PRETURA DI TORINO - Corte d`Appello di Torino
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PRETURA DI TORINO - Corte d`Appello di Torino
SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA COMMISSIONE DISTRETTUALE PER LA FORMAZIONE DELLA MAGISTRATURA ONORARIA CORTE DI APPELLO DI TORINO INCONTRO DI STUDIO DEL 15 MAGGIO 2014 IL PROCESSO CIVILE E LE SPESE DI LITE Paolo Romagnoli Got –Tribunale di Aosta Avvocato del Foro di Torino 1 Premessa; il rilievo delle spese di lite nell’ottica della finalità legislativa di deflazionare il contenzioso civile Il titolo assegnato a questo incontro potrebbe apparire ambizioso e velleitario laddove si avesse la pretesa di trattare l’argomento in ogni suo minimo particolare, con approfondimenti degni di una tesi dottorale; in realtà l’obiettivo che mi sono prefissato è quello di sottoporvi alcune riflessioni su quegli aspetti che esigono chiarimenti ed indicazioni puntuali, resi ancor più opportuni dalle novità legislative e regolamentari intervenute in materia, più o meno recentemente. L’interese per le problematiche relative alle spese di lite nasce dalla constatatazione che le stesse, troppo spesso ed erroneamente, sono trattate dal Giudice come una sorta di appendice della sentenza, quasi fastidiosa ed importuna. Molte volte si ha l’impressione che il Giudice, dopo avere dedicato le sue migliori energie alla soluzione della causa, si ritrovi privo di forze nel decidere la sorte delle spese, così statuendo in maniera frettolosa e superficiale. In realtà è pacifico che la decisione sulle spese rappresenta un capo della sentenza, sulle quali l’organo giudiziario è tenuto a pronunciarsi, indipendentemente da specifica domanda (Cass. S.U. 9859/97), con statuizione che – se non condivisa dalla parte interessata – è di per sé idonea a giustificare gravame sul punto. Ecco quindi che la correttezza della sentenza deve essere valutata non solo avuto riguardo al merito della causa bensì anche per quel che concerne la sorte e la quantificazione delle spese, con la conseguenza che, in ultima analisi, l’esatta applicazione della normativa in materia e l’adeguata motivazione si atteggiano come elementi irrinunciabili per concretamente contribuire a realizzare il fine legislativo di deflazionare il processo civile. La giustizia civile rappresenta una problematica ancora irrisolta sebbene siano sotto gli occhi di tutti noi, operatori del diritto, i vari interventi legislativi succedutisi nel tempo, tutti orientati a snellire il processo ed a garantirne la definizione in tempi ragionevoli. In tale ottica, anche le modificazioni legislative intervenute in punto spese di lite sono ispirate a detti obiettivi che – per essere realizzati – non possono prescindere dalla consapevole funzione dissuasiva propria dell’avvocatura. Infatti, senza considerare le cause di valore inferiore ad € 1.100 laddove di competenza del Giudice di Pace, in tutti gli altri casi “le 2 parti stanno in giudizio con il ministero e l’assistenza di un difensore” (art. 82 cod. proc. civ.), dal che discende che l’avvocato, professionista al quale la parte si rivolge per sottoporre alla sua attenzione la fattispecie, è il primo anello della “catena processuale”, così identificandosi con il soggetto al quale spetta il compito – estremamente delicato – di valutare la fondatezza delle ragioni del cliente nonché l’ineluttabilità dell’iniziativa giudiziale, con apprezzamento prognostico che non può prescindere dalla prospettazione all’assistito del futuro rilievo, nell’economia complessiva della causa, della disciplina delle spese. Il dovere di informativa gravante sull’avvocato concerne anche tale aspetto ed è inutile nasconderci che se lo stesso fosse concretamente e correttamente sempre applicato, il numero delle cause gravanti sul ruolo di ogni giudice, nei vari gradi del processo, vedrebbe una drastica diminuzione, probabilmente seguita da altrettanto rilevante sfoltimento dei candidati alla professione, a tutto vantaggio di una rarefazione delle vertenze a quelle di effettiva importanza ed irrisolvibilità per altra via. La normativa fondamentale di riferimento: le linee guida individuate dagli artt. 91 – 97 del codice di rito A conferma di quanto fin qui esposto richiamo la vostra attenzione sulle espressioni utilizzate dal legislatore per intitolare il capo IV in commento “della responsabilità delle spese e per i danni processuali”, sicuramente retaggio dell’originaria impostazione codicistica ma comunque ancora oggi significative dell’approccio legislativo alla fattispecie, reso evidente dall’impiego dei termini “responsabilità … danni”. Tralasciando gli articoli 93 e 94 (distrazione delle spese e condanna di rappresentanti o curatori), privi di interesse in relazione al tema del nostro incontro, occorre prendere le mosse dall’art. 91, rappresentante il vero e proprio ago della bussola che deve orientare il convincimento del giudice sul punto: “Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”. La norma in commento, secondo una opinione ampiamente accolta, enuncia il fondamentale principio della soccombenza; attraverso quest’ultimo il codice di rito avrebbe recepito l’idea, compiutamente enunciata dal Chiovenda, secondo cui il costo del ricorso alla giustizia civile non deve ripercuotersi in pregiudizio 3 della parte che ha ragione, giacchè, se così fosse, la parte vincitrice subirebbe una decurtazione patrimoniale non altrimenti giustificabile. Ne discende che, non potendo ragionevolmente immaginarsi che le spese di lite possano essere rimborsate al vincitore dall’erario, se non altro per gli intollerabili effetti di incremento della litigiosità che siffatta soluzione comporterebbe, nessun altra strada è percorribile se non quella di porre le spese a carico di chi perde. Della soccombenza la norma non dà un’espressa definizione ma la stessa si evince, indirettamente, dall’indicazione del provvedimento – la sentenza conclusiva del processo – contenente la statuizione sulle spese: la soccombenza, quindi, discende dall’esito finale del processo, valutato globalmente e nella sua oggettività, risultando irrilevante che la decisione sia di rito o di merito e non potendosi correlare con il diniego, singolarmente considerato, di una o più istanze od eccezioni avanzate dalle parti nel corso del giudizio bensì, come detto, con il risultato finale della lite, valutato nella sua oggettività. E’ peraltro frequente leggere sentenze nelle quali, a conferma di quanto detto in premessa, la compensazione delle spese (di cui più ampiamente in seguito) trova giustificazione nella reiezione di eccezioni, processuali o di merito, avanzate dalla parte risultata poi vittoriosa. Una decisione di tal genere, a mio avviso, risulterebbe errata, proprio perché idonea a violare il principio della soccombenza così come or ora delineato. Si pensi al caso della parte che, nel costituirsi in