ovvero il sogno di un bibliofilo. Intervita con

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ovvero il sogno di un bibliofilo. Intervita con
Intervista
Le “Edizioni Sylvestre Bonnard”,
ovvero il sogno di un bibliofilo.
Intervista con Vittorio Di Giuro
D. Le “Edizioni Sylvestre Bonnard” sono il punto d’arrivo di un lungo
cammino dedicato ai libri. Dottor Di Giuro, vuole illustrare le tappe di questo
cammino?
R. Mi sono laureato in lettere all’Università di Napoli. Poi ho seguito un
corso di specializzazione in archeologia pompeiana con Maiuri. In realtà, non
ho tanto seguito un corso di studi quanto piuttosto ho fatto tutta una serie di
escursioni a Pompei che allora - quando ero giovane - era deliziosa. Non era
ancora infestata da orde di turisti come adesso. Conclusa questa fase della
mia vita, ho cambiato completamente attività. Mi sono infatti occupato, in
modo professionale, per sei-otto anni, di teatro.
D. Si è occupato in modo professionale di teatro. E come è arrivato a questa professione?
R. Nell’ultimo anno di università, io ed alcuni miei compagni di studi abbiamo costituito un’associazione culturale a Napoli insieme a Gerardo Marotta, uomo dell’Istituto di studi filosofici. Questa associazione si è occupata
anche di teatro. Di teatro universitario, dilettantesco, ovviamente. Il teatro mi
ha talmente “preso” che ho deciso di farlo molto seriamente. E così, per sette,
otto anni ho recitato, ho fatto l’attore soprattutto in piccoli teatri, a Torino, a
Padova. Poi però mi sono “stufato”. La vita dell’attore tutto sommato non era
così divertente. Ho perciò ritirato fuori la laurea, ho preso l’abilitazione e ho
fatto un concorso per l’insegnamento. Ho vinto il concorso e ho insegnato
per due anni storia della poesia drammatica e storia della letteratura italiana
al Conservatorio di Bari. Lì ho conosciuto Nino Rota, personaggio delizioso
che allora era il preside del conservatorio. E lì ho avuto come allievo (lui
probabilmente non lo sa o per lo meno non lo ricorda) Riccardo Muti, un
brunetto nervosino, un momentino arrogante... Intanto avevo cominciato a
collaborare con la Feltrinelli facendo traduzioni e dando “pareri di lettura”...
D. Di preciso, quando e come arrivò alla Feltrinelli?
R. Erano gli anni Sessanta, anni in cui la Feltrinelli, grazie anche a due
grandi “colpi” editoriali, Il Gattopardo e Il dottor Zivago, era in fase d’espansione ed aveva bisogno di nuovi redattori. Attilio Veraldi, che faceva il
traduttore e che già lavorava in modo organico nella casa editrice, sapendo
che non ero entusiasta della mia attività di insegnante e che, viceversa, ero
molto interessato al lavoro editoriale, mi segnalò alla casa editrice all’interno
della quale io già vantavo alcune amicizie. Valga per tutte quella con Mario
Spagnol. Sono stato assunto come redattore. Per quattro, cinque anni ho lavorato alla Universale economica con Spagnol occupandomi della saggistica.
Successivamente ho lasciato la Feltrinelli per fare il freelance. E così ho tradotto molti saggi dall’inglese e dal francese per molte case editrici e soprattutto per la Mondadori e la Rizzoli. Ho tradotto anche qualche romanzo per
“ragioni alimentari”. Sa, mi interessava mangiare...
D. Poi, la “svolta”.
R. La “svolta”. Dopo qualche anno di freelance mi fu proposto di andare
a lavorare alla Sonzogno. Il glorioso marchio ottocentesco - allora di proprietà di Mattarelli - era in chiaro declino. Sopravviveva solo per le opere di Liala. Arrivarono Alessandrini e Caracciolo che lo acquistarono con un programma editoriale ben preciso. Volevano farne una casa editrice popolare,
anche se d’alto livello, e volevano pubblicare essenzialmente solo tascabili.
