi e gli specchi
sono spaccati in due. Perché i morti e i vivi si sono scambiati gli
specchi. Perché non solo i morti e i vivi ma anche i loro specchi si
stanno fronteggiando. Perché i vivi si stanno guardando dentro gli
specchi dei morti e i morti dentro quelli dei vivi. Perché gli specchi
divorano i vivi. Perché noi divoriamo gli specchi.»
«Ma allora come si fa a raccontare i vivi? Come si fa a raccontare i morti? Perché, se il tempo non c’è, non c’è più, non c’è mai stato, allora non c’è neanche il tempo del racconto dei vivi e non c’è
il tempo del racconto dei morti. Come si fa a raccontare i vivi da
vivi, se si è divorati dagli specchi? Come si fa a raccontare i morti
da morti, se noi divoriamo gli specchi?»
«Anche il tempo del racconto e il racconto sono spaccati in due»
sta rispondendo una voce, dall’alto di un altro strapiombo. «Il racconto non ha più il tempo. Il tempo non ha più il racconto. Ma quello che non si può più raccontare è l’unica cosa che si potrà raccontare, che tu potrai raccontare. Ci sono schiere di scrittori vivi nelle
città dei vivi, che combattono gli uni contro gli altri come se fossero vivi. Si sbranano per contendersi un tempo che non c’è più, un
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racconto dentro un tempo che non c’è più, che non c’è mai stato,
che non ci sarà. Combattono per restare vivi, per diventare morti.
Si gettano con i loro volti morti e con le loro frenetiche codine morte lungo il canale uterino della vita morta, e ognuno di loro vorrebbe essere il primo a sfondare l’ovulo della vita che sta dentro la
morte. C’è un’enorme placenta ormai sul punto di scoppiare che
contiene tutti gli scrittori di questa epoca finale della cosiddetta
vita umana e del mondo. Se ne stanno là, addormentati e atterriti, con le loro manine che stringono anche nel sonno le loro piccole narrazioni dislocate dentro un tempo che non c’è più, con i loro
occhietti sbarrati anche nel sonno, schiere di corpicini allineati nel
buio come negli universi larvali sotterranei degli insetti. Non sanno che non sono neppure gli ultimi scrittori della loro specie, che
non saranno i primi di un’altra specie.»
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La donna che fotografa i morti
Ma adesso, per potervi raccontare la morte, devo trovare il modo
di raccontare come se le cose succedessero a me, solo a me, anche se ogni cosa è spaccata in due, anche se i confini dell’io non ci
sono più, non ci sono mai stati, devo trovare il modo e devo trovare il tempo, anche se il tempo non c’è, non c’è più, non c’è mai
stato, è allagato.
Allora diciamo che, per prima cosa, si viene fotografati.
C’è una grande fila di morti che si allunga sempre più. Ognuno
ha in mano il tagliando con il suo numero, come quando, da vivi,
si fa la fila in un ambulatorio delle analisi oppure alle casse del supermercato. Ecco, proviamo a dire così, per riuscire a dare un’idea
di ciò che succede...
C’è un buio assoluto, non ci si vede in faccia, come se fossimo
tutti indistinguibili dentro una gelatina nera non ancora folgorata da un lampo di luce, o dentro l’oceano buio di una memoria
non ancora attivata da un fotosensore tormentato da una parvenza contrapposta di mondo. È tutto nero, non si vede niente, ma
dal fondo del corridoio, dove c’è la stanza in cui vengono eseguite
le fotografie, viene di tanto in tanto un improvviso bagliore bianco, accecante, a ogni scatto, segno che il lampo di luce che si sprigiona là dentro è così forte da attraversare come un velo pareti,
pavimento e soffitto.
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Aspettiamo così, nell’oscurità più profonda, illuminata di tanto in tanto da quel lontano uovo di luce che si accende e si spegne.
La fila dei morti avanza lentissimamente nel buio, tutti ancora senza volto, indistinguibili, agglutinati, non ancora fotografati.
Compie un piccolo spostamento in avanti ogni volta che il primo
della fila varca la soglia di quella stanza che si illumina di tanto
in tanto in fondo al corridoio, prima di uscire focalizzato dall’altra parte, chissà da quale altra parte, con il suo corpo fotografato e
abbagliato, con il suo volto affiorato.
“Che fila lunga! E come va piano!” mi dico. “Chissà come mai va
così piano? Che ci sia un solo fotografo per tutti i morti?”
Però ogni tanto ci spostiamo lentamente in avanti, sento dietro
di me tutta quella massa di morti allineati nel buio che preme per
andare verso la luce. Il bagliore si spegne, tutto il mondo ripiomba
nell’oscurità più profonda. Si riaccende di nuovo. Si avvicina sempre di più, a poco a poco, man mano che avanzo anch’io al buio in
quella colla di morti. Non filtra dalla fessura sotto la porta, dalle linee degli stipiti, dalle sconnessioni delle pareti o dagli interstizi, è
come se la luce che si sprigiona all’interno fosse così forte da cancellare per un istante ogni cosa che non sia la luce.
La fila si assottiglia davanti a me, si allunga di più alle mie spalle, per quelle sempre nuove carovane di morti che arrivano senza
interruzione nelle città dei morti. Anche l’intervallo tra i bagliori si
allunga sempre di più, non si sa mai ogni volta se ce ne sarà ancora un altro, se questo corridoio pieno di morti verrà di nuovo abbagliato dall’improvviso lampo di luce o se rimarrà d’ora in poi
nell’oscurità più profonda, per sempre. Invece, dopo un po’, dopo
molto tempo, se si potesse parlare ancora di tempo, un nuovo bagliore evidenzia per un istante tutto questo finimondo di morti accalcati al buio che premono per andare verso la configurazione.
Ecco, ne è entrato un altro, poi ancora un altro.
Adesso non c’è più nessuno davanti a me.
Sono solo davanti alla soglia.
Sono il primo.
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Non si vede niente, non si sente niente. Non un suono proveniente dall’interno, come succede quando si aspetta il proprio turno seduti sulle panche di quegli spogliatoi che ci sono fuori dagli
ambulatori dei vivi, dove si rimane in maglietta e mutande in attesa di venire chiamati, e si sentono provenire dall’interno i rumori che fanno quei macchinari che scandagliano l’interno dei corpi
con i raggi di luce, con gli ultrasuoni, delle lastre infilate e sfilate
dalle loro viscere, dei carrelli scorrevoli che spingono i corpi dentro tunnel di luce o di suoni.
Poi la porta si apre davanti a me, all’improvviso.
Ma non si vede chi l’ha aperta, non si vede niente. Si capisce solo
che una porta si è aperta.
Faccio qualche passo in avanti.
Entro.
C’è un po’ di luce all’interno. Quanto basta per vedere una persona in piedi in fondo alla stanza. È una donna giovane, una ragazza. Mi guarda venire avanti tenendo gli occhi socchiusi, e non
ci sono luci sul soffitto oppure sulle pareti, sembra che la luce provenga direttamente da lei, dal suo corpo e dal suo vestito.
«Ma tu sei la stessa che mi ha accolto all’arrivo davanti all’ascensore, con quell’abito da sposa!» provo a dire.
Lei mi guarda senza parlare, la sua bella bocca si allunga in un
silenzioso sorriso.
«Sei tu che fotografi i morti?»
Mi fa cenno di sì, con la sua bella testa sormontata da una nuvola di capelli, un po’ reclinata all’indietro, per potermi vedere attraverso la fessura degli occhi socchiusi e tra le sue lunghe ciglia.
Io la guardo, la guardo.
«Come sei bella!»
Lei fa un passo verso di me, che sono ancora fermo di fronte al
bagliore del suo corpo, impalato.
«Ma io ti ho già incontrata, una notte, quando ero tra i vivi!» mi
viene in mente all’improvviso.
La ragazza, ferma davanti a me, continua a guardarmi con gli
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occhi socchiusi, il suo volto trema un po’ mentre mi sorride, la sua
bella bocca dagli angoli sempre più allungati, il suo mento sollevato e ricoperto di morbida carne, il suo collo bianco.
«E anche allora facevi la fotografa! Fotografavi i morti, mi hai
detto, perché non c’era nessun altro che aveva il coraggio di fotografare i morti. Proprio i morti, non i vivi da morti! Hai fotografato
tu tutti gli scrittori e i poeti morti nel corso del tempo. Avevi voluto fotografare anche me. E io mi ero stupito, e ti avevo detto: “Ma
io non sono morto!”. E tu mi avevi guardato senza rispondermi,
mi avevi sorriso. Perché mi avevi fotografato? Perché ero già morto? E perché, se mi hai già fotografato, adesso mi fotografi ancora?
È perché ogni cosa è spaccata in due? È perché la morte viene prima? È perché il prima è dopo? È perché il dopo è prima? È perché
ogni cosa succede prima che sia successa? È perché si possono ricordare solo le cose che non sono ancora avvenute?»
Mi guarda senza dire niente, mi sorride in silenzio.
«E poi avevi chiesto a me di fotografare anche te, e poi mi avevi detto che non ti avevo ancora riconosciuta, che non avevo ancora capito chi eri. E poi mi avevi detto che alla fine ci saremmo incontrati, io e te, in un finimondo di luce, nella catastrofe della luce.
Che saremmo stati una cosa sola, una supernova di luce... Ma adesso quello che era là è già qui, noi ci siamo finalmente incontrati.»
Fa un altro passo verso di me, col suo leggero vestito da sposa
che emana luce.
La guardo, continuo a guardarla, non si può fare altro che continuare a guardarla.
«Che bel vestito!»
«È di organza!» mi dice.
Non riesco più a parlare, per un po’.
«Ma tu sei la Pesca!» mi rendo conto improvvisamente.
Guardo, in quella luce che emana dal suo vestito, le ossa morbide della sua testa, la nuvola dei suoi capelli, le palpebre socchiuse
per mascherare lo strabismo.
«Allora eri tu quella ragazza che fotografava i morti, e poi quel31
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la che mi ha accolto in abito da sposa all’arrivo, quando l’ascensore si è fermato al piano e la porta si è aperta! Ma perché non mi
dici ogni volta chi sei?»
«Perché non lo so neanch’io. Perché non so neanch’io ogni volta chi sono.»
Fa un altro passo verso di me, in quella piccola stanza rischiarata dalla sua luce.
«E, prima ancora, quella ragazza che si cotonava i capelli di fronte al piccolo specchio appeso ai chiodini che c’erano qua e là sui
muri delle scuderie e della legnaia e della casa dei fagiani, e che
dovevi inclinare sempre più man mano che la capigliatura elettrizzata saliva più in alto dentro lo spazio, e che inclinava a sua volta
il mondo, il cortile di ghiaia, i viali, quella villa che c’era a Ducale
al tempo degli Esordi, dove quella mattina prima ancora dell’alba sono arrivato con la mia veste nera, sulla motocicletta del Nervo, e tu mi sei venuta incontro in mezzo al cortile e mi hai chiesto:
“Non mi riconosci più?”. Perché me lo hai chiesto? Dove ti avevo
già vista? E poi mi hai detto per la prima e unica volta chi eri e hai
dato inizio al mondo...»
Fa un altro passo in avanti. Anch’io faccio un altro passo in avanti.
«E poi quando ci siamo incontrati di nuovo in quella casa cantoniera abbandonata dove abbiamo ballato in mezzo a tutti quegli
altri invitati morti, e io ti tenevo abbracciata e ti guardavo, e anche
tu mi guardavi con i tuoi occhi che non si sapeva mai dove stavano guardando davvero, quale mondo stavano vedendo in quello
stesso momento, perché non si sa dove siamo, e d’un tratto ti sei
sollevata i capelli con una mano e mi hai detto: “Guarda, ho ancora le prime orecchie!”. E quando ruotavo con la bicicletta attorno
ai viali e al muro di cinta del parco illuminati dalla massa in fiamme. E, prima ancora, quando passavi con la zampa di gatto che ti
pendeva dal collo sotto la ghiacciaia merlata dove stavo seduto,
nascosto dalle foglie degli ippocastani crivellate dai proiettili dello
Ziò, con il pene appena circonciso e ancora bendato. Mi cambiavo
la fasciatura nella mia stanza dalla finestra che dava sul viale che
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portava alla grotta, staccavo gli ultimi giri di garza rimasta attaccata tramite il sangue secco alla carne del prepuzio reciso, facendoci
cadere sopra qualche goccia d’acqua tiepida che prendevo da un
pentolino. E un giorno, mentre mi stavo cambiando la fasciatura,
ho visto la maniglia della porta muoversi, come se ci fosse dietro
qualcuno che avesse pensato per un istante di entrare e poi avesse
rinunciato. Non ho mai saputo chi era...»
Lei è di fronte a me, mi sorride.
«Ero io, e non ho rinunciato» mi interrompe, guardandomi da
vicino con i suoi occhi socchiusi. «Ho aperto la porta. Sono entrata. Tu hai alzato la testa verso di me. Avevi ancora tra le dita un
ultimo lembo di garza insanguinata che faceva fatica a staccarsi.
Ho preso con una mano il tuo pene un po’ tumefatto e inturgidito
dalla fasciatura da cui lo avevi appena liberato, con l’altra l’ultimo
lembo ancora attaccato, mentre il resto della garza era già tutto srotolato e sembrava fosforescente sul pavimento in penombra della
tua stanza. Ci ho fatto cadere sopra qualche goccia d’acqua presa
dal pentolino, per inumidire e sciogliere il sangue secco che faceva da collante, anche qualche goccia della mia saliva, chinandomi
sopra di te con la testa, e allora la garza si è staccata all’istante...»
«Ma non c’è tutto questo negli Esordi! Non viene raccontato!»
«Tante cose non ci sono.»
«Ma perché io non me le ricordo?»
«Perché il ricordo è già tutto dentro la morte. Perché le cose succedono prima, sempre prima che siano successe. Perché succedano devono succedere prima.»
Siamo ancora più vicini, avverto già contro il volto il suo respiro tiepido e dolce di bella ragazza morta.
«E poi quel giorno...» sento la sua bocca sussurrare vicino a me,
adesso che ci siamo avvicinati ancora di più «quel pomeriggio che
la villa era vuota, perché erano andati tutti via assieme a Turchina e al suo sposo, a fare delle visite prima delle nozze, e anche Lenìn e i miei fratelli e la Dirce erano andati alla piccola stazione che
c’era vicino al fiume per ritirare una spedizione di colombi viag33
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giatori arrivati col treno da molto lontano, nelle ceste, prima ancora che tu passassi quella notte insieme a me e ai miei fratelli, nel
lettone della mia casa dove ti avevo guidato dall’alto della scaletta, con la torcia... Eravamo rimasti solo io e te, nella villa, nel parco. Tutto quello spazio era nostro. Il cortile, i viali, la grotta, la
montagnola con la vasca e quel ponticello di metallo che ci passava sopra e che risonava, le scuderie, la scaletta di ferro dentro quel
cunicolo, dai gradini che uscivano dalla calce, dove si poteva salire uno dietro l’altro, uno con la testa contro il corpo dell’altro,
quasi dentro il corpo dell’altro, la legnaia, la colombaia, la mia casa
con i pavimenti di cemento lucidi per la cera e le pareti che sembravano modellate a colpi di pollice, la cucina, la scaletta che portava al primo piano, alla camera di Lenìn e della Dirce e poi a quella con il lettone e con il soffitto sfondato da cui di notte si vedevano
le costellazioni che cambiavano posto nel cielo, il primo piano della villa, la serra con quel lucernario dai vetri di diversi colori, le
altre stanze, e poi la scala che saliva, la tua stanza, la vasca piena
di pesci, che la Dea ammazzava sbattendoli forte contro il pavimento, le altre stanze, la stanza di Turchina con l’abito da sposa
ancora imbastito disteso sul letto e i gessetti della sarta e gli spilli. Tutto il mondo era nostro. Ero uscita dalla mia casa con lo specchio, lo avevo appeso a un chiodino che c’era nella parte in muratura della casetta dei fagiani, avevo cominciato a cotonarmi i capelli
guardandomi là dentro, e inclinando a poco a poco lo specchio per
riuscire a vederci dentro tutta quella enorme matassa spezzata resa
elettrica dal pettine che si sollevava sempre più nello spazio e che
crepitava e mandava scintille. Tu stavi girando a piedi per il parco, giravi attorno a me, ma da lontano, con la tua veste nera e la
tua fasciatura fosforescente, come quella notte in cui credevi di girare intorno alla massa in fiamme e invece giravi intorno a me, con
la tua bicicletta dal freno senza gommini che faceva scintille quando si serrava attorno al cerchione. Venivi dalla parte della montagnola e passavi dietro di me, che stavo in punta di piedi e tenevo
le braccia sollevate per riuscire ad arrivare con le mani fino alla
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cima della mia capigliatura elettrizzata. Mi guardavi senza fermarti, passavi vicino alla voliera, giravi ad angolo retto per attraversare il cortile e imboccare il viale che passava davanti alle altre gabbie dei fagiani e poi dietro la massa e poi a fianco della
ghiacciaia merlata, e io sentivo solo il rumore dei tuoi passi che
facevano scricchiolare la ghiaia sotto le scarpe. Ritornavi indietro,
venendo dalla parte della grotta, tornavi a passare dietro di me,
guardavi il mio corpo girato di schiena, sulla punta dei piedi e con
tutte e due le braccia sollevate, vedevo dentro lo specchio sempre
più inclinato che mi guardavi, e anch’io ti guardavo mentre passavi alle mie spalle, dentro lo specchio. Ti sei allontanato di nuovo,
sei ritornato ancora, ma questa volta mi sei venuto più vicino, da
dietro, mi hai guardato di nuovo, più a lungo, nello specchio, e
anch’io ti ho guardato a lungo, i nostri sguardi si sono incrociati
dentro il mio specchio che spostava l’asse del parco e del mondo.
Ho finito di pettinarmi, ho toccato un’ultima volta con le mani allungate al massimo nello spazio il culmine della mia capigliatura
elettrizzata. Poi mi sono girata e ho cominciato a camminare verso la villa vuota, ma ho lasciato contro il muro lo specchio tutto
inclinato che inclinava il mondo. Tu non c’eri più, non so dov’eri,
non ti vedevo. Ho continuato a camminare verso la serra, con le
mie scarpe basse, scollate, che si aprivano a ogni passo e che facevano scricchiolare la ghiaia del cortile resa fosforescente dalla luce.