giudizio in una causa avente ad oggetto il pagamento di una somma, eccepisca l’incompentenza territoriale del giudice ovvero la prescrizione del credito. Laddove il giudice, pur disattendendo le eccezioni in commento, respinga nel merito la domanda di parte attrice, non potrà fare altro che considerare soccombente quest’ultima, senza possibilità di procedere alla compensazione delle spese, anche solo parziale, giustificando tale pronuncia con una pretesa soccombenza del convenuto su determinate eccezioni che, come detto, non può essere ricondotta alla nozione di soccombenza fatta propria dal codice. Ad analogo risultato, inoltre, si dovrà pervenire laddove la domanda della parte non trovi integrale accoglimento come nel caso in cui, a fronte di una quantificazione del danno in € 50.000, lo 4 stesso sia poi concretamente determinato dal giudice in somma inferiore. In questi casi è spesso utilizzato il termine di “soccombenza parziale”, a mio avviso improprio in quanto idoneo a creare confusione con la ben differente fattispecie della “soccombenza reciproca”, presupponente l’introduzione in giudizio di domande contrapposte. In sintesi, se la domanda di una parte è accolta, scatta la soccombenza con tutte le relative conseguenze in punto spese e l’accoglimento della domanda in misura inferiore a quanto richiesto avrà come unica ma doverosa conseguenza quella di imporre al giudice di liquidare le spese non già in base al petitum bensì con riferimento a quanto concretamente liquidato. Il principio della soccombenza si applica anche alle spese determinate da errori in procedendo o in iudicando commessi dal giudice. Colui che attivamente o passivamente si espone all’esito del processo, oltre a conseguire i vantaggi, deve infatti anche sopportare le eventuali conseguenze sfavorevoli che, in ordine alle spese, sono stabilite a suo carico in base al principio della soccombenza: e ciò anche se si tratti di spese non rigorosamente consequenziali e strettamente dipendenti dall’attività della parte rimasta soccombente, ma derivanti dagli errori di cui sopra in cui può incorrere il giudice nei vari gradi e fasi del processo; pensiamo a quelle spese che vengono sopportate da coloro che sono chiamati a partecipare al processo per ordine del giudice sul presupposto, poi rivelatosi erroneo, che la emananda sentenza possa o debba incidere sulla loro sfera giuridica: solo in tal modo, infatti, può essere efficacemente salvaguardato il fondamentale diritto di difesa delle parti che vengono ingiustamente chiamate in giudizio. Quanto sopra giustifica immediato accenno alla sorte delle spese relativamente al terzo chiamato, soprattutto considerando la discrezionalità oggi assegnata alla parte nel coinvolgere nel processo altri soggetti, indipendentemente dall’autorizzazione del giudice in tal senso. Sul punto l’art. 91 cod. proc. civ. nulla espressamente dice ma la soluzione delle fattispecie concrete dovrà sempre trovare risposta attraverso l’applicazione del principio della soccombenza, peraltro temperato da quello della causalità. In linea generale, possono verificarsi diverse eventualità secondo che, in presenza di una pluralità di soggetti partecipanti al giudizio, si versi o meno in ipotesi di pluralità di rapporti processuali. 5 In quest’ultimo caso, qualora si sia quindi in presenza di un unico rapporto processuale, le regole applicabili non divergono da quelle consuete, dall’angolo visuale della parte vincitrice, se non, eventualmente, nell’ipotesi che più vincitori siano rappresentati in giudizio da distinti difensori, mentre, dall’opposto angolo visuale, troveranno applicazione le previsioni contenute nell’art. 97, a seconda che più soccombenti siano o meno avvinti da un comune interesse; “se le parti soccombenti sono più, il giudice condanna ciascuna di esse alle spese e ai danni in proporzione del rispettivo interesse nella causa. Può anche pronunciare condanna solidale di tutte o di alcune di esse, quando hanno interesse comune. Se la sentenza non statuisce sulla ripartizione delle spese e dei danni, questa si fa per quote uguali”. Se, viceversa, si è in presenza di una pluralità di rapporti processuali, essi vanno distintamente considerati, almeno in linea di massima, attraverso l’individuazione, di volta in volta, della relazione di soccombenza riscontrabile. In altri termini, nel giudizio con pluralità di parti, quando si tratti di più cause autonome, ancorchè connesse ovvero riunite in un solo processo, occorre, ai fini delle spese, considerare distintamente la reciprocità delle singole posizioni processuali e sostanziali, con la conseguenza che a carico della parte che è soccombente nei confronti di una sola delle altre, non possono essere poste anche le spese relative alle parti che, ancorchè assistite dallo stesso difensore e da questo congiuntamente difese, stiano in giudizio per una distinta ed autonoma causa. Tale impostazione, integrante diretta esplicazione del principio di soccombenza, subisce tuttavia rilevanti deviazioni fondate sul principio di causalità, qualora l’innesto sul rapporto processuale principale di un rapporto processuale ulteriore sia in buona sostanza addebitabile all’originario attore che sia risultato soccombente. Così, in caso di domanda principale e successiva chiamata in garanzia da parte del convenuto, è ben possibile che l’attore soccombente subisca condanna al rimborso delle spese di lite non soltanto nei confronti del convenuto che sia risultato vittorioso, ma anche nei confronti del garante – si pensi all’ipotesi ricorrente dell’assicuratore per responsabilità civile – verso il quale l’attore non abbia proposto domanda alcuna e, dunque, non possa a stretto rigore essere considerato soccombente. Ai fini del riparto delle spese, cioè, occorre guardare non tanto alla parte che abbia effettuato la chiamata, ma a quella che ne abbia provocato l’effettuazione. 