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Numero 2, 2015
ISSN 2385-5355 (digital) • ISSN 2385-7269 (paper)
http://revistes.uab.cat/dea
2
Dante e la musica
—
Il sinfonismo
Universitat Autònoma de Barcelona
Institut d’Estudis Medievals
Bellaterra, 2015
Dante e l’Arte è una rivista dell’Institut d’Estudis Medievals attivo all’interno dell’Universitat Autònoma de Barcelona (UAB). È stata fondata nel 2014
da Rossend Arqués e Eduard Vilella perché fosse un punto di riferimento
delle iniziative relative agli studi sul rapporto tra Dante e l’arte sia all’interno
dell’opera dantesca sia nella sua ricezione. Il suo obiettivo è fungere da mezzo
di diffusione delle ricerche originali in questo specifico ambito grazie alla
pubblicazione di studi che provengano da tutto il mondo, nella convinzione
che l’argomento debba essere affrontato a livello mondiale con lo sguardo
rivolto ai rapporti esistenti tra le forme artistiche sviluppatesi nei diversi paesi
e l’opera dantesca. La rivista pubblica lavori originali in dossier monografici,
articoli di ricerca, note e recensioni di opere pubblicate nel mondo che si sono
occupate di questo argomento. L’accettazione degli articoli segue le norme del
sistema di valutazione per esperti esterni (peer review).
Direzione
Rossend Arqués
Mohammad Kangarani
Universitat Autònoma
de Barcelona
Eduard Vilella
Universitat Autònoma de
Barcelona
Segreteria
Helena Aguilà
Universitat Autònoma
de Barcelona
Consiglio di redazione
Paolo Borsa
Università di Milano
Francesc Cortès
Universitat Autònoma
de Barcelona
Joan Curbet
Universitat Autònoma
de Barcelona
Sabrina Ferrara
Universitat Autònoma
de Barcelona
Mira Veronica Mocan
Università Roma 3
Raffaele Pinto
Universitat de Barcelona
Daniel Rico
Universitat Autònoma
de Barcelona
Barbara Stoltz
Universität Marburg
Juan Miguel Valero
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Juan Varela Portas de
Orduña
Universidad Complutense
de Madrid
Piermario Vescovo
Università Ca' Foscari
di Venezia
Carme Font
Comitato scientifico
Roberto Antonelli
Francesc J. Gómez
Eduardo Barbieri
CESR Tours
Universitat Autònoma
de Barcelona
Universitat Autònoma
de Barcelona
Johannes Bartuschat
Universität Zürich
Lucia Battaglia Ricci
Uniwersytet Jagielloński
w Krakowie
Theodor Cachey
Universitat Rovira i Virgili
Università di Pisa
Francesc Massip
University of Notredame
Andrea Mazzucchi
Università di Napoli
Università di Napoli
Federico II
UCLA
Harvard University
Corrado Calenda
Massimo Ciavolella
Lino Pertile
Marcello Ciccuto
Luigi Tassoni
Università di Pisa
Università di Pecs
Claudi Cieri
Università di Roma
“La Sapienza”
In questo numero
hanno collaborato
Adriana Padoan
Riccardo Drusi
Università di Venezia
Diana Glenn
Finders University
Philppe Guerin
Université Paris 3
Cornelia Klettke
Correzione, Universitat
Autònoma de Barcelona
Elisabetta Taboga
Impaginazione
Narcís Comadira
Illustrazione di copertina
Universitát Potsdam
Università di Roma
“La Sapienza”
Barbara Kuhn
Università Cattolica di
Milano
Peter Kuon
Universitat Autònoma de Barcelona
Institut d’Estudis Medievals
08193 Bellaterra (Barcelona), Spain
Maria Maślanka-Soro
Katholische Universität
Eichstätt-Ingolstad
Universität Salzburg
Tel. +34 93 581 23 22
Fax +34 93 581 20 01
ISSN (digital) 2385-5355
ISSN (paper) 2385-7269
Tutti i contenuti pubblicati sulla rivista Dante e l’Arte sono soggetti alla licenza Creative Commons
secondo la modalità: Comercial (by). È dunque possibile riprodurre, distribuire, trasmettere e
adattare liberamente i contenuti, anche a scopi commerciali, a condizione che venga citata la fonte.
Indice
Dante e l’Arte
Numero 2, p. 1-314, 2015
ISSN 2385-5355 (digital)
ISSN 2385-7269 (paper)
5-8Presentazione
Dossier
11-42
Barbara Kuhn
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli: la musica
della e nella Vita Nova
43-64
Chiara Cappuccio
“In voce assai più che la nostra viva” (Pg. XXVII 9). Ancora
qualche esempio sulle trasformazioni musicali interne al percorso
purgatoriale
65-86
Francesco Ciabattoni
Il dolce ruggito del tuono: per un’interpretazione di Purgatorio
IX 144 e Paradiso XVII 44
87-102
Arrigo Boito
Dante e la musica. Lettera a Camille Bellaigue
103-126 Antonio Rostagno
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
127-142 Alessandro Avallone
Franz Liszt e la «Dante Symphony»: frammenti e simboli per una
nuova musica «umanitaria»
143-160 Francesco Bissoli
L’orgoglio identitario e lo ‘spirito di Dante’ nella musica italiana
postunitaria
161-186
Víctor Sánchez Sánchez
Dante en la música española: la Divina Comedia de Conrado del
Campo, del poema sinfónico a la ópera
187-198
Francesc Cortès
Partitures de Granados amb una nova vida: el poema simfònic
Dante e Virgilio, i una cançó retrobada
Articoli
201-226 Veronica Pesce
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
227-254 Tabea Kretschmann
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and
Tom Phillips: A “symbolical translation” of Dante’s Inferno for
television
255-274
Simone Caputo
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene (con un’apparizione di
Salvatore Sciarrino)
Note
277-284 Rosa Affatato
Dante visualizzato. Carte ridenti I: XIV secolo
285-288 Antonietta Terzoli
Dialoghi - Rispecchiamenti - Trasformazioni: Dante e le arti
figurative
289-296 Francesco Ciabattoni
Review of the conference Dante and Music
Recensioni
299-302 Pegoretti, Anna, Indagine su un codice dantesco: la “Commedia”
Egerton 943 della British Library
303-308 De Martino, Delio, Dante & la pubblicità
309-314 Kretschmann, Tabea, “Höllenmaschine/Wunschapparat”. Analysen
ausgewählter Neubearbeitung von Dantes ‘Divina Commedia
Dante e l’arte 2, 2015 5-8
Presentazione
L
a rivista “Dante e l’arte” dedica il dossier del secondo volume alla musica.
“Dante e la musica. Il sinfonismo” che tratta della funzione della musica
nella Vita nova e nella Commedia e della fortuna del poema di Dante nel sinfonismo europeo.
Nella prima parte del dossier, destinata allo studio della musica in Dante,
tre studiosi esaminano la musica nell’opera di Dante. Barbara Kuhn si dedica
al rapporto esistente tra il “Buch der Lieder”, la Vita nova, e la “musica”, intesa
in un senso ampio. Si sofferma sulla musicalità delle poesie dantesche e avanza
l’ipotesi che il linguaggio poetico, grazie alle sue caratteristiche intrinseche,
possa dire l’ineffabile, diventando una specie di linguaggio angelico; la poesia
con la sua suavitas riesce a superare i limiti del linguaggio umano e a procurare
la beatitudine, trasportando già “oltre la spera” quelli che, ancora in vita, sono
capaci di percepirla. Francesco Ciabattoni invece, muovendosi in un ambito
storico-musicologico, si interessa dell’organo sia come strumento musicale sia
come composizione polifonica, con l’obiettivo di offrire un’interpretazione
ragionata e documentata dei passi della Commedia nei quali appare il termine
“organo” e le sue declinazioni (Pg. IX, 144 e Pd. XVII, 44), risalendo a fonti
trattatistiche e monastiche. Infine Chiara Cappuccio ha scelto alcuni passaggi
del Purgatorio particolarmente densi di terminologia musicale sui quali esercita un’esplorazione con lo scopo di dimostrare la necessità dell’analisi musicologica per una più efficace e complessiva interpretazione del testo. A questo
punto ci è sembrato opportuno e perfettamente in linea con i contenuti delle
due parti del dossier inserire un documento molto interessante presentato da
Francesco Bissoli. Si tratta della lettera scritta in data 18 gennaio 1902 da Arrigo Boito all’amico Camille Bellaigue nella quale il librettista italiano riflette su
un duplice tema: il rapporto che unisce la musica ai personaggi e al linguaggio
dantesco, e l’intrinseca musicalità dell’opera di Dante.
Nella seconda parte del dossier i contributi trattano del sinfonismo in ambito europeo. La ricezione musicale dell’opera dantesca, e in particolare della
Commedia, è di per sé enorme. Per questo e in sintonia con la filosofia della
issn 2385-5355
6 Dante e l’arte 2, 2015
rivista, che intende esaminare con la lente di ingrandimento settori specifici di
questa ricezione, abbiamo volutamente limitato l’indagine a un determinato
periodo e a un concreto genere musicale, il sinfonismo per l’appunto, che è
stato molto produttivo e forse poco indagato. Siamo dunque molto grati ad
Antonio Rostagno, noto musicologo particolarmente competente anche nella
dantologia musicale, per la sua generosa disponibilità a darci una mano nella
costruzione di questa seconda parte. Nel suo articolo egli ripercorre il rapporto
che lega Giuseppe Verdi ad alcuni testi in qualche modo collegabili a Dante:
dalla sua prima opera, Oberto conte di S. Bonifacio, in cui appare Cunizza da
Romano, passando per diverse composizioni concertistiche, fino alle Laudi
alla Vergine Maria che si rifanno alla preghiera di San Bernardo in Paradiso
XXXIII. L’articolo è arricchito da nuovi documenti e da nuove proposte interpretative. Alessandro Avallone poi si rivolge alla Dante Symphony di Lizt come
espressione della musica sinfonica cosiddetta “a programma”, secondo l’idea
che la musica non può mai essere pura forma, piatta ed inespressiva, ma necessita sempre di un contenuto ideale forte, garantito soltanto dalla poesia. Non
a caso in questa sinfonia si trova una selezione delle immagini poetiche che
il compositore ha ritenuto più idonee ad essere rivestite del mezzo espressivo
sinfonico e ad adempiere al mandato dell’arte, quale straordinaria forza spirituale. Francesco Bissoli parte dalla idea di “musica a programma” con espliciti
riferimenti ad episodi del poema dantesco per svolgere la sua indagine sulla
produzione musicale del periodo intorno al 1865, anno delle celebrazioni per il
sesto centenario dantesco. Allora, agli albori dell’Unità d’Italia, anche la musica volle contribuire all’edificazione di un’identità nazionale, riconoscendo alla
poesia dantesca la capacità di rigenerare la vita sociale e culturale del paese. Lo
studio dedica una particolare attenzione alle manifestazioni che ebbero luogo
a Firenze, neocapitale italiana, tra il 14 e il 16 maggio di quell’anno. Di queste
mette in rilievo la musica corale di contenuto patriottico eseguita dalle masse
cittadine, e specialmente la cantata Lo spirito di Dante di Mabellini e la nuova
sinfonia di Giovanni Pacini ispirata alla Divina Commedia , entrambe scritte
per l’occasione. Víctor Sánchez poi analizza due opere di Conrado del Campo,
musicista spagnolo molto influenzato dal romanticismo centroeuropeo, che si
avvicina al mondo dantesco con il componimento sinfonico “a programma”
La Divina Comedia: El Infierno, del 1910, e con l’opera La tragedia del beso del
1915, ispirata all’omonimo poema drammatico del poeta Carlos Fernández
Shaw del 1910. Infine, in occasione del centenario della morte di Enric Granados, Francesc Cortès ha esaminato il poema sinfonico Dante (1908), composto
in età matura dal noto compositore e pianista, nonché pittore, catalano. Seguendo i riferimenti forniti dallo stesso compositore, lo studioso ci propone
un’interessante analisi dei riferimenti letterari (Dante) e pittorici (i preraffaelliti) presenti in quest’opera così suggestiva. Alle porte proprio dell’anno del cen-
Presentazione
Dante e l’arte 2, 2015 7
tenario della morte di Granados, non di minore rilievo la scoperta emersa in
questa ricerca, e cioè quella di un nuovo componimento sconosciuto, e finora
sfuggito quindi alla catalogazione, con il quale viene ribadito ulteriormente il
rapporto che il compositore stabilì con l’opera di Dante: un Lied, in questo
caso, sul sonetto Tanto gentile e tanto onesta della Vita Nuova.
Nella sezione “Articoli” continuiamo l’esplorazione di diversi ambiti della
ricezione artistica dantesca. Veronica Pesce parte dalla lettura che i preraffaelliti fanno della Vita nuova e si sofferma in particolare sul libro “Vita Nuova”
illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, pubblicato per Roux e Viarengo
all’inizio del ’900. Per quanto postuma e non obbediente a un preciso disegno
autoriale, l’opera, accanto al lavoro di traduzione sulla stessa Vita Nuova e sui
“poeti primitivi italiani”, e insieme con la sua produzione poetica e letteraria
(almeno The Blessed Damozel e Hand and Soul), è testimone del costante interesse dell’artista per i soggetti derivati dal prosimetro e della profonda volontà
di riappropriazione del testo, pur oscillando tra fedeltà letterale e riscrittura.
L’articolo di Simone Caputo affronta dal versante musicale e non da quello
teatrale la Lectura Dantis che Carmelo Bene eseguì a Bologna nel 1981. Partendo dal principio audiotattile enunciato da Vincenzo Caporaletti nello studio
omonimo, Caputo tenta una lettura organica della performance di Bene nata
da istanze politiche, letterarie, sceniche e sonore. Infine Tabea Kretschmann
ci parla della versione filmica dei primi canti dell’Inferno (A TV Dante – Cantos I-VIII, 1989) realizzata da Peter Greenaway e Tom Phillips come di una
riscrittura artistica, per la quale le strutture proprie del libro sono trasferite al
linguaggio televisivo simbolico in modo simile a quello praticato dallo stesso
Phillips nelle sue illustrazioni dell’Inferno.
Inoltre nella sezione “Note” abbiamo inserito tre recensioni di altrettanti
convegni che hanno trattato temi affini al nostro, tenutisi durante il 2015. Ci
auguriamo di ricevere per tempo notizia di altre iniziative di questo tipo previste per il futuro in modo da farne eco tra gli studiosi interessati e da produrne
le relative recensioni. Estendiamo questo augurio anche a tutte le prossime
pubblicazioni con argomenti di questo tipo, delle quali saremo ben lieti di
ricevere una copia da recensire.
La Direzione
Dossier
Dante e l’arte 2, 2015 11-42
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli:
la musica della e nella Vita Nova
Barbara Kuhn
Universität Eichstaett
[email protected]
Riassunto
Partendo dal fatto paradossale che la Vita Nova possa essere definito un “Buch der Lieder”
(Wehle) o “libro dei canti”, pur parlando della musica in senso stretto solo in due luoghi,
il presente contributo intende esaminare il rapporto esistente fra il libro e la “musica” in un
senso più ampio e proporre una lettura della Vita Nova che mette l’accento proprio sulla
musicalità delle poesie dantesche e le sue implicazioni. Secondo la convinzione medievale
il linguaggio degli angeli non è altro che musica, mentre da parte sua la musica riesce a
comunicare già sulla terra un’idea del canto degli angeli. Nel testo dantesco, non solo la
canzone è ‘angelo’ nel senso etimologico del termine, essendo mandata dall’io a portare
un messaggio ai destinatari; non solo porta metaforicamente l’io, la cui lingua parla “quasi
come per se stessa mossa”, al cielo. Innanzitutto, è la poesia che con la sua suavitas riesce
a superare i limiti del linguaggio umano e a procurare la beatitudine, trasportando coloro
che la sanno udire già in vita “oltre la spera”.
Parole chiave: Vita Nova, musica, angelo, linguaggio degli angeli, musica delle parole.
Abstract
Paradoxically, the Vita Nova mentions music in its strict signification only twice, and
nonetheless it can be defined as a “Buch der Lieder” (Wehle) or “book of songs”. So this
paper examines the relationship between the book and the “music” in a broader sense of
the word and proposes an interpretation of the Vita Nova that focuses on the musicality
of the poems and its implications. According to the medieval conviction, the language of
the angels is nothing but music, and therefore on earth it is only music that can give us
an idea of the singing of the angels. In Dante’s text not only the canzone is an ‘angel’ in
the etymological sense of the word, because it carries a message to the addressees; not only
does it transport the I in a metaphorical sense to heaven because his tongue speaks “quasi
come per se stessa mossa”. Above all poetry with its suavitas can transcend the limits of
human language and give the beatitudo or transport “oltre la spera” those who are able to
understand it already during their lifetime.
Keywords: Vita Nova, music, angel, language of the angels, music of words.
issn 2385-5355
12 Dante e l’arte 2, 2015
A
Barbara Kuhn
Dante il mover gli diè del cherubino
e d’aere azzurro e d’òr lo circonfuse
Giosuè Carducci, Il sonetto
prima vista potrebbe sembrare strano voler concentrare l’attenzione sulla
Vita Nova, se ci si propone di riflettere sul tema Dante e la musica1 – almeno se si dà uno sguardo alla critica in quest’ambito. Dei diversi contributi
dedicati alla concezione medievale della musica e a La musica nel tempo di
Dante –2 questo il titolo di un convegno i cui atti sono stati pubblicati nel
1988 –, la maggior parte o studia come la musica viene tematizzata in senso
proprio o anche figurato nella Commedia,3 o esamina le riflessioni sulla musica
presenti nel De vulgari eloquentia e nel Convivio,4 riguardanti innanzitutto
il rapporto tra poesia e musica, anche qui sia in senso proprio che figurato.
Eccetto alcuni riferimenti puntuali a certi passi con lo scopo di avvalorare le
relative argomentazioni dei diversi studi, stupisce il fatto che proprio la Vita
Nova, il “Buch der Lieder” o “libro dei canti” secondo Winfried Wehle,5 non
venga contemplato da chi si occupa di questo tema. Persino un saggio intitolato “Presenze musicali nelle opere minori di Dante” (De Benedictis 2000:
35-56) limita il suo orizzonte di ricerca al Convivio, al De vulgari eloquentia e
al De Monarchia. Invece già i diversi generi poetici, che compongono la Vita
Nova, suggeriscono una relazione con la musica. In effetti l’io narrante raccoglie nel suo “libello” una ballata, delle canzoni e dei sonetti, testi cioè che si
definiscono in un modo o nell’altro grazie al loro legame con la musica (cfr.
anche King 1974: 51). Già ad un primo sguardo ci si rende conto che questi
stessi testi non sono semplicemente delle riflessioni sulla poesia d’amore in
forma lirica, ma anche e soprattutto dei veri e propri canti, più precisamente
delle lamentazioni e degli inni di lode, come del resto è indicato sia dal programmatico “stilo de la loda”, sia dagli incipit quali Piangete, amanti o L’amaro
lagrimar. Tanto i generi quanto gli oggetti delle poesie invitano dunque ad
approfondire la questione del ruolo svolto dalla musica della e nella Vita Nova,
creando, un’altra volta, un moto di stupore in chi legge.
1. L’articolo che segue costituisce una versione tradotta, rivista e aggiornata di Kuhn 2009;
ringrazio cordialmente Beatrice Baldarelli per aver corretto e limato la mia traduzione del
testo originale.
2. Cfr. ad es. Hammerstein 21990; Pestalozzi 1988; Russo 1988; Richter 1988; Kropfinger 1988;
Bruggisser-Lanker 2010.
3. Cfr. ad es. Pazzaglia 1986; Iannucci 1989; Morelli 1989, nonché Armour 1997; Barański 1997;
Basile 1997; Dovara in Varoli Piazza 1997; Jones 2010; Verdicchio 2010; Schneider 2012. Cfr.
inoltre Pistelli Rinaldi 1968, che dopo due brevi capitoli intitolati “La musica del tempo
di Dante” e “La musicalità di Dante nelle opere minori” (soprattutto De vulgari eloquentia
e Convivio), si dedica a “La musicalità della Commedia”. Anche la questione degli angeli
nell’universo dantesco viene trattata innanzitutto in rapporto alla Commedia: cfr. Boyde
1984: 287-329; Petrocchi 1994.
4. Cfr. ad es. Monterosso 1965; Pazzaglia 1988; Pazzaglia 1967.
5. “Ein Buch der Lieder” è il titolo del secondo capitolo di Wehle 1986: 15-30.
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 13
Mentre, ad esempio nella Commedia, soprattutto nel Purgatorio e nel Paradiso, si canta in diversi luoghi,6 la Vita Nova, benché si presenti dall’inizio alla
fine formalmente come un “libro dei canti”, fa raramente cenno al cantare o
alla musica nell’accezione propria o moderna della parola. Segnatamente solo
due luoghi la evocano esplicitamente. Il primo è la già menzionata ballata
che contiene la presentazione musicale della lirica e che costituisce una specie
di hapax nel prosimetrum, non solo per la specificità di questo genere tanto
amato dagli stilnovisti, che qui appare un’unica volta, ma soprattutto per l’allusione alla performance delle poesie.7 Con questa ballata l’amante, per ordine
di Amore, chiede perdono all’amata per il fraintendimento derivato dal suo
comportamento; tutte le sue poesie erano indirizzate alle varie donne-schermo
e non alla donna veramente amata, per fingersi agli occhi di tutti come amante incostante. Poiché la stessa Beatrice gli rifiuta ora il suo saluto beatifico,
Amore gli consiglia di porre fine agli infingimenti, di lasciar perdere i simulacra e di cantare veramente la donna amata. È solo a questa svolta della storia
d’amore e della storia del poetare che Amore raccomanda di far accompagnare
le parole dalla musica – “falle adornare di soave armonia” (5.15 / xii 8) –,8 ed è
solo in questa poesia che l’io, parlando del suo componimento, ne menziona
il “dolze sono” (v. 15) e la “nota soave” (v. 38).
Il secondo episodio della Vita Nova che evoca il cantare fa parte di una
delle visioni dell’io narrante, e anche questa occorrenza si trova in un luogo
essenziale per l’intero testo. Si tratta del presentimento della morte di Beatrice,
manifestatosi nel corso della malattia dell’io, il quale sogna prima la propria
morte e poi quella dell’amata:
imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: “Or non sai? la tua mirabile
donna è partita di questo secolo”. Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazione, ma piangea con li
occhi, bagnandoli di vere lagrime. Io imaginava di guardare verso lo cielo,
e pareami vedere moltitudine d’angeli li quali tornassero in suso, ed aveano
dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che questi angeli
cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis; e altro non mi parea udire (14.5-7 / xxiii 6-7).
Quantunque si tratti di un’“erronea fantasia” o, per dirla con le parole della
poesia seguente, di un “imaginar fallace”, tuttavia l’inno udito in sogno, ese6.L’Inferno invece è caratterizzato da altri suoni: cfr. tra l’altro Sanguineti 1988, nonché Schneider 2012: 113-115.
7. Per quanto riguarda la particolarità della ballata cfr. anche Carrai 2006: 94-96.
8. Visto che a causa del problema irrisolto di un’edizione critica definitiva, citare la Vita Nova è
una questione spinosa, menziono ogni volta il capitolo (come Gorni 2006), prima secondo
l’edizione curata da Gorni e poi secondo quella curata da Barbi, perché continua a costituire
la base di quasi tutte le edizioni moderne, nonché di gran parte della critica dantesca. Come
Gorni 2006 stesso, scelgo anch’io la grafia proposta da Barbi e ripresa dall’edizione curata
da Colombo, e non quella latineggiante dell’edizione di Gorni.
14 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
guito da un coro di angeli al momento della morte di Beatrice, dà un segnale
importante sia riguardo al ruolo giocato dalla musica in questo testo, sia al legame esistente tra Beatrice e il “linguaggio degli angeli”, espresso nell’Osanna.
Da una parte, il fatto che la ballata sia accompagnata da musica e contenga
il canto degli angeli al momento dell’ascensione di Beatrice, è particolarmente
significativo non solo perché sono questi due gli unici passi della Vita Nova ad
evocare la musica in modo esplicito, ma soprattutto perché spiccano rispetto
al resto, conferendo un rilievo particolare agli episodi che stanno alla base
dello snodo e del sogno premonitore. Dall’altra parte, però, non è detto che
solo qui e solo in questo senso la musica vi svolga un ruolo. Al contrario, proprio l’apparente paradosso che un ‘libro dei canti’ parli così poco del cantare
e della musica, ci suggerisce che il concetto di musica, secondo l’accezione
odierna, non esaurisca tutti i significati che la parola poteva avere nel Medioevo. È probabile che i due passi alludano a due altri aspetti più ampi che
devono essere considerati. Da un lato, il canto degli angeli nella canzone di
mezzo fa pensare proprio a quel “linguaggio degli angeli” di cui si parlerà nella
prima parte del De vulgari eloquentia, che rimanda alla presenza e all’azione
degli angeli nella Vita Nova, in cui fin dall’inizio Beatrice stessa è presentata
come “angiola giovanissima”. Dall’altro, per quanto ancora legato alla questione degli angeli, il riferimento alla “soave armonia” e al “dolze sono” colloca
l’idea di suono e di armonia al di fuori del loro significato letterale, in un
ambito più vasto della concezione medievale della musica, ma anche in quello
più specifico di ‘musica verbale’. Di quest’ultima si occupa anche la seconda
parte del De vulgari eloquentia. Vedremo comunque che essa è molto legata
anche alla Vita Nova.9
9. La maggior parte dei critici che trattano il vasto campo di ‘Dante e la musica’ si concentrano
sulla “tematica musicale” (Cappuccio 2008: 149) nei testi danteschi, anche quando si parla
in modo più generale dell’“elemento musicale” o di “immagini musicali” – così Cappuccio
(2005; 2008; 2009) cerca ad esempio di distinguere il tipo di musica, polifonia o monodia,
di cui si tratta nelle allusioni della Commedia, mentre Schneider (2010; 2012) si interessa
soprattutto alla funzione drammatica della musica nelle diverse cantiche). La musicalità del
linguaggio non costituisce che raramente il centro dell’interesse, e ciò malgrado le posizioni
formulate da Dante in De vulgari eloquentia e citate da numerosi critici (cfr. invece King
1974: 53, che evoca la musicalità della poesia dovuta alla scelta delle parole e ricorda “the
crucial importance of word sound for the achievement of poetic meaning”). Molto interessante invece è l’articolo di Williamson su “Sensory Experience in Medieval Devotion: Sound
and Vision, Invisibility and Silence”, che tratta delle “relationships between art and music”,
ad esempio della percezione visiva della musica in alcuni quadri, la quale spesso include
una specie di percezione auditiva nell’immaginazione. Williamson menziona tra l’altro, in
analogia con ‘l’occhio interiore’, “the ‘inner eyes’ (or ‘eyes of the mind,’ ‘eyes of the heart,’
or ‘eyes of the soul’)”, anche ‘l’orecchio del cuore’, “the ear of the heart” (Williamson 2013:
13), importantissimo anche per la lettura dei testi danteschi e per la percezione della loro
musicalità inerente. Vale anche per l’opera dantesca quello che Williamson afferma sulla
devozione medievale in genere: bisogna considerare l’uomo non in modo dualistico, diviso
in corpo e spirito, ma come un insieme, proprio come in Dante “bontade” e “bellezza” delle
poesie diventano inseparabili.
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 15
1. Gli angeli della Vita Nova
Che Beatrice sia un angelo o meno, è una delle questioni su cui la critica
dantesca ha ripetutamente insistito dalle origini fino ad oggi. Così ad esempio
Guglielmo Gorni, nel commento all’edizione della Vita Nova da lui curata nel
1996, sostiene la tesi che, descrivendo delle figure angeliche dopo la morte di
Beatrice, l’io del testo aspirerebbe certo a “un recupero almeno delle angeliche
sembianze della defunta”; tuttavia “Beatrice, che non è mai assimilata a un
angelo in vita, se non per metafora […,] è donna, per l’appunto, e non angelo:
donna gloriosa, beata, benedecta, non puro spirito” (cfr. Gorni 1996: 269 sgg.).
Marco Santagata invece, in Amate e amanti pubblicato nel 1999, arriva a una
conclusione diametralmente opposta, benché anch’esso parta dalla considerazione che i luoghi nei quali Beatrice viene chiamata angelo siano assai rari in
significativo contrasto con le tante “donne angelo” della poesia in volgare di
tutte le epoche. Proprio perché la “donna angelo”, come dice Pasquini, pare
un motivo quasi endemico nella poesia stilnovistica e una delle “idee-forza”
di quell’avanguardia poetica che trasforma in analogia la metafora conosciutissima della donna angelicata cantata da un Giacomo da Lentini o da un
Guittone d’Arezzo (cfr. Pasquini 1995: 711-713), Dante invece, sempre secondo
le riflessioni di Santagata, vuole espressamente mettere in risalto l’unicità della
‘sua’ donna, opponendola alla schiera di donne fatte oggetto di canti, alle
“innumerevoli repliche e variazioni” del topos, come esso si presenta fin da
Guinizelli.10 Così alla rara occorrenza di ‘angelo’, termine con cui tradizionalmente ci si rifaceva alla soprannaturalità della donna”, si opporrebbe quella
sorprendentemente frequente di Beatrice come “miracolo”, concetto “che è
invece quasi sconosciuto alla lirica profana”. Secondo il critico, è innanzitutto
il linguaggio dei numeri che conferisce a Beatrice una “divinità matematica”
accanto a quella metaforica della poesia, cioè accanto a “uno dei più confusi e
consolidati luoghi comuni della lirica romanza”, perché “con [questa] lingua,
diversa da quella della poesia, Dante ribadisce quel tema dell’origine divina
della dama” e ne fa una cosa nuova, inusitata: “Mediante questo linguaggio,
infatti, Dante può comunicare ai lettori che Beatrice non è come un angelo,
ma è un angelo; non è un oggetto di meraviglia come fosse un miracolo, ma è
un miracolo” (cfr. Santagata 1999: 13-24).
Più importante però dello stabilire a priori se Beatrice “è donna, per l’appunto, e non angelo” oppure se “non è come un angelo, ma è un angelo”, più
10. Guinizelli con la sua descrizione della donna in Al cor gentil (v. 58: “[t]enne d’angel sembianza”) diventa modello ad esempio per l’“angelica sembianza” (v. 19) in Fresca rosa novella
di Cavalcanti, per l’Angelica figura novamente nonché “quest’angela che par di ciel venuta”
(v. 7) in Dolc’è ’l pensier che mmi notrica ’l core di Lapo Gianni; per “Angel di Dio simiglia
in ciascun atto / questa giovane bella” (vv. 1-2) di Cino da Pistoia, e per molti altri testi
stilnovistici.
16 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
importante di un ragionamento definitivamente pro o contra, sembra il fatto
che nel testo siano riconosciuti alla donna gli attributi e l’agire di un essere
soprannaturale o di un angelo.11 Così fin dal primo incontro non solo è per
l’io “angiola giovanissima”, ma è da Amore presentata come la “beatitudo vestra”. Conseguentemente nove anni più tardi il saluto della “mirabile donna”
procurerà all’io la beatitudine che rimarrà uno dei leitmotiv del testo fino alla
scoperta dello “stilo de la sua lode” (17.4 / xxvi 4):
passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo,
mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li
termini de la beatitudine. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse,
era fermamente nona di quello giorno; e però che quella fu la prima volta
che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza,
che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una
mia camera, e puosimi a pensare di questa cortesissima. E pensando di lei,
mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa
visione […] (1.12-14 / iii 1-3).
Si tratta della seconda apparizione della “gloriosa donna de la mia mente”. Il
primo incontro in età infantile aveva già provocato il suo rapimento totale,
l’abbandono di tutti gli spiriti della vita e la presa di potere da parte di Amore.
Tuttavia quella prima descrizione, secondo le parole del narratore, poteva passare ancora per un “parlare fabuloso”. Qui invece dove per la prima volta
Beatrice si rivolge all’amante e all’impressione visiva s’aggiunge quella auditiva, il testo raccoglie una molteplicità di elementi che connotano il carattere
angelico della donna: dal suo passargli davanti (il “passage angélique”) fino al
“dolcissimo salutare”, la cui soavità lo rende “come inebriato”. Questa “parole
angélique”, che riesce a trasportare in altri mondi colui che la ode,12 genera la
prima di una serie di visioni che costelleranno il testo fino alla sua conclusione: il sogno premonitore nel quale Beatrice, mangiando il cuore dell’amante,
è portata al cielo da Amore su una nuvola di fuoco.
11. Cfr. Ginsberg (1999: 39), che da un lato sottolinea la differenza rispetto a Guinizelli, dall’altro lato, basandosi di nuovo sul desiderio degli angeli in cielo, espresso in Donne ch’avete, di
avere Beatrice con loro, menziona la vicinanza tra la Beatrice ‘luminosa’ e gli angeli: “The angel’s words, however, do not arise, as ours do, from seeing Beatrice’s body or its image but as
a response to her marvelous being that is light [cfr. vv. 16-18…]. Light enables understanding;
in a play of speculation that makes her one with heaven’s intelligences, Beatrice’s light is
reflected in the light that is the angel’s utterance in the divine intellect” (Ginsberg 1999: 59).
12. “La parole angélique restaure une événementialité et un possible. En ce sens, elle est
‘métaphorique’: passage à un autre genre, invention d’un autre espace, création d’un possible à l’intérieur de ce que les faits posent comme impossible. Dans un songe, Jacob ‘voit’
des anges montant et descendant les degrés de l’échelle qui mesure des distances et des
médiations nécessaires entre la terre et le ciel. L’espace du songe donne ainsi à la ‘métaphore’
angélique sa figure fondamentale: une parole ‘passe’ les frontières des êtres ou des choses,
restaure paradoxalement une historicité dans le cadre des lois cosmiques et, sous le signe
du subit et de l’insolite, ouvre un champ de possible” (Certeau 1984: 9).
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 17
Non è solo il terrore dell’io, il suo “heilige[s] Erschrecken vor der Schönheit”,
a trasformare la struttura della sua coscienza, la “Bewußtseinsstruktur”,13
non è solo il saluto a condurlo ai confini estremi della “beatitudine”; è
anche l’“ineffabile cortesia” a evocare un fatto soprannaturale. L’ineffabilità e
la “dulcedo”, concetti correnti nella mistica latina, qui appaiono insieme probabilmente per la prima volta in un testo in volgare romanzo: 14 In questo
modo sono come il segnale che non si tratta semplicemente di un topos ripreso passivamente dalla tradizione mistica. Averlo inserito all’interno della storia
di una ‘vita nuova’ comporta una sua specifica configurazione e valorizzazione,
proprio come nel caso del carattere angelico della donna in quanto ripresa
del topos della ‘donna angelicata’, topos ricorrente ad esempio nella poesia in
volgare e trasformato nel e dal testo dantesco.
Servendosi di svariati elementi tematici e di procedimenti diversi, il testo
sottolinea ripetutamente il carattere angelico, l’apparizione e l’azione soprannaturali di Beatrice. Si pensi soltanto al rilievo che assume fin dall’inizio il
“nove”, numero che, nell’ottica del simbolismo numerico, conferisce un carattere soprannaturale al personaggio. Si pensi al noto parallelismo tra Beatrice e
Cristo, alla sua azione miracolosa, al fatto che venga non solo cantata, ma addirittura reclamata in cielo dagli angeli prima ancora di morire.15 Si pensi infine all’explicit del testo, secondo cui la “benedetta Beatrice […] gloriosamente
13. “Die Liebe und die ‘andere Welt’ kommen zu uns nicht nach unserem Willen. […] Wenn
man daran denkt, wie dieses Geschehen von außen als eine Änderung der menschlichen
Bewußtseinsstruktur erscheint, so wird man vergleichend sagen können, daß solche
Änderungen ebensowenig unserem Willen unterworfen seien, wie etwa das Wachstum
oder die heilenden Kräfte unseres Körpers. […] Plato sagt, daß die Liebe die Sehnsucht
der Menschen nach der Unsterblichkeit sei, und daß jenes heilige Erschrecken vor der
Schönheit zugleich ein Erschrecken vor der Unendlichkeit sei, die uns dabei plötzlich vor
das Bewußtsein tritt. Vielleicht darf man das auch so aussprechen, daß nicht nur in der
Liebe, sondern in all den Augenblicken, in denen uns die ‘andere Welt’ begegnet, in unserem Bewußtsein ein Gefühl für jenen unendlichen Lebensprozeß erwacht, an dem wir
für eine kurze Zeitspanne teilnehmen und der sich an uns und über unser irdisches Dasein
hinweg vollzieht” (Heisenberg 1989: 163 e 166). Per quanto riguarda l’equazione bellezzaterrore e soprattutto il terrore provocato da Beatrice, cfr. inoltre: “Erzittern der Sinne und
der Seele, Erbleichen, Schrecken, Blendung des Auges, Ohnmacht der Sprache, und, durch
dies alles hindurch, Veredelung dessen, der sie erblickt: das ist ihre Wirkung, die durch viele
Grade der Heftigkeit wie der Beseligung reicht. Schönheit als Schrecknis […] birgt die
große Paradoxie, daß der Erschreckte, ja Zerstörte nicht den Wunsch nach Beseitigung der
zerstörenden Ursache, vielmehr den anderen nach ihrer Erhaltung hegt. Der Wortschatz
für das Erschrecken, das von Beatrice ausgeht, ist größer als derjenige für die Beglückung.
Aber diese Tatsache steht absichtsvoll im umgekehrten Verhältnis zum Reichtum der Beglückung: denn für diese will die Sprache ärmer sein, um mittels der Unsagbarkeit eben
ihren Reichtum auszudrücken” (Friedrich 1964: 114).
14. Cfr. Colombo 1987: 73-89 et passim, nonché le note dettagliate al testo della Vita Nuova
nell’edizione da lei curata (Colombo 2008: 40 e 136-138).
15. Anche in questo dettaglio si cela un’analogia con Cristo, che gli angeli desiderano vedere,
secondo l’angelologia di San Bernardo di Chiaravalle (cfr. Knoch 2006: 14), proprio come
nella canzone Donne ch’avete (vv. 15-21) gli angeli preferirebbero godere della compagnia di
quell’essere di luce che è Beatrice invece di saperla sempre sulla terra.
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Barbara Kuhn
mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus” (31.3 / xlii 3), frase
questa che per mezzo del ‘polittoto bilingue’ di benedetta e benedictus riesce
a superare il confine tra volgare e latino, tra mondo profano e mondo sacro,
creando così un legame univoco tra Beatrice e Cristo per rimarcare una volta
di più l’essenza angelica della donna, in un’evocazione degli angeli miranti in
eterno il volto del Padre in cielo, che sembra tratta quasi alla lettera dal vangelo di Matteo (18, 10).16
Non solo l’io narrante ma tutti coloro davanti ai quali passa Beatrice riconoscono la sua bellezza sovrumana, che occupa le vette persino delle gerarchie
angeliche: “Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo.”
Deve essere dunque annoverata, secondo l’interpretazione di Gorni, 17 tra i
cherubini e serafini. La celeberrima poesia che segue immediatamente questo
passo, Tanto gentile e tanto onesta pare, conferma gli effetti del suo passaggio
e del suo saluto: sembra “che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol
mostrare” (vv. 7-8). La sola sua vista fa tremare e ammutolire – “ogne lingua
deven tremando muta, / e li occhi no l’ardiscon di guardare” (vv. 3-4) – e al
contempo suscita nel cuore quella dolcezza che, come in ogni esperienza mistica, può capire soltanto colui che la prova:
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova.
(Tanto gentile, vv. 9-11)
A livello strutturale esistono molte corrispondenze fra la Vita Nova e i testi
agiografici contemporanei. Hempfer, che le enumera, cita tra l’altro la formula
dell’apparuit, l’apparizione qualificata come miracolo, l’analogia con Maria,
l’anelito degli angeli al ritorno in cielo dei santi e soprattutto l’analogia con
gli angeli. Certo, non si tratta della vita di una santa Beatrice ma dei suoi
riverberi sul soggetto narrante (cfr. Hempfer 1982: 35-37); ciò nonostante la
concentrazione di tutti questi tratti in un unico personaggio pare tanto significativa quanto l’insistere sulla qualità angelica della sua apparizione e del suo
agire. Beatrice è caratterizzata dalla dolcezza che emana dalla sua figura e che
il suo saluto, la sua vista e persino la sua mera presenza evocano in colui che
l’incontra, pur non osando rivolgerle lo sguardo o on reggendone la vista.
16. Cfr. “angeli […] semper vident faciem Patris”, citato da Colombo nella sua edizione del testo
(Colombo 2008: 184). Per quanto riguarda la locuzione latina alla fine del passo, annota:
“citazione paolina d’uso frequente nell’explicit dei trattati sacri, a suggellare le fonti e il tono
della Vita Nuova” (ibid.).
17. Cfr. Gorni 1996: 157. Qui anche il rimando a Convivio II v, dove la gerarchia degli angeli viene rappresentata secondo Gregorio Magno, mentre in Pd. XXVIII 98-135 Dante
riprende la versione dello Pseudo-Dionigi. Negli ordini più alti, però, le gerarchie sono
identiche.
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 19
Ma Beatrice non è la sola ad essere così strettamente legata all’idea di dolcezza, a quel fenomeno che allude allo stesso tempo e nella stessa misura sia
all’esperienza mistica che al suono musicale; anche Amore è un “dolcissimo
segnore” (4.3 / ix 3) che appare all’io narrante come una creatura sovrannturale, a volte sotto le spoglie di un pellegrino, altre di un giovane vestito di
bianco (cfr. 5.10 / xii 3); all’inizio, nella prima visione, come un essere tanto
spaventoso quanto miracoloso, insomma, come un angelo, perché ‘ogni angelo – nelle parole di Rilke – è terribile’ (trad. Franco Rella), “ein jeder Engel ist
schrecklich”: “io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la
guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era” (1.14
/ iii 3). Come nella letteratura visionaria qualche volta gli angeli parlano una
lingua che il visionario non capisce (cfr. Hammerstein 21990: 24), così anche
l’io narrante deve constatare che “ne le sue parole dicea molte cose, le quali
io non intendea se non poche” (1.14 / iii 3). Quando l’io capisce il senso delle
parole, cioè, quando le può riportare nel suo scritto, Amor utilizza prevalentemente la lingua latina. In quanto lingua liturgica, non solo connota la di lui
santità, ma lo collega anche agli angeli che cantano l’Osanna in latino. Non
solo nella Vita Nova, ma anche in altri testi poetici, soprattutto delle sacre rappresentazioni, la parte cantata dagli angeli è ancora per lungo tempo in latino,
anche se il volgare18 si impone sempre di più. Chiedendo pietà, l’io invoca
Amore come se fosse un angelo custode: “Amore, aiuta lo tuo fedele” (5.9 /
xii 2). In quanto consigliere e messaggero dell’io, esso assume le tradizionali
funzioni degli angeli; inoltre fa tremare sia Beatrice che l’io; anche il lessico del
testo, l’inusitato “obumbrare”, crea un legame con l’angelo dell’Annunciazione
del vangelo secondo Luca:
E chi avesse voluto conoscere Amore, fare lo potea mirando lo tremare de
li occhi miei. E quando questa gentilissima salute salutava, non che Amore
fosse tal mezzo che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine, ma
elli quasi per soverchio di dolcezza divenia tale, che lo mio corpo, lo quale
era tutto allora sotto lo suo reggimento, molte volte si movea come cosa
grave inanimata (5.5-6 / xi 2-3).19
18. Secondo Hammerstein, l’angelo si trova alla soglia della sacra rappresentazione e quindi del
teatro europeo; segna il luogo di transizione tra il liturgico-corale e il dialogico-drammatico,
tra il liturgico-simbolico e il drammatico-realistico. Anche in seguito nel teatro medievale
l’angelo che canta rimane una costante liturgica, cosicché il primato del mondo soprannaturale rispetto a quello storico viene rappresentato al tempo stesso scenicamente. Nell’ulteriore evoluzione della sacra rappresentazione, gli angeli esercitano la funzione di quelli che
sorvegliano l’ordine dell’azione, che introducono, spiegano e preparano il cammino, sicché
anche in questo senso i paralleli con il personaggio di Amore nella Vita Nova risultano
evidenti (cfr. Hammerstein 21990: 72-79).
19. Cfr. la nota di Gorni a questo passo: “obumbrare è lessico biblico, o meno persuasivamente
classico (Casini); ed è proprio anche nella salutazione angelica: ‘Spiritus sanctus superveniet
in te, et virtus Altissimi obumbrabit tibi’ (Luca 1, 35)” (Gorni 1996: 53).
20 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
Amore, come Beatrice, trascina l’io in uno stato di rapimento estatico; non
c’è separazione nel loro agire. È ancora più evidente nel momento in cui l’io
invoca la donna affinché, in quanto angelo custode, lo sostenga nella “battaglia d’Amore” che si sta svolgendo nel suo cuore, ma dimentica che, come
Amore scaccia tutti gli spiriti della vita dal suo corpo, così anche la vista della
donna non può essere una difesa in questa battaglia, perché anche lei “disconfiggea la mia poca vita” (5.9 / xvi 5). Vale dunque per tutti e due la descrizione
rilkiana dell’agire di tali angeli: “Ich verginge vor seinem / stärkeren Dasein”,
‘resterei vinto per la sua / [più] forte presenza’ (trad. Franco Rella). Sia la
donna che Amore procurano “dolcezza” all’io; sia la donna che Amore hanno,
com’è noto, la capacità di “nobilitare” o “ingentilire”, perché non solo colui
che guarda Beatrice diventa, secondo la prima grande canzone, “nobil cosa”
(Donne ch’avete intelletto d’amore, v. 36); anche Amore e ’l cor gentil sono una
cosa. Questo lo sanno tutti i poeti, e non solo i poeti, a partire dalla lezione di
Guinizelli: nel regno di Amore ci sarà inevitabilmente “gentilezza” o “nobiltà”.
E allo stesso modo, sempre secondo la prima canzone, agisce anche la poesia
ispirata o da Amore o da Beatrice, oppure dalla “dolcezza” che sia Amore che
Beatrice fanno nascere nell’io:
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente.
(Donne ch’avete, vv. 5-9)
Anche le parole dell’io poetante, le sue canzoni, come Beatrice fanno nascere l’amore, e se Amore e “cor gentil” sono “una cosa” sola, fanno nascere al
tempo stesso la “gentilezza”. Quando le poesie risuonano nella loro “soave
armonia”, l’amore è presente (cfr. 5.15 / xii 8); la loro suavitas è segno della presenza d’Amore.20 Come Beatrice i canti sono ‘cortesi’ e ‘gentili’ (cfr. Ballata,
i’ voi che tu, vv. 5 e 43); e come Beatrice “non parea figliuola d’uomo mortale,
ma di deo” (1.9 / ii 8) ed è dunque figlia d’Amore, così l’io poetante definisce
la canzone “figliuola d’Amor” (Donne ch’avete, v. 60). La canzone dice che
20. Secondo Russo, questo passo segnalerebbe addirittura l’identità di “accompagnamento
musicale” e “accompagnamento di Amore”: “Nel significato sottile di questo passo e nella
delicata interpretazione che se ne può dare sta il fulcro della complessa operazione letteraria condotta da Dante: quel che viene qui enunciato è un rapporto di identificazione tra
la ‘soave armonia’, che deve adornare le ‘parole per rima’, e la presenza di Amore stesso;
l’accompagnamento musicale è accompagnamento di Amore; l’elemento melodico perduto
nella diversa destinazione della ballata è così come recuperato, reintegrato nella presenza
di Amore, personificato quale personaggio, dramatis persona, attante, in un contesto ora
finalizzato alla narrazione e alla lettura; l’artificio retorico della prosopopea […] investe non
solo la personificazione dei versi del componimento, ma anche la suavitas della sua melodia,
eletta a segno della presenza di Amore o addirittura a suo vivo rappresentante (‘ne la quale
io sarò tutte le volte che farà mestiere’)” (Russo 1985: 253s.).
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 21
Beatrice è così “adorna e pura” che persino Amore si meraviglia di come un
essere mortale possa riunire in sé tali attributi.21 D’altro canto la canzone è a
sua volta “adornata” dalla lode di Beatrice che la canta e per tanto è anch’essa
caratterizzata da una bellezza angelica. La canzone opera dunque come Beatrice e Amore: avvicina l’amore alla gente; la ammansisce così come il canto
di Davide aveva placato l’ira (cfr. Ballata, i’ voi che tu, v. 12), e si distingue
per “cortesia” e “gentilezza”, per “dolcezza” e “beatitudine”. In altre parole, la
canzone è un angelo.
2. Cantare come cantano gli angeli
Il tratto più ovvio del carattere angelico dei canti è naturalmente la loro funzione di messaggero, possibile grazie al loro “dolze sono”. Tuttavia non è solo
nella Vita Nova che nel congedo il poeta-amante incarica la sua canzone di
recarsi dalla donna amata per portarle il suo messaggio, cosa che avviene qui
nella ripresa della ballata:
Ballata, i’ voi che tu ritrovi Amore,
e con lui vade a madonna davante,
sì che la scusa mia, la qual tu cante,
ragioni poi con lei lo mio segnore.
(Ballata, i’ voi che tu, vv. 1-4)
Ogni strofa della poesia comincia con un riferimento a questo ruolo di messaggero. Nella prima: “Tu vai, ballata, sì cortesemente” e “retrova l’Amor pria”.
Nella seconda: “Con dolze sono, quando se’ con lui, / comincia este parole”.
Nella terza: “Dille”. E infine nella quarta: “E dì a colui ch’è d’ogni pietà chiave”, giusto prima che i versi finali sottolineino in un ultimo appello l’importanza della missione:
Gentil ballata mia, quando ti piace,
movi in quel punto che tu n’aggie onore.
(Ballata, i’ voi che tu, vv. 43-44)
Nella ballata la funzione di messaggero è presente dall’inizio alla fine; e anche
nella prima e nella terza canzone22 è tematizzata nel congedo: “io son mandata
/ a quella di cui laude so’ adornata” (Donne ch’avete, vv. 62-63), dice la prima
alle donne cui è stata inviata, e all’ultima viene affidato il seguente incarico:
21. Per lo meno per quel che riguarda il senso della parola “pura”, anche Gorni ammette qui il
carattere angelico: “pura: con armoniche che evocano la natura delle Intelligenze celesti (Pd.
xxix 22-24), o lo stato d’innocenza prima del peccato originale (Adamo nell’Eden ‘con vita pura’,
Pd. xxvi 140): una Beatrice angelo, oppure ‘sine labe originali concepta’” (Gorni 1996: 100).
22. Si specchiano dunque in quell’asse centrale dell’intero testo che è la seconda canzone, che
procede in un altro modo e che sarà analizzata nella terza parte. Per quanto riguarda il
mutuo rispecchiamento delle due canzoni cfr. Martinez 1998: 14.
22 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
“Pietosa mia canzone, or va piangendo; / e ritruova le donne e le donzelle” (Li
occhi dolenti, vv. 71-72).
Ma le poesie non sono soltanto messaggeri come gli angeli, sono soprattutto dolci come il canto angelico; lo indica il “dolze sono”, che allude all’accompagnamento musicale, e lo indica il loro straordinario effetto beatificante. In
questo ‘poetare nuovo’, in questo poetare nel ‘dolce stil nuovo’ la beatitudine
non viene dal di fuori, nasce dal poetare stesso. Lo dice l’io nella sorprendente
risposta che dà alle donne, accorse, incuriosite e incredule, intorno a lui per
sapere “ove sta questa tua beatitudine”: “In quelle parole che lodano la donna
mia” (10.8 / xviii 6). Tuttavia anche l’angelo del poetare, come tutti gli angeli,
è allo stesso tempo bello e terribile, è desiderato e al contempo infonde paura:
“non ardia di cominciare; e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e
con paura di cominciare” (10.11 / xviii 9). Però finalmente il nodo nella lingua
si scioglie, perché “Amor […] ditta dentro”23 (secondo il concetto che verrà
espresso nel Purgatorio), e l’incipit della poesia fluirà quasi da solo, di modo
che ancora una volta, come nel momento in cui si contempla Amore, al “pauroso aspetto” s’accompagna la serenità:
la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa, e disse: Donne, ch’avete
intelletto d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia,
pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi, […] pensando
alquanti die, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata
nel modo che si vedrà di sotto (10.13-14 / xix 2-3).
La rappresentazione di questo processo poetico corrisponde all’idea esposta nel
De vulgari eloquentia: all’iniziale mancanza di ispirazione, e quindi alla necessità di abbeverarsi alla fonte dell’Elicona deve seguire la lunga riflessione grazie
alla quale è costruita poi la canzone, devono seguire “opus et labor” o “ar[s]
scientiaque”. Solo così il poeta può essere elevato metaforicamente al cielo, o
in altre parole la canzone, come un angelo, lo può trasportare al cielo24. Al
tempo stesso “la lingua […] quasi da sé stessa mossa” ricorda il cosiddetto
dono delle lingue, la glossolalia, in quanto lode e osanna, partecipazione al
canto degli angeli. Se nei testi dei mistici non è raro che le apparizioni degli
23. “I’ mi son un che, quando, / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo
significando” (Pg. xxvi 52-54). Per quanto riguarda il nodo sciolto cfr. più sotto la citazione
delle parole di Bonagiunta da Lucca, che già aveva discusso accaloratamente con Guinizelli
sul modo giusto del poetare, ma che adesso riconosce il suo errore.
24. “Caveat ergo quilibet et discernat ea que dicimus, et quando pure hec tria cantare intendit,
vel que ad ea directe ac pure secuntur, prius Elicone potatus, tensis fidibus ad supremum, secure plectrum tum movere incipiat. Sed cautionem atque discretionem hanc accipere, sicut
decet, hic opus et labor est, quoniam nunquam sine strenuitate ingenii et artis assiduitate
scientiarumque habitu fieri potest. Et hii sunt quos Poeta Eneidorum sexto Dei dilectos
et ab ardente virtute sublimatos ad ethera deorumque filios vocat, quanquam figurate loquatur. Et ideo confutetur illorum stultitia qui, arte scientiaque immunes, de solo ingenio
confidentes, ad summa summe canenda prorumpunt; et a tanta presumptuositate desistant;
et si anseres natura vel desidia sunt, nolint astripetam aquilam imitari” (Dve. II iv 9-11).
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 23
angeli siano ispiratrici di canti (cfr. Hammerstein 21990: 39 sgg. e 51 sgg.), non
ci si deve stupire che la canzone, sorta da un moto di quasi auto-ispirazione,
sia la prima scritta nel nuovo “stilo de la sua loda” e si presenti subito in veste
di inno di lode:
Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
(Donne ch’avete, vv. 1-4)
La canzone non è solo “sua laude”, cioè inno di lode, come lo è per definitionem il canto degli angeli, ma di tale canto presenta anche tutte le caratteristiche. L’io vuole cantare questa “laude” insieme con le ‘donne che hanno
intelletto d’amore’, così come i cori degli angeli cantano una voce per segnalare
l’unione e l’unanimità della lode (cfr. Hammerstein 21990: 25). La musica
stessa delle parole, il gioco di allitterazioni e assonanze di “i’ vo’ con voi de
la mia donna dire” riproduce il canto una voce. Inoltre, non materialmente
ma idealmente, la canzone è sine fine (“non perch’io creda sua laude finire”)
come infinito è il canto degli angeli, esprimendo così sia il carattere eterno del
lodato che quello di coloro che lo lodano, perché questo e quelli non sono
sottomessi allo scorrere tempo (cfr. ibid.).25 E come il canto degli angeli è
caratterizzato da perfezione,26 così anche questa prima canzone nello “stilo de
la loda” può valere come esempio perfetto del nuovo stile. Ce lo conferma la
considerazione del fatto che nel De vulgari eloquentia Dante propone per due
volte questa canzone come modello:27 una volta del genere lirico, il più alto tra
le forme poetiche in volgare (cfr. DVE II viii 7-8), e una secondadell’endecasillabo utilizzato come metro unico, in quanto forma ideale dello stile tragico
(cfr. DVE II xii 3). E lo confermerà in misura ancora maggiore Bonagiunta da
Lucca, che Dante nel Purgatorio, con fine ironia, eleva a inventore del termine
con cui verrà designata la nuova corrente, che d’ora in avanti sarà usato quasi
25. “Sicut sunt immortalia, ita nec eorum laudes aliquo fine clauduntur”, scrive Cassiodoro
(citato secondo Hammerstein 21990: 25).
26. Cfr. i tratti caratteristici della musica celeste, i quali si trovano ad esempio nelle visioni di
Ildegarda di Bingen, la cui ‘combinazione affascinante di metafisica luminosa e metafisica
sonora’ viene paragonata a quella di Dante: “Vollkommenheit, Unsagbarkeit, una voce, sine
fine, alter ad alterum, Gemeinsamkeit himmlischer und irdischer Liturgie, Analogie von
Engeln und Mönchen” (Hammerstein 21990: 57). Per la concezione teologica dei nove cori
degli angeli nel Liber Scivias di Ildegarda di Bingen e per il loro riflesso nel Convivio e nella
Commedia cfr. anche Herkommer 2006: 202-206. L’articolo comprende anche numerose
illustrazioni di angeli musicanti.
27. Solo la canzone cavalcantiana Donna me prega è menzionata anche lei due volte, ma solo
la prima di queste menzioni la porta a modello, insieme a Donne ch’avete, per la canzone
costruita idealiter esclusivamente di endecasillabi. La seconda menzione serve piuttosto a
fornire un esempio per un trisillabo all’interno di un verso, cosa che appunto succede nella
canzone cavalcantiana grazie ad una rima interna (cfr. Dve. II xii 8).
24 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
antonomasticamente, in sostituzione del nome dell’iniziatore della corrente
stessa; un riconoscimento postumo da parte di un poeta della vecchia guardia
che finalmente comprende tutta la novità e dolcezza della ‘canzone angelica’:
“[…] Ma di’ s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
‘Donne ch’avete intelletto d’amore’”. […].
“O frate, issa vegg’io” diss’elli “il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! […]”.
(Pg. XXIV 49-57)
Prima il saluto “dolcissimo” di un’angelica Beatrice procura “beatitudine”,
ora ci appare la “beatitudine” dell’io nel “dolce stil”. La scoperta dell’‘amor
nuovo’, della caritas mistica in quanto amore disinteressato, corrisponde alla
scoperta di un nuovo stile, dell’autosufficienza della lingua poetica, che non
trova più la sua legittimazione pragmatica nel cerimoniale di corte o in altri
rituali, evocati all’inizio tramite la menzione del famoso “guiderdone” (cfr. 3.2
/ viii 2).28 Al contrario, scegliere l’amore mistico come modello del profano
ha dei riverberi anche sul dire di questo amore, sulla concezione della lingua
poetica che in qualche modo acquista in santità, come evidenzia Maria Corti
in Percorsi dell’invenzione: “se l’estasi amorosa può assumere a modello quella
mistica, ciò guida all’ardita estensione nell’ambito dell’esperienza poetica amorosa delle proprietà e quindi del linguaggio dell’ineffabilità, come incapacità di
ridicere l’evento amoroso stesso” (Corti 2003: 218 sgg.). L’effetto di tale interdiscorsività tra poesia profana e poesia mistica, cioè l’inseparabilità tra la visione
mistica e quella lirica nel processo dello scrivere, secondo Corti è doppio,
quasi un movimento verso tutte e due le direzioni, quella del ‘potenziamento’
e quella della ‘socializzazione’ dell’autore:
da un lato [il modello mistico] potenzia intuizioni dantesche, oggettiva sue
esperienze di poeta che si trasfigurano entrando nell’universo della contemplazione. D’altro lato il modello serve a produrre una nuova informazione
nel campo della poesia: cioè l’intuizione lirica dell’artista si socializza realizzandosi entro modelli culturali già esistenti e validi, i mistici per l’appunto.
28. Cfr. il commento di Colombo (2008: 95 sgg.) a questa scoperta della “beatitudine” nuova e
unica: “È la scoperta, d’ora innanzi stabilmente acquisita, dell’autosufficienza del linguaggio poetico e insieme e per questo della sua natura trascendente, già implicita nella svolta
cruciale del cap. x […] e generatasi dall’approdo a un nuovo e disinteressato sentimento
d’amore. Modello di questo amore è ora la caritas cristiana, segnatamente mistica, le cui
proprietà e il cui linguaggio vengono per analogia trasferiti al nuovo sentimento per la
beatrice: come quell’amore anche questo è assolutamente gratuito e disinteressato; non
ha bisogno, perciò, di alcuna ricompensa; è, in altri termini, pura contemplazione che, in
quanto tale, più che raggiunta, è concessa ab alto; come quell’amore anche questo è Verbo,
è lingua […]; di quell’amore questo, infine, riprende le parole che lo dicono, le immagini
che lo suggeriscono, i lamenti che ne dichiarano l’inattingibilità per l’assoluta trascendenza.”
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 25
La solitaria avventura intellettuale dell’artista viene a collegarsi alle altre del
suo tempo (Corti 2003: 220).
Se da un lato Corti, partendo da questa base, qualifica la Vita Nova come il
testo che, al pari del De vulgari eloquentia, spreme “come succo una nuova
poetica”, vale a dire esprime “il senso dantesco del fare scrittura in versi e in
prosa” (Corti 2003: 221), dall’altro però, rispetto al tema ‘Dante a la musica’
o ‘Dante e la canzone’ non si discosta da tutti gli studi relativi e soprattutto
non approfondisce il contributo particolare della Vita Nova al tema: “lo nome
d’Amore è si dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino
le nominate cose, sì come è scritto: ‘Nomina sunt consequentia rerum’” (6.4 /
xiii 4). Il principio del rapporto necessario tra res e signa del linguaggio poetico, evocato fin dall’inizio nell’allusione al significato del nome di Beatrice29 e
qui formulato teoricamente, sarà applicato là dove l’io racconta il suo incontro
visionario con Giovanna-Primavera e Beatrice-Amore. Punto culminante sono
le parole di Amore che dice: “E chi volesse sottilmente considerare, quella
Beatrice chiamerebbe Amore, per molta simiglianza che ha meco” (cfr. 15.3-5 /
xxiv 3-5; Corti 2003: 252).
Se però, secondo la definizione della poesia che, come la precedente citazione, ricorre in quasi tutti gli studi menzionati, non escluso il presente, la
lirica “nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita” (DVE II iv 2);30
se inoltre si può supporre che, benché il trattato sia stato scritto più tardi,
questa convinzione fosse valida già all’epoca della Vita Nova, dal momento che
ne fa dei chiari riferimenti, allora si dovrebbe poter rintracciare una musicalità
della poesia non solo là dove si parla in modo esplicito della relazione tra il
nome e la cosa da esso designata, ma anche nell’opera stessa che è una storia
d’amore in forma di prosimetrum, in altre parole, una “fictio rethorica musicaque poita” – cioè nell’intera Vita Nova. Tanto più se nel De vulgari eloquentia
si legge che il concetto di ‘canzone’, nell’accezione più ampia che include
anche la ballata e il sonetto, può ben significare una poesia accompagnata da
musica; ciò nonostante il significato della parola non è l’unico possibile, in
quanto ‘canzone’ può anche designare testi senza accompagnamento musicale.31 Inoltre viene affrontata la questione se il termine ‘canzone’ significhi la
29. “a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da
molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare” (1.2 / ii 1).
30. Un’ampia discussione della celeberrima definizione si trova in Paparelli 1960: 1-83. In primo
luogo però Paparelli si dedica alla definizione della nozione di fictio, i cui significati possibili
cerca di chiarire servendosi di etimologia e intertestualità. Solo dopo si concentra anche sugli
altri elementi della definizione, innanzitutto su poita. Il ruolo assunto da musica e retorica
nella definizione dantesca della poesia non viene menzionato che marginalmente.
31. “cantio dupliciter accipi potest: […] sive cum soni modulatione proferatur, sive non” (Dve.
II viii 4).
26 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
“fabricatio verborum armonizatorum” o la musica stessa. La seconda alternativa viene rifiutata, perché la musica stessa non viene mai definita cantio, ma
“sonus”, “thonus”, “nota” o “melos”,32 e perché nessun musicista che suoni uno
strumento definirebbe la musica da lui prodotta una canzone, eccetto quando non accompagni una poesia. Al contrario, chi mette in musica un testo
chiama canzone il risultato del suo lavoro persino quando non viene eseguito
ed è conosciuto solo sulla carta. Canzone in senso lato sono dunque tutte le
“verba […] armonizata”, che possono essere accompagnate da una melodia
(cfr. DVE II viii 5-6). Da questa affermazione consegue che, se da un lato il
legame tra la canzone o il poetare e la beatitudine esiste solo a partire dalla
scoperta dello “stilo de la sua loda”, dall’altro la questione della musicalità
della lingua, della sua dolcezza investe la poesia in generale e dunque la Vita
Nova nella sua totalità.
Sin dalla prima poesia del prosimetrum è evidente che tale interpretazione
è corretta. Nel primo sonetto, indirizzato ai “fedeli d’Amore” e composto in
seguito alla visione che rende l’io “come inebriato” dalla dolcezza e dall’estasi,
poetare significa superare la mancanza di parole, significa ‘trovare’ una lingua
capace di dire l’ineffabile, perché malgrado lo sbigottimento l’io sente il desiderio di raccontare la sua esperienza, “di farlo sentire a molti li quali erano
famosi trovatori in quello tempo” (1.20 / iii 9). Fin da subito dunque dolcezza,
estasi e ineffabile da una parte, necessità del dire, dall’altra, si trovano insieme
in una tensione creativa, tanto più che l’esperienza interiore (l’essere toccato dall’amore) provoca uno sconvolgimento pari per intensità all’urgenza del
dire, come viene più avanti confermato da alcuni versi della canzone cominciata e interrotta:
allor sente la frale anima mia
tanta dolcezza, che ’l viso ne smore,
poi prende Amore in me tanta vertute,
che fa li miei spiriti gir parlando,
ed escon for chiamando
la donna mia […].
(Sì lungiamente, vv. 7-12)
Secondo le spiegazioni date da Dante nella prima parte del De vulgari eloquentia, gli angeli probabilmente non hanno bisogno della lingua per poter
cantare, perché hanno una “promptissimam atque ineffabilem sufficientiam
intellectus” grazie alla quale esprimere le loro “gloriosas […] conceptiones”.33
Non possedere una lingua non è dunque una mancanza, mentre invece la
32. Cfr. la differenza tra “l’elemento musicale o so” e “quello propriamente testuale o mot” ad
es. nella canso dei trovatori (Cerullo 2013: 156).
33. “angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones habeant promptissimam atque ineffabilem sufficientiam intellectus” (Dve. I ii 3).
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 27
specie umana non ne può fare a meno.34 Malgrado la lingua sia uno strumento indispensabile alla comunicazione, anche gli uomini, non solo gli angeli,
conoscono l’“ineffabile” (Dante lo dimostra nel Convivio servendosi della canzone Amor che ne la mente mi ragiona), o meglio conoscono “due ineffabilitadi” (Cv. III iv 1), giacché l’impossibilità di esprimersi è dovuta all’argomento
da trattare, quando questo è superiore alle facoltà dell’io, o all’incapacità del
soggetto di esprimere adeguatamente quello che sente e prova:
Amor, che ne la mente mi ragiona
de la mia donna disïosamente,
move cose di lei meco sovente,
che lo ’ntelletto sovr’esse disvia.
Lo suo parlar sì dolcemente sona,
che l’anima, ch’ascolta e che lo sente,
dice: “Oh me lassa! ch’io non son possente
di dir quel ch’odo de la donna mia!”.
E certo e’ mi conven lasciare in pria,
s’io vo’ trattar di quel ch’odo di lei,
ciò che lo mio intelletto non comprende;
e, di quel che s’intende
gran parte, perché dirlo non savrei.
Dunque, se le mie rime avran difetto,
ch’entreran ne la loda di costei,
di ciò si biasmi il debole intelletto
e ’l parlar nostro, che non ha valore
di ritrar tutto ciò che dice Amore.
(Amor che ne la mente, vv. 1-18)
Come la comunicazione degli angeli, anche quella di Amore avviene senza
parole. Occorrono allora altri mezzi per poter rendere in lingua umana la
dolcezza del suo “parlar”; mezzi che si distinguono per “letizia”, “beatitudine”
e “infinita dolcezza” – tutti e tre sinonimi della musica nel Paradiso dantesco
(cfr. Dovara in Varoli Piazza 1997: 331, nonché Armour 1997: 33-40) e nella
Vita Nova caratteristiche di Amore, Beatrice e gli altri angeli. In un primo
momento l’io rivolge le sue poesie esclusivamente a “chi lo intende”, i “fedeli
d’Amore”, che sono gli iniziati destinatari del primo sonetto. Ma nemmeno
loro riescono a decifrare in modo corretto “lo verace giudicio” dell’enigmatica
visione. Anche più tardi, quando l’io allarga la cerchia dei suoi interlocutori,
proponendosi di cantare la lode di Beatrice davanti a tutti, anche a coloro che
non hanno la possibilità di avere diretta esperienza di lei, la lingua umana si
rivela insufficiente ad esprimere l’azione angelica della donna, cosicché la tensione fra quello che deve essere detto e l’indicibile rimane costante:
34. “soli homini datum est loqui, cum solum sibi necessarium fuerit. Non angelis, non inferioribus animalibus necessarium fuit loqui” (Dve. I ii 1-2).
28 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli
che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave, tanto
che ridicere non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che
nel principio nol convenisse sospirare […;] propuosi di dicere parole, ne le
quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò
che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. (17.3-4 / xxvi 3-4)
3. La musica delle parole
Laddove agli altri non resta che il muto sospiro per esprimere la “dolcezza”,
l’io poetante dispone di altri mezzi. Il sonetto sopra menzionato, Tanto gentile
e tanto onesta pare, nella sua “perfetta fusione di logos e melos”35 ne è tangibile
manifestazione, nel momento in cui, secondo il modello delle coblas capfinidas, sfuma, per mezzo dell’allitterazione e della figura etimologica, la linea di
demarcazione tra quartine e terzine, pur mantenuta sintatticamente, rendendo
così possibile lo scorrere ininterrotto del suono:
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova.
(Tanto gentile, vv. 7-11)
Non è dunque un silenzio senza parole, che udranno i lettori, ma un canto di
lode che la poesia rende percepibile grazie alla sua musicalità; così la “dolcezza”, tale come è stata sperimentata dall’io per mezzo del “dolze sono”, è resa
comprensibile a tutti.
Nell’ambito dei canti di lode, l’io formula in modo esplicito il desiderio di
trasformare le poesie in angeli per il loro ininterrotto suonare, in messaggeri
che portano il messaggio di Beatrice anche tra coloro che non la conoscono.
La funzione di messaggeri vale però per il testo intero, essendo questo plasma35. “A illustrare questa perfetta fusione di logos e di melos basterebbe citare il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, forse il più compiuto della Vita nuova. Esso colpisce per la chiarezza
della struttura sintattica e per un fluire pacato del periodo che abbraccia, nelle quartine,
sempre un’intera strofa e, nelle terzine, l’intero spazio testuale della sirma. Il magico influsso
che emana dalla donna “quando altrui saluta” sembra trovar riscontro, sul piano espressivo,
nei concatenamenti consecutivi (“tanto … che”, “sì piacente … che”) e ipotetici (“e par
… che”, “par … che”) che connotano il discorso emotivamente, in quanto ne sostengono
la struttura ritmica e melodica. Beatrice stessa, nel suo incedere pacato e pieno di grazia,
provoca negli animi degli astanti un duplice effetto di ‘salute’ e di stupore, sia conoscitivo,
dunque, sia emotivo. In tal modo la donna gentile, salutifera e ‘dolce’, diventa figura della
nuova poetica dantesca” (Güntert 1995: 122). Per quanto riguarda la “musicalità segreta”
del sonetto Oltre la spera, basata interamente sul suo vocalismo ricco di tensioni, cfr. ibid.:
121-122. Güntert rimanda all’“analisi fonematica” dei due sonetti in Sassi 1993.