A questo fine escogitarono una struttura guidata da un “quadrumvirato”. La
struttura cioè poggiava sul lavoro di quattro persone, quattro editor. A ciascuno veniva affidato un compito diverso. Io dovevo occuparmi della saggistica, Attilio Varaldi della letteratura straniera, un altro della letteratura italiana e un altro ancora dei rapporti con gli autori e dei “diritti d’autore”.
D. E com’è andata?
R. Non ha funzionato e per due motivi. Anzitutto il catalogo Sonzogno
apparve subito inutilizzabile. I libri dovevano essere di non più di 92-96 pagine, per cui eravamo costretti ad operare tagli che rovinavano molte opere.
Le traduzioni poi non erano sempre di prim’ordine. In secondo luogo, sul
mercato esistevano già forti collane economiche: l’Universale economica
della Feltrinelli, la Bur, gli Oscar Mondadori...
D. Non erano certo più i tempi in cui Sonzogno aveva pubblicato la sua
Universale economica... L’insuccesso tuttavia dei tascabili Sonzogno non ha
segnato il definitivo tramonto del marchio, semmai un ulteriore passaggio di
proprietà e anche l’inizio di una nuova stagione. Dottor Di Giuro, come è avvenuto tutto ciò e qual è stato il suo ruolo nella rinascita di questo antico e
prestigioso marchio?
R. Nel 1972 (più o meno) la Sonzogno venne acquistata dal gruppo Fabbri, allora posseduto dalla Fiat, che in quel momento comprendeva anche la
Bompiani e l’Etas libri. A questo punto la nuova proprietà si pose il problema di quale dovesse essere la funzione della Sonzogno in un gruppo in cui ci
sarebbero stati anche i tascabili Bompiani. Mi si chiese un parere in merito.
Io (il mio interlocutore non era più Caracciolo, bensì i dirigenti Fiat), partendo dall’esame delle possibilità che il mercato librario sembrava offrire, suggerii di abbandonare il filone – pur storico e di successo – dell’editoria economica, allora - come ho già detto - straoccupato ed egregiamente sia per la
qualità delle traduzioni sia per quella delle curatele, e di riprendere viceversa
il filone della letteratura popolare, di intrattenimento e di evasione per destinarlo ad un pubblico soprattutto femminile in continua espansione e che già
frequentava le edizioni Mondadori e Rizzoli. Nel catalogo storico della Son-
zogno infatti esistevano moltissimi - e malissimo utilizzati - titoli di Liala
che, a mio parere, andavano utilizzati e sfruttati. Il mio suggerimento venne
accolto. Paolazzi, allora direttore generale della Bompiani e capo del marketing di tutti i marchi del gruppo, ripropose alla vendita i libri di Liala.
L’operazione si mostrò fortunatissima. Vennero in breve venduti decine di titoli e di ogni titolo migliaia di copie. A questo punto, avendo io accettato
questo programma - diciamo - di “popolarizzazione”, ebbi anche - tutto da
solo - la direzione editoriale della Sonzogno. Nel frattempo il mio amico Veraldi si era ritirato perché faceva altre cose e, soprattutto, perché si era messo
a scrivere. Forte del successo ottenuto con Liala, riproposi la pubblicazione
delle opere di Harold Robbins, un autoraccio di grande successo (L’uomo
che non sapeva amare, Il Pirata...) e feci uscire, primo in Italia, le opere di
Stephen King. Mentre con la pubblicazione delle opere di Robbins feci una
mera operazione commerciale, con King - e precisamente con Carrie, Shining, Le streghe di Salem - feci anche un’operazione culturale. Io ritengo infatti che King sia un buon autore, un autore di prim’ordine. Quando lasciai la
Sonzogno, King, divenuto ormai un best-seller passò alla Sperling e Kupfer.