6 Il criterio della soccombenza, quando non viene escluso dalla compensazione per gravi ed eccezionali ragioni, opera quindi anche al fine di individuare chi debba sopportare le spese del chiamato in garanzia, pure quando nei suoi confronti non sia stata proposta alcuna domanda o emessa alcuna pronuncia di merito, con la conseguenza che le spese processuali del chiamato che non sia rimasto soccombente non possono gravare sul chiamante, quando anche quest’ultimo non sia rimasto soccombente né nei confronti del chiamato né nei confronti della controparte. La questione in esame assume rilievo particolare avuto riguardo al regolamento delle spese nei giudizi in cui è parte un assicuratore, di particolare interesse per i giudici di pace. La disciplina del carico delle spese giudiziali tra assicuratore ed assicurato deve essere desunta dal combinato disposto degli artt. 1917 cod. civ. e 91 cod. proc. civ. e deve essere così distinta: a) Spese del giudizio per il risarcimento dei danni, dovute dall’assicuratore soccombente al danneggiato: le stesse costituiscono accessorio della somma liquidata per danni e devono essere comprese nella somma assicurata (massimale di polizza), quale conseguenza diretta dell’attuazione del diritto che l’assicurato ha, a norma dell’art. 1917 1° c. cod. civ., di essere tenuto indenne di quanto, in dipendenza del fatto accaduto durante l’assicurazione, deve pagare al terzo; b) Spese sostenute per resistere all’azione del danneggiato contro l’assicurato: sono previste dall’art. 1917 3° c. doc. civ. che le pone a carico dell’assicuratore nei limiti del quarto della somma assicurata o, se la somma dovuta al danneggiato superi la somma assicurata, impone una ripartizione tra assicuratore ed assicurato in proporzione del rispettivo interesse e cioè in proporzione delle somme che, in ordine al risarcimento del terzo, gravano a carico di ciascuno; c) Infine, spese giudiziali sostenute dal danneggiato vittorioso contro l’assicuratore: le stesse non sono disciplinate dall’art. 1917 cod. civ. perché derivano dal principio della soccombenza processuale di cui all’art. 91 cod. proc. civ. e, pertanto, non devono essere comprese nel massimale dovuto. 7 L’inciso dell’art. 91 per l’ipotesi di proposta conciliativa Il primo capoverso dell’art. 91 così recita: “il Giudice … se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’art. 92”. La previsione in commento è stata introdotta con la riforma del 2009 ed è in perfetta sintonia con l’intento deflattivo più volte cennato, rafforzato dall’introduzione (o reintroduzione che dir si voglia) dell’istituto della media conciliazione. Il primo aspetto da considerare concerne l’esistenza negli atti di causa di quella proposta conciliativa considerata dal Legislatore come indispensabile per invertire il principio della soccombenza. Occorrerà pertanto che sia acquisita al processo detta proposta, desumibile non solo dagli esiti di una infruttuosa mediazione ovvero da quelli conseguenti alla comparizione personale delle parti che il giudice può sempre disporre ai fini della conciliazione bensì anche dalla corrispondenza intercorsa fra i legali dei contendenti. Sotto quest’ultimo aspetto l’argomento appare delicato poiché deve essere conciliato con le norme deontologiche in materia, portanti inibizione alla produzione in giudizio di quella corrispondenza qualificata come “riservata e personale”, con la conseguenza che delle ipotesi conciliative in commento, al postutto, non vi rinvenga traccia negli atti di causa. Il problema può essere risolto da noi avvocati, evitando di attribuire alla corrispondenza in commento il carattere “riservato e personale”, ben chiarendo al legale avversario che l’ipotesi è formulata proprio per evitare l’instaurazione o la prosecuzione della causa, già preannunciandogli l’intenzione di versare in giudizio detta ipotesi. Così facendo, al di là dei casi in cui l’ipotesi conciliativa non emerga dalla procedura di mediazione ovvero dall’esito della comparizione personale delle parti che il giudice può sempre disporre ai sensi dell’art. 185, si consentirà a quest’ultimo di avere riscontro che l’ipotesi prospettata o condivisa da una delle parti ha trovato poi conferma nella decisione, così spianandogli la strada per la concreta applicazione della norma. Occorre peraltro precisare come l’imperativo “condanna ” utilizzato dal Legislatore nell’inciso dell’art. 91 risulti poi, di fatto, temperato dal riferimento all’assenza di giustificato motivo e, ancor di più, dal 8 rimando all’art. 92 che consente la compensazione, in parte o per l’intero, laddove concorrano altre gravi ed eccezionali ragioni. Comunque sia, facendo corretta applicazione dell’inciso in commento, potrà accadere che il principio della soccombenza subisca notevolissima deroga, di fatto rappresentando una sanzione per la parte che, rifiutando senza giustificato motivo quell’ipotesi conciliativa poi condivisa dal giudice nella sentenza, abbia provocato l’inutile prosecuzione del giudizio. La norma, quindi, rappresenta indubbiamente un significativo deterrente all’inutile accanimento di una delle parti che peraltro potrebbe trovare maggiore applicazione se il giudice potesse dedicarsi con la migliore attenzione ad ogni singola causa, studiandola approfonditamente ed utilizzando al meglio quei poteri officiosi che gli competono per arrivare ad un’ipotesi conciliativa poi condivisa con la sentenza. La compensazione delle spese La fattispecie è regolata dall’art. 92 il quale, in primo luogo, esordisce con “il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue”, con successivo accenno alla violazione del dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88, sul quale sorvolo per ovvie ragioni. L’espressione utilizzata integra un’evidente attenuazione del principio della soccombenza e può trovare applicazione – avuto riguardo alle vere e proprie spese di causa - proprio in quei casi in cui la domanda di una parte sia accolta ancorchè in misura inferiore a quanto richiesto. Si pensi all’ipotesi di una richiesta di risarcimento danni che, quantificati in oltre 520.000 €, abbia comportato il versamento di un contributo unificato di € 1.466,00; laddove il giudice, pur accogliendo la domanda, riducesse la quantificazione ad € 250.000, non solo gli onorari di lite dovranno essere liquidati applicando tale scaglione ma troverei altresì perfettamente logico ed in coerenza con l’art. 91 la liquidazione delle vere e proprie spese nella minor somma di € 660, pari al contributo che avrebbe dovuto essere versato se la quantificazione dei danni fosse stata operata nei termini poi condivisi dal giudice. Ciò posto, l’art. 92 così recita “se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”. 9 Il primo problema da affrontare è quello della soccombenza reciproca che, a ben vedere, non costituisce altro che esplicazione del principio stesso di soccombenza in quanto, nell’ipotesi in commento, le rispettive condanne alle spese, disposte in applicazione della regola generale, finirebbero oggettivamente per elidersi e risultare in definitiva superflue. E’ questa la ragione per cui, in buona sostanza, in caso di soccombenza reciproca, qualora sia disposta la compensazione, ciascuna parte sopporta in via definitiva le proprie spese, non senza rilevare che, anche in caso di soccombenza reciproca, il giudice può porre le spese di lite per intero a carico dell’uno o dell’altro dei contendenti, la cui soccombenza ritenga prevalente (Cass. 13/88; 12879/99). E’ importante notare che, secondo un indirizzo giurisprudenziale rimasto fermo fino a qualche tempo fa, la nozione di soccombenza reciproca può ricorrere in due ipotesi: a) Quando vi sia la contrapposta formulazione di domande; b) Quando l’attore abbia proposto nei confronti del convenuto un cumulo di domande. In dette situazioni, cioè, si ha soccombenza reciproca, totale o parziale, se