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 29
to sin dall’inizio dalla dimensione della memoria. Già nel proemio è evocato
il “libro de la mia memoria”, dal quale il poeta si propone di trarre alcuni dei
contenuti da trattare nel “libello”, cioè nella Vita Nova. Ma è soprattutto la
prima apparizione della donna nell’universo del testo che sottolinea questa
dimensione. Ella vi entra in quanto “gloriosa donna de la mia mente”, e cioè
in quanto donna ricordata,36 cosicché solo la “dolcezza” delle poesie, la musica
della lingua può far sentire la “dolcezza” emanante dalla sua persona. Grazie
a questa componente sonora, alla musicalità, la lingua acquista durata o stabilità, come osserva Dante nel Convivio a proposito del volgare: “Ciascuna
cosa studia naturalmente a la sua conservazione”. Ma per garantire questa
conservazione occorre appunto stabilità, “e più stabilitade non potrebbe avere
che in legar sé con numero e con rime” (Cv I, xiii 6), cioè nella dimensione
metrica e sonora dei testi.
Un ottimo esempio di questa coesione creata dal suono e della possibilità
di esprimere l’ineffabile mediante la “fictio rethorica musicaque poita” è il
sonetto Ciò che m’incontra, che segue immediatamente al viavai ininterrotto
dei pensieri dialoganti all’interno dell’io. “Mosso da cotali pensamenti” (8.3 /
xv 3), l’io non trova riposo finché non riesce a dare una forma poetica ai pensieri inquieti e dunque inquietanti:
Ciò che m’incontra, ne la mente more,
quand’i’ vegno a veder voi, bella gioia;
e quand’io vi son presso, i’ sento Amore
che dice: “Fuggi, se l’ perir t’è noia”.
Lo viso mostra lo color del core,
che, tramortendo, ovunque pò s’appoia;
e per la ebrietà del gran tremore
le pietre par che gridin: Moia, moia.
Peccato face chi allora mi vide,
se l’alma sbigottita non conforta,
sol dimostrando che di me li doglia,
per la pietà, che l’ vostro gabbo ancide,
la qual si cria ne la vista morta
de li occhi, c’hanno di lor morte voglia.
(Ciò che m’ incontra, vv. 1-14)
Di nuovo le allitterazioni trasformano il testo in musica verbale, nei primi due
versi, “Ciò che m’incontra, ne la mente more, / quand’i’ vegno a veder voi,
bella gioia”, ma anche in “color del core” e in “le pietre par”, dove la “p” non
solo è dura come la pietra, ma continua a farsi sentire, a ‘ri-sonare’ attraverso
“Peccato” fino alla successiva allitterazione “per la pietà”, la pietà uccisa dal
36. “la quale fu chiamata da molti Beatrice” (1.2 / ii 1), scrive di lei l’io, e così pure: “la quale è
oggi meritata nel grande secolo” (1.12 / iii 1); fa dunque parte non del suo presente, ma del
suo passato.
30 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
“gabbo”. E ancora di più sono il poliptoto e la figura etimologica a creare la
stabilità sonora e visiva della poesia, sottolineando l’importanza e l’impossibilità del vedere, cui si allude con “veder”, “viso”, “vide” e “vista” in ognuna
delle quartine e terzine, legate tra di loro da questo nesso. In modo analogo
“more” e “Moia, moia”, tutti e due alla fine dei rispettivi versi e quindi in
posizione di rima, formano una cornice che apre e chiude l’ottava37 con degli
echi in “vista morta” e “morte voglia”, collegati dal chiasmo delle identiche
consonanti iniziali v–m e m–v. Così “vista morta” e “morte voglia” alludono al
volere paradossale degli occhi, al loro desiderio di vedere la “bella gioia”, pur
consapevoli che tale vista li ucciderà; così pure la rima “more” : “Amore” evoca
il nesso Eros / Thanatos, per quanto “more” del primo verso alluda piuttosto
al dimenticare, creando in questo modo un legame con il tema della memoria
nonché con la funzione dei versi stessi, destinati a impedire il ‘morire nella
mente’, vale a dire il dimenticare.
Un altro espediente per creare stabilità mediante il suono che perdura si
trova in Amore e ’l cor gentil sono una cosa, poesia che enuncia la tesi in questo
primo verso, e la conferma nel secondo per mezzo dell’invocazione all’autorità del “saggio”, evidente allusione intertestuale alla famosa canzone Al cor
gentil di Guinizelli. Se già la paradossale figura etimologica del quarto verso,
“com’alma razional sanza ragione”, nella sua suggestiva assurdità rende percepibile l’altra, più grave, assurdità dell’idea di una separazione di “Amor” e “cor
gentil”, il legame indissolubile di “Amor” e “cor” viene sottolineato anzitutto
dalla ripetizione dei due termini in ognuna delle due quartine e nella coppia
delle terzine; i due concetti costituiscono anche l’anello di congiunzione con il
sonetto successivo, nel quale, come prima nella coppia delle terzine, “Amore”
e “core” sono parole rimanti nella prima quartina:
Ne li occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch’ella mira;
ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core.
(Ne li occhi porta, vv. 1-4)
Un tale connubio sonoro tra le poesie nasce anche là dove all’invito alla lamentazione, Piangete, amanti, poi che piange Amore, dopo la prima morte
raccontata nel testo, segue la lamentela Morte villana, di pietà nemica, perché
l’apostrofe di questa seconda poesia, nella forma di “villana Morte” (v. 5) era
già presente nella prima. E ancora più ovvio sembra quell’altro connubio sonoro, rilevato anche da Gorni, che lega la strofa isolata Sì lungiamente m’ha tenuto
Amore alla canzone Li occhi dolenti per pietà del core: “L’identità che ostenta37. Cfr. inoltre il gioco sonoro con “tramortendo” e “tremore”, che conferma al livello dei suoni
l’asse semantico della poesia e che mediante la paronomasia crea un legame tra il tremore e
la morte.
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 31
no in rima (ore) i capoversi di Gli occhi dolenti e di Sì lungiamente connette
strettamente l’ultimo testo della prima parte con questo che è il primo della
seconda” (Gorni 1996: 176). Se Gorni ne trae la conclusione che si potrebbe
trattare di una possibile ispirazione per Petrarca, il legame sonoro tra le due
parti ‘in vita’ e ‘in morte di madonna Beatrice’ potrebbe altresì alludere all’unità profonda di vita e morte nella Vita Nova, all’in-finitezza dell’operare di
Beatrice persino dopo la sua morte, un’infinitezza suggerita tra l’altro dal sine
fine del canto di “Amore” e “core”, che continua anche oltre la morte terrena.
Comunque la musicalità delle poesie non si crea soltanto “con numero e
con rime”; anche il lessico contribuisce in misura non secondaria a tali effetti
sonori. Lo aveva già messo in luce la lista delle parole raccomandate nel De
vulgari eloquentia per creare la suavitas: “amore, donna, disio, virtute, donare,
letitia, salute, securtate, defesa” (Dve. II vii 5). Questo catalogo costituisce quasi
un riassunto delle parole-chiave della Vita Nova e suona come una definizione
indiretta di quella “dolcezza” che dal testo promana, una “dolcezza” che grazie
al suono stesso delle parole fa sentire agli ascoltatori o lettori quella “dolcezza”
provata e raccontata dall’io. Ancora una volta, dunque, il testo illustra l’insieme dei due significati della parola, riproponendo il nesso implicito esistente
tra la “dolcezza” del nome e quella dell’operare di Amore: nomina sunt consequentia rerum. In altre parole la scelta dei vocabula è tutt’altro che arbitraria
nella poesia in quanto “fictio rethorica musicaque poita”. Né mero gioco di
suoni, né puro esercizio svincolato dal suono delle parole, tale poesia, come
dimostra la doppia “dolcezza” d’Amore, deve piuttosto riunire i due aspetti
per poter operare in quanto musica nell’accezione più ampia che il concetto
di musica ebbe nel Medioevo.
Più che alcune parole singole, più che la considerazione isolata di “rime” e
“numero”, è ovviamente la canzone a dimostrare questa unione di ‘retorica’ e
‘musica’. Non a caso è considerata la forma più alta nella gerarchia dei generi
poetici, perché a causa della lunghezza, della complessità delle parti legate tra
di loro e dell’armonia dell’insieme necessita dell’arte più elevata e al contempo
permette a quella stessa arte di dispiegarsi. Proprio come il suono armonioso e
la musicalità delle parole sono legati al rapimento mistico, così nell’intera poesia “bellezza” e “bontade” sono legate tra di loro. Quantunque appartengano
a livelli diversi – “la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l’ornamento
de le parole” (Cv. II xi 4) –, tutte e due, mediante il diletto che possono provocare, offrono un accesso alla poesia. È proprio il carattere complesso della
“sentenza” che richiede, continua Dante nel Convivio, un’attenzione particolare alla “bellezza”, essendo quest’ultima per molti l’unico cammino che porta
alla poesia. Si legga il congedo della canzone Voi che ’ntendendo:
32 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragione intendan bene,
tanto la parli faticosa e forte […],
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo lor, diletta mia novella:
“Ponete mente almen com’io son bella!”
(Voi che ’ntendendo, vv. 53-61)
Queste parole sono rese ancora più esplicite dalla parafrasi nel commento del
Convivio:
o uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la
rifiutate però; ma ponete mente la sua bellezza, ch’è grande sì per construzione, la quale si pertiene a li gramatici, sì per l’ordine del sermone, che si
pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li
musici (Cv. II xi 9).
Il carattere particolare della poesia non sta dunque nella rinuncia alla “bontade”, ma nel suo stesso valore, nel peso specifico accordato alla “bellezza”, alla
fusione dell’“eleganza e capacità trascinatrice della retorica più elevata” con la
“composizione organica dello strato dei suoni, concepiti come parte essenziale
del messaggio poetico” (Pazzaglia 1988: 258).
Un ultimo breve sguardo rivolto alla canzone centrale Donna pietosa e di
novella etate può dare un’idea del modo in cui nella complessa opera d’arte
che è la canzone “construzione”, “ordine” e “numero” si leghino insieme. Essa
assume un rilievo speciale sia perché costituisce il centro delle tre canzoni
grandi, il centro delle trentuno poesie raccolte nella Vita Nova, sia perché è
posta fra il canto di lode Donne ch’avete intelletto d’amore e il canto di lamento
Li occhi dolenti per pietà del core; inoltre è caratterizzata da una struttura narrativa all’interno della quale è raccontata ancora una volta la storia della malattia
dell’io, che comprende anche la visione di Beatrice già morta. A causa di questo carattere narrativo, la canzone potrebbe sembrare, almeno a prima vista,
poco ‘lirica’ o addirittura ‘non-lirica’.38 A un secondo sguardo però, o meglio,
a un ascolto più attento del testo, la poesia, che si serve di “construzione”,
“ordine” e “numero”, sembra particolarmente atta a spiegare, a rendere immediatamente percepibile la differenza tra poesia e prosa. Ecco alcuni accenni
per fare qualche esempio.
Contrariamente a Voi che ’ntendendo, qui la “sentenza” o “bontade” pare
tanto ovvia quanto conosciuta, dal momento che la narrazione dettagliata
dei ‘fatti’ precede la poesia. In questo modo sembra che il poeta faccia soltanto indossare al racconto una veste elegante con lo scopo di raggiungere
l’“ornamento de le parole” necessario, la “bellezza” che gli mancava. Un at38. Cfr. questi due concetti nel titolo dell’articolo di Cerullo nonché le osservazioni dell’autrice
rispetto alla categoria di “lirica” prima del romanticismo (Cerullo 2009: 155).
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 33
tento ascolto del suono delle parole però fa capire come proprio la “musica
verbale” nella sua “bellezza” contribuisca alla creazione di una “sentenza” ben
più complessa. Già l’incipit della canzone, Donna pietosa e di novella etate,
è molto raffinato: con nelle orecchie l’eco della prima canzone indirizzata
alle Donne ch’avete intelletto d’amore e grazie all’ellissi dell’articolo davanti a
“Donna”, leggendo o sentendo la poesia per la prima volta, si ha l’impressione
che anche qui si tratti di un’apostrofe e cioè del segnale lirico per eccellenza.39
Quest’anfibologia serve a mascherare il carattere narrativo della prima frase,
assai complicata e ricca di informazioni:
Donna pietosa e di novella etate,
adorna assai di gentilezze umane,
ch’era là ’v’io chiamava spesso Morte,
veggendo li occhi miei pien di pietate,
e ascoltando le parole vane,
si mosse con paura a pianger forte.
(Donna pietosa, vv. 1-6)
La costruzione molto densa della frase, che riunisce entro la cornice formata
dal soggetto “Donna” e il predicato “si mosse […] a pianger forte” un gran numero di attributi e apposizioni, di frasi relative, gerundi e locuzioni avverbiali,
contribuisce a mantenere questa condizione di incertezza, perché crea una
tensione molto più alta rispetto alla linearità della frase in prosa. Lì si leggeva:
E dicendo io queste parole con doloroso singulto di pianto, e chiamando la
Morte che venisse a me, una donna giovane e gentile, la quale era lungo lo
mio letto, credendo che lo mio piangere e le mie parole fossero solamente
per lo dolore de la mia infermitade, con grande paura cominciò a piangere
(14.11 / xxiii 11).
La versione poetica tace sul luogo dell’azione (il letto del malato), rinuncia
alla spiegazione introdotta da “credendo che”, rendendo più paradigmatica,
ma anche più enigmatica la situazione grazie alla focalizzazione sull’io; d’altro
canto espande l’introduzione della “donna giovane e gentile”, che invece è
brevissima nella prosa, fino a occupare due versi completi, rivelando in questo
modo fin dal principio le parole-chiave dell’intera opera. I versi producono
soprattutto una sorta di segnali acustici che attirano l’attenzione con il ricorso
alle numerose allitterazioni – “pien di pietate”, “le parole”, “con paura a pianger”. Inoltre per la prima volta nella Vita Nova (cfr. Gorni 1996: 132) la parola
“Morte” è collocata in fine verso, in posizione di rima per cui, rispetto alla
prosa, la morte acquista un peso particolare.
39. “Now it is certainly beyond question that the figure of address is recurrent in lyric poetry,
to the point of constituting the generic definition of, at the very least, the ode (which can,
in its turn, be seen as paradigmatic for poetry in general)” (de Man 1985: 61).
34 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
I versi seguenti non fanno che confermare questo peso, dato che vi si continua a ripetere la parola sotto molteplici variazioni, di nuovo tramite poliptoto e figura etimologica. Così nel verso 34 si legge: “Ben converrà che la mia
donna mora”; il verso 42 termina con le parole: “Morra’ti, morra’ti”, e troverà
una specie di rispecchiamento nel verso 56: “Morta è la donna tua, ch’era sì
bella”, e, dopo l’eufemismo di Amore: “vieni a veder nostra donna che giace”
(v. 64), un altro nel verso 66: “mi condusse a veder madonna morta”. Solo
dopo le parole pronunciate da Beatrice, “Io sono in pace” (v. 70), parole che
non a caso rimano con “imaginar fallace” (v. 65), l’“umiltà” della “donna” si
trasmette all’io e la morte appare integrata nel pensiero e nel verso, “dolce”40 e
addirittura – è ancora una volta la rima a sottolinearlo – “cosa gentile”:
Io divenia nel dolor sì umile,
veggendo in lei tanta umiltà formata,
ch’io dicea: – Morte, assai dolce ti tegno;
tu dei omai esser cosa gentile,
poi che tu se’ ne la mia donna stata,
e dei aver pietate e non disdegno.
(Donna pietosa, vv. 71-76)
La “dolcezza” del canto, operando come Beatrice e Amore, riesce dunque a
trasformare persino la morte. Come Beatrice ingentilisce la “villana Morte”,
così il “dolze sono” trasforma anche la visione della morte in “amorosa cosa da
udire” (14.16 / xxiii 16).
Affinché tuttavia il componimento poetico nella sua ultima strofa possa
esplicitare questo nuovo stato d’animo e soprattutto possa giungere nel penultimo verso al punto culminante dell’exclamatio, “Beato, anima bella, chi te
vede!” (v. 83), inesistente alla fine del racconto in prosa, deve scostarsi nettamente dalla struttura temporale del racconto che pur vuole evocare. Seguendo la logica del prorsus, la prosa comincia con la narrazione dei primi segni
della malattia, poi della debolezza che ne consegue fino al delirio febbrile,
per arrivare all’invocazione della morte da parte del malato. All’udire la quale
la donna che lo cura si mette a piangere, facendo accorrere le altre donne
che svegliano il malato e gli rivolgono la parola, perché torni in sé e possa
raccontare la sua storia. A differenza del testo in prosa, la canzone comincia
e finisce all’interno della vicenda narrata. In altri termini si potrebbe dire
che, rispetto alla poesia, lo svolgimento dei fatti in prosa segue un ordine
corrispondente alla successione delle strofe 3–4–5–6–1–2–3. Questo cambia40. Anche nella prosa, la morte viene già apostrofata come “Dolcissima”, ma è l’insieme di tutti
gli elementi sonori a rendere l’‘ingentilire’ della morte davvero impressionante; più importante per la prosa sembra invece il livello semantico, l’opposizione tra villano e gentile, che
a sua volta allude al Dolce stil novo. Cfr. ancora una volta l’analisi di Martinez 1998: 21 sgg.,
la cui linea argomentativa è completamente diversa, ma che sottolinea anche la significativa
differenza della parola “Morte” usata in rima o integrata nel verso.
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 35
mento dell’“ordine”, dettato dalla retorica secondo la definizione del Convivio,
ma non senza conseguenze, come si vedrà, per la “musica”, crea dunque una
struttura circolare che la prosa non conosce. Dopo aver detto della malattia,
del delirio e del ritorno alla coscienza, “allora” l’io pone fine al suo narrare per
“poi” farne una canzone.41 Di conseguenza la composizione poetica segna il
punto finale dell’episodio.
La canzone invece comincia con la “Donna pietosa”, che insieme alle altre
donne rivolge la parola all’io, e termina con il verso: “Voi mi chiamaste allor,
vostra merzede” (v. 84). Tale verso è l’unico che segue all’apostrofe dell’“anima
bella” e alla beatitudine di colui che la vede. Con questa apostrofe alle donne
presenti, si torna all’inizio, alla “donna giovane e gentile, la quale era lungo lo
[suo] letto” e alle “altre donne che per la camera erano” (14.11s. / xxiii 11s.). In
questo senso, la poesia, versus invece di prorsus, fa esattamente il contrario del
programma annunciato nella prosa con “cominciandomi dal principio infino
a la fine”. Il componimento poetico invece di far concludere l’episodio, fa in
modo che si possa immediatamente ricominciarlo dall’inizio, ad infinitum
oppure sine fine, come il canto degli angeli, come l’Osanna infinito che essi
intonano:
Levava gli occhi miei bagnati in pianti,
e vedea, che parean pioggia di manna,
li angeli che tornavan suso in cielo,
e una nuvoletta avean davanti,
dopo la qual gridevan tutti: Osanna.
(Donna pietosa, vv. 57-61)
L’inizio del coro angelico proprio a questo punto della canzone è dovuto alla
ristrutturazione della storia, per cui la linearità dei fatti nella prosa è sostituita
con una forma circolare, modificando essenzialmente la temporalità della poesia, rispetto a quella della prosa, ma anche, in certo qual modo, sacralizzandola, in quanto solo gli esseri terreni o profani sono sottoposti al tempo e cioè
all’inevitabile avvicinamento alla morte. In particolare, la nuova strutturazione
permette di sacralizzare il canto mediante alcuni noti effetti gematrici, che la
prosa invece ignora. Dunque non è un caso che l’Osanna in esaltazione di
Beatrice venga cantato proprio al verso 61. Già prima, nel corso del serventese
perduto o fittizio, il nome di Beatrice era stato menzionato al nono posto
tra le 60 più belle donne della città (cfr. 2.11 / vi 2), in un chiaro riferimento
all’unica, alla più bella e alla più cara del Cantico dei Cantici, ‘coperta di lodi’
da 60 regine (cfr. Cantico dei Cantici, 6, 8-9). Nel sistema gematrico il 61 è il
41. “Allora, cominciandomi dal principio infino a la fine, dissi loro quello che veduto avea,
tacendo lo nome di questa gentilissima. Onde poi, sanato di questa infermitade, propuosi
di dire parole di questo che m’era addivenuto, però che mi parea che fosse amorosa cosa da
udire; e però ne dissi questa canzone: Donna pietosa e di novella etate” (14.16 / xxiii 16).
36 Dante e l’arte 2, 2015
Barbara Kuhn
numero che corrisponde al nome di Beatrice, proprio come il 42 risulta dalle
lettere che formano il nome di Dante. In questa logica pare altrettanto poco
casuale il fatto che il “Morra’ti, morra’ti” si trovi proprio al verso 42 e che la
canzone intera sia composta da 84, cioè due volte 42, versi. In questo modo i
rimandi numerologici svelano che la vecchia vita di questo Dante è finita, ma
anche che a questa vita seguirà una “vita nova”, annunciata già nel proemio
e cantata a partire dalla seconda metà della canzone, dopo la considerazione
della “frale vita” (“a veder mio colore”, v. 21), quasi ‘nel mezzo del cammin’, e
dopo il Memento mori del verso 42 in un inarrestabile elevazione che dal lutto
delle donne espresso in lamentazioni, attraverso l’ascensione di Beatrice con il
coro degli angeli culmina nella sua intronizzazione nell’“alto regno” (v. 82) e
nella beatitudine del “Beato, anima bella, chi te vede!” (v. 83) – che altro non
è se non una parafrasi del nome della “beatrice”.
Ovviamente non è strettamente necessario cogliere nell’orientamento gematrico di questo come di altri testi danteschi un’allusione alla duplice concezione della musica nel Medioevo, quella liturgica e quella caratterizzata dal
numerus, concezione spiegata dettagliatamente da Hammerstein. Sembra invece indubbio che questi elementi gematrici siano legati ad una certa concezione
dell’ordine del cosmo, e che Dante conoscesse benissimo tanto l’idea dei nove
cieli mobili che fanno nascere la musica delle sfere quanto quella dei nove cori
degli angeli appartenenti alle tre gerarchie, dato che è lui stesso, sia nel Convivio che nel Paradiso, a stabilire delle corrispondenze tra gli ordini degli angeli
e le sfere celesti mobili, corrispondenze di cui parla, secondo Dante, anche il
Salmista: “Li cieli narrano la gloria di Dio” (Cv. II v 12-13).42 Corrispondenze
simili esistono tra le sfere celesti e le artes liberales, ad esempio tra la musica e
il Cielo di Marte, il cui legame ha due ragioni d’essere.43
Da un lato, il cielo di mezzo viene associato alla musica per via della sua
posizione e delle belle relazioni che ne risultano, il che al tempo stesso po42. A. Mellone, “Gli angeli in Dante”, in ED, s. v. Angelo, p. 269; cfr. inoltre i compiti dei nove
cori degli angeli, legati a certi testi biblici come il Padre nostro, in Knoch 2006: 27.
43. “lo cielo di Marte si può comparare a la Musica per due proprietadi: l’una si è la sua più
bella relazione, ché, annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia o da l’infimo
o dal sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti, cioè de li primi, de
li secondi, de li terzi e de li quarti. L’altra si è che esso […] Marte dissecca e arde le cose,
perché lo suo calore è simile a quello del fuoco; e questo è quello per che esso pare affocato
di colore, quando più e quando meno, secondo la spessezza e raritade de li vapori che ’l
seguono […;] l’accendimento di questi vapori significa morte di regi e transmutamento di
regni; però che sono effetti della segnoria di Marte […]. E queste due proprietadi sono ne
la Musica, la quale è tutta relativa, sì come si vede ne le parole armonizzate e ne li canti, de’
quali tanto più dolce armonia resulta, quanto più la relazione è bella; la quale in essa scienza
massimamente è bella, perché massimamente in essa s’intende. Ancora: la Musica trae a
sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da
ogni operazione; sì è l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito
sensibile, che riceve lo suono” (Cv. II xiii 20-24).
L’“angiola giovanissima” e il linguaggio degli angeli
Dante e l’arte 2, 2015 37
trebbe essere un indizio dell’importanza attribuita ad una poesia posta nel
mezzo della Vita Nova, e quindi alla posizione di un elemento particolare
rispetto al suo insieme, e in generale alle relazioni degli elementi tra di loro.
Quello che, dall’altro lato, sembra però soprattutto interessante nel contesto
del tema ‘Dante e la musica’ è l’altro parallelismo scoperto dal poeta tra Marte
e la musica. Se la musica, che per Dante include qui esplicitamente “parole
armonizzate” e canti, proprio come Marte attira a sé tutti gli “spiriti umani”,
essa ottiene lo stesso effetto che Beatrice produce già all’inizio della Vita Nova
e poi ripetutamente fino alla famosa e decisiva “scena del gabbo”: la musica
e le sfere provocano tanta “dolcezza” o “soavità” quanta Beatrice e gli (altri)
angeli. Proprio questa dolcezza però supera la sfera umana, se è “per soverchio
di dolcezza” che il corpo dell’io si può muovere soltanto “come cosa grave
inanimata” ogni volta che la sua beatitudine “passava e redundava la [sua] capacitade” (5.7 / xi 4), oppure se dopo l’episodio del “gabbo” dice al suo amico:
“Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più
per intendimento di ritornare” (7.8 / xiv 8). Marte e musica attraggono a sé
i vapori e così provocano “morte di regi e transmutamenti di regni”, proprio
come l’io qui, dopo la sua morte simbolica,44 entra in un regno – dell’essere
come del cantare – diverso.
Come l’uomo, a differenza degli angeli, non è un essere puramente spirituale, ma composto di corpo e spirito, così, differenziandosi anche in questo
da loro, non può comunicare immediatamente e senza linguaggio; ha bisogno
delle parole che sono composte da “signum rationale et sensuale”, come è la
sua stessa natura di uomo.45 Comunque se il linguaggio poetico – proprio
quello dunque che Dante mette in relazione con la musica – non solo come
ogni linguaggio si compone dei due aspetti, ma li accorda all’unisono in quelle
“parole armonizzate” che sono le liriche in quanto “fictio rethorica musicaque
poita”, allora la poesia, procurando “beatitudine” o “dolcezza” – come fanno
Beatrice, gli angeli e la musica – è angelos lei stessa, non solo nel senso che
trasmette un ‘messaggio’ o la “bontade”, ma anche e prima di tutto nel senso
che è messaggio lei stessa: “bellezza” in quanto “bontade”. Anche se Dante
nel passo in questione separa l’una dall’altra, ascrivendo un diletto più grande
alla “bontade” del “sermone”, ciò nonostante altri passi rivelano in modo più
che evidente che la poesia non si contenta di essere “sermone”, ma lega i due
aspetti del linguaggio così indissolubilmente che in ultima istanza risulta intraducibile, secondo la posizione presa da Dante nel Convivio: “sappia ciascu44. Per quanto riguarda questa morte simbolica dell’io e le citazioni bibliche evocate da questo
passo cfr. il commento di Gorni 1996: 72.
45. “Oportuit ergo genuas humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod
rationale signum et sensuale habere: […] nam sensuale quid est in quantum sonus est;
rationale vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum” (Dve. I iii 2-3).
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Barbara Kuhn
no che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in
altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia” (Cv. I vii 14).46
In quanto unità indissolubile e armonica dello spirituale e del sensuale
però, questa musica verbale che è la poesia si fa immagine di quell’armonia
dell’anima, di quell’unità di corpo e mente che è la musica humana secondo
la definizione di Boezio, veduta o sentita dall’io della Vita Nova allorquando
trova la “beatitudine” nelle “parole che lodano la donna mia” e grazie ad esse
riesce paradossalmente a superare la fondamentale ed inevitabile “ineffabilitade”. È proprio in questo senso che la poesia è la realizzazione della “dolcezza”
– per quanto rimanga sempre il punto finale e trascendente anelato da quello
“spirito peregrino” che è l’uomo finché vive. Qualche volta, però, la “dolcezza”
della finzione retorico-musicale riesce a portarlo già in vita “oltre la spera”, là
dove in quanto linguaggio degli angeli può essere sentita anche sulla terra, vale
a dire nella poesia.
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46. Se dunque, secondo quanto riassume Pazzaglia, anche lo “strato dei suoni” viene concepito
come “parte essenziale del messaggio poetico”, se quindi, come in questo passo della Vita
Nova che si serve dell’esempio di Amore per dimostrare l’accordo tra suono significante e
oggetto significato, è evidente la convinzione che il linguaggio abbia la capacità di esprimere
la verità anche mediante la sua componente sensuale o sonora, allora se ne può concludere
che “questa eufonia o impasto armonico dei suoni del testo poetico, riconducibile alla musica nell’accezione più vasta che la parola ebbe nel Medioevo, appariva a Dante come una
prima e necessaria manifestatio dell’idea della ‘bontade’ che la ‘bellezza’ celava e, insieme,
svelava” (Pazzaglia 1988: 258 sgg.).
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Dante e l’arte 2, 2015 43-64
“In voce assai più che la nostra viva” (Pg. XXVII 9).
Ancora qualche esempio sulle trasformazioni
musicali interne al percorso purgatoriale
Chiara Cappuccio
Universidad Complutense de Marid
[email protected]
Riassunto
Alla luce del recente fenomeno riguardante il considerevole incremento degli studi danteschi orientati in senso musicologico, in questo contributo ci si propone di ritornare su
determinati luoghi della Commedia caratterizzati dalla presenza del lessico musicale. Si
esamineranno alcuni passaggi della seconda cantica, particolarmente segnati dall’uso di
tale terminologia, per dimostrare come una lettura di essi isolata dal contesto letterario
di riferimento non renda giustizia dell’elaborata costruzione linguistica ed ideologica del
poema e come gli strumenti delle discipline scientifiche relative agli studi musicali debbano
necessariamente rimettersi al servizio di un’interpretazione complessiva del testo.
Parole chiave: teoria letteraria, comparatistica, studi danteschi, repertorio salmodico.
Abstract
Due to the considerable increase of Dante studies focused on musicological themes as a
recent academic phenomenon, in this paper we propose to revisit certain topoi in the Commedia characterized by the presence of musical vocabulary. We will examine some passages
of the second cantica that are specially marked by the use of that kind of terminology. We
will try to demonstrate that an analysis of these, isolated by the literary context of reference,
does not do justice to the elaborated linguistic and ideologic construction of the poem.
Thus, the scientific disciplines concerning the musical studies should necessarily be put to
use in the overall interpretation of the text.
Keywords: literary theory, comparative, Dante studies, repertoire psalmodic.
issn 2385-5355
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A
Chiara Cappuccio
1. Posizioni critiche recenti
mo’ di breve premessa specifico che non è mia intenzione ritornare
all’interno di queste pagine su argomenti oggi ben presenti all’interno
del repertorio critico relativo alle occorrenze musicali nell’opera dantesca come
la distinzione polisemica tra musica mundana purgatoriale e musica coelestis
paradisiaca, oppure sulla presenza fondativa per la costruzione del discorso
musicale dantesco delle posizioni teoriche boeziane in materia musicale, in
quanto tutti argomenti da me già trattati in altre sedi (Cappuccio 2014a: 15106; 2014c). Né sarà il caso di affrontare in modo analiticamente esaustivo e
sistematico il definirsi del percorso liturgico-melodico del Purgatorio (Cappuccio 2005; 2007; 2009a; 2010; 2014b; 2014d). Proverò solo a soffermarmi
su determinati luoghi musicali purgatoriali che ritengo privilegiati per l’individuazione delle principali trasformazioni interne alla trama musicale della
seconda cantica.1
È da poco più di una quindicina d’anni che si assiste ad un rilevante incremento, nel settore della bibliografia dantesca, degli studi dedicati alla presenza
e alla funzione dei riferimenti musicali nell’opera di Dante e segnatamente
nella Commedia (Pestalozza 1988; Iannucci 1989; Di Fonzo 1998; Bacciagaluppi 2002; Nuvoli 2011). Dacché i saggi e le opere monografiche orientati in
questo senso erano pochi e datati (anche se preziosi in quanto a sistematicità)
si è passati alla costituzione di un variegato corpus critico in materia che oggi
costituisce uno specifico ambito di ricerca all’interno degli studi danteschi
(Bonaventura 1904). Si tratta di un argomento che in un giro di anni relativamente ristretto è passato da essere oggetto di pochi e settoriali contributi
caratterizzati da un esibito pionierismo interpretativo ad apparire come percorso in molte delle direzioni intuibili. Ci troviamo catapultati in un’epoca di
bilanci e di valutazioni metodologiche rispetto ai lavori apparsi più di recente
ma anche relativamente a quelli più lontani (Drusi 2013). Assistiamo oggi a
veri e propri tentativi di ordinamento storiografico della bibliografia dantesca
rivolta allo studio degli elementi musicali presenti nell’opera, la cui caratteristica fondamentale risiede nell’essere fortemente connotata in senso interdisciplinare: la trasversalità tra gli studi filologici e quelli musicologici ne è, infatti,
l’elemento distintivo. Si sono cimentati su questi argomenti sia musicologi
dotati di preparazione e curriculum filologici, come Raffaello Monterosso e
Nino Pirrotta (Monterosso 1965; Pirrotta 1984) – ma restano fondamentali
anche gli studi di Francesco Alberto Gallo, Agostino Ziino e Pierluigi Petrobelli per inquadrare la questione in una prospettiva musicologica più ampia
(Gallo 1986; Ziino 1988; Petrobelli 1988) – o, viceversa, medievalisti dotati
1. L’edizione di riferimento per gli esempi di seguito riportati e quella di Anna Maria Chiavacci
Leonardi (1994, rist. 2005).
“In voce assai più che la nostra viva” (Pg. XXVII 9)
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di preparazione musicale, come, in tempi più recenti, Maria Sofia Lannutti (che però si è occupata del De vulgari eloquentia) e Francesco Carapezza,
rivoltosi quest’ultimo alle questioni musicologiche riferite non direttamente
a Dante ma alla poesia romanza di area siciliana e italiana (Carapezza 1999;
Lannutti 2000; 2009; 2011). È sempre risultato evidente a chiunque si confrontasse con le tematiche musicali relative alle opere dantesche come un requisito fondamentale dovesse essere costituito dal supporto reciproco tra le
due discipline. Discipline che, però, quando nel corso degli ultimi quarant’anni anni hanno insistito sullo stesso territorio ermeneutico – rappresentato
dall’annosa questione della musicabilità e della fruizione orale dei testi lirici romanzi di area italiana – hanno prodotto profonde divergenze interpretative nella ricerca di un predominio scientifico dell’una sull’altra (Contini
1960: 45; Roncaglia 1978; Ziino 1995; Giunta 2002; Locanto 2005; La Via
2006, Zuliani 2010).
Il cambiamento epistemologico rispetto agli studi primo-novecenteschi –
che caratterizza la nuova stagione di lavori sull’uso della terminologia musicale
dantesca – risiede in un passaggio concettuale fondamentale che potremmo
riassumere in una formula: da “Dante e la musica” a “la musica in Dante”,
dalle ricerche, cioè, sulle eventuali competenze musicali dantesche al senso e
alla funzione dei riferimenti musicali nella struttura della Commedia, dall’autore al testo (Schurr 1994). Se l’individuazione di una precisa preparazione
scientifico-pratica in senso musicale del nostro autore – da inserire sia nel
contesto di un cursus studiorum ancora quadriviale che in quello della coeva
trattatistica scientifica in materia, che in alcuni casi, come in quello della produzione di un teorico come Marchetto da Padova, esibisce una possibile condivisione di luoghi e tempi con quelli dell’esilio dantesco – continua a
costituire un argomento non eludibile almeno ogni qualvolta si analizzino
determinati passaggi delle opere in questione (il secondo canto del Purgatorio,
gli ultimi capitoli del secondo libro del De vulgari eloquentia o i riferimenti
alla prassi polifonica presenti nel Purgatorio e nel Paradiso), l’analisi complessiva del senso dei tantissimi riferimenti musicali presenti nella Commedia, e
soprattutto quelli di tipo liturgico, sembra oggi costituire la priorità, o almeno
il punto di partenza, degli attuali contributi al discorso questione. Questo
passaggio ha comportato l’acquisizione di un punto fermo: la presenza del
lessico e delle idee musicali nella Commedia si configura come un percorso
interno allo sviluppo dell’opera, funzionale alla costruzione diegetica ed ideologica del poema. I riferimenti alla musica andrebbero, quindi, analizzati sempre all’interno di una prospettiva unitaria che tenga conto dell’impianto e
dell’evoluzione dell’opera (affermazione, questa, oggi condivisa e supportata
da diverse correnti interpretative, che ha solo, però, pochi anni di vita). Tale
acquisizione, centrale per lo sviluppo degli studi in questione, non viene dal
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Chiara Cappuccio
settore musicologico, ma dai lavori di tre importanti dantisti sensibili alle tematiche teoriche e comparatistiche come Zygmund Barański, Vittorio Russo
ed Edoardo Sanguineti, tra i primissimi a parlare della componente musicale
della Commedia nei termini dello strutturalismo letterario (Russo 1988; Sanguineti 1988; Barański 1996). Il discorso musicale dantesco segue l’iter progressivo delle tre cantiche e si differenzia qualitativamente in base alle differenze
che reggono il rapporto tra Inferno, Purgatorio e Paradiso. I lavori più recenti
in materia partono tutti, consapevolmente o meno, da questo tipo di considerazioni, pur sviluppando il proprio discorso critico non in maniera sitematicocomplessiva ma prediligendo un aspetto concreto relativo all’imponente
presenza del lessico specialistico-musicale nel testo. Un argomento che più
degli altri sembra attirare gli interessi specialistici nei lavori apparsi di recente
è quello relativo alla presenza delle allusioni al lessico polifonico, anche se va
immediatamente specificato che in più di un caso si tratta di soluzioni interpretative suscettibili di altre letture (Ziino 2001; Mortara 2004; Ciabattoni
2010). Ed anche a tale riguardo possiamo rilevare un altro cambiamento di
direzione tra gli studi più e meno recenti rispetto a quelli precedenti: mentre
fino a pochi lustri fa l’argomento polemico principe risiedeva nel modo di
interpretare l’esecuzione canora del musico Casella (Plona 1953), evento centrale per la narrazione protopurgatoriale tutta, oltre che per l’interpretazione
del secondo canto del Purgatorio – che risiede nel modo di risolvere l’annosa
questione riferita alla musicabilità dei testi lirici medievali di aerea italiana –,
oggi gli interessi sembrano privilegiare le problematiche teoriche relative alla
possibile presenza delle idee musicali di tipo polifonico nel Paradiso. Pioneristici, da questo punto di vista, negli studi italiani, rimangono i contributi di
Claudia Di Fonzo, nel focalizzare l’attenzione sulla presenza di tale distinzione
tecnico-musicale all’interno dei regni dell’oltremondo dantesco e, successivamente, quello di Claudio Bacciagaluppi, rivolto allo studio delle immagini
musicali del Paradiso. La questione teorica sembra potersi disporre in questi
termini: è possibile individuare una frattura dicotomica tra un Purgatorio liturgicamente monodico ed un Paradiso sinesteticamente polifonico? Si può
affermare che nel Purgatorio risuoni esclusivamente musica liturgica intonata
secondo le modalità della monodia gregoriana mentre nel Paradiso la descrizione musicale partecipi della costruzione di più ampie immagini e la presenza
del lessico polifonico sia indirizzata alla resa di determinate figure retoriche?
Sono interrogativi oggi molto attuali considerando che per alcuni studiosi la
presenza polifonica nel Paradiso corrisponde a una realistica descrizione musicale da contrapporsi a quella di un Purgatorio rigorosamente monodico, per
altri essa è da ridurre a pochissime occorrenze, e per altri ancora, la sottoscritta, si tratta invece della costruzione di un linguaggio retorico, cui partecipano
anche la descrizione della luce e del movimento, finalizzato alla declinazione
“In voce assai più che la nostra viva” (Pg. XXVII 9)
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della poetica dell’inneffabile nei diversi registri della comunicazione letteraria.
Al di là delle complessità storiografiche e musicologiche circa le vicende della
polifonia italiana – argomento affrontato oggi con maggiore densità di informazione grazie alla pubblicazione di importanti contributi in materia – e delle
reali possibilità di definire con precisione i limiti della conoscenza tecnicomusicale del nostro autore, un dato di fatto negli studi più recenti consiste nel
risalto dato a tale elemento musicale come cifra stilistica per l’interpretazione
dell’intero Paradiso (Corsi, Petrobelli 1989; Gallo 1991; Cattin 1998; Facchin
2003). Se da un lato è stato recentemente osservato come forse tale elemento
sia stato sopravvalutato dalla critica, dall’altro non può non considerarsi come
anche ad una lettura superficiale delle due cantiche il discorso musicale sembri
mutare, talvolta anche radicalmente, come del resto lo fa la narrazione tutta,
già dagli esordi dell’ultima cantica (ma, a ben guardare, già nei canti ambientati nel paradiso terrestre assistiamo a profonde trasformazioni nel trattamento
della trama musicale). Se è vero che le occorrenze inequivocabilmente polifoniche non sono poi così numerose e che forse una rigida divisione tra un
Purgatorio risuonante di canti monodici e un Paradiso tripudiante di brani
eseguiti polifonicamente appaia oggi per determinati, e determinanti, aspetti
forzata, l’argomento in questione merita ancora un approfondimento e un’analisi esclusivamente ad esso dedicata.2 Il nostro ragionamento sulla presenza
e l’uso del lessico musicale all’interno dell’opera dantesca parte da un doppio
principio. Primo: non esiste una musica infernale, una musica purgatoriale o
una musica paradisiaca sempre uguali a loro stesse dall’inizio alla fine della
cantica, come spesso viene indicato dalla critica anche specialistica. Secondo:
la musica, all’interno della costruzione dell’opera, assolve funzioni diverse,
non corrisponde sempre o alla realistica descrizione degli eventi e dei luoghi o
alla costruzione di un linguaggio metaforico. Entrambi i principi discendono
da una considerazione di ordine generale ed essi superiore: non si può affrontare il discorso relativo alla presenza del lessico e delle immagini musicali polifoniche del Paradiso senza tenere presente il piano compositivo generale
dell’opera, all’interno del quale i singoli riferimenti alla musica non rappresentano un elemento decorativo, una parte dell’ornatus retorico, ma partecipano
della costruzione di un testo concepito in modo unitario. Isolare i riferimenti
polifonici dal resto dei richiami musicali della Commedia e analizzarli al di
fuori dello sviluppo del suo intreccio appare come un’operazione utile sempre
quando i risultati analitici vengano poi riportati nel piano dello sviluppo dei
motivi dell’opera.
Alla luce dello sforzo critico degli ultimi anni non ci si può non chiedere
perché Dante utilizzi tante descrizioni e immagini musicali. La questione si
2. Per Drusi i sicuri riferimenti alla tecnica polifonica presenti nel poema si circoscrivono
unicamente all’interno due passaggi del testo (Drusi 2013: 10).
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è ultimamente arricchita dal confronto con quanto la codicologia e la trattatistica trecentesca mettono a disposizione in materia di polifonia misurata in
ambito italiano. Tale domanda, però, riguarda la considerazione generale di
un’opera che pur parlando di tutt’altro assegna al lessico musicale un ruolo
non affatto secondario. Le occorrenze polifoniche trovano una loro ragion
d’essere solo all’interno della considerazione di un piano compositivo generale nel quale è prevista una funzionalità di volta in volta diversa del lessico
tecnico-musicale. Uno dei nodi interpretativi principali, o che quantomeno
oggi viene sentito e affrontato come tale, dicevamo risiedere proprio in questa
generale quanto schematica divisione tra un Purgatorio rigorosamente monodico e un Paradiso forse solo allusivamente ma comunque fascinosamente e
modernamente polifonico. Per entrambe le cantiche ciò vale fin dai primissimi
esordi: il secondo del Purgatorio ed il primo del Paradiso gettano delle ancore
in questa direzione difficilmente ignorabili. In questo contributo non affronteremo analiticamente la questione del Paradiso ma proveremo, partendo dalla
considerazione di alcuni loci musicali della seconda cantica, a fornire delle
indicazioni interpretative di carattere complessivo.
Crediamo che la questione sia di ordine strutturale e che non esista una
musicalità specifica volta a distinguere i tre regni, ma che sia la funzione che
la musica assolve in essi a differenziare il messaggio musicale non solo tra le tre
cantiche ma anche all’interno di ciascuna di esse. In questa prospettiva diventa
priva di senso una divisione schematica tra due linguaggi musicali diversi che
dovrebbero illuminare in senso oppositivo il rapporto tra due cantiche. Tale
divisione, invece, può funzionare se inserita in un altro contesto metodologico. Procediamo, dunque, lungo la linea interpretativa indicata e consideriamo
i due argomenti appena proposti all’interno dei quali risiede la possibilità del
tipo di lettura “musicale” della Commedia che proponiamo. Le tre cantiche,
si diceva, non esibiscono una musicalità specifica, distintiva ed identitaria
sempre uguale dall’inizio alla fine del loro sviluppo narrativo né instaurano
col linguaggio musicale lo stesso tipo di relazione. Spesso sentiamo parlare di
musicalità infernale, monodia liturgica purgatoriale e polifonia paradisiaca,
e non possiamo negare che entro certi termini ciò corrisponda a una constatazione legittima, come plausibile risulta l’affermazione che il linguaggio
musicale descrive situazioni, evoca immagini e imbastisce similitudini. Questo
tipo di lettura corre però il rischio di scontrarsi con diversi problemi ermeneutici, per citare solo i più macroscopici: come si spiegano la peculiare trama
musicale del paradiso terrestre, la scarsezza dei sicuri riferimenti polifonici del
Paradiso, l’esecuzione profana di Casella, l’incipit mitico-armonico della terza
cantica, le due occorrenze polifoniche nel regno della monodia liturgica, le
modalità intonative del Salve Regina nella valletta dei principi negligenti, il
silenzio conclusivo del viaggio verso la visione divina? Questo per citare solo
“In voce assai più che la nostra viva” (Pg. XXVII 9)
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alcune tra le più evidenti difficoltà ermeneutiche che emergono da una lettura
sì unitaria dei riferimenti musicali della Commedia, ma forse poco attenta alle
distinte declinazione del rapporto tra il piano musicale, quello descrittivo e
quello rappresentativo presenti nel testo, di volta in volta funzionali alla sviluppo della fabula.
2. Dicotomie musicali?
Dopo la catabasi fra gli assordanti e disarticolati rumori infernali, Dante-personaggio, alle falde della montagna sacra, incontra finalmente il canto – mediante l’incontro con il musico Casella (Pg. II 106-120) preceduto dall’ascolto
dell’imponente Salmo 113 – ed i principi dell’eufonia e dell’organizzazione
sonora entrano nella Commedia per rimanervi durante tutta la prosecuzione
del viaggio nella diversificazione tecnico-lessicale cui il messaggio musicale
viene sottoposto ai fini compositivi.
Come spesso sottolineato negli studi danteschi, i personaggi che animano la rappresentazione purgatoriale si presentano al protagonista nell’atto di
intonare brani appartenenti al repertorio salmodico ed innodico e ciò, oltre a
delinearsi come caratteristica descrittiva, costituisce una costante narrativa e
retorica di tipo strutturale dell’intero percorso ascensionale: il canto rappresenta una parte dell’espiazione della pena. Cantare costantemente un brano
liturgico in diretta corrispondenza con la pena da scontare definisce di per sé
una forma del contrappasso. La musica, oltre a differenziare il proprio messaggio all’interno dello sviluppo delle singole cantiche, assolve anche funzioni
diverse. Non c’è dubbio che la rappresentazione purgatoriale abbia un carattere realistico-descrittivo nei confronti della geografia spaziale e morale delle
diverse tappe del percorso purgatoriale. La rappresentazione musicale risponde
ad un criterio di realismo e adesione alle tecniche compositive terrene della
monodia liturgica, mentre nel Paradiso si trasforma in linguaggio retorico,
partecipando alla costruzione di più ampie immagini sinestetiche e metaforiche, unendosi alla rappresentazione della luce e del movimento delle anime.
Non è più l’espressione di un’esperienza chiara e leggibile, come nel Purgatorio. Nel Paradiso assistiamo ad un rovesciamento di paradigma: la musica
non descrive più solo i luoghi (come nelle cantiche precedenti), evidenziandone la struttura morale, ma traduce costantemente in linguaggio musicale il
principio retorico dell’inneffabilità. Essa non solo individua gli ambienti che
il personaggio conosce attraverso le proprie percezioni acustiche ma, per la
prima volta, descrive le mutazione della sfera sensoriale del Dante agens, le sua
capacità di comprensione degli eventi ed, inoltre, le conseguenti possibilità
poetiche che da esse derivano, quelle cioè del Dante auctor (Pd. XIV 118-129;
XIX 97-99; XXI 126-142; XXII 10-15; XXXII 60-62). L’arte dei suoni parteci-
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pa alla costruzione del nuovo personaggio, protagonista dell’ultima parte del
viaggio oltremondano, e dell’altro personaggio, o arcipersonaggio presente nel
testo, quello del suo autore. Alla fine del viaggio, la trama melodica raggiunge un quasi totale annullamento determinato da ragioni medico-scientifiche
legate all’inadeguatezza sensoriale dell’organo, ancora terreno, preposto alla
trasmissione di tali percezioni. La vista, invece, rimane come unico senso in
grado di proseguire il percorso verso la visione divina in quanto costantemente
potenziato durante l’ascesa verso la luminosità; quando Dante viene accecato
dall’ultimo bagliore – quando, cioè, l’ultimo senso ancora e a fatica funzionante viene meno – il viaggio raggiunge il suo punto culminate e finale, e
la Commedia – che, come si specificava all’inizio, effettivamente comincia e
termina in silenzio – arriva alla sua conclusione.
3. La partizione melodica del Purgatorio
Cantica musicale per eccellenza, come sottolineato spesso da importanti dantisti, paragonata ad un immensa basilica risuonante di canti e suoni, in cui le
anime sono «esseri musicali», come scriveva Vittorio Russo, il Purgatorio vanta
il più alto numero di riferimenti sonori e melodici del poema, oltre a contenere il messaggio musicale maggiormente variegato al suo interno (Marti 1967:
69; Russo 1971: 242). Tali costatazioni ne fanno un luogo di studio privilegiato all’interno delle ricerche in questione (Ardissino 1991; 2009; Arcuri 2008;
Bucci 2005; Chiavacci Leonardi 1984; 1994; 2001; Ciabattoni 2010: 92-153;
Crevenna 2010; Ravasi 2008; Salvetti 1998). La rappresentazione musicaleliturgica definisce le caratteristiche morali e geografiche delle singole zone
attraversate dal personaggio e si differenzia a seconda delle loro peculiarità.
Non esiste, dunque, una musica purgatoriale uguale a se stessa dall’inizio alla
fine della cantica intesa come espressione salmodico-penitenziale, o talvolta
innodica, delle anime penitenti. La trama musicale si differenzia nelle tre zone
di cui si compone il Purgatorio: la musica dell’antipurgatorio segue determinati parametri che non sono gli stessi che informano il percorso melodico delle
sette cornici purgatoriali, a sua volta differente dalle manifestazioni musicali del paradiso terrestre. Il principio della rappresentazione nei termini della
musica liturgica dei singoli peccati delle anime può valere solo per studiare la
traccia sonora delle sette cornici purgatoriali, ma non vale per le zone estreme
della montagna sacra. Ed anche all’interno delle cornici la musica acquista una
funzione propria rispetto al percorso ascensionale tutto. Si struttura, infatti,
come contrappasso sonoro e liturgico della pena stabilendo una relazione di
antitesi o di somiglianza con le inclinazioni peccaminose esplorate nelle singole cornici.
“In voce assai più che la nostra viva” (Pg. XXVII 9)
Dante e l’arte 2, 2015 51
Nella sesta delle cornici che cingono la montagna del purgatorio, popolata
dai golosi, l’organizzazione della rappresentazione musicale sembra rispettare
i parametri liturgico-compositivi che hanno caratterizzato le zone precedentemente attraversate dal viator (Panicara 2001; Rossi 2001; Gragnolati 2007; Serianni 2007; Zanini 2009). Il tratto stilistico che identifica tutte le esecuzioni
risuonanti nella parte centrale del «sacro monte» è costituito da un continuo
slittamento tra gli esiti vocalici del pianto e del lamento e le note della melodia intonata all’interno dell’ordito monodico. Espediente tecnico-espressivo
che stigmatizza l’atteggiamento morale, penitente e fiducioso, delle anime e
configura il paesaggio sonoro nell’ambito dell’austerità gregoriana. Le anime
di cui il protagonista percepisce la presenza nella cornice della gola stanno
eseguento il Salmo 50, il più eseguito nel poema, Miserere risuonante in zone
diverse degli spazi recinti purgatoriali che ora Dante coglie e descrive nel suo
versetto 19, “Labia mea, Domine”:
Ed ecco piangere e cantar s’udìe
‘Labïa mëa, Domine’ per modo
tal, che diletto e doglia parturìe.
(Pg. XXIII 10-12)
Come accade nella cornice appena sottostante, la scelta del versetto citato
(che non costituisce, quindi, l’incipit del salmo) traduce, nel testo letterario
del componimento liturgico, la principale caratteristica nel nuovo contesto di
riferimento. Nel caso della cornice precedente, quella abitata dagli avari e dai
prodighi, l’autore era ricorso allo stesso strumento espressivo facendo intonare
alle anime non l’incipit del Salmo 118, “Beati immaculati in via, qui ambulat
in lege Domini”, ma il suo versetto 25, “Adhaesit pavimento anima mea”, che
meglio si addiceva alla descrizione della posizione fisica da esse assunta nella
rappresentazione per immagini delle zone oltremondane. L’aderenza tellurica
delle anime visualizza l’eccessivo condizionamento che «l’ombre che giacean
per terra» subirono in vita nei confronti dei beni materiali, traducendo in
modo evidente ed immediato la stretta connessione che il principio del contrappasso instaura tra colpa e pena. Il lessico musicale, attraverso una scelta
precisa attuata sulla citazione sacra, stigmatizza nell’immaginazione del lettore tale postura prima che a farlo sia la spiegazione diegetica vera e propria.
Il rapporto speculare e retoricamente sinestetico tra suono ed immagine è
talmente forte da conferire alla rappresentazione musicale una funzione catalitica nell’allestimento narrativo ed ideologico dell’episodio, oltre ad aver
fatto pensare che sia stato proprio il versetto ad ispirare la rappresentazione
in questione.
Giunto alla più alta delle cornici il protagonista si confronta con l’ultima inclinazione peccaminosa relativa alla sensibilità inferiore, legata al corpo,
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Chiara Cappuccio
quella della lussuria (Gorni 1994; 1995; Pinto 2001; 2005; Boyde 2002: 309339; López Cortezo 2005; Stabile 2010). Come nei due “giri” precedenti,
l’autore descrive il rapporto tra peccato ed espiazione mediante l’ausilio della
rappresentazione monodico-liturgica:
‘Summae Deus clementïae’ nel seno
al grande ardore allora udi’ cantando,
che di volger mi fé caler non meno;
e vidi spirti per la fiamma andando;
per ch’io guardava a loro e a’ miei passi,
compartendo la vista a quando a quando.
(Pg. XXV 121-126)
Il testo dell’inno citato è un’invocazione alle fiamme affinché brucino i lombi
e il fegato, sede della concupiscenza: “lumbos iecurque morbidum flammis
adure congruis, accincti ut artus excubent lux remoto pessimo”. Come nelle
due cornici appena attraversate, il testo liturgico viene utilizzato in funzione
esplicativa relativamente alle caratteristiche della corrispettiva inclinazione
peccaminosa e delle modalità che ne contraddistinguono le forme della purgazione; la rappresentazione del nuovo paesaggio sonoro è posta in diretta
e privilegiata relazione con la costruzione del nuovo ambito morale. Per la
terza volta consecutiva, il riferimento al peccato la cui descrizione interessa
l’autore non si trova all’interno del suo incipit. Nella cornice degli avari e in
quella dei golosi l’autore aveva, dunque, preferito non citare i versetti iniziali
dei brani scelti, ma quelli, interni al loro sviluppo, che meglio riflettevano il
collegamento con l’episodio. In questo caso il procedimento è inverso: pur
trovandosi, il diretto riferimento alla lussuria, nella terza strofa di esso, Dante
cita il componimento mediante il versetto incipitario, sicuro che la notorietà
del brano scelto permettesse un immediato collegamento con il peccato della
lussuria.
Il brano liturgico designato dall’autore ad illustrare la nuova deviazione
istintuale viene, dunque, citato nel suo noto inizio. Giusta la rinomata popolarità dell’inno, tale da permettere ai fruitori dell’opera di comprendere
l’intertestualità innescata dalla presenza del versetto, Dante ne riproduce l’incipit sovvertendo le regole del procedimento citazionale finora utilizzato ma
riproponendone il sostanziale equilibrio tra immagine evocata dal testo intonato e descrizione della pena delle anime purganti. Il fuoco, contrappasso
purgatoriale alla lussuria, è presente come immagine di purificazione nel testo
innodico che invoca il soccorso divino in difesa dalle tentazioni della carne,
così come nella quinta cornice la prostrazione fisica degli avari al “pavimento”
era scolpita nel versetto 25 del Salmo 118 e nella sesta la bocca, “labia”, dei
golosi era portata in primo piano dal versetto 17 del Miserere, intonato dalle
“In voce assai più che la nostra viva” (Pg. XXVII 9)
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anime mentre purgavano nel digiuno e nel dimagrimento la propria smodatezza alimentare (Barańsky 2001; Picone 2001b).
Nella perlustrazione delle inclinazioni peccaminose relative alla sfera della
sensorialità legata alle passioni corporali e alla sopravvalutazione della materialità dei beni e dei piaceri fisici, la funzione del discorso musicale costituisce
il parametro compositivo che meglio e in forma più immediata definisce le
forme dell’espiazione e l’essenza della pena.
Finora abbiamo espresso qualche considerazione unicamente sulla struttura e la funzione dei riferimenti liturgici presenti nelle cornici purgatoriali
in cui la musica assolve il ruolo realistico descrittivo di cui abbiamo parlato.
Ma per le zone estreme vale lo stesso discorso? L’antipurgatorio e il paradiso
terrestre, terre di confine, esibiscono un altro sistema di riferimenti in cui
inquadrare lessico e rappresentazioni musicali.
4. La definizione del percorso: antipurgatorio
Nell’antipurgatorio la descrizione musicale entra a far compiutamente parte
della rappresentazione dantesca dell’aldilà (Boitani 2004; Ravasi 2008; Crevenna 2010). Appena approdato alle falde della montagna il protagonista viene
immediatamente colpito dalla potente rappresentazione musicale costituita
dalla lunga esecuzione monodica, omofona e priva di forme melismatiche
del Salmo 113, che nella liturgia terrena accompagna il trasporto della salma
(Marti 1984: 81-92; Freccero 1989; Gorni 1990: 199-217; Hollander 1993; Picone 2001a).
‘In exitu Isräel de Aegypto’
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
(Pg. II 46-48)
L’adesione musicale alla situazione cui è giunta la narrazione è completa: le
anime vengono traghettate alle foci del Tevere per incontrare la propria collocazione oltremondana accompagnando il proprio viaggio col canto di quel
salmo della liturgia funebre che richiama tale contingenza in una dimensione
terrena. L’immagine di estrema compattezza ed equilibrio tra i personaggi è
data proprio dalla descrizione musicale: l’austerità del canto, la sua potenza
esecutiva e l’impatto sensoriale sul protagonista diventano gli elementi determinanti della rappresentazione. Ma questa dimensione rappresentativa viene
immediatamente messa in crisi da quanto accade poco dopo, sempre all’interno dello stesso canto, e riguarda un altro tipo di descrizione musicale. Si tratta
di quella profana, organizzata su tutt’altri parametri, del personaggio Casella
– primo abitante del secondo regno ad essere singolarmente incontrato e rico-
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Chiara Cappuccio
nosciuto dal nostro protagonista – che, come si sa, produce effetti sensoriali
di ben altro tipo sull’intero uditorio (Tucker 1960; Ciavorella 2009; Singleton
1978; Fiori 1996; Pinto 2013). Tralasciando le questioni di natura teorica, di cui
ci siamo occupati in altra sede, riguardanti le concrete possibilità dei testi lirici
italiani di essere realmente musicati a questa altezza cronologica e di circolare
mediante tale tipo di mediazione musicale, ci soffermiamo unicamente sulla
funzione che l’episodio riveste nella costruzione dell’incipiente trama musicale
del viaggio dantesco (Cappuccio 2014a: 15-106). Si fronteggiano due esecuzioni strutturate in una perfetta e totale antitesi l’una con l’altra, contrapposizione riguardante tutti gli aspetti della descrizione: coralità e solismo, austerità
e dolcezza, sacro e profano, movimento e stasi, naturale adempimento della
volontà e piacere dei sensi, morte e vita ecc., delle quali la seconda rappresenta un’evidente deviazione rispetto al retto cammino tracciato dalla prima.
L’intero episodio musicale può leggersi come un preambolo in cui viene evidenziato l’ostacolo costituito dall’insita possibilità di deviare riferita ad una
disciplina che prevede una forte partecipazione della sensorialità, di cui viene
neutralizzata la portata mediante un momentaneo ristabilimento dell’ordine
che necessita, però, di una più profonda ricerca di equilibrio tra desiderio e
volontà, per dirla come da Convivio IV xii 15-19. Una volta prodottosi il famoso rimprovero di Catone e ripristinato il senso del percorso da compiere,
al linguaggio musicale resterà il compito di procedere nella stessa direzione. È
vero, dunque, che dopo gli assordanti rumori infernali il personaggio Dante,
appena arrivato alla soglie del nuovo mondo da esplorare, incontra i principi
della musica e dell’armonia ma è anche vero che la definizione delle caratteristiche musicali di tale regno non sono ancora tracciate con univocità. L’ingresso della componente musicale nel racconto oltremondano non costituisce
un fattore né pacifico né scontato, esso produce le sue frizioni interne ed ha
bisogno di definirsi nei suoi parametri liturgici e melodici. Tale definizione
avverrà all’interno del cammino antipurgatoriale che rappresenta una ricerca
di mediazione tra la dolcezza melodica (assente nel salmo dell’esodo) e l’austerità gregoriana (assente nell’esecuzione di Casella). Il punto d’arrivo viene
raggiunto nell’ultima esecuzione liturgica che vi ascolteremo. Si tratta dell’esecuzione dell’inno ambrosiano Te lucis ante terminum intonato nella valletta
dei principi negligenti
Se confrontiamo i versi in cui si descrivono l’esecuzione di Amor che nella
mente e quella dell’inno ambrosiano ci renderemo conto di come è avvenuto
il micro-percorso musicale dell’antipurgatorio, che ha corretto le eventuali
prospettive musicali devianti, ristabilito i parametri dell’ortodossia liturgica,
e delle sue modalità esecutive, come condizione musicale per continuare il
cammino e mediato la granitica austerità gregoriana con la dolcezza dell’intonazione antifonale.
“In voce assai più che la nostra viva” (Pg. XXVII 9)
Dante e l’arte 2, 2015 55
La sintesi tra esperienze musicali diverse emerge dal confronto tra i versi
che le descrivono:
‘Amor che ne la mente mi ragiona’
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
(Pg. II 112-117)
Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l’orïente,
come dicesse a Dio: ‘D’altro non calme’.
‘Te lucis ante’ sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
e l’altre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l’inno intero,
avendo li occhi a le superne rote.
(Pg. VIII 10-18)
In entrambi i racconti un’anima si stacca dal gruppo per intonare qualcosa
– una figura che emerge sullo sfondo grazie alla musica – e la dolcezza viene
sottolineata come caratteristica del canto. La potenza dell’effetto sull’ascoltatore è, nei due casi, sottolineata nel testo (Pg. II 114-117; VIII 15) e l’indicazione
circa la lunghezza dell’esecuzione richiama ancora il secondo canto ma nella
sua esecuzione salmodica, chiudendo, così, il cerchio dei riferimenti. La correzione del messaggio musicale, che indica l’avvenuta sintesi tra le due esperienze necessarie per il proseguimento del viaggio, quasi sovrapposte l’una all’altra
al suo inizio, sta proprio nella descrizione degli effetti su chi ascolta: dall’oblio
dell’esecuzione caselliana all’uscir di mente di un desiderio che trascende la
propria dimensione corporale per andare fuori di sé. La contestualizzazione
di forme paradigmaticamente differenti (v. 15: “me a me uscir di mente”, che
ricorda il noto incipit del “primo amico” A me stesso di me pietate viene) indica non la cavalcantiana scissione del soggetto desiderante – che si traduce
musicalmente nell’estrema concentrazione dell’ascoltatore in se stesso, effetto
dell’esecuzione profana di Casella, nel ricordo e nella nostalgia, dunque, delle
passioni terrene – ma, al contrario, produce un uscire fuori, un elevarsi, tracciando il moto ascensionale del desiderio come retto cammino.
L’esperienza musicale sembra aver finalmente raggiunto le caratteristiche
adatte al commento liturgico dei sette peccati capitali. Ma sarà in grado, così
come ci viene consegnata nell’ultima cornice, di illustrare la parte più alta
della montagna, costituita dal giardino edenico?
56 Dante e l’arte 2, 2015
Chiara Cappuccio
5. La rappresentazione musicale nel paradiso terrestre
Il paradiso terrestre costituisce uno dei luoghi dell’opera dantesca caratterizzato dalla maggiore densità dei riferimenti musicali. A tale abbondanza di
denotazione melodica non corrisponde, però, un’immediatezza referenziale ed
un’uniformità di lettura, così come accadeva nelle cornici del «sacro monte».
La relazione diretta tra espiazione della colpa ed esecuzione liturgica è giunta a
conclusione ed ora il linguaggio musicale ingaggia una sfida espressiva diversa,
quella di rappresentare la trama acustica di un luogo di confine, strano da tutti
i punti di vista, non ultimo da quello sonoro. I momenti più importanti della
rappresentazione sono scanditi dalle diverse diramazioni di tale linguaggio,
dall’incontro con Matelda (Pg. XXVIII 76-81; XXIX 1-3), preceduto dall’anticipazione biblico-onirica (XXVII 91-114), fino alla processione mistica (XXIX
43-51, 85; XXX 10-12; XXX 79-84) e al suo commento finale sulla distruzione
del tempio (XXXIII 1-3).
Già prima di giungervi, il passaggio dall’ultima cornice caratterizzato
dall’attraversamento del muro di fuoco avviene attraverso la guida di onde
musicali che mettono in comunicazione il luogo da abbandonare con il nuovo
in cui entrare:
Fuor de la fiamma stava in su la riva,
e cantava ‘Beati mundo corde!’
in voce assai più che la nostra viva.
(Pg. XXVII 7-9)
Guidavaci una voce che cantava
di là; e noi, attenti pur a lei,
venimmo fuor là ove si montava.
‘Venite, benedicti Patris me’,
sonò dentro a un lume che lì era,
tal che mi vinse e guardar nol potei.
(Pg. XXVII 56-60)
La prima intonazione riporta le parole della VI beatitudine (Matt. 5, 8) mentre
la seconda quelle del Vangelo (Matt. 25, 34), rivolte da Cristo ai suoi eletti il
giorno del giudizio finale. La seconda voce proviene da una luce abbagliante,
tale da costringere Dante a distogliere lo sguardo dalla fonte luminosa. Si
tratta dell’intonazione dell’ultimo angelo, quello che custodisce il passaggio
al paradiso terrestre. La descrizione del tragitto come riduzione della distanza
sonora, in cui la misura dello spazio è acustica – elemento non nuovo nel
poema, basti pensare all’avvicinamento alla cascata del Flegetonte (If. XVI
1-2, 92, 100, 104),3 che aveva segnato il passaggio attraverso un’altra zona di
3. Nel XVI canto dell’Inferno, richiamato esplicitamente alla memoria del lettore in questo
momento del viaggio, quasi a compendio del cammino percorso e dell’eroica funzione
“In voce assai più che la nostra viva” (Pg. XXVII 9)
Dante e l’arte 2, 2015 57
confine – si converte in uno strumento compositivo importante nell’organizzazione degli eventi del paradiso terrestre. Qui, gli avvicinamenti tra i personaggi, come quello tra Dante e Matelda (Pg. XXVIII 48-49 e 59-60) o quello
della processione simbolica (Pg. XXIX 36), vengono trattati allo stesso modo.
Il suono guida la percezione visiva, inizialmente bloccata dall’irruzione di una
nuova irradiazione di luce che i sensi del protagonista non sono ancora preparati a ricevere. Il messaggio visivo si lega indissolubilmente a quello sonoro
preparando la costruzione della figuralità sinestetica come una componente
retorica portante del Paradiso Terrestre. La presenza di un fuoco dal quale si
percepisce una melodia diventa l’archetipo di tale immagine retorica, che si
declina nei diversi bagliori musicali che scandiscono la conoscenza del giardino fiorito. La ritualità del fuoco ha permesso la messa a punto di questo
nuovo motivo narrativo per cui la luce sarà retoricamente legata al suono nelle
descrizioni degli ultimi canti del Purgatorio.
L’unione di musica e immagine luminosa, che dominerà l’epistemologia
sensoriale e il discorso musicale dell’ultima cantica, si trova già perfettamente
organizzata alle soglie del Paradiso Terrestre. Il passaggio verso un universo
percettivo fortemente dominato dall’unione di luce e suono è avvenuto attraverso il cammino lungo l’ultima delle cornici purgatoriali in cui le anime
dei lussuriosi che intonano l’inno del mattutino Summa Deus clementiae sono
avvolte dal fuoco ed il canto sembra prodotto dalle fiamme stesse. All’inizio
del canto XXVII, per giungere all’Eden, Dante dovrà attraversare la cortina
ignea, guidato da “una voce che cantava”, quella dell’angelo che custodisce il
passaggio alla cima del monte.
La rappresentazione musicale segue le trasformazioni degli eventi e delle
forme di significazione che segnano il passaggio verso la nuova concezione
retorico-ideologica dell’ultimo regno. Tutti gli eventi che succedono all’attraversamento della frontiera verso il giardino edenico rispecchiano tali cambiamenti nell’uso del linguaggio musicale. L’accenno polifonico-naturalistico
che principia le percezioni del nuovo mondo (Pg. XXVIII 18) , i continui
riferimenti alla musica e alla danza che distinguono il personaggio di Matelda (XXVIII 34-42), l’incontro con Beatrice trapunto di commenti melodicovirgiliana, il procedimento della misurazione dello spazio attraverso la descrizione dell’intensità sonora è alla sua prima sperimentazione. I due protagonisti, che si avvicinano alla
cascata di sangue del Flegetonte da varcare, si renderanno conto dell’imminente presenza
dello strapiombo perché non riescono più a sentire le loro voci a causa della forza del suono
equoreo. Durante tutto il canto l’avvicinamento alla cascata è misurato dalle costanti registrazioni sull’aumento del volume sonoro proveniente dal precipizio. All’inizio del tragitto,
lungo la sponda del fiume, Dante e Virgilio possono parlare ascoltando le loro voci, per poi
sperimentare la graduale impossibilità di ascolto una volta giunti al punto dell’attraversamento. Inoltre, il riferimento al XVI canto dell’Inferno porta con sé anche quello implicito
alla “selva oscura”, immagine rovesciata dall’“antica selva” edenica, con il riferimento alla
lonza in esso contenuto durante il momento del rito della corda.
58 Dante e l’arte 2, 2015
Chiara Cappuccio
liturgici (XXX 90-96; XXXI 97-99), la serie di corrispondenze melodiche che
ritmano la processione simbolica: sono tutti elementi che, all’interno della
descrizione musicale, propongono una nuova relazione tra elementi sacri e
connotazioni profane. Matelda che intona «come donna innamorata» il primo
versetto del secondo dei sette salmi penitenziali (“Beati quorum tecta sunt
peccata”), dopo aver già citato un altro salmo, Delectasti, per spiegare il suo
atteggiamento di solare felicità e le “donne non da ballo sciolte” cui sono paragonate le virtù della processione sono solo due, anche se tra i più macroscopici
esempi, di quanto appena sostenuto:
Cantando come donna innamorata,
continüò col fin di sue parole:
‘Beati quorum tecta sunt peccata!’.