Io lo avevo “preso con pochi soldi”, avevo insomma fatto un’opera di scouting. La Sperling invece fece un’operazione commerciale e sborsò un bel
pacchetto di dollari. Operazione commerciale - sempre pagata a suon di dollari - fece poi la Mondadori quando prese a far uscire le opere di Clavel di
cui io, sempre con la Sonzogno, pubblicai la prima opera edita in Italia, Shogun. Da quando nel campo della produzione libraria sono entrati i grandi colossi industriali che con molti soldi possono comprare gli autori di maggior
successo di tutto il mondo (vedi ad esempio il caso di Clavel e della Mondadori), la natura dell’editoria è cambiata. È tramontata l’era della ricerca, delle
letture fatte in tutta fretta di notte alla Fiera di Francoforte dei dattiloscritti
più disparati per accaparrarsi prima di ogni altro lo scoop letterario
dell’anno; o per lo meno, la lettura notturna avviene ancora, ma si tratta solo
di una finzione...
D. Da che cosa è stata sostituita - se è stata sostituita - la «finzione della
lettura notturna di Francoforte»? Chi decide ciò che bisogna o non bisogna
pubblicare? E quali sono i criteri seguiti per giungere a queste decisioni?
R. Il lavoro di ricerca che un tempo faceva l’editore-lettore fino agli anni
Settanta affidandosi non solo alla sua “cultura” personale, ma anche, e forse
soprattutto, alla sua intuizione, ora è affidato, quasi interamente, alle agenzie
letterarie e alle ricerche di mercato. Sono le agenzie letterarie che scovano gli
autori, sono le agenzie letterarie che decidono quanto possano valere questi
autori. E sono sempre le agenzie letterarie che ne fissano i prezzi non solo sul
mercato italiano ed europeo, ma anche su quello americano. Dalle agenzie
letterarie la palla passa alle ricerche di mercato, ricerche che nel campo
dell’editoria non hanno alcun senso. Anzi, sono delle pagliacciate. Ma è proprio in base a queste ricerche, a queste pagliacciate, che un manager
dell’editoria decide se un libro debba essere o non essere pubblicato. E purtuttavia sempre assai difficile che egli intuisca se un libro andrà bene o no.
Ed è altrettanto difficile per lui capire perché un libro di un autore ha successo e perché quello (sempre dello stesso autore) che viene dopo non lo ha.
D. Insomma in una situazione in cui la pubblicazione di un libro è per lo
più legata a una scelta di mercato più che a una scelta culturale, un libro veramente “bello” ha comunque la possibilità di uscire, di essere venduto, di
avere insomma successo?
R. Guardi, perché un libro possa essere venduto non è necessario che sia
“bello”. D’altronde stabilire cosa significhi “bello” non è facile. Così come
non è facile, anzi è idiota, voler stabilire dei criteri “scientifici” con cui giudicare la validità o meno di un’opera. Certo un libro “bello” può avere successo, ma lo può avere anche il libro che tratta di un argomento particolarmente importante o sentito in un determinato momento e che quindi “cade”
al momento giusto. Così come può avere successo, e perciò essere molto
venduto, un libro scritto da qualcuno che goda di una certa popolarità, magari televisiva. Sono questi due tipi di opere che nelle librerie - diventate ormai
delle sorte di supermercati - “nascondono” e cacciano le opere di valore. Il
pubblico è distratto, non le vede, non sa che sono uscite e quindi non le compra. Compra le altre, le opere cosiddette di consumo, pensa che siano dei libri, li legge e rimbambisce sempre di più. Per pubblicare dei libri di successo
bisogna poi avere anche un colpo di fortuna. Ed io qualche volta l’ho avuto.