le contrapposte domande sono entrambe respinte in tutto o in parte, ovvero se soltanto una o alcune delle domande proposte dall’attore sia stata accolta, essendo così risultato vincitore il convenuto sulle altre. Viceversa, non ricorre l’ipotesi della reciproca soccombenza quando la sola domanda proposta, quella principale avanzata dall’attore nei confronti del convenuto, risulti fondata soltanto in parte, quand’anche minima (Cass. 2124/94; 8532/2000; 7638/2004); in tale ipotesi, come detto spesso è ricondotta alla figura della soccombenza parziale, quindi, la pronuncia di compensazione potrà eventualmente giustificarsi in forza dei residuali motivi, se gravi ed eccezionali, previsti dallo stesso art. 92. Occorre peraltro richiamare l’esistenza di pronuncia isolata (Cass. 22381/09) secondo cui di soccombenza reciproca potrebbe parlarsi anche nell’ipotesi in cui la parzialità dell’accoglimento riguardi l’aspetto quantitativo della domanda. L’arresto citato, come detto del tutto isolato, non può essere assolutamente condiviso, sol considerando che l’attore il quale avesse chiesto 100 e si fosse visto riconoscere 49 potrebbe essere, secondo questa impostazione, ritenuto prevalentemente soccombente e pertanto condannato a rimborsare, anche per intero, le spese alla controparte. 10 Con ciò rimarrebbe seppellito il principio stesso, ribadito dalla corte regolatrice in innumerevoli occasioni, secondo cui in materia di spese ogni pronuncia è lecita, ecezion fatta per quella di condanna del vincitore – sia pure in parte e finanche in minima parte vincitore – al rimborso delle spese in favore dell’altra parte, salvo il caso della violazione del dovere di lealtà e probità. Le altre ragioni di compensazione L’art. 92 cod. proc. civ., nella sua originaria formulazione, consentiva la compensazione oltre che in caso di soccombenza reciproca, nell’ipotesi di sussistenza di “altri giusti motivi”. L’interpretazione giurisprudenziale della norma riconosceva in proposito al giudice un amplissimo e insindacabile potere discrezionale, con la conseguenza che l’argomento non era sottoposto ad alcun obbligo di motivazione, rappresentando l’espressione “sussistono giusti motivi per compensare le spese” la sintesi reputata necessaria e sufficiente per la compensazione, totale o parziale. Le critiche mosse a tale interpretazione, nel frattempo attenuata da giurisprudenza maggiormente critica, ha indotto il legislatore ad introdurre, con decorrenza dal 1° marzo 2006, l’obbligo di esplicitamente indicare in motivazione i giusti motivi, posti a fondamento dell’operata compensazione, ulteriormente vincolando il giudice con la riforma del 2009 che ha portato, per i giudizi instaurati successivamente al 4 luglio 2009, a sostituire i “giusti motivi” con “gravi ed eccezionali ragioni”; pare superfluo sottolineare come l’irrigidimento della norma, pur rientrando nella condivisibile politica deflazionistica del contenzioso giudiziario, sia stato espresso in guisa talmente rigorosa da comportare una sostanziale quasi – abrogazione dell’istituto della compensazione. Posto che l’uso della congiunzione sembra importare che le ragioni di compensazione debbano essere al tempo stesso sia gravi che eccezionali, non pare potersi dubitare che buona parte delle ipotesi più ricorrenti di compensazione in precedenza individuabili non abbiano più, nel quadro di applicazione della nuova disposizione, alcuna cittadinanza. Così, per accennare alle più comuni ipotesi passate, potrebbe non esservi nulla di eccezionale nella particolare difficoltà interpretativa posta da una nuova normativa, né l’esistenza di contrasti giurisprudenziali su una determinata questione. 11 Neppure potrebbe essere considerata eccezionale la dubbiezza e l’obiettiva controvertibilità della lite ovvero che la questione affrontata costituisca per la giurisprudenza problema nuovo. Allo stesso modo non sarebbe eccezionale il mutamento di giurisprudenza in quanto, anzi, la corte regolatrice ci ha insegnato, soprattutto negli ultimi anni, che qualsiasi principio giurisprudenziale può, ad un dato momento, essere capovolto. Assolutamente bandita, poi, parrebbe ad oggi la compensazione disposta in considerazione della peculiarità del caso ovvero della particolarità della controversia (formule in passato diffusamente utilizzate) dal momento che, evidentemente, ogni controversia è peculiare. A nulla potrà rilevare, ancora, la leale condotta anche preprocessuale del vinto, che avrà fatto in tal modo, comportandosi lealmente, nient’altro che il proprio dovere. Sono in buona sostanza dell’avviso che la parabola della compensazione, a partire dalla totale discrezionalità, sembra oggi essere giunta a conclusione sebbene - stante la novità della norma – ancora non esistano significative pronunce della cassazione su sentenze di merito che, forse forzando il dato letterale ma in alcuni casi con estremo buon senso, perseverano nel compensare le spese…. La liquidazione concreta delle spese di lite – il DM 55/2014 E’ questo un aspetto fondamentale, sia per il giudice così come per le parti che, proprio alla luce della quantificazione delle spese, sono finalmente poste nella condizione di valutare, ancorchè a posteriori, la concreta e complessiva fruttuosità del contenzioso che le ha viste protagoniste. Infatti, tutto quanto sin qui esposto, risulterebbe vano se il giudice, dopo avere redatto una sentenza perfetta per quel che concerne il merito della causa, dopo avere correttamente applicato in punto spese i principi generali sopra esposti, scivolasse su una liquidazione errata, laddove comunque irrispettosa dei principi e dei criteri enunciati dal più recente decreto ministeriale in argomento. La risalenza ad aprile del corrente anno dell’emanazione del provvedimento regolamentare in commento è di stimolo alla sua approfondita analisi, resa indispensabile dall’evidente novità dello stesso. Il DM 55/14 sostituisce il precedente DM 140/2012, che, giova rammentarlo, era dedicato non solo, come l’attuale, alla 12 “determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense” bensì, più in generale, “alla liquidazione …. dei compensi per le professioni regolamentate vigilate dal Ministero della giustizia”. La norma in commento, quindi, rappresenta l’esplicazione concreta della particolare attenzione del guardasigilli per le competenze dell’avvocato, intese in senso ampio, ed è strutturato in cinque capi, così sintetizzabili: Capo I – artt. 1-3: disposizioni generali Capo II – artt. 4-11: disposizioni concernenti l’attività giudiziale Capo III – artt. 12-17: disposizioni concernenti l’attività penale Capo IV – artt. 18-27: disposizioni concernenti l’attività stragiudiziale Capo V – artt. 28–29: disciplina transitoria - entrata in vigore; il testo è accompaganato da ben venticinque tabelle riportanti i c.d. parametri forensi. Il regolamento è stato emanato ai sensi