(Pg. XXIX 1-3)
Le modalità di intonazione del canto liturgico di Matelda comunicano, nell’evidenza del recupero cavalcantiano, che l’ambito è profondamente mutato ed
al centro dell’azione c’è un mondo nuovo, fatto di altri personaggi ed altre
istanze ideologiche e poetiche. Nella poesia di Dante tornano ora Beatrice e il
“primo amico”, ed il protagonista si prepara ad affrontare il capitolo centrale
della sua esperienza letteraria. La scelta musicale e le modalità di esecuzione
non sono solo, quindi, una preparazione alla nuova azione drammatica, un
preludio sonoro ad essa sostanzialmente estraneo, ma rivelano da subito i profondi significati che il testo svelerà, anche se con i suoi punti enigmatici, nel
corso della narrazione, di cui un elemento fondamentale è costituito proprio
dalla nuova relazione sinergica tra elementi sacri e profani, evidenti anche
nell’esecuzione musicale che accompagna la processione mistica caratterizzata
da un articolato commento sonoro in cui, ancora, i riferimenti melodici del
repertorio liturgico si mescolano continuamente, nelle modalità descrittive, a
elementi profani. Riscontriamo un uso allusivo, retorico, della componente
musicale, di non immediata comprensione – già lontano dal contrappasso
musicale che aveva in maniera così lineare descritto le pene nella parte centrale della montagna purgatoriale – che, a sua volta, richiama fortemente i
parametri che avevano caratterizzato, nella loro antinomia, l’inizio del viaggio
tra le melodie del secondo regno. Se nell’antipurgatorio tale dialettica aveva
raggiunto un punto di quiescenza, rappresentato dall’esecuzione dell’inno ambrosiano intonato nella valletta dei principi negligenti, nel paradiso terrestre
gli stessi elementi entrano in un rapporto diverso, in cui il contrasto, superato
nell’essenza del testo melodico, si ripropone ad un livello diverso della rappresentazione, mettendo in scena gli elementi di frizione interni ad un altro
viaggio, quello della poetica dantesca, dall’opera giovanile al punto cui è giunta la nuova rappresentazione di Beatrice. I riferimenti musicali partecipano
“In voce assai più che la nostra viva” (Pg. XXVII 9)
Dante e l’arte 2, 2015 59
di un livello più alto della rappresentazione e della comunicazione letteraria;
non più unicamente descrittivi di ambienti e personaggi, essi segnalano elementi di continuità e di trasformazione all’interno del processo compositivo
dell’autore. Esperimento che raggiungerà il punto culminante nel Paradiso, in
cui al linguaggio musicale viene affidato un compito ancora più complesso:
rappresentare l’avvenuta sintesi non solo tra elementi diversi del percorso sia
di Dante personaggio che di Dante auctor, ma di aprire le capacità rappresentative al massimo delle potenzialità, partecipando alla definizione dell’inneffabile, sottolineando le trasformazione della sensorialità del personaggio, e delle
conseguenti capacità descrittive dell’auctor, senza rinunciare alla componente
sinestetico-descrittiva riferita a luoghi e personaggi.
In conclusione vorrei solo ritornare sulla complessità dell’uso del lessico
musicale del Purgatorio – spesso rimarcato dalla critica per quanto riguarda
le sue componenti liturgiche – non solo riguardante la partizione sonora che
caratterizza le diverse zone in cui geograficamente si divide, ma anche il continuo e reciproco richiamarsi degli elementi acustici che rendono il discorso
musicale unitario nella sua variegata articolazione. Siamo partiti dal ripercorrimento di un luogo critico celebre all’interno degli studi danteschi riferiti alla
musica, rappresentato dal rapporto tra componente sacra e profana che informano l’inizio del viaggio purgatoriale nel II canto, per riproporlo all’interno
di una lettura complessiva sul funzionamento della struttura dei riferimenti
musicali del secondo regno. Ogni elemento musicale si esplicita nella singolarità di un determinato momento della liturgia e della struttura narrativa, ma
acquista il suo significato funzionale solo all’interno di una lettura che tenga
costantemente conto dell’intera trama sonora del testo, con le sue continuità e
le sue trasformazioni interne. Crediamo che sia ancora utile fornire una lettura
strutturalmente unitaria di tale trama sonora, anche quando, come nel caso
del presente contributo, non si possono analizzare tutti i riferimenti alla musica presenti nel testo ma solo una piccolissima parte di essi. Pur considerando
solo un numero relativamente esiguo di rimandi al lessico e alla rappresentazione musicali presenti nella seconda cantica, riteniamo indispensabile la loro
contestualizzazione nel soundscape della Commedia per comprenderne non
solo il significato concreto e musicologicamente preciso, ma la loro funzione
all’interno di un ordito di richiami quanto mai ampio e ricercato. Speriamo,
così, di aver messo in luce qualche aspetto nuovo relativamente alla presenza
di tali riferimenti, considerandoli in una prospettiva strutturalmente unitaria
ma organizzata in forme di volta in volta differenti se analizzati nel rapporto
mutevole che essi instaurano col contesto letterario di riferimento.
60 Dante e l’arte 2, 2015
Chiara Cappuccio
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Dante e l’arte 2, 2015 65-86
Il dolce ruggito del tuono: per un’interpretazione
di Purgatorio IX 144 e Paradiso XVII 44
Francesco Ciabattoni
Georgetown University
[email protected]
Riassunto
In questo saggio si esplora il contesto storico-musicologico dell’organo inteso sia come
strumento musicale sia come composizione polifonica, al fine di offrire un’interpretazione
dei passi della Commedia in cui appare il lemma “organi”/“organo” (Pg. IX 144 e Pd. XVII
44). Il saggio dimostra che nel primo caso, alle porte del purgatorio che si aprono, il poeta
fa riferimento alle descrizioni formulaiche dei grandi organi medievali che producevano
un suono potente e non privo di asperità dissonanti. Attingendo a fonti trattatistiche e
monastiche, si documenta il contesto storico di Purgatorio IX e Paradiso XVII leggendo il
primo come strumento musicale a canne e il secondo come musica polifonica.
Parole chiave: Dante, Commedia, musica, polifonia, Purgatorio, canto 9, canto IX, Organo, organum, organa, profezia, Cacciaguida.
Abstract
This essay explores the historico-musicological context of organum, both as musical instrument and polyphonic song. The essay thus proposes an interpretation of two passages of
the Commedia in which the term “organi”/“organo” appears (Pg. IX 144 and Pd. XVII 44).
The essay shows that Dante, in the Purgatorial passage, refers to formulaic descriptions of
great church organs, which produced a powerful and disconcerting sound. Drawing from
medieval treatises and monastic sources, the article interprets “organi” in Purgatorio IX
as the pipe instrument and “organo” in Paradiso XVII as vocal polyphony.
Keywords: Dante, Comedy, music, polyphony, Purgatory, canto 9, canto IX, Organ, organum, organa, prophecy, Cacciaguida.
issn 2385-5355
66 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
C
erti luoghi danteschi continuano a porre questioni ermeneutiche di
ardua soluzione. In questo saggio se ne esamineranno due che hanno
stimolato la riflessione critica dei commentatori per secoli, e si proporrà una
soluzione basata sul confronto intertestuale con fonti monastiche e trattatistiche. Nel complesso panorama musicale della Commedia, che dalla cacofonia
infernale progredisce alla monofonia del purgatorio e alla polifonia del paradiso, Dante fa uso di diversi termini per descrivere le modalità esecutive dei
canti e dei suoni, e non per insufficiente competenza o interesse nei confronti
della musica, come vorrebbe Drusi (2013: 27), ma perché, come provano documenti manoscritti coevi, “nel Duecento in Italia non era nota una denominazione univoca e comune a tutti per indicare l’esecuzione a più voci” (Cattin
1995: 44).
Per dare dunque un esempio della varietà linguistica usata da Dante nel
descrivere tali fenomeni, si noterà che il lemma “tempra” (Cappuccio 2008:
159) è ripetutamente impiegato (Pd. X 146; Pd. XIV 118; Pd. XXIV 13) per
designare il mélange polifonico delle voci dei beati, mentre espressioni come
“ad una voce” (Pg. II 47) e “un modo” (Pg. XVI 20) rimandano ad uno stile
unisonale vicino a quello del canto gregoriano, il tutto in una gamma espressiva che non rimane limitata entro una nomenclatura tecnica, ma spazia, invece,
per evocare associazioni e connotazioni acustiche e visive.
Se dunque Dante non professa un linguaggio specialistico nel descrivere
monodia e polifonia, come si dovranno intendere le due occorrenze del termine tecnico “organi”/“organo” di Pg. IX 144 e Pd. XVII 44?1 Si tratta dello
strumento a canne oppure della polifonia vocale definita organum in latino?
Termini tecnici, organum e organa, si diceva. Infatti proprio il XIII secolo
aveva visto l’affermarsi della pratica dell’organum polifonico, e la creazione
del Magnus liber organi, la straordinaria raccolta di composizioni polifoniche
dei maestri di Notre-Dame, Leonino e Perotino. Già il Micrologus di Guido
d’Arezzo (XI sec.) e l’anonimo trattato Musica enchiriadis (IX sec.) usano il
termine organum per definire questo stile di canto polifonico, di cui si trovano
esempi nel celebre tropario di Winchester (Oxford Bodley 775 e Cambridge,
Corpus Christi College, 473, entrambi datati all’XI sec.) e nei tropari di San
Marziale di Limoges (Parigi, Bibliothèque Nationale, fond Latin 1139, 3719
e 3549; Londra, British Library, Add. 36881, datati XI-XIII sec.). Tuttavia è
la scuola di Notre-Dame quella che si può considerare il punto d’arrivo e
1. Sono queste le sole due occorrenze del termine con accezione musicale, se si eccettua in
parte e con le dovute riserve il passo di Pd. II 121-123: “Questi organi del mondo così
vanno / come tu vedi omai di grado in grado / che di su prendono e di sotto fanno.” Le
possibili risonanze musicali di Pd. II 121 sono state studiate da Thomas Connolly, ma il
termine “organi” vi mantiene il significato di ‘parte di un tutto’, dunque strutturale più che
specificamente musicale. In questa sede ci si soffermerà dunque sulle occorrenze del lemma
in Pg. IX 144 e Pd. XVII 44, che descrivono episodi musicali affatto diversi.
Il dolce ruggito del tuono
Dante e l’arte 2, 2015 67
di maggiore fama della pratica organale, della quale Dante fu probabilmente a conoscenza, come si vedrà sotto. Il poeta conobbe certamente le forme
elementari e improvvisatorie di polifonia, in uso a Firenze già dall’inizio del
XIII secolo nella liturgia di Santa Reparata, forme che venivano denominate
“cum organo” nel Liber ordinalis della cattedrale fiorentina (Firenze, Biblioteca Riccardiana, 3005; vedi Cattin 1998: 32) e vi sono indizi che potesse avere
familiarità anche con i mottetti e i conductus della scuola parigina.
1. “Quando a cantar con organi si stea” (Pg. IX 44):
la costruzione degli organi da chiesa
L’episodio liminale che conclude il nono canto del Purgatorio ha ricevuto
l’attenzione critica di molti commentatori, specialmente quelli che si sono
soffermati sugli aspetti musicali del poema. Il pellegrino e la sua guida si accingono ad attraversare la soglia che divide l’antipurgatorio dal luogo di vera
e propria purificazione spirituale, dopo aver ottenuto il permesso di accesso
dall’angelo che ne custodisce l’entrata. La situazione, strutturalmente speculare a quella del nono dell’Inferno, in cui pure un angelo era dovuto intervenire
contro i diavoli di Dite per permettere a Dante e Virgilio di penetrare nella
città dannata, non è priva di reminiscenze e suggestioni ctonie: la cacofonia
infernale riecheggia sinistramente nello stridore dei cardini che aprono la via
alla purificazione:
E quando fuor ne’ cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, perché poi rimase macra.
Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e “Te Deum laudamus” mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual parer si sole
quando a cantar con organi si stea;
ch’or sì or no s’intendon le parole.
(Pg. IX 133-145, corsivo mio)
Mentre Giuseppe Giacalone suggerisce che “organi” qui valga ‘strumenti musicali in genere’, altri moderni (Anna Maria Chiavacci Leonardi, Giovanni
Fallani e Raffaele Casimiri), riprendendo un’interpretazione diffusa fra gli
antichi (Ottimo, Buti), leggono invece negli “organi” del verso 144 un canto
polifonico, escludendo decisamente che Dante vi volesse evocare il suono
dello strumento musicale, perché “sino al Cinquecento l’organo non fu mai
68 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
strumento per accompagnare le voci” (Fallani 1965, commento ad loc.). Bosco-Reggio propone invece una lettura “organologica”, in cui il canto del Te
Deum si sovrappone al suono dello strumento, ipotesi che qui si condivide,
approfondendola e sostenendola con evidenze musicologiche e prove intertestuali che dimostrano come Dante seguisse proprio il linguaggio con cui la
trattatistica musicale presentava la tecnica di costruzione dei grandi organi da
chiesa. La critica si è divisa soprattutto sull’interpretazione dei vv. 138-144, con
particolare riferimento al significato di ‘primo tuono’, ‘dolce suono’ e ‘cantar
con organi’. La difficoltà ermeneutica a questo riguardo fu già parzialmente risolta da Denise Heilbronn (1983: 5), che suggeriva che il fragore del tuono e lo
stridore dei cardini non fossero, nel medioevo, incompatibili con il concetto
di dolcezza, e andassero quindi intesi come due opposti aspetti di uno stesso
fenomeno acustico, cioè il suono portentoso delle porte del purgatorio che si
schiudono per l’entrata del pellegrino. A sostegno di questa lettura, Heilbronn
nota che proprio il rumore dei cardini è descritto, da Isidoro di Siviglia come
uno stridore (“stridor valvarum”, Etym. III xxii 13), la stessa parola che usa
anche Lucano nel Pharsalia per descrivere proprio la rupe Tarpea che si apre:
“Protinus abducto patuerunt templa Metello. / Tunc rupes Tarpeia sonat magnoque reclusas / testatur stridore fores” (Phars. III 153-155). Tuttavia “stridore”
non è fra i vocaboli utilizzati da Dante nel passo, e quindi più cogenti elementi intertestuali andranno cercati altrove.
L’uso dei termini che ho evidenziato in corsivo nella citazione sopra ricorre
in molti testi che descrivono il suono degli imponenti organi da chiesa di costruzione medievale: il rumore metallico, il tuono, il ruggito e il riferimento ai
cardini si trovano regolarmente in queste descrizioni, spesso in congiunzione
con la dolcezza che ossimoronicamente si sovrappone al tonante fragore delle
canne. La chiave di interpretazione di tutto il passo, dunque, e soprattutto di
“cantar con organi”, andrà cercata nel raffronto dei termini che ho posto in
corsivo con il linguaggio delle fonti trattatistiche e monastiche.
Se si esamina in dettaglio l’evoluzione delle descrizioni dell’organo pneumatico nei trattati musicali dall’epoca di sant’Agostino in poi, per i primi
autori cristiani il termine organum designava qualunque strumento atto a fare
musica, dalla lira al salterio alla cetra e alla voce umana, e si constata che all’origine di questa definizione sono proprio le agostiniane Enarrationes in psalmos (56, 16), secondo cui “organa dicuntur omnia instrumenta musicorum.
Non solum illud organum dicitur, quod grande est, et inflatur follibus; sed
quidquid aptatur ad cantilenam, et corporeum est, quo instrumento utitur qui
cantat, organum dicitur.” Già l’Ipponate, dunque, si preoccupava di distinguere tra gli strumenti, e in particolare i grandi seppure rudimentali organi pneumatici del suo tempo, dall’organo fonatorio dei cantanti, insomma, la voce
umana, perché il termine latino “organum” può significare entrambe le cose.
Il dolce ruggito del tuono
Dante e l’arte 2, 2015 69
Gli fanno eco in molti, riproponendo verbatim le formule degli autori precedenti, secondo l’uso trattatistico del tempo: Isidoro di Siviglia (“Organum,
vocabulum est generale vasorum omnium musicorum”, Etym. III xxi 2), Beda
(“generaliter omnia musicorum vasa organa possunt dici”, De ortographia, PL
90, 140C) e, come si legge in Du Cange (ad vocem) e in Markovits (2003:
274), due importanti testi anonimi dell’XI secolo: l’Elementarium doctrinae
rudimentum di Papia Vocabulista e l’anonimo Vocabularium musicum di Santa
Maria dell’Albaneta a Monte Cassino (Santosuosso 2007: 70). I commentatori
dei salmi si preoccupavano soprattutto di spiegare il verso dell’ultimo salmo
(“Laudate eum in tympano et choro, laudate eum in chordis et organo”, Salmi
150, 4), che esorta alla lode del Signore con ogni sorta di strumento musicale, una pratica lungamente dibattuta e potenzialmente problematica per il
cristianesimo medievale, che raccomandava sobrietà nelle funzioni religiose.
L’ambiguità che il termine latino consentiva parve sufficiente a molti scrittori
cristiani dei primi secoli per cassare l’uso di strumenti chiassosi durante le funzioni religiose, interpretando “in chordis” in senso metaforico e attribuendo a
“et organo” un significato vocale.
Gli autori più favorevoli all’uso dell’organo a canne nelle funzioni religiose
si preoccupano al contrario di specificare che in greco esiste un vocabolo diverso con cui designare tale strumento – ὕδραυλις, che come avverte Markovits
si riferiva non solamente agli organi idraulici ma anche a quelli ad aria – mentre in latino no, e quindi il latino finisce per utilizzare la stessa parola, organum, appunto, per tutti i tipi di strumento musicale. Tali autori sostengono
che a fronte della polisemia di questo termine, con organa si dovrà piuttosto
designare lo strumento a canne: è il caso di Amalario di Metz (IX sec.), che
dopo aver ripetuto la formula agostiniana, chiarisce che poiché il latino non
ha, a differenza del greco, un termine per distinguere l’organo dagli altri strumenti, “organa proprie dicantur ea quae inflantur follibus” (Uffici Ecclesiastici
III 3 in PL 105, 1107), cioè gli organa sono propriamente gli strumenti ad aria,
con mantici, e non più qualunque tipo di strumento musicale.
Ma qualcosa inizia a cambiare già con Cassiodoro, che avrà séguito nei
trattatisti di cui parlerò sotto: è l’insistenza sulle dimensioni dell’organo e sulla
natura ossimorica del suo suono, al contempo sconcertante e soave che ce lo
fa percepire affine al passo del Purgatorio dantesco:
Organum itaque est quasi turris diversis fistulis fabricata, quibus flatu follium vox copiosissima destinatur, et ut eam modulatio decora componat, linguis quibusdam ligneis ab interiore parte construitur, quas disciplinabiliter
Magistrorum digiti reprimentes grandisonam efficiunt et suavissimam cantilenam (Expositio in Psalterium 150, 9 in PL 70, 1052D-1053A, corsivo mio).
A differenza di Isidoro e altri, Cassiodoro non prende neppure in considerazione che con organum possa intendersi la voce umana o altro strumento: egli
70 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
lo descrive senza ambiguità come un torreggiante macchinario ad aria (flatu) i
cui mantici (follium) e tasti (linguis) richiedono diversi suonatori professionisti
(magistrorum) per produrre una musica potente e al contempo dolcissima.
Una descrizione simile esisteva già in lingua greca – un idioma che tuttavia
Cassiodoro probabilmente non conosceva bene (Cardini 2007: 149) – a firma
dell’imperatore Giuliano (carme 304):
Vedo un’insolita specie di canne. Forse sbucano a gran velocità da un campo
di ferro, selvatiche. Non sono agitate dai nostri venti, ma un soffio che
spinge su da una cavità di pelle taurina, dal basso, fin dalle radici, percorre
le canne ben forate. E un uomo altero, con le agili dita della mano, sta lì,
pigiando i tasti che si accordano alle canne. E quelli, lievemente sobbalzando, fan venir fuori la melodia (Henderson 1923: 157, traduzione mia).
Anche nell’Europa di lingua latina tali macchine gigantesche non tardarono
a impressionare la fantasia degli scrittori per la mole imponente e il suono
assordante. Il monaco inglese Wulstan, morto nel 963, ne parla in tono quasi
favolistico nell’introduzione alla sua vita di san Swithuno, attribuendo all’organo di Winchester quaranta canne e ventisei mantici, che richiedevano ben
settanta uomini robusti:
Talia et auxistis hic Organa, qualia nusquam
Cernuntur, gemino constabilita sono.
Bisseni supra sociantur ordine folles,
Inferiusque jacent quatuor atque decem,
Quas agitant validi septuaginta viri;
Brachia versantes, multo et sudore madentes
Certatimque suos suisque movet socios
Viribus ut totis impellant flamina sursum,
Et rugiat plena capsa referta sinu
Sola quadrigenta quae sustinet ordine Musas
Quas manus organici temperat ingenii…
Inque modum tonitrus vox ferrea verberat aures
Preter ut hunc solum nil capiant sonitum,
Concrepat in tantum sonus hinc illincque resultans,
Quisque manu patulas claudat ut auriculas,
Haudquaquam sufferre valens propiando rugitum,
Quem reddunt varii concrepitando soni,
Musarumque melos auditur ubique per urbem,
Et peragat totam fama volans patriam.
(Coussemaker 1841: 208; PL 137, 110C-111A, corsivo mio)
Vi si riscontrano, oltre alla voce metallica e fortissima, le metafore del ruggito
e del tuono, elementi ricorrenti nella formula che si fissa intorno al IX-X secolo e che rimarrà nei secoli successivi confluendo pure nel passo di Pg. IX. Fra
i trattatisti che affrontano la questione, il benedettino Rabano Mauro poteva
così descrivere nel suo De universo (IX sec.) la costruzione e l’effetto sonoro
Il dolce ruggito del tuono
Dante e l’arte 2, 2015 71
dell’organo, paragonandolo a quello in Gerusalemme che gli ebrei sentirono
dal Monte degli Ulivi:
Primo omnium ad organi (eo quod majus esse his omnibus generibus in
sonitu et fortitudine nimia computatur) clamores veniam, quod de duabus
elephantorum pellibus concavum conjungitur, et per duodecim fabrorum
sufflatoria compulsatum per duodecim cicutas aereas in sonitum nimium,
quem in modum tonitrui concitat: ita ut per mille passus sine dubio sensibiliter seu utique amplius audiatur: sicut Hebraeorum de organis, quae ab
Jerusalem usque ad montem Oliveti, et amplius sonanter audiuntur (De
universo XVIII iv; PL 111, 496, corsivo mio).
Rabano, che qui deroga da Isidoro di Siviglia, le cui etimologie costituiscono
altrimenti il punto di riferimento costante del De universo, segue invece verbatim la Lettera a Dardano, di dubbia attribuzione a san Girolamo (PL 30, 213
B) e insiste sull’aspetto del volume e del tonante effetto delle canne di rame
ancora una volta rimarcando la somiglianza con il tuono (in modum tonitrui).
Baldrico, vescovo della diocesi bretone di Dol, riferisce di aver veduto e
sentito in una chiesa di Fécamp (Fiscannum), nel XII secolo, un maestoso organo, che descrisse nella sua Epistula ad Fiscannenses con alcuni elementi pure
affini a quelli che ritroviamo in Dante (le canne di rame, la dolcezza del suono
e la similitudine con il canto sacro), ma tralasciando le sonorità più terribili,
e sottolineandone invece la gamma tonale e la capacità armonica (symphoniae
sonoritatem):
instrumentum vidi musicum, fistulis aeneis compactum, quod follibus excitum fabrilibus suavem reddebat melodiam, et per continuam diapason, et
per symphoniae sonoritatem, graves, et medias, et acutas voces uniebat,
ut quidam concinnentium chorus putaretur clericorum, in quo pueri, senes,
juvenes, jubilantes convenirent et continerentur: organa illud vocabant,
certisque temporibus excitabant (PL 166, 1177D, corsivo mio).
Baldrico, nei paragrafi seguenti, prende posizione a favore dell’uso dell’organo
nelle chiese, e pertanto ne passa sotto silenzio il suono tonante, che potrebbe
risultare spiacevole ai lettori, mettendone invece in risalto gli aspetti melodiosi
e addirittura la capacità di imitare un coro di voci miste.
Di sentimento contrario, l’inglese Aelredo di Rievaulx (XII sec.) usa nello
Speculum charitatis (II xxiii, in PL 195, 571) la metafora del tuono in una domanda retorica per squalificare il suono di quello che non doveva sembrargli
uno strumento conforme alla sacralità della liturgia:
Unde, quaeso, cessantibus iam typis et figuris, unde in Ecclesia tot organa,
tot cymbala? Ad quid, rogo, terribilis ille follium flatus, tonitrui potius fragorem, quam vocis exprimens suavitatem (Speculum caritatis II, 23, corsivo mio).
Si noti che Aelredo mette in risalto il fragore del tuono minizzando invece
la dolcezza del suono, ma pure l’esplicito riferimento alla dolcezza non può
72 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
essere casuale. Esso si iscrive, invece, in un dibattito tra i trattatisti, nel quale
Aelredo prende posizione, al contrario di Baldrico, contro l’uso degli strumenti nella liturgia. Nelle righe successive il monaco inglese si scaglia anche contro
lo stile canoro dei chierici che, difettando dell’opportuna sobrietà, cantano
con voci ora effeminate ora simili a nitriti equini, scotendo il corpo in modo
più consono a un istrionico spettacolo di teatro che a una funzione sacra2. Ciò
che più conta ai nostri fini è che Aelredo sentisse la necessità di negare dignità
e suavitas al suono dell’organo perché tale dolcezza era ormai divenuta un
attributo normativo nella trattatistica organologica.
Somiglianze notevoli di Pg. IX, tali da far supporre una conoscenza diretta
del testo da parte del poeta, si riscontrano con un testo di Notker Balbulus (c.
840-887), il monaco di San Gallo che nel De gestis Caroli Magni imperatoris (II
x) riferisce di uno strumento imponente, quasi meraviglioso, donato all’imperatore franco-tedesco dai bizantini:
Organum praestantissimum, quod doliis ex aere conflatis follibusque taurinis per fistulas aereas mire perflanctibus rugitum quidem tonitrui boatu,
garrulitatem vero lyrae, vel cymbali dulcedine[m] coaequabat (Bouquet,
Delisle 1869: 124, corsivo mio).
Nelle parole di Notker, così efficaci nell’evocare il suono sconvolgente del
grande macchinario, non solo ritroviamo gli stessi termini usati da Dante per
descrivere l’assordante stridore delle porte che si aprono: il ruggito, il tuono,
l’eco metallica delle canne, ma la dolcezza del suono delle campane e della lira
si riflette nel “dolce suono” di Pg. IX, riproducendo una miscela di dolce e acre
che è convenzionale nelle descrizioni organologiche medioevali e che serve al
poeta della Commedia per esprimere l’ossimoro teologico del piacere misto al
dolore che costituisce il significato più profondo della poetica del Purgatorio.
La corrispondenza dei termini danteschi (fistulas aereas / “cardini … metallo”, rugitum / “rugghiò”, tonitrui / “tuono”) è soprattutto evidente con i
testi di Notker e Wulstan (in quest’ultimo compare anche il verbo reddunt,
che sembra lasciare traccia nel “rendea” di Pg. IX 142), e lascia intravvedere
la filigrana della formula sulla quale l’autore della Commedia ha modellato
il passo con specifici riferimenti al linguaggio della letteratura organologica.
Il maestoso strumento descritto dal monaco sangallese era un dono che una
delegazione bizantina portò ad Aquisgrana per Carlo Magno nell’812 e certamente dovette costituire qualcosa di unico nel suo genere, degno di essere
2. “Nunc vos stringitur, nunc frangitur, nunc impingitur, nunc diffusiori sonitu dilatatur.
Aliquando, quod pudet dicere, in equinos hinnitus cogitur; aliquando virili vigore deposito,
in femineae vocis gracilitates acuitur, nonnunquam artificiosa quadam circumvolutione
torquetur et retorquetur. Videas aliquando hominem aperto ore quasi intercluso halitu
exspirare, non cantare, ac ridiculosa quadam vocis interceptione quasi minitari silentium;
nunc agones morientium, vel exstasim patientium imitari. Interim histrionicis quibusdam
gestibus totum corpus agitatur, torquentur labia, rotant, ludunt humeri” (PL 195, 571).
Il dolce ruggito del tuono
Dante e l’arte 2, 2015 73
registrato e tramandato con enfasi, un’enfasi che pure serve assai efficacemente
per sottolineare lo schiudersi delle porte purgatoriali.
Quanto alla conoscenza diretta che Dante poté avere degli organi da chiesa, il primo organo fisso da chiesa fu installato a Firenze nella basilica della
Santissima Annunziata nel 1299 (Moretti 1973: 51-52; Vicentini 1931: 35) e nel
corso del XIV secolo abbondano le notizie di grandi organi da chiesa a Siena,
Padova, Venezia. Tra questi, se ne avevano alcuni di statura eccezionalmente
maestosa, con canne in metallo, costruiti con uno scopo di grandiosità tanto
visiva quanto acustica. Kimberly Marshall (2000: 414-415) riporta due trattati
“De diversis artibus” dell’XI secolo – attribuiti a un anonimo bernese e a un
monaco di nome Teofilo – secondo i quali le canne dell’organo erano fatte di
rame battuto in fogli sottili poi avvolti attorno a tubi cavi di ferro che venivano saldati l’uno all’altro. Ad illustrare le caratteristiche fisiche di questi grossi
strumenti ad aria risultano particolarmente utili fonti iconografiche in manoscritti miniati come la Bibbia di Harding (Dijon, Bibliothèque Municipale, 14,
vol. 3, f. 13v, datato 1109), il salterio di Cambridge (St. John College, B18(40),
f. 1r) e il Salterio di Santa Elisabetta (ms. CXXXVII del Museo Archeologico
Nazionale di Cividale del Friuli, primi anni del XIII sec., f. 295r; Marshall
2000: 415). Altri grandi organi, ma idraulici, sono raffigurati nel salterio di
Utrecht (Utrecht, University Library, Script. eccl. 484, f. 83r) e nel salterio di
Eadwine (Cambridge, Trinity College, R. 17. 1, f. 261v, metà XII sec.).
Ma che Dante avesse o meno familiarità diretta con strumenti tanto imponenti, appare ragionevole che egli si ispirasse alla letteratura specificamente
dedicata a questo genere tecnico per sottolineare un momento così topico:
l’organo che sentiamo risuonare grandiosamente alle porte del purgatorio deve
incutere una certa misura di timore nel pellegrino e nei lettori. La convenzione letteraria di ritrarre gli organi in modo grandioso dovette sopravvivere e
sovrapporsi alla più frequente realtà dei piccoli organi portativi utilizzati nella
liturgia, dando vita a quella che divenne una categoria letteraria, se spesso “the
portrayal of numerous and varied instruments was founded upon psychological, not practical, considerations” (Bowles 1957: 44).
Sebbene le risonanze terribili della porta del purgatorio richiamino la spaventosa e simmetrica scena del fallimento di Virgilio in If. IX di fronte ai
diavoli che bloccano l’accesso a Dite, il suono potente e sconcertante che
garantisce accesso al purgatorio non significa tuttavia il ritorno della musica
infernale: prima di tutto si dovrà infatti capire che tipo di combinazione sonora si cela in questi versi. Un punto che può sollevare dubbi è se il Te Deum
sia da udire, o immaginarsi, in sovrapposizione e separatamente dal rumore
dei cardini che si aprono oppure se lo stesso suono dei cardini sia simile a un
Te Deum intonato da un potente mélange vocale, un vero “miracolo purgatoriale” – come lo ha definito Peter Armour (1983: 117) – che aggiunge sugge-
74 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
stivo mistero al momento cruciale dell’entrata nel purgatorio vero e proprio.
Chiara Cappuccio (2007: 56) ha argomentato con ricchezza di particolari e
con il sostegno dei testi (in particolare i commenti di Benvenuto da Imola e
Jacopo della Lana) che quella che il pellegrino immagina di sentire all’entrata
del regno della purificazione è un’esecuzione corale e monodica del Te Deum
accompagnata da un organo, nella quale la ricezione delle parole è difettosa
per via della sovrapposizione di molti suoni. Anche Nino Pirrotta (1968: 248
n. 11) e Denise Heilbronn (1984: 10) concordano che “organi” sia qui da intendersi come strumento musicale, anziché come polifonia vocale. Non pare
necessario tuttavia porre in alternativa l’ipotesi che il “dolce suono” equivalga
o al rumore della porta oppure al suono dell’organo: il rumore della porta è
assomigliato al suono sconcertante di un gigantesco organo che risuona nella
“regge sacra” – ovvero una chiesa – del purgatorio, e quindi il dolce suono è
al contempo sia lo spaventoso fragore della porta che gira sui cardini sia, per
similitudine, l’organo a canne delle descrizioni monastiche.
Ma come può un “tuono” essere al contempo un “dolce suono”? Bisognerà
intendere il canto del Te Deum e la metafora del suono dell’organo come suoni
sovrapposti e dissonanti e andrà quindi esclusa l’ipotesi proposta da Landino
che “che tale himno si cantassi l’un verso con la voce, l’altro co gl’organi” perché essa è contraddetta dalla lettera del testo, che vuole la “voce mista al dolce
suono”. Già Michele Barbi (1893-1918: 223 e 247-248) aveva avanzato l’ipotesi
che “il primo tuono” e “il dolce suono” fossero entrambi riferiti al rumore
della porta che si apre. Se è così, l’assordante ruggito della porta che suona
tanto “acra”, contiene paradossalmente in sé un germe di dolcezza, quella dolcezza musicale che, come nota Cappuccio, torna a più riprese nel Purgatorio
proprio a designare la qualità lenitiva, terapeutica del canto. Inoltre, che il
ruggito e il boato tonante non fossero estranei alla gamma di suoni musicali
lo mostrò già Denise Heilbronn (1984: 8), sulla base di Isidoro di Siviglia,
di Cassiodoro e del Somnium Scipionis di Cicerone, né si dimentichi Dante
stesso, che nel descrivere lo sdegno della corte celeste di fronte alla corrotta
opulenza dei prelati attraverso le parole di Pier Damiani, fa intonare ai beati
– così ripristinando l’interrotta “sinfonia di Paradiso” – un grido così forte da
assomigliare a un tuono, certo non privo di qualità musicali:
Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;
né io lo ‘ntesi, sì mi vinse il tuono
(Pd. XXI 139-142)
Non solo, dunque, il forte volume e la veemenza non escludevano necessariamente una intonazione o qualità musicale del suono, ma l’acredine e la
Il dolce ruggito del tuono
Dante e l’arte 2, 2015 75
dolcezza appaiono elementi strettamente pertinenti alla particolare situazione
di Pg. IX, in cui alla prospettiva di dare inizio alla purgazione dei peccati si
associa quella della pena necessaria, cui l’anima accetta volontariamente di
sottoporsi per accedere alla gloria eterna, e non è a caso il paragone anche
con la riserva aurea del Campidoglio (che sorge sulla rupe Tarpea, da cui la
metonimia) che spiana la strada a Cesare: la violenza dell’entrata e il sacrificio
del buon Metello erano pure passi dolorosamente necessari per la fondazione
dell’impero sotto il quale Cristo si sarebbe incarnato. L’ossimoro della catarsi
attraverso il dolore, quindi della conquista della dolcezza attraverso l’esperienza dell’acredine, è emblematico dell’esperienza purgatoriale, al punto che per
Forese è “dolce [l’]assenzio de’ martiri” (Pg. XXIII 87) perché esso gli guadagnerà il paradiso; egli accoglie il dolore con gioia (“io dico pena e dovria dir
sollazzo”, Pg. XXIII 72), abbracciando il suo temporaneo destino di sofferenza
per un maggiore e più duraturo godimento in cielo. Si tratta della stessa promessa, riferita con freddo distacco scientifico, da Virgilio all’inizio del viaggio
ultraterreno del pellegrino:
E vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire,
quando che sia, alle beate genti.
(If. I 118-120)
Se le anime del purgatorio accettano di buon grado la loro punizione, non
appare inconcepibile che un suono forte e acre sia percepito come paradossalmente dolce: lo stridore dei cardini apre la via sia alla sofferenza che alla
speranza, come pure annuncia il testo del Te Deum: “aperuisti credentibus
regna caelorum”. I commenti di Bosco-Reggio e di Fosca menzionano a questo proposito l’antico uso cristiano di concludere i drammi liturgici proprio
con questo canto, che rappresentava l’iniziazione di un nuovo accolito nella
chiesa. Francesco Buti nota che il Te Deum accompagnava le cerimonie di
ordinazione dei sacerdoti: “si suole cantare dai chierici quando uno omo esce
dal mondo e va alla religione”, in osservanza alla tradizione, oggi non più accolta ma in auge nel medioevo, che il Te Deum fosse stato composto in modo
spontaneo ed eseguito alternatim da sant’Ambrogio e sant’Agostino durante
la cerimonia battesimale di quest’ultimo. Robert Hollander (1969: 165), sulla
scorta di John Freccero, suggerisce che Dante qui instauri un paragone tra la
sua entrata nel regno della salvezza e quella di Agostino, in quanto entrambi si stanno liberando dalle pastoie della lussuria e dell’eterodossia (il neoplatonismo per Agostino e la poetica cavalcantiana per Dante).
Malgrado le attestazioni di una primitiva pratica polifonica del Te Deum
siano antichissime (Planchart 2000: 26), da far risalire al trattato anonimo
Musica enchiriadis (IX sec.), che “organi” (v. 144) indichi una esecuzione vo-
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Francesco Ciabattoni
cale, cum organo, dell’inno non pare davvero plausibile alla luce del confronto
intertestuale mostrato sopra, che prova invece che “organi” è da intendere
come lo strumento. Come sarà allora da intendere il Te Deum? La possibilità
di un’alternanza di voci e di organo, secondo la diffusa pratica dell’alternatim,
è messa fuori gioco dalla lettera del testo stesso che – se si accetta l’identificazione di “dolce suono” con il rumore della porta – sovrappone la “voce mista
al dolce suono”. Pertanto ci pare di dover leggere, con Benvenuto da Imola,
che il canto sia eseguito “simul cum sono organi”, cioè allo stesso tempo e in
coincidenza con il suono dell’organo, e d’altronde non mancano testimonianze di una pratica esecutiva in cui la voce si sovrappone all’organo anche negli
anni di Dante. Basti pensare al passo sopra riportato in cui Aelredo biasima la
pratica di cantare sopra al suono di “organa et cymbala”. Cantare inni, nella
fattispecie “Hosanna” con l’accompagnamento dell’organo era un pratica diffusa a Siena, autorizzata proprio dai salmi citati sopra, come si legge nell’Ordo
officiorum Ecclesiae Senensis del 1215:
et nota quod in hoc angelorum concentu, quandoque Organis, et Musicis
utimur instrumentis, quod David instituit, scilicet Hymnos in Dei Sacrificiis cum Organis, et instrumentis Musicis jubens concrepari, omnis etas,
omins ordo, omnis sexus, et conditio Hosanna Regi Altissimo, voce, et
corde clamet inexcelsis (Trombelli, Fonseca de Evora 1766: 466).
Di questa pratica Edmund A. Bowles (1957: 50) e Gotthold Frotscher (1935:
48) forniscono ulteriore abbondante dimostrazione: l’ufficio pasquale alla basilica di San Salvatore di Torino (abbattuta nel 1490 per fare posto alla nuova
cattedrale di San Giovanni), il Roman de Brut di Wace del 1155 (“Moult oissies
orgues sonner / Et clercs chanter et orguener”, verso 1115) e un documento del
1365 in cui si attesta che nell’abbazia di Santo Stefano a Vienna la liturgia delle
ore nei giorni festivi era da eseguirsi con accompagnamento dell’organo. Nel
1377 ad un ricevimento in onore dell’imperatore Carlo IV si cantò proprio il
Te Deum con accompagnamento dell’organo. Bowles addirittura afferma che
“even when the organ was substituted for the voices, the text was recited sotto
voce”, il che certamente rendeva difficile comprendere le parole del canto,
discernibili solamente “or sì, or no”. E infine, come osserva Giacalone, Dante
stesso nel De vulgari eloquentia (II viii 5-6) ammette la possibilità di cantare
sulla base di un organo: “Nullus enim tibicen, vel organista, vel citharedus
melodiam suam cantionem vocat, nisi in quantum nupta est alicui cantioni”.
Il contenuto dell’inno che Dante sceglie di associare a questo sconcertante
accompagnamento d’organo è particolarmente adatto, per il suo significato e
per la sua storia, alla situazione di transizione nel regno della purificazione.
Il Te Deum, tradizionalmente eseguito per celebrare la santificazione di un
membro della chiesa o l’ordinazione di un sacerdote, menziona in modo esplicito proprio la soglia alla quale il pellegrino viene a trovarsi alla fine del canto
Il dolce ruggito del tuono
Dante e l’arte 2, 2015 77
nono: “aperuisti credentibus regna caelorum”. Anna Maria Chiavacci Leonardi
suggerisce che, come il “Gloria in excelsis Deo” di Pg. XX 136 è intonato da
tutte le anime del purgatorio quando un’anima compie la propria penitenza,
così anche il Te Deum viene eseguito da tutte le anime del regno della purificazione. Significativamente, lo stesso inno, sebbene citato in italiano anziché
in latino, riapparirà nel cielo delle stelle fisse ad approvazione delle corrette
risposte che Dante fornisce alle domande di san Pietro sulla fede. Ma qui il
poeta specifica la diversa e divina natura della musica che l’alta corte intona
(“risonò per le spere un ‘Dio laudamo’ / ne la melode che là su si canta”, Pd.
XXIV 113-114).
2. Contatti di Dante con la polifonia
Preliminarmente alla discussione di Pd. XVII 144 converrà soffermarsi sull’esposizione del poeta della Commedia alle diverse forme di polifonia circolanti
in Europa tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento. La scarsità di manoscritti italiani testimonianti notazione polifonica prima del 1330 ha spesso
indotto gli studiosi a riserve e astensioni nel valutare la diffusione della pratica
polifonica negli ambienti vicini a Dante. Tuttavia scarsità non significa, come
vedremo, totale assenza.
Ricerche recenti hanno portato alla luce le forme non scritte e improvvisatorie di polifonia, frequenti nella liturgia di molte diocesi italiane fra la
fine del tredicesimo e l’inizio del XIV secolo. Ciò risulta dai libri ordinali di
Firenze (Biblioteca Riccardiana, 3005), Pistoia (Biblioteca Capitolare, C114
e C102; vedi Cattin 1995), Siena (Biblioteca Comunale, G.V.8; vedi Fischer
1961), Lucca (Biblioteca Capitolare Feliniana, 608; vedi Ziino 1975a) e Padova
(Biblioteca Capitolare, E57; vedi Ciabattoni 2010: 30-36), che recano testimonianza del canto a più voci, sebbene usando espressioni varie per riferirvisi
(succinere, secundare, duplare, organizare, cum organo; Cattin 1995: 47-48 e 7476). Fra queste fonti manoscritte particolare importanza riveste il già citato
libro ordinale di Santa Reparata (Firenze, Biblioteca Riccardiana, 3005, Ritus
in ecclesia servandi; vedi Tubbini 1996 e Cattin 1998), dal quale si comprende
che la pratica del cantare cum organo era assai diffusa nella Firenze del XIII
secolo. Identificato solo nel 1996 come il libro ordinale della cattedrale fiorentina, il Ritus dimostra per negativo che la pratica organale era così frequente
che bisognava piuttosto stabilire quando non andava utilizzata: dato il carattere gioioso e celebrativo attribuito all’organum (spesso usato per la natività o
per la resurrezione), il Ritus stabilisce che nelle occasioni di lutto si evitasse di
cantare in modalità polifonica (cum organo, appunto):
Giovedì di Pasqua: In isto triduo nichil cum organo cantetur nisi in missa
episcopali (f. 37; Tubbini 1996: 79).
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Francesco Ciabattoni
Rito funebre per i canonici: Cum vero corpus defertur in ecclesiam,
vel in ecclesia[m] detinetur, nichil cantetur cum organo (f. 11r; Tubbini
1996: 229).
Se il libro ordinale specifica le poche occasioni in cui non si deve cantare l’organo polifonico, si deduce facilmente che tale pratica musicale, per quanto
improvvisata ed elementare, doveva essere impiegata assai di frequente.
La pratica polifonica dilagante è testimoniata anche da alcuni passi della
bolla Docta sanctorum patrum, che Giovanni XXII emise nel 1324 da Avignone:
in essa il pontefice interdiva l’uso dei moderni cantori che “melodias hoquetis
intersecant, discantibus lubricant, triplis et motetis vulgaribus nonnunquam
inculcant” (Gastoué 1904: 271). Agostino Ziino (1975a) ci informa che a Lucca
e Siena le funzioni religiose in cui si impiegava l’organum polifonico abbondavano e a Lucca si trova una delle poche testimonianze di polifonia notata
nell’Italia dei tempi di Dante: il tropo Regi regum glorioso, a due voci, del XII
secolo, trasmessoci dal manoscritto 603 della Biblioteca Capitolare di Lucca
(f. 256r). Certo, come nota il musicologo, la polifonia eseguita a Lucca e Siena
si cantava quasi certamente a due sole voci, talvolta raddoppiate all’ottava, ma
pure tali soluzioni armoniche eseguite da un numero di cantori che variava
fra tre e otto, dovevano apparire novità musicali complesse e suggestive: Ziino
(1975a e 1975b) e Levy (1975) dimostrano infatti come mottetti ed esecuzioni
cum organo fossero impiegati particolarmente nelle occasioni di festa solenne
in diverse città della Toscana, proprio – come dimostra il manoscritto 608
della Biblioteca Capitolare di Lucca, datato dopo il 1289 – negli ultimi anni
del XIII secolo.
Ma anche le forme di polifonia più complesse, a tre e quattro voci, non furono del tutto estranee al nord Italia e forse neppure all’esperienza dell’Alighieri, se un noto passo del De Ierusalem celesti di Giacomino da Verona descrive
con minuzia musicologica un organum quadruplum in cui le voci organali
seguono all’ottava, alla quinta sopra e alla quarta sotto la voce principale:
ke le soe voxe è tante e de gran concordança
ke l’una ascendo octava e l’altra en quinta canta,
e l’altra ge segunda cun tanta deletança
ke mai oldia no fo sì dolcissima dança.
(De Ierusalem celesti, vv. 151-154, in Contini 1960: 663)
Un ulteriore elemento per sostenere che Dante o fosse direttamente esposto o
avesse almeno una certa familiarità anche con le forme polifoniche più sofisticate, forse anche quelle notate nel Magnus liber organi, è la presenza, nella
biblioteca di papa Bonifacio VIII, di due manoscritti contenenti polifonia
notata a due, tre e quattro voci nello stile dell’organo di Notre-Dame. Peter
Jeffery ha suggerito che uno dei manoscritti di Bonifacio, “de conductis et
Il dolce ruggito del tuono
Dante e l’arte 2, 2015 79
prosis et motetis notatum ad modum organi” (Jeffery 1979: 119), possa identificarsi con il manoscritto più significativo di questo repertorio (Biblioteca
Medicea Laurenziana, Pluteo 29.1), prodotto a Parigi intorno al 1250. Di certo
il Pluteo 29.1 appariva nell’inventario della biblioteca della famiglia Medici
nel 1456 (Ames-Lewis 1984; Baltzer 1987: 380; Pasquini 2000: 72-80; Masani
Ricci 2002: 42) e stando all’ex libris che appare sull’ultimo foglio (“liber
petri de medicis cos. fil.”, f. 476v; vedi Haggh e Huglo 2004: 197-199),
appartenne al figlio di Cosimo il Vecchio, Piero de’ Medici, che fu signore
di Firenze dal 1464 al 1469. Haggh e Huglo ipotizzano che il manoscritto
potesse essere stato donato da Luigi XI di Francia a Piero de Medici, visto il
rapporto diplomatico intenso tra i due, ma Jeffery (1979: 119) propone che il
Pluteo 29.1 si possa identificare con uno dei due manoscritti contenenti polifonia notata elencati nell’inventario bonifaciano del 1311, e precisamente con
quello dei due che inizia con l’organum quadruplo “Viderunt omnes”. Dante
potrebbe averne ascoltato il repertorio, e potrebbe addirittura aver visto questi
manoscritti durante la sua permanenza forzata a Roma presso Bonifacio tra il
1301 e il 1302. Ma comunque, al fine di mostrare i possibili contatti di Dante
con la polifonia francese, di tradizione scritta e più complessa di quella improvvisata, non è necessario accettare l’identificazione del manoscritto della
biblioteca di Bonifacio VIII con il Magnus liber organi. La presenza dei due
manoscritti contenenti conductus, prose, mottetti e organi alla corte papale
in cui si trovò Dante è di per sé un indizio significativo; infatti, come osserva
Jeffery (1979: 122), lungi dall’essere semplici doni da esposizione, quei libri di
polifonia francese erano probabilmente destinati all’esecuzione perché “the
plain wooden boards that cover the ‘viderunt’ manuscript suggest that it was
not a gift copy of this kind, but may have been intended for actual use”. Solo
un lettore distratto o malizioso potrebbe interpretare la giusta cautela del musicologo americano come un elemento contro la tesi che la polifonia francese
fosse eseguita presso la corte del papa e forse per le orecchie di Dante.
A ciò si aggiunga la produzione di Marchetto, attivo a Padova già dal 1305,
di cui nei manoscritti C55 e C56 della Biblioteca Capitolare di Padova si trovano composizioni polifoniche notate, che proseguono una lunga tradizione
nella città veneta, già studiata da Giuseppe Vecchi (1954). Poste dunque le
basi per una familiarità di Dante con l’arte polifonica scritta, sarà possibile
proporre un’interpretazione del passo del Paradiso.
3. “Dolce armonia da organo” (Pd. XVII 44):
una lettura polifonica
Nella Commedia, anzi nell’intero corpus dantesco, vi è una sola altra occorrenza, oltre al già discusso Pg. IX 144, in cui la parola “organo” appaia con
80 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
un significato musicale (mentre se ne attestano molte altre con il significato
di organo del corpo o parte di un sistema). Anche su Pd. XVII 44 vi è, o
per lo meno vi è stata in passato, una certa esitazione: accanto al silenzio
di chi, come Sapegno, Singleton e Porena, evita di prendere posizione sul
significato del lemma in questo passo, vi sono coloro per i quali “organo”
deve intendersi come lo strumento musicale (Jacopo della Lana, Ottimo,
Benvenuto da Imola, Buti, Landino e fra i moderni Mandelbaum, Mattalia
e Del Lungo), mentre per Chiavacci Leonardi, Fallani, Chiappo e Fosca propendono per l’organum polifonico, come pare più probabile. Qui di seguito
proporrò degli elementi per tentare di chiarire il preciso significato di “organo” in questa seconda occorrenza, ovvero sosterrò che la similitudine non
invochi nuovamente lo strumento ma piuttosto la polifonia vocale, volta a
sottolineare la solennità della profezia di Cacciaguida, il futuro esilio e riscatto
di Dante.
Poco prima dell’ascesa che, dal cielo degli spiriti guerrieri e di Marte, porterà il pellegrino a quello della giustizia e di Giove, l’avo del poeta offre al
postero una spiegazione su sfondo musicale delle sue future vicende politiche e
personali. Una prima e importante differenza salta agli occhi, nel confrontare
Pg. IX 144 e Pd. XVII 44, ed è che, mentre nel primo episodio “or sì or no
s’intendon le parole”, la spiegazione di Cacciaguida ai dubbi di Dante è fornita “per chiare parole e con preciso / latin” (Pd. XVII 34-35): essa è, caso raro
nel contesto musicale del paradiso, altamente intellegibile. Un’altra importante differenza fra i due passi è il fatto che nel Purgatorio il lemma “organi” compare al plurale, mentre nel paradiso è al singolare. Nella trattatistica medievale,
compresi i passi citati di Rabano Mauro, Wulstan, Anonimo IV e Aelredo (e
però non in Notker), il lemma plurale in latino viene impiegato per designare
lo strumento, mentre il singolare, organum, designerebbe il canto polifonico
(Monterosso in ED e Fischer 1961: 168-169). In entrambi i passi danteschi il
lemma non è in rima e la scelta di usare il plurale in Pg. IX e invece il singolare in Pd. XVII appare del tutto svincolata da esigenze metriche o stilistiche,
quindi tanto più significativa. Pur con le avvertenze del caso, si vogliono qui
mostrare elementi che paiono legare il dettato dantesco a fonti teoriche coeve.
Un elemento che sembrerebbe corroborare la lettura di “dolce armonia da
organo” anche come strumento musicale viene dall’Anonimo IV, il monaco
inglese che commentò sulla polifonia di Notre-Dame, il quale ribadisce, sulla
scia dell’ambiguità terminologica già discussa sopra, l’equivocità del termine
organum e associa la profezia del salmo 150 con gli strumenti musicali:
Organum verbum aequivocum est. Quandoque dicitur organum purum
ut in Iudea et Ierusalem in duplo vel Descendit de caelis vel Gaude Maria
et cetera. Alio modo dicitur organum ut in instrumento organorum, sicut
prophetia dicit in cordis et organo (Reckow 1967: I, 70).
Il dolce ruggito del tuono
Dante e l’arte 2, 2015 81
Tuttavia l’Anonimo IV sta solo preparando il suo discorso sull’organo polifonico facendo prima il necessario chiarimento terminologico: quando si legge
organum nei salmi, si intende in realtà instrumentum organorum (e si noti
come l’autore tardo duecentesco corregge al plurale il lemma che compare
al singolare nel testo biblico), ed è tutt’altra cosa dall’organum polifonico sul
quale il suo trattato si dilungherà. Inoltre il Tractatus de consonantiis musicalibus, attribuito ora a Jacques de Liège ora all’Anonimo I (vedi Meyer per
una discussione dell’attribuzione) così si esprime a proposito delle consonanze
musicali:
Est enim concordia duorum sonorum, diversorum vel plurium in eodem
tempore prolatorum se compatientium harmonia uniformiter suaviterque veniens ad auditum (Smits van Waesberghe 1988: 23; Coussemaker
1864: 297).
Non vi è prova che il Tractatus, scritto tra la fine del XIII secolo e l’inizio del
XIV probabilmente in area belga, fosse noto a Dante, ma andranno notate alcune convergenze testuali. Questo passo del Tractatus, che cade proprio
in concomitanza della discussione sugli intervalli consonanti e discordanti
(e la conciliazione di elementi dissonanti della storia rappresenta il concetto
portante della profezia di Pd. XVII), descrive la dolcezza della polifonia con
parole sorprendentemente vicine a Pd. XVII 43-44: “viene ad orecchia / dolce
armonia da organo” (harmonia uniformiter suaviterque veniens ad auditum), e
menziona esplicitamente l’organum ai paragrafi 44 e 46. L’autore del Tractatus
insiste sulla simultaneità dei diversi suoni (in eodem tempore), il requisito della
polifonia, e anche questa dimensione di simultaneità è presente nel passo dantesco: ciò che Cacciaguida conosce del futuro, lo conosce perché ha il privilegio di vedere Dio, “il punto / a cui tutti li tempi son presenti” (Pd. XVII 17-18).
Ma pur volendo lasciare da parte queste coincidenze testuali, forse più
indiziarie che probanti, a dirimere la questione è in realtà il testo stesso di
Dante, che definisce Cacciaguida “fra i cantor del cielo artista” (Pd. XVIII 51),
riportando necessariamente sulla strada della lettura vocale della “dolce armonia da organo”.
La profezia di Cacciaguida rimane unica nel suo genere per essere la più
lunga del poema e la sola associata a una performance musicale. Per meglio
comprendere questa associazione converrà rifarsi alle proprietà intrinseche
della pratica polifonica, che può tempererare dissonanze e consonanze in uno
sviluppo sia diacronico che sincronico: quella di Cacciaguida è la nona e ultima profezia offerta al pellegrino sulla sua vicenda personale e si estende per
un numero di versi che è circa pari alla somma delle precedenti profezie. Posta
esattamente alla metà del viaggio fra le sfere celesti, questa visione chiarificatrice dell’avo di Dante rappresenta “the most important prognostication of
82 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
Dante’s personal involvement in the political affairs of his world” (ad loc.).
Come riconciliare la dolcezza paradisiaca di quest’organo con il suo contenuto
drammatico? Chiavacci Leonardi raccomanda di considerare l’intero messaggio della profezia di Cacciaguida, che si conclude con la predizione del trionfo
poetico di Dante sopra i nemici e le avversità, ciò che lo rende “tetragono ai
colpi di fortuna”. Infatti, per quanto amari possano apparire i travagli del suo
discendente, Cacciaguida sa che nello sviluppo della storia le vicende di Dante
saranno alla fine composte in armonia. Le asperità della vita terrena si risolvono e si temperano nell’armonia musicale (Chiappo 1994: 146). Il riferimento
all’armonia dell’organum in Dante ha la funzione di temperare il dolce con
l’amaro della storia: ecco perché la profezia è posta presso al passaggio dal belligerante cielo di Marte a quello misteriosamente giusto di Giove. Giacalone
nota che la dolcezza riguarda proprio il concetto di armonia: è solo mettendo
insieme (ἁρμόττω) tutte le parti della storia che se ne ottiene il senso compiuto,
e Cacciaguida, che legge in Dio il percorso totale della storia, questo senso lo
possiede già. Egli pertanto percepisce l’organo della storia come dolce perché lo conosce sub specie aeternitatis, mentre Dante lo percepirà come amaro
perché lo conoscerà prima sub specie temporis. E d’altronde, la metafora della
storia come quaderno (“La contingenza, che fuor del quaderno / de la vostra
matera non si stende, / tutta è dipinta nel cospetto etterno”, Pd. XVII 37-39)
che immediatamente precede il passo relativo all’organo, è di per sé una metafora “armonica”, non solo nel senso etimologico (il senso di un volume si può
leggere solo grazie alla sua corretta impaginazione), ma tale metafora è in linea
con quella espressa al culmine della visione divina, in cui l’universo è assimilato al libro che “si squaderna” per lasciarsi leggere (Pd. XXXIII 85-87). Senza
la visione d’insieme e la conciliazione della contingenza con la necessità, che
risiedono solo in Dio, non sarebbe possibile comprendere il significato della
storia. Se alla fine del poema, dunque, il cosmo diviene leggibile al pellegrino
come i quaderni rilegati di un volume, una pagina importantissima di tale volume è quella in cui Cacciaguida ha anticipato profeticamente le vicissitudini
future, “temprando col dolce l’acerbo” (Pd. XVIII 3), ove torna il lemma con
cui Dante adombra la polifonia vocale che accompagna la profezia, sancendone la sacralità e inverandola.
La duplice occorrenza del lemma temprare (Pd. XVIII 3 e 68; cfr. Heilbronn
1995: 267) è in linea con l’ambiente musicale della polifonia, sia essa di tipo
elementare o complesso, che risolve in una mistura armonica anche allegorica
i suoni diversi e le vicissitudini biografiche. Come dicevo in apertura di questo
saggio, sulla valenza del lemma tempra come parola chiave per la polifonia
vocale si è argomentato più volte anche recentemente (Cappuccio 2008: 159;
Ciabattoni 2010: 150), ma già Leo Spitzer (1963: 93, ancorché riferendosi a
Pg. XXX), commentando sul significato di tempra nella Commedia, ne indi-
Il dolce ruggito del tuono
Dante e l’arte 2, 2015 83
cava la valenza armonica che riflette “the polyphonic richness of the text”, e
Heilbronn (1995: 267) ci ricorda che, sebbene in Convivio II xiii 25 il temperamento del cielo di Giove fosse di natura termica, non si possono ignorare
le associazioni musicali che il lemma assume nella Commedia: Giove, il cielo
della giustizia in cui l’amaro si mescola col dolce, è la “temprata stella” (Pd.
XVIII 68) e la “dolce stella” (Pd. XVIII 115) poiché “justice is defined musically as consonance of the human with the divine will”.
Sin qui, il ruolo della polifonia nel mescolare il dolce con l’amaro delle
future vicissitudini del poeta, ciò che lo strumento a canne evocato in Pg. IX
non poteva realizzare, lasciando invece stridere crudamente il suono. E per
finire, ci si vuol domandare da dove nasca la necessità di esprimere la profezia
attraverso la polifonia vocale dell’organum. Esiste un sottile ma storicamente
provato collegamento tra profezia e musica. Per Isidoro del Lungo, che pure
non concorda sul significato vocale del termine, “organo e rivelazione hanno
del sacro ambedue: anche se dolce armonia e amarezza di predizioni ripugnano fra loro” (Commento a Pd. XVII 43-45) e si dovrà tener conto della lunga
tradizione, non solo ebraica, che associa la profezia alla musica: la produzione
di una profezia è spesso eseguita in forma di canto o accompagnata da uno
strumento perché essa acquisisce così maggior forza. Come ha recentemente
mostrato Jonathan L. Friedmann (2013: 123),
The Bible records numerous instances of prophets using music to receive
and/or deliver heavenly messages. In some cases, musical performances
helped stimulate or maintain a prophetic state, as with the procession of
instrument-playing prophets in 1 Samuel 10:5. Other times, prophets sang
their proclamations in poetic verses, employing musical tones to convey the
emotional content of their divine encounters. Singing prophets included
Isaiah, known for his songs of hope and praise (e.g., Isa. 12:1-6; 35:1-10;
40:1-31), and Ezekiel, a sweet singer and skilled player (Ezek. 33:32). As a
general rule, the early prophets employed music as an accompaniment to
divining and wonderworking, while the Latter (or “Literary”) prophets –
Isaiah, Jeremiah, Ezekiel, and the twelve Minor Prophets – voiced poetic
prophecies in a type of sung speech.
Friedmann mostra, sulla scorta di un precedente studio di Eric Werner e Isaiah Sonne, che l’associazione di profezia e musica ha lunga tradizione nei
testi sacri e che il legame musicale serve a distinguere la profezia dalla semplice produzione verbale. La musica, e nella fattispecie proprio la voce umana
dell’organum evocato da Cacciaguida, accentua il carattere trascendentale
della profezia, distingue la parola della semplice comunicazione linguistica dal
“verbo” (Pd. XVIII 3) profetico, portatore di verità future: la musica, dunque,
invera la profezia, conferendo all’atto verbale il tono di sacralità divinatrice.
84 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
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Dante e l’arte 2, 2015 87-102
Dante e la musica.
Lettera a Camille Bellaigue
Arrigo Boito
Riassunto
Pubblichiamo l’ampia e articolata lettera datata il 18 gennaio 1902 all’amico Camille Bellaigue nella quale Arrigo Boito si esprime sul rapporto tra Dante e la musica. Le riflessioni
del librettista ruotano intorno a due argomenti: il rapporto della musica con i personaggi e
il linguaggio dantesco e l’intrinseca musicalità dell’animo de dell’opera di Dante.
Parole chiave: Dante, musica, Arrigo Boito, Camille Bellaigue.
Abstract
We publish the long and articulated letter dated on 18 January 1902 to the friend Camille
Bellaigue in which Arrigo Boito reveals his relationship with Dante and music. The reflections of the librettist concern two main arguments: the relationship between music and
Dante’s characters and language and the intrinsic musicality of the essence of Dante’s opera.
Keywords: Dante, music, Arrigo Boito, Camille Bellaigue.
issn 2385-5355
88 Dante e l’arte 2, 2015
I
Arrigo Boito
Nota introduttiva*
nvitato dall’amico Camille Bellaigue1 a esprimersi sul rapporto tra Dante e
la musica, Arrigo Boito raccolse con entusiasmo la sollecitazione, inviandogli un’ampia e articolata lettera, datata 18 gennaio 1902. Il corrispondente stava
allora elaborando un saggio che sarebbe giunto a pubblicazione a distanza di
un anno sulla Revue de deux mondes (gennaio 1903, pp. 67-86), proprio con
il titolo “Dante et la musique” (Tintori 1986: 159-162). Poco tempo dopo e a
corollario del lavoro del critico francese, Adolfo Taddei pubblicherà Dante e
la musica. Di alcune melodie ispirate al poema dantesco. Aggiunta alle Considerazioni di C. Bellaigue (Taddei 1903).
La lettera di Boito ruota intorno a due aspetti della tematica prescelta
che il musicografo transalpino riprende ed esplicita con chiarezza all’inizio
del suo testo. Il primo, esteriore, consiste nel verificare quando e come la
musica si collega in qualche modo ai personaggi e al linguaggio dantesco. Il
secondo, più al cuore della questione, consiste nel cogliere l’intrinseca musicalità dell’animo e dell’opera di Dante. Da qui prende le mosse lo scritto di
Boito che, compiacendosi del progetto, è orgoglioso di offrire il suo contributo (“à vous servir de guide”) e sottolinea subito l’importanza della tematica,
dal momento che secondo lui Dante ha realizzato “la polifonia dell’idea”,
ossia una perfetta fusione di pensiero, parola e sentimento: quest’ultimo, cosiderato preminente, rappresenta “l’elemento musicale”. Partendo dalle osservazioni di Thomas Carlyle (On heroes, 1841), che indica nell’autore della
Commedia un inviato nel mondo per incarnare musicalmente la religione
del Medioevo e la vita interiore dell’Europa moderna, Bellaigue cita verbatim tutto l’esordio della missiva boitiana, dove trova preziosi suggerimenti
per approfondire l’essenza musicale del genio di Dante (pp. 71-74). Secondo Boito il poeta fiorentino compie con le parole il medesimo prodigio che
Bach e Mozart ottengono con le note, ma è più “divino” in quanto riesce
a superare i limiti della sua arte, realizzando una “visione sonora”.Bellaigue
dal canto suo rileva nella Commedia un rapporto costante tra fenomeni luminosi e sonori che col mescolarsi delle immagini fa talora sfociare la corrispondenza nell’identità. Secondo lo scrittore transalpino Dante aveva una
considerazione così alta della musica che non si riteneva degno di esprimerla, come quando racconta “voci / cantaron sì, che nol dirìa sermone” (Pg.
XII 110-111). Inoltre la fantasia di Dante, unita alla sua familiarità col mondo
dei musicisti (suggerita da Boccaccio e ripresa da Bellaigue in Taddei 1903:
*
Ringraziamo il collega Gerardo Guccini di averci segnalato l’esistenza di questa bella, interessante e un po’ dimenticata lettera di Arrigo Boito che calza perfettamente con il nostro
dossier poiché ne è un illustre precedente (N. R.).
1. Camille Bellaigue (1858-1930), noto musicografo francese, nel 1912 dedicò a Boito la sua
Biographie critique su Verdi.
Dante e la musica. Lettera a Camille Bellaigue
Dante e l’arte 2, 2015 89
74-75), proietta il lettore in avanti rispetto alla situazione del Trecento,
anticipando conquiste tecniche di epoche successive. Per il critico francese, ad
eccezione della sinfonia strumentale, non c’è nulla della musica moderna che
Dante non abbia preconizzato. Anche in questo caso lo spunto è fornito da
Boito, che nella parte conclusiva della lettera, ad esempio, sottolinea la carica
innovativa del prodigioso Osanna ripetuto “di coro in coro” (Pd. XVIII 94) con
un contrappunto di tre melodie (in Taddei 1903: 119-121), dettaglio impressionante se si pensa che all’epoca di Dante la polifonia stava muovendo i primi
passi e aldilà delle Alpi.Se, come osserva Boito, nell’Inferno la musica non ha
modo di rivelarsi, è perché, secondo Bellaigue, lì tutto è disordine (in Taddei
1903: 72), tuttavia nelle cantiche seguenti è ovunque, sino a diventare verso
la fine del poema l’essenza stessa dell’ambiente celeste, con un’efficacia che
nessuna musica reale (“eccezion fatta per Palestrina”) potrebbe avere.
La parte più cospicua della lettera è dedicata a un excursus nel quale la prospettiva critica principale s’interseca con la secondaria, ovvero l’esame dei passi
danteschi con concreti riferimenti al mondo della musica. Il padovano indica
l’inizio della “visione sonora” della Commedia nella monodia In exitu Israel
de Egypto. Il caos delle bestemmie infernali è superato nell’unisono di più “di
cento spirti” (Pg. II 45), dal quale la partitura della sinfonia dantesca prende le
mosse, per introdurre poco dopo il dolcissimo canto di Casella con la sua funzione catartica (“che mi solea quetar tutte mie voglie”, Pg. II 108). Questa come
altre intuizioni sono riprese e sviluppate da Bellaigue nel suo saggio: l’idea che
la musica dantesca non ha nulla di monotono ma è piena di effetti soprendenti, come l’“‘Oh!’ lungo e roco” (Pg. V 27) delle anime alla vista dell’ombra
del corpo vivo di Dante, da Boito paragonato alle improvvise sospensioni
di Beethoven; l’impiego del discanto nell’intonazione a due voci del Salve
Regina, dopo l’incontro con Sordello (Pg. VII 82, 112-113); l’immagine di una
mescolanza concertante di voci e strumenti (Pg. IX 141); la forza e la sublimità
religiosa del grido, unita al rombo del terremoto, con cui i penitenti vivono la
loro espiazione attraverso le parole del Gloria, intonate dagli angeli alla nascita
del Redentore (Pg. XX 124-138); i contrasti di timbri e tessiture alla fine di Pg.
XXV (121 sgg.); l’uso del termine bordone applicato alla sua reale funzione
(Pg. XXVIII 16-18); l’effetto di musicale dissolvenza al canto dell’Ave Maria di
Piccarda (Pd. III 121-123); la fascinazione per il “tin tin” dell’orologio (Pd. X
139-144); la già accennata trasposizione sensoriale che permette di avere un’impressione visiva del suono (Pd. II 142 sgg.). Infine Boito nota che a partire da
Pd. XXXI tutto diviene musica, dal momento che la natura delle sensazioni
di quell’estasi sovrumana non sono traducibili in termini poetici, e solo con
l’aiuto della grazia divina Dante riesce a non soccombere al celeste concerto.
Francesco Bissoli
Università Suor Benincasa di Napoli
90 Dante e l’arte 2, 2015
Arrigo Boito
18 - 1. Sermione.
Cher ami. Que de fois j’y ai songé! et comme je vous approuve d’avoir senti
cet admirable sujet!
Il ne s’est pas trouvé jusqu’ici, à travers six siècles de lecture, un lecteur de la
Divine Comédie assez musicien pour concevoir la beauté de ce thème et la
nécessité de la proclamer. Vous serez ce lecteur. Mais prenez garde: il a créé la
polyphonie de l’idée; ou, pour mieux dire, le sentiment, la pensée, la parole
s’incarnent chez lui si miraculeusement, que cette trinité ne fait plus qu’une
Unité, qu’un accord de trois sons parfait, où le sentiment (qui est l’élément
musical) domine.
La divination par laquelle il choisit la parole, la place que cette parole
occupe, les liens mystérieux avec les vocables, les rythmes, les assonances, les
rimes qui précèdent et qui suivent, tout ceci, et quelque chose de plus arcane
encore, donnent au tercet de Dante la valeur d’une véritable musique de musicien. Il opère avec les mots le mème prodige que votre divin Mozart et mon
divin J. S. Bach opéraient avec les notes, et de la mème manière. Mais Lui est
le plus divin: Mozart et Bach n’ont pas dépassé la région de leur art: Lui, il
est monté plus haut que la sienne. Il est plus divin qu’Homère, qu’Eschyle,
mème plus divin que Shakespeare!
Il a touché, il a franchi les limites de la connaissance. Confrontez ce qui
nous reste de la musique de son temps avec les formes qu’il a rêvées.