Sono arrivata davanti alla porta, l’ho aperta, e si è sentito il rumore dei vetri che vibravano nelle loro intelaiature dallo stucco secco e spaccato. Forse hai sentito anche tu quella vibrazione, da qualche punto del parco e del mondo dove in quel momento ti trovavi.
Mi sono guardata attorno nella serra, ho guardato le sdraie, il fagiano dorato, l’airone cinerino e il tucano imbalsamati dentro la
loro teca. Ho imboccato la scala che portava al primo piano, sono
arrivata in cima e mi sono fermata di fronte alla porta della tua
stanza, l’ho aperta, sono entrata. Il letto di ferro era già stato fatto, sul comodino c’era un libro di preghiere aperto. Sono passata
dalla tua stanza a quella dello Ziò, col suo alto letto e il catino e le
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brocche per le abluzioni del mattino. Mi sono affacciata a una delle due finestre, che dava sul cortile, come faceva certe volte Turchina quando si mostrava dall’alto in abito da sposa. Non so se mi
hai vista, da qualche punto del parco e del mondo dove ti trovavi. Sono passata nella camera da pranzo, nella cucina del primo
piano, e poi davanti al gabinetto con la porta aperta, e si sentiva
il rumore delle bocche dei pesci che pullulavano a filo con l’acqua
della vasca, il rumore di quelle bolle d’aria che affioravano in superficie e poi scoppiavano. Tutta la villa era vuota, le porte tra una
stanza e l’altra erano state lasciate aperte, c’era un enorme silenzio. Sono entrata nella camera da letto di Turchina. Il suo abito da
sposa ancora in prova era disteso sul grande letto dove certe notti dormiva abbracciata alla sarta perché non la abbandonasse durante il sonno. L’ho guardato a lungo, nella stanza deserta, nella
villa deserta. Mi sono chinata per guardarlo più da più vicino ancora, ho avvicinato gli occhi, la testa, con la mia grande capigliatura soffice che si inclinava e che faceva inclinare ancora di più il
mio corpo. L’ho toccato, l’ho sfiorato passandoci sopra il palmo
per sentire la consistenza del tessuto sotto le dita. Ho provato a
sollevarlo dal letto, per sentire il suo peso. Non c’era nessuno nella villa, non veniva un suono, una voce, nessun rumore delle macchine che arrivavano attraverso l’altro cortile e poi passavano una
dopo l’altra sotto la volta sormontata dallo stemma, con quel rimbombo, e che poi facevano scricchiolare la ghiaia. Più nessuno, più
niente. Solo io, nella villa deserta, e tu, nel parco deserto, nel mondo. Mi sono tolta le scarpe, mi sono sfilata il vestito leggero e senza maniche che portavo quel giorno, mi sono tolta anche la biancheria appena messa prima di uscire dalla mia casa, bianca, pulita.
Ho preso il vestito dal letto, con due dita di ogni mano, con precauzione, perché non si allentassero le imbastiture, ho cominciato
ad arrotolarlo e ad allargarlo dal fondo, per poterlo indossare. Stavo ancora così, in piedi, nuda, coi piedi nudi, e cercavo di far passare la mia enorme capigliatura nel varco dell’abito da sposa, lo
stesso con il quale ti ho accolto al piano di quell’albergo dopo che
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sei arrivato con una nuova ondata di morti, quando, da un rumore leggero dietro di me, ho capito che tu eri ormai all’interno della villa, che eri già al primo piano, che eri già nel vano della porta, alle mie spalle, che i tuoi occhi mi stavano già vedendo. Forse
avevi sentito il rumore della porta della serra che vibrava sui suoi
cardini, forse mi avevi vista affacciata alla finestra della camera
dello Ziò, o forse eri lì perché eravamo soli, io e te, in tutto il mondo, e tu avevi guardato me dentro il mio specchio, tutti e due ci
eravamo guardati dentro lo stesso specchio. Mi sono girata, con
le braccia ancora sollevate e il vestito ancora ripiegato sopra la testa. Ero nuda di fronte a te, col mio corpo di ragazza appena lavato, i piedi nudi sulle mattonelle del pavimento, e tu mi vedevi così,
davanti ai tuoi occhi, in quella villa deserta, in quella stanza dove
non ero mai stata, in quel pomeriggio in cui eravamo rimasti completamente soli, in quella luce che metteva a nudo tutto il fascio
del mio corpo che respirava, non come quando la Dirce mi lavava insieme ai miei fratelli in mezzo al cortile, con la canna, e i nostri corpi quasi non si vedevano tanto il sole era alto e tanto la
ghiaia che riverberava la luce cancellava ogni cosa. E allora ho lasciato cadere a terra il vestito da sposa e un istante dopo mi è venuta irresistibilmente alle labbra una cosa e ti ho detto... Non ti ricordi neppure questo? Perché non hai raccontato neppure questo?»
«Sì, io ero fermo di fronte a te, anch’io in piedi, abbagliato. Anche
tu eri in piedi, ferma, con gli occhi socchiusi, le braccia e le mani
lungo la linea calda dei fianchi. Il tuo corpo si muoveva appena un
po’ a ogni respiro, ma dall’interno, da dentro. E allora hai abbassato ancora di più gli occhi, li hai chiusi del tutto per un istante e
mi hai chiesto semplicemente, a bassa voce, così a bassa voce che
si è sentito il rumore delle tue belle labbra che si staccavano l’una
dall’altra, in un soffio: “Ti piaccio?”.»
Intorno a noi la stanza c’è ancora. Dal suo vestito di organza continua a venire quel bagliore.
Lei mi guarda.
«Chissà perché non ho raccontato tutto questo...» mi sale alle lab37
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bra. «Chissà perché devo riviverlo solo adesso che tu me lo racconti mentre siamo morti...»
Faccio un altro passo verso di lei. Adesso siamo ancora più vicini,
perché da morti si può essere infinitamente vicini e poi ancora più
vicini, e non si sente niente, non vengono suoni da nessuna parte
dello spazio, del tempo, neppure da quel corridoio che c’è fuori e
dove si sta accalcando al buio quella ressa di morti.
«Ma li fotografi tutti tu, i morti?» le chiedo.
Mi sorride ancora di più, con la bocca, con gli occhi.
«Perché, sei geloso?»
«Ma poi con che cosa li fotografi? Quando ci eravamo incontrati l’ultima volta avevi quella vecchia macchina fotografica su treppiede, quel bulbo di gomma che si premeva e scatenava il lampo
al magnesio del flash... Qui invece non vedo apparecchi fotografici, non c’è niente!»
«Ci sono io.»
La guardo. Anche lei mi guarda, sorridendo con gli occhi socchiusi, le palpebre e le lunghe ciglia abbassate.
«Ecco, adesso sei tu che devi spogliarti davanti a me» mi dice,
mentre le sue labbra si allungano ancora di più sui suoi denti umidi di saliva lucente.
«Perché? È così che vengono fotografati i morti?»
«Sì.»
Rimango per un istante immobile di fronte a lei.
«Che cosa c’è? Ti vergogni a mostrarti nudo perché sei morto?»
mi chiede con dolcezza.
Non so risponderle.
«Sono nella morte anch’io, eppure, lo vedi, non mi vergogno a
rimanere nuda di fronte a te» mi sussurra.
Si toglie le scarpe, chinandosi appena un po’ sotto la linea dei miei
occhi. Con le dita di tutte e due le mani prende il bordo del suo vestito d’organza, se lo sfila dal basso, lo fa passare attraverso la nuvola dei capelli e poi rimane completamente nuda di fronte a me.
È ancora più evidente dell’altra volta, più bella.
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Mi tolgo i vestiti, li lascio cadere a terra. Rimango anch’io nudo
di fronte a lei.
Si avvicina ancora di più a me e, mentre si avvicina ancora di
più anche se eravamo già infinitamente vicini, allarga tutte e due
le braccia nell’aria, o in quella cosa che c’è ancora più all’interno
dell’aria oppure al posto dell’aria, e allora anch’io allargo le braccia,
i nostri corpi si toccano, si stampano l’uno contro l’altro, e io sento
contro il mio corpo tutto il suo corpo di meravigliosa ragazza morta, le sue belle spalle, la consistenza delle sue tette compresse tra i
nostri due corpi che si sono posti l’uno contro l’altro alla fine del
mondo e dello spazio e del tempo, le sue anche ricoperte di morbida carne, le nostre radici sessuali, le gambe, anche le palme delle nostre mani si toccano, le nostre dita si intrecciano a una a una,
si stringono come non possono neppure immaginare di stringersi
quelle dei vivi, di quelli che credono di essere vivi.
Nello stesso istante un enorme, accecante bagliore riempie la stanza e, mentre non sono più lì, mentre vengo sbalzato chissà dove o
sono già chissà dove, mi sorprendo a pensare o a fantasticare, se si
può fantasticare anche quando si è morti, se quello che si fantastica da morti è ciò che avviene prima ancora del ricordo dei vivi che
è già tutto dentro la morte: “Ecco, è così che si viene fotografati da
morti! È così che si entra nella catastrofe della luce! Ed era quello
il bagliore che si vedeva ogni tanto, da fuori, da quel corridoio immerso nell’oscurità più profonda dove la massa indistinguibile e
nera dei morti faceva la fila per venire fotografata e configurata!”.
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Il continente dei morti
Poco prima di morire fantasticavo di scrivere un ultimo libro sulla
morte. Ma non tanto un libro, non solo un libro. Un’opera che affiorasse attraverso un’enorme espansione romanzesca, un magnete. Avevo in mente qualcosa che entrasse dentro, profondamente,
completamente, in modo proporzionale, con abbandono totale, nel
continente della morte. Intitolata Le morti, al plurale, come la prima
delle tre parti era intitolata Gli esordi, al plurale, e la seconda Canti
del caos, al plurale. “Fra poco compirò sessantatré anni” mi dicevo. “Quanti anni mi restano? E le mie condizioni di salute? Le mie
continue, tremende emicranie, le cefalee a grappolo, le mie ischemie cerebrali, le mie perdite di memoria, i miei stati confusionali,
la disperazione? Ce la farò a scriverlo? Questa volta sembra davvero impossibile. Sono fuori tempo. Sono sempre stato fuori tempo.
Ancora così tanti anni di uso creativo pieno della mia mente, come
per i Canti del caos? Impossibile! Questa volta non ce la farò. Verrò abbandonato da me stesso prima del tempo. La rincorsa è stata
troppo lunga. Sono arrivato fuori tempo alla cruna dell’increato.
Ma era forse quello l’unico modo per arrivarci...”
Avevo in mente di far vedere tutta la vita attraverso la morte,
delle persone, delle strutture, delle istituzioni umane, tutta la storia biologica e spirituale di un pianeta morto la cui luce riflessa
arrivasse da uno spazio e da un tempo ormai al di là della vita e
al di là della morte. Avevo in mente una cosa dolce, commoven40
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te, terribile, ma anche comica, per far vedere fino a che punto tutto il mondo dei vivi sia sotto la cappa della morte, in questo termine e passaggio d’epoca, della riproducibilità della cosiddetta
materia, anche di quella in pensiero, della clonazione e della fine
del mondo degli uomini umani. La morte dei singoli e dell’intera
specie, intima, collettiva, biologica, spirituale, di una specie che
sta mettendo le mani sulla scatola nera della vita e che vedrà fra
poco quello che c’è veramente dentro, la manipolazione e la morte di specie, di uomini, animali, vegetali, pianeti, microbi... Avevo in mente una storia d’amore che attraversasse tutta la vicenda del pianeta Terra, dalla nascita dell’uomo alla sua morte e alla
morte del suo pianeta e del Sole. La morte e l’immortalità. Il mistero dell’attrazione degli esseri. Qualcosa come i grandi romanzi
del passato sugli amori travolti dal vento della storia e del tempo.
Avevo in mente un’opera che fosse in grado di far sorgere un’epoca e di renderla dicibile al cospetto della morte, personale e di specie. “D’ora in poi voglio stare solo dentro la morte con tutta la mia
vita” mi dicevo. “La mia vita dentro la morte, dentro tutta la vita,
dentro tutta la morte.”
E sarebbe stata, quest’opera, anche un bilancio della mia vita
di scrittore, della mia insanabile lacerazione, del mio intimo isolamento, della mia sempre più disperata solitudine e profondissima e insuperabile diversità e incomprensione e scarto in ciò che
è essenziale, del mio disperato misticismo e donchisciottismo, del
fallimento temporale del mio disperato sogno di adorazione e fusione nel mondo e dentro il tempo cieco del mondo. E intanto sentivo che questa cosa stava lavorando dentro di me fin nelle mie più
intime fibre, che stava divaricando e spostando tutto il piano della mia vita e le sue proiezioni.
Allora non riuscivo a vedere più in là perché ero vivo, perché mi
percepivo ancora vivo dentro la morte.
Poi, proprio mentre fantasticavo su tutto questo, sono morto.
Che cosa succede qui? Qui ci si trova e ci si perde continuamente, perché la pressione dei nuovi morti che tracimano senza interru41
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zione, a carovane, a valanghe, nelle città e nel continente dei morti travolge e disaggrega le figure che si erano percepite separate
e vive nel mondo dei vivi o che si erano incontrate di nuovo, per
un istante o per sempre, in questa assoluta assenza di tempo dei
morti. Ma, come le travolge e le scolla, così l’arrivo di una nuova
massa agglutinata di morti in esplosione demografica che chiede
spazio in questa assoluta assenza di spazio può farle incontrare di
nuovo per un istante in questo mondo che percepiamo configurato
come una sterminata città formata da una moltitudine di città fatiscenti e piene di luci morte che si espandono le une verso le altre
e si congiungono per i sempre nuovi arrivi di morti e che coprono
questo mondo buio che c’è nel cuore del mondo. O può, al contrario, allontanarle a tal punto da non farle più incontrare per sempre
nell’eternità rovesciata del continente dei morti.
“Dove sono finito adesso, che sono stato fotografato dal corpo
della Pesca?” mi chiedo. “E dove sarà finita la Pesca?”
Anche tra i vivi le persone e le forme si cercano disperatamente
attraverso le catene delle generazioni, in quello che percepiscono
come spazio e tempo nel dolore del mondo creato. Intanto anche la
loro massa in continua esplosione demografica preme sempre più
contro la massa dei morti. Io non so dove sia lo spazio, la dimensione, la faglia, in cui queste masse percepiscono la presenza tellurica ravvicinata l’una dell’altra, e neppure se ci sia, ma deve pur
esserci da qualche parte, in una zona che né i vivi né i morti riescono a concepire, una sotterranea fascia di mondo dimensionata in
cui si scaricano le onde d’urto di queste contrapposte pressioni sismiche, dato che si avvertono di tanto in tanto delle scosse violente seguite da altre scosse di assestamento che scuotono dalle fondamenta le città dei morti, come mi aveva detto una delle teste che
sporgevano dalla finestra di quel grattacielo illuminato nel buio,
quando ero stato svegliato durante il mio primo sonno di morto
da quelle grida e da quei singhiozzi e quei pianti che riempivano
la notte nera dei morti.
E allora anche questa narrazione che sto cercando di farvi ar42
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rivare sarà un tutt’uno con un simile smottamento di faglia. Non
sarà una narrazione lineare ma per spostamenti d’asse, avverrà
qualcosa che si irradierà come lo spostamento a blocchi fracassati e compenetrati causato da un terremoto, non come quello fluido
del fiume e del tempo.
«La differenziazione delle strutture biologiche che crea sempre
più vita, Darwin, l’evoluzione...» mi sta dicendo il medico dei morti... sì, perché c’è anche il medico dei morti, come ci sono le città
dei morti, i grattacieli dei morti, gli specchi dei morti, la fotografa dei morti. «Le cose non stanno così. Non ci sono contrapposizioni, dualismi, neppure antinomie. Ogni cosa è spaccata in due,
però dall’interno. La vita è spaccata in due fin dall’inizio. La radice è questa. Il motore è questo. Non la differenziazione orizzontale e superficiale delle strutture intime della materia che si duplicano, si separano, si modificano, si deformano e si combattono per
adattarsi all’ambiente nella loro lotta per l’esistenza e per perpetuare il proprio Dna, come hanno immaginato gli uomini vivi con
i loro scienziati vivi. Non c’è la vita che si specializza sempre più
per combattere contro il resto della vita per la propria sopravvivenza e potenza dentro la vita. Ma la vita e la morte che si fronteggiano come una cosa sola fin dall’inizio, al di là e al di fuori
della parvenza viva del mondo e della storia della sua parvenza.
Vita e morte ormai l’una contro l’altra, di nuovo, per l’ultima volta, come la prima volta, all’inizio. Di fronte a qualcosa che percepiscono come la loro ultima guerra, oltre la quale non si sa cosa c’è. I
morti crescono sempre più, alimentati da guerre umane, catastrofi, epidemie. Però ormai, con lo sbalorditivo aumento demografico umano, con l’incontrollabile aumento della popolazione in atto
nei grandi Paesi asiatici e in altre zone del mondo, questa specie
non sta saturando solo il continente dei vivi ma sta cominciando
a smottare telluricamente anche verso il continente dei morti. Per
la prima volta ci troviamo di fronte alla possibilità che il numero
dei vivi superi quello dei morti. Ancora per poco la massa oscura
e crescente dei morti riuscirà a tenere sollevato dall’altra parte con
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il proprio peso il piatto della bilancia dei vivi, come è sempre successo finora. Si rende conto di cosa significa questa terribile cosa?»
«No.»
«Significa che la morte e la vita diventano sempre più la stessa,
identica cosa. Significa che la morte è ancora la vita, che la vita è ancora la morte. E che quest’unica cosa è sempre più spaccata in due
da questa compresenza e da questa immobilizzazione e da questo
fronteggiamento. Significa che i vivi e i morti stanno cominciando
a combattersi tra di loro per diventare la stessa, identica cosa. Significa che i vivi combattono contro la morte per restare vivi dentro
la morte. E che i morti combattono contro la vita per restare morti
dentro la vita. Io, come medico, lo so bene. Non ha idea di quanti morti stiano cominciando a preoccuparsi per la loro salute...»
«Ma se sono morti!»
«Appunto! È perché vogliono restare in morte.»
«Ma è morto anche lei!»
«Appunto!»
«Ma allora che salute può venire da lei?»
Il medico ride.
«Guardi che i medici morti sono i migliori.»
«Ah, sì? E come mai?»
«Ma è evidente! Ci pensi! Qui non si tratta di prolungare la vita,
ma di prolungare la morte. E allora chi c’è di meglio che un medico morto? I morti si curano, che cosa crede! Per restare in morte bisogna curarsi, esattamente come per restare in vita.»