degli artt. 1 e 13 della legge 31 dicembre 2012 n. 247, portante la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense che, opportunamente, sono stati riportati nelle note al testo del decreto pubblicato in Gazzetta, alle quali pertanto rimando per ogni migliore approfondimento. La prima impressione che si ricava dalla lettura del decreto è quella di trovarsi di fronte ad una formulazione non del tutto soddisfacente, soprattutto laddove si assiste alla sovrapposizione, con conseguente possibile confusione, tra la liquidazione giudiziale nei rapporti con la controparte (liquidazione processuale) e quella propria dei rapporti con il cliente (liquidazione contrattuale), quest’ultima del tutto estranea alla materia oggetto del nostro incontro. Secondo il coordinato disposto degli artt. 28 e 29 parrebbe pacifico che il DM in commento debba essere applicato alle liquidazioni effettuate a far tempo dal 3 aprile 2014; la disciplina transitoria può apparire discutibile ma così stanno le cose; l’alternativa, esclusa quella sicuramente farragginosa di una applicazione contemporanea, distinta per fasi, dei due decreti, sarebbe stata quella di applicare le norme ai processi instaurati successivamente all’entrata in vigore del decreto; la scelta è stata però diversa, improntata evidentemente a ragioni di natura “politica” e ognuno potrà esprimere le sue considerazioni. Ogni dubbio circa la doverosa applicazione del decreto avuto riguardo alle liquidazioni effettuate dal 3 aprile 2014, invero, potrà 13 essere superato leggendo la puntualissima relazione del dottor Converso, Presidente di Sezione della Corte di Appello di Torino, il quale nell’incontro del 19 novembre 2012 illustrò diffusamente le ragioni che già allora militavano per la soluzione anche oggi prospettata; non posso pertanto fare altro che invitarvi a consultare la relazione in commento, accedendo al sito della Corte di Appello di Torino dedicato alla formazione, così verificando l’attualità e fondatezza delle argomentazioni a suo tempo sviluppate. Una prima e fondamentale novità è rappresentata dal rimborso forfetario delle spese generali, in passato fissato nella misura del 12,5% dalle vecchie tariffe professionali, poi eliminato dal DM 140/12, oggi reintrodotto nella misura del 15% con un inciso “di regola” che si sarebbe potuto tranquillamente evitare. Non è infatti dato comprendere quale sia l’eventuale eccezione alla regola, difettando il decreto di ogni ulteriore specificazione e comunque prestandosi l’infelice formula adottata a ipotetiche disapplicazioni del rimborso che, allo stato, intravedo infondate e non giustificabili. L’art. 2 pone l’affermazione di carattere generale secondo cui “il compenso dell’avvocato è proporzionato all’importanza dell’opera”, poi meglio dettagliata nel successivo art. 4, riportante i parametri generali per la determinazione dei compensi in sede giudiziale, di evidente interesse in questa sede. Risulta infatti specificata una serie di elementi (le caratteristiche, l’urgenza, il pregio, l’importanza, la natura, la difficoltà, il valore, le condizioni soggettive del cliente …) che deve essere tenuta in conto ai fini della liquidazione del compenso, precisando - con riferimento all’elemento rappresentato dalla difficoltà dell’affare - che il Giudice dovrà appuntare la sua attenzione sui contrasti giurisprudenziali nonché (novità del DM 55) tenuto conto “della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti”. Quest’ultima precisazione desta immediatamente qualche perplessità in quanto sarebbe conseguentemente onere dell’avvocato produrre in causa anche quella, a volte copiosa, corrispondenza intercorsa con il cliente (normalmente gelosamente custodita nel proprio fascicolo) salvo poi lasciare al Giudice ogni migliore valutazione circa la necessarietà di detta corrispondenza. 14 Passando alla concreta liquidazione, si osserva che tutti gli elementi sovra cennati dovranno essere sinteticamente valutati dal Giudice nel approcciare i valori medi riportati nelle tabelle allegate, così aumentando gli stessi “di regola” (ecco nuovamente l’espressione evidentemente cara al Ministero) fino all’80% ovvero diminuendoli sino al 50%, con aumenti e diminuzioni, quantificati per la fase istruttoria, rispettivamente, al 100 e 70%. E’ poi riprodotta la suddivisione del giudizio in varie fasi, vale a dire: di studio della controversia; introduttiva del giudizio; istruttoria; decisionale. La formulazione adottata è sostanzialmente speculare a quella già utilizzata nel DM 140/12, ad eccezione di quanto disposto per il procedimento esecutivo, laddove lo stesso è oggi articolato nella fase di studio ed introduttiva, distinta da quella istruttoria e di trattazione. Le varie tabelle che riportano i parametri forensi sono distinte per tipologia di giudizio e ciascuna delle stesse riporta somme ragguagliate al valore della controversia; il primo aspetto che il Giudice dovrà affrontare è quindi rappresentato dalla determinazione del valore della stessa. L’argomento è trattato dall’art. 5 del DM secondo cui “il valore della causa – salvo quanto diversamente disposto dal presente comma – è determinato a norma del codice di procedura civile”. Si dovrà quindi fare riferimento al codice di rito, con alcune eccezioni in questo caso specificamene indicate dal DM (per esempio: nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, si ha riguardo di norma alla somma attribuita piuttosto che a quella domandata – a conferma di quanto esposto precedentemente). Richiamo la vostra attenzione sull’ultimo inciso del numero 1 dell’art. 5 secondo cui “in ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o alla legislazione speciale”. La norma parrebbe attribuire al Giudice il potere di fare riferimento a quello che è definito come “valore effettivo della controversia” laddove lo stesso gli appaia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, differente da quello che dovrebbe trovare applicazione. L’espressione risulta però di difficile interpretazione ed applicazione in quanto il percorso logico che il Giudice dovrebbe seguire sarebbe il seguente: 15 secondo le norme del codice di rito dovrei attribuire alla causa un determinato valore ma, considerati gli interessi perseguiti dalle parti, posso fare riferimento al valore effettivo della controversia laddove manifestamente diverso (in senso maggiore o minore) rispetto a quello presunto. Non si comprende francamente in base a quali criteri il Giudice potrebbe individuare il valore “effettivo” della controversia se non con un giudizio del tutto personale ed opinabile, di per sé suscettibile di essere censurato in sede di eventuale gravame. Ulteriore imprecisione del decreto deve essere ravvisata nell’individuazione dello scaglione da applicare per le cause di valore indeterminabile; il numero 6 dell’art. 5, infatti, considera le stesse non inferiori ad € 