Ne ricordo uno in particolare. Erano i primi anni Settanta, gli anni della contestazione. Io pubblicai un instant-book sul raid di Entebbe, un libro assolutamente idiota di pura cronaca che tuttavia provocò polemiche e proteste a
non finire. Scatenò addirittura una rivolta capeggiata dal fratello di Occhetto,
ragazzo intelligentissimo e che poi lavorò con me e che allora era alla Etas
libri. Ebbene questo libro che raccontava la liberazione da parte degli israeliani dei loro ostaggi vendette 30.000 copie in una settimana... In questo caso
il successo dell’opera era stato decretato da una protesta. E questo è uno degli elementi imponderabili che decretano la fortuna di un libro. D’altra parte
per vendere un libro non si può organizzare ogni volta una protesta...
Una volta che la Sonzogno riprese a decollare fui chiamato a collaborare
come vice con Oreste Del Buono che allora era direttore della Bompiani, dei
tascabili. Quando Del Buono negli anni Ottanta se ne andò da quella casa editrice, io mi occupai sia della Sonzogno sia della Bompiani. Il periodo bompianesco (un paio di anni circa) si concluse con una bella soddisfazione, ovvero con la pubblicazione del libro di Umberto Eco, Nel nome della rosa. Divertimento di qualità (così lo aveva concepito nella sua stesura l’autore), il
romanzo in realtà era stato destinato da Eco all’Adelphi o a Franco Maria
Ricci. Letto in una notte da me e da Bompiani, il libro cambiò subito editore.
Allora non ci furono indagini di mercato, ci fu solo intuizione e fiuto. Diecimila furono le copie vendute alla prima edizione. E a queste seguirono centinaia e centinaia di migliaia di copie in trenta, quaranta edizioni. Il romanzo di
Eco sembrerebbe dimostrare che nonostante l’avvento del manager -editore
c’è ancora posto per l’editore vecchio tipo, l’editore che sa unire la cultura
all’intuito. Quanto questo sia vero è dimostrato dal caso della Adelphi. Presa
in mano da Roberto Calasso, che certo non è uomo di marketing, la casa editrice ha attraversato momenti durissimi. Per anni e anni ha continuato a perdere. Ma alla fine, ed ora, grazie al lavoro di Calasso è diventata una casa
editrice fiorente, d’alta qualità. Pur avvalendosi infatti di consulenti, come
fanno tutti gli editori, alla fine è solo lui, sempre lui, Calasso, che fa le scelte
editoriali.
D. Dunque, nel mondo dell’editoria oggi esistono - o meglio coesistono due figure di editore: l’editore vecchio stile che cerca di realizzare un programma editoriale di alto profilo affidandosi alle ragioni della cultura e ai
suggerimenti dell’intuito, e l’editore-manager che crede ciecamente nelle ragioni del mercato e che quindi si uniforma alle sue leggi. Non esiste forse
anche una terza figura capace di coniugare le ragioni della cultura con quelle
del mercato?
R. Certo che esiste. Esistono infatti delle persone che hanno saputo sposare bene le ragioni dell’industria, del mercato e le ragioni della cultura. Penso,
ad esempio, a Mario Spagnol del gruppo Longanesi e a Gian Ferrari della
Mondadori, persona di grande qualità intellettuale. Entrambi quando hanno
deciso di pubblicare dei libri per assecondare il mercato e per far prosperare
la loro casa editrice lo hanno fatto e hanno fatto bene, hanno fatto una cosa
giusta. Ciò che invece non mi sembra giusto è privilegiare i soli consumi di
massa perché questi spesso scacciano dal mercato i consumi di élite. È giusto
vendere i libri di King, di Grisham, della Tamaro (e via dicendo) che appartengono comunque ad un certo genere di cultura. E quanto io creda in ciò lo
dimostra il fatto che li ho pubblicati. Non è giusto invece che questo genere
di opere, solitamente edite da grandi e potenti case, invadano tutti gli scaffali
e i tavoli delle librerie occultando l’operetta di qualità pubblicata dal piccolo
editore, quel tipo di operetta che il libraio non è più in grado di consigliare
come faceva una volta quando leggeva i libri che vendeva. Spesso i commessi di libreria sono persone molto ignoranti capaci solo di pasticciare sul
computer. A proposito di libreria. Mi sembra molto interessante il tentativo
che alcuni editori cercano di fare - alcuni come Bollati Boringhieri ad esempio - e che è quello di favorire la nascita di librerie in cui si venda il libro
“lento”, lo slow book, ovvero non il libro che vive lo spazio di un mattino,
bensì il libro capace di sopravvivere nel tempo.
