Tommaso Bernardi

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Tommaso Bernardi
Tommaso Bernardi
LA FONDAZIONE RAZIONALE DELLA
TEOLOGIA NEL PROSLOGION DI ANSELMO D’AOSTA
1. Dove arriva l’intelletto e dove sopraggiunge la Grazia
In questa prima parte di riflessione sul Proslogion di Anselmo vogliamo tralasciare l’unum
argomentum e la prova razionale dell’esistenza di Dio per soffermarci su ciò che secondo
noi sta alla base di quel ragionamento che porta a vedere Dio come colui che non può essere
pensato non esistente; di conseguenza la nostra analisi si concentrerà più sul rapporto tra il
credere e l’intendere.
Neque enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam. Nam et hoc credo: quia “nisi
credidero, non intelligam”1.
Questa frase posta alla fine della bellissima preghiera iniziale del Proslogion ci dà le linee
guida per capire il pensiero anselmiano nella difficile interpretazione del rapporto tra il credere e il comprendere.
Questa esortazione della mente alla contemplazione di Dio richiama temi e argomenti che
sono fondamentali per capire il difficile rapporto tra ciò che si crede e ciò che si comprende,
e come il credere sia alla base del comprendere.
A mio avviso non possiamo capire al meglio questo rapporto se prima non esaminiamo i
temi principali che sorgono dal corpo centrale dell’esortazione, per cui in primo luogo penso
sia doveroso accennare al legame esistente tra creatura e creatore.
Nella lettura di questa preghiera troviamo passi come: «Tu me fecisti et refecisti […]
Denique ad te videndum factus sum, et non dum feci propter quod factus sum»2, e anche
«Fateor, domine, et gratias ago, quia creasti in me hanc imaginem tuam, ut tui memor te
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«Non credo infatti di intendere per poter credere, ma credo per poter intendere. In verità credo in
questo: “se non avrò creduto, non potrò intendere”» (Anselmo d’Aosta, Proslogion, I, 7, tr. it. a cura
di L. Pozzi, Bur, Milano 2007, p. 81. Tutte le traduzioni riferite al Proslogion sono tratte da questa
edizione).
«Tu mi hai fatto e rifatto [...] In breve: sono stato fatto per vederti e non ho ancora fatto ciò per cui
sono stato fatto» (ivi, I, 2, p. 70).
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Il
tema di B@bel
cogitem, te amem»3. Questo perché Anselmo vuole porre all’attenzione del lettore un fatto
evidente: la somiglianza che l’uomo ha con Dio. Egli non solo si sente creatura di Dio, ma si
riconosce anche portatore di un immagine divina, custode di un costante ricordo originario
che lo spinge ad amare e pensare a Dio. Se tutto ciò fosse evidente, nell’uomo non ci sarebbe
questa continua difficoltà a trovare quella fonte esaustiva di tutto che senza un’opportuna
guida diventa inaccessibile. Infatti l’uomo, pur desiderandola con tutte le sue forze, non riesce a raggiungerla e ogni sforzo sembra vano se non è puntualmente accompagnato verso il
giusto cammino di una possibile soddisfazione conoscitiva. L’uomo non riuscirà mai, senza
un aiuto esterno, a pensare e ad amare Dio: «Et ubi est lux inaccesibilis? Aut quomodo accedam ad lucem inaccesibilem? Aut quis me ducet et inducet in illam, ut videam te in illa?
Deinde quibus signis, qua facie te quaeram?»4.
Questo incessante ostacolo è dato dalla caduta dell’uomo: il peccato ha causato un’inversione dei risultati che l’uomo poteva raggiungere, dove prima c’era gioia ora c’è dolore dove
c’era ricchezza troviamo la miseria. Tale mutamento è la causa di una costante e profonda
nostalgia di una ricchezza ormai perduta: di ciò di cui si aveva pieno possesso ora rimane
solamente un vacuo ricordo5.
Nonostante la perdita di uno status privilegiato, attraverso il ricordo, l’immagine divina
spinge l’uomo ad amare e pensare a Dio, per cui il credere e l’amare sono antecedenti al
conoscere poiché nell’uomo vi è questa traccia indelebile che lo spinge a desiderare di capire
quella verità che già si crede e si ama. Egli non conosce per credere ma crede per comprendere perché nell’atto di intendere già possiede quella verità che gli è suscitata dal ricordo di
quella immagine e somiglianza che ha con il creatore. Quando Anselmo antepone il credere
al comprendere lo fa in modo chiaro e netto, ma questo credere risiede e appartiene al suo
cuore, mentre lui vuole arrivare, per quanto possibile, a comprendere con l’intelletto ciò
che procede dal ricordo di una beatitudine datagli dall’immagine di Dio; ricordo che suscita
sì, un credere e un amare, ma non una conoscenza a livello intellettivo, per cui il credere a
l’amare sono punti di partenza sui quali si deve poi costruire il più alto grado possibile di
comprensione di ciò che si crede e si ama: «Non tento, domine, penetrare altitudinem tuam,
quia nullatenus comparo illi intellectum meum; sed desidero aliquatenus intelligere veritatem tuam, quam credit et amat cor meum. Neque enim quaero intelligere ut credam, sed
credo ut intelligam. Nam et hoc credo: quia “nisi credidero, non intelligam”»6.
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«Riconosco, o Signore, e te ne ringrazio, che hai creato in me questa tua immagine affinché, memore
di te, ti pensi e ti ami» (ivi, I, 7, p. 78).
«E dov’è la luce inaccessibile? E come mi avvicinerò a questa luce inaccessibile? E chi mi condurrà
e mi introdurrà in essa, affinché in essa io ti veda? Per mezzo di quali segni, di quale immagine io ti
cercherò?» (ivi, I, 7, p. 71)..
Ivi, pp. 71-75.
«Non tento, o Signore, di penetrare la tua profondità, poiché in nessun modo metto a confronto il mio
intelletto; ma desidero intendere in qualche modo la tua verità, quella che il mio cuore e ama. non
credo infatti di intendere per poter credere, ma credo per poter intendere. In verità credo in questo: “se
non avrò creduto, non potrò intendere”» (ivi, I, 7, p. 81).