26.000 e non superiori ad € 260.000, tenuto conto dell’oggetto e della complessità della controversia. Il problema, però, è rappresentato dal fatto che nelle tabelle poi allegate al decreto non ci si trova di fronte ad un solo scaglione, da 26.000 a 260.000 €, bensì a due, il primo da 26.000 a 52.000 € ed il secondo da 52.001 a 260.000 €, con la conseguenza che potrebbe sorgere dubbio su quale scaglione utilizzare e, conseguentemente, su quali somme liquidare. La soluzione concreta discenderà dall’ulteriore valutazione del Giudice circa l’oggetto e la complessità della controversia che, al cospetto di causa di valore indeterminabile, gli consentirà di applicare l’uno o l’altro scaglione a seconda, appunto, dell’oggetto e della complessità della vertenza. Non senza soggiungere che ulteriore discrezionalità è attribuita al Giudice, sempre per causa di valore indeterminabile, laddove la stessa risulti di particolare importanza per lo specifico oggetto, il numero e la complessità delle questioni giuridiche trattate, nonché per la rilevanza degli effetti ovvero dei risultati utili, anche di carattere non patrimoniale: in tal caso il valore della causa si considererà (di regola … !) entro lo scaglione fino a € 520.000. Appare pertanto evidente che la liquidazione delle spese sarà più agevole nel caso in cui il valore della controversia sia determinato o concretamente determinabile dal Giudice (si pensi alla solita ipotesi della liquidazione dei danni) mentre maggiori variabili e più significativa discrezionalità potrebbero intervenire nel caso di controversie di valore indeterminabile. E’ questa una scelta legislativa ben chiara ma della quale, in ultima analisi, è difficile comprendere le reali motivazioni. 16 Un esempio numerico potrà essere utile. Giudizio ordinario di cognizione innanzi al Tribunale: somma richiesta a titolo di risarcimento dei danni 270.000 €; somma concretamente liquidata dal Giudice 150.000 €. Si dovrà fare riferimento, per le ragioni più volte esposte circa la prevalenza della somma liquidata rispetto a quella richiesta, allo scaglione da € 52.001 ad € 260.000. Le tabelle indicano peraltro i valori medi: potrebbe sorgere il dubbio sulla possibilità di aumentare o diminuire i valori medi tenendo conto della prossimità del valore liquidato al minimo ovvero al massimo del valore dello scaglione, così da evitare che identica liquidazione sia riservata a decisioni portanti condanna al pagamento di € 53.000 rispetto a quelle di condanna ad € 250.000. Tale soluzione, però, non appare condivisibile in quanto, al di là della complicazione pratica che si verrebbe a creare, si finirebbe col dimenticare che i valori medi sono in un certo qual modo imposti dal decreto, con riferimento ai singoli scaglioni, senza ulteriori distinzioni derivanti dalla somma concretamente liquidata nell’ambito dello scaglione stesso. Sembra quindi che sull’aumento o diminuzione dei valori medi possano influire non tanto il valore concreto della somma liquidata nell’ambito dello scaglione di riferimento bensì – esclusivamente – quegli ulteriori elementi dettagliatamente indicati nell’incipit del numero 1 dell’art. 4, sovra richiamati. In buona sostanza, ritengo che laddove il Giudice intendesse discostarsi dai valori medi, dovrà dettagliatamente indicare le ragioni di tale scostamento, evitando peraltro di ripetere pedissequamente le formule del decreto, bensì ripiegandosi concretamente nell’esplicazione di quale urgenza, quale pregio, quale difficoltà, quali condizioni soggettive del cliente, quale complessità delle questioni giuridiche di fatto … ha tenuto in considerazione per aumentare o diminuire i valori medi. E’ un compito estremamente delicato e la complessità dello stesso, ne sono convinto, indurrà il più delle volte il Giudice meno attento a conformarsi ai valori medi, senza crearsi ulteriori problemi. Riguardo alle ipotesi, francamente residuali e di scarsa importanza per i Giudici onorari, di cause di valore veramente indeterminabile (penso alle separazioni personali ed ai divorzi, materie inibite al Got) non posso che ribadire la forse eccessiva discrezionalità attribuita al Giudice, stante la riconosciuta possibilità di ricomprenderle nei due scaglioni da 26.000 a 260.000 € con 17 l’ulteriore facoltà di ricondurle in quello successivo, sino ad € 520.000, in caso di vertenza di particolare importanza. Ulteriori aspetti significativi del D.M. 55/14 Art. 6: “nell’ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia, la liquidazione del compenso è di regola aumentato (così nel testo – ndr) fino a un quarto rispetto a quello altrimenti liquidabile per la fase decisionale fermo quanto maturato per l’attività precedentemente svolta”. Si tratta di normativa che, evidentemente, è applicabile esclusivamente in caso di liquidazione delle spese non già in quello che ho definito come ambito “processuale” bensì in quello “contrattuale”, afferente ai rapporti fra cliente ed avvocato. Infatti, per l’ipotesi di conciliazione giudiziale, sarà la volontà delle parti – e non certamente il giudice – a disciplinare, nell’ottica della conciliazione, anche la sorte delle spese di lite; laddove, invece, la causa sia definita transattivamente al di fuori del processo, le spese legali, genericamente considerate, saranno anch’esse ricomprese nell’accordo transattivo e sarà opportuno per le parti disertare le successive udienze, così provocando l’estinzione del processo (con applicazione teorica dell’art. 310 u.c. c.p.c. secondo cui le spese restano a carico di chi le ha anticipate) salvo raggiungere lo stesso risultato attraverso la rinuncia accettata dalla controparte, a spese compensate. Ne discende che il “premio” contemplato dall’articolo in commento potrà essere erogato solamente laddove si discuta della liquidazione delle spese nei rapporti fra cliente ed avvocato, sempre che ciò sia possibile alla luce dell’art. 1 del D.M. secondo cui le norme dello stesso si applicano “quando … il compenso non sia stato determinato in forma scritta e in ogni caso di mancata determinazione consensuale …”. Art. 8: “il compenso da liquidare giudizialmente a carico del soccombente costituito può essere aumentato fino ad un terzo rispetto a quello altrimenti liquidabile quando le difese della parte vittoriosa sono risultate manifestamente fondate”. Il fine della norma è nuovamente ispirato dall’intento di deflazionare il contenzioso, con atteggiamento indirettamente 18 punitivo nei confronti del soccombente attraverso il premio riconosciuto al vincitore. Ciò che suscita perplessità, peraltro, è il riferimento alla manifesta fondatezza delle difese (non già delle domande – si noti) della parte vittoriosa che introduce un criterio sicuramente originale, suscettibile di valutazione estremamente discrezionale e, come tale, ardua da motivare. Le singole tabelle: indubbio pregio del D.M. deve essere individuato