Dans votre élégant, illustre et singulier cénacle de musiciens in partibus
ce convive-là n’a pas de place. Il est trop grand. Un seul d’entre les vôtres est
digne de s’asseoir au pied de son lit triclinaire, c’est Léonard, ce Magicien qui
savait tout, lui aussi, et qui dépassait lui aussi les connaisances de son siècle
et presque du nôtre.
Mais j’ai tant de foi dans votre esprit de pénétration, que me voilà tout
prêt à vous servir de guide.
Je ne fais que vous introduire et vous donner des indications du bout du
doigt; vous êtes un latin de la meilleure race, et vous trouverez ensuite votre
chemin tout seul.
Voici:
Passons l’Enfer, la musique n’y a pas lieu. Dans le Purgatoire et dans le
Paradis elle circule partout, elle est le fond même de la vision, elle s’élève avec
elle dans l’air, dans l’éther, dans un ciel toujours plus sonore, dans une extase
toujours plus ravissante; vers la fin du poème on respire des sons et des chants
qui pénètrent jusqu’au fond de l’âme. Les notes réelles n’arriveront jamais
(sauf peut-être dans Palestrina) à atteindre la pure sublimité du rêve musical
dantesque.
Dante e la musica. Lettera a Camille Bellaigue
Dante e l’arte 2, 2015 91
Cette vision sonore commence au deuxième chant du Purgatoire, au pied
de la montée de pénitence, devant le tremolar de la marina, sous les feux de
l’aurore, dans une barque légère qui s’approche du rivage. Dans la barque sont
réunies des âmes fraîchement délivrées de la chair; un ange, debout, les pieds
sur la poupe, conduit la nacelle par la seule force du vol. Les nouvelles âmes
(une centaine, dit-il) qui conservent sous une forme éthérée l’image qu’elles
eurent pendant leur vie, chantent le psaume de la sortie d’exil:
In exitu Israel de Egypto
Cantavan tutti insieme ad una voce.
C’est par cet unisson que Dante ouvre la symphonie.
Un peu plus tard (dans le même chant) le doux Casella entonnera une
des plus douces chansons d’amour qui existent et dont le texte est de Dante
lui-même; vous la trouverez toute entière dans le IIIème traité du Convivio:
“Amor che ne la mente mi ragiona”
Cominciò elli allor sì dolcemente,
Che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Quelques vers avant ce tercet (lorsqu’il invite Casella à chanter) Dante luimême vous donne la mesure de sa propre sensibilité musicale:
...Se nuova legge non ti toglie
Memoria o uso a l’amoroso canto
Che mi solea quetar tutte mie voglie,
Di ciò ti piaccia consolare alquanto
L’anima mia...
La musique avait donc le pouvoir d’assouvìr et de calmer tous les désirs du
Poète. C’est la Katharsis bien connue des Grecs.
Chant IV
Ce qui suit ce n’est qu’un renseignement latéral, qui prouve que Dante
fréquentait non seulement les musiciens, mais toutes les personnes remarquables qui avaient quelques rapports avec la musique. Boccace lui-même le
témoigne: Dante sommamente si dilettò in suoni ed in canti nella sua giovinezza,
e ciascuno che a quei tempi era ottimo cantore e suonatore fu suo amico ed ebbe
sua usanza. Son amitié avec Belacqua ne doit pas vous étonner: ottimo Maestro
di cetere e di liuti. Vous portez son nom, mon cher Belle-aigue, et il vous sied,
car vous êtes clair et courant et vous donnez aux belles choses du ciel et de la
terre que vous réflectez, la vie du mouvement et de la couleur. Mais l’autre
Bellaigue n’était pas courant comme vous; ottimo Maestro di cetere e di liuti,
ma pigrissimo uomo. Coutinuons notre voyage musical.
92 Dante e l’arte 2, 2015
Arrigo Boito
Chant V
Il rencontre des gens qui s’approchent en chantant le ‘Miserere’ a verso a verso;
tout à coup ils aperçoivent l’ombre projectée du corps vivant de Dante et ils
interrompent le chant par une exclamation longue et sourde, d’étonnernent.
Mutar lo canto in un “Oh!” lungo e roco
Cela rappelle les interruptions abruptes et pittoresques des quatuors et des
symphonies de Beethoven. La chanson de Casella elle aussi est interrompue.
Chant VII
Après la rencontre de Sordello vous trouverez une autre forme musicale: elle
est à deux voix. C’est une prière: Salve Regina, chantée, dans une vallée fleurie, à l’heure crépusculaire, par Pierre III d’Aragon et Charles I Comte de
Provence.
Quel che par si membruto e che s’accorda,
Cantando, con colui dal maschio naso.
Le mot s’accorda fait penser au discantus.
Chant VIII
Et dans la suave mélancolie du soir, immédiatement après les deux premiers
tercets, que vous savez par coeur:
Era già l’ora, etc. etc.
nous rencontrons encore de la musique. Cette fois c’est une voix seule qui
ouvre le cantique et plusieurs qui la suivent. Il y a là plusieurs vers dignes de
remarque à notre point de vue, d’admiration, toujours.
Quand’io incominciai a render vano
L’udire ...
Le chant religieux du Salve Regina était arrivé à sa fin. Le sens de l’ouïe était
donc devenu inutile, puisque toute musique avait cessé. A quoi servirait l’oreille,
si la musique n’existait pas?!
Mais voilà qu’elle recommence. Une âme s’est levée, les mains jointes vers
l’orient.
‘Te lucis ante’ si devotamente
Le uscìo di bocca e con sì dolci note,
Che fece me a me uscir di mente.
(Voici encore la Katharsis, le ravissement musical.)
E l’altre poi dolcemente e devote
Seguitar lei per tutto l’inno intero ...
Dante e la musica. Lettera a Camille Bellaigue
Dante e l’arte 2, 2015 93
Et toutes les autres âmes continuèrent l’hymne tout entier. L’hymne Te lucis
ante appartient aux complies que l’Eglise chante après vêpres.
Voulez-vous que je vous dise les noms des chantres?
Philippe III le Hardi, Roi de France,
Rudolph d’Autriche,
Ottokar roi de Bohème,
Vinceslas son fils,
Henry, Comte de Champagne,
Alphonse d’Aragon et son père Pierre III,
Henry III d’Angleterre,
Guillaume, Marquis de Monferrat,
et encore Charles I, Comte de Provence.
Effet de voix et d’instruments:
... ‘Te Deum laudamus’ mi parea
Udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
Ciò ch’io udiva, qual prender si suole
Quando a cantar con organi si stea,
Ch’or sì, or no s’ intendon le parole.
Cette observation prouve quil avait l’oreille très attentive et bien dressée à
l’analyse des timbres et des masses sonores.
Chant XII
À partir de ce point de la Symphonie dantesque commence la musique des
Béatitudes.
Lisez depuis: ‘Beati pauperes spiritu’ jusqu’à la fin du tercet suivant.
Chant XIII
Encore un effet phonique des plus surprenants et qui va se répéter au moins
vingt fois: des voix passent dans l’air, traversent l’espace comme des flèches
invisibles. Lisez depuis le 25me vers jusqu’au 30me.
Et maintenant du bout du doigt, car le voyage est long.
Chant XIV
Vers 130-139
Encore les voix ailées,
Chant XV
‘Beati misericordes!’
Chant XVI
Vers 16-21
Encore un unisson:
94 Dante e l’arte 2, 2015
Arrigo Boito
Una parola in tutte era ed un modo.
‘Beati pacifici.’
Chant XVII
Chant XIX
Vers 19-25
Le chant de la sirène.
(Musique entendue en rève.)
Voyez dans le mème chant un effet de paroles et de soupirs.
‘Adhesit pavimento anima mea.’
Si cette allégorie vous intrigue, sachez ce que j’en pense: La vieille femme
(plus loin il l’appelle ancienne sorcière) aux pieds tordus, aux yeux qui louchent, balbutiante et manchotte, est la Paresse; elle se métamorphose en Sirène
(Luxure), elle est détruite alors par una donna santa e presta: l’Activité.
Chant XX
Vers 125-137
Et voici un Gloria in excelsis dans des conditions bien extraordinaires. Il est
crié, il n’est pas chanté, il est crié par les pénitents dans un éclat de joie (car
une âme a été délivrée du Purgatoire) tandis que la montagne toute entière
tremble secouée comme par un excès d’allégresse.
Chant XXIII
Vers 10-15
Chants et larmes
C’est une antienne de la première époque. Je puise ma science au puits clair
et profond de ce grand Gevaert que j’admire. Je veux vous transcrire quelques
notes de cette antienne pour vous les faire entendre (pardonnez-moi les ratures, j’écris très vite) telles que Dante les entendit.
Je m’aperçois d’avoir mis une ligne de plus à la portée.
Qu’à cela ne tienne, je traduirai en notation profane:
Chant XXV
Mais voici un véritable plan musical. Lisez depuis le vers 120 jusqu’à la fin du
chant, notez les contrastes des couleurs et des tessitures et surtout la coupe du
morceau.
Tout ceci est chanté par les sensuels au milieu des flammes.
Nota bene:
Dante e la musica. Lettera a Camille Bellaigue
Dante e l’arte 2, 2015 95
.
.
.
.
.
.
.
.
Appresso il fine ch’ a quell’inno fassi,
Gridavano alto: ‘Virum non cognosco’;
Indi ricominciavan l’inno bassi.
Finitolo anca, gridavano: “Al bosco
Si tenne Diana, ed Elice caccionne
Che di Venere avea sentito il tosco”.
Indi al cantar tornavano ...
Nous avons ici sous les yeux, si je ne me trompe, une structure musicale d’une
hardiesse admirable, conçue par un véritable musicien et très approfondi dans
l’étude des formes, par un musicien comme il n’y en avait pas encore de son
temps, comme il n’y en a plus aujourd’hui.
La suite de l’hymne est un peu anatomique. La voici:
Quo corde puro sordibus
te perfruamur largius,
qui lumbos, jecur morbidum
aduret igni congruo.
‘Beati mundo corde!’
Chant XXVII
In voce, assai più che la nostra, viva.
.
.
.
.
.
.
.
.
‘Venite, benedicti Patris mei!’
Sonò dentro a un lume ...
et voici le texte musical très authentique:
J’oublie le Chant XXVI et mon adorable Arnaldo Daniello, une flamme
chantante:
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan ...
Chant XXVIII
Vers 43-49
La chanson de Matelda
Il la prie d’approcher de lui, car il désire bien entendre ce qu’elle chante. Avant
la chanson de Matelda (16-18) nous trouvons le terme bordone appliqué à sa
96 Dante e l’arte 2, 2015
Arrigo Boito
véritable fonction de pédale. Or les notices qui nous sont parvenues du faux
bourdon, sont (si je ne me trompe) quelque peu postérieures à Dante.
Chant XXIX
Elle chante encore et come donna innamorata.
Et les chants se suivent jusqu’à la fin du Purgatoire, dans le printemps
éternel du jardin deliciarum.
C’est d’abord un Osanna (vers 50) chanté par une théorie d’anges et de
Saints et de figures symboliques. Ici la danse accompagne le cantique (121).
Chant XXX
Une voix: ‘Veni, sponsa, de Libano’.
Les autres voix: ‘Benedictus qui venis!’
Et un vers de Virgile:
‘Manibus o date lilia plenis’
est accueilli au milieu des cantiques sacrés.
Lisez, lisez depuis le vers 80 jusqu’au vers 99.
Après la sévère réprimande de Béatrix, le saisissement et la honte le glacent,
il ne peut pas pleurer. Mais le chant des anges résonne : ‘In te, Domine, speravi’, et avant qu’ils arrivent aux mots: pedes meos (lisez le psaume XXX, 1-9), il
fond en larmes.
Chant XXXI
Vers 97-99
Chant XXXII
Vers 61-69
Toujours de la musique. Cette fois elle produit sur lui un assoupissement
extatique.
Chant XXXIII
Vers 1 et suivants
Le programme musical du Purgatoire finit, avec ce dernier chant, par une
psalmodie à trois voix d’un côté, à quatre voix de l’autre, alternativement.
C’est un chant de douleur, dans lequel Béatrix intervient. Lisez le Ps
LXXVIII.
Et nous voilà arrivés alla dolce sinfonia di Paradiso.
Chant III
Elle commence dans la pâleur de la lune: c’est une vision vaporeuse de l’oeil et
de l’oreille à la fois, une Ave Maria dont le son s’efface avec la vision, dans un
diminuendo de rêve: piano, dim., p, pp, ppp…, pppp, plus rien.
Dante e la musica. Lettera a Camille Bellaigue
Dante e l’arte 2, 2015 97
... e poi cominciò: ‘Ave
Maria’, cantando, e cantando vanìo
Come per acqua cupa cosa grave.
Chant VII
Osanna de Justinien
Chant VIII
Vers 28-30
Encore un Osanna. Cette fois c’est un Choeur à plusieurs parties, mêlé d’évolutions d’âmes rayonnantes. Cette espèce de contrepoint qu’aujourd’hui en
Italie nous appelons oblique, est ici très exactement observée et décrite:
E come in voce voce si discerne,
Quand’una è ferma e l’altra va e riede.
Chant IX
C’est le chant des âmes. Nous sommes dans la planète Vénus. Il rencontre
encore un célèbre trouvère: Folchetto de Marseille, il quale trovò coble, sirventesi ed altri diri in rima. Et autres dires rimés, c’est comme cela que l’Ottimo, un des plus anciens glossaires, s’exprime. La voix de Folchetto réjouit les
bienheureux:
... la voce tua, che ’ l ciel trastulla.
Chant X
Un choeur en cercle
Même chant, depuis 139 jusqu’à la fin.
Effet de carillon et d’horlogerie comme mouvement et comme son:
Tin tin sonando con sì dolce nota,
Che ’l ben disposto spirto d’amor turge.
(Lisez tin tin à l’italienne, non pas à la française.)
Est-ce assez primitif! C’est puéril et touchant par sa puérilité. La machine
de l’horloge l’intrigue et le séduit; découvert trois siècles avant, par un moine
magicien qui fut pape sous le nom, si je ne me trompe, de Silvestre II, ce
mécanisme mystérieux, ce rouage qui marche, qui vit et qui sonne, devait
conserver pour lui et pour ses contemporains un peu de la puissance magique
de son inventeur. C’est la deuxième fois qu’il en parle.
Chant XII
Choeur et danse en cercle
Vers 1-9
Vers 22-25
98 Dante e l’arte 2, 2015
Arrigo Boito
Chant XIII
Vers 1-30
Double choeur et double danse en cercle.
Chant XIV
Vers 117-122
Comparaison musicale tirée de la harpe. Il n’entend pas les paroles du cantique, mais il en subit le charme.
Che mi rapiva, sanza intender l’inno.
Chant XIX
Vers 19-21
Unisson. Un choeur d’âmes lumineuses distribué choréographiquement en
forme d’aigle avec les ailes ouvertes.
Admirable comparaison:
Così un sol calor di molte brage
Si fa sentir, come di molti amori
Usciva solo un suon di quella image.
Chant XX
Vers 10-12
et quelques vers après on trouve une très exacte démonstration acoustique.
Ce chant finit avec une autre comparaison musicale remarquable. Lisez
142-144.
Chant XXI
Il faut connaître un admirable détail. A mesure que l’ascension du Poète (et
de Béatrix qui le guide) s’approche à Dieu, la beauté de Béatrix augmente.
Maintenant ils sont dans le ciel de Saturne, et Béatrix, qui avait souri plusieurs
fois en traversant des cieux moins sublimes, s’interdit maintenant le sourire:
car si je riais, dit-elle, il serait de toi ce qui fut de Sémélé lorsqu’elle tomba en
cendre (pardonnez, je sens que je m’exprime très mal; je suis un peu fatigué).
Or, Dante s’aperçoit que dans le ciel de Saturne toute musique est disparue,
et il en demande la cause:
“... E di’ perchè si tace in questa rota
La dolce sinfonia di paradiso,
Che giù per l’altre suona sì divota.”
“Tu hai l’udir mortai sì come il viso”,
Rispuose a me,
(C’est Pierre Damien qui lui répond)
“onde qui non si canta
Per quel che Beatrice non ha riso ...”
Dante e la musica. Lettera a Camille Bellaigue
Dante e l’arte 2, 2015 99
Avez-vous saisi? Pour la même raison qui empèche Béatrix de sourire, nous
nous interdisons de chanter, car ton oreille est mortelle comme tes yeux.
Chant XXIII
La grâce divine vient à son aide et il peut supporter l’extase de la musique
céleste sans mourir.
Mélodie circulaire
Vers 93-129
À une seule voix (l’ange Gabriel) le choeur des bienheureux termine la mélodie avec le nom de Maria.
Chant XXIV
Vers 19-27
Vers 151 - dernier tercet.
Chant XXV
‘Sperent in te’
Vers 98-99
Chant XXVI
Sanctus
Vers 67-69
Chant XXVII
Vers 1-6
Chant XXVIII
Io sentiva osannar di coro in coro.
Ce n’est certes pas la musique réelle de son temps, qui lui aura donné cette
grandiose idée d’un Osanna répété di coro in coro.
Mais toute cette vision outrepasse la puissance de I’imagination humaine.
On découvre dans les vers 119 et 120 et 121 que cet Osanna prodigieux est
formé par trois mélodies.
(La polyphonie était à peine découverte en France; son admirable développement sur le sol floréal de la Hollande date de 1350; sa transplantation en
Italie date du retour de la cour papale d’Avignon.)
Chant XXXI
À partir de ce point tout devient musique; je veux dire, que la nature des
sensations que l’on reçoit de cette transcendentalité surhumaine est si prodigieusement émouvante, quelle n’appartient plus à la Poésie mais à la Musique,
c’est-a-dire à un art plus divin. Il faut pleurer d’admiration.
Chant XXXII
Le cercle revient à son point de départ. La dolce sinfonia di Paradiso se termine là où elle avait commencé, par un Ave Maria; mais cette fois ce n’est plus
100 Dante e l’arte 2, 2015
Arrigo Boito
dans les pâles vapeurs de la lune, mais dans la gloire de l’Empyrée, qu’elle
résonne.
L’Archange Gabriel (qui donc sinon lui?) l’entonne, et toutes les Hiérarchies répondent. C’est la cadence!
J’ai presque tout indiqué, ou, du moins, les points les plus importants.
Faites là-dessus votre chef d’oeuvre. Vous ajouterez à la gloire de Dante un
rayon, que l’on ne soupçonne pas et qui réjaillira sur vous.
Vous trouverez dans Coussemaker (L’art harmonique au XIIème et au
XIIIème siècles) des notices historiques précieuses, mais il faut chercher aussi
dans le XIVème car notre musicien vécut 35 ans de l’un et 21 ans de l’autre.
Cherchez dans la Vita Nuova, je ne l’ai pas avec moi, et dans le Convivio (non plus), choisissez parmi les nombreuses biographies anciennes celle
du Boccace et, parmi les modernes, encore plus nombreuses, celle de Cesare
Balbo.
J’espère ne pas avoir agrandi le sujet, car il est impossible d’agrandir
Dante. Si j’avais eu du temps et des livres, j’aurais pu offrir à votre travail une
préparation plus complète.
Mes salutations à Madonna. Pace e Gioia sur tout le septuor. Je dois à votre
Grillparzer, à Mozart, à Scarlatti une heure d’agréable et instructive distraction. Merci.
Je vous serre la main.
Votre aff.nné arrigo boito
P. S. J’ajoute une indication.
Lisez: Canto 17mo del Paradiso, versi 43, 44, 45. Au commencement de sa
prédication, le trisaïeul de Dante, Cacciaguida, dit:
...sì come viene ad orecchia
Dolce armonia da organo, mi vene
A vista il tempo che ti s’apparecchia.
C’est clair et facile à comprendre, mais ce que je veux dire est difficile à exprimer. Comparez ce passage à l’autre du XXème chant (vers 142 jusqu’à la
fin), où il compare la palpitation des âmes flamboyantes, qui forment l’aigle
lumineux, à l’accompagnement d’un bon joueur de cithare. Après avoir
vérifié, suivez-moi. Il suffirait d’une seule de ces citations (et il y a d’autres
exemples encore) pour prouver que Dante subissait parfois une sorte de transposition sensoriale, phénomène bien connu par les physiologues modernes;
il avait, parfois, une impression visuelle de la musique (non pas sous la forme
de la notation ou de la couleur) mais comme d’un dessin linéaire et mouvant
qui pouvait même acquérir la signification d’un symbole. Pour m’expliquer
davantage, je dirai qu’il voyait l’évolution des sons comme nous voyons les
Dante e la musica. Lettera a Camille Bellaigue
Dante e l’arte 2, 2015 101
phosphènes, dans nos yeux fermés, quand nous comprimons les orbites, ou
comme nous voyons les dessins des notes sur la plaque métallique (je cherche
le nom de l’inventeur) saupoudrée de graines de lycopode.
Je conçois qu’un grand ornemaniste de l’orchestre polyphonique moderne,
Wagner, Saint-Saëns, puisse, en composant, subir ce phénomène; c’est un
signe un peu morbide, et noble à la fois, d’une civilisation musicale raffinée,
mais dans un homme du treizième siècle cela me parait bien étonnant.
Je ne voudrais plus finir, mais j’ai fini. Et maintenant donnez-moi la
joie de vous lire. Je vous donne quatre mois pour étudier votre sujet et pour
l’écrire.
Adieu. Je vous embrasse.
a. b.
P. S. Ne vous donnez pas la peine de chercher les deux biographies; j ‘écrirai
demain à mon libraire à Milan, en lui donnant votre adresse; il les cherchera
et vous les expédiera.
a. b.
Bibliografia
Taddei, A., 1903, Dante e la musica. Di alcune melodie ispirate al poema dantesco.
Aggiunta alle considerazioni di C. Bellaigue, Livorno, Tip. Giusti.
Tintori, G., 1986, “Il carteggio completo Boito-Bellaigue del Museo Teatrale alla
Scala”, in Id. (a cura di), Arrigo Boito musicista e letterato, Milano, Nuove Edizioni,
pp. 153-179.
Dante e l’arte 2, 2015 103-126
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Antonio Rostagno
Università di Roma “La Sapienza”
[email protected]
Riassunto
Viene ripercorso il rapporto di Giuseppe Verdi con alcuni testi a vario titolo collegati
a Dante, dalla vicenda della sua prima opera, Oberto conte di S. Bonifacio dove appare
Cunizza da Romano, attraverso altre composizioni da concerto, fino alle Laudi alla Vergine
Maria sulla preghiera di San Bernardo, da Paradiso XXXIII. Vengono portate alcune nuove
documentazioni e proposte alcune nuove interpretazioni.
Parole chiave: Verdi, Dante, Italia, Madrigalismo.
Abstract
The relationship of Giuseppe Verdi with several texts by Dante is well known, from the
history of his first opera, Oberto conte di S. Bonifacio in which Cunizza da Romano appears,
to other concert compositions, above all Laudi alla Vergine Maria, San Bernardo’s prayer
in Paradise XXXIII. This paper contributes with new documents and proposals for a new
interpretation.
Keywords: Verdi, Dante, Italia, Madrigalism.
issn 2385-5355
104 Dante e l’arte 2, 2015
I
Antonio Rostagno
I
l rapporto di Giuseppe Verdi con la poesia di Dante è assai lungo, tanto da
coprire quasi tutta la sua vita compositiva, sia pur con larghissime pause.
Forse soltanto verso Manzoni e Goethe possiamo registrare un tanto precoce
interessamento da parte di Verdi: di Manzoni infatti ancor prima del debutto
operistico pone in musica alcuni cori dalle due tragedie e Il cinque maggio,
poi nel 1858 come omaggio all’amico napoletano Melchiorre Delfico scrive
una breve lirica sulla terza strofa del coro che descrive la morte di Ermengarda nell’Adelchi, “Sgombra o gentil dall’ansia”.1 Di Goethe utilizza due traduzioni per altrettante liriche da camera pubblicate nel 1838 dall’editore Canti
di Milano: Perduta ho la pace2 e Deh, pietoso, oh addolorata,3 testi entrambi
provenienti dal personaggio di Gretchen dal Faust, nella traduzione italiana (non eccelsa) di Luigi Balestra. Nonostante la loro semplicità musicale,
sono due liriche importanti non solo perché anticipano alcuni incisi melodici
poi confluiti nelle opere più mature, ma soprattutto perché affrontano per
la prima volta un tema che accompagnerà Verdi molto a lungo: il tema dell’
“eterno femmineo”, quell’ewig Weibliche per cui a Goethe (dichiaratamente,
pur differenziandosene) non era estranea la memoria dei canti conclusivi della
Commedia dantesca.
Sin dai primissimi anni, quindi, si chiarisce questa costellazione di rimandi
culturali, che testimoniano come Verdi abbia assimilato già durante la formazione i grandi esempi della letteratura europea, condividendo quindi un’educazione culturale solitamente riservata ai letterati più che ai musicisti. Dante
costituisce poi per Verdi, come per Donizetti, un modello e un esempio di
letteratura nazionale e di altissimo prestigio, a cui essi guarderanno non come
a un serbatoio di situazioni, vicende, personaggi o testi da musicare, ma come
un esempio di impegno e dignità artistica.
1. La prima apparizione di un personaggio legato alla Commedia nel teatro di
Verdi avviene già nella sua prima opera, Oberto conte di S. Bonifacio (1839): il
personaggio di Cuniza, l’antagonista femminile dell’opera, proviene infatti da
1. L’interessante relazione di Verdi con Manzoni, per cui nutriva una fanatica ammirazione, è
descritta da Ortombina 1992. E a questo studio si rimanda per ulteriori notizie e riferimenti
documentari relativi alle composizioni giovanili a cui qui faccio riferimento, composizioni
che probabilmente sono ancora conservate dagli eredi a Villa Verdi a Sant’Agata, ma delle
quali non si ha altre notizie che alcuni brevi accenni nella corrispondenza verdiana, puntualmente ricostruita da Ortombina.
2. È la traduzione italiana della canzone di Gretchen “Meine Ruh ist hin” dal Faust (Gretchen
Stube, vv. 3374-3413), che anche Schubert (Gretchen am Spinnarade, op. 2, D118), Wagner e
altri hanno posto in musica.
3. È la preghiera davanti alla Mater dolorosa in cui Goethe scrive un liberissimo adattamento
tedesco dello Stabat Mater di Jacopone (Faust, Zwinger, vv. 3587-3619); Schumann ne offre
una sublime intonazione nelle Faustscenen aus Goethes Faust, parte prima, seconda sezione.
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 105
Paradiso IX 13-66. È vero che la geometria drammatica e lo sviluppo della vicenda hanno un collegamento solo parziale con la figura che nella Commedia
parla a Dante e Beatrice, e che la vicenda portata in scena da Verdi è in larga
parte frutto di invenzione:4 non si parla della storia del rapimento di Cunizza
(nella grafia geminata, il libretto di Verdi opta invece per la lezione scempia);5
non compaiono né Sordello, altro personaggio dantesco che entrerà nel melodramma italiano dell’Ottocento,6 né Ezzelino; non si fa riferimento al suo
triplice matrimonio né alla fama di donna spregiudicata, forse proprio per
avvicinarsi alla figura celestiale che Dante tratteggia. Cunizza da Romano non
è figura marginale nella Commedia; collocata fra gli Spiriti amanti nel terzo
cielo di Venere, la sua luce attira Dante:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d’esta stella
(Pd. IX, 32-33),
cui segue la profezia sulla Marca Trevigiana e su Feltre:
Piangerà Feltro ancora la difalta
de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
sì, che per simil non s’entrò in malta.
(Pd. IX, 52-54)
Oltre al citato Sordello, Dante aveva incontrato anche Ezzelino III, lo spietato
fratello di Cunizza (che Verdi tuttavia non porta in scena), fra i violenti contro
il prossimo, nel primo girone del settimo cerchio dell’Inferno (If. XII 109-110).
Il personaggio storico di Cunizza da Romano (1190-1279) è passato alla storia
4. Si potrebbe perciò pensare che la figura dantesca e l’eroina verdiana non possano essere
identificate; ma se così ragionassimo, anche la Pia de’ Tolomei e la Francesca da Polenta,
figure che hanno avuto molteplici intonazioni da parte dei compositori italiani, non sarebbero ascrivibili al modello di Dante. Il libretto di Cammarano per l’omonima opera di
Donizetti infatti non deriva dai pochi versi di Pg. V 130-136; al contrario, il personaggio
donizettiano come le altre Pie del melodramma italiano medio-ottocentesco derivano dal
romanzo di Bartolomeo Sestini (1822), dal dramma di Giacinto Bianco (1836) o da quello
di Carlo Marenco (1838). Similmente il libretto della Francesca da Rimini di Felice Romani
(poi utilizzato da diversi compositori) proviene dal dramma di Silvio Pellico più che dal
modello poetico di Inferno V. Eppure è comune convinzione, pienamente condivisibile, che
la fortuna di queste figure nell’Ottocento debba essere posta in relazione con l’evidentissimo
movimento di interesse per Dante caratteristico dell’intera cultura romantica italiana, non
solo del melodramma. Data questa situazione, non si ritiene necessaria altra cautela nell’indicare la discendenza, sia pur indiretta, della Cuniza dell’Oberto dalla suggestione dantesca.
5. Non entriamo qui nel problema dell’attribuzione del primo libretto di Verdi, nel quale il
ruolo di Antonio Piazza e quello di Temistocle Solera non sono del tutto chiariti; la bibliografia è ampia e si rimanda alla voce curata da Ottomano 2013, con sintetici riferimenti
bibliografici.
6. Sordello. Opera in quattro atti, libretto di Temistocle Solera, musica di Antonio Buzzi,
Milano, Teatro alla Scala, Carnevale/Quaresima 1856-57 [Milano, Pirola, 1856]; come ci si
può aspettare, il libretto reca nel frontespizio una breve citazione da Pg. VI 74-75 (“… Io
son Sordello / della tua terra”).
106 Dante e l’arte 2, 2015
Antonio Rostagno
come donna diabolica, assetata di potere, sanguinaria e soprattutto libertina; è
probabile che nella parte finale della vita Cunizza avesse subito un pentimento
e dal 1265 al 1279 potrebbe aver vissuto a Firenze, dedita a opere pie, dove
Dante stesso avrebbe potuto conoscerla. La scelta di Dante di inserirla nel Paradiso ha destato a lungo incertezze di interpretazione. Già nel Discorso (capp.
XLVI-XVLII) Ugo Foscolo (1825: 229-231) aveva giustificato la sua presenza
con motivazioni politiche anti-guelfe (Foscolo è spesso incline a credere che le
scelte di Dante siano motivate di anno in anno dalle vicende contingenti, e il
caso di Cunizza sarebbe una di queste).
Nell’opera di Verdi, Cuniza (mezzo-soprano) è il vero personaggio positivo, protagonistico; è l’unica che, come accadrà ai suoi eroi della maturità,
compie una scelta, e questa scelta non è motivata dall’utilitarismo individualistico, ma dal fine di ottenere il bene altrui, secondo i principi del liberalismo
etico ottocentesco condiviso da Verdi. Cuniza infatti sceglie di rinunciare al
promesso sposo Riccardo (tenore) quando apprende di un suo precedente
impegno con Leonora (soprano), figlia del proscritto Oberto (basso), e agisce
per realizzare questa scelta di sacrificio del proprio bene personale a favore di
una giusta causa. Non desta quindi sorpresa il fatto che Verdi abbia lavorato
molto sulla sua parte; nei due anni che seguirono la prima milanese rielaborò
molte delle parti dove Cuniza è coinvolta: una nuova aria, un nuovo duetto
con il tenore, ma soprattutto un duetto che compare nell’autografo, ma non
nella versione definitiva, con la antagonista Leonora, nel quale Verdi traduce il senso della compassione di Cuniza, che porta le due donne non solo a
comprendersi, ma persino ad abbracciarsi, riconoscendo la propria comune
posizione di vittime della situazione (Budden 1992: 43-67, partic. 65-67).
Non occorre qui riassumere la vicenda, sia però sufficiente ricordare che
Verdi ne fa un’eroina positiva, e in lei rappresenta il tema del perdono, già
caro a Donizetti (Marin Faliero, Maria Stuarda, Pia de’ Tolomei ecc.), di ovvia
ascendenza manzoniana (soprattutto il Carmagnola, ma è tema radicato nella
morale giansenista). Occorre però ricordare che Verdi è all’inizio della carriera
e non ha ancora l’autorità per imporre ai librettisti le sue opinioni drammaturgiche; la scelta del personaggio dantesco quindi è più una casualità che una deliberata intenzione. Ma non per questo tale scelta sembra meno significativa.
Rimane sorprendente come già in questo primo dramma Verdi abbia utilizzato l’ispirazione dantesca (e non è importante il fatto che il giovane Verdi
non avesse ancora influenza sulla stesura del libretto; importante è invece che
la sua ispirazione musicale si concentri su questa figura per realizzare un personaggio già completo). E ugualmente degno di nota è che la Cuniza del
1839 già lasci intravedere il processo di nobilitazione morale del personaggio
attraverso sofferenze e sacrifici, come sarà di molti futuri protagonisti verdiani, soprattutto femminili. Questo lascia intendere che lo stesso Verdi, come
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 107
Goethe, vede nella donna dantesca un simbolo di redenzione collettiva da
parte dell’elemento femminile; vede in altri termini un tema analogo all’ewig
Weibliche goethiano, dove la lettura sotto l’ottica del personaggio dantesco
costituisce l’inizio di un lungo percorso.
2. Dal 1842 Verdi imbocca la via dell’impegno politico-civile; in modo esplicito a partire da Ernani, il primo libretto per cui ha una certa libertà di scelta
e sul quale può intervenire già nella fase preparatoria,7 Verdi predilige argomenti di più decisa avanguardia, volgendo attenzione a figure di ribelli create
da Victor Hugo o da Byron, o a personaggi e situazioni di maggiore impegno
come Attila o Giovanna d’Arco, o infine a tipi umani estremi come Macbeth.
Da questo momento, e così sarà per lunghi anni, l’urgenza del messaggio lascia spazio nel teatro verdiano per più approfondite meditazioni su personaggi danteschi. Nello stesso tempo, indipendentemente da Verdi, si avvia nella
romanza italiana più di consumo la voga di utilizzare testi danteschi ma non
tratti dalla Commedia. La romanza italiana fra anni Quaranta e fine secolo
predilige testi del Dante più prossimi al modello stilnovista, il Dante di alcuni
punti della Vita nuova; in particolare si registra una profusione di intonazioni sul sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare. Verdi è del tutto immune da
questa moda, poiché si tratta davvero di una moda, contagiosa e persistente,
che giunge fino al Novecento.8 Non è scopo di questo scritto stilare un elenco
completo delle intonazioni dantesche, basti indicare come nello stesso Ottocento, a partire da anni precedenti il debutto di Verdi e fino alla fine della
sua vita creativa, in termini numerici le composizioni su testi o ispirate a testi
danteschi aumentano continuamente. Ma i musicisti sembrano considerare
solo una ristrettissima selezione di estratti: oltre a quelli già indicati, basti
qui ricordare l’episodio di Paolo e Francesca, il brevissimo della Pia (che però
entra nella musica attraverso la tragedia in versi di Carlo Marenco, non per
i pochi versi che Dante le riserva), Ugolino, il Pater noster del canto XI del
Purgatorio, più sporadicamente Per una ghirlandetta e poco altro.
7. È da tempo noto il carteggio con il librettista Francesco Maria Piave (la pubblicazione più
completa è in Conati 1983), al quale Verdi può imporre scelte di situazione, di versificazione,
di taglio delle scene, insomma di drammaturgia, in modo molto più incisivo di quanto
potesse fare con Temistocle Solera. E ciò avviene sin dalla scelta del soggetto: è vero che la
proposta iniziale giunge dalla Presidenza del teatro La Fenice di Venezia, per cui Verdi scrive
l’opera, ma è Verdi stesso che, dopo avere scartato almeno due precedenti proposte, accoglie
con entusiasmo l’idea dell’Hernani. Nei quattro precedenti suoi titoli (Oberto, Un giorno
di regno, Nabucodonosor, I Lombardi alla prima crociata) Verdi aveva solo preso il libretto
finito impostogli dall’impresario milanese Lanari, secondo la prassi di quegli anni.
8. Un parziale catalogo della musica a vario titolo legata a Dante si trova in Roglieri 2000; più
recente è poi Roglieri 2012. Qualche commento ad alcune liriche italiane su testi danteschi
è poi in Frantellizzi 2011.
108 Dante e l’arte 2, 2015
Antonio Rostagno
Perché Verdi torni a Dante occorre attendere assai a lungo, e non sarà nel
campo del melodramma, ma in quello della musica da concerto. Saltiamo
infatti dal 1839 al 1880, quarant’anni che hanno profondamente modificato
la lettura di Dante da parte dei commentatori italiani, ma soprattutto hanno
modificato l’assetto sociale e culturale nel contesto nazionale. L’immagine
di Dante non è più quella di Foscolo e Mazzini, monumento di idealità, la
cui levatura artistica non è riconosciuta primariamente nella perfezione del
verso, della forma poetica, quanto nella profondità del pensiero tanto politico
quanto filosofico. Nella Nuova Italia a partire dal 1860 molto è cambiato, e
Verdi come Dante sono ora due personaggi simbolici, nella figura, fama e
interpretazione dei quali sono intervenute altre motivazioni e altri contenuti
collettivamente condivisi.
È in questo mutato clima che Verdi decide di porre in musica due testi
sacri, due preghiere che egli crede “volgarizzate” da Dante, ossia da lui tradotte dal latino. Si tratta della Ave Maria per soprano e archi e del Pater noster
per coro a cinque voci a cappella (prima esecuzione: Milano, La Scala, 1880).
Oggi sappiamo bene che nessuno dei due testi è dantesco, e avrebbe dovuto
saperlo anche Verdi dato che entrambe le attribuzioni erano state da tempo
chiarite. Ma per ognuno di essi è facile ricostruire i motivi di questa errata
attribuzione a lungo vigente, e forse anche individuare le fonti da cui Verdi
attinse il testo musicato, trasmettendo al grosso pubblico ancora per decenni
la vecchia attribuzione nonostante il chiarimento dei filologi. Concentreremo
qui l’attenzione sulla Ave Maria, poiché lo stesso testo sempre con attribuzione
dantesca era già stato utilizzato da Donizetti e tornerà a fine secolo ad essere
impiegato anche da Riccardo Zandonai.9
Donizetti aveva incontrato questa “volgarizzazione” di Dante al termine
della sua carriera compositiva, nel 1844, quando era Maestro della Camera
di S. M. l’Imperatore d’Asburgo (Hofkapellmeister) a Vienna. L’incarico prevedeva che il compositore scrivesse anche musica per funzioni religiose, ed
è in questa produzione che troviamo una Ave Maria, offertorio per Soprano,
Contralto e Archi. La breve composizione fu eseguita a Vienna nei “Concerti
Spirituali della Settimana Santa” dello stesso 1844; non ho potuto accertare
altre esecuzioni fino al 1866, quando venne replicata a Roma in un concerto
assai particolare, dove Giovanni Sgambati diresse la prima esecuzione completa della versione definitiva della Dante-Symphonie di Franz Liszt, presente
all’esecuzione (cfr. De Angelis 1935). Il testo è chiaramente il medesimo che
9. Zandonai, prima della celebre opera Francesca da Rimini del 1914, che tuttavia non si ispira
ai personaggi danteschi, ma proviene dalla penna di Gabriele d’Annunzio, librettista insieme
a Tito Ricordi, sin dagli anni giovanili è lettore assiduo della Commedia. Su testi danteschi
oltre all’Ave Maria, sono infatti il Pater noster (Pg. XI) a quattro voci maschili e orchestra
(1899, pubbl. 1913), le Scene dal V Canto dell’Inferno (“O anime affannate”; 1899, pubbl.
1964) e la cantata Il conte Ugolino, composta nel gennaio 1900 (Cescotti 1999).
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 109
trentasei anni dopo utilizzerà anche Verdi, sia pur con lievi varianti; occorre
una piccola digressione su questo presunto “volgarizzamento” dantesco.
Questa Ave Maria è la quinta preghiera mariana composta da Donizetti, la
prima risaliva al lontano 1819; ma solo per quest’ultima del 1844 la stampa reca
la indicazione “Tradotta da Dante” (l’edizione in riduzione pianistica fu fatta
molto più tardi, nel 1865 dall’editore Lucca di Milano, n.e. 15345). Una lettera
di Donizetti all’amico-allievo bergamasco Adelson Piacezzi chiarisce la fonte
d’origine del testo, un’edizione della Commedia con il commento di Cristoforo Landino del 1497,10 contenente nelle appendici un Credo “volgarizzato da
Dante”; 11 sia il Pater noster sia, nella parte conclusiva, l’Ave Maria sono estratti
da questo Credo, e Donizetti subito pensa a porli in musica:
Di qual gemma mi hai fatto possessore! Ho amato (se non sempre compreso) Dante, ma tu col tuo dono raddoppiasti l’affetto e la venerazione.
Ti accuserei quasi di crudeltà se in altre mani fosse caduto. L’amicizia che
ci legò fin dai primi anni di nostra giovinezza ti parli in mio favore (lett. n.
532 ad Adelson Piacezzi, 9 gennaio 1844; Zavadini 1948: 124).
Nel 1880 Verdi riprende il medesimo offertorio mariano in una composizione
ingiustamente trascurata dagli storici. L’intero capitolo ternario da cui tale
testo è tratto (l’inizio recita: “Io scrissi già d’amor più volte rime / quanto
più seppi dolci, belle e vaghe”) fu a lungo considerato una traduzione dal
latino dovuta a Dante, forse anche per l’uso della terza rima non frequente
nelle preghiere, seguendo l’attribuzione delle edizioni quattrocentesche sopra
citate. Ma nel 1844, quando Donizetti lo intona, era da tempo chiarita l’attribuzione al maestro Antonio da Ferrara. Sin dalla sua Drammaturgia (1666)
Leone Allacci aveva eliminato ogni dubbio; eppure ancora nel medio Ottocento diversi testi italiani conservarono l’attribuzione a Dante. L’edizione Zatta
delle Prose e rime liriche edite ed inedite di Dante Alighieri con copiose ed erudite
aggiunte (tomo IV, parte II, Venezia, 1758) dedicava un ampio commento
al Credo non accennando neppure di sfuggita a una possibile attribuzione
alternativa: Il Credo di Dante Alighieri, illustrato con annotazioni dell’Abate
Francesco Saverio Quadrio (pp. 235-262). La stessa attribuzione dantesca del
Credo ricorre anche nel Saggio di rime di diversi buoni autori, che fiorirono dal
XIV fino al XVIII secolo (Firenze, Ronchi e C., 1825), curato da Luigi Rigoli.
E ancora nel 1839, vicino quindi alla composizione di Donizetti, l’accademico
della Crusca Bartolommeo Gamba, che cita Rigoli, ne ripete l’attribuzione a
10. Comento di Cristoforo Landino Fiorentino sopra la Commedia di Dante Alighieri, Venezia,
Giunta, 1497; che riprende l’edizione del 1491 con aggiunta de: “il Credo, il Paternostro, e
l’Avemaria di Dante”. La nota dichiara la discendenza di queste aggiunte dall’edizione che
cito alla successiva nota.
11. La prima edizione della Commedia che attribuisce questa “volgarizzazione” a Dante è quella
di Bernardino Benalj e Matteo da Parma (Venezia, 1491), che include nelle ultime pagine
“il Credo, il Paternostro, e l’Avemaria di Dante” con postille.
110 Dante e l’arte 2, 2015
Antonio Rostagno
Dante.12 Ma poco dopo, nel Saggio di Rime di Dante, di Maestro Antonio da
Ferrara, di Franco Sacchetti, di Luigi Pulci, del Poliziano, di Feo Belcari […]
curato da Anton Maria Salvini (Firenze, Piazzini, 1847, pp. 23-24), leggiamo:
Maestro Antonio da Ferrara oltre la Canzone fatta a Dio, essendo nello
stremo di sua vita dolendosi de’ suoi peccati, espresse l’Ave Maria e ’l Pater
noster, la Salve Regina. Ed è da notare che il Credo ascritto in alcuni Manoscritti e libri stampati a Dante è di questo Antonio, secondoché si vede
specificamente notato nel volume delle Laudi de’ Bianchi, delli quali si
darà notizia più particolare a suo luogo. D’onde di più s’ha che l’Ave Maria
recitata a quei tempi, è simile a quella che oggidì recita la Chiesa, contro
l’opinione d’alcuni, che asseriscono la metà di detta orazioncella non essere
più anziana di Leone X.
Con questa riattribuzione corretta si potrebbe pensare che la controversa vicenda sia giunta al termine; ma ancora nel 1865 un anonimo commentatore
attivo a Firenze stampa La professione di fede di Dante Alighieri o parafrasi in
terza rima del Credo, de’ Sacramenti, del Decalogo, dei Vizi capitali, del Pater
Noster e dell’Ave Maria (Firenze, a spese della Società Toscana per la diffusione di buoni libri, Tipografia delle Murate, 1865): la “professione” contenente il
testo mariano è indicata sin nel titolo (“di Dante Alighieri”). Con ogni probabilità il testo della composizione di Verdi del 1880 proviene da questa edizione.
La seguente tabella visualizza le differenza fra le varie “volgarizzazioni”:
Tabella comparativa delle edizioni dell’offertorio in forma di capitolo ternario.
Legenda (per le parti musicali): Contr. = contralto; Sopr. = soprano; contrapp. = contrappunto;
le lettere maiuscole sottolineate indicano i temi musicali, ricorrenti in Donzietti, sempre rinnovati in Verdi (forma strofica vs. forma durchkomponiert).
Potremmo procedere nella vicenda di questa strana attribuzione che non vuole
staccarsi da Dante; ma sia qui sufficiente quanto detto per capire come sia
12. Gamba da Bassano 1839: 335b (n° d’inventario 1091: “Il Credo ed un Sonetto” ); qui, nella
sezione di attribuzioni dantesche si legge: “Esistono due edizioni antiche [del Credo], una
del secolo XV, in forma di 4°, in carattere tondo; ed una del secolo XVI, in 4°. In questa
seconda, dopo le parole credo di dante, vedesi un intaglio in legno che rappresenta Dante
in atto di salire il monte, colle tre fiere che gli si fanno incontro, come le descrive al canto
I dell’Inferno. L’una e l’altra edizione stanno alla Trivulziana. Sì il Credo che il Sonetto si
pubblicarono con illustrazioni anche nel Saggio di Rime di diversi buoni Autori ec.; Firenze,
Ronchi e Compagni, 1825” (la fonte dichiarata per l’attribuzione è “G-A.”, ossia lo stesso
Gamba da Bassano 1828).
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 111
stato possibile che ancora Donizetti e Verdi abbiano in buona fede potuto
credere di usare parole di Dante ancora nel 1844 e nel 1880. Quando l’editore
Ricordi stampa i due pezzi di Verdi (Ave Maria e Pater noster), il frontespizio
reca senza ambiguità “volgarizzati da Dante”; non dubitiamo della buona fede
di Verdi, ma occorre ricordare che con queste composizioni egli stava attuando
un disegno politico, o meglio di politica culturale. Nel 1880 siamo solo due
anni prima della Triplice Alleanza con la Prussia e molti vecchi intellettuali,
fra cui Verdi in prima linea vedono un rischio di indebolimento della formazione del comune senso della nazione, realmente ancora molto labile nella
Nuova Italia. Per questo Verdi non manca di ripetere, insieme al timore per
progressiva “germanizzazione”, la necessità di affermare anche presso il pubblico più vasto, verso ogni strato sociale, verso l’intero corpo della nazione,
un patrimonio comune di cultura nazionale con alcuni suoi pilastri centrali:
Dante anzitutto, poi Petrarca, Palestrina per la musica, Manzoni per la narrativa, se stesso per il melodramma. La scelta delle due preghiere “volgarizzate
da Dante” risponde a questo impegno: se i temi della Commedia non sono
considerati utilizzabili dal drammaturgo, il Poeta può però offrire materia per
composizioni da concerto. E con questa intenzione nascono le due preghiere.
È altresì poco probabile che Verdi conoscesse l’offertorio mariano del tardo
Donizetti. Un confronto fra le composizioni dei due musicisti indica, al di
là delle intenzioni culturali di Verdi, due sensibilità religiose e due concezioni della spiritualità del tutto opposte, mostrando già come Verdi stesse
confrontandosi con i temi della fede e del culto mariano con un impegno e
una profondità critica impensabile per Donizetti. Comparando i due inizi, la
differenza è chiara:
Es. 1a, G. Donizetti, Ave Maria (1844), inizio (bb. 1-8)
112 Dante e l’arte 2, 2015
Antonio Rostagno
Es. 1b, G. Verdi, Ave Maria (1880), inizio (bb. 1-37)
Quella di Donizetti è una semplice melodia, progettata secondo le consuete
simmetrie periodali, elegante se si vuole ma evidentemente priva di intenzione significante; in secondo luogo è in forma strofica, ossia le musica si
ripete uguale per le diverse strofe: la prima è esposta dal contralto alla tonica principale (Re bemolle maggiore), la seconda dal soprano (in La bemolle
maggiore; ultime due battute dell’es. 1a); la terza ancora dal contralto, con
un contrappunto del soprano. In tal modo viene semplicemente sonorizzato
il percorso dal “viver ben quaggiù” al “paradiso” declamato in conclusione. È
insomma una semplice e fideistica religiosità, una fede un poco convenzionale, che non esprime alcuna posizione critica, alcuna riflessione individuale
del compositore. Opposta è la spiritualità tormentata da dubbi e timori di
Verdi, che si ripercuote profondamente nella sintassi musicale, piegandola a
esprimere l’intenzione critica-dottrinaria del compositore. I minacciosi accordi
dissonanti con cui si apre la sua preghiera sono inequivocabili; ancor prima
che la voce inizi l’invocazione, l’oscurità e il turbamento non lasciano filtrare
alcuna luce della fede.
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 113
La composizione viene scandita da Verdi in quattro fasi: nella prima la
voce è quasi fissa sul Fa diesis e avvolta dal timbro scuro e grave degli archi,
continuamente attraversato da dissonanze e cromatismi: improvviso giunge
uno squarcio di luce alle parole “benedetta sia” con un inarcamento della
voce verso l’acuto, subito riportato nel registro centrale. Un assai simile processo di significazione del testo musicale si ritrova nel Pater noster, quando
alla quarta misura le voci acute si distaccano dall’unisono/ottava, in scansione
omoritmica e in una disposizione stretta nel registro centrale (Re2-Re3), per
elevarsi verso i registri superiori, raffigurando il volgersi della comunità orante
ai “cieli” da cui il padre guarda l’umanità:
Es. 2, G. Verdi, Pater noster (1880), inizio (bb. 1-6)
La seconda strofa dell’Ave Maria verdiana, in Fa diesis minore, colloca la voce
in un registro medio-acuto più chiaro, raffigurante l’apertura a una possibile
speranza in Cristo. La terza strofa è quella più melodica, cantabile e in tonalità
maggiore (Si), dove l’armonia meno cromatica acuisce il senso di pacificazione: è la strofa in cui l’orante chiede “Vergine benedetta, sempre tu, / ôra per
noi a Dio che ci perdoni / E diaci grazia a viver sì quaggiù / che ’l Paradiso
al nostro fin ci doni”, il solo momento in cui viene espressa la speranza nella
redenzione dell’umanità grazie all’eterno femmineo. Ma l’offertorio non viene
terminato qui da Verdi, che assai significativamente ripete la strofa iniziale
riportando così nella musica lo stesso stato di oscura incertezza dell’inizio: di
nuovo, dopo l’espressione della speranza, l’uomo è ricondotto in uno stato
in cui non vede la luce della fede, non accede alla via luminosa del “Paradiso”
promesso. Ciò avviene quando le parole “ôra per noi” vengono ripetute, nella
conclusione, più e più volte, ma senza alcuna convinzione nella speranza di
una grazia, interrotte e quasi “risucchiate” da pause cariche di dubbi e dalle sonorità oscure dell’inizio. È lo stesso dubbio, la stessa paura del singolo uomo,
che dalla vita mondana guarda con timore l’eterno senza ottenere alcuna luce
di speranza, che aveva contraddistinto le parti più tragiche del Requiem, solo
sei anni prima, come il Dies irae, Mors stupebit o soprattutto il Libera me fi-
114 Dante e l’arte 2, 2015
Antonio Rostagno
nale.13 Nel volgersi alla Vergine questo povero uomo del dubbio affida le sue
poche speranze, come Goethe, all’eterno femmineo; ma mai troverà la luce
della certezza, che invece Faust troverà nelle ultime scene del dramma, rivedendo Margherita trasfigurata (“una delle penitenti, una volta chiamata Margherita”) e il coro mistico. La voce femminile che declama l’Ave Maria di Verdi
prefigura dunque quel soprano solo che declamerà l’invocazione conclusiva del
Te Deum, l’ultima composizione di Verdi, “In te Domine speravi”: è la voce
dell’uomo solo che non ha altra certezza se non la “paura” di cui parla lo stesso
Verdi secondo una testimonianza diretta.14 È chiaro, a questo punto, che Verdi
non condivide, o meglio non sente il messaggio finale della Commedia, nulla
lo porta alla luce smaterializzata della fede; ma da laico, da uomo che ha attraversato le lotte del Risorgimento, il liberalismo umanitario, la fiducia nella
formazione di un uomo nuovo in un mondo nuovo, l’estasi mistica non è cosa
per lui, non la può sentire. E infatti nulla della fede che stordisce per troppa
luce passa nella sua musica, appesantita al contrario da voragini di oscurità,
di dubbio esistenziale, di sospensione della fede da parte di un uomo che pur
l’ha cercata a lungo. Insomma: il percorso spirituale che Dante compie nella
Commedia e il percorso esistenziale di Verdi vanno in direzioni opposte.
Nel quarto atto di Otello (opera d’altronde ricca di risonanze dantesche nel
libretto di Arrigo Boito),15 di sette anni successivo all’Ave Maria per soprano
e archi, Verdi compone una nuova Ave Maria, recitata da Desdemona prima
di coricarsi, pochi minuti prima di essere uccisa. In Shakespeare questa scena
non c’è, né Rossini nel suo omonimo melodramma aveva fatto nulla di simile.
Le analogie con l’offertorio Ave Maria del 1880 sono numerose e significative;
le vere e proprie similitudini di materiale musicale non sono molte, eppure
il linguaggio musicale è evidentemente affine. Desdemona prega da convinta
cristiana, da persona che ha una fede semplice e certa, come Donizetti fiduciosa che la preghiera porti a quel paradiso sperato richiamato nell’ultimo verso.
Ma la musica di Verdi comunica esattamente l’opposto: il dubbio, l’assenza
di certezze, la paura della giovane donna davanti alla morte. Con la scena che
segue, infatti, Verdi mostra che la preghiera e la fede non giungono ad alcun
esito: Desdemona (e lo stesso Otello) muoiono per il nulla, per nessun ideale
e per nessuna fede, senza alcuna redenzione. “La morte è il nulla”, proprio
come aveva diabolicamente anticipato Jago. È il pessimismo cosmico di Verdi.
13. Per questa celebre lettura del Requiem cfr. Mila 1980 (in particolare “Verdi sacro”, pp. 256-284).
14. Lo racconta Giuseppe Depanis: “[per questa frase finale del soprano solo] Verdi raccomandava di collocare l’artista il più lontano possibile, nascosta al pubblico, quasi una voce
dell’aldilà, voce di sgomento e di supplicazione. ‘È l’ümanità che ha paüra dell’inferno’, finì
per dire a meglio spiegare il concetto appoggiando sulla ü di umanità e di paura […]”, in
Conati 2000: 345.
15. Ne parla, fornendone una sommaria ma utile rassegna, D’Angelo 2010. Recentemente sono
tornato su alcuni di questi passi in Rostagno 2010-2011: 36 et passim.
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 115
3. Con tutt’altra profondità, fuori delle luci della ribalta del melodramma e
lontano dalla occasione concertistica dell’offertorio del 1880, Verdi torna a
Dante nelle sue estreme composizioni; più precisamente nel terzo dei Quattro
Pezzi sacri (pubblicati nel 1898), le Laudi alla Vergine Maria, che intonano le
prime sette terzine dell’ultimo canto del Paradiso, la preghiera di San Bernardo. Ed è su questa composizione che occorre ora fermarsi, lavoro di grande impegno intellettuale, scritto più per sé che per l’ascolto pubblico. Un Verdi che
nessuno si attenderebbe e che ha davvero lasciato alle spalle la concezione di
musica come comunicazione sociale, del melodramma come ammaestramento di vita. È un intellettuale nella sua tarda fase, e come tutti i tardi stili dei
grandi artisti imprime una svolta che improvvisamente cancella tutto quanto
già fatto e apre prospettive che solo le generazioni a venire potranno recepire.
Le Laudi sono rimaste infatti per più di un secolo un brano assai poco
conosciuto, pochissimo commentato e non perfettamente compreso, non
eseguito se non in rare occasioni e sempre con mezzi esecutivi non adeguati
alle originarie intenzioni dell’autore. Verdi voleva infatti quattro sole “voci
bianche”, come compare nel frontespizio della prima stampa, ossia voci femminili (non necessariamente fanciulli cantori) ma alleggerite e senza il pesante
volume dell’emissione lirica comune al dramma di estrazione verista (ossia,
anzitutto, senza quel vibrato persistente e ampio che connota la voce potente
del cantante tardo-ottocentesco e novecentesco). Ciò che aveva in mente Verdi
qui era piuttosto un neo-madrigalismo, una esecuzione con voci chiare, prive
del consueto vibrato e del volume smisurato richiesto dal palcoscenico. Oggi
invece le Laudi, in quelle infrequenti occasioni esecutive, si ascoltano eseguite
dal coro teatrale composto di 80-100 elementi, dove la meditazione solitaria e
intima, quasi una parola interiore, diviene un consueto coro operistico, che a
chi non conosca bene il testo poetico potrebbe ricordare qualcosa a mezza via
fra il “Va pensiero” e l’“Inno al sole” di Mascagni.
A chi invece ha la fortuna di ascoltare un’esecuzione secondo le intenzioni originali del compositore, ecco che il testo dantesco diviene chiaramente
comprensibile e al commento musicale di Verdi viene restituita la qualità di
profonda meditazione necessariamente intima, lontano dall’esibizionismo da
palcoscenico, espressa in profonda solitudine.
Se mai una composizione di Verdi ha richiesto il commento, l’esame dei
particolari, questo è il caso delle Laudi. D’altronde si tratta della sola musica
di Verdi che utilizza versi di un grande poeta nati per essere letti e non per
essere intonati dal canto, se si escludono quelle prove giovanili ricordate in
inizio. Nella sua vita creativa Verdi ha sempre concepito il testo poetico come
una base, una impalcatura per la drammaturgia, per il vero testo drammaturgico, che si sarebbe poi affidato esclusivamente alla musica e alla messinscena.
Nonostante la qualità dei testi di Boito, anzi direi quasi grazie ad essi, grazie al
116 Dante e l’arte 2, 2015
Antonio Rostagno
fatto che con Boito per la prima volta Verdi ha potuto disporre di testi di alta
ambizione letteraria, è solo con le Laudi che il compositore affronta la grande
poesia. Questa è d’altronde una caratteristica della musica vocale italiana ottocentesca, d’opera e no; a differenza della liederistica tedesca romantica, che
necessita quasi sempre di testi di grandi poeti, la lirica teatrale o cameristica
italiana concepisce il testo come strumento provvisorio, come oggetto non
“di” arte ma “su cui” produrre arte: un “pre-testo”. Ma il caso delle Laudi è
più complesso.
II. Le Laudi alla Vergine Maria: dal Dante simbolo
nazionalista al Dante universale
Non occorre ripetere che torniamo qui al tema dell’eterno femmineo: ancora
una voce umana che si rivolge alla Vergine per ricevere l’illuminazione della
grazia, quella grazia che, abbiamo visto, tanto nell’offertorio del 1880 quanto
nell’atto finale di Otello era scetticamente invocata, ma finiva nel pessimismo
che tutto nega, come lo spirito di Mefistofele (“Son lo spirito che nega / sempre, tutto: l’astro, il fior”, Arrigo Boito, Mefistofele, Atto I, seconda parte).
Entriamo dunque nel testo di Dante e Verdi, un supremo capolavoro che apre
la stagione italiana del neo-madrigalismo, destinata ad avere grandi sviluppi
fino a Gian Francesco Malipiero e Goffredo Petrassi in pieno Novecento.
Poco sappiamo delle Laudi di Verdi: neppure sulla data di composizione
può esserci definitiva certezza, probabilmente collocabile fra il 1888 e il 1890; il
lavoro arriva al pubblico però solo diversi anni dopo, quando su ripetute insistenze di Giulio Ricordi Verdi accetta di inserirlo come numero 3 dei Quattro
pezzi sacri. Il compositore aveva pensato queste estreme composizioni come
confessioni interiori, riflessioni private, espressioni della sua tarda ricerca di
spiritualità e di fede, che non avrebbero dovuto giungere al pubblico, ma finire nella tomba con sé. Le Laudi costituiscono la composizione meno teatrale
del ciclo, la più intima; si tratta di un vero e proprio “madrigale spirituale”
in un linguaggio musicale rinnovato e attualizzato: ogni immagine del testo,
ogni concetto, ogni risvolto etico, filosofico, dottrinario, viene meditato e riespresso con mezzi puramente musicali, senza alcun riferimento all’espressività
melodrammatica, presente invece nei due Pezzi Sacri che precedono e seguono
le Laudi nel ciclo, lo Stabat Mater e il Te Deum.
Non è forse questa la sede per una analisi minuta; ma sono sufficienti
pochi esempi per comprendere la profondità delle intenzioni di Verdi e la
raffinatezza di realizzazione. Certo occorre che l’ascoltatore dimentichi il Verdi
teatrale e immagini un compositore che non scrive più per i suoi contemporanei, ma medita da solo nel suo studio come Faust, per arrivare a una chiarificazione (prima di tutto a se stesso) della propria spiritualità, del bisogno
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 117
di fede, della necessità di affidare le proprie speranze alla guida della Donna
Eterna. Seguirà, nel ciclo, il Te Deum del quale ho già indicato la conclusione
negativa, scettica, da parte di un misero uomo che non può avere certezze di
fede e percepisce solo il vuoto cosmico. Le Laudi diventano in questo percorso
la tappa precedente di questo approdo spirituale negativo; è quindi una tappa
non conclusiva, solo una momentanea illusione di poter confidare nelle virtù
luminose, benigne, gratuite (“liberali” nel senso etimologico) e amorevoli dell’“eterno femmineo”. Ma subito dopo , nel Te Deum appunto, tutto questo
si rivela solo illusione: ciò che Verdi compie attraverso i tre ultimi Pezzi sacri,
quindi, è il percorso spirituale di un laico che manifesta il proprio bisogno di
fede, a lungo cercata ma mai trovata.
Chiudo allora con l’esame di alcuni punti della partitura delle Laudi. Anzitutto Verdi costruisce la sintassi di gran parte della composizione utilizzando
con sorprendente ricorrenza il numero tre, il numero simbolico di Beatrice sin
dalla Vita Nuova, che su tal numero poggia l’intera sua struttura. Occorrenze
ternarie sono disseminate in tutti i parametri nel linguaggio polifonico,16 dalla
disposizione delle voci all’armonia, dalla ripetizione di parole alla relazione fra
le altezze, fino ai canoni che attraversano la composizione (esempi 3a e 3b).
Es. 3a, G. Verdi, Laudi alla Vergine Maria; simbologie ternarie (inizio a tre voci, bb. 1-8)
Es. 3b, G. Verdi, Laudi alla Vergine Maria; simbologie ternarie (canone a tre parti “Donna se’
tanto grande”, bb. 48-53)
16. Sulla formazione e i significati dell’armonia triadica nel pensiero cinquecentesco cfr. La Via
2007.
118 Dante e l’arte 2, 2015
Antonio Rostagno
Nel primo esempio (3a) l’armonia e la declamazione dell’invocazione sono
costituite da tre voci a cui la quarta (il contralto secondo) fa da complemento
armonico. Nel secondo esempio (3b) le entrate a canone coinvolgono le stesse
tre voci, lasciando alla più grave la funzione autonoma di sostegno armonico,
separandola dall’intreccio della polifonia canonica. Dal punto di vista tecnico, sia sufficiente rilevare come sin dalla battuta 3 il Fa naturale del contralto
secondo e la successiva risoluzione a Mi minore spezzi subito i ponti con la
tonalità tradizionale e sposti il discorso sul campo modale, che rimarrà fino
al termine.
Ogni elemento della sintassi polifonica ha poi il suo significato; il “termine fisso d’eterno consiglio” è identificato dalla “fissità” delle note Mi (primo
soprano) e Do diesis (secondo contralto), mentre nelle due voci intermedie
l’immagine del disordine della vita terrena provoca un continuo movimento
cromatico. Ancor più efficace è l’immagine successiva del “Fattore” (il creatore): tre voci in unisono che in un forte improvviso si aprono ad un sonoro
accordo pieno di Mi bemolle maggiore:
Es. 4, G. Verdi, Laudi alla Vergine Maria; bb. 20-21
Alla fine della seconda terzina, sull’ultima sillaba accentata Verdi scrive un
piccolo melisma, una terzina cantabile alle due voci di soprano (“fattu - - ra”). Questo modo di intonare con melismi più o meno ampi la sillaba che
conclude il verso finale di una sezione in terza rima ha origini antichissime: lo
troviamo già nei madrigali dell’Ars Nova trecentesca, e lo stesso Verdi lo aveva
praticato nelle terzine declamate dai Sacerdoti nella scena del giudizio di Aida
(IV atto, scena seconda), dichiaratamente emulanti una terzina dantesca.
“Così è germinato questo fiore”: l’immagine ha una lunga tradizione nella
letteratura devozionale (non ultimo l’esempio di Jacopone), ma anche nella
storia della musica si conoscono mottetti che la tematizzano fin dall’età di
Dante stesso (il mottetto politestuale Flos Filium che compare nei Codici di
Montpellier per esempio). L’apertura della corolla è sonorizzata dall’allargamento delle quattro voci, che in questo punto giungono a coprire lo spazio di
due ottave, molto ampio se consideriamo che Verdi sta scrivendo per voci di
tessitura e ambito simile, senza i registri delle voci maschili:
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 119
Es. 5, G. Verdi, Laudi alla Vergine Maria; bb. 33-36
L’immagine musicale del fiore che si apre non è rara nella storia musicale antica o contemporanea, anche in compositori assai lontani da Verdi. Per esempio, il verso di Friedrich Hölderlin “Blumen die Menschen, nur blumen…”
(“Fiori sono gli uomini, solo fiori…”), ricorre più volte nelle composizioni del
compositore ungherese György Kurtág. Lo incontriamo, solo per indicarne
una occorrenza, nell’exergo di un frammento del volume 8 degli Játékok (Giochi) intitolato Tanùlmany a Hölderlin-hez… (Studio su Hölderlin: An…). Qui
Kurtág scrive una serie di suoni che vanno ampliandosi poco alla volta, in un
modo che può curiosamente richiamare l’intuizione di Verdi.
Le successive immagini delle virtù teologali, la “meridiana face di caritate”
e la “fontana di speranza”, sono sonorizzate da Verdi in modo da richiedere l’esecuzione a voci sole, e che vengono irrimediabilmente compromesse
dall’esecuzione di un grande coro. Per l’immagine della “meridiana face” Verdi
fa leva su due dati percettivi forti, estremi si direbbe se la parola non fosse
contraria allo spirito della composizione: per la prima e unica volta le quattro
voci cantano tutta la frase in unisoni e ottave (senza armonia, con forza); il
compositore rinnova così un’antica strategia retorica, già utilizzata per esempio
da Guillaume Dufay per sottolineare il nome del pontefice nel mottetto Nuper
rosarum flores, e poi rimasta in uso fin nell’Ottocento. In secondo luogo la
linea melodica disegna un’ascesa in crescendo (registro e intensità quindi collaborano alla realizzazione della luce crescente), fino a raggiungere un La acuto,
la stessa altezza che indicava l’apertura del fiore nella precedente immagine del
figlio. Ma ancor più interessante è quanto accade dopo il crescendo, con l’immagine della “face di caritate”: alla improvvisa ricaduta in registro medio-grave
corrisponde l’altrettanto immediata diminuzione di intensità (subito piano)
e la chiarificazione armonica nella remota tonalità di Fa diesis maggiore. Non
interessa tanto il dato tecnico, di raffinatissima semplicità, quanto l’effetto
sonoro che immediatamente rende chiaro il concetto dantesco: la potenza
(prima parte della frase) della dolcezza caritatevole (la seconda parte in piano),
ossia la forza dell’eterno femmineo. Così Verdi interpreta e realizza in mezzi
esperibili dalla pura sensorialità aurale la ossimorica umiltà/altezza, la forza
incrollabile e la intimità più riposta.
120 Dante e l’arte 2, 2015
Antonio Rostagno
L’immagine della “di speranza fontana vivace” è ancor più articolata: dapprima i due contralti in registro grave espongono in imitazione un primo tema
sull’intervallo di quinta discendente (“e giuso, in tra i mortali”: Do# - Fa#,
immagine del “basso corporeo”, del “quaggiù”, della vita mondana); quindi i
due soprani entrano con un diverso disegno ascendente sullo stesso intervallo
di quinta rovesciato (“se’ di speranza fontana”: Fa# - Do#). Ancora l’ossimorico incontro del “giuso”, del mondano, con l’elevazione redentrice dell’“eterno
femmineo” (es. 6, secondo sistema), qui nell’immagine della fontana che eleva
verso l’alto le speranze della fede.
Es. 6, G. Verdi, Laudi alla Vergine Maria (“meridiana face di caritate”, bb. 37-41; “fontana di
speranza”, bb. 42-47)
Nella sezione che segue Verdi chiosa, commenta musicalmente il concetto
della liberalità, della gratuità: “La tua benignità non pur soccorre / a chi dimanda, ma molte fiate / liberamente al dimandar precorre”. L’avverbio che
ho lasciato in maiuscoletto è da Verdi smisuratamente amplificato per mezzo
di una declamazione lenta e molto scandita. Il significato di questo concetto
basilare nella visione della donna di Paradiso è tuttavia ancor più sottolineato
da Verdi utilizzando un intreccio ritmico che sospende il tempo sulla parola
simbolica: fra il disegno dei soprani (una scala cromatica discendente di note
di uguale valore, a distanza di quarta eccedente fra le due voci, stridentemente
dissonanti e di difficile intonazione) e quello dei contralti (una linea spezzata
di salti, ritmicamente disposti in sincope, creando una specie di dissonanza
ritmica) si verifica un effetto contraddittorio, la potenza della “benignità” è
come spezzata, forte ma tempo stesso indebolita da questa grammatica musicale tanto inusuale e dissonante (es. 7). L’interpretazione offerta, il “comento”
di Verdi al testo di Dante non è semplice e merita qualche riflessione: ipotizzo
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 121
che sia da collegare a quella posizione scettica e pessimista che ha minato i
suoi ultimi anni, e che abbiamo già presagito nella Ave Maria per soprano e
archi. Ciò che è del tutto chiaro, tuttavia, è che Verdi non sta semplicemente
“intonando una poesia” come fanno tutti i compositori di romanze e musica
vocale da camera italiani in questo periodo (che usano infatti testi poetici
meno profondi). Al contrario Verdi medita in musica, commenta, interpreta e
offre una personale posizione etica e spirituale attraverso il proprio linguaggio.