D. Dottor Di Giuro, torniamo alle sue vicende personali. Ha detto che il
suo periodo bompianesco si è chiuso con la pubblicazione del romanzo di
Eco Nel nome della rosa. Perché si è concluso questo periodo pur fortunato?
E da che cosa è stato seguito?
R. Un paio di mesi dopo la pubblicazione del libro di Eco ho litigato con
l’amministratore delegato della Bompiani che mi aveva fatto un paio di proposte che non potevo accettare e me ne sono andato. Per una dozzina di anni
ho lavorato come consulente al Club degli Editori e quindi per un paio di anni ho fatto il consigliere delegato delle Edizioni di Comunità. Ho collaborato
con Barbieri della Sperling e Kupfer per riavviare la Frassinelli. E lo stesso
ho fatto con Mario Spagnol per far risorgere la Corbaccio. Nel medesimo
tempo ho aperto un ufficio di servizi editoriali e ho fondato una società con
un uomo del marketing editoriale, Luigi Re, e con i finanziamenti della Microsoft per la realizzazione dell’edizione italiana dell’enciclopedia multimediale. L’enciclopedia è uscita in tempi strettissimi e ora è alla quinta edizione.
D. Ha fondato società, ha risuscitato marchi editoriali. E poi che altro ha
fatto, dottor Di Giuro?
R. Ho coltivato un sogno: costruire una casa editrice tutta mia che parlasse solo ed esclusivamente di libri, che producesse cioè libri sul libro, quello
che in inglese si dice sbrigativamente book about books. Questo tipo di produzione editoriale peraltro è già diffusa e fiorente in Inghilterra, in America e
in Francia. Lì l’histoire du livre è addirittura una disciplina autonoma. E di
tutto ciò mi pareva strano non ci fossero echi in Italia.
A metà degli anni Novanta ho deciso che questo sogno dovesse tramutarsi
in realtà. Ma perché ciò potesse accadere mi occorreva del denaro, molto denaro. Stavo scervellandomi su come potevo procurarmelo quando mi venne
in mente il bel libro di Anatole France, Il misfatto del professor Sylvestre
Bonnard. Sylvestre Bonnard, il protagonista di quel romanzo, era un anziano
bibliofilo che viveva tra i libri e per i libri, solo con una governante. Venuto
a sapere che la sua prima, grande, unica innamorata era morta lasciando al
mondo una figlia “povera in canna”, decise di vendere la sua collezione per
farle la dote. Da ciò mi venne l’idea: per fare la dote alla mia casa editrice
non mi restava che vendere la mia personale collezione di libri fatta di rare
edizioni del primo Novecento francese, libri che si distinguevano per la bellezza delle illustrazioni e per la preziosità delle legature. Così nel 1995 in
omaggio al bibliofilo di Anatole France nacquero le “Edizioni Sylvestre
Bonnard”. Il denaro ricavato dalla vendita della mia collezione tuttavia non
era sufficiente per la realizzazione del mio proposito. A questo punto ebbi
una grande fortuna. Incontrai Luca Formenton e gli parlai del mio progetto.
Gli piacque, credette nella possibilità di entrare in una nuova, ma selezionata,
e tutto sommato ancora inesplorata nicchia di mercato, e decise di entrare
nell’impresa. La casa editrice poté finalmente prendere vita sotto forma di
società, una società al 50%, del tutto paritetica in cui io sarei stato l’“operativo”, ovvero mi sarei occupato - come tuttora avviene - dell’andamento della
Sylvestre Bonnard e Formenton sarebbe intervenuto ogni qualvolta fosse
stato necessario. E infatti ogni tanto interviene perché la casa editrice non è
ancora sufficientemente autonoma.