nella migliore e più esaustiva individuazione delle somme da liquidare, realizzata attraverso l’incremento del numero delle tabelle, distinte per materia e per tipologia di giudizio, anche nei suoi vari gradi. La liquidazione da parte del Giudice di Pace L’unica particolarità degna di nota riguarda le cause di valore sino ad € 1.100 per le quali l’art. 91 stabilisce che “le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda”. I parametri ed i criteri del D.M. parrebbero coerenti con la norma citata che, peraltro, oltre a dubbi di costituzionalità, appare comunque destinata a privare i cittadini, ed in particolare i consumatori, della possibilità di affrontare cause legittime ma di valore economico modesto (ad es. relative ad utenze telefoniche ed energetiche) per le quali, considerato l’estremo tecnicismo della materia, è praticamente irrinunciabile l’assistenza di avvocato; le spese di patrocinio, non potendo trovare soddisfazione nella liquidazione del giudice, rimarrebbero quindi in larga misura a carico dell’attore, per il quale la vertenza risulterebbe di fatto antieconomica. Ulteriori aspetti di rilievo ● La statuizione delle spese è provvisoriamente esecutiva ai sensi dell’art. 232 c.p.c. sia che il giudice accolga, sia che rigetti la domanda. Sul punto, il primo indirizzo secondo cui la pronuncia sulle spese poteva considerarsi esecutiva solo in quanto collegata ad una pronunzia di condanna appare oggi superato da quello successivamente formatosi, oggi consolidato, in base al quale la pronuncia sulla spese è invece sempre esecutiva. 19 ● La condanna alle spese si estende all’Iva, da calcolare non solo sugli onorari liquidati ma anche sugli accessori, quali il rimborso forfetario ed il contributo di previdenza. La giurisprudenza maggioritaria ritiene che l’Iva sia dovuta comunque, indipendentemente dalle domande e pur in assenza di specifica pronunzia, fatta salva – in sede di opposizione all’esecuzione – la facoltà di contrastare l’imputazione dell’imposta laddove ritenuta detraibile dalla controparte. ● La nota spese Secondo l’art. 75 delle disposizioni di attuazione del codice di rito “il difensore al momento del passaggio in decisione della causa deve unire al fascicolo di parte la nota delle spese indicando in modo distinto e specifico gli onorari e le spese, con riferimento all’articolo della tariffa dal quale si desume ciascuna partita”. La formulazione legislativa è stata conservata nella sua versione originaria sebbene implicitamente risulti oggi abrogata la possibilità di fare riferimento alle tariffe, non più esistenti. Nondimeno il deposito della nota spese appare ancora oggi se non doveroso, quantomeno sicuramente opportuno. Sotto un profilo squisitamente utilitaristico, infatti, il deposito della nota porrà il Giudice nella condizione di confrontarsi con la stessa, desumendone elementi di valutazione circa la liquidazione delle spese. E’ peraltro evidente che dovrà essere totalmente riveduta la tradizionale articolazione della nota spese che vedeva distinti e dettagliati i diritti di procuratore rispetto agli onorari di avvocato, risultando oggi doveroso espungere dal decreto ministeriale gli elementi ritenuti significativi per la richiesta liquidazione. In primo luogo, quindi, dovrà essere specificato il valore della causa, poi dettagliatamente indicando le ragioni in virtù delle quali si ritiene che i valori medi dei singoli scaglioni debbano essere aumentati ovvero, perché no, diminuiti. L’esaustività della nota, in ultima analisi, rappresenterà il punto di riferimento per l’eventuale gravame in punto spese, portante specifica censura alle – il più delle volte stringate – ragioni adottate dal giudice per liquidare importi inferiori a quelli richiesti. 20 La responsabilità aggravata prevista dall’art. 96 u.c. cod. proc. civ. “… in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”. Il comma è stato aggiunto dalla riforma del 2009 e, come in appresso si avrà modo di meglio precisare, risponde anch’esso all’esigenza di deflazionare il giudizio civile, peraltro con caratteristiche e modalità differenti dalle ipotesi di responsabilità aggravata già esistenti, contemplate nei primi due commi dell’art. 96, sui quali non intendo soffermarmi. In primo luogo è interessante rilevare come la norma trovi un immediato antecedente nell'ultimo comma dell'art. 385 c.p.c. sul giudizio davanti alla Corte di Cassazione, introdotto dalla novella del 2006 (più precisamente dal D.L.vo 2.02.2006, n. 40) e, coerentemente, abrogato dall'ultima riforma, in coincidenza con l'introduzione della disposizione in commento; la norma abrogata, però, faceva espresso riferimento, quale presupposto per la condanna, alla colpa grave del soccombente, riferimento invece eliminato testualmente dalla nuova disposizione. Ed è da qui che nasce il primo e principale profilo problematico, ovvero quello dell'individuazione dei presupposti che legittimano l'emissione della condanna ex art. 96, terzo comma, c.p.c. e, più in particolare, se la stessa richieda o meno la sussistenza di un elemento soggettivo, così come le altre due ipotesi previste dal primo e secondo comma dello stesso articolo. Una risposta negativa (cioè nel senso di non ritenere necessario un elemento soggettivo) potrebbe, come cennato, fondarsi sul mero dato testuale della norma, la quale stabilisce che il giudice possa emettere condanna "in ogni caso", così facendo pensare ad una condanna del tutto svincolata dai requisiti di cui al primo ed al secondo comma del medesimo articolo. Tale interpretazione non è però condivisibile, dovendosi ritenere che il presupposto per l'emissione di questa condanna sia comunque la mala fede o colpa grave nell'agire o resistere in giudizio, e ciò sia per motivi sistematici che teleologici, oltre che per adeguare la norma ai parametri costituzionali. In primo luogo la collocazione dell'istituto all'interno dell'art. 96 c.p.c., rubricato "responsabilità aggravata", anziché all'interno 21 dell'art. 91 c.p.c., fa intendere che non può trattarsi di un mero aggravio della normale condanna alle spese, svincolato da qualsiasi profilo soggettivo e legato al solo elemento obbiettivo della soccombenza. Un ulteriore elemento testuale (sia pur indiretto) a favore dell'interpretazione qui accolta è il richiamo che la norma fa al solo art. 91 c.p.c., escludendo quindi l'art. 92, ovvero le ipotesi di compensazione delle spese, poiché ove ricorrano ragioni di compensazione non saranno sicuramente configurabili i presupposti della colpa grave. In secondo luogo, sotto l'aspetto teleologico, occorre sottolineare la natura sanzionatoria di tale condanna; la norma è stata introdotta nell'ambito di una novella legislativa che persegue nel suo complesso la finalità di ridurre i tempi del giudizio civile e di deflazionare il carico del relativo contenzioso e tale scopo, nel caso di specie, viene