Es. 7, G. Verdi, Laudi alla Vergine Maria (“liberamente”, bb. 66-69)
La conclusione del madrigale spirituale di Verdi riconduce l’attenzione alla
simbologia ternaria, già ricordata ed esemplificata in inizio. Anzitutto le quattro invocazioni che il testo di San Bernardo pone in struttura paratattica (“in
te misericordia, in te pietade, in te magnificenza, in te s’aduna…”) sono da
Verdi separate in una strutturazione di 3+1. Le prime tre chiaramente disposte
secondo una simmetria che le unisce idealmente: la prima in Re, la seconda in
Mi, la terza in Fa diesis; la quarta invocazione è invece separata e la frase corre
avanti non verso la tonalità che sarebbe più prevedibile, il Sol maggiore, ma
aperta su punti tonali scivolosi da Si a Do, che riportano dopo il disorientamento al centro tonale iniziale e conclusivo. E chiaramente l’intonazione del
testo è compiuta, terminata e organicamente concepita su questa chiusura del
discorso; l’armonia a tre parti su cui le voci intonano l’ultima sillaba (bontate)
è infatti la medesima dell’inizio (“Vergine madre”) e nella medesima disposizione (es. 8).
Es. 8, G. Verdi, Laudi alla Vergine Maria (analogia fra l’accordo iniziale e quello su cui termina
il testo di Dante [battute 1-2 e battute 81-82])
122 Dante e l’arte 2, 2015
Antonio Rostagno
In questa conclusione, raggiunto il Sol d’impianto, il compositore aggiunge al
testo dantesco due invocazioni (“Ave”), che gli sono necessarie per realizzare
un’ultima costruzione sul numero tre. Vediamo come. L’ultima parola della
preghiera, sopra esemplificata (“bontate”), è intonata dal primo soprano sulla
nota Re; la successiva invocazione “Ave” è intonata tre gradi più in basso,
sulla nota Si; ancora tre gradi sotto, sulla nota Sol, è infine intonata l’ultima
invocazione. Quindi: tre altezze successive (Re-Si-Sol) sono collegate da una
discesa per intervalli di terza, ossia ogni volta tre suoni più in basso. La stessa
relazione di terza segna il percorso armonico di questa sezione conclusiva: la
prima cadenza (“bontate”) è in Sol maggiore, la seguente invocazione “Ave” è
in Si maggiore; di nuovo in Sol infine l’ultima ripetizione “Ave”: Sol - Si - Sol,
come mostra l’esempio seguente (es. 9):
Es. 9, G. Verdi, Laudi alla Vergine Maria (bb. 81-86)
Nel canto conclusivo della Commedia la preghiera di Bernardo partecipa di
quella luminosa smaterializzazione, di quel crescendo di luce che la parola
non può ripetere e i sensi non possono sostenere. Verdi, tuttavia, ci offre un
commento attraverso la composizione, che non sembra semplicemente ripetere questa esperienza mistica; il compositore, al contrario, con i mezzi del suo
linguaggio propone uno sguardo dal punto di vista dell’uomo, del mondo, del
dubbio terreno, come nell’Ave Maria e nel Requiem; uno sguardo “dal di qua”,
senza illusioni e senza certezze fideistiche. Questa conclusione in pianissimo,
sebbene apparentemente pacificata, sebbene riporti all’attenzione la simbologia ternaria con efficace chiarezza, non ha nulla di quegli effetti di luminosità
crescente, non evoca affatto la mistica perdita di coscienza nella luce divina,
nulla del senso di elevazione del canto dantesco. Certo, all’ascolto le Laudi di
Verdi suscitano il senso della meditazione intima, dal loro ascolto emerge un
umanissimo dubbio, forse anche un disorientamento dell’uomo inerme e solo
davanti a una fede che cerca (“dimanda”, per usare le parole di Dante), ma
che forse non trova. Come Verdi stesso, anche l’io lirico delle Laudi vorrebbe
credere, ma non viene investito da quell’onda luminosa che travolge Dante
nell’ultimo canto. È una forma di spiritualità desiderosa di una fede di cui
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 123
però non esistono certezze, lasciata in un universo di dubbi col terrore del
vuoto e del nulla, ma non scettica né tanto meno dichiaratamente atea; ed è
la stessa forma di spiritualità tragica, perché solo terrena, che circola anche nei
due Pezzi sacri che circondano le Laudi dantesche, i già ricordati Stabat Mater
e il Te Deum.
Le Laudi alla Vergine Maria concludono quindi il rapporto di Verdi con
Dante, che era iniziato nel lontano 1839 con l’Oberto conte di San Bonifacio e
il personaggio protagonistico di Cuniza. Ma le Laudi pongono fine anche alla
lunga storia del rapporto fra Dante e i musicisti nell’Ottocento, che era iniziato con Nicola Zingarelli (Il conte Ugolino, cantata per una voce e archi 1804)
e Gaetano Donizetti (Il conte Ugolino, cantata per basso e pianoforte, 1828).
Ed è molto significativo che il tardo Verdi a fine Ottocento sia il primo ad
affrontare il testo dantesco con l’intenzione di fornirne un commento attraverso il linguaggio musicale, e non solo di intonarlo in modo estetico, non di
sonorizzarne alcune immagini o emozioni, ma per porsi criticamente di fronte
a un testo tanto complesso dal punto di vista filosofico e spirituale, cosa del
tutto assente dalle intenzioni di tutti gli altri compositori italiani ottocenteschi
che abbiano affrontato testi danteschi.
Per meglio spiegare questo fenomeno, questo nuovo atteggiamento critico
da parte di Verdi, occorre qui ricordare che negli ultimi decenni dell’Ottocento si assiste ad una generale riconsiderazione di Dante nella cultura italiana:
nella Nuova Italia sempre più chiaramente si sviluppa un processo di diffusione della sua figura e della sua poesia con pesanti motivazioni nazionalistiche
e populiste. Ma l’ultra-ottantenne Verdi non segue affatto questa corrente e si
incammina su una strada del tutto solitaria e contro corrente, verso la meditazione neo-madrigalistica, per cui ricupera la scrittura per voci reali a cappella,
secondo un’antica tradizione nazionale del tutto in controtendenza rispetto
alla populistica nazionalizzazione del Dante monumentale.
A ben considerare, quindi, questa situazione è piuttosto singolare: il compositore che ancor oggi molti ritengono la massima espressione del popolo
italiano più istintivo e meno acculturato, il simbolo del Risorgimento popolare, si indirizza nella sua tarda età in direzione esattamente opposta al
populismo già in atto nei governi fra Crispi e Giolitti. E la strumentalizzazione populista, il Dante del popolo come il Verdi per le masse, che arriverà a effetti per entrambi disastrosi nei decenni centrali del Novecento,
è un rischio che evidentemente il compositore già presentiva. La riduzione dei mezzi espressivi e l’approfondimento dei mezzi critico-interpretativi
nelle Laudi, il loro quasi ascetico impianto ideale, sono la risposta in senso
frontalmente contrario a questa strumentalizzazione populista; e forse da questo, dal sorprendente rinnovamento linguistico, dal non uniformarsi al luogo
comune che già faceva di Verdi e Dante i “monumenti dello spirito naziona-
124 Dante e l’arte 2, 2015
Antonio Rostagno
le”, deriva alle Laudi la marginalizzazione, il quasi completo oblio, che dura
ancora oggi.
Il Verdi ancora oggi divulgato è quello della “trilogia popolare”, il “maestro
della rivoluzione italiana” e via di questo passo; e sono sintagmi che nascono
in questo scorcio di secolo, quando il compositore guarda ormai in direzioni
del tutto divergenti. Anche nella ricezione di Dante le Laudi rappresentano
una posizione unica e indipendente del tardo Verdi: se da una parte i compositori di romanze impiegano i più semplici testi del Dante stilnovista per dare
un tono elevato alle loro composizioni, senza tuttavia rinnovarne né il linguaggio né l’intenzione compositiva (Ciro Pinsuti, Francesco Paolo Tosti, Augusto
Rotoli e molti altri che qui non possono trovare spazio, né d’altronde lo meriterebbero), d’altra parte Verdi propone un Dante da meditare in solitudine, in
atteggiamento critico, al fine di confrontarsi con i contenuti filosofici dei suoi
testi supremi. Per questo alto obiettivo Verdi ricupera i mezzi linguistici della
tradizione nazionale più antica: quella del madrigale spirituale. È lo stesso
atteggiamento che possiamo ritrovare nel Carducci “umanista” critico dei testi
danteschi; un Carducci che, ritrattosi dalla prassi del saggio interpretativo alla
De Sanctis, Tommaseo, Torraca (ma prima di loro anche Foscolo e Mazzini),
torna all’edizione di tipo più antico, al commento punto per punto dei singoli
passi e delle singole allegorie, abbandonando il commento interpretativo generale. Come abbiamo visto, Verdi fa la stessa cosa, prendendo ogni immagine
del testo e trovandone un costrutto musicale che generi un nuovo approfondimento riflessivo punto dopo punto, quasi una chiosatura musicale. Verdi non
usa mai la forma strofica, la ripetizione di una parte musicale su testo poetico
diverso, il che significherebbe una diminuzione di significato del testo e del
travaglio critico dell’esegeta-compositore. Ogni parola, ogni immagine, ogni
elemento di speculazione è affrontato e commentato con particolari nuovi e
specifici del linguaggio musicale, come una nota esplicativa che aggiunge significato al testo dantesco, ma con un’efficacia e immediatezza sensoriale che
nessun chiosatore potrebbe raggiungere con la sola parola. È ciò che accadeva
nell’antico madrigale spirituale dell’alta tradizione di Palestrina e della scuola
romana cinquecentesca.
In questo senso, e solo in questo senso, non in quello della eccessiva
espressione urlata a gola spiegata, non nella superficialità delle dichiarazioni di
morale spicciola (quelle massime deprimenti che ancora si leggono su alcuni
libri sul Risorgimento italiano come “siam tutti fratelli”, “morire per la patria”
ecc.), non nell’abbondanza di emozionalità, di lacrime inutili e di sangue da
palcoscenico, sta il senso della qualità nazionale di Verdi. E in questo senso,
ossia in un senso profondamente filosofico, spirituale, riflessivo e critico, si
può individuare una lunga linea di cultura italiana nel percorso che abbiamo
suggerito: Dante-Palestrina-Verdi. In questo percorso non c’è nulla né del po-
Verdi e Dante. Alcune nuove riflessioni
Dante e l’arte 2, 2015 125
pulismo né del nazionalismo intesi nel senso comune e aggressivo dei termini.
Quello delle Laudi (e in generale dei Quattro pezzi sacri) è un Verdi filosofo
che parla della sua esperienza spirituale, un intellettuale che aspira a trovare la
fede, ma la cui vicenda esistenziale, il cui senso tragico della vita gli hanno precluso la via a una fede pacificata. E tutto questo travaglio è stato espresso nella
musica, solo nella musica, si è “precipitato” in forma musicale, in linguaggio
musicale completamente rinnovato. A sua volta tale rinnovamento del proprio
“tardo stile” come una forma di autocritica secondo una dinamica più volte
indicata nel “tardo stile” dei grandi artisti.17 Questa è la forma di spiritualità
critica proposta dall’ultimo Verdi, ed è questa forma di spiritualità critica e
spesso sofferta che ha contraddistinto una gran parte dell’Italia risorgimentale,
eternamente spezzata fra aspirazione di emancipazione liberale-laica e oscurantismi imposti da diverse forme di autorità.
Verdi liberale? Verdi spirituale? Verdi nazionale? O italiano? Verdi scettico?
Nessuno di questi sintagmi, da solo, sarebbe soddisfacente, nessuno esaurirebbe la sua eredità intellettuale e nessuno potrebbe dirsi giusto o errato a
priori. Il rapporto con Dante, però, è servito a Verdi per chiarire a se stesso un percorso interiore fatto di grandi aspirazioni, grandi esaltazione ideali, ma soprattutto di grandi delusioni, disillusioni, pessimismo. E proprio
quello della disillusione è il tono che predomina in questa fase tarda della
produzione di Verdi, dove il Dante teologo ha una funzione centrale. Se mai
un intellettuale ha compreso questa funzione viva e attuale di Dante, questo
è proprio Verdi, lo stesso Verdi “popolare” che molta critica tendenziosa ha
voluto assolutizzare.
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Dante e l’arte 2, 2015 127-142
Franz Liszt e la «Dante Symphony»: frammenti
e simboli per una nuova musica «umanitaria»
Alessandro Avallone
Università di Roma “La Sapienza”
[email protected]
Riassunto
Negli anni trascorsi al servizio del Granduca di Weimar, caratterizzati dal desiderio di
trovare un giaciglio sicuro per una profonda meditazione spirituale, Liszt ebbe modo di
approfondire le proprie conoscenze sui materiali musicali non-pianistici, grazie alla compagine orchestrale messa a disposizione nel teatro di corte, e di maturare la propria concezione
sansimonista dell’arte, intesa come straordinaria forza spirituale capace di unire l’umanità
nel cammino del progresso sociale e civile. In questi anni si compie la concezione lisztiana
della musica sinfonica “a programma”, per cui la musica non può mai essere pura forma,
piatta ed inespressiva, ma necessita sempre di un contenuto ideale forte, che solo la poesia
può conferirle; l’ausilio del programma dantesco, cui Liszt si ispirò per la sua Dante Symphony, composta a Weimar nel 1856, non va però inteso come omaggio al poema, bensì come
lucida consapevolezza della sua modernità da parte del compositore: è la natura frammentaria e simbolica che viene còlta, escludendo significativamente l’ultima cantica, e in virtù del
valore etico che la musica deve possedere, Liszt compie una selezione tra quelle immagini
poetiche che egli ritiene più idonee ad essere rivestite del mezzo espressivo sinfonico.
Parole chiave: Liszt, musica a programma, sansimonismo, avvenirismo, poema sinfonico.
Abstract:
Throughout his years at the service of the Grand Duke of Weimar, characterized by the
desire to find a safe haven in which to quench his constant desire to be in deep spiritual
meditation, Liszt was able to deepen his awareness of his own musical and non-pianistic
material. Thanks to the orchestra available at the court theatre, he was able to mature his
own sansimonian concept of art as a remarkable spiritual force capable of uniting humanity towards the path of social and civic progress. In those years Liszt also conceived his
symphonic music that he called “program music”. This was based on the idea that music
can never be pure form, flat and expressionless, since it always needs an intense strong ideal
that only poetry can provide. Equipping himself with a Dante program, Liszt was thus
inspired for his Dante Symphony, composed at Weimar in 1856. However, it should not be
understood as an homage to the poem, but as a lucid awareness of its modernity on the
part of the composer: it is its fragmented and symbolic nature, that significantly excludes
the last poem, as well as the ethical value that music should possess, what allows Liszt to
select those poetic images that are fit to be infused with an expressive symphonic layer.
Keywords: Liszt, program music, sansimonismo, avenirism (Futurism), Symphonic poem.
issn 2385-5355
128 Dante e l’arte 2, 2015
A
Alessandro Avallone
1. Lontano dall’Italia e dalla Rivoluzione:
meditando su Dante e sull’«avvenire»
lla base della decisione a seguito della quale Liszt acconsentì di trasferirsi
nella città di Weimar come Maestro di corte, ponendosi così alle dipendenze di un Granduca nonostante il suo spirito libero e già fortemente cosmopolita, vi è una ragione squisitamente romantica, che ben si sposa con la
biografia del personaggio: un folgorante colpo di fulmine. Liszt infatti, che
aveva già da qualche anno rotto con Marie d’Agoult, per colpa delle di lei
accuse di infedeltà e libertinismo, nel febbraio del 1847 conobbe a Kiev, in
occasione di un concerto di beneficienza, la Principessa Carolyne von SayneWittgenstein, regolarmente sposata con un principe tedesco residente in Russia, madre premurosa di una figlia decenne, Marie. Pretesto dell’incontro fu
il ringraziamento che Liszt le volle fare di persona per la cospicua somma di
100 rubli, da lei donata in occasione del concerto. Egli si recò pertanto nella
maestosa dimora di Carolyne, nelle steppe della Podolia, dove ella aveva i suoi
immensi possedimenti agricoli, e qui rimase decisamente folgorato dalla sua
erudita biblioteca, nella quale non mancavano opere fondamentali di filosofia
e di scienza, di religione e letteratura, oltre a testi-chiave nell’immaginario
lisztiano come la Divina Commedia e il Faust.
I due si rincontrarono comunque pochi giorni dopo ad Odessa, e si confidarono la loro reciproca fulminea attrazione. All’apice della sua carriera di virtuoso e di solista, solito a calcare i palcoscenici di mezza Europa, Liszt accettò
dunque di diventare direttore d’orchestra di un piccolo e alquanto malandato
teatrino di provincia, ansioso di costruire un nido d’amore con la prediletta
anima gemella. Ma questa non poteva certo essere l’unica motivazione. Il desiderio di trovare una dimora sicura e un approdo quieto dove poter riposare ci
restituiscono un’immagine completa dell’uomo-artista, caratterizzato in primo
piano da un atteggiamento psicologico di continua inquietudine e irrequietezza, ma allo stesso tempo estremamente assetato di meditazioni, bisognoso
di una riflessione spirituale da coltivare anche lavorando con un’orchestra e
un coro a sua totale disposizione, approfondendo parallelamente le proprie
conoscenze sui materiali musicali non-pianistici, come appunto le compagini
sinfoniche, le masse vocali, l’orchestrazione etc.
Senza dubbio il forte sentimento religioso della Principessa Wittgenstein
fu una delle qualità che più attrassero Liszt, insieme alla profondità della sua
dedizione e al suo pratico vitalismo. Dopo aver di fatto avviato lo scioglimento del suo matrimonio con il nobile tedesco, la Principessa nel giro di pochi
mesi lasciò la Russia, in aperta opposizione alle autorità religiose, per unirsi
al compositore, non immaginando certo l’isolamento a cui sarebbero stati
paradossalmente condannati a causa della loro unione illecita e della convi-
Franz Liszt e la «Dante Symphony»
Dante e l’arte 2, 2015 129
venza clandestina, spesso snobbata dalla maggior parte degli ambienti sociali
da loro frequentati. Un isolamento veramente paradossale trattandosi infatti
del principale compositore di corte, nonché fautore di ogni attività artistica
della cittadina. I due amanti si stabilirono ad Altenburg, una spaziosa casa non
distante dal castello del Granduca; ma la famiglia regnante, che era molto vicina alla Russia -la granduchessa di Weimar, Maria Paulowna, era sorella dello
zar- mostrò verso di loro una irriducibile e persistente ostilità tanto da far naufragare l’esperienza ultradecennale di Liszt come Maestro concertatore. Nella
lettera al granduca Carl Alexander, l’uomo-artista sfoga tutta la sua amarezza e
contrappone la grandezza d’animo di ogni individuo squisitamente romantico
alla grettezza degli uomini mediocri, che seguono solo convenzioni di comodo
e ragionano esclusivamente in termini di occhiuta convenienza politica:
Il Vostro ambiente, e forse anche la vostra famiglia, Altezza, non trova
sicuramente di suo gusto il vedere a Corte un artista che, secondo le parole
del principe di Talleyrand è “arrivé et non parvenu”, uno che mai si sarebbe
potuto comprare con le sue ridicolaggini d’artista i vantaggi d’aver sposato
una principessa[…] È chiaro che si vuole impedirmi a qualsiasi prezzo un
matrimonio al quale, per la mia nascita, non sono destinato, ma che io
credo di essermi guadagnato, e ve lo dico senza falsa modestia.1
Il sentimento che univa i due scomodi amanti non necessitava di un riconoscimento giuridico mediante il sacro vincolo del matrimonio, essendo la loro una
passione tenuta in vita da un substrato valoriale comune, redenta dall’ inesauribile fede in Cristo, e dalla consapevolezza di Liszt di essere avviato lungo un
percorso ideale, artistico, personale e di essere votato al progresso dell’umanità
e ad un’elevazione spirituale collettiva, anche mediante un rinnovamento radicale del linguaggio musicale tedesco, esperimento tentato e anelato negli anni
weimaresi. Ma l’impossibilità di far accettare alla variegata compagine sociale
della cittadina tedesca la liceità e ancor di più la necessità di un legame avvertito come assoluto ed indissolubile, amareggiò molto il prolifico Liszt, che in
questi anni fu comunque fecondissimo sia nel campo della musica pianistica,
che in quello della musica sacra e dei poemi sinfonici.2
In realtà non era forse Weimar il luogo ideale per far nascere la nuova
musica tedesca, dal momento che per contratto Liszt avrebbe dovuto soltanto
dirigere l’orchestra di Corte e prepararne le esecuzioni. Se poi fu anche sovrin1. Lettera di Franz Liszt a Carl Alexander, riportata in Dalmonte ( 1983: 68); la lettera è presa
da La Mara (1903: 87 sg).
2. Stupisce come, molti anni dopo, a Liszt non tornò in mente l’amarezza provata in quel
periodo, quando la figlia prediletta (e ormai unica rimastagli), Cosima, gli comunicò di
voler annullare il matrimonio col marito Hans von Bülow perché attratta da una passione
fatale ed inesorabile nei confronti di Richard Wagner; Liszt, che adorava von Bülow come
un figlio adottivo, non rivolse a lungo la parola a Cosima e al vecchio amico compositore,
considerato come un infingardo rovina famiglie; nei suoi confronti, però, la stima e l’affetto
erano sempre stati grandi, come testimonia la dedica a Wagner della Sinfonia Dante.
130 Dante e l’arte 2, 2015
Alessandro Avallone
tendente artistico delle attività musicali della città lo si deve alla sua tenacia
avvenirista nella ricerca della nuova musica; non va però dimenticato che il
principio saint-simonista della funzione educativa dell’arte, appreso da Liszt
negli anni parigini, era destinato a scontrarsi con un organico assai carente,
quando non inadatto ai traguardi che il nuovo direttore artistico sognava di
raggiungere. E una politica culturale avvenirista e idealmente proiettata nel futuro non aveva certo vita facile in una dimensione politico-istituzionale estremamente rigida e conservativa, lontana dalle cannonate rivoluzionarie che da
lì ad un anno avrebbero squassato quegli ordinamenti restaurati dopo le guerre
napoleoniche e considerati vetusti ed iniqui. Chiusa in un’autoreferenzialità
culturale ed estetica, dedita soltanto a badare al mantenimento di privilegi
secolari e al prestigio della casata regnante, Weimar era una cittadina immobile e sonnecchiante, impermeabile alle idee illuminate della Rivoluzione che
pure in un primo momento, all’inizio del secolo, avevano fatto interrogare
le classi dominanti dell’aristocrazia tedesca sull’opportunità di importarne le
più innocue conquiste sociali, per svecchiare, anche in chiave nazionalistica, il
volto della Germania, regalandole un assetto nuovo; la reazione, invece, vinse
in tutta Europa, e a maggior ragione a Weimar, «proprio appoggiandosi alla
paura dell’alta borghesia di perdere i suoi modesti privilegi e alla stanchezza
della gente stremata da rivoluzioni, sommosse e imprese militaresche».3
Tuttavia Liszt elesse questo centro così appartato e chiuso come luogo
di promozione dell’arte, e cercò di utilizzare l’istituzione che era chiamato a
presiedere come il motore di uno sviluppo culturale ed estetico, secondo il
principio per cui quanto più si trionfa su un pubblico dagli orizzonti di gusto
limitati e conservativi, tanto più facile sarà diffondere il nuovo linguaggio presso gli altri: in questa decisione giocò appunto un ruolo fondamentale l’influsso
delle teorie sansimoniste, conosciute durante gli anni della formazione parigina. Pur non partecipando mai con atti concreti ai moti rivoluzionari, la cui
scintilla scoccò nel luglio del 1830 proprio nella capitale francese, Liszt aderì
convintamente a quello spirito umanitario che inquadrava il progresso dell’arte come destino collettivo della storia umana, nel suo divenire; avvicinando
la propria concezione dell’arte a quella sansimoniana della scienza, quale forza
capace di unire gli uomini nel cammino comune del progresso, Liszt individuava il duplice scopo della musica: da un lato elevare e consolare l’uomo,
dall’altro benedire e glorificare Dio. Per arrivare a questo scopo era pertanto:
[…] imminente la creazione di una musica nuova, essenzialmente religiosa, forte ed efficace. Questa musica che, in mancanza d’un altro termine,
chiameremo umanitaria riassumerà in proporzioni colossali il teatro e la
chiesa; sarà allo stesso tempo drammatica e sacra, pomposa e semplice,
patetica e grave, ardente e sfrenata, tempestosa e calma, serena e tenera.[…]
3. Dalmonte (1983: 56).
Franz Liszt e la «Dante Symphony»
Dante e l’arte 2, 2015 131
Sì, non ne dubitiamo, ben presto sentiremo esplodere nei campi, nei casolari, nei villaggi, nei quartieri, nelle officine e nelle città, canti, cantici, arie,
degli inni nazionali, morali, politici, religiosi, fatti per il popolo, insegnati
al popolo, cantati dai lavoratori, dagli artigiani, dagli operai, dai ragazzi e
dalle ragazze, dagli uomini e dalle donne del popolo. Tutti i grandi artisti,
poeti e musicisti daranno il loro contributo a questo repertorio popolare
che si rinnoverà incessantemente.[…] Sarà il fiat lux dell’arte4.
In un connubio di neocattolicesimo francese e prime teorie di stampo socialista-umanitario, Liszt promuoveva un’arte sociale che indicasse all’umanità
una strada, e che ne accompagnasse il cammino mediante suggestive epopee
simboliche: il pellegrinaggio, l’itinerario spirituale, la contemplazione estatica,
la musica a programma avrebbero dovuto sempre assolvere questo duplice
compito, religioso e sociale.
La preoccupazione dell’artista è sempre rivolta alle masse, e la musica a
programma deve essere pensata per comunicare pensieri, sentimenti e contenuti vòlti al progresso civile ed umano: l’elemento poetico diventa il riferimento principe nella creazione della nuova musica lisztiana, perché solo
congiunte musica e poesia possono incarnare lo spirito dei tempi, abbracciare
«religiosamente tutto il corpo sociale» e prendere pienamente possesso «di
quell’ampia eredità loro provvidenzialmente assegnata»5. In un’epoca storica
in cui la civiltà strumentale esplorava le sue potenzialità e il pensiero estetico
romantico predicava la superiorità assoluta della musica nel campo delle arti,
l’esigenza di unire poesia e suoni, in un contesto puramente sinfonico (senza
ricorrere quindi al melodramma) non deve essere intesa come una carenza
del mezzo espressivo musicale, che non basta da sé, non è più autosufficiente; è invece l’idea che la musica non potrà mai essere pura forma, piatta ed
inespressiva, ma avrà sempre bisogno di un contenuto ideale forte, che solo
la poesia potrà darle; e questo contenuto sarà funzionale alla forma, nel senso
che ne garantirà l’ispirazione e la creazione.6 Nel famoso scritto sulla musica a
programma di Berlioz, Liszt chiarisce questo punto del suo pensiero:
Il programma non ha altra funzione se non quella di indicare a scopo preparatorio i momenti spirituali che hanno spinto il compositore alla creazione
della sua opera e i pensieri ai quali ha cercato di dare corpo attraverso il
programma[..] Il sinfonista poetante che si pone il compito di rendere
altrettanto chiara e distinta quanto lo è nel suo spirito, un’immagine, una
successione di stati d’animo di cui è inequivocabilmente e fermamente
cosciente, perché non dovrebbe tendere alla completa comprensione con
l’aiuto di un programma?7
4. Franz Liszt, De la situation des artiste et de leur condition dans la société, in Liszt, (1987: 66-67).
5. Franz Liszt, Encore quelques mots sur la subalternité des musiciens, in Liszt (1987: 85-86).
6. A proposito della centralità della musica a programma nel pensiero estetico lisztiano fondamentale è il capitolo Liszt’s Prayer contenuto nel libro di Berthold Hoeckner (2002: 155-188).
7. Franz Liszt, Berlioz und seine “Harold Symphonie”, in Liszt, (1987: 359); il saggio fu pubblicato
132 Dante e l’arte 2, 2015
Alessandro Avallone
L’ausilio di un programma, ossia di una suggestione, di un’immagine, di un
sogno utopistico che l’artista sente nascere dentro di sé, è perciò una parte costitutiva del nuovo linguaggio musicale che Liszt si propone di creare, poiché
senza di esso l’opera d’arte in musica perderebbe il suo potenziale eversivo,
l’impegno etico, civile e religioso, e infine la sua missione educativa. Da questo punto di vista, la scelta di un’epopea spirituale come quella che compie
Dante nelle tre cantiche della Commedia non sembra condizionata dal valore
letterario e simbolico dell’opera stessa, che in piena temperie romantica era
letta specialmente in chiave nazionalistica, quanto invece dalle potenzialità
espressive che quell’itinerario dell’anima, quel viaggio umanissimo ma allo
stesso tempo ultramondano, potevano suggerire al compositore, in quegli anni
weimaresi così deludenti e frustranti, che però furono anche culla dei suoi
sogni avveniristici.
2. Simbologia e frammentarietà:
Dante nel pensiero lisztiano
Gli anni giovanili “di pellegrinaggio” in Italia contribuirono notevolmente alla
creazione di una visione fortemente idealizzata e sublimizzata della patria delle
lettere e della musica cristiana: lo stupore di fronte alle meraviglie naturali,
per il patrimonio storico-artistico e per l’infinita bellezza dei paesaggi italiani,
sospesi tra arte e natura, suggerì a Liszt una serie di riflessioni, alcune delle
quali sembrano perfette cartoline del Belpaese:
Se c’è un luogo al mondo in cui il rumore esteriore delle cose non penetra
affatto, se c’è un posto isolato che le dispute vane e le ambizioni puerili non
potrebbero turbare, questo è, sicuramente, il luogo da cui scrivo, è il posto
isolato in cui mi sono fermato per dare un ultimo addio all’Italia, per gioire
un’ultima volta dell’ineffabile bellezza di questa terra amata dalla luce.8
Fu probabilmente nei giardini all’inglese di Villa Melzi, a Bellagio, che Liszt
respirò per la prima volta il profumo della poesia di Dante, leggendone passi
all’ombra dei platani, o ammirando la scultura di Bonelli raffigurante Beatrice
che indica il cielo tenendo per mano lo sperduto viaggiatore ultraterreno. Ma
a Bellagio Dante doveva ancora corrispondere alla figura mitica tratteggiata
dal romanticismo francese: come ha scritto Rossana Dalmonte, «doveva essere
più il Dante della Vita nova che non della Commedia».9 e doveva essere sicuramente già passato nello specchio deformante degli scritti e delle immagini di
Victor Hugo, Balzac, M.me de Staël, nonché della prediletta compagna di Liszt
a puntate sulla rivista Neue Zeitschrift für Musik nel 1855.
8. Così scriveva Liszt all’amico Hector Berlioz il 2 ottobre 1839, da San Rossore, dove si era
fermato durante il viaggio di ritorno; cfr. Liszt, (1987: 218).
9. Cfr. Dalmonte (2012: 56).
Franz Liszt e la «Dante Symphony»
Dante e l’arte 2, 2015 133
d’allora, Marie d’Agoult. Era quindi Dante nella sua dimensione eroica di esiliato, di mistico incompreso, cui si guardava con attenzione per il suo rapporto
con Beatrice, un amore purificante, metafisico. Probabilmente tale approccio
alla figura del poeta fiorentino mutò in seguito al primo soggiorno romano.10
Quando parliamo della ricezione lisztiana di Dante ci muoviamo purtroppo sempre nel campo delle ipotesi: contrariamente ai numerosi scritti saggistici e critico-musicali, non ne disponiamo, o forse non è mai esistito, nessuno
in cui appaia la sua posizione nei confronti del poeta fiorentino. Dobbiamo
perciò concentrarci sul suo pensiero musicale, e ovviamente sul linguaggio
compositivo presente nelle opere dedicate a Dante.
Nell’opera di Liszt dedicata a Dante appaiono due aspetti significativi, uno
di carattere formale e l’altro nominalistico. Da un lato è interessante notare
come il primo titolo di quella che diventerà la Dante-Sonata – vale a dire l’ultima composizione del secondo volume delle Années de pèlegrinage (Après une
lecture du Dante)- fosse semplicemente Fragment, ossia un brano libero, quasi
fantastico, cui è impossibile dare una forma unitaria né ricondurre a un insieme, che resta, per l’appunto, un frammento; dall’altro abbiamo invece l’interessante progetto, mai realizzato, di un grande Dramma lirico basato sulla
Commedia, da portare sulle scene weimaresi con libretto di Autran e i disegni
di Bonaventura Genelli11. Alla base del progetto vi era l’idea di rappresentare
sulla scena teatrale in forma di dramma il viaggio nei tre regni dell’aldilà, con
l’utilizzo dei necessari pezzi chiusi di musica vocale (arie, duetti, cori), alternati ad episodi puramente strumentali; ma tale lavoro sarebbe risultato troppo
lineare e logico, con una drammaturgia rigidamente plastica, presente anche
fisicamente nel diorama che avrebbe dovuto dare forma tridimensionale agli
schizzi di Genelli. Ciò che Liszt voleva sottolineare era invece un altro aspetto:
la modernità del poema dantesco, ossia la sua capacità di «non corrispondere
ad alcuna definizione»,12 e quindi, ancora una volta, la sua frammentarietà, la
sua natura pittorica, episodica, e non monumentale. A Liszt non interessava la
costruzione della Commedia nel suo insieme, cioè la salita dalle selve infernali
all’Empireo, e poi su fino al cospetto di Dio, bensì alcuni episodi specifici,
10. Molto significativo, da questo punto di vista, è il suddetto studio critico di Rossana Dalmonte, che pone in evidenza l’influsso esercitato sul pensiero lisztiano da parte della cosiddetta scuola pittorica dei Nazareni e da alcuni artisti francesi frequentati a Villa Medici, come il pittore Ingres, che realizzò dei ritratti di Liszt e di Marie; un tratto stilistico
estremamente delicato quello dei Nazareni, quasi preraffaelita, che non solo riportava la
pittura ad uno stadio primitivo, ma voleva idealmente collegare la loro arte agli albori del
cristianesimo, senza mediazioni di maniera, al fine di far emergere nettamente le dicotomie
e i contrasti.
11. Pittore ed incisore nato a Berlino, formatosi a Roma e al servizio presso la corte di Weimar,
dove morì nel 1868; notevoli furono i suoi disegni, per lo più a semplice contorno, e i suoi
acquerelli, molti dei quali ispirati ad episodi della Commedia e dei due poemi omerici.
12. Cfr. Dalmonte (1983: 67).
134 Dante e l’arte 2, 2015
Alessandro Avallone
grazie al valore simbolico, etico, religioso dei quali potesse esprimere musicalmente l’eterna dicotomia tra bene e male, senza doversi attenere rigidamente
alla struttura e allo svolgimento lineare delle tre cantiche. La ricerca e la scoperta di Dante, come percorso incessante e continuo, che accompagnò Liszt
durante l’intera esistenza, rappresentano forse al meglio quell’ideale filo rosso
tra musica, poesia e pittura che il pianista-compositore considerava elemento
base della musica dell’avvenire, poiché solo grazie alla sinergia di questi tre
elementi l’ascoltatore avrebbe potuto comprendere al meglio le immagini e
gli stati d’animo che in quella musica erano depositati. Accogliere la simbologia ultramondana del poema dantesco significava pertanto dotare il potente
mezzo espressivo sinfonico della forza prorompente della poesia e delle immagini da essa suscitate. Per ottenere questo, non era poi così importante la struttura cronologica del poema, quanto la sua natura episodica, non tanto la sua
ascensionalità dall’oscurità alla luce, quanto l’esemplarità e la forza simbolica
di alcuni frammenti; per questa ragione la conclusione della Dante Symphony
non è, come logicamente ci aspetteremmo, nel Paradiso.13
La critica novecentesca ha da tempo risolto il problema dell’unità della
Commedia individuandone il senso allegorico complessivo come annuncio
etico-politico ad un’umanità in crisi, bisognosa di ritrovare un ordine; tale
ordine sarebbe stato possibile solo nel momento in cui la Curia romana avesse
rinunciato alle ambizioni temporali, spettanti soltanto all’Impero. Le diverse pagine dell’itinerario oltremondano, che conoscono momenti differenti di
intensità espressiva, non ammettono una lettura frammentaria del poema:
gli episodi più suggestivi non sarebbero ciò che sono se non fossero inseriti
nella cornice completa dell’opera. A riprova dell’unitarietà del poema basti
pensare alla suddivisione dell’aldilà in tre regni distinti, cui corrispondono il
disperante dolore, l’attesa della salvezza, la piena letizia della comunanza con
Dio; oppure alla partizione in 33 canti, cui si aggiunge un proemio generale
per raggiungere il numero perfetto di 100, secondo la numerologia medievale;
o ancora all’argomento politico presente nel sesto canto di ogni cantica, e
alla parola stelle con cui ogni cantica si conclude. Infine, la natura allegoricodidattica del poema è determinata da un forte realismo: la metafora dell’oltremondo, come ha scritto Giorgio Inglese, è specchiata nel nostro mondo, per
cui esso è reso sensibile e leggibile con forme e modi realistici; le anime che
si presentano sulla scena come exempla di vizi e virtù «esibiscono fisionomia
e passioni di viventi».14 Dante ha perciò creato personaggi reali, caratterizzati
da situazioni psicologiche proprie della vita terrena, quindi riconoscibili pur
attraverso la trasfigurazione oltremondana data dalla dimensione dell’aldilà.
13. A tal proposito rimando all’ottimo saggio di Antonio Rostagno, in cui non manca una
piccola ma significativa parte relativa al poema lisztiano; si veda Rostagno (2013: 175-241).
14. Inglese (2007: 10).
Franz Liszt e la «Dante Symphony»
Dante e l’arte 2, 2015 135
È questo aspetto, così umano e terreno, valido in ogni epoca storica, il vero
programma poetico da trasporre in musica che attrasse Liszt.
3. Analisi dell’opera
L’iniziale progetto “multimediale” di suoni ed immagini, che balenò nella
mente di Liszt subito dopo aver visto la serie di schizzi ispirati a Bonaventura
Genelli dal poema dantesco, e che prevedeva la proiezione tridimensionale dei
luoghi, delle persone e degli oggetti che la musica avrebbe illustrato sonoramente, grazie all’ausilio della recente invenzione del diorama, fu abbandonato
per la perenne carenza di fondi della corte di Weimar; invece l’idea di una
“Sinfonia Dante” sopravvisse e venne realizzata nel 1856, dopo la grandiosa
Faust Symphony del 1854. La prima esecuzione ebbe luogo a Dresda l’anno
successivo, nel 1857, sotto la direzione dello stesso compositore. La sinfonia,
ispirata dalla Commedia, si divide in due parti: una prima sezione, denominata
Inferno, e una seconda composta dal Purgatorio e da un coro finale “Magnificat” per voci bianche o sole voci femminili. Il coro sostituisce il Paradiso, che
essendo regno assoluto della divinità non può essere rappresentato neanche
dalla musica. L’idea di concludere il lavoro sinfonico con un episodio corale
di chiara ascendenza beethoveniana parve non convincere molto Wagner, cui
l’opera è dedicata. Sappiamo infatti che per lui il movimento finale con soli
e coro della Nona sinfonia beethoveniana ne costituiva la parte più debole, e
d’altra parte l’alto contenuto teologico e simbolico che il regno dell’Empireo
portava con sé rappresentava un’impresa smisurata anche per Dante stesso, per
cui l’ultima cantica sarebbe la meno riuscita.15
Ma indipendentemente dal consiglio dell’amico, Liszt non avrebbe mai
potuto, per la sua forte dimensione religiosa, delegare ad un movimento di
sinfonia la visione delle schiere angeliche e della rosa dei beati, poiché certi
misteri restano intellegibili, ed è naturale che sia così; ma la lode a Dio non
può essere estromessa, e per questa ragione l’opera si conclude con un Magnificat, aspirazione delle anime purganti e penitenti che ancora attendono
un giudizio definitivo e sperano sino all’ultimo nell’infinita clemenza divina.
Prima di addentrarci in una pur sommaria analisi dell’opera, occorrerà chiarire, un’ultima volta, il pensiero di Liszt a proposito della finalità e
dell’estetica della musica a programma, ben delineato, come abbiamo visto,
15. Wagner doveva ben conoscere il famoso verso dantesco, nell’ultimo canto del Paradiso,
quando l’invenzione poetica e la fantasia pittrice dell’autore si arrendono esplicitamente di
fronte alla grandezza del mistero divino: «A l’alta fantasia qui mancò possa», quartultimo
endecasillabo del poema, sta ad indicare, infatti, come alla facoltà dell’immaginazione,
capace di mediare tra ciò che gli occhi di un uomo vedono e ciò che il suo intelletto riesce
a comprendere, viene meno alfine l’aiuto divino, e le risulta impossibile riportare in un
linguaggio terreno un mistero che va al di là della ragione umana.
136 Dante e l’arte 2, 2015
Alessandro Avallone
nell’amplio saggio sull’Harold en Italie di Berlioz: è importante ricordare come
l’assunzione di una idea poetica centrale, o di un soggetto significativo che si
vuole descrivere e assumere come riferimento, venga considerata un mezzo e
uno strumento da adoperare per scardinare i vincoli formali dell’opera sinfonica tradizionale.
La ripresa, l’alternanza o la variazione di temi melodici non sono perciò
dettate da esigenze di architettura compositiva, bensì dall’incessante condizionamento dell’idea poetica, che impedirà all’ascoltatore di cadere in interpretazioni errate rispetto all’intento originario del compositore; se pertanto
lo spunto extramusicale può essere identificato dal titolo della sinfonia, o da
alcuni versi poetici disseminati nella partitura, esso non potrà determinare
l’andamento della musica, ma sarà casomai la musica a scorrervi parallelamente, al fine di valorizzare l’idea poetica servendosi di risorse espressive, ritmiche
e dinamiche.
Lungi dal voler trasferire in musica un capolavoro della letteratura, cercando di tradurre nel linguaggio dei suoni i suoi caratteri linguistico-semantici,
Liszt ha voluto proseguire, nella Dante Symphony, il percorso già intrapreso
con i cicli pianistici, verso una lingua musicale narrativa e pittrice, servendosi
stavolta dell’organico orchestrale e di una tavolozza di colori che il pianoforte
da solo non poteva dargli. Il passaggio dal microscopico al macroscopico non
fu certo indolore per il nostro compositore, tuttavia il cammino non poteva
che farsi più irto e avvincente, dilatando i parametri agogici, dinamici e timbrici su di una scala immensamente maggiore e finora inesplorata.
Come avremo modo di vedere, la scrittura orchestrale di questo capolavoro lisztiano è costruita intorno ad alcune isolate e specifiche immagini
poetiche, su cui insiste una dimensione agogica, fatta di respiri e fluidità del
tempo, ed una dimensione timbrico-dinamica: l’orchestra raggiunge infatti
una piena sonorità nelle pagine dei “tutti”, ma conosce anche momenti di
affettato lirismo e di piglio più cameristico, isolando sezioni strumentali accomunate da un timbro e da un colore assai simili. Se quindi i soggetti letterari
sono noti, e il programma non ha altro scopo se non quello di indicare all’ascoltatore determinati pensieri ed immagini che solo con la musica possono
rivelarsi, a fare un passo in avanti in questa operazione poetico-musicale non è
tanto l’elemento extramusicale, quanto proprio la musica, per il cui progresso
è indispensabile il programma: non stupisce, quindi, come la terza cantica
dantesca venga tagliata fuori, perché non così necessaria ai fini della missione
avvenirista, quanto invece può esserlo il testo del Magnificat con l’intervento
della compagine corale (senza però sfociare nel melodramma); tale sezione,
che rimane una suggestione e uno stato d’animo a sé, tuttavia non sarebbe
comprensibile se non fosse posta come traguardo del cammino psicologico e
spirituale che l’opera tutta ha percorso. Sarà necessario, dunque, tenere sempre
Franz Liszt e la «Dante Symphony»
Dante e l’arte 2, 2015 137
ben presente come l’uso di alcuni effetti timbrici, dei raddoppi, dei registri
estremi, dei cromatismi, delle dissonanze, di organici inusuali e di sonorità
evocanti immagini e sensazioni suggestive, sarà un uso sempre funzionale alla
musica stessa, al suono di per sé: saranno i temi e le idee melodiche a far parlare il programma, non esso a dar voce alla musica; e l’itinerario psicologico e
spirituale (ma anche drammatico) che è indicato dal titolo, dal programma,
dai riferimenti testuali presenti nel brano, sarà delineato dalla musica stessa,
nel suo permutare ritmico, melodico ed armonico.
Tale itinerario muove i suoi passi sin dal primo movimento, l’Inferno, affidando all’orchestra un commento orchestrale alle parole oscure scolpite sulla
porta d’entrata al regno avernale, le stesse che costituiscono l’incipit del terzo
canto. Si comprende facilmente il perché di questa scelta e della conseguente omissione sia dello smarrimento nella selva oscura, sia dell’incontro con
Virgilio, sua guida spirituale: a Liszt interessava la dimensione frammentaria
ed episodica del poema dantesco, come già abbiamo visto, e quindi l’aspetto
metrico del testo dell’iscrizione e l’arcano significato delle parole acquistano
il massimo rilievo.
L’assetto metrico garantisce un effetto di tensione, costituito dall’esordio
improvviso della prima terzina del canto, e quindi un’iterazione anaforica di
un primo quinario tronco e di un secondo emistichio, un settenario piano,
che introduce un’atmosfera disperante, cupa ed emotivamente significante
all’intero episodio (“Per me si va / nela città dolente; per me si va / nel’etterno
dolore” etc.)16; ma è l’intero sistema metrico dantesco, ossia la famosa terzina
di endecasillabi a rima incrociata, che Liszt assume come riferimento linguistico da rivestire sonoramente. La sinfonia si apre infatti con un cupo disegno
melodico, dal timbro scuro e arcano, in cui già appare la cellula musicale
della terzina di crome, che si presenterà molto spesso nel corso del primo
movimento in differenti tipologie mensurali: questo canto sillabico, incalzante ma sofferente, accompagna fedelmente il verso dantesco, riportato nella
partitura, secondo la migliore tradizione della musica a programma, ed è affidato a strumenti gravi e dal colore intenso e corposo come tromboni tenori,
trombone basso, tuba, oltre che agli archi scuri, alle viole, ai violoncelli e ai
contrabbassi.
16. Per il testo del poema dantesco faccio riferimento alla recente edizione critica dell’Inferno,
curata da Giorgio Inglese; cfr. Inglese (2007).
138 Dante e l’arte 2, 2015
Alessandro Avallone
È da notare come l’espressione sonora che Liszt vuole conferire a queste
terzine dantesche, da sempre connotanti il regno infernale come luogo di
non-ritorno nell’immaginario collettivo, si avvalga di una melodia sillabica e
dell’intervallo musicalmente più semplice, ossia l’unisono. Ecco infatti la parte
degli archi scuri:
La musica continua a rivestire il testo, incalzando ritmicamente e dinamicamente l’intero corpo orchestrale che infine esploderà con potentissimi accordi
sulle parole finali dell’iscrizione avernale: “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. Il madrigalismo lisztiano procede con delle puntute scale cromatiche
eseguite dagli archi scuri che, per mezzo di continui disegni di tensione e allentamento, porteranno infine all’emergere di un colossale accordo dissonante
a piena orchestra:
L’ingresso nella dimensione ultraterrena è scandito da un progressivo accelerando del disegno melodico, che procede per progressioni cromatiche e nervosi ostinati di terzine affidati ai bassi; il programma originario di musica
illustrativa di un dramma lirico, o comunque di una proiezione mediante
diorama di figure ed immagini esplicative, risulta ancora ben presente nella
partitura, che riveste il testo poetico per evocare sonorità e timbriche orchestrali vòlte principalmente alla semantica del «programma»; le progressioni
sono infatti sempre discendenti, frananti, e le armonie incerte e cedevoli si
nascondono dietro ad ostinate figurazioni terzinate, a ricordarci sempre qual è
la matrice metrica su cui il testo è fondato. La sensazione di un castigo eterno,
di una caduta rovinosa e irreversibile perché in vita non si è voluto rinunciare
ai peccati più seducenti, emerge nettamente in una dinamica e in un’agogica
tempestosa, come il destino che attende i dannati
Franz Liszt e la «Dante Symphony»
Dante e l’arte 2, 2015 139
Ma secondo la migliore tradizione dantesca (e anche in un’ottica sinfonica di
blocchi contrastanti), la legge del contrappasso può dar vita a rovesciamenti
insoliti: così, da una scrittura sinfonica compatta, fondata su masse sonore e
blocchi timbrici ben delineati e sempre nell’idea di una musica pittorica capace di illustrare il testo fondante, si passa ad un altro frammento del poema
dantesco, il canto di Paolo e Francesca; il loro amore idealizzato e mai consumato necessita di un altro colore sinfonico, di una deliziosa intimità e di
maggiore dolcezza, e non può più servirsi di sonorità ostentatamente gravi,
marziali, quasi sproporzionate.
Se perciò il tumultuoso movimento veloce si avvia al suo culmine, procedendo nel suo ostinato disegno di terzine,
ecco che una linea melodica morbida ed avvolgente accompagna le parole
degli incauti amanti,17 affidata al suono malinconico di un corno inglese, e
sorretta dai dolci arpeggi pizzicati dell’arpa:
17. V canto: « Nessun maggior dolore/che ricordarsi del tempo felice/nella miseria ».
140 Dante e l’arte 2, 2015
Alessandro Avallone
Il rimpianto del tempo felice è legato ad una dimensione contingente, terrena, mentre ad essere eterna è la miseria: per questa ragione la melodia risulta
ugualmente dolente, pur nella sua apparente dolcezza.
La speranza di una redenzione ultima, e di un clemente perdono finale,
pervade invece il secondo movimento della sinfonia, il Purgatorio, ossia quel
regno ultramondano dove lo spirito umano, pur indegno di accedere al Paradiso, si purifica e si prepara degnamente ad una futura ascensione: qui il clima
appare sospeso, ma gli elementi idiomatici del ritmo terzinato compaiono
ancora, sempre affidati all’arpa, mentre prima l’oboe e in seguito il corno
inglese intonano una frase melodica di ampio respiro.
Il contrasto tra le terzine dell’arpa e le duine di crome degli archi è una costante anche nel coro finale della sinfonia, come un disegno incessante che non
ha culmine e che promette un approdo, in quanto attesa di felicità e mistero
senza soluzione. Come la sua fede, come il suo progetto di musica dell’avvenire, come la sua incessante ricerca di equilibrio tra arte e religione, così la sua
sinfonia si arrende di fronte al mistero divino, e si limita soltanto a celebrarne
la grandiosità, senza illudersi di comprenderla.
Il Lamentoso che conclude la sezione dedicata al secondo regno dantesco
è scritto come un fugato inquieto e instabile, come il destino incerto delle
anime purganti. Infine il messaggio poetico prende forma attraverso un testo
che è intonato da un coro di voci femminili (o voci bianche), ma il «program-
Franz Liszt e la «Dante Symphony»
Dante e l’arte 2, 2015 141
ma» è qui extradantesco, perché non c’è musica che possa esprimere la visione
dell’Empireo. Liszt sceglie perciò di affidarsi ad una classica preghiera di invocazione e lode, con testo latino, che non certo casualmente è una cantica,
come le tre sezioni del poema dantesco; e se non è possibile illustrare con la
musica il regno di Dio, il Magnificat può degnamente riassumere l’itinerario
spirituale dell’anima che questa sinfonia vuole suggerire, concludendo idealmente la triade dantesca.
Il contrasto tra le duine e il disegno terzinato accompagna costantemente
l’intonazione della preghiera di lode, significativamente affidata ad un timbro
vocale chiaro e melodioso. Se la numerologia medievale di stampo cristiano assume qui un valore simbolico non è dato saperlo. Il dubbio tuttavia permane.
Alla fine di questa sommaria analisi di questa pur preziosissima opera sinfonica a programma di Franz Liszt, restano dunque poche certezze: circa il rapporto del compositore con Dante e la sua poesia molto è stato scritto ma ancora
tanto è da scoprire; lo stesso vale per il rapporto tra il testo letterario o poetico
come fonte di ispirazione compositiva e la sua traduzione in musica nei poemi
sinfonici e nelle sinfonie a programma. La ricerca costante, nell’ambito di
una fede religiosa che così fortemente caratterizzò l’uomo e l’artista Franz
142 Dante e l’arte 2, 2015
Alessandro Avallone
Liszt, di un nuovo linguaggio musicale e di nuove potenzialità espressive delle
forme compositive resta senza dubbio l’aspetto più affascinante di quest’opera
e di molte altre produzioni sinfoniche “a programma”, che forse sono state
troppo a lungo dimenticate e meriterebbero indagini più approfondite, quali
unici documenti di un pensiero musicale lisztiano che altrimenti rischiamo
di perdere.
Bibliografia
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Carocci, Roma, 2007.
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Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2, pp. 175-241.
Dante e l’arte 2, 2015 143-160
L’orgoglio identitario e lo ‘spirito di Dante’
nella musica italiana postunitaria
Francesco Bissoli
Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
[email protected]
Riassunto
Ripercorrendo la storia della ricezione di Dante nella musica, si nota che il terreno più fertile è stato quello della musica ‘a programma’, specialmente per orchestra o per pianoforte:
grazie alla la fortuna della ‘cultura dell’interpretazione’, determinati luoghi danteschi diventano fonte d’ispirazione, a livello di suggestioni estetiche. La produzione s’infittisce intorno
al 1865, anno del sesto centenario dantesco, collegandosi all’idea della capacità della poesia
dantesca di rigenerare la vita sociale e culturale di un’Italia finalmente unificata, ma di fatto
ancora frammentaria e alla ricerca di un’identità nazionale. Le numerose manifestazioni
acquisirono spesso un significato politico e si caricarono talora di significati irredentistici.
Particolarmente articolate furono quelle tenute a Firenze, neocapitale italiana, tra il 14 e il
16 maggio. Parte rilevante dei festeggiamenti, le iniziative musicali furono poste sotto la
supervisione di Teodulo Mabellini, che, sulla scorta dei festival stranieri, incentivò la musica
corale: numerosi brani di contenuto patriottico furono eseguiti da masse di centinaia di
persone. Mabellini offrì per l’occasione il suo contributo con la partitura della cantata Lo
spirito di Dante. Si tenne inoltre la prima esecuzione di una nuova sinfonia ispirata alla Divina Commedia, composta da Giovanni Pacini, su tema proposto da Abramo Basevi.
Parole chiave: Dante, Firenze, 1865, Pacini, Mabellini.
Abstract
In tracing the history of the reception of Dante in music, program music, especially for
orchestra or piano, appears as a most fertile ground. The successful ‘culture of interpretation’ made some Dantesque topics into an aesthetic source of inspiration. This production
intensifies in 1865, the six hundred Dante anniversary, rejoining the idea of a Dantesque
poetry regenerating the social and cultural life of unified Italy. But the search for a national
identity was nevertheless fragmentary and many manifestations often acquired a political
significance loaded with certain irredentist meaning. Particularly articulated where the ones
in Florence, Italy’s new capital, from 14-16 May. The musical performances of most of the
festivities took place under the supervision of Teodulo Mabellini, who stimulated much
choral music on the basis of foreign festivals. Several pieces of patriotic content were performed by hundreds of people. He composed on the occasion the cantata Lo spirito di Dante.
The first performance of a new symphony inspired by the Divine Comedy, composed by
Giovanni Pacini on a theme by Abrano Basevi, was also held.
Keywords: Dante, Florence, 1865, Pacini, Mabellini.
issn 2385-5355
144 Dante e l’arte 2, 2015
A
Francesco Bissoli
differenza della fortuna incontrata dalla poesia petrarchesca, la presenza
di Dante nella musica non è particolarmente diffusa, almeno sino all’Ottocento. Con l’avvento delle poetiche romantiche, assieme all’apostolato alfieriano e foscoliano, è finalmente riconosciuta la sua forza morale e il suo valore
educativo (Dionisotti 1967; Cazzaniga 2010). Nella seconda metà del secolo
una prospettiva critica più avveduta si coniuga con l’idea – già in voga, ma
sempre più insistentemente propugnata – della capacità, insita nella poesia
dantesca, di rigenerare la vita sociale e culturale dell’Italia finalmente unificata, ma alla ricerca di un’identità nazionale, perché di fatto ancor frammentaria. L’intepretazione della figura e dell’opera di Dante in chiave patriottica
e irredentistica culmina nel 1865, con le celebrazioni per il sesto centenario
della nascita.
La riscoperta investe anche il mondo della musica. Come emerge dalla
consultazione dei repertori (Lansing 2000), nell’Ottocento musicale si nota
nel complesso una marcata predilezione per la prima cantica della Commedia,
in linea con la tradizione critica che da Foscolo giunge sino a De Sanctis, il
quale ne sancisce la superiorità estetica e contenutistica, affermando: “l’inferno è più poetico del paradiso” (De Sanctis 1996, 174). Nel suo recente e acuto
excursus, Antonio Rostagno ricollega la fortuna di Dante nella musica dell’Ottocento all’avvento della ‘cultura dell’interpretazione’ che si confronta con la
tradizionale ‘cultura del commento’ (Rostagno 2013: 178-9): l’intento attualizzante del saggio storico-critico che caratterizza la linea Foscolo-Mazzini-Tommaseo contro l’antica prassi dei lunghi apparati di note (Tissoni 1993: 217).
Per opportunità di sintesi le modalità di assunzione della poesia dantesca nella
librettistica e nella musica si possono enucleare in alcuni filoni principali. Anzitutto Dante può essere evocato come modello di arte impegnata civilmente e
moralmente, cui fare astratto riferimento. Si può in secondo luogo considerare
la messa in musica del testo originale, anche se i musicisti dell’Ottecento, forse
a causa di un comprensibile timore reverenziale, non osarono impegnarsi più
di tanto nel recupero diretto della poesia di Dante: la sua autorità e la sua
voce costituiscono vincoli troppo stringenti. Non consentendo una libera e
creativa interpretazione del testo, la musica vocale potrebbe così collegarsi alla
precedente ‘cultura del commento’ (Rostagno 2013: 180). Dopo la fortuna cinquecentesca di alcuni estratti – come le terzine di If. III, 22-27, dotate di veste
musicale da Luzzaschi e altri coevi; quelle del canto V, 4-12, musicate da Balbi;
la canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro intonata, fra gli altri, da Marenzio; oltre al celebre ma purtroppo perduto Lamento del Conte Ugolino di
Vincenzo Galilei – e il successivo disinteresse dei compositori per Dante, non
mancano tuttavia lavori pregevoli di questo tipo nel Diciannovesimo secolo:
ad esempio Il conte Ugolino (1828) per basso e pianoforte e Ave Regina (1844)
per soprano, contralto e archi di Donizetti, Pater noster per coro a cinque voci
L’orgoglio identitario e lo ‘spirito di Dante’
Dante e l’arte 2, 2015 145
(1879), Ave Maria per soprano e archi (1880), Laudi alla Vergine Maria per
coro femminile a quattro voci (1886) di Verdi, su terzine della Commedia, e la
ballatella sui primi tre versi di Per una ghirlandetta (1894) per soprano, mezzosoprano e pianoforte di Arrigo Boito. A tale tipologia appartiene La vita nuova
di Ermanno Wolf-Ferrari. Dedito in età giovanile a un appassionato studio di
Dante, nel volontario esilio di Monaco (De Rensis 1937: 35-38), all’alba del
Novecento il compositore italo-tedesco vagheggiava l’ambiziosissimo progetto
di comporre una gigantesca cantata che compendiasse tutta la Commedia e
sperava che gli potesse aprire “le porte d’Italia” (I-Fanan, Lettera a Francesco
Lurani, Monaco, 6 febbraio 1901). Consapevole delle critiche a cui rischiava di
esporsi, per lettera raccomandava al conte Lurani di non divulgare il progetto,
illustrandone l’intelaiatura.
Quanto alla forma sarebbe troppo lungo lo spiegarla qui: le basti che è una
gran cosa (vorrei che fosse grande) esclusivamente vocale, ma con un’orchestra mastodontica, in tre parti, corrispondenti alle tre Cantiche di Dante:
che nessuno dei personaggi di Dante appare in persona, ma tutti i dolenti
sono presi direi quasi impersonalmente, astrattamente: che l’Inferno e il
Paradiso sono più che altro due grandi quadri sintetici nei quali l’idea del
Giudizio Finale, nei suoi due sensi, di Condanna e di Grazia ha una parte
preponderante, mentre il Purgatorio segue più da presso l’ordine dell’azione
di Dante, e che… strana cosa, all’infuori dell’Inferno, le parole non sono
quasi mai di Dante, né di alcun altro, ma latine, e precisamente i salmi e le
preghiere citate col primo verso durante la Commedia. […] Basta: ripeto
che è una cosa talmente enorme che qualche volta mi fa spavento. (I-Fanan,
Lettera a Francesco Lurani, Monaco, 5 aprile 1901)
Alla fine il compositore riuscì a portare a termine solo un “prologo ideale alla
trilogia dantesca”, appunto La vita nuova (1903) op. 9, per soprano, baritono,
coro doppio, coro di ragazzi e grande orchestra. L’esito lusinghiero della prima
esecuzione rianimò le speranze del maestro di essere apprezzato negli ambienti
musicali peninsulari e di concludere così il suo esilio artistico.
… se l’Italia finirà coll’accogersi che le manca un’artista veramente nobile – forse mi aprirà una porticina per entrarvi […] la Vita nuova è lavoro
italiano, e forse la cosa più elevata che si sia scritta da qualche anno in Italia
(una falsa modestia non può trattenermi dal dir questo) e si dovrebbe fare
in Italia per la prima volta, e non qui. Ma è inutile che ne parli… già la
compera un editore tedesco, e si va cercando il traduttore… di Dante!!
(I-Fanan, Lettera a Francesco Lurani, Monaco, 11 febbraio 1902)
Nella cantata sono musicati integralmente cinque sonetti della Vita nuova,
assieme a stanze di canzone, con episodi strumentali di raccordo. Frasi
o pagine del testo dantesco figurano fra un numero e l’altro come tessuto
connettivo, ma nell’esecuzione i diversi momenti lirici si dispongono in sequenza come pannelli, poiché la partitura non prevede l’intervento di un
narratore. Il lavoro, all’insegna del recupero di tecniche cinque-secentesche,
146 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Bissoli
come il ‘recitar cantando’ e il madrigalismo, rivela una propensione verso
l’estetismo arcaizzante.
Per terzo si deve considerare l’impiego della poesia di Dante come fonte
del soggetto letterario. In particolare non passa inosservata la fortuna del canto
V dell’Inferno, che, mediato assieme alla novella storica attribuita a Boccaccio
dalla tragedia di Silvio Pellico, fu oggetto di varie rivisitazioni melodrammatiche. Fra il 1825 e il 1914, anno del capolavoro di Zandonai, Aldo Caselli elenca
diciotto opere col titolo Francesca da Rimini (la maggior parte su libretto di
Felice Romani) e due Paolo e Francesca (Caselli 1969). Pur non godendo della
stessa fortuna, la vicenda di Pia de’ Tolomei suscitò fra gli altri l’interesse di
Gaetano Donizetti (1837).
Un’ulteriore possibilità è l’impiego fortemente evocativo della terzina o
del linguaggio poetico dantesco. In una generale tendenza, tipica del secondo
Ottocento, a privilegiare i versi imparisillabi, meglio se lunghi, per l’austerità
tragica del giudizio di Radamès nel quarto atto di Aida Verdi suggerisce a Ghislanzoni la terzina, “il gran verso di Dante” (Cesari e Luzio 1979: 643). Ramfis
infatti, assieme ai sacerdoti, così esordisce:
Spirto del Nume, sovra noi discendi!
Ne avviva al raggio dell’eterna luce;
pel labbro nostro tua giustizia apprendi
E Amneris prosegue:
Numi, pietà del mio straziato core.
Egli è innocente, lo salvate, o Numi!
Disperato, tremendo è il mio dolore!
Gli echi del linguaggio poetico dantesco possono inoltre confluire nei luoghi
più impensati, come detriti alluvionali. Si prenda ad esempio il ricordo di un
celebre hapax dantesco, il cricchi di Inferno XXXII, 30, nella rima onomatopeica crac alla fine del secondo atto di Falstaff.
If., XXXII, 30 …
ché se Tambernicchi
vi fosse caduto, o Pietrapana,
non avria pur dall’orlo fatto cricchi.
Falstaff, Finale 2°
quickly Pesa!
alice/megCoraggio!
nannetta Il fondo ha fatto crac!
A tale proposito Renato Di Benedetto fa notare che per l’eruditissimo Boito
non può trattarsi di una casualità: l’espediente conferisce infatti al comico
“una dimensione grandiosamente grottesca e funge da spia della molteplicità
delle allusioni, dei rimandi e della sovrapposizione di registri stilistici che di
quel comico forma l’essenza in pieno accordo con la soprendente ricchezza
L’orgoglio identitario e lo ‘spirito di Dante’
Dante e l’arte 2, 2015 147
di citazioni e contraffazioni della partitura” (Di Benedetto 1986: 400). Tutta
l’esistenza di Boito trabocca di passione dantesca, sin dai primi anni scapigliati, quando si cimentò nella confezione del libretto Amleto (Genova, 1865)
per la musica del compagno di studi Franco Faccio (Salvetti 1977). All’epoca
il soggetto era assai in voga, se si considera che fra il 1848 e il ‘60 aveva già
ottenuto tre diverse vesti operistiche (Buzzolla, Zanardini, Moroni) e che,
come riferiscono le cronache, negli anni 1858-62, la tragedia shakespeariana
venne rappresentata a Milano per dieci volte, di cui sette dalla compagnia di
Ernesto Rossi.
Il lavoro di Boito anticipa per qualità letteraria i successivi celebri libretti
scritti per la propria musica, per quella di Ponchielli e di Verdi, esibendo una
libera mescolanza di metri, un complesso gioco di assonanze verbali, un lessico
ricercato e, soprattutto, l’intertestualità che l’accostamento di Shakespeare a
Dante comporta. Per il librettista il richiamo all’autore della Commedia, peraltro proprio nell’anno delle celebrazioni per il sesto centenario della nascita,
oltre a configurarsi come uno stilema che da tempo era tra i più rappresentativi del romanticismo italiano, comportava la possibilità di individuare un linguaggio icastico in grado di condensare in pochi tratti la ricchezza di concetti,
significati e allusioni di Shakespeare. Si legga ad esempio il dialogo fra Amleto
e il fantasma del padre che Boito traduce fedelmente.
Oh! Se non fosse il ciel che lo mi vieta
io ti direi del mio patir, e ghiaccio
per lo terror ti si faria la creta.
(Boito 1871: 14)
Grazie la fortuna della citata ‘cultura dell’interpretazione’, il campo che senza
dubbio ha prodotto alcuni dei risultati migliori è infine quello della musica ‘a
programma’, soprattutto per orchestra o per pianoforte. In tal caso determinati episodi danteschi, i loro ‘concetti’, la ‘armonia’ delle idee e delle immagini,
per riprendere un noto passo desanctisiano (De Sanctis 1996: 241-2), diventano fonte d’ispirazione, a livello di suggestioni estetiche, per composizioni strumentali. Dal momento che, invece di rispettare alla lettera un testo poetico
il musicista deve esclusivamente confrontarsi con il suo contenuto, egli può
assumere un atteggiamento ermeneutico e disporre della massima autonomia
per tradurre con il linguaggio dei suoni determinate situazioni: dal semplice
descrittivismo si può così giungere a un’originale interpretazione della sostanza poetica. La produzione ovviamente s’infittisce intorno al fatidico 1865 e si
dirada progressivamente in seguito.
All’indomani di un’unificazione nazionale ancora da portare a termine, le
numerose iniziative previste per l’attesa ricorrenza – s’è già ricordato – acquisirono un significato politico, caricandosi pure di accenti irredentistici, com’è
148 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Bissoli
evidente nella scelta della terzina dantesca che figurava sulla spada donata al
re Vittorio Emanuele durante i festeggiamenti fiorentini.
Vieni a veder la tua Roma che piagne,
vedova, sola, e dì e notte chiama
Cesare mio, perché non m’accompagne?
(Pg., VI, 112-114)
All’inagurazione del monumento fiorentino erano presenti delegazioni da
Roma e dal Veneto. Nel contesto dei festeggiamenti danteschi, in molte città
ancora sotto il dominio austriaco, da Treviso a Verona, da Bassano a Belluno,
da Chioggia a Feltre, da Rovigo a Udine, da Mantova a Venezia a Gorizia
a Trieste, vennero scoperti monumenti, busti e lapidi su iniziativa in parte
dei municipi, in parte privata (Brognoligo 1921). Scritti commemorativi che
esaltavano il poeta fiorentino quale antesignano del paese unificato erano
ampiamente diffusi. Per evitare l’intervento dell’autorità militare austriaca,
a Verona la statua di Dante fu scoperta in Piazza dei Signori alle quattro di
mattina, ciononostante davanti a una “gran folla” (Comadini 1900-9: 1324).
La risonanza del mito di Dante in zone soggette ancora al dominio straniero
era ovviamente legata alla sua biografia di esiliato che proprio in riva all’Adige
trovò accoglienza per alcuni anni, ma anche al fatto che permetteva di far
valere il senso di appartenenza alla nazione. Dal canto suo la censura austriaca
non riusciva a trovare una linea unitaria contro l’intento marcatamente politico delle celebrazioni venete, per la forza integrativa della simbologia nazionale
della figura di Dante. Per l’occasione Bernardo Bellini pubblicò L’inferno della
tirannide, un bizzarro lavoro in terza rima, nel quale sono deprecate le tristi
condizioni dei territori ancora assoggettati all’Austria. Dedicata “All’Italia redenta dall’invitto e glorioso suo Re Vittorio Emanuele II”, l’opera si compone di trentaquattro canti, come l’Inferno. Caronte diventa Radetzky, il conte
Ugolino il re di Francia, l’arcivescovo Ruggeri il Borbone di Napoli, mentre
Paolo e Francesca sono trasformati in una coppia torturata dagli austriaci. Il
primo canto si apre con la figura di un lombardo smarrito in un’oscura landa.
Sul principio della notte l’uomo precipita in un abisso dove è presente una
spaventosa torma di politici scellerati, intenti a tramare contro chi aspira alla
vera libertà. Nel momento in cui sta per cadere in un ulteriore precipizio, gli
compare Dante che lo conforta e gli preannuncia l’impresa di Carlo Alberto,
campione dell’italico riscatto (Bellini 1865).
Particolarmente fastose furono le celebrazioni che si tennero a Firenze tra
il 14 e il 16 maggio 1865 e ne consacrarono il ruolo di città capitale. Nessuna
occasione poteva presentarsi più propizia di una simile manifestazione dell’orgoglio identitario nazionale per presentare la nuova capitale ai più insigni
rappresentanti delle altre provincie italiane (Pesci 1904). Giornali e periodici
L’orgoglio identitario e lo ‘spirito di Dante’
Dante e l’arte 2, 2015 149
diedero ampia testimonianza della varietà di pubbliche cerimonie previste nel
programma dei festeggiamenti (Antolini 1994).
Il 14 maggio, prima delle nove del mattino, il cannone di Forte Belvedere
diede inizio a un imponente corteo che si mise in movimento da Piazza Santo
Spirito. Vi presero parte i
rappresentanti dei Municipi italiani, delle Accademie letterarie e scientifiche italiane, e straniere, dei Collegi licei, Università ed altri stabilimenti
d’istruzione, i componenti la Società per il monumento a Dante, i Collegi degli avvocati, dottori, medici, speziali, bibliotecari, giornalisti ec.; i
deputati delle Fratellanze artigiane, delle Società operaie d’Italia, i deputati
dell’emigrazione italiana; tutti scortati da bandiere coi propri stemmi e titoli
[…]. (Per il sesto centenario di Dante 1865: 5-6).