«Ah, sì? Se no cosa succede? Si vive?»
«Come i vivi stanno fronteggiando la morte con la loro tecnologia che promette di sconfiggere la morte, così anche i morti stanno cercando di sconfiggere la vita fronteggiando la vita. Come tra i
vivi ha preso piede il nuovo mito mortale dell’immortalità, così tra
i morti sta prendendo piede il nuovo mito immortale della mortalità. I morti si curano, fanno gli esami del loro sangue morto, delle
loro orine morte, delle loro feci morte. Si misurano la pressione...»
«Ah, sì? E qual è la pressione giusta per i morti?»
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Il medico ride di nuovo.
«Mah... vallo a sapere!»
«Ma che cosa tiene insieme queste sterminate città e tutti questi
morti che riempiono i loro grattacieli sfasciati?»
«La stessa cosa che tiene insieme i vivi: l’attrazione tra i corpi,
l’amore. Che cosa crede? Anche i morti si cercano, si cercano e non
si trovano, esattamente come i vivi. Si trovano e poi si perdono. Anche i loro corpi morti si abbracciano, si compenetrano. La sessualità esiste tra i morti come tra i vivi. Esiste anche tra i morti questo
scandaglio dei corpi che scendono dentro gli altri corpi, la favola
dell’amore. Lei non ha idea di che cosa sia un coito tra i morti! È
una cosa da non credere. Donne e uomini non ci hanno mai dato
dentro come da morti. Sta prendendo piede anche tra i morti la
pornografia. Lei non ha idea di che cosa inimmaginabile, impressionante sia la pornografia dei morti! Adesso, con questa tracimazione che comincia ad avvenire tra il continente dei vivi e quello
dei morti, succede persino che arrivi ai vivi qualcosa della inconcepibile pornografia dei morti...»
Chiudo gli occhi, mi metto le mani tra i capelli.
«Ma io allora dov’ero, al tempo dei Canti del caos, quando mi
aggiravo in quel mondo di corpi che si compenetravano e si annientavano, tra donne imprigionate in fogli di carta stagnola, amputate, blindate, caudate, serpenti... in mezzo a protuberanze congestionate e a canali sessuali e a cunicoli escretori attraversati da
sbarre di luce fracassate che si scorgevano nel buio dei set come
costellazioni e galassie nella notte primeva del mondo? Dov’ero
dentro? Ero già dentro questa cosa che arrivava dal continente dei
morti o ero dentro qualcosa che stava invece tracimando a sua volta verso il continente dei morti?»
«E stanno tracimando in questo fronteggiamento che immobilizza
ogni cosa anche il sistema percettivo e di comunicazione dei vivi e
quello dei morti. Posta elettronica, messaggi... Certe volte arrivano
ai morti quelli dei vivi e ai vivi quelli dei morti, attraverso il tempo e lo spazio che non ci sono più, sono allagati. I naviganti morti
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cominciano a bucare i sistemi internet dei vivi, come i vivi cominciano a bucare quelli dei morti. Stanno apparendo sugli schermi
dei morti e dei vivi i primi sfondamenti di continente. Anche i sistemi postali stanno cominciando a tracimare. Ci sono dei vivi che
si trovano tra le mani lettere di morti. Anche ai morti stanno cominciando ad arrivare lettere provenienti dal continente dei vivi...»
«Ma perché, esiste un sistema postale anche tra i morti?»
«Sì, anche se i morti non hanno indirizzi, la posta non può venire consegnata, si accumula sempre più, ci sono enormi giacimenti di lettere che si scrivono i morti, ma anche di lettere che i morti
scrivono ai vivi, e i vivi ai morti. Qualcosa di questo enorme flusso
postale comincia a tracimare dalle prime zone di fronteggiamento
e contatto. I vivi rimangono sbalorditi trovandosi tra le mani lettere di morti. I morti sbalordiscono quando si trovano tra le mani lettere di vivi, anche se non possono venirgli recapitate in questa immensa distesa di grattacieli che si espandono continuamente, dove
non ci sono nomi, non ci sono indirizzi, nessuno sa bene chi è, chi
è stato, eppure ci sono postini morti che girano ugualmente con le
borse piene di lettere arraffate a caso, salgono e scendono con gli
ascensori, suonano alle porte, i morti ci si gettano sopra, lacerano
una dopo l’altra le buste, leggono brani qua e là, per vedere se sono
state scritte a loro, proprio a loro, gettano via il foglio, ne afferrano
un altro, cominciano a leggerlo, buttano via anche quello, e intanto
gridano, piangono. Anche i magazzini dove si accumula la posta,
quella dei morti e quella tracimata dei vivi. C’è sempre un numero
enorme di morti che frugano in quelle montagne di lettere che non
possono venire recapitate, in cerca di qualcuna scritta a loro, lacerano le buste con le mani, coi denti. Si sentono venire i loro pianti,
le loro urla, di giorno e di notte, perché qui non c’è differenza tra
il giorno e la notte, è sempre notte. Anche i computer sono intasati di messaggi venuti da chissà dove, da chissà chi, che palpitano
sugli schermi sempre accesi dentro le stanze di queste sterminate
città dei morti che coprono il continente dei morti.»
«Io, arrivando qui, pensavo di essere finito dall’altra parte, di
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avere trovato un approdo. Invece sono solo dall’altra parte della
stessa spaccatura che si restringe sempre più per questo tellurico
smottamento di faglia. Anche la morte, come la vita, è in tormento, è in atto.»
«Sì, i morti soffrono, soffrono e ridono della loro stessa sofferenza. Ma c’è già qualcuno che non ride più. Nel continente dei morti sta cominciando ad avvenire qualcosa di inconcepibile. Come in
quello dei vivi, probabilmente. Se ne accorgerà anche lei, da qui a
un po’...»
«Ma lei chi è?» provo ancora a dire. «La sua voce mi ricorda qualcosa, qualcuno!»
Nessuna risposta.
Io adesso non abito più in quell’albergo dove ero arrivato dopo la
tracimazione nel continente dei morti, dove avevo trovato la Pesca
che mi aspettava al mio piano in abito da sposa, di fronte alla porta
dell’ascensore che si apriva, e che poi si era girata su se stessa srotolando il suo corpo come uno strascico, dove avevo dormito il mio
primo sonno da morto e dove poi mi ero svegliato di soprassalto e
avevo guardato fuori dalla finestra, verso tutti quei grattacieli fatiscenti e vertiginosi da dove arrivavano le voci e i pianti dei morti.
Adesso abito in un luogo diverso, perché qui ci si sposta continuamente a ogni immissione di nuovi morti che arrivano a carovane nel continente dei morti, e ci si trova all’improvviso da un’altra parte, si vanno a occupare altri spazi ancora vuoti che ci sono
nelle sterminate città dei morti, o che sono stati appena abbandonati e svuotati per lo spostamento di quelli che li occupavano prima, trascinati a loro volta nel vortice di questa ininterrotta dislocazione e fusione. Diciamo così, perché altrimenti non potrei farvi
capire... In questo momento sono nello zoccolo di un enorme edificio lesionato che fuoriesce dalla terra e si innalza per un numero
incalcolabile di piani nel cielo nero dei morti. La mia stanza è qui,
ma posso anche salire, posso prendere gli ascensori e raggiungere gli altri piani che ci sono più in alto, abitati da donne e uomini morti che si spostano lungo i corridoi e vanno a incontrarsi nel47
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le diverse stanze e parlano tra di loro, per giorni interi, per intere
notti, se qui ci fossero ancora il giorno e la notte, e certe volte si abbracciano convulsamente nei loro letti, quando si sentono venire
nel silenzio e nel buio quelle grida laceranti che si levano dai corpi morti durante i forsennati coiti dei morti.
“Dove sarà adesso la Pesca?” mi sorprendo ancora a pensare
mentre me ne sto al buio, da solo, nella mia piccola stanza sotterranea senza finestre. “E perché appare così, all’improvviso, nella mia
vita e nella mia morte, e subito dopo scompare? Sarà ancora nel regno dei morti o nel frattempo sarà tracimata in quello dei vivi? E
io come farò a trovarla, in questo smottamento continuo che investe le città dei morti e le morti dei morti? Dovrò cercarla nel regno
dei morti o dovrò tracimare anch’io in quello dei vivi?”
Sotto di me, il letto su cui sono coricato al buio sta cominciando
impercettibilmente a tremare. Anche le linee della stanza, le pareti, il soffitto. Vibrano sempre più forte, si sfuocano, come si possono sfuocare le linee delle cose quando sono al buio e nessuno, neppure i morti, le possono vedere. Il piano del letto si sposta sotto di
me con sempre maggiore violenza. I mobili che ci sono nella stanza cominciano a scricchiolare, gli oggetti cadono, rotolano sul pavimento, si frantumano, le pareti sottoposte a quelle enormi spinte
contrapposte escono dalle loro sedi, mi arriva il suono spaventoso
delle crepe che si aprono all’improvviso.
“È il terremoto!” capisco di colpo. “Sono le due faglie di vita e
morte che si sono mosse di nuovo e si stanno fronteggiando e scontrando per l’immissione di sempre nuovi vivi e di sempre nuovi
morti.”
Resto immobile, al buio, mentre tutta l’enorme costruzione verticale di cui io occupo la base poggiata sulla linea morta dell’orizzonte è sottoposta a queste violente scosse che disarticolano le sue
strutture. E si sentono venire dal resto del grattacielo, dai suoi piani
più alti che ondeggiano nel cielo nero dei morti, fragori improvvisi e laceranti di voci che crescono incontrollabilmente di tono,
come se le bocche intente a parlare cozzassero le une contro le al48
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tre per le tremende spinte che salgono dal profondo e che stanno
scuotendo dalle fondamenta le città dei morti, e poi continuassero
a parlare così, fracassate. E anche suoni e grida laceranti di esaltazione e di orgasmo, di altri corpi sorpresi durante il coito e sbattuti con ancora più violenza gli uni contro gli altri durante il sisma.
“Troverò la Pesca!” mi dico, mentre tutta la mia stanza e tutto il
mio grattacielo e tutti i grattacieli disseminati in queste sterminate
città dei morti vibrano e si riempiono di nuove crepe che le attraversano da cima a fondo. “La troverò in questo finimondo di città che crollano o in qualsiasi altro posto dentro la vita e dentro la
morte del mondo! La troverò a costo di andare al di là della vita e
della morte del mondo!”
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Lazzaro
«Allora vieni, se è vero che non hai paura di andare al di là della
vita e della morte del mondo» mi dice uno dei morti che incontro
lungo un corridoio dei piani più alti, gremito di morti che vagano da una stanza all’altra dopo le violente scosse di terremoto che
hanno investito i grattacieli e le città dei morti, e parlano concitatamente tra loro e qualcuno grida, si chiamano l’un l’altro nelle stanze per vedere le nuove crepe che attraversano da parte a parte pareti e soffitti. «Io ti mostrerò come si fa ad andare al di là della vita
e della morte del mondo. Ti dirò cosa è davvero successo due millenni fa, cosa sta succedendo adesso.»
Lo guardo, mentre mi conduce verso la sua stanza tenendomi
un braccio sopra la spalla, come per sottrarmi alla ressa degli altri
morti che si chiamano l’un l’altro e mi chiamano gridando e piangendo lungo i corridoi spaccati.
Entriamo nella sua stanza. È tutto buio, ma si vedono ugualmente e con enorme evidenza le spaventose crepe che sconnettono i muri, il soffitto leggermente franato, le seggiole rovesciate, il
pavimento dalle mattonelle spaccate.
«Siediti qui!» mi dice capovolgendo una seggiola.
Mi siedo, al buio, in questo buio così profondo dove si può vedere ogni cosa.
Anche lui si siede, da qualche parte.
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«Tu chi sei?» provo a dire.
«Sono Lazzaro.»
Rimango immobile, muto.
Siamo seduti uno di fronte all’altro, nel mondo nero, nel buio, ci
guardiamo come si guardano i morti.
Le nostre seggiole hanno le gambe poste da una parte e dall’altra della stessa crepa che attraversa il pavimento.
Si porta una mano alla testa. Chiude gli occhi.
Da fuori continuano a venire quelle voci concitate, quegli urli.
La sua bocca si muove leggermente, nel buio, come se stesse cominciando a parlare.
Un secondo dopo si alza di scatto dalla sedia, va a chiudere la
porta, inclinata in avanti e con i cardini fuori dal muro. La forza
un po’ per farla entrare nei suoi stipiti dissestati.
Torna a sedersi di fronte a me.
È tutto buio.
«Ero là, solo, sepolto...» comincia a dire.
Ma poi si ferma. Mi guarda ancora, mi guarda nel buio, in quella stanza appena accarezzata dal terremoto dei morti e dei vivi.
«Tu conosci la mia storia?» mi chiede dopo un po’, all’improvviso.
«Sì, la conosco.»
«No, tu non la conosci» mi dice a bassa voce.
Lo guardo anch’io, in quella stanza buia, a uno dei piani più alti
di quel grattacielo che è appena stato sconquassato dal movimento sismico di vita e morte.
«Invece la conosco!» gli dico ancora. «Tu là al buio, sepolto, in
un villaggio della Galilea di nome Betania, le tue sorelle Marta e
Maria che piangono, che vanno incontro a Gesù e piangendo gli
dicono: “Signore, se tu fossi stato qui nostro fratello non sarebbe
morto!”. Gesù che trema, che si turba, che piange... Io ascoltavo la
tua storia con le lacrime agli occhi, nella chiesina di quel seminario, una delle più belle che siano state mai raccontate, la rileggevo da solo durante gli esercizi spirituali, in quell’enorme silenzio
che durava per giorni e giorni, e intanto la sera scendeva, e c’era51
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no tutte quelle vesti invisibili, al buio, contro lo sfondo della città illuminata a perdita d’occhio in fondo alla pianura, e si sentiva solo il suono delle vesti nere mosse dal vento, delle preghiere
bisbigliate qua e là a fior di labbra nell’oscurità che cominciava a
coprire il mondo, e quel seminarista sordomuto che si scorgeva
immobile e in assoluto silenzio in qualche punto nel buio più fitto, con la sua testa ben pettinata ricoperta da quell’involucro trasparente su cui si riflettevano le luci che venivano dallo spazio del
mondo, in quelle sere e in quelle notti limpide dal cielo pieno di
stelle e di fuochi, prima di salire tutti insieme e in silenzio verso
i dormitori. Ci continuavo a pensare anche quando ero ormai coricato al buio nel mio letto, continuavo a pensare a te, coricato al
buio, solo, in quel sepolcro. E poi Gesù arriva, dopo avere camminato lungo quei sentieri ricoperti di polvere, e anche i suoi sandali e le dita dei suoi piedi e la sua veste e i suoi capelli e il suo
volto sono bianchi di polvere. Il suo corpo trema per la commozione e il dolore, perché il suo amico Lazzaro è morto. “Vedi come
lo amava!” bisbigliano alcune voci, di donne e uomini di Gerusalemme venuti a visitare la casa del defunto dopo la sepoltura. E
allora Gesù dice: “Dove lo avete deposto?”. “Vieni e vedi” gli rispondono. Gesù arriva davanti al sepolcro. Tutti piangono. Il suo
corpo freme. “Togliete la pietra!” ordina a chi gli sta intorno. E
Marta gli dice: “Signore, è sepolto da quattro giorni, puzza! Sotto le bende i batteri stanno già divorando il suo corpo, le sue cellule non controllano più gli enzimi, le mosche vomitorie stanno
già mangiando il grasso sottocutaneo...”. “Togliete la pietra!” ripete piangendo Gesù. Tolgono la pietra. E allora Gesù grida, non
si limita a dire, magari a voce alta, ma grida, grida con le lacrime
agli occhi, grida: “Lazzaro, vieni fuori!”. E tu sei uscito, i piedi e
le mani bendati, il volto ancora fasciato perché la bocca e la mandibola non si aprissero... La resurrezione e la vittoria sulla morte,
ci diceva il padre priore, che anticipa quella di Gesù dopo la crocefissione e la morte...»
Mi interrompo un istante, perché sento respirare forte, molto for52
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te, nel buio, quel respiro così profondo e allagato con il quale i morti carpiscono l’aria nera che c’è dentro l’aria del mondo.
«Non è andata così» mi dice all’improvviso la sua voce, bassa,
molto bassa, quasi in un soffio.
Smetto di respirare, su quella sedia che scavalca la stessa crepa, nel buio.
«Ero là, solo, sepolto...» sento che la sua voce ha ripreso a dire
«non sentivo niente, non avvertivo niente. Mi sembrava di non essere da nessuna parte, eppure c’ero...»
«Sì, è successa la stessa cosa anche a me!» mi lancio in avanti a
dire, nel buio. «L’uscita lontana, sempre più lontana. Impossibile uscire, impossibile ritornare. Dov’è la porta per uscire? Dov’è
quella per entrare? Poter ritornare indietro, nell’inconcepito, poter morire all’indietro, all’incontrario, senza essere nati e neppure concepiti... Sto morendo o nascendo? Sto facendo il balzo quantico dall’eternità al tempo oppure quello dal tempo all’eternità?»
«Sì, e poi quelle voci che si sentono venire da fuori, da sopra, da
qualche parte. Chi è che sta bussando in piena notte alla porta del
mio castello? “Lazzaro, vieni fuori!” gridava. Come a dire: “Che
cosa fai lì dentro? Falla finita con quella pantomima della morte
con la quale mi hai attirato fin qui!”. E allora io, anche se ero morto, gli ho gridato: “No, vieni dentro tu!”. E lui è venuto. Ha fatto
rotolare la pietra ed è entrato. Era tutto nero. Vuol dire che intanto
era scesa la notte. Non so se erano ancora lì tutti gli altri o se erano
andati ormai chissà dove, se stavano dormendo o se erano morti e
stavano a loro volta aspettando chi li resuscitasse da morti. Non si
sentivano più quei pianti sconsolati delle mie sorelle dai volti tutti rigati di lacrime e dai lunghi capelli ricoperti dal velo. Era tutto buio. Era tutto nero. Ma avvertivo che lui era entrato all’interno
della mia tomba verticale attraverso la pietra spostata che copriva la bocca della piccola grotta dove ero stato sepolto. Adesso era
lì, vicino a me, proprio lì. Nessuno dei due ha detto niente, per un
po’. Ci limitavamo a stare uno vicino all’altro, nel buio. “Non mi
dici niente?” ho sentito che la sua voce ha sussurrato d’un tratto,
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da molto vicino alla mia testa bendata, perché si era seduto per terra accanto al mio corpo morto disteso sopra la pietra. “Sei tu che
dovresti dire qualcosa!” gli ho risposto in mezzo a tutto quel buio.