D. In effetti il libro Sylvestre Bonnard è un libro d’élite difficilmente collocabile. Per superare questa non facile situazione, dottor Di Giuro, quale
strategia ha elaborato e a quale tipo di pubblico in particolare si rivolge?
R. Innanzitutto limito il numero delle tirature. Ogni titolo viene stampato
in 1000, 1500 copie. Siamo molto lontani dalle tirature di Stephen King...
D’altra parte non c’è bisogno di vendere come King. In secondo luogo mi rivolgo ad un pubblico molto colto, selezionato, dagli interessi ben precisi. Mi
rivolgo cioè ai bibliofili, agli uomini di cultura con la passione per il libro, ai
collezionisti, alle facoltà universitarie e alle scuole specializzate che si occupano della storia e dell’arte della stampa.
A questo pubblico, avvalendomi di due soli collaboratori, Adriano Bon,
caporedattore, e Anna, contabile in grado di fare anche l’impaginazione, e di
molti collaboratori esterni tra i più qualificati (Attilio Mauro Caprorei
dell’Università di Udine, Ugo Rozzo, Mario Infelise, Alfredo Serrai...) in pochi anni di attività io ho offerto un bellissimo manuale, il Manuale enciclopedico della bibliofilia. Molti di questi collaboratori - in genere docenti universitari - hanno continuato a lavorare per la Bonnard anche in seguito dando
vita ad una collana, l’Universo libro. Questa collana, che potrà essere alla fine di sedici, diciotto testi, in parte è nata come filiazione del Manuale. Pensi
a La rivoluzione tipografica curata da Claudia Salaris che parla del futurismo, delle avanguardie russe e francesi e che riporta integrate e aggiornate
alcune voci del Manuale. Pensi a Il paratesto, concepito come libro per
l’università che spiega cos’è la dedica, cos’è l’introduzione, quali sono gli
apparati e che si avvale sempre del Manuale, anche se in misura minore.
Pensi infine a Il libro scientifico di Maurizio Mamiani, docente a Parma, che
riporta informazioni su tutto quanto è stato scritto e pubblicato in relazione
alle varie discipline scientifiche.
A questa collana se ne sono aggiunte altre: Il sapere del libro dove è stato
pubblicato come primo titolo l’opera fondamentale di Robert Darntorn, Il
grande affare dei lumi e la Bibliografia e sociologia dei testi di Donald
McKenzie, saggio importantissimo al quale oggi si rivolgono un po’ tutti gli
studiosi del libro e che è stato ristampato. Alla tiratura iniziale di 1.200 copie
circa ne è seguita un’altra di 1.000 copie. A questi titoli se ne sono aggiunti
altri di non minore qualità e successo: Cultura scritta e società e In scena e
in pagina. Editoria e teatro in Europa tra XVI e XVIII secolo di Roger Chartier, uno dei creatori della grande Histoire de l’édition française, e Il futuro
di un mestiere. Libri reali e libri virtuali di Jason Epstein, editor, ma anche
publisher americano, fondatore della «New York autori Books» e della Random House. Il futuro di un mestiere è l’ultimo titolo della collana ed è un libro molto stimolante. L’autore sembra sentire un po’ di nostalgia per il lavoro editoriale degli anni Cinquanta, quando cioè è nata la grande editoria americana, ma nello stesso tempo sembra credere nella forza della nuova editoria.
Internet secondo lui è la seconda grande rivoluzione dell’industria della carta
stampata che, liberando l’editore dalle spese della carta, della distribuzione e
così via, non potrà se non comportare un grande incremento nella diffusione
della cultura.