Il percorso era addobbato con colonne, statue e trofei, in memoria dei più
illustri fatti della storia italiana e dei personaggi più celebri nelle lettere, nelle
scienze, nelle arti e nelle virtù civili e militari. Centinaia di bandiere sventolavano e si mescolavano “simboleggiando così la grande famiglia italica unita
oggi in un affetto e un desiderio” (“La Nazione” 15 maggio 1865: 1). Verso
le undici tutti raggiunsero Piazza Santa Croce, “riccamente addobbata con
festoni di lauri e fiori intrecciati a trofei con pitture decorative”, i cui soggetti
richiamavano episodi della vita di Dante (Per il sesto centenario di Dante 1865:
5). Per l’occasione era stato realizzato un anfiteatro in grado di contenere duemila persone (Antolini 1994: 34). Il Re prese posto in un elegante padiglione
dinnanzi alla statua del poeta, realizzata da Enrico Pazzi, per inaugurarla solennemente, “al suono di musiche e delle campane di Palazzo Vecchio” (Per il
sesto centenario di Dante 1865: 5). Insieme all’esecuzione della sinfonia dall’Assedio di Corinto di Rossini, un’enorme compagine corale di cinquecento cantori
intonò l’inno A Dante nel 1865 (parole di G. Corsini, musica di C. Romani).
La consacrazione del sommo poeta come profeta e campione dell’unità nazionale è ben sottolineata nell’ultima ottava.
Poi che di tutta gloria
Al termine giungesti;
E in lui la splendidissima
Eternità vedesti;
Sua più bell’opra a compiere
Seco ti volle ancora…
E Italia apparve allora
Una per tua virtù!
(Sesto centenario di Dante 1865: 4)
Poste sotto la supervisione di Teodulo Mabellini, il quale, sulla scorta dei festival stranieri, incentivò in particolare la coralità, le iniziative musicali ebbero una parte rilevante nei festeggiamenti. In serata la città, completamente
150 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Bissoli
illuminata, continuò a far festa con la musica delle bande dislocate nei punti
principali e con cori in onore di Dante a Piazza Santa Croce. Come nell’inno appena citato, i contenuti patriottici caratterizzano tali brani, eseguiti da
masse vocali di centinaia di persone.
titolo
parole
musica
1. Dante
2. A Dante
3. Pel monumento a Dante
4. A Dante per l’Unità d’Italia
5. Il veltro
6. Laudi a Dante
7. Preghiera a Dante
8. Il centenario di Dante
9. Il genio di Dante
L. Capuana
A. Angiolini
S. Menasci
L. Mondona
[non indicato]
E. Ciampolini
R. Anzà
S. Menasci
S. Brigidi
P. Ronzi
E. Deschamps
G. Palloni
F. Anichini
R. Felici
S. Favi
O. Mariotti
G. Gialdini
E. Cianchi
La maggior parte dei componimenti, i primi cinque e gli ultimi due, impiegano significativamente il decasillabo anapestico, il primo e il quarto integralmente, mentre nel secondo e nell’ottavo abbinato a strofe di settenari, nel
terzo di settenari e senari, nel Veltro di quinari. Nell’ultimo, ancor più vario
dal punto di vista metrico, il verso dei cori risorgimentali (Gossett 2005) chiude con due quartine una serie di strofe di quinari, settenari, ottonari, senari
doppi. Ricompare qui esplicito l’appello irredentistico.
Coraggio e speranza, cordoglio e valore,
Un voto, una fede medesma nel core,
Qui tutti hanno un solo fatale voler:
Redimere Italia dal giogo straniero,
Far arbitra Italia del proprio pensiero:
col ferro fu vinto, si vinca col ver.
(Sesto centenario di Dante 1865: 16)
L’indomani su “La Nazione” si parlò di evento “memorabile” che avrebbe
lasciato un “ricordo glorioso della gioia di un giorno che cancella un dolore
di secoli. Spettacolo maestoso: che compendiava tutte le nostre istorie nell’assemblamento lieto di tante genti fin oggi divise, e vaticinava alla madre patria
serenità e sicurezza di futuri destini” (“La Nazione” 15 maggio 1865: 1). Intanto
proseguivano le manifestazioni, con un’Accademia letteraria nella mattinata di
lunedì 15, ravvivata dall’esecuzione della sinfonia dal Reggente di Mercadante
e di altri due cori: Il ritorno di Dante in Firenze (A. Angelelli, F. Cortesi) e A
Beatrice (parole di A.P., musica di B. Gamucci) che si conclude con una nuova
sottolineatura dell’importanza di Dante come profeta dell’unificazione nazionale (“La fama del 1865” 23 maggio 1865: 82).
L’orgoglio identitario e lo ‘spirito di Dante’
Dante e l’arte 2, 2015 151
Il concetto a lui fu dato
Dell’Italia una e possente.
Or l’Italia forte in guerra
Resa alfine a libertà,
Finché moto avrà la terra,
Dante e Bice acclamerà.
(Sesto centenario di Dante 1865: 18)
In serata la musica divenne protagonista delle manifestazioni con un grande
concerto, articolato in quattro parti, che si tenne al Teatro Pagliano sotto la
direzione di Mabellini.
G. Pacini, Sinfonia Dante
G. Donizetti, Il conte Ugolino
G. Donizetti, Ave Maria
T. Mabellini, Lo spirito di Dante
G. Magazzari, Il vessillo d’Italia
Particolare curiosità suscita il brano in prima esecuzione che fece da ouverture
all’accademia. Il tema di una sinfonia ispirata alla Commedia era stato proposto a Pacini due anni prima da Abramo Basevi, nell’ambito di quell’ampio
progetto culturale di rinascita della musica strumentale che ebbe a Firenze
uno dei suoi centri propulsori. L’apertura alle esperienze musicali tedesche
e la competizione in campo sinfonico poteva rappresentare un nuovo canale
per esprimere l’orgoglio nazionale (Antolini 1994: 39). Nonostante la pronta
adesione, il maestro si mise al lavoro con non poche riserve, come riconosce
nelle Memorie con modestia e lucida autocritica.
L’ultimo mio lavoro è la Sinfonia Dante, stampata dal signor G.G. Guidi.
Questa produzione istrumentale, di cui il nobile Municipio Fiorentino si
compiacque accogliere la dedica, mi diede a pensare più di tre mesi. Verrà
eseguita l’anno venturo per la gran festa centenaria, che avrà luogo nella
Città dei Fiori a giusto tributo di lode, pel più grande Poeta ed addottrinato che il mondo abbia conosciuto. Così il mio povero ingegno abbia
corrisposto a quel vasto concetto, immaginato e suggeritomi dal più volte
rammentato professore Basevi. Ma io ne temo, ed a giusta ragione, poiché
grande, immensa è la difficoltà di comporre musica descrittiva, senza l’aiuto
della primogenita sorella. Di troppa fiducia fui onorato, e ben mi pento
della mia adesione. Ma al fatto non si ripara. In ogni modo, impetro dai
miei fratelli italiani benigna perdonanza, accogliendo il tentativo come
tributo offerto a lui
Che sovra gli altri com’Aquila vola.
(Pacini 1978: 126-127)
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Francesco Bissoli
Dopo una lunga carriera, segnata dai clamorosi quanto effimeri successi delle
sue opere, eccezion fatta per Saffo che era destinata a longeva fama, nel 1863
Pacini fu tra i primi affiliati della fiorentina Società del Quartetto. La partitura
della sinfonia fu stampata da Guidi l’anno successivo. Pur indicando alcuni
passi della Commedia cui si fa riferimento, il compositore seguì scrupolosamente lo schema fornito da Basevi e, come questi aveva consigliato, non dotò
la sinfonia di un programma (“Il titolo, e della sinfonia e delle varie parti che
la compongono mi sembrano più che sufficienti. Infatti non è da supporsi
che gli uditori non conoscano il poema dantesco: e si avrebbe l’aria di portar,
come suol dirsi, vasi a Samo, facendo diversamente” – lettera citata da Addamiano 1999: XLII).
I L’ inferno / Tormenti senza speranze – Largo infernale 6/8 Re min.
II Il purgatorio / La speranza in mezzo alle sofferenze – Allegretto moderato 6/8 Re min.
III Il paradiso / La beatitudine, l’eterna felicità – Larghetto angelico C Fa
IV Il trionfo di Dante / Dante ritorna sulla terra e tutti i popoli acclamano
il gran poeta – Allegro marziale C Re (Pacini 1864)
Libero da vincoli formali e guidato solo da una sommaria intelaiatura narrativa, Pacini propone un vasto affresco sonoro, suddiviso in quattro pannelli
che ricordano i canonici movimenti sinfonici e trovano nell’orbita tonale di
Re il loro elemento unificatore. Tutta la prima parte è giocata sul motivo (es.
1a) affidato ai contrabbassi a bb. 3-4 e destinato a un intenso trattamento
contrappuntistico. Considerando il do diesis appoggiatura, esso consiste in
una terza minore discendente: l’inciso di violini secondi e viole a distanza di
tre misure ne è la trasformazione per moto contrario (es. 1b) e diminuzione
ritmica, la frase dei violini primi a b. 15 ne è la metamorfosi lirica per espansione intervallare (es. 1c).
Es. 1
Un ampio crescendo conduce all’area della dominante, mentre i violoncelli
primi introducono un nuovo elemento cromatico di trentaduesimi che più
avanti passa ai violini per sottolineare turbinosamente la citazione dantesca
“diverse lingue, orribili favelle” (If. III, 25) e recuperare la ricchezza sonora
della prima impressione avuta da Dante dell’ambiente infernale (vv. 21-30).
Attraverso una climax in cui la percezione dapprima confusa diventa sempre
L’orgoglio identitario e lo ‘spirito di Dante’
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più chiara, i clamorosi lamenti sembrano più paurosi nelle tenebre e le tenebre
più fitte intorno a quei segnali di sofferenza. Così l’effetto del primo aggirarsi
del poeta tra le tenebre “sanza tempo” ha la naturalezza di un’esperienza reale
e si riverbera su tutto il viaggio. La transizione di terza a Fa ritaglia un breve e
transitorio episodio accordale degli ottoni, accompagnato in partitura dall’indicazione forte urtante e con il corollario del seguente estratto della Commedia.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio bianco per antico pelo,
gridando: guai a voi anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo
(If. III, 82-84)
L’idea di isolare musicalmente la statuaria figura di Caronte restituisce la sua
posizione dominante in mezzo al paesaggio e alle anime nude. Il cruccioso
traghettatore infernale entra drammaticamente nello scenario dell’antinferno
e lo scuote appunto con un clamore spaventoso che subito si smorza nella
ripresa del motivo principale e delle varianti, nella riacquisita orbita di Re
min. (Tempo primo). Un nuovo tempestoso apice sonoro viene raggiunto in
corrispondenza di un’ulteriore citazione dantesca.
Ruppemi l’alto sonno nella testa
un greve truono, sì ch’i’ mi riscossi
come persona, che per forza è desta
(If. IV, 1-3)
Impaurito dal terremoto, Dante cade in un breve, arcano sonno per effetto
del baleno di “una luce vermiglia” (If. III, 134) ed è ridestato poco dopo da
un tuono. Non sa cosa sia accaduto, né come abbia attraversato l’Acheronte,
ma di fatto si ritrova sull’altra “proda” (If. IV, 7). Nelle ultime misure torna
la calma.
Dopo essersi concentrato sul canto III dell’Inferno, Pacini fa riferimento
al I del Purgatorio per proseguire il suo racconto musicale. Sapendo che alla
trasfigurazione musicale niente è più adatto del clima spirituale di una situazione, il maestro è assai avveduto nella scelta, dal momento che in entrambi i casi, per dirla con Momigliano, “lo stato d’animo del pellegrino viene
fuori, più che da una descrizione diretta, dall’atmosfera che circonda il poeta
e l’azione, e il paesaggio è insieme motivo e sfondo” (1960: 261). La seconda
cantica si ambienta in uno spazio aperto e luminoso, ma i colori sono spesso
ricondotti al tempo dell’alba e del crepuscolo, tempo simbolico di transizione,
di speranza e di memoria. Il tema dell’incorporeità, richiamato come motivo
patetico di rimpianto e di nostalgia, e l’ispirazione tenera e malinconica, elegiaca e delicatamente spirituale del Purgatorio sono condensati da Pacini nella
leggera danza in ritmo di siciliana che apre la seconda parte della sinfonia. La
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nuova configurazione ritmica del cromatismo Re-Do diesis ha un dinamismo
che lo pone in antitesi rispetto al senso di desolante staticità insito nell’appoggiatura del motivo principale della prima parte (es. 2).
Es. 2
agli occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta (Pg. I, 16-17)
Il paesaggio ispira e rispecchia la serenità di Dante. La tonalità del primo quadro, assieme all’andamento in 6/8, è confermata sino a b. 18, dove una breve
ripresa a piena orchestra del motivo della sofferenza segna un passaggio transitorio a Do min. Una nuova idea sincopata, affidata all’oboe e in Fa min., conduce al ritorno della danza iniziale, nel modo della relativa maggiore. Dopo
otto misure di sospensione (trillo in acuto dei violini contro accordi ancora
in forte urtante su tempo debole di clarinetti e fagotti), la sonorità rarefatta
della coda prepara il successivo quadro, sulla dominante di Fa. Autentico coup
de théâtre, il timbro straniante del pianoforte, con una cadenza solistica, dà
corpo all’entrata nella dimensione ‘altra’ del paradiso (Pessina 1994: 64). Un
ampio tema cantabile affidato al fagotto coi primi violoncelli, su uno sfondo
luminoso riempito da arpa, pianoforte, campanelli, assieme a violini e viole
all’acuto, si collega ai versi incipitari della terza cantica (con la parola-chiave
“gloria”), puntalmente riportati in partitura (es. 3).
Es. 3
La gloria di colui, che tutto move
per l’universo penetra e risplende (Pd. I, 1-2).
L’inizio del Paradiso fa squillare subito il motivo dell’ascensione luminosa e
transumanante verso Dio motore dell’universo. Un nuovo disegno di crome
legate ad arco, affidato ai violini primi e nel modo minore, dà inizio a un
fugato di otto misure. Il tema principale è quindi ripreso dal pianoforte, in Si
bemolle con le imitazioni dei legni, e poco dopo sovrapposto contrappuntisticamente al soggetto del fugato. Il lavoro si conclude con una fragorosa marcia
trionfale in Re maggiore, abbinata a un ingegnoso riepilogo delle idee musicali
impiegate nei pannelli precedenti.
Dopo la sinfonia, l’accademia del 15 maggio prevedeva l’esecuzione dei
due citati pezzi donizettiani d’ispirazione dantesca. Il primo, Il conte Ugolino,
originariamente per basso e pianoforte, fu presentato in una maestosa versione
L’orgoglio identitario e lo ‘spirito di Dante’
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orchestrale dovuta a Carlo Romani. Nel successivo, Ave Maria, per soprano
e contralto si esibirono le sorelle Carlotta e Barbara Marchisio. Per la conclusione della serata era in programma Il vessillo d’Italia, un ciclo di tre canti patriottici di Magazzari su testi in decasillabi anapestici di Achille de Lauzières:
Il Verde (La Speranza), Il Bianco (La Fede), Il Rosso (Il Valore). Prima però fu
la volta del piatto clou della serata, la monumentale cantata in quattro scene
intitolata Lo spirito di Dante, opera del responsabile stesso della parte musicale
dei festeggiamenti. Di origini pistoiesi, Mabellini (1817-97), dopo essersi perfezionato a Novara con Saverio Mercadante, compose varie opere strumentali
e teatrali, ma si dedicò con maggior continuità ai generi sacri e alla musica
d’occasione. Stimato didatta e dal 1843 direttore dell’orchestra della Società
filarmonica fiorentina, si adoperò per divulgare in Toscana il repertorio europeo contemporaneo, in special modo quello franco-tedesco: programmò per
la prima volta lavori di Wagner, Gounod, Méhul, Meyerbeer, ma soprattutto
di Beethoven e Mendelssohn (Pistolesi e Zampini 2004; Paradiso 2005). Al
genere della cantata, di tipo eminentemente celebrativo, si applicò per tutta la
carriera, a partire da La caccia (1839), per coro e orchestra, dedicata al granduca e rappresentata a Firenze nel teatro di corte. Qualche anno dopo compose
la prima di una serie in memoria di personaggi illustri della storia italiana,
Cantata per gli onori parentali di Raffaello Sanzio da Urbino (1842), cui seguirono: Il ritorno (1846); L’Etruria (1849); Cantata elegiaca in morte dello scultore
L. Bartolini (1850); Saul, ispirata all’omonima tragedia di Alfieri (1857); Le feste
fiorentine, per cinque voci soliste, coro a quattro voci, orchestra e banda, in
onore di Vittorio Emanuele II (1860); Gli orti oricellari, in onore di Machiavelli (1863); Le feste rossiniane (1873); Michelangelo Buonarroti (1878); Pierluigi
da Palestrina (1880). A tale corpus si riconduce pure Lo spirito di Dante, per
due soprani (Beatrice e Matelda, rispettivamente Carlotta Marchisio ed Estella
Bennati nell’esecuzione fiorentina), tenore (Virgilio, Gaetano Verati), basso
(Omero, Vincenzo Cottone), coro femminile e orchestra, su testo di Guido
Corsini. Le accurate didascalie e il riferimento ai costumi sul frontepizio della
partitura a stampa (“il N° 6 potrà essere eseguito dalla medesima Artista che
sosterrà la parte di Beatrice, nel solo caso che si eseguisca la Cantata non in
costume”) presuppongono l’allestimento scenico. La critica coeva ne apprezzò
soprattutto il carattere “autenticamente popolare” (“La fama del 1865” 23 maggio: p. 83). Strutturata in quattro parti, come la sinfonia paciniana, la ponderosa partitura di Mabellini comprende otto numeri musicali e abbina le forme
dell’opera italiana alla magnificenza spettacolare del grand opéra parigino, cui
rimanda la presenza delle danze:
L’aurora
1.Preludio
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2. Scena, coro delle muse e aria (Omero)
3. Romanza (Virgilio) e duetto (Virgilio e Omero)
Inferno
4 Scena, coro di dannati e danza infernale
Purgatorio
5. Recitativo e coro d’anime purganti
6. Bolero (Matelda)
Paradiso
7. Recitativo e aria (Beatrice)
8. Finale, quartetto con coro
L’organico orchestrale è davvero ricco: ottavino, flauti, oboi, clarinetti (più
basso), quattro fagotti, quattro corni, due trombe, tre tromboni e oficleide,
varie percussioni (timpani, triangolo, cembolo, tamburo, piatti, grancassa),
due arpe, organo, archi (con i violoncelli e i contrabbassi in diversi punti divisi
su quattro righi). La cantata prende l’avvio con una luminosa e lussureggiante introduzione strumentale, in tempo Andantino 6/8 e in tonalità di Sol.
Dopo ventitré misure di preambolo affidate ai legni, i violini divisi all’ottava,
sostenuti da viole, bassi, corni e triangolo, propongono un ampio, disteso
tema cantabile (es. 4), nell’elaborazione del quale Mabellini dimostra un tocco
raffinato, grazie alle perfette simmetrie dell’articolazione e all’innalzamento
cromatico della tonica all’inizio della seconda frase, su pedale di Sol e armonia
di settima di dominante.
Es. 4
L’idea viene quindi variata, mentre la tavolozza timbrica si arricchisce con
l’entrata in gioco di trombe, tromboni, oficleide e timpani. La scena si apre
sui Campi Elisi, intorno al 1300. Dal punto di vista della forma musicale, il
n. 2 si organizza secondo il tradizionale modello operistico della cavatina con
coro. Circondato da poeti e sapienti, vicino alla fonte Castalia siede Omero
che attonito avverte lo spirare di una “nov’aura” (Sesto centenario 1865: 25) e la
trepidazione tutt’intorno. Dal Parnaso scendono le muse, intonando, su due
quartine di settenari, un coro a tre parti sopranili, per lo più omoritmiche
(Cantiamo, dall’empireo, Allegretto un poco sostenuto C Si b). Un messag-
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gero celeste ha proferito un nome e sull’Ausonia, estensione poetica di Italia,
si è posato un “raggio” (Sesto Centenario 1865: 25). Accogliendole con calore,
Omero le invita a dileguare il “sacro terrore” (Sesto Centenario 1865: 26). Una
voce dall’alto, introdotta da uno svettante disegno di semicrome dei violini
e dal tutti orchestrale, annuncia l’avvento di un poeta “che divino chiamato sarà” (Sesto Centenario 1865: 26). Sorpreso dal profetico annuncio, Omero
intona l’energica e drammatica cabaletta Ov’è il serto? Ov’è la spada? (Allegro
moderato assai C Si b). Dopo aver constatato l’ineluttabile caduta di Giove e
del paganesimo, si ritrova presso l’Acheronte con Virgilio (scena seconda del
libretto). Il poeta latino, rivolgendosi con deferenza a Omero come “Padre e
Signor” (Sesto Centenario 1865: 26), gli racconta nella sua aria come S’è rinnovato il secolo (Larghetto cantabile 3/8 La b). Alle italiche sponde è consegnato il
futuro della cultura classica, da loro incarnata e ora nelle mani di un “portento”, di un “profeta di Dio” che Virgilio può solo guidare “dov’uom non riede”,
ma non “al perenne gioire” del cielo (Sesto Centenario 1865: 28). Nel duetto Ah
rinasce, rinverde (Andante mosso C Mi b) l’autore mette a frutto la sua perizia
di contrappuntista nell’intreccio delle voci.
Nel n. 4 si passa all’ambientazione infernale, con un breve interludio d’atmosfera nell’inattesa tonalità di Do. La caratterizzazione della scena è giocata
principalmente su una ricercata scrittura degli archi gravi, infatti le parti dei
violoncelli e dei contrabbassi sono entrambe divise a quattro. Una voce di
dentro riprende recto tono la terzina incipitaria del canto III dell’Inferno, quindi l’orchestra introduce con impeto e fragore il coro dei dannati (Pape Satan,
Allegro feroce 2/4 La min.). A differenza del senso di fissità espresso dalla
musica di Pacini, l’ambiente infernale è qui rappresentato da un frenetico ribollire di “danze diaboliche” (Mabellini 1865: 116) che s’intrecciano alternando
quattro diversi temi (es. 5, a, b, c, d).
Es. 5a
Es. 5b
Es. 5c
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Francesco Bissoli
Es. 5d
Il coro s’inserisce sul secondo tema descrivendo la tormenta infernale (Grandine e venti, Lo stesso movimento 3/4). Il brano fu talmente apprezzato che lo si
dovette ripetere (“La fama del 1865” 23 maggio: p. 83). Interpellato dai dannati
su cosa ci faccia laggiù e “che rechi dal mondo”, lo Spirito di Dante si limita
a ribattere: “delitto e dolor” (Sesto Centenario 1865: 29). Dopo la ripresa delle
danze nell’ordine iniziale, il cielo si rischiara e si passa al n. 5, ambientato nel
Purgatorio (Lento C Do). Una modulazione a Si min. introduce l’intervento
corale delle anime purganti che fa da pendant, dal punto di vista metrico, al
precedente dei dannati (Mesti lamenti, Larghetto cantabile C Si min.). Alla
domanda “che rechi alle genti?”, qui lo Spirito di Dante risponde “speranza
ed amor” (Sesto Centenario 1865: 29), propiziando l’ottimistico approdo al
modo maggiore nella conclusione del brano. Nella foresta del paradiso terrestre (scena terza), sulle rive del fiume Lete, Virgilio incontra Matelda, intenta
a cogliere fiori (n. 6, Lo stesso movimento C Do). Ha inizio il Bolero con
l’intervento solistico della donna, tendente a un canto di agilità (Son bella e
mi scaldo, Allegro brillante 3/4 Fa), cui si unisce il coro sopranile delle sette
Virtù. Il n. 7 inizia con un recitativo di Virgilio che ammira Beatrice scendere dal cielo su un carro trionfale (Lento C Do). La scena quarta del libretto
coincide con la sua aria (Dalla milizia candida, Andante trattenuto C Sol). Il
numero conclusivo è un ampio affresco dove al quartetto dei solisti si unisce
il coro degli angeli e dei beati, accompagnati da tutta l’orchestra con l’organo
(Umano spirto, Andante religioso C Do).
Le manifestazioni terminarono il giorno 16 con un’accademia di quadri
viventi e declamazioni di passi scelti della Commedia, durante le quali furono
infine eseguiti altri due cori: A Beatrice Portinari (parole ancora di Corsini
e musica di Pieraccini) e La Divina Commedia (musica di Bettazzi), dove
il capolavoro dantesco è significativamente definito “libro di libertà” (Sesto
Centenario 1865: 35).
L’orgoglio identitario e lo ‘spirito di Dante’
Dante e l’arte 2, 2015 159
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Dante e l’arte 2, 2015 161-186
Dante en la música española:
la Divina Comedia de Conrado del Campo,
del poema sinfónico a la ópera
Víctor Sánchez Sánchez
Universidad Complutense de Madrid
[email protected]
Resumen
El tema del Infierno de la Divina Comedia ha inspirado numerosas composiciones musicales,
tanto en el campo sinfónico como en el operístico. Entre los temas el más utilizado ha sido
la trágica historia del amor de Paolo y Francesca. Las versiones operísticas ofrecen diferentes
variantes estilísticas desde la tradición italiana de Mercadante, Cagnoni o Zandonai hasta
el wagnerismo romántico de Rachmaninof o Mancinelli, pasando por la trivialización de
Thomas. En el caso español resulta del mayor interés las composiciones de Conrado del
Campo, un compositor muy influido por el romanticismo centroeuropeo, que se acerca al
mundo de Dante tanto en la música sinfónica (La Divina Comedia 1910) como en la ópera
(La tragedia del beso 1915). En estos proyectos resultó decisivo el encuentro con el poeta
Carlos Fernández Shaw.
Palabras clave: Francesca da Rimini, Poema sinfónico, Ópera española, Libreto, Carlos
Fernández Shaw, María Guerrero, Conrado del Campo.
Abstract
Dante’s Inferno has inspired many musical compositions, both symphonic and operatic
field. Among the topics the most used has been the tragic love story of Paolo and Francesca.
Operatic versions offer different styles from the Italian tradition of Mercadante, Cagnoni or
Zandonai to the romantic Wagnerian of Rachmaninoff or Mancinelli, through the French
trivialization of Thomas. In the Spanish music compositions by Conrado del Campo, a
composer influenced by the Central European Romanticism, approaches the Dante’s world
in symphonic music (La Divina Comedia 1910) and opera (La tragedia del beso 1915). In these
works was decisive the encounter with the poet Carlos Fernández Shaw.
Keywords: Francesca da Rimini, Symphonic Poem, Spanish Opera, Libretto, Carlos
Fernández Shaw, María Guerrero, Conrado del Campo.
issn 2385-5355
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Víctor Sánchez Sánchez
L
a Divina Comedia se revalorizó en la cultura europea del XIX en sintonía
con el Romanticismo musical. En el mundo sinfónico los dos ejemplos
más conocidos son la Sinfonía Dante de Franz Liszt (1857) y el poema sinfónico Francesca da Rimini de Chaikovski (1876). En el primer caso, Liszt realiza
una de sus obras más ambiciosas intentando expandir el modelo de poema
sinfónico para representar los tres ejes del viaje (infierno, purgatorio y paraíso). Wagner le aconsejó que no intentase describir el paraíso, así que concluyó con un Magnificat para coro, una especie de visión lejana de lo celestial.
Liszt anota en su extensa partitura sinfónica citas de Dante que nos dan las
claves programáticas del discurso musical. El momento central del infierno
es un Andante amoroso donde copia los famosos versos del canto V (“Nessun
maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria”) en referencia
a la trágica historia de Paolo y Francesca. En el caso de Chaikovski, subtitulada Fantasía sinfónica a partir de Dante, se centra directamente en el mismo
episodio copiando los versos de Dante al inicio de la partitura. Compuesta
bajo una fuerte influencia wagneriana (tras asistir en Bayreuth al estreno de El
anillo del nibelungo) sigue el modelo de Liszt como forma libre de inspiración
literaria; de hecho el propio Liszt había subtitulado su Sonata para piano Après
une Lecture du Dante: Fantasia quasi Sonata. En ambos casos el contraste entre
el amor y la muerte ofrece un intensísimo marco musical lleno de efectos sonoros, sobre una forma ternaria, donde la historia de amor constituye el lírico
movimiento central.
Las resonancias del tema de Dante en la música española se dejaron esperar. No será hasta comienzos del siglo XX cuando los músicos se inspiren en la
Comedia. Enrique Granados compone su poema sinfónico Dante partiendo de
los dos momentos más musicales: el inicio (el encuentro de Dante y Virgilio)
y la trágica historia de Paolo y Francesca. Casualmente los mismos dos episodios en que por esas mismas fechas trabajaba orquestalmente el madrileño
Conrado del Campo. La presencia de sonoridades wagnerianas, inspiradas
en el mundo de Tristán, supone un estímulo fundamental. Si en el caso de
Granados el proyecto a modo de sinfonía en cuatro movimientos quedó inacabado, Conrado del Campo encontró un importante punto de desarrollo en
su encuentro con el poeta Carlos Fernández Shaw. El libretista le ofreció un
texto para transformar su música sinfónica en una ópera de fuertes resonancias
tristanescas: La tragedia del beso, el más ambicioso proyecto musical dantesco
de la música española.
I. Paolo y Francesca en la tradición musical
Durante el siglo XIX el mundo operístico había canalizado su interés hacia
Dante poniendo sobre la escena numerosas versiones de la historia de Paolo
Dante en la música española
Dante e l’arte 2, 2015 163
y Francesca. Rossini cita los versos de Dante (“Nessun maggior dolore…”)
en su Otello (1816) cantados a lo lejos por un gondolero ante la ventana de
Desdémona, como un presentimiento de su trágico desenlace. Este doloroso
canto fue utilizado por el propio Liszt en uno de sus números del cuaderno
dedicado a Italia de Años de peregrinaje. Sin duda en esta utilización resonaba
la fortuna de la tragedia Francesca da Rimini de Silvio Pellico (1815), sobre la
que Felice Romani escribió un libreto de ópera en 1823. Fue puesto en música por varios compositores italianos de la época, hoy poco conocidos (como
Feliciano Strepponi, el padre de la mujer de Verdi), siendo la base de una interesante ópera de Mercadante que no se llegó a estrenar, compuesta durante
su estancia en Madrid (Cascio 2014).
Fig. 1. Rossini, Otello, acto III (canto del gondolero)
Con posterioridad, otros compositores italianos han ofrecido nuevas versiones
operísticas de Francesca da Rimini. Antonio Cagnoni la utilizó para su última
ópera, estrenada sin despertar mucho interés en 1878 en el Reggio de Turín.
Quizás lo más destacable era la colaboración con Antonio Ghislanzoni, el
futuro libretista de Aida, que expandió el tema para incluir más personajes y
episodios en una tragedia en cuatro actos (Dellaborra 1997). La edición del
libreto se inicia con una breve nota citando la explicación de Giovanni Boccaccio en torno a la aventura de Francesca de Rimini. En el mundo italiano
la versión más destacable es la de Riccardo Zandonai, con un libreto que
seguía de cerca la tragedia de Gabriele D’Annunzio, adaptada por el editor
Tito Ricordi. La delicada y sensual atmósfera del escritor italiano ofreció un
164 Dante e l’arte 2, 2015
Víctor Sánchez Sánchez
elaborado melodrama, donde se equilibra la modernidad sonora – influida
por Richard Strauss y Debussy – con la tradición vocal italiana (Chiesa 1965).
Estrenada en Turín en 1914, ha permanecido en el repertorio, frecuentada por
grandes intérpretes como las sopranos Magda Olivero, Mirella Freni y Renata
Scotto, o los tenores Franco Corelli y Plácido Domingo, entre otros muchos.
En Madrid se estrenó en la inauguración de la temporada de ópera del Teatro
de la Zarzuela en diciembre de 1926, siendo recibida con curiosidad, acusada
de verista y efectista. El crítico Víctor Espinós destacó “la pintura sincera y
cordial de los ambientes, teñidos de gracia, de suavidad y de trasparencias
sonoras”, especialmente en el primer acto (La Época, 10-XII-1926).
En el fondo del tema de Paolo y Francesca resuenan los ecos wagnerianos de Tristán e Isolda. Curiosamente, en el mismo círculo en que penan sus
culpas los lussuriosi Dante incluye también al mismo Tristán: “‘… Vedi Parìs,
Tristano’; e più di mille / ombre mostrommi e nominommi a dito, / ch’amor
di nostra vita dipartille” (If. V 67-69). La paradójica relación de amor y muerte, como intensidad vital frente a la irracionalidad existencial, constituye uno
de los ejes del Romanticismo explotado por todo el mundo operístico, que
encuentra su máxima expresión en el famoso Liebestod que cierra el Tristán
wagneriano. Sin duda, este modelo está presente en la mayoría de las versiones operísticas de Paolo y Francesca, muchas de ellas aparecidas en medio del
intenso debate wagneriano de fin de siglo.
Un caso claro en este sentido es Paolo e Francesca de Mancinelli, cuyo estreno en 1907 en el Teatro Comunale de Bolonia estuvo precedido por quince
funciones de Tristán, cantada en italiano como era habitual en aquella época
(Mariani 1998: 74-75, 254-255). Luigi Mancinelli (1848-1921) fue conocido en
su época sobre todo como director de orquesta, con una amplia carrera internacional, y fue también uno de los principales impulsores del wagnerismo
tanto en Italia como en España, dirigiendo en el Teatro Real de Madrid los
estrenos de Tannhäuser (1890) y Los maestros cantores (1893). Mancinelli utiliza
para su Paolo e Francesca un libreto de Arturo Collauti, un autor que había tenido fortuna en la escena lírica con los textos para Fedora de Giordano (1898)
o Adriana Lecouvreur de Cilea (1902). El libreto es muy conciso: un único
acto centrado en los tres personajes principales y únicamente ambientado en
la corte malatestiana de Rímini. Un modelo operístico que tenía difícil encaje
en las programaciones líricas del momento, justificado por su fidelidad a las
fuentes originales. Una advertencia en el texto publicado dejaba claras estas
intenciones: “Nel comporre il presente drama lirico fu seguita unicamente la
traccia del divino Poema, senza soverchi scrupoli di storica esattezza, volendosi
serbare intatta ai due primarî personaggi la ideale purificazione, loro concessa
per tutti i secoli avvenire dal sommo Dittatore dell’Arte” (Mancinelli, Colautti
1907: 7). De hecho, en la escena final, prolongando la agonía de los dos aman-
Dante en la música española
Dante e l’arte 2, 2015 165
tes que se funden en su eterno abrazo, se escucha un coro de voces lejanas que
cita versos de Dante (“Amor che a cor gentil ratto s’apprende, / Amor che a
nullo amato amar perdona”, Mancinelli, Colautti 1907: 37).
La ópera de Mancinelli recorrió los principales teatros italianos siempre
bajo la prestigiosa batuta de su autor, aunque sin mucha fortuna. Significativamente, en su estreno en Madrid en febrero de 1915 se rodeó de fragmentos
wagnerianos: el preludio de Parsifal, la obertura de Tannhäuser y tras la ópera
el preludio y muerte de Tristán. No obstante, el estilo musical de Mancinelli se
movía entre las referencias wagnerianas y el canto italiano para la pareja protagonista de tenor y soprano. Augusto Barrado en el diario madrileño La Época
comentaba: “Nadie podrá, sin incurrir en manifiesta inexactitud o ignorancia,
tildar de wagneriana esta partitura, toda ella bañada de luz latina, pletórica de
melodía genuinamente italiana” (La Época, 3-II-1915).
Más allá del mundo italiano, el tema de Paolo y Francesca ha tenido repercusión en otros ámbitos operísticos. En Francia, Ambroise Thomas estrenó
Françoise de Rimini en la Ópera de París en 1882, con libreto de Jules Barbier
y Michel Carré. La ópera seguía las convenciones de la Grand Opéra con sus
cinco actos (en realidad prólogo y cuatro actos con un breve epílogo), su
espectacularidad escénica, sus números cerrados, sin que faltase el habitual
ballet inserto al margen de la acción. Se trata así de una versión un tanto
convencional, realizada por un compositor al final de su carrera anclado en su
nacionalismo antigermánico desde su prestigioso puesto de director del Conservatorio. El estreno se retrasó, envuelto en una polémica provocada por la rivalidad entre los compositores franceses que buscaban el apoyo institucional a
toda costa (Huebner 1999: 232). De hecho fue su última ópera, siendo acusado
de nuevo de banalizar con los clásicos de la literatura universal, como ya había
sucedido en sus anteriores éxitos: Mignon (1866, a partir de Goethe) y Hamlet
(1868, a partir de Shakespeare). Un acercamiento circunstancial a Dante destinado al servicio de la espectacularidad superficial de la alta burguesía francesa.
En Rusia, el éxito de la fantasía sinfónica de Chaikovski reactivó el interés
por el tema. En 1902 se estrenó en San Petersburgo Francesca da Rimini de
Eduard Nápravník, el reconocido director de la orquesta del Teatro Imperial.
Su versión adaptaba el drama Paolo and Francesca del escritor inglés Stephen
Phillips, que había tenido gran éxito en la escena londinense. En sus cuatro largos actos presentaba la trágica historia de los amantes inserta en unas
complicadas intrigas cortesanas, con numerosos personajes y episodios. Muy
diferente fue la propuesta del compositor y pianista Serguei Rachmaninof,
estrenada en Moscú en 1906. Su único acto enmarcaba la acción de la corte
de Malatesta con un prólogo y un epílogo ambiental en el que se veía a Dante
y el fantasma de Virgilio recorriendo los círculos del infierno, rodeados de las
quejas de los condenados.
166 Dante e l’arte 2, 2015
Víctor Sánchez Sánchez
Fig. 2. Rachmaninof, Francesca da Rimini
La historia arranca con el famoso aforismo de Dante (“No hay mayor dolor
que recordar los momentos felices en la miseria”) que, como un coro distante,
también cierra la ópera. De esta manera el libreto sigue más de cerca la Divina
Comedia. Rachmaninof se lo encargó a Modest Chaikovski, el literato hermano del famoso compositor. Un texto muy conciso que apenas permitía una
hora de música. Rachmaninof, con la inseguridad que siempre le persiguió,
comentó al libretista:
Ahora que he terminado, puedo decirte que, mientras estaba trabajando,
he sufrido sobre todo a causa de la brevedad del texto. Esto se nota más en
la segunda escena, donde hay una construcción para el dúo de amor y una
conclusión al dúo de amor, pero no hay realmente dúo. La brevedad de las
palabras era aún más concisa porque no me suelo permitir repetir palabras.
Aunque en Francesca me lo he permitido, solo en unas pocas palabras. La
segunda escena y el epílogo duran veintiún minutos, lo que es terriblemente
poco. En total la ópera dura poco más de una hora (Carta del 3 de agosto
de 1904; Norris 1993: 133, la traducción es nuestra).
Francesca da Rimini de Rachmaninof es una ópera hermosa e interesante, a
pesar de permanecer fuera del repertorio. Su prólogo describe con intensidad
sinfónica el viaje de los poetas por el infierno sobre un lenguaje cromático y
las vocalizaciones sin letra del coro, creando un sugestivo marco para el resto
de la obra. Curiosamente, la escena más desarrollada iba destinada a Lanciotto, pensada para el gran bajo Fiodor Chaliapin, que podía lucirse expresando
los tormentos psicológicos del personaje.
Dante en la música española
Dante e l’arte 2, 2015 167
II. Conrado del Campo y La Divina Comedia
El tema del Infierno de Dante, de tanta tradición musical en el siglo anterior, como hemos visto, despertó también el interés de Conrado del Campo
(1878-1953), uno de los más interesantes músicos de su generación. Compositor prolífico, desarrolló una intensa actividad como instrumentista, tocando
además la viola en la Orquesta Sinfónica de Madrid – dirigida por Arbós –
desde su fundación en 1904 y en el atril del foso del Teatro Real, desde 1896
hasta su cierre de 1925. Así vivió intensamente desde dentro la actividad musical madrileña. No debe extrañarnos que su experiencia interpretativa sea decisiva en su creación, como comentaba Rogelio Villar: “Conrado del Campo
[…] ha oído mucha música y, especialmente, muchas óperas, cuyas partituras
conoce al detalle: en una palabra, Conrado del Campo conoce el teatro y esto
le permite caminar con segura planta, sin vacilaciones, sin infantilismo, sin
inexperiencias” (El País, 19-V-1915).
En este contexto surgen sus primeros proyectos operísticos: la zarzuela
(sin duda de corte operístico por su ambición dramática y musical) La flor del
agua, con libreto de Víctor Said Armesto (Villanueva 2011; 2014), y la ópera
El final de Don Álvaro, drama lírico en un acto con texto de Carlos Fernández
Shaw, que reelaboraba el final del famoso drama del duque de Rivas. Compuesta durante el verano de 1910, se estrenó en el Teatro Real en marzo de 1911,
destacándose la valía dramática del compositor – hasta entonces sólo conocido
por su música instrumental – y su fuerte wagnerismo (Sánchez 2010a: 150161). Desgraciadamente, Carlos Fernández Shaw no pudo asistir al estreno de
la ópera de Conrado del Campo, ya que se encontraba convaleciente de una
enfermedad que le llevaría a fallecer tres meses después.
En 1908 estrenó el “prólogo instrumental de La Divina Comedia”, conocido posteriormente como La Divina Comedia – Infierno, una pieza orquestal
de carácter programático que representaba musicalmente el infierno de Dante.
El crítico Cecilio de Roda nos da una buena descripción tras escucharla el día
del estreno: “Tiene el color tétrico y sombrío que conviene a la selva selvaggia,
aspera e forte; está tratado con elevación de pensamiento, con espíritu de vidente, en esa nebulosidad melódica que tanto caracteriza el estilo de este joven
compositor” (La Época, 27-IV-1908). Su elevado cromatismo y densidad orquestal ofrecen una tensa recreación sonora del infierno dantesco, recogiendo
a Liszt y Chaikovski junto al atrevimiento musical wagneriano. De hecho,
estas piezas posicionaron definitivamente a Conrado del Campo como el compositor español más fuertemente wagneriano, una de las referencias del sinfonismo postromántico español, una vía que huye de las referencias nacionalistas
en favor de la tradición centroeuropea. Dos años después estrenó una segunda
pieza anunciada como “La divina Comedia, fragmento final del Infierno,
168 Dante e l’arte 2, 2015
Víctor Sánchez Sánchez
canto XXXIV” (El País, 17-IV-1910). Con una sonoridad más tranquila describe la salida de Dante y Virgilio del infierno, la esperanzada vuelta a la luz,
como dicen los últimos versos: “salimmo sù, el primo e io secondo, / tanto
ch’i’ vidi de le cose belle / che porta ’l ciel, per un pertugio tondo. / E quindi
uscimmo a riveder le stelle.” En los compases finales Conrado del Campo nos
muestra su sensibilidad instrumental, difuminando las sonoridades en la distancia hacia el agudo de las maderas y los armónicos en la cuerda.
Fig. 3. Conrado del Campo, La Divina Comedia: El Infierno, Final
El crítico Manrique de Lara comentó con entusiasmo que la segunda parte
era “la más hermosa entre todas las composiciones de su autor y una de las
más afortunadas de que puede envanecerse la moderna producción musical
española” (El Mundo, 18-IV-1910). Ambas piezas fueron estrenadas por la Orquesta Sinfónica de Madrid bajo la dirección de Enrique Fernández Arbós, en
los breves ciclos que realizaban en el Teatro Real; unos conciertos que mezclaban fragmentos wagnerianos con sinfonías de Beethoven y Mozart. El propio
Dante en la música española
Dante e l’arte 2, 2015 169
autor permaneció en su atril de las violas, saliendo a saludar al final de la
interpretación. La prensa destacó el dominio técnico del joven compositor,
llegando a calificarle como “uno de los músicos más intelectuales y soñadores
que poseemos” (El País, 19-IV-1910).
En los años siguientes, La divina comedia de Conrado del Campo se incorporó al repertorio de la Orquesta Sinfónica, siendo repetido en otros ciclos
e interpretado durante sus giras por España en Zaragoza y Granada. Un caso
especial fue su inclusión en el programa que la propia Sinfónica de Madrid
interpretó en el Teatro de los Campos Elíseos de París en octubre de 1913.
La obra de Conrado del Campo reflejaba la variedad estilística de la creación española contemporánea, junto a piezas más españolistas como la Suite
murciana de Pérez Casas o La procesión del Rocío de Turina (El Imparcial,
30-X-1913). Fernández Arbós ofreció la obra en otros países, incluyéndola en
San Petersburgo (Revista Musical de Bilbao, enero 1912) y Roma. Como era
habitual, la ausencia de nacionalismo provocaba un cierto desinterés ante un
público que buscaba más el tópico de lo español; en este sentido un cronista
escribía desde la capital italiana:
Ya puede suponerse que los mayores elogios y las ovaciones más nutridas
han sido para aquellas obras que más plenamente respondían al concepto
que de nuestra música se tiene en el extranjero. Así, mientras el hermoso
poema sinfónico de Conrado del Campo y las exquisitas Escenas de niños de
Oscar Esplá sólo merecieron el placet del auditorio, no obstante su mérito
considerable, superior a muchas geniales banalidades que dan la vuelta al
mundo bajo pabellón ruso, alemán o francés, la unanimidad de sufragios y
el aplauso más cálido fueron para el Polo gitano de Bretón […] y La Procesión del Rocío de Turina (Revista Musical Hispano-Americana,febrero 1915).
III. La tragedia del beso, poema dramático
de Carlos Fernández Shaw
Una de las versiones más interesantes de la historia de Paolo y Francesca en la
literatura española es el drama La tragedia del beso, poema dramático escrito
por Carlos Fernández Shaw en 1910. Estructurado en un acto único en tres
cuadros, el primero presenta a Dante y Virgilio llegando al infierno, donde
encuentran entre lamentos de los condenados a Paolo y Francesca; después,
un súbito cambio de decorado nos lleva a la corte medieval italiana para ver su
trágica historia de amor, en la que fueron sorprendidos por Lanciotto Malatesta y murieron atravesados por una espada que les condenaba a estar siempre
unidos; finalmente, un breve cuadro final nos devuelve al infierno, donde
vemos cómo los dos poetas se alejan. La obra fue escrita para la actriz María
Guerrero, que la estrenó en su beneficio del Teatro de la Princesa en marzo de
170 Dante e l’arte 2, 2015
Víctor Sánchez Sánchez
1910, en una función en que se incluía además una comedia de los Quintero y
un poema de Ángel Guimerá. Dicho teatro madrileño (que actualmente lleva
la denominación de la famosa actriz y es sede del Centro Dramático Nacional) se había convertido en un local para público selecto de alta burguesía y
aristocracia, huyendo del populismo y la masificación de los numerosos locales dedicados a la comedia y al género chico. Se trataba así, no de una obra
comercial, sino de un producto cultural elitista, lleno de referencias a uno de
los clásicos de la literatura universal. En este sentido, tras el estreno, el crítico
madrileño que firmaba como Alejandro Miquis “reivindica el Teatro para la
Poesía”, un teatro lírico basado en el verso más que en la acción:
Quizás fuese bueno que al Teatro poético llegásemos evolutivamente,
que los poetas labrasen ahora un terreno de transición, en que el Teatro
monócromamente insustancial, grato al público porque no le pide hiperexcitación de su sensibilidad ni acción activa de su pensamiento, sirviera
de base al Teatro, más noble y alto, todo poesía, que soñamos. (Diario
Universal, 15-III-1910)
Sin duda, esta era la postura en que trabajaba Carlos Fernández Shaw. Su vena
poética la compatibilizaba con una obra dramática llena de referencias metaliterarias, como en el sainete Las bravías (basado en La fierecilla domada de
Shakespeare), la zarzuela cómica La venta del Quijote o la ópera El final de don
Álvaro. En todas estas propuestas, surgidas en contextos muy diversos, subyace
un interés de actualizar y reflexionar sobre el pasado literario, forzando el
trasvase entre géneros e idiomas.
Fig. 4. Carlos Fernández Shaw, nota manuscrita con el listado de fuentes. Biblioteca Fundación
Juan March, CFS-68A.
En La tragedia del beso toma como punto de partida el canto V del Infierno
de la Divina Comedia, el recorrido por el segundo círculo y su encuentro
con Paolo y Francesca. En una nota manuscrita conservada entre los planes
y bocetos de la tragedia, el autor anota las fuentes consultadas: el diccionario
Dante en la música española
Dante e l’arte 2, 2015 171
Larousse, la propia obra de Dante, el libreto de la ópera francesa de Ambroise
Thomas; también incluye en el listado “la obra de D’Annunzio”, aunque tachándola, “la de Schwob” y “la de V. Colorado”.1
La última versión hace referencia a Francisca de Rímini de Vicente Colorado, un poco inspirado drama en tres actos escrito en 1885, seguramente no
estrenado, que además de españolizar los nombres (Juan Malatesta, Pablo y
Francisca) introducía al personaje de Dante como testigo de la trágica historia
de los amantes. Pero sin duda la fuente principal es la tragedia Francesca da
Rimini de Francis Marion Crawford, escrita en inglés pero traducida al francés
por su amigo Marcel Schwob en 1902. Fernández Shaw estudió a fondo esta
versión, existiendo en su legado hojas con listados a lápiz de números de páginas y copias de citas del drama en francés. Crawford era un escritor estadounidense que había vivido mucho tiempo en Italia y que pretendía ofrecer con
este texto una documentada versión de la tragedia, “fundado en los acontecimientos reales y los datos históricos”. En la edición del drama se incluye
un extenso prólogo donde el autor narra sus investigaciones en Verucchio (la
escarpada villa próxima a Rímini en cuyo castillo sucedió la historia), valorando la fiabilidad de las fuentes; además incluye la cita del canto V del Inferno
(con su traducción al francés), los comentarios de Boccaccio y biografías de
Giovanni y Paolo Malatesta. El largo drama (en cinco actos incluido un prólogo con los precedentes) se centra en la tragedia de Paolo y Francesca y todas las
intrigas cortesanas que les rodean. No presenta – como hará Fernández Shaw
– el recorrido de Dante y Virgilio por los círculos del infierno. De hecho, el
poeta encabeza estas anotaciones como “escena grande”, en referencia al cuadro central de su poema dramático.
La tragedia de Crawford iba destinada a Sarah Bernhardt, con quien había
ya colaborado en anteriores ocasiones. El estreno se produjo así en el teatro
parisino que lleva su nombre en abril de 1902. Como era habitual, la famosa
actriz – interpretando el papel de Francesca – era el centro de la producción y
tenía una parte muy destacada en el texto. Esta moda de grandes intérpretes
dramáticas estaba en plena actualidad en el fin de siglo, con figuras como la
italiana Adelaide Ristori o en el caso español la propia María Guerrero. Estas
grandes actrices buscaban papeles complejos con los que lucirse en una gran
variedad de registros. Resultaba bastante evidente que la española pretendía
emular los éxitos de la mundialmente reconocida Sarah Bernhardt. De hecho,
Fernández Shaw en La tragedia del beso desarrolló el papel de Francesca, in1. La tragedia del beso, original manuscrito a lápiz y tinta con correcciones y paginado, Madrid,
Biblioteca de la Fundación Juan March, Legado de Carlos Fernández Shaw, CFS-68-A04.
Al comienzo de la misma nota añade dos alternativas al que sería el título definitivo: El beso
inmortal, Paolo y Francesca. El documento aparece mal catalogado, ya que no se trata del
original manuscrito de la obra, sino de un borrador en prosa y diversas anotaciones.
172 Dante e l’arte 2, 2015
Víctor Sánchez Sánchez
troduciendo el personaje en el prólogo infernal como un espíritu que dialoga
con los poetas, aunque su momento central era un extenso monólogo en el
segundo cuadro en el que expresa su amor y sus dudas. Lógicamente, toda
la prensa destacó la participación de María Guerrero, que “pone en su papel
tanta pasión y tan ingenua delicadeza, que el público aplaudió entusiasmado”
(España Nueva, 15-III-1910).
El poético drama de Fernández Shaw estaba destinado a un beneficio
puntual de María Guerrero, por lo que, más allá de esa función especial, tuvo
poca difusión. La propia actriz lo llevó en su gira inmediata, primero en abril
en Sevilla y Cádiz,2 y luego en Argentina ese mismo verano, representándolo
en el Teatro Odeón (julio de 1910) y en el Colón de Buenos Aires (agosto de
1910), según se puede ver en dos carteles conservados en el legado del escritor.3
Las funciones de Cádiz siempre eran especiales, ya que era la ciudad natal del
autor; en el Diario de Cádiz se comentó el interés de la nueva tragedia de su
ilustre paisano:
La tragedia del beso es una poesía en acción. Es la exteriorización de los
versos del poeta convertidos en tangibles, con algún mejor fondo que el
monótono matiz blanquecino de las páginas de un volumen. Mirado bajo
este punto de vista, el intento de implantar la poesía bajo los doseles de un
decorado espléndido realizado por nuestro ilustre paisano ha sido un doble
éxito teatral y dramático (Diario de Cádiz, 26-IV-1910).
La tragedia del beso es así, ante todo, un teatro poético, un teatro donde el centro del espectáculo estaba en la declamación del verso. Carlos Fernández Shaw
era un hábil poeta, recogiendo la intensidad romántica de manera controlada,
como en Poesía de la Sierra (1908) o Poesía del mar (1910). La crítica, como era
habitual en sus estrenos, también destacó esta capacidad versificadora:
¿Cómo realizó sus propósitos Carlos Fernández Shaw? Con discreción y
con un verso abundante y sonoro, sobre todo, sonoro. Fernández Shaw es
un poeta sonoro; sus versos no se limitan a darnos un reflejo de un estado
del alma, sino que pretenden convencer al auditorio, y digo auditorio,
porque aún la poesía lírica de Fernández Shaw es para recitada (El Mundo,
15-III-1910).
Uno de los mejores logros de La tragedia del beso es el primer cuadro, con su
visión del infierno y el encuentro con los penados. Como hemos visto, no era
habitual en la mayoría de las versiones, con la excepción de la tópica presentación en la ópera de Thomas. El poeta español recrea de forma escenificada
2. Véase el cuaderno de recortes de prensa recopilado por el propio autor. Carlos Fernández
Shaw: cuaderno 23 (1910), Madrid, Biblioteca de la Fundación Juan March, Legado de
Carlos Fernández Shaw, CFS-23.
3. Cartel del Teatro Colón de Buenos Aires (CFS-AE XX 49) y programa de mano del Teatro
Odeón de Buenos Aires (CFS-AE XX 53), Madrid, Biblioteca de la Fundación Juan March,
Legado de Carlos Fernández Shaw.
Dante en la música española
Dante e l’arte 2, 2015 173
el canto V del Infierno, incluyendo referencias directas a los propios versos de
Dante, que señala en la edición con cursiva. Un breve ejemplo de la escena
II (cuando Dante se dirige a la pareja condenada) puede mostrar esta idea de
recreación del texto original:
Francesca:
Ser compasivo y bienhechor, –¡quien seas!–
Tú que en las sombras de la eterna noche
que ve mi angustia, con amor nos hablas,
y nos acoges con amor: ¿quién eres?
Paolo:
Tú, que dulce nos llamas, –a nosotros
que en sangre el mundo, con horror, teñimos;–
si el Rey del Universo nos amara,
pidiéramos por ti, por la ventura
de tu reposo eterno. ¡Bien merece
noble reposo quien nació tan noble!
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
(If. V 90-92)
Dante:
Salud, ¡oh, sombras trágicas!, ¡oh víctimas
del amor desdichado!
Francesca:
¡Tú nos amas!
Paolo:
No dudes, no receles. ¿fue tan sólo
culpa de amor nuestra vitanda culpa!
(Pausa breve)
Francesca:
Ningún dolor en su dolor más grande
que el evocar, en tiempo de miseria,
las bienandanzas del pasado tiempo.
E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.”
(If. V 121-123)
Pero La tragedia del beso iba mucho más allá que un texto poético dramatizado, planteando una efectista puesta en escena. En primer lugar la ambientación del infierno que recorren los poetas con las voces de los condenados a lo
lejos; según la edición era una “decoración fantástica, iluminada por amplios
y movibles reflejos rojos”. Es decir que la iluminación jugaba un papel fundamental, tal como nos describen algunas crónicas del estreno: “Se queda el
teatro a oscuras. El escenario cuando se alza el telón, está iluminado de una luz
roja. Es más, se siente un calor especial; como que estamos en el infierno” (El
Mundo, 14-III-1910). Otro momento destacado era el cambio de cuadro, en
que se pasa de las oscuridades infernales al jardín del castillo de Verucchio; la
174 Dante e l’arte 2, 2015
Víctor Sánchez Sánchez
descripción del libreto resulta muy elocuente: “La selva es hermosa; con altos
árboles y profusas plantas. Abril la ha engalanado llenándola de flores. Luce
el cielo tonos radiantes. El sol primaveral esplende magnífico, pero en la vaga
lejanía se cierne un nublado tempestuoso, que al cabo desaparecerá.” Una vez
más este rápido cambio, todo un golpe de efecto teatral, sorprendió agradablemente al público: “Las decoraciones y las ilustraciones musicales dieron relieve
a la obra, que no es fácil de poner en escena porque exige dos rápidas mutaciones. Y fue de aplaudir el ingenio de luz que permite transformar la escena del
Infierno en la de un jardín florido en medio minuto, sin echar el telón y sin
que el espectador pueda enterarse de las maniobras” (El Mundo, 15-III-1910).
La música se sumaba a esta ambientación. Como en la mayoría de los
teatros de declamado, el Teatro de la Princesa tenía un pequeño conjunto
instrumental que subrayaba las representaciones. Más que una orquesta, solía
ser un grupo de cámara, frecuentemente un sexteto formado por un quinteto
de cuerda, una flauta o un clarinete, aunque no tenemos información de cómo
era el conjunto que acompañó el estreno de La tragedia del beso. Además de
tocar alguna pieza para la entrada del público, a modo de sinfonía, solían
apoyar los momentos claves de las obras representadas. En el texto hay algunas indicaciones en este sentido, como al inicio: “Una orquesta oculta deja
oír brevísimo preludio. Descubre el telón el cuadro ya descrito y aún sigue
sonando la música hasta el momento que más adelante se fija.” Entre las notas
y borradores manuscritos del autor ya mencionados4 se encuentra una interesante nota doblada en la que se precisan las músicas utilizadas y el lugar que
ocupan en la representación:
1) En la escena del infierno suena la “Suite de Grieg p. 46, La mort d’Ase”,
uno de los movimientos de la música incidental que compuso el compositor
noruego Edvard Grieg para Peer Gynt de Ibsen, un fragmento muy popular
en conciertos y veladas musicales. Se trata de un delicado Andante doloroso,
originalmente para la cuerda con sordina, que en el drama de Ibsen acompañaba el momento en que el protagonista asiste a la muerte de su madre.
Por las indicaciones de la mencionada nota manuscrita, en La tragedia del beso
sonaba al comienzo desde “antes de levantarse el telón” y al final del cuadro
para el cambio escénico. La vuelta al infierno en el último cuadro retomaba la
misma música: “Al final del canto segundo empieza la música del infierno y
dura hasta el final del poema.”
2) El otro fragmento es el “Adagio cantabile del septimino de Beethoven”,
es decir, el segundo movimiento del Septeto para vientos y cuerdas en Mi bemol
mayor op. 20. Este lírico movimiento lento, con un su hermoso diálogo entre
el violín y el clarinete, acompañaba brevemente el inicio de la escena VI del
4. La tragedia del beso, original manuscrito a lápiz y tinta con correcciones y paginado, Madrid,
Biblioteca de la Fundación Juan March, Legado de Carlos Fernández Shaw, CFS-68-A04.
Dante en la música española
Dante e l’arte 2, 2015 175
cuadro segundo en el mencionado jardín y todo el monólogo de Francesca
(escena VII), uno de los momentos centrales de la obra y de mayor lucimiento para María Guerrero. Sin duda, la intensa recitación de los versos en que
la protagonista expresa su amor se veía realzada con este fondo musical. La
calmada melodía del clarinete se unía a la exaltación de la primavera de Francesca: “Primavera / placentera; / bosque en flor; / ¡para hechizarle, quisiera /
vuestro encanto seductor!”
Estos dos fragmentos musicales, que seguramente seleccionó el propio
Carlos Fernández Shaw,5 estaban muy alejados de la tradición musical romántica de Dante iniciada por Liszt, en especial los tensos desgarros sonoros con
que se representaba el infierno. La elección del Andante de Grieg ofrecía un
fondo sonoro tranquilo, doloroso y lleno de melancolía, mientras que el de
Beethoven era un hermoso fondo para los versos. Como veremos estaban también lejos de la propuesta wagneriana de Conrado del Campo, cuando convierte en ópera el poema dramático de Carlos Fernández Shaw.
IV. La ópera La tragedia del beso
Sin duda, todo el trabajo en La Divina Comedia de Conrado del Campo despertó el interés de su amigo y colaborador Carlos Fernández Shaw. El trabajo
sinfónico llevó al gaditano a escribir La tragedia del beso y ambos hablaron
mucho sobre Dante en los primeros meses de 1910 en medio de los preparativos del estreno, mientras el compositor terminaba la segunda parte de su
Infierno. En abril el poeta asistió al estreno sinfónico: en una carta el músico
le envía un palco para que asistiese al concierto.6 Poco después ambos trabajaron en El final de Don Álvaro y, una vez estrenada, emprendieron el trabajo de
su siguiente ópera durante el verano de 1911, concluyendo la partitura de La
tragedia del beso en noviembre de ese mismo año.7
Carlos Fernández Shaw es un autor fundamental para la ópera española,
habiendo escrito los libretos de las principales propuestas de esta época, como
La vida breve de Manuel de Falla, El certamen de Cremona de Tomás Bretón,
Colomba de Amadeo Vives o La maja del rumbo de Emilio Serrano, además
de las primeras óperas de Conrado del Campo (Guillermo Fernández-Shaw
1969; Lozano 1962). Su relación con Chapí resultó clave en este sentido, al ser
uno de los más prolíficos colaboradores del músico de Villena. Según Luis
G. Iberni, de la colaboración entre Chapí y Fernández Shaw salieron “a la
5. En la edición de la tragedia (p. 41) se incluye la siguiente aclaración: “Nota importante: El
autor facilitará, gustosísimo, todas las indicaciones precisas para la parte musical de esta obra.”
6. Carta de Conrado del Campo a Carlos Fernández Shaw, 17-IV-1910 (Biblioteca de la Fundación Juan March, Legado de Carlos Fernández Shaw, CFS-AE-XIV 28).
7. Conservada en el Fondo “Teatro Lírico” de la Sociedad General de Autores (Referencia:
MPO/310).
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Víctor Sánchez Sánchez
escena madrileña algunas de las aportaciones de mayor calado en la historia
de la zarzuela” (Iberni 1995: 231). Referencia fundamental es su aportación al
sainete lírico madrileño, en colaboración con el castizo López Silva, con títulos de referencia como La revoltosa, Las bravías o La chavala, aunque también
libretos cómicos más ligeros, como El triunfo de Venus (junto a Muñoz Seca)
o El maldito dinero (junto a Arniches), y proyectos más elaborados, como El
cortejo de la Irene o La venta de don Quijote, e incluso propuestas de zarzuela
grande histórica en Los hijos del batallón. Pero sin duda su gran proyecto sería
la ópera Margarita la tornera, estrenada con enorme éxito en el Teatro Real
en 1909, que tuvo una fuerte repercusión y llevó a que se afirmase que por fin
existía la ópera española.
La labor literaria de los libretos operísticos de Carlos Fernández Shaw ha
sido discutida en diversas ocasiones. Su obra poética mantenía la grandilocuencia romántica decimonónica, como se puede ver especialmente en sus
últimos libros de poemas, donde formalmente conserva las formas métricas
tradicionales.8 Esta vena poética no resultó siempre adecuada para sus textos
operísticos, especialmente cuando no existía un colaborador que colocase sus
versos en el adecuado contexto dramático. Julio Gómez, al analizar el problema del libreto en la ópera española, lamentaba en Carlos Fernández Shaw la
“expresión verbal demasiado abundante, a la que le llevaba su exuberante temperamento”, particularmente en los libretos para Conrado del Campo, donde
“se hace patente la falta de disciplina, la total carencia de formas producida
por el abandono de las consagradas por el uso en la ópera tradicional y no
hallar las concretas del drama lírico moderno con las que habría que haberlas
sustituido” (Gómez 1956). En una línea similar, Miguel Salvador criticó tras el
estreno de El final de Don Álvaro que uno de los principales problemas de la
ópera española era que “no tenemos quienes produzcan libretos, tales como las
corrientes crítico-musicales modernas los exigen”, mencionando como modelo
los dramas de Maeterlinck, cuyo estilo estaba muy alejado de los textos de
Fernández Shaw: “¡Estos [poemas] pueden inspirar dramas líricos modernos,
los que nosotros producimos no! Eso de explicar los antecedentes del drama es
lo que nos mata, pues explicamos mucho los dramas y no ocurren ni suceden
ellos; no tenemos en cuenta lo que debe de callar la letra, lo que debe traducir
y lo que no puede traducir la música; conocen nuestros poetas preciosamente
el lenguaje hablado, ¡el musical para ellos es un arcano!...” (Revista Musical de
Bilbao, abril 1911).
8. Además de las ediciones originales, existen dos interesantes recopilaciones de la obra poética
de Carlos Fernández Shaw: El canto que pasa: antología poética (1883-1911) (Madrid, M. Aguilar, 1947) con prólogo de su hijo Guillermo Fernández-Shaw, y Poesías completas (Madrid,
Gredos, 1966) con introducción y estudio de Melchor Fernández Almagro.
Dante en la música española
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El encuentro de Carlos Fernández Shaw con Conrado del Campo surgió
en el entorno de Chapí, músico con el que ambos colaboraron manteniendo
una gran amistad y admiración profesional. Ambos siguieron muy de cerca
los ensayos y el éxito de la ópera Margarita la tornera, que parecía abrir el
camino de la ópera nacional. Como hemos visto, pronto colaboraron en la
ópera El final de don Álvaro, tras cuyo estreno emprendieron el trabajo de una
nueva ópera: La tragedia del beso. Para el libreto, trabajó directamente sobre
el texto del poema dramático. En el legado del compositor se ha conservado
una edición de la tragedia con algunas correcciones, tachaduras y anotaciones
musicales del propio Conrado del Campo, lo que nos muestra su fidelidad al
original, del que mantuvo los mismos versos cortando algunas escenas secundarias. El único añadido fue la aparición de un pastor al inicio del segundo
cuadro, un acertadísimo efecto escénico que servía – según señala Adolfo Salazar – “para preparar de una manera delicada y bellísima la transición del ambiente trágico del cuadro primero a la gozosa escena siguiente” (Arte musical,
junio 1915). Seguramente, estos cambios se realizaron bajo la supervisión del
propio Fernández Shaw, su amigo y colaborador, aunque la grave enfermedad
del poeta – que fallecería en junio de 1911 – obligó al propio Conrado del
Campo a colocar en su ópera algunos versos propios.
Fig. 5. Conrado del Campo, copia revisada de La tragedia del beso, pp. 16-17
La tragedia del beso surge en un contexto fuertemente wagneriano. Debemos
recordar la fiebre wagneriana que se vive en Madrid, que encuentra su punto
culminante con la fundación de la Sociedad Wagneriana y el estreno en el
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Víctor Sánchez Sánchez
Teatro Real de Tristán e Isolda en febrero de 1911 (Sánchez 2010b). Ya hemos
mencionado anteriormente el paralelismo entre la historia de Paolo y Francesca y la de Tristán, y cómo el propio Dante situaba a Tristán en el mismo
círculo del Infierno. Además, el planteamiento escénico resultaba similar al
ideado por Wagner, teniendo su episodio principal en la declaración de amor
(el momento del beso) a través de un largo e intenso dúo de la pareja protagonista que es interrumpido bruscamente por la aparición del marido engañado,
que precipita el desenlace y la destrucción. Así, el tema central se mueve en los
mismos ejes temáticos wagnerianos: el amor como fuerza irrefrenable y a su
vez como fuerza destructora. La similitud tristanesca era llevada en La tragedia
del beso hasta el nivel del detalle, incluyendo al comienzo del segundo cuadro
una canción de un pastorcillo precedida de un solo del saxofón contralto, un
episodio que recordaba inevitablemente al del pastor en el desesperanzado
inicio del tercer acto del Tristán wagneriano con su triste solo de corno inglés.
Fig. 6. Conrado del Campo, La tragedia del beso, inicio del cuadro 2º
Algunos críticos censuraron un detalle tan evidente, aunque Adolfo Salazar
– comprendiendo los valores musicales de la nueva ópera de Conrado del
Campo, que calificó como “una verdadera obra maestra” – defendió su originalidad, censurando con ironía la obsesión de los críticos por buscar influencias en todos los estrenos españoles:
Hasta tal punto llegan a afinar la puntería esos “cazadores de reminiscencias”, bautizados así graciosamente por Weingartner, y hasta tal grado de
obsesión llegan los amantes de descubrir parentescos, que hoy en día es
imposible hacer oír una frase en la tuba sin que se exclame inmediatamente:
‘Wagner’, o emplear un pedal de contrafagot sin gritar ‘Strauss’, ni sentar
dos amantes en un banco sin que se piense en Tristán, ni hacer sonar un
caramillo campestre sin referirse al solo de corno del tercer acto de esa
incomparable creación wagneriana. Solo así se concibe que se haya podido
comparar musicalmente la canción del pastor de La tragedia del Beso, con
ese momento homólogo al de Tristán; sin parar mientes en los significados
opuestos de ambas situaciones dramáticas, sin detenerse a pensar que mientras nacía uno de esos casos [Tristán] como flor dolorosa en el ambiente de
la melancolía y de tristeza, acentuando con su matiz de desesperanza los
trágicos tonos de la obra, en La tragedia del Beso tenía una misión absolutamente distinta: la de disipar el efecto tétrico del prólogo y preparar sin
brusquedad la escena posterior (Arte Musical 21-V-1915).
Dante en la música española
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A pesar de este comentario, La tragedia del beso se inspiraba de una manera muy directa en el lenguaje musical del Tristán wagneriano. La escritura
cromática servía para caracterizar tanto el ambiente desesperanzado del infierno como la intensa pasión amorosa de la pareja protagonista. Además, la gran
actividad orquestal y polifónica nos remite a las activas texturas wagnerianas.
Un buen ejemplo lo encontramos en la llegada de Dante y Virgilio, cuando
los dos poetas leen la fatídica inscripción que franquea el infierno (el famoso
“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” traducido por el poeta español como
“Dejad los que aquí entréis toda esperanza”).
Fig. 7. Conrado del Campo, La tragedia del beso, cuadro 1º
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Víctor Sánchez Sánchez
El tema inicial – un amplio solo de los violonchelos – se va ralentando progresivamente a manera de recitado, ofreciendo una rica fluctuación cromática.
Armónicamente también podemos apreciar una gran actividad, que contribuye a caracterizar la ansiedad con que Virgilio lee la famosa inscripción de
entrada al infierno, mediante giros de tercera y enlaces cromáticos. A esto se
une su gusto por las texturas densas y una actividad orquestal contrapuntística. En una carta a su discípulo Ángel Barrios le recriminaba que su “orquestación está bien dispuesta pero peca de excesivamente sobria, tenue, temerosa,
débil. Para el resto, sobre todo, es preciso instrumentar con más robustez, con
más cuerpo. Conviene también cuidar más el color buscando efectos de sonoridad, con más decisión, sin timideces.”9 Todos estos recursos armónicos nos
remiten a la intensa expresividad del cromatismo wagneriano.