Non ha detto più niente, per un po’, si limitava a starmi vicino e a
respirare accanto alla mia testa morta, nel buio. E allora sono venute le lacrime agli occhi anche a me, e non ho potuto trattenermi dal
dirgli, quasi dal gridargli, muovendo con fatica la mia bocca morta
quasi immobilizzata dalla fascia: “Perché sei venuto a resuscitarmi?
Perché vuoi trascinarmi nella catastrofe della resurrezione?”. Non
ha detto niente. Adesso avvertivo soltanto il suo leggero respiro
molto vicino alla mia testa morta. “Perché vuoi gettarmi di nuovo
nella catastrofe della vita?” gli ho chiesto ancora, e intanto sentivo
contro le ossa della mia testa il freddo della pietra su cui ero disteso. Silenzio. “Perché vuoi farmi risorgere solo per farmi morire di
nuovo?” ho continuato a domandargli nel buio. “È questa la vita
che porti nel mondo? Sei venuto nel mondo solo per portare una
simile resurrezione? Per perpetuare il ciclo delle resurrezioni dentro la vita e dentro la morte? Perché, se adesso mi fai risorgere, io
dovrò morire un’altra volta dentro la vita. E allora dovrai farmi risorgere ancora, per farmi morire ancora, per farmi risorgere ancora... Perché o mi fai risorgere continuamente o è come se non mi
facessi mai risorgere!” Mi sono fermato, anche se avrei avuto molte altre cose da dirgli, con la mia povera bocca serrata nella morsa di quella fascia annodata sopra la testa. “Lo so...” mi ha detto
d’un tratto la sua voce, da vicino, dal buio. Poi è rimasto di nuovo
in silenzio. Eravamo soli. Sono rimasto ad aspettare nel buio, perché sapevo che avrebbe parlato ancora. Infatti, dopo un po’, oppure dopo molto, non saprei dire, la sua voce ha bisbigliato, con dolcezza, dal buio: “Io devo morire perché tu possa risorgere”. Sono
rimasto sbalordito. “Io sono venuto qui per morire, perché se io
adesso non muoio tu non potrai risorgere dalla morte” mi ha detto ancora. “Per questo poco fa tremavo, piangevo. Piangevo per te,
ma piangevo anche per me.” “Signore, perché?” sono riuscito soltanto a dire. “Perché ogni cosa è spaccata in due dall’interno” mi
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ha risposto. “Perché la vita e la morte sono spaccate in due. Perché anche la creazione e la distruzione sono spaccate in due. Perché io devo entrare nel continente dei morti perché tu possa uscire da questa tomba ed entrare in quello dei vivi. Io prenderò il tuo
posto, tu il mio.”
Adesso ero io che non dicevo niente. Non riuscivo più a dire
niente, tacevo, imprigionato nelle mie bende, col corpo disteso
sopra la pietra. Eravamo soli, eravamo completamente soli, là
dentro. Tutti e due al buio, dentro la stessa tomba. Non venivano voci, rumori, versi di uomini o di animali, dal resto del mondo, dallo spazio, dal tempo. Io tacevo, anche lui taceva. D’un
tratto ho sentito che qualcosa si muoveva sopra l’involucro del
mio corpo, le sue mani mi stavano sfiorando in silenzio, stavano sciogliendo con delicatezza le bende in cui ero avvolto. Allora
ho sollevato la testa, mi sono seduto sopra la pietra, mi sono alzato. Siamo rimasti uno di fronte all’altro, in piedi, dentro quella tomba nera, senza vederci. Ma ho capito, da un leggero movimento nel buio e da un suono lieve, che si era inchinato un po’
per togliersi i sandali impolverati, che si era sfilato la veste, che
stava allungando le braccia verso la pietra da cui mi ero appena
alzato e che stava raccogliendo le bende. “Adesso tocca a te aiutarmi” ho sentito che la sua voce mi stava dicendo con dolcezza,
nel buio. L’ho aiutato ad avvolgersi nelle bende, come lui aveva
aiutato me a uscirne, muovendo le mani sul suo corpo, alla cieca,
nel buio. Poi ho capito che era andato a distendersi sulla pietra
da cui mi ero appena alzato, mentre io camminavo al buio verso
l’uscita. Ma prima mi sono chinato verso terra, ho raccolto i suoi
sandali e la sua veste e li ho indossati nel buio. Ho fatto rotolare
un po’ di più la pietra che chiudeva quasi del tutto l’imboccatura della tomba. Mi sono girato indietro, verso il suo corpo coricato al buio e avvolto nelle mie bende, senza vederlo. “Rimetti a
posto la pietra!” ho sentito che mi stava dicendo sottovoce, sorridendo con dolcezza nel buio.
Sono uscito. Ho spostato leggermente la pietra, perché sigillas55
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se l’entrata. Mi sono guardato attorno. Non c’era nessuno, era notte fonda. Forse erano andati tutti a dormire nelle loro case, a Betania, le mie sorelle Maria e Marta, gli altri amici e parenti erano
tornati a Gerusalemme, a cavallo dei loro asinelli, sui loro piccoli
carri, vedendo che nessuno usciva più dalla tomba, avranno pensato che il miracolo non era avvenuto, che la morte non era stata vinta, che non c’era stata la resurrezione, che Gesù non mi aveva tirato fuori per i capelli dal continente dei morti, che nessuno
poteva farlo, che magari ero stato io a trascinarlo nel continente
dei morti, che adesso eravamo tutti e due morti là dentro, e piangevano e si disperavano nelle loro case, in piena notte, nel buio.
Così sono potuto uscire non visto dal mio villaggio. Sono passato
di fronte alla mia casa. Non filtrava nessuna luce dagli stipiti delle finestre e della porta, non c’erano lucerne accese all’interno, era
tutto buio. Ho accostato l’orecchio alla porta, e si sentivano venire da dentro i gemiti disperati delle mie sorelle che stavano piangendo nel buio. Mi sono avvicinato al mio asinello, che era legato
con una corda all’esterno della stalla e che stava dormendo. Si è
svegliato, sentendo i miei passi nel buio. Credo che mi abbia riconosciuto, perché ha cominciato ad alzare e ad abbassare ripetutamente e con violenza la testa. Gli ho chiuso la bocca con le mani,
prima che cominciasse a ragliare, gli ho dato un bacio sul muso
freddo, bagnato. Si è tranquillizzato. Sbatteva la coda per la contentezza, nel buio. L’ho preso per la cavezza, l’ho fatto camminare vicino a me, piano piano, perché i suoi zoccoli non facessero
troppo rumore scivolando sopra le pietre e non rivelassero la nostra presenza nel buio. Siamo arrivati fino all’imbocco della stradina di terra che portava fuori dal villaggio. Allora gli sono salito
in groppa. Abbiamo cominciato ad andare, nel cuore della notte,
nel buio, verso Gerusalemme.
Non si vedeva niente, ma gli occhi dell’asinello indovinavano lo
stesso i bordi della strada buia, perché continuava a trottare piano,
tranquillo, soffiava di tanto in tanto col naso, emetteva dei piccoli versi, sbatteva la coda contro le mie gambe come per darmi se56
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gni continui della sua presenza. Poi il cielo ha cominciato poco
per volta a diventare più trasparente, più chiaro. La luce si stava
sollevando dalla linea deserta dell’orizzonte, si cominciavano già
a vedere nel buio i bordi luminosi del mondo. L’asinello trottava
più forte, senza che dovessi incitarlo. Eravamo già in vista delle
mura lontane della città di Gerusalemme. C’era un’animazione crescente lungo la strada che portava alla più grande delle sue porte,
perché era vicino il giorno della Pasqua, piccoli banchi improvvisati su cui si vendeva ogni cosa, persone a piedi, sugli asini, sui
cavalli, abitanti di Gerusalemme e dei borghi vicini, romani con i
loro ridicoli elmi con il pennacchio che si muovevano tra la ressa
incitando i cavalli dai fianchi già lucidi di sudore anche se il giorno era appena iniziato. Ero sempre più vicino alla porta. L’ho attraversata, a cavallo del mio asinello, risorto. Man mano che mi
addentravo nelle strette strade della città, tra le sue case di pietra,
affacciati alle finestre e davanti alle porte addobbate per la festa
e in piedi sulle terrazze e sui tetti, cresceva il numero delle persone che si giravano a guardarmi mentre passavo a cavalcioni della
povera bestia che mi trasportava. Qualcuno mi salutava, lanciava
grida, qualcun altro tagliava con il coltello i lunghi rami delle palme e cominciava già ad agitarli al mio passaggio. Una folla sempre più grande si assiepava ai lati della strada, per guardarmi passare, gettava rami di palma e mantelli davanti a me, davanti agli
zoccoli del mio povero asinello svegliato dal sonno che ci trottava sopra scuotendo con emozione la testa ed emettendo brevi ragli con la sua voce potente. Alcune donne si toglievano il lungo
velo che copriva le loro vesti e lo gettavano per terra davanti a me.
E io continuavo ad avanzare su quel tappeto sempre più spesso,
con tutto il peso della mia resurrezione e della mia morte e della
mia nuova morte dentro la mia nuova vita. Cominciavo già a vedere qua e là in mezzo alla folla anche le facce di alcuni apostoli di
Gesù, che credevano che io fossi Gesù perché adesso indossavo la
sua veste e i suoi sandali, perché adesso ogni cosa era veramente
e completamente spaccata in due, perché adesso ero Gesù. Qual57
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cuno gridava: “Osanna, benedetto chi viene nel nome del Signore, benedetto il risorto!”. Perché anche chi stava gridando queste
parole al mio passaggio era spaccato in due, perché quello che doveva succedere era già successo, perché anche Gesù e anche Lazzaro erano spaccati in due.
Il resto si sa, quello che non si sa è quello che è successo prima,
e anche quello che è successo dopo che fosse prima. Il processo, la
flagellazione, la croce... Il mio corpo là, in mezzo a quelle persone
infuriate ricoperte di paramenti, a quei giudici che non sapevano
chi stavano giudicando, i flagelli che strappavano pezzi della mia
carne resuscitata, le grida della folla contro di me, dopo il tappeto di rami e di fiori e di vesti stese al mio passaggio e gli osanna,
perché ogni cosa è spaccata in due, perché anch’io ero là ed ero
nello stesso tempo disteso al buio sopra una pietra, avvolto nelle
bende, a Betania. Ero vivo, eppure il mio corpo emanava ancora
il profumo di mirra e aloe della precedente sepoltura, oppure di
quella nuova che ci sarebbe stata, mentre due uomini che non conoscevo, vivi o morti, non saprei dire, stavano flagellando con furia il mio corpo e il mio volto fino a ridurli a una statua di fango
e a una maschera di sangue e di muco. E poi di nuovo attraverso
le vie di Gerusalemme, con il palo della croce sopra le spalle, tutti quei volti attoniti, che non sapevano se stavano vedendo un risorto oppure un morto, perché io mi stavo avvicinando al punto
limite e alla cruna di vita e morte, ero uscito dalla morte e stavo
ritornando dentro la morte, stavo accostando con la cruna della
mia vita i lembi della vita e quelli della morte, stavo mostrando
con sbalorditiva evidenza di fronte ai loro occhi e alla loro vita e
alla loro morte quanto sia la vita che la morte siano spaccate in
due, quanto siano compresenti e in via di tracimazione i continenti dei vivi e quelli dei morti.
E poi la croce. Mosche e tafani che conficcavano le loro teste
all’interno delle mie piaghe. Io là in alto, sollevato sopra le teste,
di quei vivi oppure di quei morti. C’erano anche Marta e Maria,
mi pareva, che non sapevano se erano di fronte a Gesù o di fronte
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al loro fratello Lazzaro che stava morendo inchiodato a una croce,
perché non avevano visto nessuno dei due uscire da quel sepolcro. Eppure adesso c’era qualcuno sopra quella croce tutta imbrattata di sangue, che stava morendo o che stava morendo di nuovo
di fronte ai loro occhi vivi o morti che non sapevano quello che stavano vedendo dentro la vita o dentro la morte. E poi quella lancia
che frugava dentro il mio corpo, quella spugna imbevuta di fiele
contro le mie labbra spaccate e ricoperte di mosche. E io lì sopra,
in attesa di ciò che già era avvenuto, mentre Gesù era là, coricato
dentro il sepolcro, oltre ciò che doveva ancora avvenire. E intanto,
tra una perdita di conoscenza e l’altra, pensavo: “Dove sono? Chi
sono? Poco fa ero morto, adesso sono vivo, ma quando ero morto ero alle soglie della vita, e adesso che sono vivo sono alle soglie
della morte. Come potrò essere il preannuncio della resurrezione
di Gesù dal continente dei morti e di tutti i morti, se io che sono
appena risorto sto già morendo di nuovo? E dopo cosa succederà?
Si muore ancora, anche se si era già morti, si era già stati morti? O
si vive ancora, anche se si era già vivi, si era già stati vivi? Dov’è lo
spazio della vita? Dov’è quello della morte?”. Poi ho sentito che la
mia voce stava gridando, da qualche parte della vita o della morte. Sentivo, come da lontano, da infinitamente lontano, la mia voce
gridare da qualche parte: “Oh, Signore, io non so neppure se tu mi
hai abbandonato o non mi hai abbandonato! Io non ho neppure la
consolazione di sapere che tu mi hai abbandonato!”. E intanto avvertivo che le mosche artigliate sopra le mie labbra tutte ricoperte di sangue erano volate via tutte insieme, per qualche istante, atterrite da questo grido.
E poi sono morto, anche se ero già morto, ero già stato morto.
E poi mi sono trovato di nuovo in un sepolcro, tutto avvolto nelle
bende, con il corpo martoriato e la testa distesa sopra una fredda
pietra. Ed era tutto buio, era tutto nero. E poi ho sentito il rumore della pietra che rotolava di fronte all’imboccatura del sepolcro,
e un rumore lieve di passi nell’oscurità più profonda. Qualcuno è
venuto a sedersi nel buio vicino a me. Ma non parlava, non si sen59
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tiva il più lieve rumore. Non sentivo neanche il suono del suo respiro nel buio. “Sei Gesù?” ho provato a domandare nel buio. “Sei
Gesù che è potuto ritornare in vita perché adesso io sono morto?”.
“No” mi ha risposto a bassa voce, nel buio. “Adesso Gesù sei tu!”
“E allora tu chi sei?” “Sono il resurrettore!”»
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Il resurrettore
Sono rimasto muto, vicino alla sua testa, nel sepolcro, nel buio.
«Il resurrettore?» ho provato a chiedergli dopo un po’. «Ma il resurrettore non era Gesù?»
«Ogni cosa è spaccata in due. Anche Gesù e Lazzaro sono spaccati in due. Adesso tu sei Gesù e Gesù è Lazzaro coricato dentro il
sepolcro. Adesso anche chi fa risorgere e chi è risorto sono spaccati in due. Adesso perché uno possa risorgere l’altro deve morire,
perché uno possa morire l’altro deve risorgere.»
«E tu allora chi sei, se non sei né quello che muore né quello che
risorge?»
«Io sono quello che spezza questo cerchio di resurrezione e morte, di vita e morte. Perché adesso si può solo far risorgere te per far
morire te, si può solo far morire te per far risorgere te. Perché anche la creazione e la distruzione sono dentro quest’unico cerchio.
Anche Dio è dentro quest’unico cerchio. Dio è morto perché c’è la
vita, Dio è vivo perché c’è la morte. C’è un Dio dei morti e c’è un
Dio dei vivi. Ma perché possa esserci un Dio dei vivi ci deve essere un Dio dei morti. Perché possa esserci un Dio dei morti ci deve
essere un Dio dei vivi. Anche Dio deve morire per poter creare il
mondo con la resurrezione. Deve vivere per poter far morire il mondo creato. C’è un continente dei vivi che ha un Dio morto e c’è un
continente dei morti che ha un Dio vivo dentro la morte. Ci sono
nell’universo pianeti morti che vagano nello spazio con i loro dèi
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vivi e pianeti vivi che portano il peso dei loro dèi morti. Io sono
quello che spezza questo cerchio. Io non faccio risorgere solo i morti, faccio risorgere anche i vivi. Perché per far risorgere i morti bisogna anche far risorgere i vivi.»
C’era buio, c’era infinitamente buio, là dentro, sentivo solo le
sue parole nel buio.
«Ma se tu spezzi questo cerchio con la resurrezione» ho provato
a dire a quella voce che mi parlava da vicino, nel buio, «se tu fai risorgere i morti e fai risorgere i vivi, da che cosa fai risorgere i vivi
se non dalla morte che c’è dentro la vita, da che cosa fai risorgere i morti se non dalla vita che c’è dentro la morte? Se tu stai dentro il cerchio della resurrezione, non chiudi anche tu tutto il mondo nel cerchio della resurrezione della vita e della morte create?»
«Io sono fuori da questo cerchio. In me la resurrezione è sempre
stata e sempre sarà.»
«Sì, però se si risorge sempre, è come se non si risorgesse mai.
È come se succedesse ogni volta quello che è già successo. E allora che resurrezione è?»
Non si sentiva niente, non si sentivano suoni venire dall’esterno
del sepolcro, non si sentivano voci.
Anche il resurrettore taceva.
«Sei Gesù?» ho provato a chiedergli ancora.
Silenzio.
«Perché io glielo avevo detto a Gesù...» ho continuato «quando è entrato nel mio sepolcro, a Betania, che se mi faceva risorgere una volta avrebbe poi dovuto farmi risorgere un’altra volta, e
poi un’altra ancora, avrebbe dovuto farmi risorgere sempre, se no
era come se non mi avesse fatto risorgere! Ma, se doveva farmi risorgere eternamente, era come se non mi facesse mai risorgere!»
«Io non sono Gesù. Te l’ho detto: Gesù sei tu!»
«No, io sono Lazzaro. Gesù è dentro quel sepolcro, a Betania.»
«Là dentro c’è Lazzaro.»
«E allora perché non fai risorgere anche lui, se sei il resurrettore?»
È rimasto per alcuni istanti in silenzio.
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«Sono stato là...» ha detto a bassa voce, d’un tratto.
«E allora lo vedi: tu sei Gesù che adesso è risorto ed è venuto a
far risorgere me.»
