La cioccolata di Goldoni*
Transcript
La cioccolata di Goldoni*
La cioccolata di Goldoni* GIORGIO COSMACINI “Fu davanti a una bella tazza di cioccolata fumante che venne suggellata l’amicizia di Carlo Goldoni con il professor Bonafede Vitali”. La predilezione goldoniana per la cioccolata è nota quanto il fatto che il commediografo veneziano fu periodicamente soggetto alla “stravaganza di quei disturbi” da lui stesso diagnosticati nei propri Mémoires (Paris 1787), come recidivanti “vapori”. Un’auto-diagnosi attendibile, formulata da persona competente due volte: competente come figlio di un quasi-medico, Giulio Goldoni, benemerito venditore di medicinali in quel di Chioggia, e competente come malade imaginaire, afflitto più che affetto da ripetute crisi di malinconia, da “vapori”, appunto, secondo la nomenclatura delle malattie vigente nel Settecento e ancora in vigore nella prima metà del secolo successivo. I “vapori” sono “vampe”, recita un ottocentesco Dizionario dei termini di medicina compilato in Francia da una schiera di savants e tradotto in Italia quarant’anni dopo la morte a Parigi dell’ottantaseienne Goldoni, longevo ipocondriaco che passò la sua vita altalenando tra il buon umore delle proprie commedie e l’”umor nero” o “melancolia” nel quale si ribaltava di tanto in tanto, capovolgendosi, il suo temperamento. “Vapori, nome volgare dell’isteria e dell’“ipocondria”, così specifica, impietosamente, il predetto vocabolario, Il nome “isteria” era più adatto alle sole femmine, mentre il nome “ipocondria” si adattava bene ad ambedue i sessi. L’isteria era un’affezione correlata a un organo esclusivamente muliebre come l’utero - hystèra, in greco -, matrice della fecondità destinata ad accogliere il feto capace di movimenti (intrauterini) e perciò ritenuto mobile anch’esso e *Lo scritto riproduce il capitolo iniziale (g.c.) del libro di Giorgio Cosmacini, Il medico saltimbanco. Vita e avventure di Bonafede Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento, istrione di buona creanza, Laterza, Roma-Bari 2008. 84 Carlo Goldoni, (1707-1793). libero di spostarsi dentro il corpo fino a impattare contro il diaframma su cui poggiano il cuore e i polmoni, suscettibili – così si credeva – l’uno di sobbalzare e gli altri di restare soffocati portando la donna fino al deliquio. L’ipocondria era invece un’affezione correlata alla milza, che è un organo “ipocondriaco”, cioè “sottocostale”, al pari del fegato. Per entrambi non c’è differenza di sesso. Come il fegato produce la bile - kholè, in greco - e, se malato, la “chòlera”, così la milza produce l’atrabile o bile nera - mèlaina kholè, in greco - e, se malata, la “melancolia”. La malattia così etichettata (poi melanconia o malinconia) era anche detta “saturnofobia”, essendo la milza ritenuta, nell’universo zodiacale applicato al microcosmo del corpo umano, soggiacente a Saturno. Insomma, Goldoni, commediografo in carriera e bell’amoroso, scontò già da giovane le delusioni e le ansie tra insuccessi e successi, tra innamoramenti e disamori, con qualche attacco di “collera” alternato a frequanti contraccolpi di fiera “malinconia”. Fu, nei termini usati dai medici astrologi del tempo suo, un uomo “saturnino”. In termini moderni, fu quel che gli psichiatri o psicologi d’oggi direbbero un paziente “ciclicamente depresso”. Certamente Goldoni, che visse buona parte della sua vita senile a Parigi, seppe che in questa città godeva di grande fortuna, negli anni del Settecento maturo, un medico autore di un celebre Traité des affections vaporeuses. “Era questi il famoso dottor Pomme, medico elegante, seducente e gradito alle signore. Egli paragonava i nervi nella loro condizione fisiologica a ‘una cartapecora bagnata, rammollita e flessibile’ e affermava che, quando i vapori si manifestavano, ‘la carta pergamenacea s’irrigidiva e per secchezza totale si raccorciava’. Allora per distendere i nervi e le altre parti solide increspate non v’era che adottare un trattamento emolliente, fatto di brodi di vitello, d’agnello o di rane, di purées e gelatine, soprattutto di bagni freddi e prolungati. Così si potevano umettare le parti solide e increspate e secche e calmare i nervi ‘raccorciati’. E arrivava fino a dichiarare che le ammalate di vapori galleggiavano quasi sull’acqua del bagno, all’inizio della cura, tanto i loro tessuti erano raggrinziti e secchi, mentre mano a mano che miglioravano si affondavano più facilmente nell’acqua. E per essere coerente infliggeva a Madame De Cluny milleduecento ore di bagno in quattro mesi. Il dottor Pomme (…) morì milionario ad Arles nei primissimi anni del secolo XIX”. Il sensitivo giovane commediografo in erba, ciclicamente affetto da “vapori” e depresso, era alla ricerca di un dottor Pomme, affidabile quanto quello parigino di cinquant’anni dopo. Gli psichiatri e psicologi odierni ci dicono che è tipico di certe forme depressive il fare ricorso, da parte dei pazienti che ne sono afflitti, a un medico dopo l’altro; il che si spiega in modo esaustivo non solo con la speranza di trovare nel migliore dei medici consultati la medicina migliore per i propri disturbi, ma anche con il tentativo di ricevere per detti disturbi, eminentemente soggettivi, una legittima- zione tale da