D. Lei, dottor Di Giuro, è d’accordo con il suo autore, con Epstein?
R. Lo sono e non lo sono. Non sono così convinto che la “ rete” possa sostituire in tutto e per tutto il libro tradizionale. Certo, un tempo quando facevo il freelance e il traduttore e andavo in vacanza che non era mai una vera
vacanza perché andavo a lavorare, mi portavo appresso delle valigiate di enciclopedie e di libri. Ora, in fondo, mi posso portare in una scatoletta intere
enciclopedie... E magari, domani potrò mettermi facilmente in contatto con
tutte le biblioteche del mondo per avere in tempo reale o in pochissimo tempo testi introvabili. E ancora, non è così malvagia l’idea di potersi stampare
da soli, e in casa, un libro che ci interessa: print on demand... Pensi un poco:
io oggi per stampare un libro devo pagare la carta, pagare lo stampatore, la
copertina, il legatore, il distributore. Se invece oggi mi arriva un manoscritto,
lo leggo, trovo che è importante e che val la pena di diffonderlo, lo posso
mandare in rete e tutto finisce lì. Naturalmente a questo punto io editore dovrò studiare come pagare l’autore e come difendermi dalla pirateria, che
d’altra parte non è certo il prodotto della multimedialità. Se poi però penso al
piacere della lettura a letto o sotto l’ombrellone il mio interesse per la modernità va un po’ scemando...
D. Torniamo al catalogo Bonnard e alle sue collane.
R. Per Il sapere del libro vale la pena di citare un testo delizioso, di delizia tutta erudita: La nota a piè di pagina. Una storia curiosa di Anthony
Grafton. Per Bibliofilia vorrei ricordare Collezionare libri. Antichi, rari di
pregio di Hans Tuzzi, il secondo libro che abbiamo ristampato. Per I materiali le tecniche infine vorrei ricordare il già uscito Bibliologia. Avviamento
allo studio del libro tipografico di Valentino Romani e quello in preparazione Gli elementi dello stile tipografico di Robert Bringhurst, il che dimostra
come un poeta, quale egli è, possa fare opera di poesia anche pensando
all’impaginazione... E per quanto riguarda l’annuario L’oggetto libro, è uscito nel 2000 il quinto volume.
Come vede la piccola e giovane Sylvestre Bonnard ha pubblicato quanto
di meglio la piazza possa produrre. È pur vero che in sostanza sono l’unico
editore a pubblicare questo genere di libro... La Bibliografica editrice fa cose
simili, ma con taglio molto diverso.
D. La sua avventura, l’avventura dei suoi libri è fantastica. Potrebbe la
multimedialità eliminare tutto ciò?
R. Potrebbe, ma quante cose sono state uccise per poi rinascere sotto altre
forme, sotto altre vesti. La storia e la cultura sono piene di “fenici”.
D. Nuovi progetti?
R. Tanti, alcuni vaghi, altri più concreti. Ho in lavorazione un dizionario
della legatura, opera che non ha eguali perché non ne esistono altre se si eccettuano alcuni piccoli manualetti, e uno sui miniatori italiani che dovrebbe
superare il libro ormai esaurito di D’Ancona. Infine ho in gestazione, ma lo
dico con una certa prudenza, una rivista semestrale, «La biblioteca». Si tratta
di un periodico estremamente specialistico, che si occupa di bibliografia, di
saggi (che poi sono dei volumi di 300 pagine), diretta da Alfredo Serrai che è
il massimo esperto in materia. È professore a Roma alla Sapienza ed è noto
in tutto il mondo come studioso di bibliografia insieme ad Attilio Mauro Caprone. A capo della rivista c’è anche un comitato scientifico di primissimo
ordine dove sono rappresentati i nomi più importanti tra i docenti italiani. Io
penso che «La biblioteca» potrà dare lustro alla casa editrice e soprattutto
avvicinerà altri studiosi di rilievo nel settore. Poi prevedo che cominceranno
le noie: alcuni vorranno far pubblicare alla Bonnard libri illeggibili, ma la
Bonnard si saprà difendere.
ADA GIGLI MARCHETTI
Dipartimento di storia della società
e delle istituzioni, Milano