Il resurrettore è rimasto ancora per qualche istante in silenzio,
nel buio di quel sepolcro.
«No, lui non ha voluto risorgere!» ha detto d’un tratto.
Allora sono rimasto in silenzio io, sbalordito.
«Perché?» sono riuscito a domandargli con un filo di voce, in
quel buio.
«Mi ha detto che deve tenere sollevato con il peso della sua morte
il peso della tua resurrezione e il peso della resurrezione del mondo dentro la vita e dentro la morte del mondo.»
«Ma se io adesso sono morto!»
«Però tu adesso risorgerai.»
«Ma perché in questo momento sono morto, se anche lui è morto?»
«Sei morto perché lui ha preso il tuo posto da vivo. Perché tu hai
preso il suo posto da morto.»
«Allora lo vedi che quello è Gesù!»
«No, lui è Lazzaro perché era Gesù. Tu sei Gesù perché eri Lazzaro.»
«Ma se può succedere solo quello che è già successo, quello che
eravamo prima lo siamo ancora, lo siamo sempre!»
C’è stato un nuovo silenzio.
«No, perché lui non ha voluto risorgere» ha ripetuto il resurrettore, dopo un po’.
«Allora è lui che ha spezzato il cerchio!» ho sentito la mia voce
gridare, uscita a fatica dal mio corpo e dalla mia testa tutta avvolta dentro le bende.
Ha sospirato nel buio, mi è parso, ho sentito per la prima volta
vicino a me in quell’assoluto silenzio e in quell’oscurità senza brecce il rumore di un profondo, incontrollato sospiro.
«Io sono andato là...» la sua voce ha ricominciato a dire, bassa, lenta, nel buio «ho camminato lungo le piccole strade di terra e le case di Betania sprofondate nel sonno, e si sentivano veni63
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re da dietro i poveri muri di pietra e di argilla i suoni e i gemiti
che fanno i corpi dei vivi dentro il sonno dei morti. Sono arrivato di fronte al sepolcro, sono rimasto immobile per un po’, il mio
corpo tremava, non riuscivo a controllare la mia sconfinata paura
e la mia emozione per quanto stava accadendo. Ho fatto rotolare
la pietra, sono entrato in silenzio in quello spazio impenetrabile,
nero. Mi sono seduto per terra vicino al suo corpo disteso. Non
ho detto niente, per un po’, non ero in grado di parlare. “E tu chi
sei?” mi ha chiesto la sua voce d’un tratto, dalla pietra, dal buio.
“Io sono il resurrettore!” gli ho risposto. “Da dove salti fuori?” mi
ha chiesto ancora, con la sua voce infinitamente bassa, sorridente,
tranquilla, che gli rimbombava un po’ nella gola perché non poteva aprire molto la bocca per via delle bende. “Chi sei tu, se non
sei né il Dio morto né quello vivo?” “Io sono fuori dal cortocircuito di questo cerchio” gli ho risposto. Non ha detto più niente,
ma anche se là dentro l’oscurità era così profonda non so perché
mi è parso che la sua testa e la sua bocca serrata dentro le bende stessero sorridendo in silenzio, nel buio. “Perché sei qui? Che
cosa vuoi da me?” mi ha chiesto dopo un po’, dalla pietra. E io gli
ho detto: “Sono venuto per farti risorgere!”. “Io non risorgerò!”
mi ha risposto subito lui, ma a bassa voce, con dolcezza, tranquillo. “Perché?” ho provato a domandargli, da dove mi trovavo, dal
buio. “Perché io devo tenere sollevata la vita con la mia morte, perché se io vivo tutto morirà.” Sono rimasto in silenzio, immobile,
al buio, annientato. “Ma se tu non risorgerai, niente e nessuno risorgerà! Se solo uno non risorgerà, nessuno risorgerà, rimarranno tutti, vivi e morti, resurrettori e risorti, dentro il cerchio della
vita e della morte create e della resurrezione dentro il cerchio della vita dentro la morte e della morte dentro la vita!” “Io non risorgerò!” ha ripetuto la sua voce con dolcezza, nel buio. “A costo di
essere l’unico al mondo che non risorge, io non risorgerò!” “Ma
allora io che resurrettore sarò?” mi sono disperato vicino alla sua
testa bendata, nel buio. “Solo se io non risorgerò tu potrai far risorgere ogni cosa che sarà” mi ha risposto. “Ma che resurrezione
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sarà, se c’è qualcuno che non risorgerà?” “Ci deve essere al mondo quello che non risorgerà!” ha detto ancora, ostinatamente, dalla
pietra, dal buio, con la sua bocca quasi immobilizzata dalla fascia.
Sono rimasto là dentro ancora per un po’, lontano da me stesso,
ammutolito, annientato. Dalla pietra non veniva il più lieve rumore, il più impercettibile suono proveniente dal mondo dei vivi
o da quello dei morti. Mi sono alzato, ho provato a guardare dalla sua parte, ma l’oscurità era così profonda che non si scorgeva
neppure un tenue bagliore proveniente dalle bende che serravano il suo corpo. Sono andato a tentoni verso l’uscita, ho fatto rotolare la pietra, solo un po’, quanto bastava per trovare un varco
e sgattaiolare fuori nel buio. Era tutto nero. Era tutto invisibile, in
ombra. Il mondo non c’era. Non c’era mai stato, non ci sarà. Ma io
ho cominciato ad andare lo stesso, a piedi, nell’oscurità più profonda, verso Gerusalemme, verso il sepolcro dove giaceva il tuo
corpo martoriato, in questo mondo spaccato in due, verso questa
unità di vita e morte spaccata in due, per farla risorgere da questa
parte, e trascinare così anche l’altra parte nella resurrezione che
c’è fuori dal cerchio della resurrezione dentro la vita e dentro la
morte, perché io sono il resurrettore che deve far risorgere anche
la resurrezione. Camminavo nel buio, scacciato, assente, eppure
percepivo con inconcepibile risalto la presenza di ogni sassolino e
di ogni pietra che deformavano la suola dei sandali sotto la pianta
dei miei piedi che si muovevano instancabilmente nel cuore della notte del mondo, di ogni verso di animale svegliato dal rumore
dei miei passi e che mi guardava dai margini del deserto, di ogni
alito d’aria che scaturiva da qualche punto invisibile del nero del
cielo e che sollevava mulinelli di polvere al mio passaggio. E poi
sono entrato ancora in piena notte a Gerusalemme, ho continuato
a camminare per le sue strade buie e deserte, mentre tutti dormivano nelle case dopo il massacro, sprofondati nel sonno dei vivi
che è tutto dentro il sonno dei morti, con il mio carico di resurrezione che era stato anche quello spaccato in due. Sono arrivato
fino al tuo sepolcro, dove ti hanno disteso dopo averti staccato il
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corpo a brandelli dai pali tutti imbrattati di sangue. Ho fatto rotolare la pietra. Sono entrato. Ecco, io sono qui, vicino al tuo corpo di risorto morto. Io adesso ti farò risorgere anche dalla resurrezione dei morti!»
Ha smesso di parlare, si è alzato in piedi, mi è parso, in quell’enorme silenzio che si era creato improvvisamente nel buio.
«No!» gli ho detto allora, gli ho quasi gridato, muovendo con fatica la mia povera bocca martoriata e la mia mandibola imprigionata dalle bende. «Se lui non ha voluto risorgere, allora neanch’io
risorgerò!»
«No, tu risorgerai» mi ha detto, da molto vicino, tranquillamente.
«Perché?» gli ho gridato ancora.
«Perché sei già risorto una volta. E allora risorgerai un’altra volta, non potrai che risorgere sempre.»
Non ha più parlato. Non si sentiva niente. Non si vedeva niente. Non si riusciva neppure a capire se il resurrettore era ancora
dentro il sepolcro o se ne era già uscito facendo rotolare la pietra.
Tutto il mondo era immobilizzato e spaccato dentro quel silenzio
e quel buio.
Neanch’io ho più parlato. Sono rimasto così ancora per un po’, disteso in silenzio sopra la pietra. “Chissà se è ancora lì?” mi chiedevo.
Ma non c’era più, perché quando ho sollevato la testa, e poi mi
sono seduto, e poi mi sono alzato in piedi col mio corpo martoriato
unto d’oli profumati e tutto avvolto nella fasciatura dei morti, nessuna mano si è mossa nel buio verso di me, per aiutarmi a liberarlo dalle bende in cui era avvolto.
Ho cominciato a sciogliermele da solo, nel buio più profondo,
alla cieca, allentando il primo nodo che teneva ferma l’intera fasciatura, e poi le ho srotolate girando con le mani intorno al mio
corpo e tirando più forte e strappando dove erano rimaste attaccate alla carne ferita per il sangue secco.
Le ho lasciate cadere a terra. Ho cercato a tentoni nel buio. Qualcuno aveva disteso una veste su un gradino scavato dentro la roccia, accanto alla pietra da cui mi ero appena levato. Era di lino, mi
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è parso, toccandola con le dita dalle ossa pestate. Me la sono infilata. Ho calzato anche i sandali che c’erano lì vicino. Mi sono avvicinato all’ingresso della tomba. Ho tastato con le mani. Non era
chiusa del tutto, perché il resurrettore aveva già fatto rotolare la
pietra. Però non entrava luce all’interno, segno che la notte era ancora profonda, era nera. Sono scaturito da quella fenditura. Fuori
era tutto buio, mi sembrava di essere uscito da una tomba e di essere entrato in un’altra tomba più grande. Però, fatti alcuni passi,
ho sentito piangere sommessamente nel buio. Mi sono avvicinato. La persona che stava piangendo ha alzato la testa verso di me
e io ho scorto la forma buia del suo volto tutto bagnato di lacrime.
«Mariam, perché piangi?» le ho chiesto, riconoscendo in quella donna nera che singhiozzava nel buio Mariam di Magdala. E allora lei
mi ha abbracciato le ginocchia e ha cominciato a piangere ancora
più forte. Premeva il suo volto tutto bagnato e le sue vaste labbra
contro le mie gambe e intanto mi baciava e mi ripeteva piangendo
e mi sussurrava: «Maestro!».
Ho ripreso a camminare, nel buio. “Che maestro vuoi che sia!”
mi dicevo continuando ad andare in quell’oscurità che copriva il
mondo. “Io sono solo Lazzaro, quello condannato a risorgere eternamente e a morire eternamente.” La mia veste di lino doveva essere bianca, perché mi sembrava che emanasse un leggero bagliore
nel buio. “Ecco, io adesso andrò là” mi dicevo ancora “e lo farò risorgere. Solo io, che sono stato fatto risorgere da lui e che sono diventato lui, potrò farlo risorgere.”
Poi, d’un tratto, ho sentito la terra tremare forte sotto i miei piedi
martoriati che camminavano al buio.
“È il terremoto!” ho capito immediatamente. “La faglia si sta
muovendo, la terra sta di nuovo tremando, tutto il mondo sta tremando perché io sono appena risorto, perché sono tracimato dal
continente dei morti a quello dei vivi, dei vivi morti risorti, perché
i vivi e i morti si stanno fronteggiando, perché sta avvenendo in
questo stesso momento una nuova immissione e tracimazione di
vivi e di morti nel continente dei vivi e in quello dei morti, perché
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vita e morte sono spaccate in due, perché tutto il mondo è spaccato in due.”
Ho continuato a camminare verso Betania, nel buio, anche se
la terra non smetteva di tremare, si fermava per un istante solo
per riprendere a tremare ancora più forte. I miei sandali si posavano sopra il piano del mondo che sussultava e vibrava. Non vedevo niente, scorgevo solo porzioni di buio che si sfuocavano nel
resto del buio, mentre mi spostavo in preda a quella leggera perdita di conoscenza che ci assale quando saltano le linee di contenimento del mondo e il piano di vita e morte non sta più fermo al suo posto.
Mi arrivavano solo rumori lontani di scuotimenti e di crolli, versi di uomini e di animali che fuggivano nella notte, atterriti, mentre salivano da qualche punto infinitamente profondo quei boati
che si sentono durante i terremoti e che i vivi che non ne conoscono la causa credono siano determinati da scontri immani di pareti
sotterranee di terra e di marmo mentre sono il suono dei continenti dei vivi e di quello dei morti che si stanno fronteggiando e stanno tracimando uno contro l’altro e uno dentro l’altro.
Poi la terra sotto di me, a poco a poco, ha smesso di sussultare. I miei poveri piedi risorti una seconda volta da morte continuavano ad avanzare passo dopo passo in quella notte che non
finiva. Non si vedeva niente, però capivo, dalle poche case isolate che emergevano di tanto in tanto dal buio e dalle altre irriconoscibili cose balenanti nel mondo, che mi stavo avvicinando sempre di più a Betania, che stavo già camminando per le sue prime
strade, che stavo ripercorrendo da morto risorto una seconda volta, all’incontrario, le stesse strade che avevo appena percorso da
morto risorto una prima volta, per andare verso la mia nuova vita
e la mia nuova morte.
Era notte fonda, era buio, però si scorgevano delle persone in
piedi, vicino a cumuli di macerie e di fronte alle case lesionate dal
terremoto, con delle coperte impolverate sopra le spalle.
Sono andato ancora avanti, ho oltrepassato la mia casa, ho con68
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tinuato a camminare verso il luogo dove ero stato sepolto. Sono
arrivato fin là.
C’era un gruppo di donne e uomini che piangevano davanti alla
mia tomba.
Mi sono arrestato, esausto, dopo avere percorso tutta quella strada a piedi, nel mondo che tracimava, nel buio.
Un istante dopo ho visto staccarsi dal gruppo di uomini e donne fermi davanti alla tomba le mie sorelle Maria e Marta.
Mi stavano venendo incontro e piangevano.
Si portavano le mani alla testa, si percuotevano il petto.
«Signore, se tu fossi stato qui nostro fratello non sarebbe morto!» mi hanno detto piangendo.
Ho cominciato a tremare, mi sono messo a piangere anch’io, perché io ero vivo e il mio amico era morto, perché io ero risorto solo
perché là dentro c’era lui morto, perché adesso toccava a me far
risorgere dalla morte chi con la sua morte mi aveva fatto risorgere dalla morte.
Sono entrato, spostando con le mie mani la pietra. Fuori c’era
buio, ma là dentro l’oscurità era ancora più profonda, più ancora
di quando ero stato là dentro la prima volta, da morto.
Mi sono avvicinato a quel punto.
Tremavo forte.
«Sono qui!» sono riuscito a dirgli soltanto, con la mia bocca sfasciata, con la mia voce che balbettava.
Non c’è stata risposta.
Mi sono seduto per terra, lì vicino, mi sono preso la testa tra le
mani.
«Che cosa vuoi?» mi ha chiesto dopo un po’ con dolcezza, dal buio.
«Sono tornato per farti risorgere» gli ho detto con la mia voce
che tremava, dal buio.
«Io non risorgerò» ho sentito che la sua voce mi stava dicendo
con dolcezza dal buio.
Mi è venuto ancora da piangere.
«Ma io ho accettato di risorgere dalla morte solo per poter far ri69
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sorgere te dalla morte!» gli ho detto incontrollabilmente, con le lacrime agli occhi.
Non si sentiva più niente, non venivano suoni, voci di uomini,
di animali, dal mondo scosso, dal buio.
«Caro amico» mi ha ripetuto dopo un po’, muovendo appena
la bocca imprigionata nelle bende, «io non risorgerò, io non devo
risorgere.»
«Ma perché tu hai fatto risorgere me e io non posso far risorgere
te? Lascia che adesso sia io a prendere il tuo posto e tu prendi il mio!»
Ho capito che faceva fatica a rispondere, che anche la sua voce era
bloccata dalle lacrime che stavano salendo fino ai suoi occhi morti.
«Io devo tenere la vita in equilibrio sulla mia morte» mi ha detto dopo un po’. «Io devo fare argine alla morte con la mia morte.
Se io risorgerò, nessun altro risorgerà.»
«Ma perché adesso che io sono Gesù e tu sei Lazzaro, tu non
vuoi risorgere? L’altra volta, quando tu eri Gesù e io ero Lazzaro, tu hai potuto farmi risorgere! Perché adesso io non posso farlo? Perché sono stato fatto risorgere, se anch’io non posso tenere la
vita in equilibrio sulla mia vita, se non posso fare argine alla vita
con la mia vita?»
Non ha detto niente, non ha dato risposta.
Siamo rimasti tutti e due uno vicino all’altro, per molto, nel buio.
Allora, siccome non parlava più, non diceva più niente, ho pensato per un istante che il suo proposito si stesse a poco a poco incrinando. Così ho provato ad avvicinare le mie mani al suo corpo,
a tentoni, nel buio. Ho cominciato a sciogliergli piano piano, con
dolcezza, le bende.
Mi ha lasciato fare per un po’, poi ho sentito di nuovo la sua
voce uscire dal bozzolo delle bende che stavo liberando, da infinitamente vicino, dal buio.
«Io adesso sono Lazzaro» ha detto un’ultima volta, con dolcezza. «Io non risorgerò per essere di nuovo Gesù, che dovrà entrare
di nuovo a Gerusalemme, e che poi di nuovo morirà, e che poi di
nuovo risorgerà... Io adesso sono nel continente dei morti. C’è ap70
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pena stato il terremoto, si sono sentite anche qui le scosse che hanno fatto tremare il mondo quando tu sei risorto da morte e sei tracimato nel mondo dei vivi. In questo momento sto parlando con
qualcuno nel buio, siamo seduti uno di fronte all’altro in una piccola stanza lesionata, su due seggiole che scavalcano la stessa crepa... Mio dolce amico, anche il tempo della resurrezione è già stato. Io non risorgerò.»
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Il risorto
Non si sentono più voci venire dall’esterno, da oltre la porta dai
cardini fuori asse e spinta a forza dentro l’architrave e gli stipiti, non si sentono più quelle grida concitate dei morti lungo i corridoi del grattacielo scosso fino alle fondamenta dal terremoto, il
rimbombo di quei passi in corsa sui pavimenti lesionati e inclinati. Anche la voce di chi mi sta di fronte nel buio, Lazzaro oppure il
risorto, chi può dire, ha smesso di parlare. Nella piccola stanza c’è
un assoluto silenzio. Si sente solo il suono impressionante dei nostri respiri morti.
«Ma se lui è Lazzaro e anche tu sei Lazzaro, allora Gesù dov’è?
Dov’è finito?» provo a domandare nel buio, con il corpo gettato in
avanti sulla seggiola che scavalca la stessa crepa.
Non mi risponde.