El carácter sinfónico de la partitura resulta evidente en la continua actividad instrumental que acompaña a las voces con un denso tejido de Leitmotiven. En el ejemplo anterior aparecen dos de los más significativos: un
lírico arpegio (en la trompa 1ª), que representa la nobleza y majestuosidad de
los poetas, y una tensa apoyatura (en oboes y flautín), adecuada para reflejar
las tensiones del infierno. Además, en el drama se insertan algunos pasajes
puramente orquestales que servían para articular poéticamente la obra, como
un anhelante preludio inicial o la transición hacia el segundo cuadro, con el
mencionado solo de saxo. De hecho, la música del tercer cuadro incorpora
casi de manera literal el segundo poema sinfónico El Infierno, lógicamente
con algunos pequeños ajustes para la incorporación de las partes vocales.10 Se
conseguía así un cuadro de carácter sinfónico con gran capacidad evocadora,
en el que la orquesta acompaña el alejamiento de Dante y Virgilio de la oscuridad infernal hacia la luz del día, que avanzan – según la acotación escénica del
propio Del Campo en la partitura – “lenta y noblemente con severa majestad
clásica […] denotando la emoción que en sus almas domina”; mientras a lo
lejos se escucha la voz de un zagalillo y el repique de las campanas que señalan
la llegada del alba. El crítico de La Época destacó el interés de estas partes
instrumentales, comentando especialmente esta inserción en el contexto del
final de la nueva ópera:
El manejo de la orquesta, es un arte especialísimo de Conrado del Campo, y
en la obra actual no sabemos qué admirar más: si su diversidad o su riqueza.
9. Carta de Conrado del Campo a Ángel Barrios desde Madrid con fecha de 13 de diciembre de
1912 (Granada, Archivo del Patronato de La Alhambra y Generalife, Legado Ángel Barrios).
Durante esta década ambos músicos mantuvieron una estrecha relación que se inició como
maestro-discípulo, pero que después les llevó a colaborar en varias obras líricas, entre las que
destaca la ópera El Avapiés, estrenada en el Teatro Real de Madrid el 18 de marzo de 1919.
10. Los folios 166 al final (185) de La tragedia del beso reproducen casi exactamente los compases
15-216 del poema sinfónico La Divina Comedia: Infierno. Ver edición de Editorial de Música
Española Contemporánea, 2001.
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Aquel prólogo, digno de Wagner, contrasta profundamente con el delicioso
scherzo con que comienza la acción fundamental; el turbulento y trágico
desenlace del drama, con la calma y serenidad que le sucede cuando los
poetas inmortales ascienden de las profundidades infernales a la augusta
paz de la Naturaleza, envuelta aún en las tinieblas de la noche, poco a poco
disipadas. Este fragmento final, que ya hemos oído en conciertos sinfónicos, es de una inspiración elevadísima y de una consecución soberbia (La
Época, 19-V-1915).
El otro fragmento sinfónico – el prólogo instrumental – no se incorporó a
la música de La tragedia del beso, a pesar de que describía la misma situación
escénica del comienzo con la llegada de Dante y Virgilio al infierno. No obstante, resulta posible interpretarlo a la manera de obertura, ya que el final
del Tranquilo en Sol mayor del prólogo sinfónico enlaza perfectamente con el
enérgico arranque del Allegro vivace también en Sol (aunque en modo menor)
del comienzo de la ópera. De hecho, algunas críticas parecen sugerir que así se
realizó el día del estreno.11
Este carácter sinfónico de la partitura de La tragedia del beso no debe hacernos olvidar la importancia de lo vocal en la ópera, especialmente en las
expresivas partes de la pareja protagonista. La soprano que hacía el papel de
Francesca, además de su encuentro con los dos poetas en el primer cuadro,
debía afrontar un intenso monólogo en el segundo cuadro (ff. 101-113). El
papel fue estrenado por Ofelia Nieto, quien con sólo quince años iniciaba
con esta ópera su prometedora carrera en el Teatro Real; la había descubierto
el maestro Vives un año antes buscando una protagonista para Maruxa, que
encontró en esta destacada alumna de la academia del tenor Simonetti. Rogelio del Villar recordaba años más tarde estas funciones en las que “su voz era
algo realmente excepcional, por su calidad, extensión, pureza de timbre y la
facilidad y maestría con que la manejaba” (Ritmo, junio 1931). Aunque rara vez
afrontó la Nieto el repertorio wagneriano, sus capacidades vocales le permitían
afrontar el difícil canto dramático, con su carácter declamatorio y su resistencia vocal en extensión y amplitud. De hecho, algunos críticos censuraron la
excesiva dureza de las partes vocales, no sólo la de la soprano, sino también la
del tenor, cantado por Pascual Roig, quien se mostró incapaz de afrontar su
papel. Eduardo Muñoz en El Imparcial comentó que “Ofelia Nieto luchó con
una tesitura despiadada y con una parte fatigosa […] y el tenor Roig, en quien
son de estimar los desesperados esfuerzos que realizó para lograr ser oído, aunque en honor a la verdad no pudo conseguirlo completamente”.12
11.“De La tragedia del beso conocíamos ya el hermoso prólogo […]. Al correrse la cortina al
terminarse el prólogo, estalló en la sala una formidable salva de aplausos […]. Se descorrió
de nuevo la cortina, y comenzó la acción de la obra propiamente dicha” (Correspondencia
de España, 19-V-1915).
12. El Imparcial, 19-V-1915. Con idéntico sentido irónico hacia el tenor se comentaba en el
182 Dante e l’arte 2, 2015
Víctor Sánchez Sánchez
El momento culminante de la ópera era el largo dúo de amor de la pareja protagonista (ff. 114-151), quienes se encuentran clandestinamente en el
jardín antes de ser sorprendidos. Las resonancias tristanescas de la situación
escénica se realzaban con un lenguaje cromático de gran intensidad vocal e
instrumental de fuerte influencia wagneriana. En la partitura son frecuentes
indicaciones como “apasionado”, “con vehemencia” o “enérgico”, que reflejan
la gran fuerza expresiva que busca Conrado del Campo. Además el lenguaje
armónico es bastante dinámico e inestable, con un frecuente apoyo en acordes
de séptima disminuida y una activa textura orquestal y contrapuntística. Un
crítico describió con acierto esta parte como “dúo en el que hay frases apasionadas, que engalana un trabajo orquestal de maestro” (Correspondencia de
España, 19-V-1915).
Fig. 8. Conrado del Campo, La tragedia del beso, cuadro 1º
No falta en la partitura de Conrado del Campo la musicalización del famoso
aforismo con el que contesta Francesca a Dante, lógicamente siguiendo el
texto versionado de Carlos Fernández Shaw. Casi un siglo después de la cita
en el Otello rossiniano, el contexto musical wagneriano le daba una nueva
diario El Liberal del mismo día: “Del tenor Roig hemos de decir que cuando en algunos
momentos le oímos, pudimos percibir qué dice bien.”
Dante en la música española
Dante e l’arte 2, 2015 183
dimensión a estas palabras. Las indicaciones en la partitura de “anhelante” y “con honda intensidad expresiva” reflejan así la importancia expresiva
del momento.
En definitiva, nos encontramos en La tragedia del beso con una de las obras
más wagnerianas no sólo de Conrado del Campo, sino de todo el repertorio
operístico español. Las resonancias del Tristán son bastante evidentes, tanto
a nivel dramático como musical, fruto de la enorme presencia que tiene este
título de Wagner en el ambiente musical madrileño de esta época. El público
y la crítica reconocieron esta herencia con división de opiniones. Ya hemos
visto cómo Adolfo Salazar y Rogelio Villar defendieron la calidad – e incluso originalidad – del nuevo trabajo operístico. Sin embargo, en el diario El
Liberal se pudo leer: “Pero Tristán e Iseo no se aparta del pensamiento del
espectador mientras oye La tragedia del beso. Es una lástima que Conrado del
Campo, aún dentro de su manera de ser artista, no haya sabido sustraerse a ese
recuerdo” (El Liberal, 19-V-1915). Calvo Sotelo, en El Debate, reconociendo su
wagnerismo, destacaba la calidad final, que “constituía un jalón capital de este
noble empeño” en favor de la ópera nacional:
Patentiza una vez más Conrado del Campo su pericia, más aún, su firmísima sabiduría técnica. La composición es ya para él un arte sin secretos, y
aun cuando la armonía se reblandece, deslíe y aún evapora con frecuencia entre el fárrago de notas acumuladas sucesiva y simultáneamente, lo
cierto es que jamás falla el maestro, el hombre de ciencia, y que por ello
cabe mostrar La tragedia del beso como producción acabada equilibradamente, sin dejadeces ni lapsus que la puedan descomponer. […] Y luego,
Conrado se aferra con exceso al wagnerismo. Es un wagnerista reconcentrado, casi fanático del coloso germano. Fuera de él rechaza todo horizonte.
De Wagner es el cromatismo que repetidas veces asoma en la escena de
amor. De Wagner es la inflexible línea interna que permanece inquebrantable, pese a la multiformidad extrínseca del adorno musical (El Debate,
19-V‑1915).
Lo cierto es que, a pesar del interés de La tragedia del beso y de los aplausos
recibidos en su estreno, su repercusión fue bastante escasa. La ópera tardó
cuatro años en programarse, siendo estrenada en el Teatro Real de Madrid
dentro de la temporada de primavera de 1915: unas funciones fuera de la temporada principal, dedicadas especialmente a la ópera española, en las que se
repuso Margarita la tornera, La Dolores de Bretón y Maruxa de Vives, la obra
de mayor éxito estrenada un año atrás en el Teatro de la Zarzuela. Gran parte
del público no eran los abonados del resto del año y los precios eran bastante
más reducidos. Además, los cantantes eran en su mayoría jóvenes e inexpertos,
con la excepcionalidad del precoz caso de Ofelia Nieto. La tragedia del beso
fue el único estreno, del que se ofrecieron sólo tres funciones, en un cartel
184 Dante e l’arte 2, 2015
Víctor Sánchez Sánchez
que se completó curiosamente con una versión castellana de Bastián y Bastiana
de Mozart.13
La nueva ópera de Conrado del Campo se estrenaba así por compromiso,
debido al prestigio alcanzado por su autor, ya que estaba terminada cuatro
años antes y se podía haber programado con mayor premura. La dirección corrió a cargo de Arturo Saco del Valle, mientras el propio Conrado del Campo
se mantuvo en su atril de las violas, subiendo al final de la representación a
recoger los calurosos aplausos. La tragedia del beso se olvidó pronto y su partitura permaneció manuscrita en el archivo de su creador. De esta manera – y
una vez más – el camino de la ópera española no se frenaba por los esfuerzos
de los compositores, sino por el total desinterés del ambiente musical hacia
la producción nacional. Un poco gratificante camino que no desanimó a un
Conrado del Campo, que continuó componiendo óperas hasta el final de su
carrera. Y este camino se cruzó con uno de los grandes temas de la historia de
la ópera: la representación musical del Infierno de Dante.
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13. El crítico del diario ABC (19-V-1915) definió acertadamente la visión de los asistentes del
Teatro Real a esta ópera de Mozart: “El público sabía que iba a admirar una monada, un
bijou, una miniatura, a la que la antigüedad presta más valor, por lo mismo que al través
de ella ha conservado su lozanía y la gracia de su concepción, y acudió solícito y oyó con
verdadera devoción Sebastián y Sebastiana, esa deliciosa plática de familia en la que tres
únicos personajes se lo cantan y se lo recitan todo.”
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beso”.
Diario Universal, 15-III-1910: Alejandro Miquis [Anastasio Anselmo González y
Fernández]: “En La Princesa: beneficio de María Guerrero”.
España Nueva, 15-III-1910: V., “Tardes de estreno: beneficio de María Guerrero”.
El Mundo, 15-III-1910: “Beneficio de María Guerrero”.
El Universo, 15-III-1910: C. de A.: “Crónica teatral”.
Revista Musical, Bilbao, año III, nº 4 (abril 1911): Miguel Salvador: “Madrid: Teatro
Real”.
Diario de Cádiz, 26-IV-1910: “La tragedia del beso”.
El País, 17-IV-1910: “Teatro Real: Orquesta Sinfónica”.
El Mundo, 18-IV-1910: Manuel Manrique de Lara: “Orquesta Sinfónica”.
El País, 19-IV-1910: L. A.: “Orquesta Sinfónica”.
Revista Musical, Bilbao, año IV, n.1 (enero 1912): “Noticias”.
El Imparcial, 30-X-1913: Ricardo Blasco: “La Sinfónica en París”.
La Época, 3-II-1915: A. Barrado: “Teatro Real: Estreno de Paolo e Francesca”.
Revista Musical Hispano-Americana, II Época (año VII), n.13 (febrero 1915): E.
Echeveouren: “Extranjero: Roma, enero 1915”.
El País, 19-V-1915: R. V. [Rogelio Villar]: “La tragedia del beso”,.
La Época, Madrid, 19-V-1915: Interino: “Real: La tragedia del beso”.
Correspondencia de España, 19-V-1915: N. R. de C.: “Teatro Real”.
El Imparcial, 19-V-1915: Eduardo Muñoz: “La tragedia del beso”.
El Liberal, 19-V-1915: Tristán: “Teatro Real”.
El Debate, 19-V-1915: Calvo Sotelo: “Los estrenos de anoche”.
ABC, 19-V-1915.
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Víctor Sánchez Sánchez
Arte Musical, 21-V-1915: Adolfo Salazar: “La tragedia del Beso”.
Arte musical, junio 1915: Adolfo Salazar: “La Tragedia del Beso”.
La Época, 10-XII-1926: Víctor Espinós: “La ópera en la Zarzuela: estreno de Francesca
da Rimini”.
Ritmo, nº 33, junio 1931: [Rogelio Villar]: “Ofelia Nieto”.
3. Listado de figuras
Fig. 1. Rossini, Otello, acto III (canto del gondolero). Ed. Breitkopf & Härtel, Leipzig,
1816, pp. 155-156.
Fig. 2. Rachmaninof, Francesca da Rimini. Moscú, Gutheil, 1906, p. 54.
Fig. 3. Conrado del Campo, La Divina Comedia: El Infierno, Final. Partitura del
Legado Conrado del Campo, Centro y Documentación Archivo de la SGAE
(CEDOA-SGAE).
Fig. 4. Carlos Fernández Shaw, Nota manuscrita con el listado de fuentes. Biblioteca
Fundación Juan March, CFS-68A.
Fig. 5. Conrado del Campo, copia revisada del libreto de La tragedia del beso, pp. 1617. Legado Conrado del Campo, Centro y Documentación Archivo de la SGAE
(CEDOA-SGAE).
Fig. 6. Conrado del Campo, La tragedia del beso, inicio del cuadro 2º. SGAE, Fondo
“Teatro Lírico” MPO/310, fols. 58v-59r.
Fig. 7. Conrado del Campo, La tragedia del beso, cuadro 1º. SGAE, Fondo “Teatro
Lírico” MPO/310, fols. 22r-23r.
Fig. 8. Conrado del Campo, La tragedia del beso, cuadro 1º. SGAE, Fondo “Teatro
Lírico” MPO/310, fol. 44v.
Dante e l’arte 2, 2015 187-198
Partitures de Granados amb una nova vida:
el poema simfònic Dante e Virgilio,
i una cançó retrobada
Francesc Cortès i Mir
Universitat Autònoma de Barcelona
[email protected]
Resum
El poema simfònic Dante e Virgilio ocupa un lloc singular entre les obres instrumentals
d’Enric Granados (1867-1916). Fou el projecte simfònic més ambiciós que compongué.
Aquesta, però, no és la seva única obra escrita en italià inspirada en Dante. La descoberta
recent d’una cançó seva –Soneto XV (Vita Nuova)– basada també en l’obra de Dante, ens
convida a replantejar-nos alguns tòpics sobre la música de Granados. Es proposa una lectura
desde la intertextualitat que el compositor practicava entre els llenguatges musical, poètic
i pictòric.
Paraules clau: Granados, Dante, Poema simfònic, Lied, écfrasi, intertextualitat.
Abstract
The symphonic poem Dante e Virgilio has a significant place among the instrumental
repertoire of Enric Granados (1867-1916). This was the most ambitious symphonic proposal
he ever wrote. But Dante e Virgilio wasn’t his only composition in italian language inspired
by a Dante text. The recent discovery of a song –Soneto XV (Vita Nuova)– based upon the
famous Dante sonnet, helps us to reconsider some commonplaces about Granados’ music.
This article puts forward an interpretation from the point of view of Granados’ intertextual
practices which run through the musical, poetical and pictorial languages.
Keywords: Granados, Dante, symphonic poem, song, ekphrasis, intertextuality.
issn 2385-5355
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G
ranados s’havia apropat al món literati medieval italiana amb el projecte
d’òpera Petrarca (1899), amb llibret escrit en català per Apel·les Mestres,
però que no finalitzà mai (Larrad 1991:151). Sabedors de la seva implicació amb
el teatre líric català (Cortès 2005:1310-1328), però sobretot de l’èxit de les seves
composicions de ressonàncies goiesques, amb les que passà pàgina al costumisme de l’òpera María del Carmen, no es balder preguntar-se per què Granados
es sentí atret per les dimensions excessives de la Divina Comedia.
Cal un desllorigador que expliqui l’entossudiment en arrodonir Dante,
en la qual treballà més de set anys. Volia seguir el camí del que havien compost Liszt, Tchaikovsky, Thomas, Cagnoni o Rakhmaninov? Si l’incentiu fos
només la recepció, a Barcelona només s’havia escoltat l’òpera de Cagnoni:
Francesca da Rimini, al G. T. del Liceu, el 3 de novembre de 1889. No passà
de les dues funcions, citada amb displiscència malgrat l’admiració per Dante
(Sardà 1889). La simfonia Faust de Liszt –no el seu Dante– seria un precedent:
s’interpretà l’any 1902, dirigida per Antoni Ribera. Una altra referència més
directa fou l’òpera de Tchaikovsky, Francesca da Rimini, representada el setembre de 1905 al teatre Eldorado.
La clau de volta, però, es troba en l’admiració per la figura i obra de
Dante entre la intel·lectualitat de la Catalunya modernista, palpable en diferents indicis. L’any 1891, Antonio Pandiani mostrà diferents escultures
a l’Exposició de Belles Arts, entre elles escultures i busts de Dante, imitant
estils antics, (La Ilustración Hispano-Americana, 10-V-1891). Força artistes
catalans seguiren el prerafaelitisme –Apel·les Mestres, amic de Granados,
fou dels més significats–, atrets per la Divina Comèdia i les seves lectures
simbòliques (Cerdà 1981: 355). El 1903 Manuel de Montoliu traduí al català La Vida nova de Dante. Als sonets de Vita Nuova hi llegien el “cantar
de la dona-idealitzada, l’ànima-bessona del poeta”, i la imatge de les “superfèmines que caracteritzen especialment el Modernisme” (Cerdà 20112:178). També s’emmirallaren en l’obra de l’anglès Dante G. Rossetti, tot
llevant el seu erotisme, per a identificar-se en els somnis dantescos (Castellanos 2002:215). Rossetti era present als poemes de Viura, de Montoliu,
d’Apel·les Mestres, així com a l’obra d’Alexandre de Riquer. Jeroni Zanné dedicà sonets a les pintures dantesques de Rossetti. Revistes com Joventut reproduïen il·lustracions, com altres revistes de divulgació artística (Giner 1885:6-8).
I. Seguir una altra ruta: intertextualitat entre imatge,
poesia i música
Granados no pouà només del context cultural català. Com assenyala Clark,
“Granados remained on the margins of the moderniste movement, particularly in respect to its Catalanist political thrust” (Clark 2006:79). S’expressava
Partitures de Granados amb una nova vida
Dante e l’arte 2, 2015 189
amb força a través de les arts plàstiques. Posseïa un sentit del valor estètic que
excloïa tot allò anecdòtic, exhibicionista o vinculat amb el consum a l’engròs.
En una ocasió, en assabentar-se que l’estrena d’una obra seva amb text de Mestres tindria lloc a un popular teatre d’exhibicions, va escriure-li per aconsellarli que impedís la representació:
Querido Apeles, [a llapis] “al bosque, follet, varietées, fuegos artificiales!!!”
¿Podemos comentar esto? Acabo de escribir a Casanovas suprimiendo
el estreno. Creame Apeles, de palabra lo convenceré de cuanto me deshonra
un estreno como este. (Carta d’Enric Granados a Apel·les Mestres, 3-VII1906. Museu de la Música de Barcelona, Epistolaris, 10. 136)
A la correspondència amb els amics més íntims, solia afegir-hi caricatures, assolint un paper complementari a les paraules. Les referències literàries i gràfiques en Granados són antecedents a la composició, són la seva hermenéutica.
Vives insistí en l’estima que atorgava a lectures i gravats:
Sobre una tauleta hi havia alguns llibres: poemes i novel·les. El Faust, el
Caín de Byron, poemes de Tennyson traduïts al castellà, i una novel·la
americana intitulada Maria. Tots els llibres tenien il·lustracions que ell
mirava amb delectació. En Granados sent una admiració igual per unes
coses i per les altres […] La Maria de Jorge Isaacs, té una il·lustració que
m’ensenya. En mig d’unes flors hi ha algunes notes de música, i d’aquelles
notes, ell n’ha fet una cançó que m’ha quedat a la memòria (Vives 1916:177).
En Granados existeix una intertextualitat decisiva entre música, obres plàstiques i literàries. El cas més obvi, i tòpic, és Goyescas: pintures i gravats de
Goya s’entrellacen amb episodis personals, amb il·lustracions d’ambient goyesc. Algunes les recollí als seus quaderns d’apunts conservats a la Morgan
Library. Abans de Goyescas ja havia donat un pas de rosca amb la composició de Liliana, creada a partir del llibre de bibliòfil publicat per Mestres
el 1907. Granados el convertí en episodi líric el 1911. A Liliana hi ha una
écfrasi musical, que tradueix en música les il·lustracions, tant literàries com
gràfiques. El 12 de juny de 1908 s’interpretaren al Palau de la Música Catalana, en audició privada, les dues primeres parts del nou poema simfònic
que componia Granados, Dante. Feia pocs mesos de la inauguració del nou
estatge de l’Orfeó Català. Coincidí amb l’estrena del pròleg instrumental La Divina Comedia de Conrado del Campo a Madrid, un mes abans.
La premsa barcelonina feu seguiment curós de l’audició. La recepció
fou obertament favorable a tota la premsa, això que només s’hi dedicaren dos
assajos. Des de la Revista Musical Catalana es palesava l’acollida positiva:
De les tres parts que ha de contindre l’obra s’executaren les dugues primeres, acabades ja del tot, per una nodrida orquesta y la cantanta senyoreta
Serra, encarregada del solo de Francesca, dirigintlos el propi autor senyor
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Granados. […] produhí sobre l’auditori la mellor impressió (Revista Musical
Catalana, VI-1908)
Granados continuà treballant en la partitura. Però deuria ser en la instrumentació, perquè no enllestí les dues darreres parts que ell esmentà en diferents
entrevistes.
El dissabte 19 de març de 1910, dins dels concerts de Quaresma organitzats
per l’Orfeó Català, s’estrenà només el segon moviment de Dante: “Paolo e
Francesca”, en mig d’un programa molt lluït, dirigit pels directors Franz
Beidler i Volkmar Andreae.1 La partitura de Granados compartí cartell amb
Bruckner, Gibert, Meyerbeer, i Wagner. F. Beidler sojornava a Barcelona durant setmanes. L’empresari del Liceu, Bernis, el contractà per a dirigir durant
la temporada de primavera la primera integral de L’Anell del Nibelung. Era,
a més a més, amic íntim d’Antoni Ribera (Blanchart 2008:58). És bo tenirho present: Ribera assistí a Granados a l’audició de 1908. El maig de 1915 es
programà de nou al Palau de la Música l’obra de Granados, també incomplerta, als concerts de l’Orquestra Simfònica de Madrid, dirigits per Fernández Arbós. Sonà emmig d’obres de grans dimensions.2 Després de l’audició
parcial de Dante, Granados explicà el seu projecte. Pensava en un poema en
quatre parts, inspirat al voltant de tres obres: el quadre de Rossetti Dante’s
Dream at the Time of the Death of Beatrice, d’una banda, i la Divina Comèdia
i Vita Nuova de Dante, d’altra. Ho havia manifestat per escrit al crític de La
Vanguardia:
[…] constará de cuatro partes: I. Introducción; II. Paolo y Francesca; III.
La muerte de Beatriz, y IV. Final.
De estas cuatro partes, tengo terminadas dos, y estoy haciendo estudios
para emprender la tercera. Para ello me inspiro en el célebre cuadro de
Dante G. Rossetti.
Mi idea al escribir Dante no ha sido seguir paso a paso la «Divina
Comedia», sino dar mi impresión sobre una vida y una obra: Dante-Beatriz
y la Divina Comedia son para mi una misma cosa; aun más: deseo enriquecer mi obra con algo de la «Vita Nuova».
¿No pueden, todas, condensarse en una sola?
La introducción comprende «la oscura selva»: Paolo y Francesca, esas dos
grandes figuras del poema dantesco.
Acerca de la muerte de Beatriz me atengo también á la obra inmortal.
1. Entre les primeres audicions destaquem la Simfonia nº 2 de Mahler, Mazzepa de F. Liszt,
Also sprach Zarathustra de R. Strauss, Variacions i Fuga sobre un tema de Hiller de M. Reger,
Simfonia nº 7 de Bruckner. S’estrenaren obres de compositors catalans: “Dansa d’espectes”
d’El Comte Arnau de Pedrell, Epitalami de Garcia Robles, Llegenda de López-Chávarri,
Marines de J. Gibert, El combat de Pahissa, i Pròleg simfònic per a un drama de Taltabull.
2. El programa del llarg concert l’integraven: Simfonia incomplerta de Schubert; Till Eulenspiegel de R. Strauss; Sisena simfonia de Beethoven; “Paola e Francesco” de Granados; Melodia
i Dansa irlandesa, de Percy Grainger; “Preludi i mort d’Isolda” de Wagner; Scherezada de
Rimsky-Korsakov.
Partitures de Granados amb una nova vida
Dante e l’arte 2, 2015 191
Pero quiero darle una rápida idea de cómo siento el color de la orquesta
para ese cuadro patético. Pienso instrumentarla, casi en su totalidad, del
modo siguiente: 4 flautas/ 2 oboes y corno inglés/ 2 clarinetes y clarinete
bajo/ 6 harpas/ 1 o 2 trompas/ 16 primeros violines/ 16 segundos id./ 12
violas/ 12 violoncellos/ 6 bajos/ Coro de mujeres. […]
En algunos pasajes, deseo producir sonoridades que se acerquen más
al color que á los sonidos: quiero pintar con la orquesta. Aquellas tintas
violáceas, carmín y verde del cuadro de Rossetti han impresionado tan
intensamente mis ojos, que mis oídos no quieren ser menos: quiero oir
música de aquel color. Quiero hallar aquel beso que le da Dante á Beatriz
por medio del ángel del amor (La Vanguardia, 19-VIII-1908).
La pintura de Rossetti és des del 1881, es troba actualment a la Walker Art
Gallery de Liverpool. Hi ha dues versions del tema: una aquarel·la (1856), i
un quadre a l’oli (ca. 1871). De les pintures se’n feren reproduccions (Marillier
1889:72; Rossetti 1906). Rossetti creà la seva pintura a partir d’uns versos de
Vita Nuova. El 1881 publicà un escrit on detallà l’écfrasi entre poesia de Dante
i la pintura,3 semblant al que feu Granados.
II. Entrebancs per al Dante de Granados
La recepció del poema simfònic als concerts de Barcelona condicionà l’acabament de la partitura. Dos fets ho recolzarien. Primer: el seu repertori pianístic,
i certes obres líriques, assentaren el tòpic i l’expectativa envers la seva música,
a partir de l’estrenà de la versió pianística de Goyescas, el 1911. Entre 1911 i 1914
Granados passà d’ésser un pianista que feia “conèixer música andalusa” –opinió dels grups modernistes– (Brossa 1891:314), o l’“aperitiu lleuger” de les obres
de Wagner (Arte Musical, 31-V-1915), a ser reconegut per l’èxit de les Goyescas
i Tonadillas.4 Segon: la recepció als concerts on es programà Dante es capgirà
entre 1908 i 1915.
L’audició privada de Dante del 1908 traspuà sensacions positives. Vegem
exemples: “La primera part (L’Entrada de l’Infern) té moments molt felissos,
la segona part sembla guardar més unitat, l’instrumentació se distingeix per
la seva plenitut” (Revista Musical Catalana, VI-1908); “factura completamente
moderna, y el que recuerde las composiciones anteriores del autor, encontrará
una polifonía nutrida, una orquestación llena y variada” (La Vanguardia, 14VI-1908); “declarando cuantos asistieron á esta fiesta que se trata de la obra
de mayores alientos del autor de María del Carmen, vivamente felicitado” (El
3. Vegeu http://www.rossettiarchive.org/docs/23p-1881.broadside.rad.html (consultat el 21-II2016).
4. El mes d’abril de 1911 al Salon-Simplex de Barcelona s’anuncià un concert de rotlles de
pianoles, tot reproduint números de Goyescas. El compositor havia donat a conèixer per
primer cop l’onze de març al Palau de la Música. En poques setmanes obtenia un ressò sense
parió.
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Diluvio, 17-VI-1908). La premsa catalanista s’engrescava: “En el «Kariel» [sic,
en lloc de Gaziel] vegérem a n’en Granados pendre un camí resoltament de
profit, en el «Dant» ha caminat molt en poch temps […] El «Dant» den Granados serà un poema, per lo que n’havem gaudit, de volada y de profit “(La
Veu de Catalunya, 13-VI-1908). L’estrena de 1910, convertida en acte social de
la burgesia local, matisava l’eufòria: “Granados es concienzudo compositor y
al propio tiempo fácil. La orquesta es manejada por él con gran desenvoltura,
á lo veterano” (La Vanguardia 21-II-1910); “«Paolo e Francesca» és seriosa y
d’alè […] el compositor havia anat molt enllà, emancipantse de la forma Grieg
que un dia havía sigut la seva obsessió, no obstant […] les dificultats de posar
música en poemes tan complexes” (La Veu de Catalunya, 21-II- febrer de 1910).
Les diferències amb el “tòpic Granados” eren excessives el 1915. La crítica ja
no comprenia aquella “pintura de sonoritats”. Pesava més el tòpic identificador de Granados. Algunes foren demolidores: “quizás la Divina Comedia no se
adapta perfectamente á su temperamento, […] aunque no falta la emoción en
la obra de Granados, su desarrollo es poco espontáneo y le resta al conjunto la
unidad debida” (La Vanguardia, 27-V-1915); “la nueva producción, desgraciadamente, fué un fracaso. […] Que el maestro Granados abandone por completo el escabroso camino que inicia en su nueva producción” (El Diluvio.
27-V-1915); “ve a dir-nos que encara evoluciona […] però com hauria vibrat
aquell «Paolo e Francesca» si hi hagués afegit quelcom del seu genre passat? El
sentiment poètic que tant comprenía En Granados, l’amaga en «Dant» sota un
massic orquestral de bona mena” (La Veu de Catalunya, 26-V-1915). Dante, en
aquelles dates, ja s’havia programat per l’estrena de Chicago el novembre de
1915, gràcies a les gestions d’Ernest Schelling i d’Henry J. Wood. Granados allí
estava lliure dels tòpics que el condicionaven a Barcelona (Perandones 2009).
III. Dante e Virgilio: un exemple d’écfrasi i
transtextualització
El 1915 l’editorial Schirmer publicà el poema simfònic, amb el títol de Dante
e Virgilio. L’orquestració és densa amb un gran presència del metall. El primer
dels dos moviments –sense cap subtítol en l’edició– cercava uns colors foscos.
Si prenem l’inci del Cant I a la Divina Comèdia –“Nel mezzo del cammin
di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura”–, 5 el trémolo de timbales en
pianíssim, juntament amb acords alterats de tonalitat no definida, la tessitura
greu de fagots, trompes i tubes wagnerianes, creen una referència a “selva
obscura”, com apuntava el mateix compositor a l’entrevista de 1908, i reproduïm en reducció a l’exemple 1:
5. Seguirem l’edició de J. F. Mira, 2000, Barcelona, Proa, 2000.
Partitures de Granados amb una nova vida
Dante e l’arte 2, 2015 193
Ex. 1. E. Granados. Dante, 1er moviment, inici, a partir de la edició de 1915.
El final del moviment es clou sobre un altre trémolo sobre el re, cromatismes
a les cordes, acords del metall lluny de convencions tonals clàssiques, timbre
fosc. Al primer moviment, les crítiques contemporànies es perdien en formes
imprecises. Ara bé, si realitzem una anàlisi basada en els canvis de tempo, els
contrastos tímbrics i la successió de motius temàtics dominants, ens trobem
un panorama sorprenent: el primer moviment s’articula en nou seccions, emmarcades per introducció, i conclusió.6 Aquestes nou parts no segueixen les
formes més usuals: cada tema apareix un sol cop, cada color instrumental
s’escolta uns compassos, i es podrien correspondre amb els nou cercles de
l’Infern, pels quals Virgili conduí Dante.
El segon moviment, “Paolo e Francesca”, fou l’únic interpretat després del
1908. La seva orquestració no requereix tubes wagnerianes. El moviment està
basat en el cant V de la Comèdia. S’inicia a partir d’un motiu temàtic cromàtic
que mostra relació d’intertextualitat amb el topos del “dolor, turments i plany”,
(Tarasti 2006:108-127).
Ex. 2. E. Granados, “Paolo e Francesca”, inici a partir de la edició de 1915.
Intervé la veu de Francesca da Polenta, escrita per a veu de mezzosoprano. El
text es pren a partir del vers 91 de la Comèdia –“se fosse amico il re de l’univer6. Tot i que és necessari considerar tant els elements temàtics com els importants canvis de
timbre, les seccions venen a coincidir amb les fluctuacions de tempo: Poco più mosso, Lento
e calmato, Allegro molto ritmato, Allegro Vivace, Poco meno mosso, Allegro Vivace, Molto
meno ed espressivo, Molto teneramente e lento, Severamente e calmato, Andante molto.
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Francesc Cortès i Mir
so”–. Granados ometé els primers versos on Francesca s’adreçava al poeta. Falta
el diàleg amb Dante i Virgilio (vv.108-120): és l’orquestra sola que en continua
fent la descripció, i reexposa els motius escoltats al primer moviment com si
fos la veu de Dante. Francesca reprèn des del vers 120, i fineix al vers 138. L’entrada de Francesca es troba a la pàgina 51 de l’edició de la partitura de 1915. El
moviment comença a la p. 29. Què s’esdevé en les vint-i-dos pàgines anteriors?
Des de la música es segueix el camí de Dante pel segon cercle infernal fins a la
trobada amb els dos amants, entre els crits de dolor, o les imatges de luxúria.
La melodia de Francesca –un “recitatiu”, indica la partitura– és de línies sinuoses. Acaba suspès en un acord dissonant, on Francesca fineix el relat: “quel
giorno più non vi leggemmo avante”. L’orquestra tanca el moviment amb un
creixent paroxístic. El fortíssim sonor expressaria els versos: “sìche di pietade/
io venni men così com’io morisse”. I s’esvaeix en un acord greu sobre el to de re:
“E caddi come corpo morto cade”.
IV. “Neun sentiero era segnato”: modificacions posteriors
No hi ha dubte sobre la vàlua de Dante, tot i haver patit unes circumstàncies
adverses. El contrast dels materials d’orquestra emprats amb relació a l’edició
del 1915 s’ha revelat sorprenent. Les particel·les manuscrites, de mà de copista,
es conserven a la Biblioteca de Catalunya. Diverses d’elles recullen noms dels
músics d’orquestres barcelonines que participaren a la interpretació: Margalef, Bordas, Casanovas, Miró, Cubells, Palau, Solís, Vilaclara o Planàs –amic
íntim de Toldrà–. Les diferents anotacions i esmenes confirmen que foren
emprades més d’un cop. Hi han diferències substancials envers la versió del
1915. Les arpes tocaven poquíssims compassos. Els fagots es reduïren a tres,
sense contrafagot. Els instruments de vent foren revisats profundament: les
particel·les afegeixen l’observació a tinta: “revisado”, amb nombrosos talls. Les
tubes wagnerianes només tocaven quatre escadusseres notes.
Fins el 2015, a banda de les poques reposicions, només s’havia publicat un
enregistrament fonogràfic de la Louisville Orchestra, fet el 19 de maig de 1971.
Dirigí Jorge Mester, amb la soprano Mary Lee Maull. El segon moviment
té escurçaments importants: s’omet des de la p. 29 a la 37, per aconseguir
encabir-lo en una sola cara de disc de 33 rpm.
V. Una cançó inèdita de Granados
L’impuls poètic de Dante no s’acabà amb el poema simfònic. Granados va
compondre un lied que ha romàs fins fa poc desconegut.7 Es tracta del Soneto
7. La partitura no s’havia localitzat abans de les monografies més recents. Per a la catalogació
seguim Clark (2006:187-195), Riva (1999:867-868) i Perandones (2013).
Partitures de Granados amb una nova vida
Dante e l’arte 2, 2015 195
XV de Dante (Vita Nuova) (Bib. Cat. M 6994/10). El text, en italià, procedeix
del capítol XXVI de Vita Nuova. El manuscrit estudiat –de mà de copista–
abasta 5 pàgines, amb extensió de 40 compassos. La partitura és per a baríton,
amb acompanyament de piano. Està dedicada a Eusebio Bertrand, “amigo de
corazón”. L’empresari Bertrand i Serra (1877-1945) fou president de la Societat
del G. T. del Liceu, fundador de la Lliga Regionalista i soci de l’Orfeó Català.
Tenia bona veu de baríton, i mantingué bona amistat amb Granados.8
L’obra està escrita en tonalitat de Sol M –sense armadura–, i tempo Lento
amoroso. El text segueix curosament l’estructura del sonet. La partitura consultada presenta algunes petites vacil·lacions: possibles mancances d’accidentals i dos temps de la mà dreta del piano en blanc. L’àmbit de la veu abasta del
si1 a fa#3, predomina la regió si2 a re3. L’acompanyament pianístic no mostra
dificultats tècniques. Tot i el vincle clar, no hi ha proves documentals que
permetin suposar que el lied es derivés del poema simfònic. Tot al contrari: el
lied té una estructura clara, tripartita, del tipus A-B-A’.9 El tema principal és
introduït pel piano. La veu oscil·la, passant d’interpretar la melodia principal
a convertir-se en baix harmònic, o discorre com una part harmònica interna.
Com a molt, es pot apuntar una semblança de l’inici del tema principal a la
veu del lied, amb l’inici del recitat vocal al poema simfònic.
Soneto XV. Vita Nuova, inici de la veu.
“Paolo e Francesca”.
El Soneto XV de Dante està molt ben concebut. S’allunya, i molt, dels estils
usuals al repertori líric de Granados i ens remet a la imatge sonora que havia
concebut per a la poesia de Dante. La tensió harmònica està plena de cromatismes, appoggiature i notes de pas, amb alguns acords alterats. A primera vista
hom té la temptació de relacionar-lo amb el wagnerisme: res més lluny de la realitat. No hi ha cap acord de “Tristan”, Granados rarament altera la quinta dels
acords. L’únic moment que podria relacionar-s’hi és a la reexposició: un acord
de dominant resolt sobre el grau VI >, com al Preludi de Tristan und Isolde.
La melodia recorda el recitatiu del poema simfònic Dante: salts de setenes,
quartes augmentades, però de conducció vocal agraïda i previsible. Granados
8. Es conserva al Museu de la Música de Barcelona una fotografia d’ambdós, presa a una finca
propietat d’Eusebi Bertran.
9. Clark i Perandones apunten la cura formal de Granados, contradient estudis anteriors
(Perandones, 2011:175-176).
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tingué cura en la intertextualitat: el vers central del sonet –“e par che sia una
cosa venuta/da cielo in terra...”– resol en la nota més alta de la veu (fa#3); és el
moment de més tensió harmònica –sobre la dominant de Si M–. Els següents
versos relaxen l’harmonia: ressolen a la dominant de Sol M per conduir la
reexposició (A’) iniciada tot coincidint amb la darrera estrofa del sonet: “e par
che de la sua labbia si mova”.
La tria d’aquest text per part de Granados no sembla casual: marca la segona part de Vita Nova, lligada a la mort de Beatrice, un moment per a Granados decisiu, i que havia citat a les entrevistes del 1908. El veïnatge estètic entre
el lied i el poema simfònic Dante e Virgilio és evident. Aquest parentiu ressalta
més quan es compara amb una altra composició, escrita possiblement pels
mateixos anys, basada en un altre sonet de Vita Nuova, i escrita per Pedrell,
mestre de Granados (Dante. Soneto I. Vita Nuova, obra per a arpa i veu, amb
una aparença del tot arcaitzant).
VI. El morbo wagnerià
El llenguatge de Granados no seguia els estereotips folkloritzants presents en
alguns compositors del seu temps (Hess 1984:52). La recepció del públic, en
canvi, l’associà a aquell llenguatge. La voluntat de Granados per identificar
timbre sonor amb poesia i color pictòric no és senzilla de copsar. Cal una lectura atenta del text i o posseir un coneixement prou referencial dels símbols i
de la resta de missatges que contenen les imatges plàstiques. Granados, segurament, componia pensant-hi. Normalment iniciava les seves composicions amb
un esborrany al piano. Deixà sense acabar uns apunts sobre una simfonia, iniciats sobre un guió per a piano a dues mans a llapis, força complert. Després
el passava a tinta. Sobre aquest guió incolïa anotacions de la instrumentació,
com veiem en aquest passatge:
“de aquí a un canto apacible en sol mayor con el oboe” (Granados, E., Sinfonia, esborranys. BC,
GRA-136, fol. 11 .
Partitures de Granados amb una nova vida
Dante e l’arte 2, 2015 197
La intertextualitat que acabem de veure, o l’écfrasi de Granados, no encaixa
amb el lloc comú atiat sobre Dante, repetit enfadosament: el wagnerisme. En
les dues obres que comentades no hi ha acords recurrents wagnerians, ni la
tècnica del motiu-guia. L’escriptura de la veu no mostra cap semblança, tampoc la instrumentació. To al contrari, Dante recordaria més a Mahler, fins i
tot a Liszt. És possible que Granados tingués el Dante de Liszt, o el llegís: el
projecte en quatre parts, amb un cor final, ho insinua. També podria haver
conegut el que Pedrell va escriure sobre Mahler el 1907 als articles “Quincenas
Musicales”, publicats a La Vanguardia. En tot cas, és evident que Granados
gestà la seva lectura personal i sonora de Dante a través d’imatges de Rossetti.
Sobre aquest món plàstic i poètic creà una nova faceta de la seva música que
no podé desenvolupar, mentre una altra manifestació, en forma de cançó, ha
estat oblidada fins ara.
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Articoli
Dante e l’arte 2, 2015 201-226
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri
di Dante Gabriel Rossetti
Veronica Pesce
Università di Genova
[email protected]
Riassunto
Il contributo intende proporre un primo percorso attraverso la rilettura della Vita Nuova
in ambito preraffaellita, esaminando la raffinata edizione della Vita Nuova illustrata dai
quadri di Dante Gabriel Rossetti pubblicata per Roux e Viarengo all’inizio del ’900. L’edizione, postuma, non nasce da un preciso progetto illustrativo autoriale, pur accarezzato dal
poeta-pittore fin da giovanissimo, ma mette insieme a posteriori le riproduzioni di alcune
opere rossettiane a illustrazione del libello dantesco, non senza arbitrarietà. Emerge tuttavia un costante impegno dell’artista su questi soggetti che, accanto al lavoro di traduzione
sulla stessa Vita Nuova e sui “poeti primitivi italiani”, e insieme con la sua produzione
poetica e letteraria (almeno The Blessed Damozel e Hand and Soul), dimostra una profonda
riappropriazione del testo, caratterizzata al contempo da una certa fedeltà letterale non in
contraddizione con una rivisitazione profonda in tutt’altro contesto storico-artistico.
Parole chiave: Dante Alighieri, Vita Nuova, Dante Gabriel Rossetti, Preraffaelliti, Beatrice.
Abstract
The aim of the paper is to propose a first path through the rereading of the Vita Nuova
within the Pre-Raphaelite culture, examining the refined edition of the Vita Nuova illustrata
dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, published by Roux and Viarengo in early ’900. This
posthumous edition is not the result of a specific illustrative authorial project, although
the poet-painter had aimed for this since his early age; it is rather an a posteriori and partly
arbitrary collection, which puts together the reproductions of some Rossetti’s illustrations
from Dante’s pamphlet. The artist never stopped working on these subjects, translating
at the same time Dante’s Vita Nuova and other Early Italian Poets, while working on his
own poetic and literary production (The Blessed Damozel and Hand and Soul, at least):
this demonstrates a deep repossession of the text, which is characterized by a certain literal
accuracy, but also by a deep revision, according to a completely different historical and
artistic context.
Keywords: Dante Alighieri, Vita Nuova (The New Life), Dante Gabriel Rossetti, PreRaphaelites, Beatrice.
issn 2385-5355
202 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
I
And did’st thou know indeed, when at the font
Together with thy name thou gav’st me his,
That also on thy son must Beatrice
Decline her eyes according to her wont […].
D. G. Rossetti,
Dantis Tenebrae. In Memory of my Father1
N
el novembre del 1848, annunciando in una lettera a Charles Lyell di aver
completato la traduzione della Vita Nuova, Dante Gabriel Rossetti
rende conto con puntualità del suo progetto illustrativo:
[…] intending it to accompany a series of original designs which I have
commenced in illustration of that work. […] Of the designs I have completed, as yet, only three: 1st Dante overhearing the conversation of the
friends of Beatrice after the death of her father: 2nd Dante interrupted
while drawing an angel in memory of Beatrice: & 3rd an emblematical
frontispiece. In this last, I have introduced on one side the figure of Dante
and on the other that of Beatrice: while in the centre, Love is represented,
holding in one hand a sun-dial, and in the other a lamp; the shadow cast
by the lamp upon the dial being made to fall upon the figure nine. At the
same time, Death, standing behind, is drawing from the quiver of Love an
arrow wherewith to strike Beatrice. Ever since I have read the “Vita Nuova”,
I have always borne it in mind as a work offering admirable opportunities
for pictorical illustration: a task which I am now resolved to attempt. The
other subjects which I propose treating are as follows: 1st The first meeting
of Dante and Beatrice (already commenced): 2nd The second meeting: 3rd
The salutation denied: 4th Dante treated with scorn by Beatrice at the
Wedding-feast: 5th Dante questioned by the ladies: 6th Dante’s dream: 7th
Dante requested to write by the kinsman of Beatrice: 8th Dante perceives
a lady who is observing his grief from a window: 9th Dante’s vision of the
childhood of Beatrice: 10th Dante and the pilgrims (Fredeman 2002-2010:
76).
La preziosa lettera dimostra un preciso progetto che discende dal profondo
valore della Vita Nuova per Dante Gabriel;2 il libello è letto e fors’anche tradotto pensando già alla sua restituzione pittorica e pare valere quale vera e
propria summa dell’arte di Dante Gabriel: “a means of interpreting his own
life and […] a way in to an interior world of ideal love, that became one of the
1. Battezzato Gabriel Charles Dante Rossetti, cambierà in seguito l’ordine dei nomi, così come
oggi li conosciamo: Dante Gabriel Rossetti. Il testo citato è pubblicato per la prima volta
nell’edizione dei Poems (Londra, Ellis, 1870).
2. Camilletti fa osservare quanto sia sintomatica di una profonda riappropriazione la dedica
(“Whatever is mine in this book is inscribed to my wife”) apposta alla traduzione di The
Early Italian Poets (vedi infra): “‘Tutto ciò che è mio’: la donna è concretizzazione di sogni,
anima, l’opera stessa dell’artista/amante” (Camilletti 2005: 92).
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 203
well-springs of his art” (Becker 2004: 18); si tratta evidentemente di una Vita
Nuova già passata attraverso la temperie romantica e ora rimodellata dall’estetismo3 e dal simbolismo incipienti, senza considerare il filtro dell’interpretazione occultista e iniziatica di Gabriele Rossetti padre.4
La traduzione sarà compresa, solo tredici anni più tardi e priva di corredo
illustrativo, nel volume The Early Italian Poets (vedi infra), ma i soggetti avranno comunque la loro realizzazione figurativa, anche se non tutte le opere enumerate nella lettera ci sono pervenute o sono state effettivamente compiute.
Riprenderemo nello specifico i singoli casi, basti per ora precisare che, dei tre
disegni dichiarati “completed”, è chiaramente identificabile solo il secondo, il
terzo costituisce un’idea embrionale di Dantis Amor di cui resta forse traccia
in un disegno preparatorio a The salutation of Beatrice (Surtees 1971: 116B, pl.
175), mentre del primo non si ha ad oggi notizia. Dei rimanenti dieci disegni
progettati, sono noti soltanto: The second meeting, Dante at the Wedding-feast
(dove trova forse parziale rappresentazione pure la negazione del saluto, vedi
infra) e The lady of the window. Ma nel tempo altri soggetti si sono aggiunti a
questi e hanno trovato celebri realizzazioni, come vedremo in dettaglio.
Segno della diffusione e della fortuna di queste opere di Dante Gabriel,
e quindi in un certo senso della Vita Nuova rivisitata in chiave preraffaellita,
è la raffinata edizione della Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel
Rossetti pubblicata per i tipi Roux e Viarengo nel 1902 (e poi ristampata per
tre volte, rispettivamente nel 1911, 1918 e 1921, arricchita da ulteriori decorazioni grafiche e dalla prefazione di Antonio Agresti, dopo la fondazione della
Società Tipografico-Editrice Nazionale, S.T.E.N., ad opera dello stesso Luigi
Roux).5 Proprio da questa edizione il presente scritto intende partire, quale
3. Rinvio per questo aspetto a Hinterhäuser 1994 e Pisanti 1984.
4. Gabriele Rossetti (Vasto, 1783-Londra, 1854), esule a Londra per il suo appoggio ai moti degli
anni ’20, poi professore d’italiano al King’s College, dedicò la sua vita all’interpretazione
di Dante e della figura di Beatrice. Fra i suoi studi danteschi, tutti in lingua italiana: Sullo
spirito antipapale che produsse la Riforma, e sulla segreta influenza ch’esercitò nella letteratura
d’Europa, e specialmente d’Italia: come risulta da molti suoi classici, massime da Dante, Petrarca,
Boccaccio (Londra, Taylor, 1832), Il mistero dell’amor platonico del Medio Evo, derivato da’
misteri antichi (Londra, Taylor, 1840), La Beatrice di Dante (Londra, Privitera, 1842). Lavorò
pure a un Comento analitico alla Divina Commedia, previsto in sei volumi, di cui saranno
pubblicati vivente l’autore solo i primi due dedicati all’Inferno, postumo quello dedicato al
Purgatorio e mai realizzato quello dedicato al Paradiso. La sua lettura di Dante è generalmente ritenuta allegorica se non addirittura esoterica, sempre in stretta connessione con gli
avvenimenti storico-politici del periodo (Miralles 1989: 47). Altri interpreti la accostano alla
trattatistica cinquecentesca, dal Fiorenzuola al Gelli, soprattutto per gli elementi strutturali
e tematici, l’amor platonico su tutti (cfr. Circeo 1984: 191-192).
5. Ricorderemo l’apparizione per i tipi Roux e poi Sten nello stesso torno d’anni di un’edizione
delle rime di Dante, avente il titolo di Canzoniere e comprendente le poesie della Vita Nuova
e altri testi poetici danteschi. Le tavole di questo Canzoniere spesso ripetono, mostrandone
particolari diversi e studi preparatori, illustrazioni già presenti nella Vita Nuova, con due
notevoli eccezioni: Giotto dipinge il ritratto di Dante e La barca dell’Amore. Segnaliamo
inoltre l’esistenza di un’altra edizione analoga in lingua inglese che propone alcune identiche
204 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
prima tappa di un lavoro più ampio e già avviato. L’edizione Roux non ricostruisce il progetto illustrativo (ideato già nel 1848) del pittore preraffaellita,
ma è allestita postuma sulla base della produzione pittorica rossettiana legata
alla Vita Nuova e non senza notevoli arbitrarietà, di cui discuteremo. L’esame
di questo testo e soprattutto del suo corredo illustrativo potrà tuttavia consentire di ripercorrere alcuni momenti fondamentali del libello dantesco attraverso l’opera di Dante Gabriel. Peraltro che le opere del pittore legate al libello
non siano nate da una commissione editoriale né con l’esplicito obiettivo di
illustrare interamente il prosimetro, se non nell’idea iniziale poi non realizzata
o almeno non realizzata nei termini indicati, accresce forse i già molteplici
motivi di interesse, dimostrando la pervasività dell’opera di Dante Alighieri,
e della Vita Nuova in modo particolare,6 nella produzione di Dante Gabriel.
È intorno ai vent’anni che l’autore vive un momento di vera e propria infatuazione per la poesia italiana, lo stilnovo specialmente. La lettura e le prime
traduzioni da Dante e dai “poeti primitivi”7 va datata alla seconda metà degli
anni ’40, anche se la pubblicazione in volume vedrà la luce solo più tardi: nel
1861 con The Early Italian Poets from Ciullo d’Alcamo to Dante Alighieri e poi
nel 1871 con Dante and his circle: with the Italian poets preceding him, entrambi
comprendenti la traduzione della Vita Nuova (The New Life). Alla fine degli
anni ’40, proprio come precisato nella lettera, datano anche le prime realizzazioni grafiche a penna e inchiostro (si dovrà attendere ancora qualche anno
illustrazioni: Dante Alighieri, La Vita Nuova (The New Life), translated and illustrated by
photogravures after paintings by Dante Gabriel Rossetti, London, George Routledge &
Sons, s.d. Le illustrazioni qui comprese sono: The Boat of Love, From Dante’s Dream, Salutatio Beatricis, Dante’s Dream, Beata Beatrix, From Dante’s Dream. A queste si aggiungono
due illustrazioni per il quinto canto dell’Inferno incluso nel volume: Paolo and Francesca e
Francesca da Rimini. Una nota nell’indice precisa che “These photogravures are produced by
the special permission of Mr. Frederick Hollyer, from the photographs made by him from
the original paintings of the artist”. Una più recente edizione italiana (Gizzi 1985) affianca
la traduzione di Rossetti ad un più ampio corredo illustrativo che riproduce (quasi) tutte le
opere figurative dedicate dal poeta-pittore alla Vita Nuova.
6. Non mancano opere dedicate alla Commedia, quali Pia de’ Tolomei, Beatrice nell’Eden, Lia e
Rachele, o le già ricordate illustrazioni ispirate alle figure di Paolo e Francesca (per la fortuna, anche figurativa, del quinto canto dell’Inferno si veda Renzi 2007), ma i soggetti tratti
dalla Vita Nuova sono, pure quantitativamente, molto più significativi, pur tenendo conto
che l’intera opera dantesca (Vita Nuova, Rime e Commedia) trova spesso sovrapposizioni e
intersezioni. Segnaliamo che questo lavoro si è valso del preziosissimo archivio multimediale
liberamente fruibile in rete http://www.rossettiarchive.org/ (data d’accesso: novembre 2015)
che mette a disposizione testi, critica, opere figurative, cataloghi e molto altro materiale
relativo a Dante Gabriel Rossetti.
7. Si conserva ancora nella sua biblioteca con le sue annotazioni il volume Poeti del primo
secolo della lingua italiana, a cura di Lodovico Valeriani e Urbano Lampredi, Firenze, 1816.
Si tratta senza dubbio della fonte principale per le sue traduzioni poi incluse in The Early
Italian Poets. Per la Vita Nuova l’edizione cui Dante Gabriel fa riferimento è La Vita Nuova
di Dante Alighieri, a cura di Pietro Jacopo Fraticelli [III vol. delle Opere minori di Dante
Alighieri], Firenze, 1839, anch’essa presente nella sua biblioteca. Per le traduzioni di Dante
Gabriel si vedano la sua stessa prefazione a The Early Italian Poets e Ceccarelli 2011.
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 205
per i primi acquerelli) su temi e soggetti del libello. Dante Gabriel non manca
di dedicarsi nei medesimi anni all’attività poetica in proprio, indubbiamente
condizionato dalla poesia “primitiva” che legge, traduce e di cui ripropone
con “apparente fedeltà” alcuni particolari, ma che, di fatto, nel complesso
reinterpreta profondamente (Benedetti 1998: 7). Tale rielaborazione prenderà
pure la forma di un racconto una decina d’anni più tardi, con Hand and Soul,
pubblicato nel 1850 sulla rivista della confraternita “The Germ”.8 Vi si narra
di un immaginario pittore aretino vissuto nel ’200, Chiaro dell’Erma, il quale
fa un percorso assai simile a quello dantesco nella Vita Nuova. Fra le molte
analogie (vedi infra) è profonda ed evidente la rivisitazione: “the blessed lady”
pare identificarsi con l’arte stessa e Chiaro ad un tratto capisce che “he had
mistaken for faith […] no more than the worship of beauty” (pp. 8-9). Infine
ha una vera e propria visione ad occhi aperti, in cui scorge una donna “clad to
the hands and feet with a green and grey raiment”. La donna gli si rivolge così:
“I am an image, Chiaro, of thine own soul within thee” (p. 17):
See me, and know me as I am. […] Chiaro, servant of God, take now thine
Art unto thee, and paint me thus, as I am, to know me: weak, as I am, and
in the weeds of this time; only with eyes which seek out labour, and with
a faith, not learned, yet jealous of prayer. Do this; so shall thy soul stand
before thee always, and perplex thee no more.
Nell’estate del 1847 il protagonista dello scritto (colui che dapprima ci ha
narrato la vicenda di Chiaro dell’Erma, presentandoci il tutto come veridico,
citando niente meno che famosi quadri conservati a Dresda e a Monaco e immaginari studi critici) trovandosi nelle sale di Palazzo Pitti a Firenze riferisce
di aver scorto un quadro: “a small one, and represents merely the figure of a
woman, clad to the hands and feet with a green and grey raiment, chaste and
early in its fashion, but exceedingly simple. She is standing: her hands are held
together lightly, and her eyes set earnestly open. […] On examining it closely,
I perceived in one corner of the canvass the words Manus Animam pinxit, and
the date 1239.”
Anche senza rimarcare tutte le puntuali tangenze (dall’incontro con una
donna mistica a nove anni, alla visione di Chiaro, alla febbre, dal senso di
vergogna dinnanzi alla donna, alla svolta morale ecc.), la Vita Nuova è evidentemente il sottotesto9 di questo scritto, quasi manifesto di poetica tanto più
8. È la rivista letteraria dei Preraffaelliti, che ebbe breve vita (da gennaio ad aprile dello stesso
1850, e mutò nome negli ultimi numeri: Art and Poetry). Cfr. la ristampa anastatica della
rivista: The Germ. The Literary Magazine of the Pre-Raphaelites, Preface by Andrea Rose,
Oxford, Ashmolean Museum, 1992.
9. Sono state suggerite anche altre influenze: dal Sordello di Browning all’Ulalume di Poe, da
Keats a Blake. Cfr. Camilletti 2003. Non andrà dimenticata neppure “l’idea di una visione
di Beatrice come anima” già sostenuta da Gabriele Rossetti padre: “l’anima di Dante salita
al cielo, e perciò fatta esterna sostanza separata, è quella che si chiama Beatrice”. Gabriele
206 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
nell’intreccio fra scrittura e arte figurativa. Certo, mutatis mutandis: la donna
(quasi mistica) non sarà accolta da Dio nel regno dei cieli, non sarà più simbolo della Teologia, ma piuttosto dell’Arte o direttamente espressione dell’Anima
dell’artista, al contempo fonte, mezzo e fine dell’arte medesima, concezione
evidentemente romantica forse già volta all’Art for art’s sake. Dante quindi
è radicalmente reinterpretato:10 “Per Rossetti Amore è fascinosità intrinseca,
non via. […] è esso stesso la persona amata, che è essa stessa, poi, in qualche
modo il Dio, non soltanto via a Dio. Certo Amore alligna in cuore gentile,
e s’accende alla vista dell’amata; è l’Universale passare dalla potenza all’atto
[…]. Ma per Rossetti l’atto ingloba immediatamente e alquanto nebulosamente tutti i sensi, la corporeità non è il ‘velo’ dell’anima, è parte integrante
della soul, dell’anima; per cui v’è estasi dei sensi che è un’estasi dell’anima e
viceversa” (Pisanti 1984: 243). Ecco che l’esperienza dantesca narrata nella Vita
Nuova o da altro poeta delle origini viene riletta e attualizzata in “esperienza
interiore”;11 “l’arte – la vera arte – è nella rappresentazione di sé, nell’esperienza interiore che si fa simulacro – e il simulacro ha forma di donna” (Camilletti
2005: 80).
Misureremo nel prosieguo dell’analisi, accanto ad una certa (almeno apparente) fedeltà alla lettera del testo una profonda rivisitazione in chiave neoplatonica, se non addirittura esoterica, che arriva appunto ad identificare
l’immagine femminile con la sua anima. Non si dimenticherà che Dante Gabriel fu personalità fondamentale nello sviluppo del simbolismo, sia letterario
sia artistico, pienamente poeta e pittore, quasi diviso fra le due pulsioni creatrici: l’inestricabile intreccio di arte e letteratura è certamente sua precipua
caratteristica e come tale ineludibile nel corso della nostra analisi, tanto più
che la stessa Vita Nuova è fin da principio “a double project, involving both
a verbal form (the traslation) and a visual one (the series of pictures of Vita
Nuova subjects)” (Becker 2004: 87). L’edizione Roux raccoglie molti dei sogRossetti, La Beatrice di Dante, citato in Camilletti 2003: 86.
10. Ricorderemo i versi (che Dante Gabriel attribuiva a Bonagiunta) che si leggono in exergo a
Hand and Soul: “Rivolsimi in quel lato / Là ’nde venia la voce / E parvemi una luce / Che
lucea quanto stella; / La mente mia era quella”. Sono versi tratti dalla canzone adespota La
mia amorosa mente, che tuttavia Dante Gabriel legge nel già ricordato volume del Valeriani,
dove è attribuita a Bonagiunta Orbiccianti.
11. Cfr. Camilletti 2003: 80-81. L’autore ben dimostra la sostanziale interscambiabilità fra i
concetti di “mente” e “anima”, correlati a livello epigrafico fra il titolo e il frammento poetico e pienamente sovrapposti nella traduzione poi offerta de La mia amorosa mente in The
Early Italian Poets, dove “la mente mia” diventerà “mine own soul”. Camilletti riconosce in
Bonaventura da Bagnoregio l’origine di questa interscambiabilità fra mente e anima, sulla
cui base Singleton ha sostenuto “l’ispirazione bonaventuriana della Vita Nuova di Dante”.
Si ricorderà inoltre che già Gabriele Rossetti padre, nella sua lettura in chiave politica (ghibellina e antipapale), “rilevava che Beatrice è ora la Potestà Imperiale, ora l’anima di Dante
avente l’impressione di quella potestà” (Miralles 1989: 53). Cfr. inoltre Caputo 1993 e Carù
2013.
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 207
getti (non tutti) dedicati alla Vita Nuova. Potrà forse stupire la capacità di
cogliere sia i momenti più noti ed emblematici (il primo saluto di Beatrice o
la negazione dello stesso, i sogni/visioni di Dante, l’apparizione della Donna
gentile) sia momenti più marginali (Monna Vanna) sempre (o quasi) con costante attenzione alla lettera del testo, sia pure inevitabilmente trasfigurato in
tutt’altro contesto ideologico e storico-artistico.
II
Apre il volume, precedendo il testo vero e proprio, una tavola priva di
didascalia,12 raffigurante un mezzo busto di Dante (Fig. 1), di profilo e a capo
chino, riproduzione di uno Studio per “Il sogno di Dante”, su cui torneremo,
datato 1871. Il volto di Dante, come sempre nella produzione artistica di Rossetti, è derivato dal ritratto di scuola giottesca scoperto da poco tempo al
Bargello.13 Entra nel vivo del libello la seconda tavola raffigurante Il saluto di
Beatrice (Fig. 2),14 collocata a seguire il capitolo 1[III] dell’opera.15 I particolari,
pure cromatici, e la scena tutta trovano fedele trascrizione nel disegno che è di
fatto qui riprodotto solo per metà; la versione intera consta infatti di due parti
(l’una illustra il saluto di Beatrice nella Vita Nuova, l’altra l’arrivo di Beatrice
nel paradiso terrestre narrato nella Commedia, quindi il Saluto di Beatrice in
cielo e in terra, come appunto recita il titolo del dipinto, cfr. Surtees 1971: 116,
pl. 172).16 Si trattava di pannelli decorativi – oggi alla National Gallery of Canada di Ottawa (1859, Fig. 2bis) – di un mobile della Red House di William
Morris a Berkley Heath:17 “Dopo l’abbandono della casa da parte dei Morris
12. Con poche eccezioni, ogni tavola ha un titolo e una breve didascalia, di cui daremo di
volta in volta conto con l’avvertenza che sia la collocazione delle illustrazioni, sia le relative
didascalie, sono frutto di scelte arbitrarie non sempre adeguate.
13. Lo stesso Agresti nella prefazione all’edizione Sten narra l’aneddoto: nel 1840 il Barone
Seymour Kirkup scoprì sotto l’intonaco della Cappella del Podestà del palazzo del Bargello
a Firenze un frammento di affresco, che allora si attribuiva a Giotto, con il ritratto di Dante;
ne fece copia e la mandò all’amico Gabriele Rossetti, esule a Londra. Non solo il ritratto
rimase alla base dell’iconografia dantesca di Dante Gabriel, della Preraphaelite Brotherhood
e del mondo anglosassone del tempo, ma fornì al pittore l’eccezionale soggetto dantesco
già ricordato: Giotto dipinge il ritratto di Dante.
14. La didascalia recita: “E passando per via… per la sua ineffabile cortesia… mi salutò virtuosamente tanto”. Nell’edizione Sten (1921) mutano sia il titolo (Salutatio Beatricis in terra) sia
la didascalia: “Questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo
di due gentil donne… e per la sua ineffabile cortesia… mi salutò virtuosamente tanto” (in
entrambe le edizioni le tavole non hanno numerazione).
15. Daremo d’ora in avanti la doppia numerazione (secondo l’edizione di Gorni e di Barbi,
rispettivamente) per ogni citazione della Vita Nuova. Per il testo ci atterremo invece alla
lezione di Guglielmo Gorni (Gorni 1996). Segnaliamo infine che l’edizione Roux qui esaminata segue il testo di Alessandro D’Ancona (Pisa, Nistri, 1872).
16. L’edizione Roux del Canzoniere riproduce il dipinto nella sua totalità: Salutatio Beatricis in
terra et in Eden.
17. Per la verità i pannelli dovevano essere tre (incompiuto quello centrale, Dantis Amor, oggi
208 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
nel 1865, l’opera venne rimossa e i pannelli saldati da uno spazio verticale con
dipinto Amore nella mandorla,18 la meridiana che segna l’ora della morte di
Beatrice, decorata con i simboli del sole e della luna e la fiaccola abbassata in
segno di lutto” (Benedetti 1998: 220). Nella cornice che inquadra e divide fra
loro i due pannelli appaiono infatti diverse iscrizioni, fra cui le già ricordate
parole della Vita Nuova (“Questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo di due gentil donne di più lunga etade”). Si legge
inoltre sotto il pannello sinistro: “Negli occhi porta la mia donna Amore” e
“Sovra candido vel cinta d’uliva, / Donna m’apparve sotto verde manto, /
vestita di color di fiamma viva” (Pg. XXX 31-33), e sotto il pannello destro,
ancora: “Guardami ben: ben son, ben son Beatrice” (Pg. XXX 73). Al centro
appare la mandorla che racchiude la figura di Amore con in mano la meridiana (“L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di
quello giorno”) e la data “9 jun: 1290”, e sotto si legge: “Quomodo sedet sola
civitas”, citazione dalle Lamentazioni di Geremia con cui, come noto, si apre il
cap. 21[XXX] (vedi infra). La morte di Beatrice segna il momento di passaggio
tra la terra e il cielo, i due momenti del dipinto, appunto. Ma l’ora nona è
anche quella del saluto di Beatrice, come sarà pure l’ora del sogno premonitore della morte di lei. Se l’aspetto “numerologico” (non senza suggestive ipotesi
di corrispondenze metriche, cfr. Gorni 1996: xxiv-xxv) è fra quelli più rilevanti
per Rossetti padre, come per tutta la critica anglosassone, Dante Gabriel non
fa eccezione, come si evince dall’iterazione quasi ossessiva della meridiana e
della data nei dipinti o nella cornice. La prima scena riproduce abbastanza
fedelmente la situazione delineata nella Vita Nuova: Beatrice appare “in mezzo
a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade”.19 Non è casuale che
Dante e Beatrice, nel primo disegno posizionati sullo stesso livello, siano poi
rappresentati nel loro incontro su una scala: le tre donne e quindi Beatrice
scendono, sale invece Dante. L’idea della scala introduce un certo dinamismo
(si osservi tra l’altro che nessuno dei tre personaggi è perfettamente al livello
di un altro) ed è una felice rappresentazione dell’ascesa del poeta, attraverso l’azione beatificante del saluto di lei. Il profilo della città che appare alle
loro spalle andrà convenzionalmente identificato con Firenze (il corrimano
della ringhiera su cui Dante poggia la mano sinistra mostra evidentemente
alla Tate Gallery, vedi infra). Il soggetto è molto ricorrente nella produzione di Dante
Gabriel, dai primi disegni datati alla fine degli anni ’40, fino ad anni più tardi (’70-’80)
dove muta decisamente l’iconografia: Beatrice a figura quasi intera con la città sullo sfondo,
dietro di lei in lontananza si intravedono Dante e Amore; quest’ultimo seduto su un pozzo,
abbraccia Dante con le sue ali (cfr. Fig. 6bis).
18. Amore nella mandorla che congiunge i due dipinti è probabilmente derivato dal disegno
dato per finito nella lettera già ricordata (Fredeman 2002-2010: 76).
19. Sempre Maria Teresa Benedetti informa che “le tre figure femminili corrispondono a Red
Lyon Mary (la padrona di casa dello studio Red Lyon Square), Jane Morris e Fanny Cornforth” (Benedetti 1998: 220).
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 209
due gigli).20 Dante è vestito di rosso (il colore dell’amore) mentre Beatrice ha
una veste non propriamente candida, si intravedono disegni con colori tenui
su fondo bianco: dunque non è esattamente “vestita di colore bianchissimo”
(“pure white” nella traduzione di Rossetti).21 Il dato cromatico è invece pienamente rispettato nel secondo pannello che illustra l’incontro di Dante e
Beatrice nel paradiso terreste (Pg. XXX). Non dovrà stupire l’apparente contraddizione fra minuto realismo e forte simbolismo. La componente realista,
in particolare, è stata ben messa a fuoco nella recente mostra tenutasi a Torino:
“il gruppo creò un linguaggio realista assolutamente originale, preciso, vivido
e senza mezzi termini” che, guardando oltre l’apparente contraddizione, trae
origine dalla fotografia (Barringer 2014: 16).
Altro momento cruciale che si reitera nell’opera pittorica di Rossetti è la
negazione del saluto: Beatrice nega il saluto a Dante (Fig. 3). Arbitraria la collocazione della tavola a seguire il sonetto Cavalcando l’altr’ier per un cammino
(cap. 4[IX]), riferendosi il testo a un episodio relativo allo “schermo” che di
fatto è precedente la negazione del saluto (cap. 5[X]), anzi ne costituisce proprio l’antefatto poiché Dante “simulò un amore così appassionato” (questa
l’interpretazione di Gorni per “la feci mia difesa tanto”) che “troppa gente ne
ragionava oltre li termini della cortesia”. Non del tutto corrispondente all’iconografia dell’opera neppure la didascalia (“…quella gentilissima… passando
per alcuna parte mi negò il suo dolcissimo salutare”): l’immagine infatti non
illustra il capitolo 5[X], peraltro avaro di particolari figurativi (sappiamo solo
che Beatrice “passando per alcuna parte mi negò il suo dolcissimo salutare”)
e comunque non restituiti da Rossetti neppure nella loro genericità, dato che
la scena è ambientata in un luogo molto più caratterizzato di quanto il passo
citato suggerisca. Tutto porta quindi a ritenere che l’illustrazione, nonostante
il titolo,22 faccia riferimento all’episodio del gabbo, ossia al cap. 7[XIV]. Qui
Dante è condotto da una persona amica “in parte ove molte donne gentili
20. Sarà opportuno ricordare che Dante Gabriel non visitò mai l’Italia, ma è documentata la
sua conoscenza di Firenze, e non solo, attraverso stampe e fotografie. Senza contare l’influsso dell’Arundel Society, che promosse la diffusione di riproduzioni (cromolitografie, a
colori quindi) dell’arte italiana cosiddetta “primitiva”, non vanno dimenticate altre fonti
di conoscenza dei luoghi e dell’arte italiana. Prima di fondare la confraternita, già vicino a
William Hunt ed Everett Millais, frequentò con loro The Cyclographic Society, un piccolo
club di disegnatori, dove probabilmente conobbe le incisioni ottocentesche degli affreschi
del camposanto di Pisa ad opera di Paolo Carlo Lasinio (1812). Cfr. gli interventi di Bonetti
2011: 176-183 e Marini 2011: 184-196.