renderli oggettivamente credibili. È quanto accadde al venticinquenne Goldoni, neolaureato “nelle leggi” (a Padova, nell’ottobre 1730) e residente a Milano nel 1732, anno bisestile, quando “al principio della Quaresima”, cadendo la Settuagesima il 10 febbraio, “arrivò in questa città” – sono parole goldoniane – “Bonafede Vitali, parmense”. Costui “era di buona famiglia, aveva ricevuto un’educazione eccellente, ed era stato dai gesuiti”, come Goldoni stesso durante l’adolescenza; ma, “disgustato del convento, si era applicato alla medicina, meritando una cattedra di professore all’università di Palermo”. Goldoni era da un anno orfano di padre e da poco assunto come “gentiluomo di camera” presso il ministro della Serenissima a Milano, Orazio Bartolini, che egli stesso ci presenta come “ricchissimo” e “molto ragguardevole”. Il suo servizio, precario, era quello del segretario con incarichi di scrittura e di pratica “causidica”, connaturata alla sua laurea. Il giovane stava attraversando un periodo gramo travagliato anche dai patemi procuratigli dall’Amalasunta, una sua opera dilettantesca da dimenticare, e infatti da lui stesso data alle fiamme. A tale proposito ha lasciato scritto: “Cavo di tasca il mio dramma”, i cui versi “che il diavolo se li porti! E porti anche te, disgraziata opera (…). La fiamma ti divori!” Ha scritto inoltre: “La getto nel fuoco, e la vedo bruciare con sangue freddo, anzi con una specie di compiacenza. Il mio dispiacere, la mia collera, avevano bisogno di uno sfogo violento”. A questo raptus di tipo maniacale fece seguito per rinculo psicologico il buio della depressione, favorito dalle deprimenti sequele di una promessa di matrimonio non mantenuta. C’è da crederlo in balia dei veleni ipocondriaci esalati dagli “stravaganti vapori” e in affannata ricerca di qualche rimedio d’urgenza, se non per guarire, almeno per star meno peggio. Perché non tentare – questo verosimilmente il suo pensiero segreto – un approccio con il medico appena giunto sulla piazza milanese? Bonafede Vitali era un “fisico filosofo” in perfetta regola, con tanto di titolo di “dottore”, anzi di “professore”. Dava garanzie di competenza, ispirava fiducia. Tuttavia, nonostante l’ufficialità dei suoi titoli, era un curante eterodosso che faceva uso di metodi e mezzi totalmente diversi da quelli impiegati dalla 85 medicina ufficiale. Era un curante che oggi si direbbe “alternativo”, perciò molto chiacchierato, sia nel bene che nel male. Chi ne parlava bene erano perlopiù i pazienti; chi ne parlava male erano perlopiù i colleghi, spiazzati da lui. Rispetto ad altri esculapi di grido, egli lucrava di meno. Forse lo faceva per batterli in libera concorrenza. Comunque, per quanto famoso, non s’era arricchito. Goldoni ha scritto al riguardo: “Non essendo abbastanza ricco per appagarsi della semplice gloria, traeva partito dal suo ingegno vendendo i suoi medicinali”. “Andai a trovarlo un giorno col pretesto di voler acquistare il suo alessifarmaco”, prosegue il ricordo goldoniano. Probabilmente non fu affatto un pretesto, ma un proponimento ben preciso. Gli ipocondriaci, si sa, tendono a mascherare le loro motivazioni. “Alessifarmaco”: quale diavoleria si celava sotto questo nome scientifico? Nessun mistero, tanto meno diabolico: il già citato Dizionario dei termini di medicina lo dice un nome derivante dalla giustapposizione delle due parole greche alèxo, “respingo”, e phàrmakon, “veleno”. Ogni veleno a piccole dosi è un farmaco, ogni farmaco ad alte dosi è un veleno. Il nome composito designava un medicinale “composto”, formato da più ingredienti, non “semplice”, com’era detto il medicinale tratto da questa o quell’erba coltivata nell’orto botanico. Il “composto” era un “preparato” farmaceutico che richiedeva la perizia “spagirica” (da spào, “estraggo”, e aghèiro, “riunisco”) di uno speziale provetto. La denominazione era generica, non specificava i componenti. Comunque, a detta del Dizionario, si trattava di un medicinale “valido ad espellere dal corpo i veleni”, in definitiva di un “antidoto” nella fattispecie indicato per fugare i “vapori” che avvelenavano gli umori corporei del nostro Goldoni. La richiesta da parte di costui dell’antidoto dalla formula segreta - medicinale ignoto nella sua composizione e perciò più attrattivo e più ambito dall’ipocondriaco richiedente - non convinse il medico-speziale. Il Vitali non era un profittatore. Rispettoso della sua clientela, voleva prima sapere se il suo “alessifarmaco” fosse adeguato alla patologia del paziente, appropriato a risolvere il caso e somministrabile ad hoc. 86 “Egli mi fece qualche domanda sulla malattia che avevo o che credevo di avere”, ricorda Goldoni, asserendo, con la mezza verità o mezza falsità propria dell’ipocondria, d’essere andato a consultarsi da lui soltanto “per curiosità”. Aggiunge: “Trovai piacevole la sua cortesia, e conversammo per qualche tempo”. Il medico-speziale, evidentemente edotto non solo dei guai, ma anche dei gusti del proprio interlocutore, capì che questi aveva bisogno non dell’“alessifarmaco”, ma di buone parole condite da una buona cioccolata. Dice ancora Goldoni: “Mi fece portare una buona cioccolata, dicendomi che questo era il miglior medicamento che facesse per me”.