Non riesco a vedere il suo volto, non lo vedo come si vedono i
vivi, ma mi sembra, da un lieve soprassalto del suo respiro e da
un movimento all’indietro dell’alone della sua testa, che stia sorridendo sconfinatamente nel buio.
«Vieni!» mi dice d’un tratto.
Capisco che si è alzato all’improvviso dalla seggiola, che è in
piedi davanti a me, sopra di me che sono ancora seduto, con un
piede da una parte e l’altro dall’altra della stessa crepa.
Mi sta tendendo la mano.
«Vieni!» mi dice ancora. «Non stai cercando una persona nel
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continente dei morti? Non hai detto che non hai paura di cercarla
in questo finimondo che c’è al di là della vita e al di là della morte del mondo?»
Io non l’avevo detto, l’avevo solo pensato, ma si vede che lui lo
sapeva, si vede che avviene un travaso di pensieri e di intenzioni,
tra i morti, o che perlomeno è avvenuto tra noi due nella fiumana
di tutte queste vite morte.
È ancora in piedi di fronte a me, con la mano tesa, e io lo sto vedendo come si vedono i morti, dall’incontrario, da prima ancora,
da dietro.
Mi alzo anch’io dalla seggiola. Gli do la mano. Me la stringe forte.
Un secondo dopo stiamo già correndo fuori dalla piccola stanza, stiamo già volando a grandi falcate lungo il corridoio che prima era pieno di donne e uomini morti terrorizzati che vagavano
da una stanza all’altra e che adesso è invece vuoto, quasi vuoto,
perché ci sono ancora alcune persone che piangono in silenzio di
fronte alle loro porte dai cardini fuori asse.
Sento che mi sta tenendo ancora la mano, che me la sta sollevando e stringendo mentre corriamo verso la bocca dell’ascensore.
«Ma come!» gli dico continuando a correre, perché da morti si può
correre e si può nello stesso tempo parlare, si può parlare a lungo
anche nel breve attimo della corsa che ci divide da qualcosa di infinitamente vicino nella infinita lontananza dei morti. «Prendiamo
l’ascensore? Ma se tutto il grattacielo è lesionato dalle crepe del terremoto! Se tutte le città dei morti e il continente dei morti sono stati sconquassati e sconnessi da queste nuove scosse determinate da
quest’ultima tracimazione della vita dentro la morte e della morte
dentro la vita! Anche i cunicoli dove corrono gli ascensori saranno lesionati, anche le cabine che ci sono dentro, anche gli specchi!»
«Non importa» mi risponde mentre continuiamo a correre verso la bocca dell’ascensore, mulinando nell’aria la sua mano intrecciata alla mia. «Gli ascensori dei morti salgono e precipitano per
rette sghembe dentro i grattacieli lesionati che ci sono nelle città
terremotate dei morti, salgono con i loro movimenti sismici ver73
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so le zone più alte del cielo nero che sovrasta le città dei morti e
poi precipitano fin dentro le viscere sotterranee del continente dei
morti. A noi basta che arrivi in fondo per l’ultima volta. Non ritorneremo più qui!»
Le porte sono aperte. Ci buttiamo dentro. Ci guardiamo in faccia da molto vicino, nella luce morta che c’è dentro gli ascensori
dei morti, nello specchio nero dove si guardano i morti dentro gli
ascensori dei morti.
Preme il tasto del piano terra. Le porte si chiudono. L’ascensore
comincia a precipitare.
Anche le sue pareti sono disarticolate e inclinate, anche lo specchio nero è stato spezzato da parte a parte dalla violenza del sisma.
Ci guardiamo, mentre l’ascensore continua a precipitare. Intanto sento che non mi ha lasciato la mano, che continua a stringermela forte anche se siamo in un piccolo spazio chiuso che precipita
sghembo in questo cunicolo dissestato e ci guardiamo nello stesso
specchio nero sfondato.
Siamo a pianterreno. La porta si è aperta, una sola, perché l’altra è rimasta bloccata dentro la guida sconnessa.
Lui la colpisce con un calcio. Anche l’altra porta si apre.
Corriamo fuori, nella città dei morti, di notte.
Non ero mai stato nelle sue strade, finora le avevo viste solo
dall’alto, da dove sembravano buie e deserte. Invece sono piene di
vita morta e sono anche piene di luci, solo che dall’alto non si vedono tanto sono lontane da terra le cime dei grattacieli dei morti.
Continuiamo a correre lungo queste strade piene di morti e di
luci, e lui tiene sempre stretta con forza la mia mano.
Bisogna stare attaccati e quasi saldati, da morti, perché se no ci
si perde, perché i turbini dei nuovi morti e la tracimazione dei vivi
nei morti sconvolgono continuamente ogni cosa e strappano lontani gli uni dagli altri i morti che si erano trovati per un istante vicini nel continente dei morti.
Passiamo davanti a grandi vetrine lesionate, dove sono esposti
in questa luce nera i vestiti dei morti. Riesco a scorgere anche cor74
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rendo enormi distese di morti seduti a perdita d’occhio dietro le
vetrate sfondate dei ristoranti.
«I morti mangiano?» grido con enorme stupore all’uomo che
continua a correre al mio fianco tenendomi per la mano. «Ci sono
i ristoranti dei morti?»
«Sì, è tutto come tra i vivi, solo che è tutto morto. Qui è tutto morto dentro la vita. Nella vita è tutto vivo dentro la morte.»
«Ma che cosa mangiano i morti?» gli chiedo ancora, correndo.
«Mangiano la morte dei vivi» mi risponde correndo.
«E i vivi? Che cosa mangiano i vivi?»
«Mangiano la vita dei morti.»
Sento, attraverso la mano che tiene il mio corpo saldato al suo,
che è scosso da un brivido di esultanza mentre continuiamo a correre a perdifiato lungo questa strada dai marciapiedi sfondati. Tutto il mondo dei morti pullula da ogni parte di vita morta. Faccio
ancora in tempo a vedere, mentre oltrepassiamo un’ultima vetrata
qua e là fracassata dal terremoto e imbocchiamo una nuova strada ancora più grande e più gremita di folla morta, sterminate distese di bocche morte intente a divorare la morte dei vivi nell’abbagliante luce nera dei morti.
Ci sono fiumane di giovani donne e di giovani uomini morti che si
accalcano fuori dalle porte scentrate delle discoteche da cui erompe
la percussiva musica senza suono dei morti, per andare a comprimere e sfregare gli uni contro gli altri là dentro le turgide superfici dei loro corpi morti, mentre dall’alto dei grattacieli che incombono sulle strade continuano ad arrivare da un’infinita distanza
quegli urli disperati e quei singhiozzi e quei lamenti e quei pianti.
«Dove stiamo andando?» provo a domandare a chi corre a perdifiato al mio fianco.
Non mi risponde. Aumenta ancora di più la corsa, getta indietro
la testa fendendo l’accecante luce nera che illumina la città dei morti.
Stiamo correndo così forte che ogni tanto i nostri due corpi saldati
come un unico blocco gettano di lato il corpo di qualche morto che
sta camminando da solo sul marciapiede e che non è abbastanza
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veloce a farsi da parte, di qualche coppia di morti che si spostano
tenendosi stretti con le mani e le braccia per non venire allontanati
l’uno dall’altro dai turbini dei sempre nuovi vivi e dei nuovi morti.
«Ma perché stiamo correndo così? Dove andiamo?» provo a
chiedere ancora.
Questa volta si gira verso di me, senza smettere di correre a perdifiato. Anch’io mi giro verso di lui. Vedo di fronte a me il suo indescrivibile volto che mi sorride, stagliato nella luce nera che illumina le città dei morti.
«C’è stata la resurrezione!» mi dice senza smettere di correre, con
la testa girata verso di me, nera, abbagliata. «Forse anche la persona che stai cercando è risorta! Forse è stata presa anche lei dentro
il turbine della resurrezione!»
«Ma perché corriamo?»
«Perché i risorti corrono!» mi grida.
Lo guardo con gli occhi sbarrati.
«Ma allora tu chi sei?» gli domando.
«Io sono il risorto!»
«Ma non eri Lazzaro?»
«Sì, ma Lazzaro è risorto, e allora adesso sono il risorto!»
Le nostre spalle in corsa gettano di lato altri corpi che stavano
avanzando piano sui marciapiedi, oppure che erano fermi, incagliati.
«Ma perché?» grido ancora.
«Perché ogni cosa è spaccata in due, perché la morte viene prima, perché ogni cosa succede prima che sia successa.»
«Allora tu sei Gesù?»
«No, Gesù è diventato Lazzaro!»
«Ma Lazzaro è diventato Gesù!»
«Però Gesù diventato Lazzaro non ha voluto risorgere!»
«Ma allora lui adesso dov’è?»
Non mi risponde più, però corre, corre ancora più forte, lungo
queste grandi vie piene di vita morta, in quest’accecante luce nera
che c’è nelle città e nel continente dei morti, con la testa girata verso la strada, verso la linea di fuga di questa fenditura su cui incom76
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bono le alte sagome illuminate e sfasciate dei grattacieli dei morti, con gli occhi spalancati e bagnati, forse a causa del vento che
ci viene contro nella velocità della nostra corsa, tutto il volto rigato di grosse lacrime che gli stanno scendendo dagli occhi e gli volano via dalla testa, una per una, distintamente, nell’aria nera del
mondo, mentre corriamo tenendoci per mano in questo finimondo di luci morte e di grida.
Allora viene da piangere anche a me, sento che anche i miei occhi
in corsa si stanno inondando di lacrime che scendono senza freno
lungo le mie guance, la bocca, tutto il mio corpo è scosso da questo
primo pianto da morto, che è diverso da quello dei vivi, perché i
vivi piangono perché sanno di non essere vivi, i morti piangono
perché sanno di non essere morti.
«Perché sto correndo anch’io?» gli domando, con la voce che trema, la gola chiusa. «Io non sono risorto!»
«Se tu sei unito a un risorto, anche tu sei risorto!»
«No!» gli rispondo, togliendomi le lacrime dagli occhi con l’altra mano per poter continuare a vedere le strade. «Io non voglio
far risorgere la mia vita dentro la morte! Io non entrerò con la mia
morte nella catastrofe della resurrezione dei morti!»
Lui non dice niente, non mi risponde, corre.
Ci sono fiumane di macchine morte che solcano le strade delle
città dei morti. Vanno avanti piano, tale è la ressa dei morti. Si fermano ai semafori, quando si accende la loro luce nera che palpita
sul fondo nero della luce dei morti. Riprendono ad andare quando
il semaforo diventa di nuovo nero anche se era già nero, ma piano,
molto piano, in colonne di luci nere che devono fermarsi continuamente tanto sono intasate di traffico le città dei morti. Però non
si sentono quei rumori laceranti di clacson come nelle città dei vivi,
quelle imprecazioni gridate da teste infuriate che sporgono dai finestrini. Si sente solo, dall’interno delle macchine incagliate e dalle portiere chiuse, un rumore attutito di singhiozzi, di pianti. “Ma
dove andranno, bloccati dentro le loro macchine che si muovono
a malapena in queste sterminate città che crescono continuamen77
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te?” mi domando senza smettere di correre, saldato alla mano del
risorto che mi sta trascinando chissà dove. ”Dove vanno, se sono
morti? In quale vortice sono presi? E io dove sono finito? In quale
vortice sono preso? Che mondo è questo? Quando ero tra i vivi, e
vedevo tutte quelle macchine che si spostavano nella notte, con le
loro luci, mi sembravano piene di morti. Il guidatore immobile, le
altre persone sedute che andavano chissà dove, le loro teste intraviste nel buio, che si confondevano con i poggiateste. Anche i grandi assembramenti umani, tutte quelle masse di corpi che riempivano le strade, gli edifici, le piazze e gli altri contenitori di corpi
mi sembravano tutti pieni di morti. Gli uomini e le donne scollate fermi sui marciapiedi di fronte alle vetrine illuminate delle enoteche, di notte, dopo una giornata di lavoro, con il calice in una
mano, la sigaretta nell’altra, da cui suggevano quell’aria densa satura di particelle in combustione con le loro labbra dipinte, tra un
sorso e l’altro, mi sembravano morti animati da qualche inarrestabile energia elettrica che non gli dava pace. Andavo a rifugiarmi in
quel residence completamente deserto, fuori stagione, in pieno inverno, quando ero troppo disperato di essere vivo, di vedere intorno a me tutta quella vita dentro la morte. E non c’era nessun altro
oltre a me, in quell’enorme scatolone vuoto tutto pieno di stanze
buie, in quelle notti in cui si sentiva solo il vento fischiare contro gli
spigoli del casamento, vedevo solo la piscina coperta da una fredda cerata, a sollevare la tapparella e a guardare in basso, immobile dietro la finestra buia della stanza, in quella località deserta durante i mesi dell’inverno, qualche palma illuminata da un riflettore
posto alla base, che si stagliava nel buio, spettrale, le stanze vuote,
i corridoi vuoti, solo il rimbombo dei miei passi che camminavano in quella solitudine e in quell’enorme silenzio, il suono delle
porte dell’ascensore che si aprivano al piano, con la sua luce accecata e il suo specchio dove credono di vedersi i vivi, le altre porte
che si aprivano a distanza azionate da fotocellule che continuavano a palpitare nella penombra. Non c’era nessuno, era notte fonda, non veniva un suono da nessuna di quelle successioni di porte
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chiuse che c’erano ai lati dei corridoi, a ogni piano, eppure mi pareva che tutto quell’enorme spazio deserto e abbandonato dai vivi
fosse pieno di morti, che tutte quelle stanze deserte fossero in realtà piene di morti che io non vedevo ma che gremivano durante la
bassa stagione quell’enorme edificio, a ogni piano, i suoi corridoi,
la cabina abbagliata dell’ascensore che saliva e scendeva all’esterno, nel buio, che tutto quello spazio dimenticato e fuori dal mondo
fosse gremito di morti tracimati e di presenze e di ombre. Adesso
che sono morto, queste città sterminate e lesionate dove si abbattono sempre nuove ondate di morti mi sembrano piene di vivi. Ma
poi... che cos’è la vita? Che cos’è la morte? Che cosa sono le morti?
Che siano zone più dense di creazione? E ancora, se la morte è prima, io dov’ero prima? Dove sono adesso? Se adesso sono nell’aldilà e l’aldilà è prima, dov’ero quando ero nell’aldiqua?”
Continuiamo a correre, in queste strade che non finiscono mai,
in queste città sterminate e piene di luci morte e di grida che ricoprono il continente dei morti, io e quest’uomo risorto che mi tiene
saldamente per mano.
«Vieni con me!» mi grida d’un tratto, anche se le nostre mani e
le nostre dita sono incernierate e non potrei andare da nessun’altra parte.
E intanto vedo scorrere vicino alla mia testa in corsa, dietro altre
distese di vetrine illuminate e sfondate, successioni di teste femminili morte reclinate sopra i lettini o spenzolate nel vuoto, manipolate dalle lunghe dita dipinte di altre donne morte che spargono unguenti sui loro volti e sui loro capelli morti, e di mani e di
piedi femminili morti tormentati da piccoli strumenti di metallo e
da uncini maneggiati da altre figure femminili attonite e assorte, a
capo chino sulle loro unghie minerali morte.
«Che cosa sono quelli?» domando continuando a correre così forte
che ogni tanto inciampo su questi marciapiedi sfasciati, e allora la
mano che stringe forte la mia mi sorregge impedendomi di cadere.
«Sono gli istituti di bellezza dei morti!» mi risponde il risorto
senza fermarsi.
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«Ma che cos’è la bellezza per i morti? Che bellezza può esserci per i morti?»
«La morte viene prima, la bellezza viene prima! Ci può essere
bellezza solo per i morti.»
«La morte è ancora la vita!» gli grido allora senza fermarmi, con
la testa girata verso la vetrina.
«La vita è ancora la morte!» sento che la sua voce mi sta rispondendo. «Per questo io sono venuto nel continente dei morti: per far
risorgere la vita e la morte.»
«Ma allora tu sei il resurrettore!»
«Io sono il risorto due volte: dalla morte che viene dopo la vita
e da quella che viene prima.»
Non dico più niente per un po’, non gli rispondo. Scorgo solo di
me, contro il piano inclinato dei marciapiedi in frantumi, il balenare delle mie gambe che corrono verso chissà dove.
«La resurrezione è ancora la vita!» gli grido ancora. «La resurrezione è ancora la morte!»
Rimane anche lui in silenzio, per un po’. Sta ancora piangendo,
perché distinguo a una a una quelle gocce che si staccano dai suoi
occhi e dalla sua testa e volano via nel vento della corsa.
«Io sto muovendo i miei primi passi nel continente dei morti...»
comincia a dirmi d’un tratto, girando la sua testa bagnata verso di
me, a voce bassa.
«Ma se sei risorto da duemila anni!»
«No, quello che è successo prima succede dopo, sta succedendo adesso! Mi sto muovendo anch’io in un mondo che non conosco, che non posso conoscere perché la resurrezione viene prima della conoscenza. Io sto facendo tracimare la morte nella vita,
io sono venuto a portare nel continente dei morti il vortice della
resurrezione.»
Le strade sono piene di macchine guidate da morti che piangono dietro i finestrini chiusi, incagliati. I marciapiedi sconnessi sono
pieni di morti che si spostano in silenzio in questa luce nera che
c’è dove cominciano le città e il continente dei morti, i vetri fran80
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tumati dei negozi e degli istituti di bellezza e dei ristoranti fanno
filtrare il suono attutito della morte che sta divorando la vita che
c’è dentro la morte. Però, a poco a poco, o d’un tratto, mi sembra
di sentire un suono cadenzato, prima leggero, poi più forte, sempre più forte, come se qualcun altro sbucato da chissà dove stesse
correndo alle nostre spalle.
Mi giro per un istante a guardare, facendo ruotare la testa in cima
al mio corpo in corsa.
Sì, c’è un uomo che sta correndo a perdifiato dietro di noi. È ancora lontano ma si sente già il rumore cadenzato dei suoi passi che
scavalcano con un balzo le zone sconquassate dei marciapiedi e riprendono a correre.
«Chi è quell’uomo che corre?» domando.
«È un risorto, è uno che corre verso la resurrezione! È uno preso dentro il vortice della resurrezione che la mia venuta nel continente dei morti ha suscitato. Vedrai che ce ne saranno altri, ce ne
sono già molti altri!»