perseguito mediante uno strumento di "coazione indiretta" (verrebbe da dire, usando una terminologia tipica del diritto penale, che l'istituto ha una funzione generalpreventiva), poiché la probabilità di subire una condanna ulteriore (rispetto a quella nel merito ed al rimborso delle spese di lite avversarie), dovrebbe scoraggiare iniziative giudiziarie "avventate", pretestuose o meramente dilatorie, rendendo non più economicamente convenienti tali atteggiamenti. E’ indubbio però che l'istituto partecipi nel contempo della natura risarcitoria tipica della condanna di cui al primo comma dell'art. 96 c.p.c., perseguendo anche finalità di ristoro per la parte che è stata indebitamente costretta ad agire o resistere in giudizio; solo in quest'ottica si giustifica il fatto che la condanna sia posta comunque a favore di una parte del giudizio e non dello Stato (come sarebbe stato più coerente ove si fosse voluta introdurre una vera e propria pena). In pratica, il legislatore della novella del 2009 ha voluto, in primo luogo, superare la inapplicabilità di fatto dell'istituto del risarcimento dei danni per lite temeraria, alla luce della consolidata giurisprudenza della Cassazione formatasi sui primi due commi dell’art. 96, che richiede la prova rigorosa di aver subito un danno ulteriore rispetto a quello costituito dall'esborso delle spese di lite, e ciò ha fatto introducendo un'ipotesi di condanna che prescinde da qualsiasi accertamento di un effettivo danno; ma, così facendo, il legislatore ha ritenuto anche di perseguire indirettamente interessi pubblici, quali il buon funzionamento e l'efficienza della giustizia civile e, più in particolare, la ragionevole durata dei processi (che dovrebbe essere garantita dalla diminuzione del contenzioso, mediante l'eliminazione delle cause pretestuose o strumentali). Da tali plurime finalità nasce la natura ambigua o ibrida dell'istituto in 22 esame, che può perciò essere accostato all'istituto (tipico dei sistemi giuridici di common law, in particolare inglese e statunitense) dei punitive (o exemplary) damages (danni punitivi o esemplari), in virtù del quale, in caso di responsabilità extracontrattuale, al danneggiato viene liquidata una somma maggiore rispetto a quella necessaria per ristorare il danno subito, ove si accerti che il danneggiante abbia agito con malice (nozione avvicinabile a quella di dolo) o gross negligence (cioè colpa grave); tale istituto, infatti, al pari di quello in esame ha sia una funzione indennitaria, tipica del risarcimento da illecito civile, sia una funzione punitiva, tipica della sanzione penale (o amministrativa). Ma se cosi’ è, risulta evidente come - sia in base alla natura latamente sanzionatoria, sia in base a quella risarcitoria - la condanna ex art. 96 terzo comma c.p.c. esiga comunque la sussistenza di un elemento soggettivo in capo al condannato, poiché altrimenti si violerebbe il principio della responsabilità personale e della imputabilità, per lo meno a titolo di colpa, del fatto dannoso, senza contare che, laddove la condanna possa essere pronunciata anche in ipotesi di lite non temeraria, si rischierebbe di inibire eccessivamente il ricorso alla tutela giurisdizionale e di colpire in maniera eccessivamente gravosa la parte soccombente, che però abbia agito o resistito in giudizio legittimamente e correttamente, in tal modo ponendosi in contrasto con il diritto di cui all'art. 24 Cost.. Infine, la necessità di fondare la condanna ex art. 96 terzo comma c.p.c. sulla ricorrenza di un elemento soggettivo, nasce anche dall'esigenza di non concedere al giudice un potere praticamente arbitrario, soprattutto alla luce dell'assenza di un elemento oggettivo (quale il danno) e della mancata indicazione, nella legge, di criteri obbiettivi ai quali ragguagliare la quantificazione della somma. E’ questo, infatti, il secondo aspetto problematico nell'applicazione della norma in commento, attesa l'assoluta lacunosità sul punto della legge, che si limita a richiamare il criterio equitativo (si noti che una delle formulazioni iniziali della norma, poi eliminata durante i lavori parlamentari, prevedeva un massimo ed un minimo edittale, da 1.000,00 euro a 20.000,00). Ad avviso di chi scrive, il problema va risolto tenendo conto della sopra delineata natura dell'istituto e valorizzando - per quanto riguarda la quantificazione - la funzione comunque risarcitoria della condanna; in altre parole, il rilevato contrasto tra le due funzioni dell'istituto in oggetto deve essere così composto: la funzione sanzionatoria è assicurata dalla (possibile) officiosità della condanna e dal fatto che può essere pronunciata in assenza di qualsiasi prova di un danno effettivo; 23 la funzione risarcitoria sarà invece perseguita, in sede di liquidazione della somma, proprio agganciando la quantificazione ai criteri utilizzati per indennizzare il pregiudizio (sia pure presunto) subito dalla parte vittoriosa per aver dovuto agire o resistere in giudizio; una simile modalità di quantificazione, mantenendo come criterio guida quello indennitario, dovrebbe anche consentire di evitare che la condanna si trasformi in un indebito arricchimento della parte vittoriosa. I criteri sulla base dei quali commisurare la somma saranno, quindi, oltre al grado di gravità della colpa della parte soccombente, anche il valore della causa e la durata del processo e, in alcuni casi, la natura e l'oggetto della causa (valorizzando, ad esempio, i casi in cui il giudizio abbia coinvolto interessi di carattere personale, oltre che meramente economico); per quanto riguarda, in particolare, il criterio della durata del procedimento, potranno sicuramente essere presi in considerazione i parametri quantitativi fissati dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, per l'indennizzo da irragionevole durata del processo, nelle sentenze del 10.11.2004, caso Zullo c. Italia n. 64897/2001 e caso Pizzati c. Italia n.62361/2000 ("la Corte reputa che una somma variante da 1.000 a 1.500 euro per anno di durata della procedura ... è una base di partenza per il calcolo da effettuare"). Sul punto sono stati riportati ampi stralci dalla sentenza del Tribunale di Piacenza 7 dicembre 2010, Giudice Coderoni, estremamente significativa per l’ampiezza delle argomentazioni sviluppate quando ancora non si era creata giurisprudenza in argomento. A livello di operatività pratica è possibile che la somma venga individuata mediante un aumento percentuale rispetto a quanto liquidato a titolo di spese (analogo, del resto, era il criterio adottato nell'abrogato ultimo comma dell'art. 385 c.p.c., che stabiliva come limite superiore, quello del doppio dei massimi tariffari). Ritengo quindi che siano molteplici gli elementi che il giudice potrà indicare per concretamente quantificare la voce di danno in commento, con apprezzamento sicuramente discrezionale ma non certo arbitrario. 24