Dopo un po’ infatti sento che se ne è aggiunto un altro, poi un
altro ancora. Donne e uomini che corrono a perdifiato alle nostre
spalle. Alcuni sono balzati fuori dalle porticine lesionate dei grattacieli che ci sono a filo con le strade, dalle vetrate dei ristoranti,
senza neanche forbirsi la bocca col tovagliolo, dopo avere avvertito all’improvviso anche da là dentro il vento della nostra corsa.
Altri hanno ancora le teste lucide di unguenti e i volti irriconoscibili dietro un velo deformante di creme, altri ancora e altre ancora sono balzati fuori dalle discoteche da cui viene quel rimbombo percussivo che fa tremare l’aria nera e il filo dei marciapiedi e
delle strade, hanno ancora gli occhi sbarrati, sono ancora intontiti,
però cominciano a correre anche loro, corrono a perdifiato, prima
isolati gli uni dagli altri, poi sempre più vicini, alcuni sono già così
vicini che riescono a prendersi per mano, per non essere strappati via e separati dal vortice della tracimazione dei vivi e dei morti
e della resurrezione dentro la morte.
Non giro più la testa, non ho neanche più bisogno di voltarmi
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per capire che cresce sempre più il numero di quelli che corrono a
perdifiato alle nostre spalle.
«Lo senti?» grida vicino a me l’altra testa. «Stanno crescendo sempre più le schiere di quelli che corrono verso la resurrezione. Forse tra i risorti ci sarà anche la persona che tu stai cercando. Forse
la vedrai correre improvvisamente al tuo fianco, ti prenderà anche
lei per mano, e correrete tutti e due insieme verso la resurrezione!»
«No! No!» gli grido improvvisamente. «Lei non risorgerà! Io non
risorgerò! Lei non mi ha seguito fin dentro la morte solo per risorgere dentro la morte! Io non l’ho seguita fin dentro la morte solo
per risorgere dentro la morte!»
Nello stesso istante sento che una mano mi prende l’altra mano,
alla mia sinistra, con forza.
Giro la testa.
È lo stesso, identico uomo che sta correndo anche alla mia destra.
«E tu chi sei?» gli domando, gli grido.
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I risorti
«Io sono Lazzaro!» mi risponde.
«Ma prima Lazzaro non era l’altro?»
«No, sono io Lazzaro!»
«Perché?»
«Perché la morte viene prima.»
«Allora sei Gesù che è diventato Lazzaro?»
«No, perché Gesù che è diventato Lazzaro non è voluto risorgere.»
Mi stringe forte la mano, dall’altra parte, continuando a correre a grandi falcate, al mio fianco. Adesso siamo un unico blocco di
tre persone in corsa che fende la folla dei morti.
«Sei un altro Lazzaro?» gli chiedo ancora girando la testa dalla
sua parte e gridando.
«No, c’è un solo Lazzaro!»
«Perché?»
«Perché la morte viene prima. Perché quello che viene prima
viene dopo. Perché io ero morto prima di essere quello che è risorto e prima di essere quello che non è voluto risorgere.»
«Ma allora perché siete in due?»
«Perché tutto il mondo è spaccato in due. Perché anche Lazzaro è spaccato in due. Lui è Lazzaro che è risorto. Io sono Lazzaro
che non è risorto.»
«Ma allora perché corri insieme all’altro Lazzaro? Adesso vuoi
risorgere anche tu?»
«No, io non risorgerò!»
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«Ma quelli che corrono non sono i risorti? Non sono quelli già
entrati nel vortice della resurrezione?»
«Devo entrare anch’io nel vortice della resurrezione se voglio
strapparli alla resurrezione. Io devo strappare a uno a uno i morti
alla resurrezione dentro la morte. Io devo strappare anche te alla
resurrezione dentro la morte.»
Sento che mi sta stringendo più forte la mano, mentre corro all’impazzata, sento che la sua mano e anche l’altra mano mi sorreggono
quando perdo l’equilibrio per la velocità della corsa su questi marciapiedi sfondati, e devo fare due o tre passi in rapida successione
per non piombare a terra di schianto, perché da morti si può continuare a correre a perdifiato senza mai sfiancarsi, se poi si corre,
se non si è invece dentro un’immobilità che sfonda i limiti dell’immobilità e del movimento del mondo.
Mi stringe forte, la sua mano mi attira verso di sé mentre non
smettiamo di correre, per svellermi dall’altra mano che mi sta stringendo a sua volta con forza, dall’altra parte.
Si inclina sul fianco, correndo, butta il corpo di lato per tirare
con ancora più forza, e strappare il mio corpo dalla morsa dell’altro corpo.
Strappa violentemente, una volta, due volte.
Sento che il mio corpo si è separato da quello del risorto, che le
nostre mani incernierate si sono improvvisamente staccate.
Faccio in tempo a vedere ancora per un istante la testa del risorto mentre si gira con infinito stupore a guardarmi, e poi mentre si
gira di nuovo verso questo finimondo di strade, e poi mentre si allontana continuando a correre da solo alla testa dei risorti.
«Ecco, lui adesso con la sua corsa sta trascinando ogni cosa nel
vortice della resurrezione dentro la morte» mi dice Lazzaro continuando a correre al mio fianco, con la sua mano incernierata alla
mia. «Sta sollevando il vento della resurrezione dentro la morte. Le
schiere dei risorti e dei morti che stanno tracimando si ingrossano
sempre più alle sue spalle. Lui li sta trascinando con la sua corsa
cieca attraverso il continente dei morti, dove è venuto per farli risor84
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gere dentro la morte. Li strappa a uno a uno dagli altri morti. Stanno già nascendo i primi nuclei di morti che si riuniscono di nascosto
dentro le stanze lesionate dei grattacieli, cominciano già ad arruolare altri morti, si stanno già formando i primi gruppi di tracimazione
e di combattimento che si appartano in certi angoli dei grandi edifici dove si ammassano i morti, si passano di bocca in bocca parole d’ordine, piani, messaggi cifrati, perché hanno già sentito il vento della resurrezione che si è sollevato con la sua corsa. Crescerà a
poco a poco il numero dei morti che vorranno risorgere e tracimare dentro la morte, mentre cresce anche quello dei vivi che stanno
cominciando a tracimare telluricamente nel continente dei morti. E
allora lui raccoglierà le prime schiere dei risorti dentro la morte, e
le inciterà a conquistare alla resurrezione sempre nuove schiere di
morti, ci saranno moltitudini di morti che si riuniranno per risorgere dentro la morte, nelle strade spaccate, nelle piazze tagliate da
parte a parte dalle crepe, nei grandi stadi lesionati dove si riuniscono i morti, tutto il continente dei morti sarà attraversato dal vento
della resurrezione dentro la morte.»
«E tu?» gli grido allora. «Perché stai correndo anche tu?»
«Io corro per trascinare ogni cosa nel vortice della morte. Io devo
sollevare il vento della morte nel continente dei morti. Lui si sta
mettendo a capo dei morti che vogliono risorgere dentro la morte,
io di quelli che vogliono restare in morte dentro la vita!»
«Ma allora dov’è finito quello che faceva risorgere la morte e la
vita?»
«Per far risorgere la morte bisogna far risorgere la vita dentro la
morte. Per far risorgere la vita bisogna far risorgere la morte dentro la vita.»
Non dico più niente. Continuo a correre vicino a Lazzaro, che mi
tiene per mano, con la testa inclinata nella corsa, tutto il volto luccicante per le lacrime che scendono dai suoi occhi, perché adesso
sta piangendo anche lui, scorgo le lacrime che si staccano distintamente dalla sua testa e volano via in questa luce nera che c’è nelle
città e nel continente dei morti.
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«Io sto cercando una ragazza in abito da sposa» gli dico irresistibilmente dopo un po’, con la voce che trema. «Lei mi ha seguito
fin nel continente dei morti. Lei mi ha fotografato con il suo corpo
e con la sua vita e con la sua morte, adesso siamo tutti e due dentro la stessa luce che c’è dentro il bagliore nero del mondo.»
«Lei è la sposa dei morti!» mi dice soltanto l’altra voce e l’altra
testa che sta correndo al mio fianco.
«La sposa dei morti?»
Non mi risponde. Scorgo solo, al mio fianco, la sua testa che corre e piange.
«Ma dove sarà adesso?» gli domando ancora, gli grido. «Sarà finita nel vortice della resurrezione dentro la morte o in quello della morte dentro la vita? Perché ci sono questi continui vortici che
staccano le persone le une dalle altre nella morte che c’è dentro la
vita e nella vita che c’è dentro la morte?»
E intanto pensavo, fantasticavo come si può fantasticare solo da
morti, che d’un tratto una persona, correndo, si affiancava a noi, e
che una mano prendeva l’altra mano di Lazzaro, dall’altra parte, continuando a correre assieme a noi, tutti e tre come in un unico blocco saldato che correva a perdifiato nel vento della morte dentro la
vita, e che io non sapevo chi era, non la vedevo perché la sua testa
era nascosta dalla testa centrale che correva piangendo attraverso
le strade delle città e del continente dei morti. E che allora sporgevo ancora più in avanti il busto e la testa continuando a correre per
vedere chi era, correvo tutto sbilanciato in avanti e con la testa girata per riuscire a capire chi si era unito a noi in quella disperata corsa dentro la morte. E che allora la vedevo di colpo, dall’altra parte,
saldata a me attraverso il corpo e la mano di Lazzaro che ci teneva
stretti tutti e due nella corsa, col suo abito da sposa, i suoi occhi socchiusi, la sua bocca che sorrideva in silenzio, la nuvola dei capelli, e che allora mi veniva da pensare improvvisamente: “Verso cosa
stiamo correndo, se non stiamo correndo verso la resurrezione?”.
Ma Lazzaro non mi risponde. Corre e piange.
Si cominciano a vedere a poco a poco altri morti che si fermano
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a guardarci dai lati delle strade sfasciate mentre passiamo, di fronte alle vetrine squarciate o sporgendo le teste fuori dalle pareti di
vetro dei grattacieli sfondati.
“Chi sono quei due che stanno correndo così all’impazzata dentro la morte?” si domandano continuando a guardarci. “Noi eravamo qui, seduti in mezzo a queste distese sterminate di teste che
gremiscono i ristoranti dei morti, stavamo mangiando con la nostra
morte la morte dei vivi, stavamo facendoci pettinare i nostri capelli
morti, stavamo allungando le nostre mani morte per farle dipingere da altre mani morte negli istituti di bellezza dei morti, stavamo
sfregando il turgore dei nostri corpi morti contro altri corpi morti
che perdevano incontrollabilmente i loro liquidi morti nella metastasi percussiva di quei suoni morti, stavamo scopando nelle stanze lesionate dei nostri grattacieli, eravamo dentro altri corpi morti con la furia dei nostri corpi morti, stavamo rimestando dentro la
loro morte con la nostra morte, abbiamo dovuto sporgere le nostre
teste morte fuori dalle brecce delle pareti di vetro sfondate, senza smettere di scopare, quando abbiamo sentito questo vento salire improvvisamente dal basso, dalle strade, mentre pensavamo di
essere già tutti dentro la morte e che non si potesse essere ancora
di più dentro la morte, e invece adesso sentiamo questo vento che
trascina ancora di più la morte dentro il turbine della morte, e allora correremo fuori, con le radici dei nostri corpi e le nostre bocche
ancora bagnate, le nostre teste scomposte, le nostre unghie minerali mezze dipinte, per unirci anche noi a chi sta correndo a perdifiato dentro la morte che c’è dentro la morte che c’è dentro la vita
che c’è dentro la morte...”
Io non lo so perché, non so cosa farci, ma qui tutto si palesa così, e allora anch’io posso farvi balenare e posso raccontarvi qualcosa solo così, per movimenti improvvisi di faglia, per
vortici, per spaccature, per espansioni, per urti, per folate e per
sciami sismici.
Si comincia a sentire il suono di altri passi in corsa alle nostre
spalle.
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Mi giro a guardare.
Ci sono già alcuni morti che stanno correndo dietro di noi, presi nel vortice della morte che c’è dentro la morte.
«Quelli sono solo i primi!» mi grida Lazzaro, senza girare la testa verso di me. «Ce ne saranno altri, si uniranno a noi molti altri
morti, ci saranno schiere sempre più grandi di morti che si passeranno parola e verranno presi nel nostro vortice dentro la morte.
Si cominceranno a riunire in segreto, cominceranno ad arruolare
altri morti e a formare i primi gruppi di combattimento di morti
contro la tracimazione dei morti nella vita che c’è dentro la morte
e contro la tracimazione dei vivi dentro la morte.»
«Non dire noi!» gli grido, correndo. «Io non ho voluto restare in
vita dentro la morte! Io non voglio restare in morte dentro la vita!»
Non mi risponde, continua a correre e a parlare e a gridare, come
se non mi avesse neppure sentito.
«E allora, alla fine, quando tutti i morti saranno dentro la morte, e terranno sollevata con la loro morte la vita dentro la morte, tu
la troverai e lei ti troverà, tu la potrai finalmente incontrare, ti potrai congiungere con la sposa dei morti nel continente dei morti.»
«Quando ero vivo, non riuscivo a stare dentro la vita!» gli grido
ancora. «Adesso che sono morto non riesco a stare dentro la morte!»
Il rumore dei passi in corsa cresce ancora di più alle nostre spalle.
Sempre nuovi morti entrano nel vento della nostra corsa. E anche
mentre si staccano dai marciapiedi e balzano fuori dai ristoranti e
dagli altri locali dei morti e scaturiscono con tutti i loro corpi dalle crepe dei grattacieli di vetro dalle pareti infrante dal terremoto
e cominciano a correre a perdifiato alle nostre spalle, continuano
a domandarsi da quale morte si sono improvvisamente staccati,
in quale altra morte si stanno gettando se erano già morti dentro
la vita e dentro la morte, e intanto continuano a correre e a piangere e a pensare e a fantasticare: “Da quale morte ci siamo staccati? Perché ci sono questi continui movimenti di faglia anche dentro la morte? Perché ci ha preso improvvisamente questo impulso
cieco di essere ancora più morti dentro la morte? Noi eravamo là,
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abbandonati dentro la morte, stavamo guardando con i nostri occhi morti altri occhi morti, stavamo stringendo tra le nostre braccia altri fasci di corpi morti che tremavano e urlavano di piacere dentro la morte, stavamo chinati con le nostre teste morte sulle
bolle dei nostri computer dalle luci nere che palpitano nella notte dei morti, stavamo digitando sulle tastiere con le nostre mani
morte, stavamo muovendo con le mani i nostri mouse e i nostri
puntatori morti sopra gli schermi, stavamo navigando in cerca di
altri morti da raggiungere dentro la morte, stavamo suscitando legami e vincoli morti all’interno del continente dei morti, stavamo
carpendo dall’interno di quelle tempeste elettromagnetiche morte
altre presenze o parvenze dentro il turbine delle continue immissioni di nuovi morti e di nuovi vivi dentro la morte. Chat-line, incontri al buio, persone suscitate da morte che vi vengono incontro
per un istante in questa luce nera che c’è nel continente dei morti,
lungo queste strade dissestate dalle continue scosse sismiche che
investono le città dei morti, nelle stanze dei grattacieli e delle torri
di vetro che scricchiolano e si frantumano nel cielo nero dei morti.
Qualcuno di noi ha persino intercettato per un istante qualche vivo
tracimato dentro la morte, che ha fatto irruzione attraverso i turbini elettromagnetici morti che investono in un unico smottamento i
computer dei vivi come quelli dei morti e li connettono tra di loro
attraverso tempo e spazio allagati, attraverso la storia della vita e
della morte del mondo. E adesso, all’improvviso, siamo tutti qui,
nelle strade, stiamo percuotendo coi nostri passi questi selciati e
questi marciapiedi divelti, stiamo correndo alle spalle di quei due
che corrono tenendosi per mano e che hanno suscitato questo vento che ha investito di colpo la nostra morte dentro la vita e la nostra vita dentro la morte...”.
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Tutto il mondo è spaccato in due
Quando ero tra i vivi e mi muovevo nel mondo con il mio corpo che
percepivo di tanto in tanto come vivo, mi sembrava sempre di venire da un’altra parte e da un altro mondo. Adesso che sono morto mi sembra ancora di venire da un’altra parte, da un’altra parte
e da un altro mondo. Ve l’ho già detto: allora mi sembrava di vivere in un mondo di morti, adesso mi sembra di vivere in un mondo
di vivi. Allora mi sembrava di combattere contro dei morti, adesso mi sembra di combattere contro dei vivi.
Allora mi spostavo per le strade, di notte, da solo, e vedevo intorno a me tutte quelle luci e quella folla di morti. La solcavo senza pensare a niente, senza vedere niente, nella metastasi di quelle
luci morte. Sprofondavo sempre più in quella vita morta e mi passava di tanto in tanto per la mente che stava succedendo qualcosa
di enorme nel mondo, che era già successo, ma che nessuno se ne
accorgeva, che tutta quella folla stava camminando sull’orlo di un
precipizio, che l’aveva già oltrepassato e che era già da una parte
mentre credeva di essere ancora dall’altra. Che tutto il mondo si
era spaccato in due. Che ogni cosa si era spaccata in due, che anche la nostra specie si era spaccata in due, che era in atto o che era
già avvenuta una divaricazione di specie, che stavamo vivendo in
una condizione mai conosciuta prima dagli appartenenti alla nostra specie e che quel continuo cercarsi ciecamente e quell’incernierarsi di genitali e di corpi era solo un tentativo per ritardare di
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un po’ questa divaricazione di specie che stava già avvenendo nelle
profondità delle nostre strutture genetiche e nei nostri cromosomi.
La notte scendeva sulle città dei vivi. I vivi si coricavano al buio
nelle loro case, nei loro letti, si abbandonavano alla perdita di conoscenza del sonno, cominciavano a sognare senza sapere che i loro
sogni erano dentro i sogni dei morti che stavano a loro volta sognando i sogni dei vivi. E intanto la loro specie non c’era più, si era
spaccata e sdoppiata, il loro mondo non c’era più, il loro Dio morto aveva già venduto il loro piccolo pianeta sperduto e tutto dentro
la morte, rotante in un braccio morto di una dei miliardi di galassie
che riempiono come sogni tutto questo universo buio pieno di galassie morte. Tutte le loro strutture, biologiche e mentali, e le loro
proiezioni, economiche, militari, culturali, e i meccanismi di autovalorizzazione che avevano saturato il mondo fino a un punto di non
ritorno erano già in preda all’autofagocitosi delle cellule. La vita si
era mangiata la vita, la morte si era mangiata la morte. E io ero là,
sprofondato in qualche zona e in qualche punto della vita e della
morte del mondo, sentivo sopra di me il suono lontano delle loro
voci morte. E non sapevo dov’ero, sapevo solo che ero in un punto che non c’era più, che non c’era ancora. Sono vissuto così dentro
il mondo dei vivi, sono vissuto così anche dentro il povero mondo della letteratura e degli scrittori vivi dentro la morte, dove ero
finito per sbaglio, per caso, come qualcosa che era completamente fuori dalla traiettoria del loro sguardo e del mondo, che era da
un’altra parte, che era sotto gli occhi di tutti ma che non si vedeva.
“Nessuno mi vede, nessuno saprà mai niente di tutto questo!”
mi dicevo, mi disperavo, quando ero vivo.
Ero solo e mi dilaniavo, gettavo brandelli del mio corpo contro altri corpi che si trovavano per un istante vicino a me nella solitudine infinita del mondo, per quella continua irruzione e tracimazione di vivi e di morti nel continente dei vivi dentro la morte.
Spingevo la testa in una latrina nera per vedere che cosa c’era in
fondo, dove andava a finire la vita dentro la morte e dove cominciava la morte dentro la vita.
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Dov’ero quando sono nato, quando è cominciata la mia vita dentro la morte? Io non ricordo nulla dei primi anni della mia vita dentro la morte. Mi capitava certe volte di leggere che le persone ricordano episodi anche molto lontani della loro vita dentro la morte.
Chi diceva di ricordare questa cosa, chi quell’altra. Certi sostenevano persino di ricordare qualcosa di quando erano ancora all’interno dell’utero materno, di quando erano sprofondati nel buio ed
erano infinitamente vicini alla morte che viene prima. Io non ricordo nulla dell’inizio della mia vita. Ricordo solo la spaventosa,
traumatizzante violenza del soldato che ha inseminato mia madre
e che mi ha strappato fuori dalla morte che viene prima, reso folle dalla sconfitta nella più grande guerra che sia mai stata combattuta tra i vivi. Ma questo più avanti, mi pare, a meno che non l’abbia percepita fin dall’inizio della mia vita dentro la morte, e che
questa insostenibile esperienza e questo trauma mi abbiano reso
intontito fin dall’inizio. Ricordo solo le notti di terrore quando la
sua violenza si scatenava nel mondo, gli urli di mia madre gettata
per terra e massacrata a pugni e calci sul corpo e sul volto, trascinata come un sacco insanguinato per terra, i suoi versi di animale
scannato, le sue implorazioni. Quella stanza buia dalla tappezzeria blu scura in cui mi andavo a rifugiare in quei giorni e in quelle interminabili notti della mia vita dentro la morte, vicino al letto
su cui era coricata quella povera vecchia cieca infinitamente orribile e infinitamente buona. E poi anche qualcosa di più indicibile, di cui non ho mai parlato, di cui mai parlerò, di cui non si può
parlare, che devo custodire dentro di me attraverso la vita e attraverso la morte del mondo. Io ho dovuto fin dall’inizio distinguere
i contorni delle cose del mondo dall’interno di questo terribile intontimento e di questo trauma.
E poi gli anni del seminario. Le disperate luci della città che vedevo di notte, in quella sconfinata separazione e in quell’enorme
silenzio del mondo, dopo che la mia vita era stata saturata da quella violenza e da quella lacerazione e da quella profanazione. Quel
silenzio dove io invece mi trovavo a mio agio dentro la vita che
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era tutta dentro la morte, da cui è cominciata questa esplorazione
e questa invenzione e ha preso forma questo contromovimento e
questo traboccamento che era già fin dall’inizio tutto dentro vita
e morte create. È stato lì che ho incontrato per la prima volta quel
demonio che poi ha continuato ad attraversare la mia vita dentro
la morte. Come si chiamava? Ah, sì, il Gatto! Al quale ho servito
la prima messa quando è stato ordinato sacerdote, e tremava così
violentemente sopra l’altare che sembrava sempre sul punto di
spezzarsi. Perché tremava così forte? Solo per l’enormità di quello che stava avvenendo? Solo perché i suoi occhi avevano colto al
suo nascere, su quel foglio che mi aveva sorpreso a scrivere e che
mi aveva non so come carpito, il bagliore iniziale di tutto questo?
Solo perché toccava a lui portare nel continente dei vivi quella lacerante risata e quel tremito di ogni cosa nel buio e nella luce del
mondo? O era anche per qualcosa d’altro? E io muovevo il turibolo
contro la sua testa e il suo volto che si avvicinavano e si allontanavano a ogni oscillazione come se fossero tenuti uniti da un elastico al resto del suo corpo ricoperto di paramenti, scorgevo attraverso la nuvola dell’incenso il suo volto che tremava con violenza
per contenere dentro di sé quell’enorme esplosione nel suo istante di inizio dentro la vita e dentro la morte del mondo. E c’era anche quell’uomo con gli occhiali che arrivava ogni tanto chissà da
dove e che cercava di ritrovare il punto da cui era iniziata questa
spaccatura della vita e della morte del mondo, e si sedeva attonito
alla tavolata del refettorio. E quella Suora Nera che saliva a piedi
nudi sopra l’altare per mettere i vasi di fiori e che poi ho visto balenare un’altra volta nella mia vita, quando mi spostavo nelle città addormentate dei vivi per portare la rivoluzione dentro la vita
che è dentro la morte, durante una notte di tumulti in quella città
rastrellata, alla testa di quel manipolo di guerrieri, mentre conficcava quel ferro da calza nella narice di uno dei piumanti rimasto
intrappolato, e poi ci passava sopra due dita per pulirlo, si portava alle labbra frammenti di cervello rimasti appiccicati, come quel
giorno che aveva passato le dita sulla lama filiforme del coltello e
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poi si era portata alle labbra i frammenti di formaggio dietro la fessura della giostra di legno del portavivande. E c’era anche quel seminarista sordomuto con la testa ricoperta da una crosta gelatinosa
e trasparente, dentro la quale si scorgevano di notte le luci di quelli che allora mi apparivano come plastici di città future illuminate nel buio irte di grattacieli e aeroporti ma che forse erano invece
le prime visioni delle sterminate città dei morti che mi balenavano
fin dall’inizio in quella membrana trasparente di faglia, come dai
fondi di vetro delle barche si possono scorgere le creature che popolano le profondità delle acque buie nel continente dei vivi. Che
immaginavo già ordinato sacerdote, mentre ascoltava nel più assoluto silenzio le confessioni, e poi, alla fine, la perfetta potenza
della sua mano che si sollevava al buio nel gesto muto dell’assoluzione. Cosa gli avrebbero confessato? Cosa avrebbero confessato
i vivi dentro la morte a un sacerdote che non poteva sentire nulla
e che non poteva parlare? Che poteva solo alzare di tanto in tanto la mano nell’oscurità più profonda, indistintamente, alla cieca,
per annientare e per assolvere il mondo? E io, cosa gli avrei confessato, quando ero vivo, se fossi andato a inginocchiarmi vicino a
lui seduto nel buio dentro un confessionale? Gli avrei forse detto,
spingendo la mia testa verso la sua testa, nel buio: “Padre, io credo che noi vivi siamo dentro una prigione buia, che tutta la vita
sia imprigionata dentro due branchie buie che la serrano da ogni
parte. Credo che tutta la nostra vita e tutto il nostro mondo e tutta la nostra specie siano un residuo buio di qualcosa che si trova
da qualche altra parte dentro un buio ancora più profondo e più
nero. Credo che anche la luce sia un manifestarsi di questo buio
che viene prima. Credo che più è forte la luce e più rende evidente tutto l’enorme buio dentro cui ci troviamo. Credo che la luce sia
tutta dentro il buio e che il buio sia tutto dentro la luce che c’è dentro il buio. Credo che quello che ci appare come il mondo naturale sia tutto dentro questo buio che c’è dentro la luce buia. Non c’è
nessun bene nel mondo, non c’è nessuna luce nel buio. Io sto dentro questo mondo e dentro questo buio con la mia lucina che ren94
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de ancora più compatto e più impenetrabile tutto questo buio. Il
mio rapporto con questa vita si è lacerato così a fondo che non si
può più ricomporre. Io desidero solo vivere da solo, lontano da
questo piccolo mondo perduto in cui sono finito per sbaglio, per
caso, e in cui non c’è nessuna luce, non c’è nessun bene. Ma allora
perché non mi do pace, perché combatto? mi chiedo. Perché cerco di tenere accesa una piccola luce dentro tutto questo buio? Perché mi getto così allo sbaraglio, perché cerco di evadere da questa
prigione buia? Perché cerco così disperatamente un passaggio con
il residuo del mio corpo nella cruna della mia vita nella vita e nella morte del mondo? Oh, Padre, potrà mai esserci assoluzione per
una simile colpa?”.
Sarei rimasto in silenzio, con le lacrime agli occhi, nel buio. Non
sarebbe venuta una parola dall’interno nero del confessionale, dal
prete sordomuto seduto immobile con la stola sopra le spalle, con
gli occhi chiusi, nel suo infinito silenzio.
Poi, da un leggerissimo fruscio di vesti, avrei capito d’un tratto che il suo braccio si stava sollevando nel buio, che la sua mano
si stava muovendo in quello spazio nero nel gesto apocalittico
dell’assoluzione.
E adesso che sono morto, se incontrassi quel sacerdote sordomuto, anche lui morto, se mi capitasse di incontrare in questa mia
corsa una sterminata folla di morti che fanno la fila per essere confessati da lui in uno di questi incroci o di queste enormi piazze spaccate dalle crepe aperte dal terremoto e dalla tracimazione dei vivi
nei morti, e se mi mettessi anch’io in fila, come mi sono messo in
fila per essere fotografato da morto, lungo quel corridoio nero rischiarato di tanto in tanto dai bagliori che venivano da quello stanzino dove la Pesca era riapparsa a me come fotografa dei morti,
e mi inginocchiassi alla fine vicino a lui, io morto e lui morto, che
cosa gli direi, quale sarebbe la mia confessione adesso?
Gli direi: “Padre, non solo i vivi ma anche noi morti viviamo dentro una prigione buia. Io non so cosa succederà adesso, che anche il
buio si è spaccato in due, che anche la luce si è spaccata in due, che
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anche la morte si è spaccata in due. Che ci sono morti che vogliono
diventare vivi per rivivere la loro vita dentro la morte e che ci sono
morti che vogliono rimanere morti dentro la vita che c’è dentro la
morte. E forse anche dall’altra parte, nella vita spaccata in due, ci
sono dei vivi che vogliono tracimare nel continente dei morti e ci
sono dei vivi che vogliono restare vivi dentro la morte. Io ero là,
nella vita. E c’era buio. E anche adesso c’è buio. E la luce che c’è in
questo buio non può che evidenziare questo enorme buio spaccato
in due. Io ero nel mondo, ma ero fuori dal mondo. E poi un giorno, mentre stavo camminando lungo un sentiero deserto... C’era
freddo, non c’era nessun altro vivo che si spostava su quello stesso
sentiero fuori dal mondo, in mezzo a quegli strapiombi disabitati.
C’erano appena state delle scosse di terremoto. Che fossero determinate dai morti che stavano tracimando nel mondo dei vivi? mi
domando adesso, che conosco le ragioni di questi smottamenti di
faglia e di questo sisma che sta attraversando da parte a parte la
vita e la morte. Mi ero da poco infilato la giacca a vento, ero uscito.
Avevo cominciato a camminare in quel mondo deserto, con la testa in fiamme, perché in quei giorni stavo fantasticando di scrivere
un libro sulla morte, o avevo già addirittura cominciato a scriverlo,
stavo già facendo i primi passi nel continente della morte, adesso
non mi ricordo... Non pensavo a niente. Muovevo le mie gambe e
il mio corpo in quella zona deserta e separata del mondo dei vivi,
scorgevo soltanto radici fuori di terra e protese nel vuoto lungo i
fianchi dove la montagna era franata per le forti piogge che avevano
investito in quei giorni il mondo dei vivi. Il sentiero su cui camminavo era tutto inciso e spaccato per le vene d’acqua che scendevano da ogni parte e scavavano solchi profondi dentro la terra. Non
vedevo niente. Camminavo e fantasticavo. C’era una luce che non
faceva vedere la luce. Il mio corpo avanzava lungo quel sentiero
di terra e di sassi in uno stato di incolmabile assenza, quasi privo
di conoscenza per quell’immensa disperazione e concentrazione.
D’un tratto, mentre ero così separato dal mondo, ho sentito venire
dal centro del mio corpo, dal punto dove c’è la pompa del cuore,
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un dolore lancinante che mi ha fatto mancare il fiato. Mi sono fermato, sono rimasto per un po’ così, in piedi nell’aria fredda, contro il muro della luce che c’è dentro il buio, mentre continui spasmi
si scatenavano incontrollabilmente dentro il mio corpo vivo dentro la morte. Sono rimasto fermo per un po’, poi ho ripreso a camminare, per cercare almeno di arrivare nella piccola casa dove mi
ero andato a rifugiare in quei giorni, anche se mi ci ero allontanato
di molto, per riuscire ad andare a buttarmi bocconi sul letto e crepare almeno così, non lungo quel sentiero deserto dove sarei morto assolutamente solo, in quella giornata livida, fredda, dove mi
avrebbero trovato chissà quanti giorni dopo, stecchito, perché di lì
non passava nessuno, c’erano solo gli animali che vivevano dentro i boschi e che di tanto in tanto attraversavano di corsa il sentiero, che sarebbero venuti intorno al mio corpo coricato per terra, qualcuno avrebbe provato a spingermi con il muso, per vedere
se ero morto davvero, qualcun altro avrebbe cominciato a morsicare il mio volto, avrebbe affondato le zanne nella carne della mia
pancia. E stavo camminando lentamente, a piccoli passi, per cercare di arrivare a casa, quando mi è successo di nuovo. Ho sentito che il mio corpo si stava squarciando. Non ho visto più niente.
Sono caduto a terra. Sono morto così, da solo, al freddo, in quella
enorme solitudine del mondo creato. Sì, sì, lo so... sembra anche a
me di ricordare che all’inizio avevo detto di essere morto in un altro modo, investito da una macchina mentre camminavo di notte per le strade di una città dei vivi succhiando un tronchetto di liquirizia e fantasticando. Mentre adesso vi sto invece dicendo che
sono morto lungo un sentiero deserto. Perché tutto questo? Perché
anche il tempo e lo spazio sono spaccati in due, perché la morte
viene prima, viene sempre prima, perché ogni cosa successa prima è successa dopo, perché anche la morte è spaccata in due. Ma
perché devo arrivare ogni volta a quel punto? Perché devo ogni
volta attraversare la fiamma per arrivare fino al cuore della fiamma, in quella luce bianca che cancella la luce che non fa vedere la
luce? Perché continuo a combattere e a gettarmi così allo sbaraglio
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dentro tutto il buio che c’è dentro la luce? Perché devo gettare tutta la mia vita e il mio corpo contro questo diaframma, e aprire tutta la mia vita e il mio corpo a questo combattimento? Perché devo
essere nello stesso tempo questo campo di battaglia e questa battaglia? Perché, come prima non accettavo la vita, così adesso non
accetto la morte che c’è dentro di me? Perché porto tutto il mio corpo e la mia mente fino a questo margine e a questo limite, per arrivare fino a quel punto e anche oltre? Perché devo stare ogni volta
con tutta la mia vita e con tutta la mia morte dentro questa frattura di faglia e dentro questa tracimazione? Io non sono uno scrittore, io non sono mai stato uno scrittore. Io sto facendo altro. Io non
riesco a stare dentro la prigione buia del mondo e neanche dentro
quella della letteratura della vita e della morte del mondo. Io sono
da un’altra parte. Oh, Padre, confessore dei morti, mio silenzioso
amico che ho incontrato per la prima volta nel continente dei vivi,
potrà mai esserci assoluzione per una simile colpa?”.
Così gli direi, adesso che sono morto.
E poi, subito, mi allontanerei da quel posto e ricomincerei a correre attraverso queste città sterminate che ci sono nel continente
dei morti, non aspetterei neppure di sentire se la sua mano si è levata o meno nell’aria nera per compiere il gesto sismico dell’assoluzione, non spingerei la mia testa nel buio per cercare di capire
dal leggero rumore della sua veste se il suo braccio si è sollevato
all’improvviso nel buio per calare sulla mia testa e sulla mia morte la mannaia dell’assoluzione. Continuerei a correre a perdifiato,
mentre altri morti, uno dopo l’altro, si inginocchierebbero a ondate al suo fianco per pronunciare vicino alle sue orecchie sigillate le
parole della loro confessione di morti.
Che cosa gli confesserebbero gli altri morti?
Gli direbbero: “Padre, noi eravamo vivi e adesso siamo morti.
Ma perché prima eravamo vivi e adesso siamo morti? E cosa possono confessare dei morti se non di essere stati vivi dentro la morte? Quando eravamo dentro la vita ci avevano detto che ci sarebbe
stato un giudizio, che le azioni dei vivi dentro la morte sarebbero
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state giudicate dai morti dentro la vita, ci avevano detto che enormi moltitudini di tracimati nel continente dei morti si sarebbero
radunate e sarebbero state investite dal turbine del giudizio. Che
la morte si sarebbe spaccata in due, che alcuni si sarebbero salvati
e altri si sarebbero dannati. Mentre adesso che siamo morti ci troviamo dentro qualcosa di completamente diverso, il turbine che
ci sta investendo non è quello del giudizio, la spaccatura non è
tra salvati e dannati ma tra chi vuole risorgere e chi non vuole risorgere. Al posto del giudizio abbiamo trovato nel continente dei
morti solo il terremoto della tracimazione e della resurrezione. Noi
stiamo raccontando la nostra vita e la nostra morte a un confessore
e a un giudice che non può sentire e che non può parlare, che può
solo alzare di tanto in tanto la mano nel gesto genocida dell’assoluzione. Che sia proprio questo il giudizio? Ma allora, se i morti
non possono giudicare i vivi e i vivi non possono giudicare i morti, che ne è dei vivi e dei morti? Che ne è della storia dei vivi e di
quella dei morti? Se anche la colpa e la storia si sono spaccate in
due, che storia può esserci per vivi e morti? Se c’è solo, se ci può
essere solo il terremoto dell’assoluzione, della resurrezione e della tracimazione, allora dove comincia la vita dentro la morte, dove
comincia la morte dentro la vita?”.
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