21. Sul colore bianco (e sul mutamento cromatico rispetto al primo incontro) rinvio al commento di Gorni (Gorni 1996: 7 e 15) che intravede nel reiterarsi del bianco (colore sia della
veste in cui appare Amore dopo la negazione del saluto da parte della gentilissima, sia del
velo con cui le pie donne coprono il capo di Beatrice defunta, sia della “nebuletta” con cui
l’anima di Beatrice ascende al cielo) “un’allusione angelica”, da leggersi addirittura come
una riscrittura della Trasfigurazione di Cristo (De Robertis 1980: 36).
22. Come già anticipato commentando la lettera a Charles Lyell, l’idea di questo soggetto nasce
“autonoma” e solo in seguito si sovrappone, almeno nel titolo, alla negazione del saluto.
210 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
erano adunate”. Si spiega poi che le donne erano riunite insieme, secondo
l’usanza, in compagnia di una gentil donna appena sposata “nel primo sedere
alla mensa, che facea nella magione del suo novello sposo”. Dante tuttavia
è colto da “uno mirabile tremore” che comincia nella parte sinistra del suo
petto per estendersi su tutto il suo corpo, tanto da costringerlo, proprio al
fine di dissimulare il suo stato, ad appoggiarsi “ad una pintura, la quale circundava questa magione”. È solo a questo punto che Dante riconosce tra loro
“la gentilissima Beatrice”. Rossetti rappresenta una scena molto ampia, quasi
affollata di personaggi, restituendone efficacemente l’effetto quasi teatrale, già
osservato da Gorni nel testo dantesco e forse qui acuito dall’impiego di colori
particolarmente vividi, come vediamo nell’acquerello (Fig. 3bis) eseguito nel
1851 da cui è tratta la riproduzione. Ne esiste una seconda versione, conservata
a Oxford, che presenta alcune varianti; restano tuttavia identici i colori più
intensi: il verde e il blu degli abiti femminili al centro della composizione,
insieme con il rosso della veste di Dante e l’oro dell’abito della bambina che
porge fiori a Dante (mentre muta la veste dell’amico, rossa e verde nella prima
versione, nera e dorata nella seconda, non riprodotta nel presente articolo).
Dante e l’amico stanno in piedi, di profilo, sulla destra del quadro, la parte
bassa e centrale resta libera, il suolo è cosparso di immancabili fiori, mentre
la figura di Beatrice (nei cui tratti è riconoscibile Elizabeth Siddal) sta esattamente al centro dell’immagine. Sulla sinistra, intorno a Beatrice si affollano
molte figure, sempre e solo donne accanto a lei, mentre alcuni uomini si scorgono nella parte più alta della scena, dove appaiono pure gli sposi (invenzione
di Dante Gabriel), rappresentati con fattezze diverse nelle due versioni. Un
certo dinamismo è garantito dai diversi “livelli” previsti nella composizione, i
gradini più bassi su cui sale l’amico di Dante, il piano occupato da Beatrice,
da Dante stesso (i due sono ora sullo stesso livello) e da alcune donne, la scala
da cui scendono donne e uomini e ancora sulla sinistra la balaustra della scala
avvolta fra tralci d’uva che tre figure dal basso si accingono a tagliare. Pure il
gioco fra interno ed esterno conferisce ulteriore dinamismo alla scena: le figure
femminili infatti stanno entrando nella casa, dal cui ingresso si intravvede un
balcone dove si sporgono altre figure di suonatori. Cambia pure fra le diverse
versioni la “quinta” che chiude la scena, come rafforzata nella sua funzione di
cornice con l’acquerello del 1855, dove la casa appare circondata da un muro
che si apre solo con un piccolo tondo verso l’esterno. Fedele qui alla lettera del
testo, Rossetti rappresenta la “pintura” cui Dante si appoggia per dissimulare
il tremore, letta dai commentatori ora come affresco ora come arazzo (intendendo di conseguenza “magione” come l’interno della casa). Rossetti con ogni
evidenza intende affresco (nella traduzione leggiamo infatti “painting”) e vi
rappresenta una serie di figure angeliche che si distinguono per il bianco delle
vesti, l’oro delle aureole, il biondo dei capelli, il tenue colore rosato delle ali.
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 211
Il pensiero (o la visione) della morte di Beatrice è uno dei soggetti più praticati, non privo di affinità, come gli interpreti non mancano mai di ricordare,
con il dato biografico: la morte prematura di Elisabeth Siddal, da contestualizzare nel complesso e tormentato rapporto fra i due. L’edizione Roux presenta
due illustrazioni per questo momento: Gli angeli portano al cielo l’anima di Beatrice (Fig. 4) e Il sogno di Dante (Fig. 5). La prima altro non è che uno studio
per la seconda:23 la riproduzione è tratta infatti da un disegno preparatorio per
Il sogno di Dante, precisamente uno studio per lo spirito di Beatrice circondato
dagli angeli, conservato in una collezione privata (un gesso nero con tocchi di
rosso su carta grigio-verde, di piccolo formato, datato 1870). Il disegno raffigura un gruppo di angeli, distinguibili per le ali, in cerchio attorno alla nuvoletta
(“an exceedingly white cloud”, nella traduzione di Dante Gabriel),24 così come
appaiono nella parte alta del più ampio Dante’s Dream. La “nebuletta bianchissima” rappresenta, secondo gli interpreti, l’anima di Beatrice.25
La monumentalità del dipinto Dante’s Dream (oltre due metri per tre), un
olio commissionato da W. Graham – che poi lo rifiutò per l’evidente squilibrio tra soggetto e formato –, oggi alla Walker Art Gallery di Liverpool (Fig.
5bis), e la proliferazione di studi preparatori – senza contare il precedente
acquerello della Tate Gallery (Il sogno di Dante al tempo della morte di Beatrice,
1859, cfr. Surtees 1971: 81, pl. 95), che presenta analogo impianto compositivo –26 rendono conto già di per sé del lungo lavoro dedicato al soggetto.
Siamo sempre al capitolo 14[XXIII] dell’infermità di Dante, seguita dal sogno/
visione della morte di Beatrice.27 I papaveri sul pavimento, i ricchi colori degli
23.Il Sogno di Dante è pervasivo pure nella già ricordata edizione del Canzoniere (ben cinque
gli studi preparatori riprodotti, oltre al Dante’s Dream vero e proprio, unica immagine
riprodotta a colori e su due pagine). Due studi e lo stesso Dante’s Dream compaiono anche
nell’edizione inglese Routledge, già ricordata.
24. L’edizione Roux non ha didascalia, mentre nella successiva edizione Sten si legge: “…pareami
vedere moltitudine di angeli i quali tornassero in suso ed avessero d’inanzi da loro una nuvoletta bianchissima…” La tavola segue la prima parte del capitolo 14[XXIII] quando la “dolorosa infermitade” porta Dante a riflettere sulla caducità della vita (propria e altrui) e quindi
a immaginare, con una visione dalla scoperta eco biblica, il giungere della ferale notizia.
25. La nuvoletta è interpretata come “l’anima di Beatrice (Casini) o l’Ascensione di lei (Singleton)” (cfr. Gorni 1996: 127). L’ascensione di Beatrice fra gli angeli si aggiungerebbe agli altri
elementi che già rendono esplicito il parallelismo fra Beatrice e Cristo: dal terremoto agli
altri prodigi fino all’Osanna in excelsis, acclamazione che accompagna l’ingresso di Gesù a
Gerusalemme.
26. La nuova versione muta i colori e le vesti, con ampi e morbidi drappeggi, aggiunge elementi
simbolici e cambia volto a Beatrice – Jane Morris invece di Elizabeth Siddal. Mutano inoltre
lo sfondo di sinistra e la parte alta con gli angeli attorno alla nuvoletta.
27. La didascalia recita: “Mi condusse a veder mia donna morta: E quando io l’ebbi scorta,
vedea che donne la covrian d’un velo”. L’illustrazione è collocata fra le pagine di Donna
pietosa e di novella etade, fra la seconda e la quarta stanza, ma per la verità è la quinta stanza
a costituire il soggetto del dipinto: “[…] Allor diceva Amor: – Più nol ti celo; / vieni a veder
nostra donna che giace. – / Lo ymaginar fallace / mi condusse a veder madonna morta; / e
quand’io l’avea scorta, / vedea che donne la covrian d’un velo; / ed avea seco umiltà verace,
/ che parea che dicesse: – Io sono in pace –.”
212 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
abiti e della composizione tutta, la morbidezza delle forme, dei panneggi delle
vesti soprattutto, finanche l’espressione quasi sospesa delle figure danno vita
ad un mondo visionario e sognante. Il simbolismo cromatico si ripete, il verde
delle pie donne, il bianco di Beatrice, il rosso di Amore. Il testo dantesco precisa che il velo copre solo la testa di Beatrice (cioè esclusivamente la sommità
del capo, proprio perché rimanesse visibile il volto, come generalmente si è
interpretato, a cominciare da Barbi che ne ha rilevato la conformità con l’uso
del tempo). Nel dipinto invece il velo sta per coprire tutto il corpo di Beatrice,
ma essendo colto nel momento in cui le Pie donne lo stanno apponendo, il
volto di Beatrice è ben visibile.
L’illustrazione che ha meno a che vedere con il testo dantesco è paradossalmente quella riferita ai versi più noti del libello, puntualmente riportati
nella didascalia: “Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia, quand’ella
altrui saluta, / ch’ogne lingua deven tremando muta, / e li occhi no l’ardiscon
di guardare.” Intitolata semplicemente Beatrice (Fig. 6) e collocata a seguire
la parte in prosa del capitolo 17[XXVI] riprende sostanzialmente titolo e soggetto già esaminato nella Fig. 2 (Il saluto di Beatrice). Muta però decisamente
l’iconografia (siamo in anni più tardi ’70-’80). Esistono diversi studi che precedono il dipinto a olio oggi conservato al Museum of Art di Toledo (Ohio).
La riproduzione inserita nell’edizione Roux è derivata da uno di questi studi
che rappresenta solo il volto della donna (o meglio il volto e le spalle), perdendo così alcuni riferimenti visibili nel dipinto intero che pure “tradisce”
alcuni punti essenziali del testo dantesco: Beatrice (Jane Morris) occupa quasi
tutto lo spazio della tela con la sua veste bianca e lievemente dorata, attorno
a lei fiori nella parte bassa del quadro, sullo sfondo una città.28 Sulla destra
in lontananza si intravedono Dante e Amore, in abito rispettivamente blu
e rosso; Amore seduto su un pozzo, abbraccia Dante con le sue ali (esiste
uno studio di queste due figure, conservato al British Museum di Londra,
che consente l’identificazione). Manca l’essenziale dimensione “sociale” del
saluto (o anche solo del semplice passaggio) di Beatrice che appare sola nella
città, non fosse per la presenza defilata del poeta e di Amore. Naturalmente
questo tratto tipicamente stilnovista è ormai lontano dal sentire preraffaellita
che, come stiamo osservando, tende a caricare di significato simbolico la sola
figura di Beatrice.
Ancora sui generis, ma per ragioni diverse, pure la successiva illustrazione
tratta da un’opera molto nota: Beata Beatrix (Fig. 7). L’opera si distingue per
28. I particolari architettonici sono stati ricavati da fotografie fornite da Farfaix Murray e si
riferiscono probabilmente a Siena (Benedetti 1998: 344). Ricordiamo che nei volti delle
donne rossettiane si scorge l’ombra del grande ritratto rinascimentale italiano (da Leonardo a Raffaello) giunto a lui attraverso The italian school of design di William Joung
Ottley (1823).
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 213
un’atmosfera decisamente onirica, quasi un unicum nel corpus rossettiano (Barringer 2014: 198), dove i colori non risultano freddi e brillanti come di consueto, bensì attenuati e sfumati come il trattamento complessivo della tela, che
“seems to trace an evenescent film over the canvas” (Becker 2004: 80). Queste
caratteristiche trovano ragione nella datazione: il quadro fu inziato prima del
1862 – anno della morte di Elisabeth Siddal, qui ritratta quale Beatrice –, poi
ripreso nel 1864 e infine terminato solo nel 1870. Non è la prima volta che le
due figure, Beatrice e Lizzie, oscillando “tra suggestioni mistiche e abbandoni
sensuali” (Gizzi 1999: 53), si sovrappongono nella pittura rossettiana, tanto più
dopo la morte – probabilmente, come noto, un suicidio – della donna.
Il titolo è una citazione esplicita dalla Vita Nuova. Se il nome di Beatrice
si rivela cruciale fin dal principio dell’opera dantesca (“la quale fu chiamata
da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare”; cap. 1[II]) il sintagma
“Beatrice beata” fa la sua comparsa solo al capitolo 19[XXVIII] cioè esattamente nel momento in cui “lo segnore della giustizia chiamoe questa gentilissima […] Beatrice beata”. Ed è proprio tutta questa parte della Vita Nuova
(con particolare attenzione al capitolo 19[XXVIII-XXX])29 che a nostro avviso
la presente opera di Rossetti intende rappresentare, sebbene dicano concordemente i commentatori, anche sulla scorta delle parole dello stesso autore:
“The picture must of course be viewed not as a representation of the incident
of the death of Beatrice, but as an ideal of the subject, symbolized by a trance
or sudden spiritual trasfiguration. Beatrice is rapt visibly into Heaven, seeing
as it were through her shut lids (as Dante says at the close of the Vita Nuova)
‘Him who is blessed throughout all ages’” (Fredeman 2002-2010: VI, 88-89).
Nella stessa lettera a William Graham (datata 11 marzo 1873) Dante Gabriel
spiega alcuni simboli: “the radiant bird, a messenger of death, drops the
white poppy between her open hands” mentre sullo sfondo (quasi risucchiato
dall’ombra, figura spettrale, come la stessa Beatrice) “Dante himself is seen to
pass gazing towards the figure of Love opposite, in whose hand the waning life
of his lady flickers as a flame” (Ibidem). Possiamo individuare altri elementi,
il pozzo e l’albero (questo effettivamente non distinguibile nella riproduzione
bianco e nero dell’edizione Roux), entrambi simboli di rinascita. Certamente
non si intende rappresentare la morte di Beatrice – peraltro non narrata, se
non in forma di visione (capitolo 14[XXIII]), neppure nel libello dantesco,
anzi Dante insiste sulla scelta: “non è lo mio intendimento di trattarne qui” –,
ma il dipinto illustra quasi letteralmente i capitoli legati alla morte di Beatrice
e non tanto il successivo cap. 20[XXXI] come parrebbe indicare la didascalia.
29. La tavola in effetti segue proprio il cap. 19[XXVIII-XXIX] nell’edizione Roux. La didascalia
recita: “Si che dolze disire / Lo giunse di chiamar tanta salute / E fe’ la di qua giuso a sé
venire: / Perché vedea ch’esta vita noiosa / Non era degna di sì gentil cosa” (Li occhi dolenti
per pietà del core, vv. 24-28).
214 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
La meridiana ferma sulle nove (“ne la sua partita cotale numero pare che
avesse molto luogo”) illustra alla lettera il capitolo 19[XXIX], dove non solo si
osserva che proprio nel momento della morte della gentilissima il nove ricorreva per diversi motivi nel calendario arabo, siriaco e cristiano, ma si dichiara
che il nove “fu tanto amico” di Beatrice perché “nella sua generazione tutti e
nove li nobili cieli perfettissimamente s’aveano insieme” e soprattutto “questo
numero fue ella medesima”. Alle spalle di Beatrice (e della meridiana) appoggiata sulla balaustra del balcone che divide in due lo spazio del quadro, si
distinguono elementi propri della città (case, tetti, un pozzo) che è forse identificabile in Firenze visto il ponte che si intravede sullo sfondo: naturalmente
potrebbe essere Ponte Vecchio, ma si è pure evocato il Tamigi e il Battersea
Bridge, facendo prevalere l’aspetto autobiografico. Eppure la città di Firenze
risulta chiamata in causa in questi stessi capitoli, dapprima introducendo la
morte di Beatrice con la nota citazione dalle Lamentazioni di Geremia: “Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium”,
ripresa poi nel capitolo 20[XXX]. Queste stesse parole sono peraltro riprese
nella parte bassa della cornice del dipinto oggi conservato alla Tate Gallery di
Londra (ma ne esistono numerose repliche). Come la Lamentazione conferisce un tono liturgico a questa parte del racconto di Beatrice, così il dipinto
annuncia nella cornice il suo aspetto per così dire sacrale. Benedetti legge il
quadro come “compiuta rappresentazione” del rapporto fra Amore e Morte.
Beatrice-Lizzie diventerebbe “l’oggetto del desiderio, trasfigurato” incarnando
“un’aspirazione all’infinito”. Sulla scorta del filosofo svedese Emmanuel Swedenborg che sosteneva “come l’unione dei due sessi fosse esperienza religiosa,
in grado di avvicinare all’amore di Dio”, per Benedetti “il volto di Beatrice
istituisce un legame fra eros e trascendenza, orgasmo e rivelazione” (Benedetti
1998: 10).30 I colori sono simbolici: sempre rosso e verde per Dante e Beatrice,
rispettivamente il rosso colore della morte, il verde colore della vita. La luce
è diffusa, ma più intensa sullo sfondo e sulla meridiana. Attorno al capo di
Beatrice pare formarsi un’aureola di luce.
Dante che disegna un angelo in memoria di Beatrice (Fig. 8) 31 è uno dei
soggetti più ricchi ispirati alla Vita Nuova. La tavola segue il cap. 23[XXXIV]
come esattamente riportato nella didascalia (“…io mi sedea in parte, ne la
quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sovra certe tavolette…”). La
riproduzione non rende neppure lontanamente la forza visiva (tutta data dal
forte cromatismo) che si percepisce davanti all’acquerello (Fig. 8bis), di di30. “Le idee di Swedenborg, a lui pervenute attraverso Blake e Browning, sono familiari anche
a Baudelaire e a Mallarmé: il concetto simbolista delle corrispondenze fra arte, musica e
letteratura trova un parallelo ideale nell’analisi swedenborghiana delle corrispondenze fra
elementi terreni e celesti, fra spirito e materia” (Benedetti 1998: 12).
31. Sul valore iconico e l’idea di visione in questo episodio della Vita Nuova, si rinvia a Ciccuto
1994.
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 215
mensione insolitamente notevole (mm. 420 × 610), conservato all’Ashmolean
Museum di Oxford. L’acquerello, datato 1853, valse al suo autore il primo forte
apprezzamento di John Ruskin.
La scena è arbitrariamente collocata in un interno32 dove il poeta è sorpreso da alcune persone intento a disegnare. Dante, vestito di nero, con le sembianze del fratello del pittore, William, è inginocchiato davanti alla finestra
che si apre sull’Arno e Firenze. Sopra il davanzale tre bottiglini di colore (giallo, rosso e blu) insieme con un melograno, sotto vari oggetti fra cui un libro e
un liuto. Sopra la finestra, appena scostata dalla tenda, una clessidra, e seguendo il perimetro della stanza nella parte più alta si incontrano nell’ordine, un
giglio bianco, uno specchio, un’immagine della Madonna col Bambino e una
serie di teste angeliche nei peducci degli archi. La porta della stanza apre su un
prato e un bosco, da una parte la città dunque e dell’altra uno scenario naturale, edenico. Il disegno di Dante è ben visibile e rappresenta una testa di donna
aureolata nella quale ancora una volta si riconoscono le sembianze di Elisabeth
Siddal. Le tre figure astanti occupano la parte centrale del quadro: un giovane
uomo che appoggia la sua mano sulla spalla di Dante e un poco discosti un
altro uomo più anziano che cerca di trattenere il giovane e la donna che si appoggia alla spalla del vecchio in un gesto di partecipazione emotiva alla scena
che sta osservando. I colori vividi, che ricordano gli smalti medievali e i codici
miniati, creano un’atmosfera intensamente poetica. Non manca l’ispirazione a
modelli fiamminghi e nord europei, con prelievi da Dürer (l’acquamanile), da
Memling (lo specchio ovale), da Van Eyck (non andranno dimenticati i viaggi
nei Paesi Bassi, dove Dante Gabriel restò particolarmente impressionato dalla
pittura fiamminga), ma vi circola anche un clima che ricorda il Quattrocento
italiano da Ghirlandaio a Lippi a Botticelli (Benedetti 1998: 178).
Penultima riproduzione inclusa nell’edizione Roux è La donna della finestra (Fig. 9). Nella didascalia leggiamo: “Color d’amore e di pietà sembianti. Non preser mai così mirabilmente viso di donna…” Il sonetto è peraltro
leggibile, nella nostra edizione, nella pagina sinistra accanto all’illustrazione
e rappresenta l’intero episodio della donna gentile o donna pietosa, reinterpretata nel Convivio come allegoria della filosofia (capp. 24-25[XXXV-XXXVI]).
Sulla cornice dorata del quadro conservato al Fogg Art Museum di Cambridge
(Massachussets), qui riprodotto, si legge la trascrizione (e relativa traduzione)
del sonetto Videro gli occhi miei quanta pietate con l’indicazione “Vita Nuova
di Dante”. L’opera fu eseguita nel 1879, ma diversi studi preparatori datano
all’inizio degli anni 70. Il “colore palido” della donna è uno dei tratti salienti
32. Nel testo dantesco l’ambientazione non è precisata (“io mi sedea in parte”) e pure la traduzione di Rossetti non aggiunge nulla (“I sat alone”), ma la circostanza lascia intendere che
non si tratta di un interno visto che Dante non si accorge subito della presenza di alcuni
uomini (non donne e uomini come nell’acquerello) che “riguardavano quello che io facea”.
216 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
e del testo dantesco33 e della tela di Rossetti che rappresenta un’insolita Jane
Morris con i capelli rossi. L’immagine illustra infatti il momento cruciale del
cap. 24[XXXV], quando “una gentile donna giovane e bella molto” guarda
Dante “sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta”. Pure il cap. 25[XXXVI], già richiamato dalla didascalia, gioca una parte
importante con il suo forte valore visivo che sembrerebbe quasi preludere
all’ecfrasi se l’aspetto descrittivo non finisse sempre per restare inappagato nel
libello dove paradossalmente si esalta il senso della vista senza descrivere, in
particolare proprio nei già citati versi “Color d’amore”.
Chiude il volume Dantis Amor (Fig. 10), la più astratta sintesi dell’opera
dantesca che Dante Gabriel abbia concepito, oltre che estrema elaborazione
dell’idea di amore alla base della sua arte, vera e propria celebrazione della
potenza dell’amore. Ovviamente l’opera si colloca su una “linea fantastico-visionaria” rispetto alla linea più realista che costituisce pure un tratto distintivo
del preraffaellismo e dello stesso Rossetti. La didascalia recita: “Quand’egli è
giunto là, dove ’l desira, vede una Donna, che riceve onore e luce sì, che par
lo suo splendore lo peregrino spirito la mira”. Si tratta dei versi 5-8 dell’ultimo
sonetto della Vita Nuova, appena prima della “mirabile visione” conclusiva.
L’illustrazione è collocata dopo la spiegazione del sonetto “Oltre la spera”. La
migliore didascalia dell’opera viene tuttavia dalle iscrizioni che vi si leggono
all’interno, tratte proprio dalle ultime righe del libello, dopo aver espresso il
noto proposito di “dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”:
E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa
gire a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice,
la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia saecula
benedictus.
La riproduzione deriva da uno studio a penna e inchiostro per il più noto
Dantis Amor della Tate Gallery, olio su pannello (non finito) originariamente
parte del mobile della Red House di William Morris (lo stesso del Saluto di
Beatrice, già esaminato). Al centro Amore, alato, in abiti da pellegrino, con in
mano arco e frecce e una meridiana con impressa la solita data del 9 giugno
1290, si staglia su uno sfondo diviso diagonalmente: a sinistra in alto il volto
di Cristo in un tondo (un sole) da cui si irradiano raggi di fuoco, a destra in
basso il volto di Beatrice incorniciato da una mezza luna su uno sfondo di stelle. Questo disegno ha alcune differenze rispetto all’olio più noto (Surtees 1971:
117, pl. 179) ed è unanimemente definito di più alta qualità, tanto che si è dubitato che il pannello del mobile sia stato effettivamente dipinto da Rossetti.
33. Color d’amore rinnova la tradizione topica del pallor amantium (che ha come noto origine
dall’ovidiano Palleat omnis amans). Per tutte le dovute distinzioni, anche cromatiche, tra
Beatrice e la Gentile si veda Bertolucci 1989: 192-193. Per il corretto significato di “pallido”
si rinvia a Feo 1975: 322-324.
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 217
Nella diagonale che separa lo sfondo leggiamo: “L’amor che muove il sole e
l’altre stelle”, mentre nella mezza luna che incornicia Beatrice si legge “Quella
beata Beatrice che mira continuamente nella faccia di colui”. Nel sole in cui
appare il volto di Cristo è posta l’iscrizione: “Qui est per omnia saecula benedictus”. Nell’olio mutano le vesti di Amore e lo sfondo, i colori sono particolarmente vividi, domina il giallo oro. Scompaiono le iscrizioni con l’eccezione
di quella attorno al volto di Cristo. Resta identica la simbologia riconoscibile
nella posizione quasi speculare di Cristo e Beatrice, rispettivamente sole e
luna, cioè “luce e oscurità, attivo e passivo, cielo e terra, maschile e femminile
[…]. Sono immagini frequenti nelle incisioni per le edizioni tardo cinquecentesche della Divina Commedia, certamente note a Rossetti. […] L’artista
rappresenta inoltre il contrasto degli opposti: la luna come riflesso ideale della
luce del sole: Beatrice come riflesso di Cristo” (Benedetti 1998: 222). Benedetti
considera inoltre Dantis Amor come una prefigurazione di Beata Beatrix: “Rossetti ha creato un diagramma araldico della scomparsa della donna e della sua
unione con Cristo.34 Eliminato ogni aspetto narrativo, l’immagine è ridotta
a rappresentazione schematica di rapporti essenziali, per lui riconducibili al
significato centrale degli scritti danteschi: il potere dell’amore come manifestazione del Creatore, espresso da Dante nel verso finale della Commedia ‘l’amor
che move il sole e l’altre stelle’” (Benedetti 1998: 11).
La Vita Nuova, quindi, è per Dante Gabriel un testo cruciale. Attentamente meditato attraverso la traduzione e quasi onnipresente nella sua produzione
artistica, è un’inesauribile fonte di soggetti per i suoi quadri, senza contare che
il libello dantesco è senz’altro fonte per Hand and Soul, scritto che molto rivela
della sua rivisitazione dell’opera. Rossetti rispetta apparentemente particolari,
situazioni, momenti (non mancano tuttavia le differenze, come si è visto);
insiste su alcuni punti fondamentali, il concetto di visione su tutti. Eppure,
senza soluzione di continuità e senza contraddizione, Dante è profondamente
rivisitato, arricchito di esoterismo, in chiave neoplatonica, e di simbolismo,
segno di quanto e di come il libello sia stato vitale in questo contesto culturale.
34. Le analogie e i parallelismi fra Beatrice e la figura di Cristo sono stati via via rimarcati e
continuano ad essere ribaditi pure in sede critica, non ultimo andrà ricordata pure l’analisi
dell’ “analogia cristologica” recentemente offerta da Marco Santagata (Santagata 2011: 211212).
218 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
Fig. 1: D. Alighieri, Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, Roux e Viarengo,
Torino, 1902
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 219
Fig. 2: D. Alighieri, Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, Roux e Viarengo,
Torino, 1902.
Fig. 2bis: D. G. Rossetti, Salutatio Beatricis, National Gallery of Canada, Ottawa.
220 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
Fig. 3: D. Alighieri, Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, Roux e Viarengo,
Torino, 1902.
Fig. 3bis: D. G. Rossetti, Beatrice meeting Dante at a Marriage Feast, Denies him her Salutation,
collezione privata.
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 221
Fig. 4: D. Alighieri, Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, Roux e Viarengo,
Torino, 1902.
Fig. 5: D. Alighieri, Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, Roux e Viarengo,
Torino, 1902.
Fig. 5bis: D. G. Rossetti, Dante’s Dream, Walker Art Gallery, Liverpool.
222 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
Fig. 6: D. Alighieri, Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, Roux e Viarengo,
Torino, 1902.
Fig. 6 bis: D. G. Rossetti, The salutation of Beatrice, Museum of Art, Toledo (Ohio).
Fig. 7: D. Alighieri, Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, Roux e Viarengo,
Torino, 1902.
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 223
Fig. 8: D. Alighieri, Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, Roux e Viarengo,
Torino, 1902.
Fig. 8bis: D. G. Rossetti, The First Anniversary of the Death of Beatrice, Ashmolean Museum,
Oxford.
224 Dante e l’arte 2, 2015
Veronica Pesce
Fig. 9: D. Alighieri, Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, Roux e Viarengo,
Torino, 1902.
Fig.10: D. Alighieri, Vita Nuova illustrata dai quadri di Dante Gabriel Rossetti, Roux e Viarengo,
Torino, 1902.
Beata Beatrix: la Vita Nuova e i quadri di Dante Gabriel Rossetti
Dante e l’arte 2, 2015 225
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riferimento al vol. I e indica la scheda di catalogo; l’indicazione “pl.” vale “plate”
e fa riferimento alla numerazione delle tavole nel vol. II].
Dante e l’arte 2, 2015 227-254
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter
Greenaway and Tom Phillips: A “symbolical
translation” of Dante’s Inferno for television
Tabea Kretschmann
Friedrich-Alexander Universität Erlangen-Nürnberg
[email protected]
Riassunto
Nell’affrontare la loro versione filmata degli otto primi canti dell’Inferno, (A TV Dante
– Cantos I-VIII del 1989), Peter Greenaway e Tom Phillips svilupparono una strategia di
adattamento affatto nuova ed innovativa. Poggiando sulle precedenti traduzione e illustrazione dell’Inferno allestite da Tom Phillips, Greenaway e Phillips concepirono A TV Dante
come un nuovo libro dell’artista. Così, trasferirono nel film strutture proprie di un libro,
e in modo simile a quello sottostante la strategia simbolica delle illustrazioni dello stesso
Phillips, ‘tradussero’ il testo dell’Inferno in un ‘linguaggio televisivo simbolico’. Nell’articolo si offre uno sguardo complessivo ai principi centrali dell’adattamento in A TV Dante
Parole chiave: Inferno; Peter Greenaway; Tom Phillips; Dante e il cinema; Dante e la TV;
illustrazioni di Dante.
Abstract
For their film version of the first eight cantos from Dante`s Inferno, A TV Dante – Cantos
I-VIII (1989), Peter Greenaway and Tom Phillips developed a completely new and highly
innovative adaptation strategy: Based on an earlier illustration cycle and translation of
Dante’s Inferno by Tom Phillips, Greenaway and Phillips conceived A TV Dante as a ›new
edition‹ of the artist book. For this, they transferred typical book structures in the film and,
similar to Phillips’ own symbolical illustration strategy, ›translated‹ the text of the Inferno
in a ›symbolical TV language‹. In this article, I will give an overview over the central adaptation principles in A TV Dante
Keywords: Inferno; Peter Greenaway; Tom Phillips; Dante and film; Dante and TV; Dante
illustrations.
issn 2385-5355
228 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
A
TV Dante – Cantos I-VIII by Peter Greenaway and Tom Phillips was first
aired on British television in July 1990.1 In their film version of the first
eight cantos from Dante’s Inferno, the artists did not transfer – as one might
have expected – Dante’s impressive linguistic pictures describing a journey
through hell into a visually stunning motion picture version. Instead, Greenaway and Phillips developed a completely new and highly innovative adaptation strategy: based on an earlier illustration cycle and translation of Dante’s
Inferno by Tom Phillips, Greenaway and Phillips conceived A TV Dante as a
“new edition” of his artist book. For this, they transferred typical book structures in the film and, similar to Phillips’ own symbolical illustration strategy,
“translated” the text of the Inferno in a “symbolical TV language”. In this
article, I will give an overview over the central adaptation principles in A TV
Dante, which to date have not been summarised satisfyingly. With this, I hope
to facilitate the access to this film version of Dante’s Inferno, which due to its
very special and complex aesthetics at a first glance might seem perplexing or
even confusinrrg (correspondingly, after having seen the first minutes of the
film, a friend of mine asked me if the director had visualized a LSD trip) – but
at second sight reveals its precise and fascinating conceptual structure.
1. Genesis of A TV Dante
The Inferno-adaptation A TV Dante was commissioned by the British TV station Channel 4. This station is known for initiating many experimental film
projects, especially during the first years after its foundation.
*
This essay is a revised version of a chapter from my PhD thesis as well as of an earlier article.
In my PhD thesis I analysed for the first time in research the phenomenon that starting in the
1960s and becoming a “boom” since the 1980s internationally an amount of contemporary
“reworkings” of the Divina Commedia has appeared, which by medial, linguistical, stylistical
and/or contentual changes transform the original text in decidedly new versions: in “Nuove
Commedie”. In addition to a general overview over the phenomenon as a whole, I analysed
selected reworkings in detail, including Peter Weiss’ drama Inferno (1964/2003); the trilogy of
dramas Inferno, Purgatorio, Paradiso by Edoardo Sanguineti, Mario Luzi and Giovanni Giudici (1989-1991); the director’s theater trilogy by Tomaz Pandur Inferno. The book of the soul,
Purgatory. Anatomy of Melancholy, and Paradiso. Lux (2001-2002); Peter Greenaway’s and Tom
Phillips’ TV version A TV Dante; the radio drama Radio Inferno (1993) by Andreas Ammer
and FM Einheit; Sean Meredith’s “Americanised” paper puppet film Dante’s Inferno (2007),
which is based on the artist book Dante’s Divine Comedy (2003-2005) by Sandow Birk and Marcus
Sanders; as well as the musical La Divina Commedia. L’opera. L’uomo che cerca l’Amore (2007)
by the Vatican priest Mons. Marco Frisina. The dissertation was published in 2012 with the
title “Höllenmaschine / Wunschapparat”. Analysen ausgewählter Neubearbeitungen von Dantes
Divina Commedia (Kretschmann 2012). An earlier version of this article in German based
on the dissertation was published in Deutsches Dante-Jahrbuch (Kretschmann 2010-2011).
1. The film had already been aired the previous year on Italian, Dutch and German television.
Shortly after the premier in Great Britain, the film was available on tape (Greenaway, Phillips
1995). Meanwhile, the film was also published on DVD; and it can be downloaded under
www.digitalclassics.co.uk. The trailer can be found here: https://www.youtube.com/
watch?v=XkxkRpDeFyk [24th August 2015].
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 229
In 1982, Channel 4 was launched by an act of parliament as the second
private British broadcasting station to go alongside the state owned channels
BBC1 and BBC2, and ITV, the only private television transmitter in Britain
up to that point. As a private TV broadcasting transmitter, Channel 4 has to
finance itself, mainly through advertisements. At the same time, however, it
is subject to the public transmission order, to ensure a high quality of its programs. The preamble of the constitutive document accordingly states:2
The public service remit for Channel 4 is the provision of a broad range of
high quality and diverse programming which, in particular:
• demonstrates innovation, experiment and creativity in the form
and content of programmes;
• appeals to the tastes and interests of a culturally diverse society;
• makes a significant contribution to meeting the need for the licensed public service channels to include programmes of an educational nature and other programmes of educative value; and
• exhibits a distinctive character.
During the 1980s, Michael Kustow, who oversaw Channel 4’s artistic department, approached Tom Phillips. Phillips had published an artist book
on Dante’s Inferno in 1983, which had received a lot of attention from the
art scene and the interested public, and Michael Kustow was considering to
adapt it for an art film (Phillips 1992: 238). After Peter Greenaway – for whom
Channel 4 became a main producer for some of his films (Gras, Gras 2000: 53)
– was recruited as a director, Phillips agreed to participate in the undertaking.
Tom Phillips (*1937, London) is an internationally acknowledged painter and
graphic designer.3 Phillips, who also works as an author and composer, became
known especially for his gaudily coloured and partly collaged screen prints.
Some of his characteristic working methods can be detected for example
in his cycle A Humument (Fig. 1): according to his own declaration, Phillips
one day decided to adapt the first book, which he would purchase for the
price of three pence, in an artistic way. Thus, chance played a major role in
the process of choosing a literary pretext to work with – an approach which
was also characteristic for his later work on Dante. Phillips came across W.
H. Mallock’s Victorian novella A Human Document. Since the beginning of
the 1970s, he published several illustration cycles for this novella. In these
illustrations Phillips combined words and sentence fragments from the text,
his own artwork and other collaged materials such as film excerpts, photos,
2. http://www.channel4.com/about4/overview.html [24th August 2015].
3. I.a., he was elected into the Royal Academy of Arts in 1989; he was chairman of the show
commission of the Royal Academy from 1995 to 2007; in 1999, he became Honorary Member of the Royal Society of Portrait Painters, etc. See information on his homepage www.
tomphillips.co.uk [24th August 2015].
230 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
fragmented bills and paintings by other painters or himself, which he cut up
and reassembled (Phillips 1992: 255 ff.).
Towards the end of the 1970s, Phillips started – at the beginning also
“by chance” – to concentrate on Dante. This was triggered when the Folio
Society inquired with his main publisher Alecto Editions, whether he would be
interested in illustrating a new translation of the Divina Commedia.4 When
he handed in his first drafts, they were rejected by the publisher, saying that
they were too “modern” – in his book Works and Texts Phillips spread Mr. Folio’s exclamation: “These aren’t illustrations at all” (Phillips 1992: 227). Folio’s
edition then was published with the widely known neo-classical etchings by
John Flaxman (1755-1826) – Phillips on the other hand continued his work
on the Divina Commedia with the help of his publishing house and private
funding. He focused on the Inferno, for which he worked on an illustration
cycle. Parallel to his work on the Inferno, he created an own translation, for
which he transferred Dante’s endecasillabi in interlaced rhymes to unrhymed
blank verses with ten syllables. For the translation he transferred the old poem
in modern English, but at the same time his version is close to the original
text (i.e. without any actualizations of the content or else). The finished book
then consisted of the translation, two illustrations for the whole book, four
coloured screen printings for each of the thirty-four cantos of the Inferno, as
well as extensive comments to the graphics in an appendix (Phillips 1985).
Already shortly after the publication of the elaborately designed original and
facsimile editions, the London based Thames & Hudson publishing house
issued a fairly cheap paperback edition, which can be seen as an indication for
the success of the artist book.
Designing his graphics, Phillips used a strategy that differed widely from
previous illustrations of the Divina Commedia: many, if not even most artists
drew sequences or waypoints of Dante’s travels through the afterlife almost in
“picture stories” that visualise the original text (the famous graphics by Sandro
Botticelli, William Blake or Gustave Doré may come to mind; see Fig. 2 and
3). Phillips instead decided to take a different approach. He transferred central
parts of the text into a mainly “symbolical imagery” (compare Möller 2000:
168-182). Three examples may further illustrate this.
4. In his book Works and Texts, Tom Phillips points out that he first came in contact with
Dante when he was six years old. While collecting books with his brother for a charitable
war donation, they were given an edition of the Divina Commedia, illustrated by Gustave Doré, which they kept at home for a short period of time, before duly handing it in.
Phillips commented himself: “It was strange to think that […] my first brush with art, in
a pictureless home, should occur at the same time as my first meeting with a work that
would later dominate fifteen years of my life.” He later read excerpts from the Commedia
in school, but thought them “disappointingly parochial; thus missing the point entirely, as
I discovered later when reading the original with the aid of Singleton’s copiously annotated
edition” (Phillips 1992: 228; for his reflections about Dante see 219-251).
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 231
The first illustration is taken from the first canto (Fig. 4). In this introductory canto to the Divina Commedia, the author Dante describes how his fictitious alter ego Dante is at the beginning of his journey, which will later lead
him through the three worlds of afterlife, Inferno, Purgatorio and Paradiso. In
this canto Dante retells how he gets lost in a forest and encounters three wild
beasts: a leopard, a lion and a she-wolf. In the tradition of interpretation of
the Divina Commedia, these animals were seen as allegorical representatives
for the three Aristotelian categories of sin, which according to Dante’s classification are atoned for in the nine circles of hell: the milder sins of the incontinentia (excessiveness), the moderate sins of the malitia (active evilness) and
the most serious sins of the feritas / matta bestialitade (animalistic bestiality).
Phillips – unlike Botticelli and many others – does not actually show a Dante
facing animals in his illustration. Instead, Phillips transferred the allegorical
meaning of the three animals systematically into his rather “symbolical” illustration: three large arrowheads can be seen on the illustration. The first one is
filled with leopard skin, the second one shows a lion’s head and the third one a
wolf ’s head. Just like in Dante’s hell, where punishment is based on the severity of the committed sin and where the lost souls are placed in always deeper
lying circles in the underworld, the arrowheads point downwards. In addition
to the display level, Phillips uses his techniques to emphasize the allegorical
meaning of the three animals, by using surface printing for the first arrow
head; surface drypoint for the second one; and deep etching for the third
one. The increasing severity of the sins and the depth of their punishment
are therefore also reflected in the way he works. Above the first arrow is a
smaller, yellow-brownish arrow, which seems to push down the bigger arrow.
Attached to this arrow is a tail with a comic like speech bubble saying: “the
restless advance of devil”. Already in the graphic for the first canto one can
see how Phillips “translates” parts of the original text of the Inferno in mainly
“symbolical illustrations”: he uses pictures as “symbolical signs”, of which the
meaning can be reconstructed by the viewer. In contrast to “purely abstract”
signs, where there is only an arbitrary connection between the thing and its
meaning, there is a certain connection for symbols between its form and the
meaning; this is comparable to the depiction of a stylized woman with a child
on a blue background on German “symbolic” signs for footpaths, in contrast
to “abstract” yellow and white right-of-way traffic signs. Just like in this first
illustration, Phillips mimics the ambiguity which Dante explicitly intended in
his allegoric poetry in some other illustrations of the Inferno-series.
Phillips’ symbolical access to Dante’s work can further be seen in the illustration of the second canto (Fig. 5). In this canto Dante’s encounter with
Virgil is described. Virgil was sent from hell by Beatrice, Dante’s childhood
sweetheart who died young, to guide Dante on his journey through the after-
232 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
life. Beatrice watches Dante’s journey from paradise and eventually accompanies him at the end for a short part of his way. Phillips illustrates the sequence
in the text where Beatrice appears before Virgil to commission him with the
task. On the right side of the picture are several butterflies, which are slowly
fading as they get higher; the background is a shade of light-blue and reminds of a clear sky-blue. The butterflies are specimens of the South-American
Catagramma Neglecta (Callicore Neglecta), which is also called “89”, due to its
noticeable design. The image of the butterfly is not a coincidence: Phillips
associated the NINE on the wings with Beatrice. In the Divina Commedia, as
well as in the Vita Nova she is connected with the number nine in different
ways. The number nine is the sum of three times three, and since the number
three is a holy number in the Christian tradition (Holy Trinity), the number
nine has an especially high symbolic worth, emphasizing Beatrice’s exceptional position. Furthermore, according to the Bible 08/09 is the birthday of
Mary – who partly initiates Beatrice’s intervention in favour of Dante in the
Divina Commedia. Aside from the symbolic number, which connects the butterflies to Beatrice, these also represent ascending souls in ancient sepulchral
art. Furthermore, Dante compares the path of the faithful Christian to salvation in God in the Purgatorio with the metamorphosis from a caterpillar to
an “Angel butterfly” (“[…] noi siam vermi / Nati a formar l’angelica farfalla, /
Che vola alla giustizia senza schermi”; Pg. X 124-126). All in all, the butterflies
in Phillips’ illustration can be understood as a symbolical representation of
the appearance of Beatrice, a redeemed soul. The graphic is complemented
by text fragments on the left side, which comment associatively and vaguely:
“poet / my / poet / the soul / loves deeply / My feelings have wings, / and / I
am urging / to my / love / in / hell / – a butterfly gives meaning to / brighten
poetry […].”
Aside from the mainly symbolical strategy of illustrating, Phillips also opts
for a “structural update” of Dante´s Inferno in some instances. This for example can be seen in the illustration for Inferno XXXI (Fig. 6). This canto gives
an account of how Dante and Virgil reach the ninth circle of hell, where they
encounter the giants Nimrod, Ephialtes and Anteus. Dante, who perceives
the giants inaccurately from the distance, compares them to the towers of a
medieval city. In his illustration, Phillips superimposes the schematic outline
of the city of San Gimignano onto the skyline of Manhattan in the middle
of the picture, with the Hollywood-figure King Kong in the top right corner.
The city outline corresponds with Dante’s city comparison. King Kong, with
a woman in his hand, corresponds with Anteus the giant, who lowered Dante
and Virgil to the bottom of hell. The speech-bubble-like inscription “In the
New World strange sort of parallel” hints towards the similarity between the
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 233
gigantic medieval towers of San Gimignano (nowadays also called “medieval
Manhattan”)5 and the skyscrapers of Manhattan.
To recapitulate the first results: In his artist book Phillips does not show
a narrative picture story, which would depict the verbally described action of
the poetry in an illusionistic way. Instead, he translated certain excerpts from
the text into mostly symbolical pictures, which he updated selectively by using
structural analogies. In order to understand his way of illustrating, the viewer
has to break down the meaning of the motives – which sometimes might only
be possible by using the annotations in the appendix of the book (compare
Taylor 2004: specifically 144).
Peter Greenaway (*1942, Newport, Wales) originally also had been trained as
painter. Later, he acquired autodidactically the techniques of film production
while he was employed as film editor and director of the Central Office of
Information from 1965 to 1975. By now, he is well known to a vaster, cinematically interested audience beyond the mainstream cinema for his extravagant
films such as The Draughtsman’s Contract (1982), A Zed & Two Noughts (1985),
The Belly of an Architect (1987), The Cook, the Thief, his Wife & her Lover
(1989), the cinematic adaptation of Shakespeare’s The Tempest, Prospero’s Books
(1991), The Pillow Book (1996), his homage to Federico Fellini, 8 ½ Women
(1999), and the Rembrandt-drama Nightwatching (2007). Today, Greenaway
is seen as one of the most prominent representatives of the avant-garde New
British Cinema.6
Greenaway (to whom an interviewer after a highly sophisticated conversation, which left him quite exhausted, once attributed a “demoniac cleverness”,
Gras, Gras 2000: 87) consistently rejects commercial films, which are based
on a hypothetical or alleged taste of the masses, as “banal, boring, trivial and
irrelevant”.7 He confirms that he “never wanted to become a mainstream director” (Gras, Gras 2000: 87). Instead, Greenaway described in an interview as
one of his guiding principles as director: “I am convinced that it is the duty of
every creatively working person to try to push the boundaries of the art form
he or she is working with […].”8 As in his opinion film aesthetics seemed to
5. E.g.: “San Gimignano wird auch ‚Mittelalterliches Manhattan‘ oder die ‚Stadt der Türme‘
genannt” (http://de.wikipedia.org/wiki/San_Gimignano [24th August 2015]).
6. Recently, the director has experimented with VJ (‘Visual Jockey’, modelled after ‘Disc
Jockey’)-projects, where – often in cooperation with DJs – visual performances are transferred in real time to display medias such as TV, monitor or screen. Greenaway presented
the first VJ-performance on 17 June 2005 in cooperation with the DJ Serge Dodwell (aka
Radar) in an art club in Amsterdam (The Tulse Luper Suitcases).
7. Retranslated from German into English: “banal, langweilig, trivial and irrelevant” (Lüdecke
1995: 223; see also 228).
8. Retranslated from German into English: “Ich bin der festen Überzeugung, dass es schon
fast eine Pflicht eines jeden kreativ schaffenden Menschen ist zu versuchen, an die Grenzen
234 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
stagnate since the 1960s and seemed extremely conservative in Great Britain,
since his early experiments with absurd collage films in the 1960s and 1970s
Greenaway is continually searching for new opportunities to expand the way
the film expresses itself.
One of the guiding principles which characterise Greenaway’s film aesthetic is that he distances himself from the idea of films being an area for storytellers; he decidedly does not want to create one “of those psychological dramas”
(Gras, Gras 2000: 52). He confirms that mostly “cinema narrows its concern
down to its content, that is to its story. It should, instead, concern itself with
form, structure.” (Gras, Gras 2000: 52) This focus on form and structure instead of on the story is central for Greenaway – and perhaps one element
which is uncommon for “normal” viewers and might contribute to a sense of
non-understanding when one of Greenaway’s films is seen for the first time.
Nevertheless, also Greenaway does “tell stories” in his (later) films. But,
as he puts it: “for me the stories are only the hook on which to hang one’s
hat.” He insists that “one should not tell stories as straight line narratives.
There are so many other possibilities, and film would enrich them” (Gras,
Gras 2000: 52).
This corresponds to what one might call Greenaway’s more general “philosophy” (Gras, Gras 2000: 152):9
Let me make one statement, which people have a lot of difficulty understanding. I sincerely believe that, in all cultural activity, content atrophies
very rapidly, and all you’re left with is form and strategy. Then there is a way
in which the form and the strategy themselves become the content. I don’t
think you can get away from the fact that anything that moves through
time has some sort of narrative. One, two, three, four, five, six, seven, eight,
nine, ten, is a narrative – beginning, middle, and end.
But I have a great distrust in narrative. […] I have an antipathy to the
psycho-drama, too, which I think is too easy, I do feel that we ought to look
for other ways of explaining the human condition, apart from this sort of
pocketbook Freud – it isn’t even Freudian, because it’s still stuck somewhere
in the middle of the 19th century, or associated with Jane Austen, for God’s
sake –
In this sense, Greenaway also distances himself from a “realistic” film aesthetic. Instead, he underlines (Gras, Gras 2000: 98):10
der Kunstform, mit der er sich auseinandersetzt, zu gehen und sie zu verschieben […]”
(Lüdecke 1995: 228).
9. Compare also e.g.: “There’s no such thing as a narrative in real life, because we all live in
the present tense. But our minds and our memories are working overtime to make sense
of that present tense. I would be fascinated to see if we could find an equivalent for that
fragmentation in terms of cinema.” (Gras, Gras 2000: 175)
10. Similar: “I’m in no way a neo-realist. Neo-realism and naturalism in cinema is a chimera
anyway. You can’t be real in cinema; you make a decision about form and artifice for every
twenty-four frames per second of film. All those theoreticians who concern themselves
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 235
My cinema is deliberately artificial, and it’s always self-reflexive. Everytime you watch a Greenaway movie, you know you are definitely and only
watching a movie. It’s not a slice of life, not a window on the world. It’s by
no means an exemplum of anything “natural” or “real”. I do not think that
naturalism or realism is even valid in the cinema.
Consequently, his films “foreground their artificial status as constructed aesthetic objects” (Gras, Gras 2000: x).
One element of Greenaway’s non-realistic, explicitly artificial aesthetic are
“organisational structures” in his films. As he declares, “movies are very much
about […] organizing. That’s what art is about, isn’t it? That’s what civilization is about, some way to understand, contain this vast amount of data that’s
pushed on us all the time.” (Gras, Gras 2000: 108) Therefore, he is “looking all
the time for alternatives to storytelling” (Gras, Gras 2000: 174). His films “are
very much based on horizontals and verticals. […] Also lists, number counts,
and alphabetical counts” (Gras, Gras 2000: 174), colours, and frames are used
to build up these “organisational structures” in the films.11
A result of this approach is that the aesthetic and structure of his films is
generally very complex and, as one interviewer said, “density is […] a hallmark” (Gras, Gras 2000: 107) of Greenaway’s work. He works with allusions
to the film history, as well as with symmetries, serial patterns, and recurring
sequences of motives (especially bodies, writing, birds, frames, books and so
on) so that “they can be watched infinitely often, you come back to them
again and again, so that the viewer constantly notices new things, new layers
can be seen, so that the multiple layers of the construct constantly offer new
ideas”.12
Due to his special conception, Greenaway’s film aesthetic might not
seem “familiar” or easily accessible to viewers. One might have to search for
a “clue” to enter and perhaps also appreciate Greenaway´s work: “Greenaway
has always demanded that his audiences work as hard as he to question the
artificial construct of cinema, to question what we name and take advantage
of as truth, knowledge and reality” (Gras, Gras 2000: 130).
The idea to transfer Tom Phillips’ translation and illustrations of Dante’s Inferno into a film version met Peter Greenaway’s expressed purpose for many
of his films “to bring together the painting and the literature for which film
with realism in cinema seem to be barking up the wrong tree entirely. I think the most
satisfactory movies are those which acknowledge their artificiality.” (Gras, Gras 2000: 110).
11. See e.g. Gras, Gras 2000: 109, and also 107: “I’ve always had the desire to organize things”.
12. Retranslated from German into English: “[… so dass sie] in gewisser Hinsicht unendlich
oft anschaubar sind, so dass man immer und immer wieder auf sie zurückkommt, so dass
dem Betrachter ständig neue Dinge auffallen, sich neue Ebenen auftun, so dass die Vielschichtigkeit des Gebildes immer mehr Ideen anbietet” (Gras, Gras 2000: 231).
236 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
is the ideal medium” (Gras, Gras 2000: 11). For Tom Phillips and Peter Greenaway, A TV Dante was the first joint project and also the first TV-project in
which they could incorporate and further develop their own former artistic
experiences and ideas.
In 1984, they produced a pilot film with the final goal to adapt all the 34
canti of the Inferno for a film. They chose the fifth Inferno-canto for their pilot
film, which tells the tragic love story of Paolo and Francesca, who are tossed
around in the hellish storm of the voluptuous (Phillips explained ironically
and smugly in an interview that they expected the theme of love to play in
their favour with the reviewers who decided about further financing; Phillips
1992: 238-239). For the rough draft which was almost completely incorporated later in the film, Phillips and Greenaway already developed all adaptation structures, which they used when they finished A TV Dante. Despite the
mixed receptions regarding the pilot film – with critiques varying from “TV’s
first masterpiece” to “terminally pretentious twaddle” (Phillips 1992: 239) –,
three years later Channel 4 gave green light for the whole series.
Though, after Channel 4 had aired A TV Dante – Cantos I-VII, the adaptation of the Inferno remained an involuntary fragment, due to Michael Kustow’s departure as artistic leader of the channel and serious disagreements
with the new leadership (Phillips 1992: 245). Paul Ruiz was asked to continue
the filming – whose A TV Dante: Cantos IX-XVI (1991) then only had vague
references to the original text by Dante –, before the project was completely
abandoned.
2. Analysis of the adaptation structures in A TV Dante
A TV Dante is governed by two main ideas. On the one hand, Tom Phillips
pointed out in an interview that the film is “the equivalent of publishing a
new edition of the book” (cited after Vickers 1995: 267). Just like with the
continuous work on A Humument, A TV Dante was supposed to become – in
accordance with Michael Kustow’s order – a “filmic new edition” of his artist
book on Dante’s Inferno. On the other hand, with A TV Dante Greenaway
and Phillips wanted to renew the existing television and video aesthetic of the
time, which the artists felt were not adequate to the potential of these media.
They highlighted in a postscript to a supplementary booklet to the broadcast
(Phillips 1992: 246):
A TV Dante tries to answer the question: Is there such a thing as television?
Is television a medium in its own right with an individual grammar that
would make it an art form as independent of cinema as opera is of drama?
[…] The test here was to bring the medium in its present potential to a
great multi-layered text and see if it could stand the strain.
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 237
The best way to comprehend how Phillips and Greenaway implemented their
main ideas is to analyse two of the distinctive means of design in A TV Dante:
the imitation of book-structures in the film, and the “translation” of Dante’s
poem in a “symbolical film- or TV-language”, which has its roots in Phillips’
strategy of illustrating Dante’s Inferno.
Imitation of book-structures
One special adaptation element in A TV Dante is that Tom Phillips and Peter
Greenaway transfer typical structural characteristics of books to the film.13
They thereby underline the connection of the film to Dante’s Inferno, a written text published in form of a book, and to Phillips’ artist book, of which
they planned a film adaptation. At the same time, they used this approach as
a basis for a special film aesthetic, which was decidedly aware of the medium
it was conceived for, i.e. television.
A TV Dante was, as described above, commissioned by Channel 4 and
aired on television. Following Greenaway’s and Phillips’ conception, the film
should actually be recorded on video: “[…] it is designed to be recorded on
video and then watched by the audience at their own speed, stopping and
starting at will like reading a book” (Vickers 1995: 267). This becomes necessary mainly because of the dense, complex and largely symbolical image
composition, which – a lot like the Inferno-illustrations of Tom Phillips and
other films by Peter Greenaway – requires the viewer to interpret it and focus
on details while viewing.14
In addition to this “ideal book-like reception” of the film, further elements
can be found, which imitate book-structures. A TV Dante starts with a short
opening scene. Just like in a book, it functions as a “table of contents”. First, a
computer image of a stylized stone tablet is shown, on which the inscription
of Dante’s gate of hell can be read. Bob Peck reads the first three and the last
of the famous verses (If. III 1-3, 9):
through me you reach the city of despair
through me you reach eternity of grief.
through me you reach the region of the lost
[…]
you that enter here abandon hope.
13. On the media reflective dimension of the adaptation see e.g. Calè 2007. Books as well as
the motif of writing play a major role in Greenaway’s films, especially in Prospero’s Books
and A Pillow Book.
14. “[…] it is infinitely re-viewable as a video which allows a certain density of information, just
as the TV screen allows a greater density of imagery because of its compactness. (The eye
can concentrate on the corner while taking the whole). Its non-physical, all-electronic nature
as a medium makes it fluid and capable of delicate and continuous elision. Perhaps, it is,
to film, as modelling in clay is to carving in stone” (Phillips 1992: 245).
238 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
The viewer then sees nine boxes with Arabic numerals, which run vertically
from the bottom to the top. These boxes are painted in different colours,
depicting film scenes, in which actors portray the punishments in the nine
circles of hell. The viewer thus gets a filmic overview over the structure of the
Inferno.
A small box, which constantly stays in the middle, is superimposed on the
running film of the opening scene. The background of the box is blue with
a grid of white lines. It is a reference to the background of one of the earliest
motion studies, conducted by Eadweard Muybridge (1830-1903).15 Inside the
box – just like in the short film sequences – are naked people, who are turned
90 degrees by harsh cuts around their own axis and are scanned with bright,
horizontal strips of light. The hair of these persons is moved by wind. They
seem like souls, which are shown in the style of mugshots. They are depicted
frontally, from the side and from the back, as screened for their sins, and are
transported in a modern, prison-like elevator to hell.
At the end of the opening sequence, the name of the author and the title
of the pretext are shown like on a book cover: “dante / the inferno”. After
a short break – the equivalent of a blank page – a small box with the head of
Tom Phillips with a grey frame appears in front of a black background. He
recites the programmatic motto: “A good old text always is a blank for new
things.”
This is followed by the actual adaptation of the Inferno-text. The number
of each canto in the film is written like above the corresponding canto in the
book version. Comparable to the separation of the cantos in a book, Phillips
and Greenaway do not show one full film, but separate their adaptation into
“canto-chapters”, by showing “Canto I”, “Canto II” etc. written in computer
font. The formal division of the original poem remains intact in the film.
Within the canti, Greenaway and Phillips worked on two separate text
levels: on a first level, they transferred the poetic text of the Inferno into a film;
on a second level, they faded in comments like little footnotes in small boxes
over the main film. Before I analyse more in detail the film adaptation of the
main text, I have a closer look on the footnote-boxes.
Obviously inspired by the tradition of critical editions of the Divina Commedia, Greenaway and Phillips inserted the little boxes with comments in
the film to imitate the extensive annotations which are used to comment
on the philological, cultural and literary history of the medieval text. In his
documentary Four American Composers (1983), Greenaway had already expe15. Eadweard Muybridge gained fame for his early film recordings, i.e. a man walking up
stairs or running animals. Phillips had already used these images in his Inferno-book and
Greenaway and Phillips quote them on several occasions in the film.
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 239
rimented with layering pictures, which remind of the hypertext structure of
cd roms; he used them again later e.g. in Prospero’s Books and A Pillow Book.
The boxes with comments are framed in different colours and are equipped respectively with small Roman and Arabic numerals. The colours and
numerals correspond with the nine circles of hell: from Canto I to Canto III,
in which Dante’s entrance to the underworld and his journey through limbo
are described, the boxes are white with Roman numerals; starting with the
first circle of hell, they are green with Arabic numerals from 101 (also: 101, 102,
103 etc.); for the second circle, blue with numbers from 201; yellow for the
third (301ff.), light brown for the fourth (401ff.) and dark brown for the fifth,
which also marks the end of the film (501ff.).16 The reason why the numbers,
starting with the first circle of hell, begin with one hundred is obviously related to the wish to assign them without any doubt to the first, second, third,
and so on, circle of hell; even though the amount is not fully used, up to 99
clearly assigned comments per canto could be inserted.17
Inside the footnote boxes, heads of commentators can be seen, who, just
like television announcers, face the audience. Comparable to bibliographic
details, their name and profession are put above and underneath the boxes
(i.e. “Peter Attenborough / Naturalist”; “David Rudkin / Classicist”; “Olaf
Pederssen / Astronomer”), which identifies them as real academic authorities.
Hard film cuts mark reductions in the interviews with the commentators,
similar to suspension points in meticulously precise, scientific quotes.18
Excerpts of the adaptation of the main text continuously run behind the
experts; alternatively objects, to which the experts are referring to at that specific point, are shown. Just like footnotes are placed behind certain words and
sentences, the reference objects are clearly identified and explained.
With the usage of footnotes the artists obviously tested an alternative
mode of displaying the usually linear and one-dimensional way to tell a story
in a film. Furthermore, it provides the film with a serial pattern of organization, which is quite typical for Greenaway. In my opinion, however, the
footnotes in A TV Dante – unlike the footnotes in a critical text – are not
meant to help the viewer to fully understand the main text by commenting it
extensively; but they are first and foremost a structural reminder of the book
edition of the Divina Commedia with comments. I therefore believe that the
16. The colours in the boxes, however, do not correspond with the ‘circles of hell’ in the opening
sequence. In contrast to Dante, the directors combine limbo with the unbaptized in hell as
the first circle of hell (Inferno IV) with the colour green.
17. Petra Missomelius’ thesis, that Greenaway ‘demasks the only ostensibly systematics of
scientific order’ [“dass mit den Kommentatoren-Kästchen ‘Greenaway die nur scheinbare
Systematik wissenschaftlicher Anordnung’ demaskiere”], ignores the very specific adaptation
logic of the film (Missomelius 2007: 167).
18. See also Phillips 1992: 243.
240 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
interpretation of the comments by Angela Krewani, calling them a “parody of
the linguistic exegesis”19, may fall just as short as the critical assessment in an
article by Andrew Taylor (2004: 148):
Unfortunately, the “visual commentary” provided by A TV Dante is unlikely
to satisfy the fastidious tastes of the academic audience whom it addresses
since, as Amilcare Iannucci notes, the televised Lectura Dantis produced
by RAI in 1988 had not even been able to do that with its use of eminent
Dantisti such as Nino Borsellino and Giorgio Petrocchi. […] The arbitrary
selection of these “talking heads” cannot fail to disappoint the academic
viewer of A TV Dante since their expertise is less than that of the specialist
audience they address.
In my opinion, Greenaway and Phillips did not intend the use of commentators to impart extensive knowledge about the Divina Commedia. As footnotes
inside the logic of the adaptation of a book structure in a film, they rather
serve a plausible and mainly formal aesthetic purpose.
Translation of the Inferno in a “symbolical TV-language”
Alongside the filmic imitation of elements usually found in books, Tom Phillips and Peter Greenaway used a further means of design for the production
of A TV Dante, with which they realised their main ideas in the film: they
transferred the poetic text into a “symbolical TV-language”.
Phillips and Greenaway used Phillips’ artist book as a source of inspiration, when filming Dante’s Inferno. Just like in the book, where the English
translation of Dante’s verses by Tom Phillips is printed on one side and his
illustrations on the other, in A TV Dante the Inferno-text and its artistic audiovisual adaptation in film sequences are running next to each other, yet they
belong together.
During the entire film, only interrupted by the footnote commentators,
Bob Peck as Dante and Sir John Gielgud as Virgil, as well as a few other characters, recite the slightly shortened version of the Inferno translation by Tom
Phillips.20 The speakers are faded in for short sequences during the cause of
the film; their faces are in sharp contrast to a black background, speaking
directly to the viewer just like news readers. During these sequences, the attention of the viewer is focused on the wording of the poetry; the original
character of the Inferno as a form of spoken art remains present.
Before the speakers have their first appearance in Canto I, a golden bust of
Dante Alighieri’s death mask is visible, slowly merging into Bob Peck’s face. It
19. Translated from German: “Parodie textwissenschaftlicher Exegese” (Krewani 1998: 257).
20. Phillips himself acted as speaker in the pilot film with exception of the voice of Beatrice; for
the casting of the leading role in the subsequent film-project, stars such as Clint Eastwood
and Max von Sydow were considered (Phillips 1992: 238, 240).
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 241
is possible that it is intended to suggest to the viewer that in the film Dante
and with him the poem are revived to new life.
Phillips and Greenaway lay the filmic adaptation of the Inferno-text over
the recitation of the text. For the filmic adaptation they used three main
materials. First of all, the artists collected scattered pieces of film and audio
material. They commissioned a staff member to search for audio and film
documents in a Dutch archive, which would fit their fairly vague information
– i.e. “eye surgery”; “military women” (Phillips 1992: 243).21 They used this
material, which contained excerpts from nature films, documentaries, feature
films, historic material and many more, to put together the pictures they needed. Secondly, they shot and edited sequences with naked actors representing
the punishments of the souls in hell. E.g. the “greedy and the squanderers” of
the fourth circle of hell walk like waves in a half circle towards each other and
eventually bounce off each other; the circular movement of the bodies is triggered by mirroring the image. And thirdly, they used computer generated writing and images, for examples the letters “LOVE” or a yellow, shining triangle.
Phillips and Greenaway took these materials to create their artistic adaptation of the Inferno. The best way to describe their adaptation is to see it as a
“symbolical translation” of the text.22 Greenaway himself often speaks of a specific film or even “television language” (Gras, Gras 2000: 122), which he tries
to develop and use in the context of his non-realistic film aesthetic. This can
be understood as a “semiotic” approach, pointing to Greenaway’s intention
to “downplay the interest in the referent, the what, and to focus on the how,
i.e. to pursue a semiotic interest in cinema as language” (Gras, Gras 2000: xi).
21. Compare Phillips on music (1992: 244): “Although the soundtrack was being prepared all
the time we were editing, it inevitably became somewhat of a poor relation to the screen
imagery. In what was an amazingly harmonious collaborative relationship between two
opinionated artists we only had two running disputes. One concerned the presence of
music. I maintained that it was axiomatic that Hell itself was devoid of music, although
references to the outside world could of course have a musical content. Peter felt justifiably,
that composed music would contribute to the atmosphere of the film. In the end we found
a compromise by restricting ourselves to the use of sound from our source material, which
with the odd tape-loop (and a tinny I made up on a synthesizer) gave us our sound world.
As with the picture there are recurrent motifs; the noise of the cardiogram, a speeded up
tape-loop of plainsong (a kind of nimbus for Beatrice and other heavenly agencies) etc.
The use of words themselves as a concrete sound motif was another fruitful, if slightly
underexplored device […].”
22. Greenaway himself declared: “The whole purpose of my cinematic effort is to explore
metaphor and symbol” (Gras, Gras 2000: 98); also: “I employ a cinema of methaphor, of
fable, of symbolism” (Gras, Gras 2000: 155). Earlier interpreters, especially Tracy Biga and
Nancy Vickers, have introduced the term “translation” in the interpretation of A TV Dante.
With exception of Nancy Vickers, who opts for the idea by analysing the integration of
Eadweard Muybridge’s pictures in the film, this idea has so far not be used as a basis for a
thorough structural analysis of the film, missing many elements of the deeper structures of
it (Biga 1994).
242 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
In their filmic adaptation of the Inferno, Phillips and Greenaway portray some of the main statements of the text in film and audio sequences.
These schematic basic units can be perceived as picture-like, or rather acoustic
“vocabulary”.23 These elements are first and foremost “symbolic”, which allows
to reconstruct their meaning. To mark the symbolic meaning of the pictures
and film excerpts – meaning the things shown do not represent themselves
but rather refer to something different – they are digitally alienated. This
happens among other things by changing the natural colours, by enhancing
details from pictures, by zoom, time lapse, slow motion, loops, duplication,
mirroring, framing, and so on. Depending on the context, the film vocabulary is repeated identically or slightly changed, marking a different meaning.
Speaking metaphorically, this could be seen as a “flexion” or rather “filmic
grammar”.
Canto I for example starts – even before the recitation of the text begins
– with collaged ultrasound pictures (Fig. 7). Phillips and Greenaway chose
the frame of an ultrasound picture as their first picture. The name of the hospital (“Canisius Wilhelmina Zieckenhuis”), where the picture was taken, is
written in white letters on a black background in the top left corner. The date
(“05.08.87”) is in the top right corner, as well as abbreviations and numbers,
which seem to have a technical or medical meaning. The name “alighieri d.”
can be seen written in typescript underneath the original patient’s name. After
a short moment, a black and white ultrasound circle appears to the left of the
center with the words “thursday / april 7 18:00” written in capital letters.
The writing disappears and is replaced by two quickly spinning clock hands.
Where the numbers three, six and nine would normally be found on a clock,
the numbers “0”, “35”, “>70” have taken their place. The slower of the two
clock hands moves from 0 to 35. At the same time, a funnel-shaped ultrasound
of an echocardiography appears on the right, with a lit-up heartbeat and the
regular heartline of an ECG in the bottom left corner of the picture. The fast
beeping of a heartbeat monitor, as well as traffic noise and the honking of a
horn can be heard in the background.
All in all the first film sequence in Canto I visualises the opening line of
the Divina Commedia: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. In this phrase
Dante refers to the ideal biblical age of a person of seventy years (Gmelin 1988:
26). With the round, clock-like ultrasound picture and the clock hand on the
“biological clock”, Phillips and Greenaway probably wanted to visualise the
point in the middle of the fictitious Dante’s life with his thirty-five years. The
circle shows the assumed day and time, when Dante embarks on his journey
to the afterlife. The heartbeat in the echocardiography can be interpreted as a
23. Greenaway himself uses the term “vocabularies” to describe his ‘film language’ (Gras, Gras
2000: 151).
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 243
hint towards his psychological and physical condition; after the sequence with
the ultrasound, the viewer learns that Dante is in a state of fear and confusion
(If. I 1-6):
Just halfway through this journey of our life
I reawoke to find myself inside
a dark wood, way off course, the right way lost.
How difficult a task it is to tell
what this wild, harsh, forbidding wood was like
the merest thought of which brings back my fear […].
Not only at the beginning of Canto I, but also on several other occasions
during the film, Phillips and Greenaway make use of the circle, the cardiological funnel, the heartbeat line and the beeping of the heartbeat monitor.
The heartrate is used when Dante’s feelings are mentioned. Amongst other,
the mirrored cardiological funnel is shown parallel to the last cited line of
the quote above; it symbolises both Dante’s experienced and current fear.
Shortly after, when the text talks about Dante’s encounter with the leopard, a
peaking and irregular heartbeat runs along the bottom of the picture. At the
beginning of Canto II, the enlarged funnel with an irregular heartline and the
beeping of the machines recurs, while Dante fearfully ponders that he has to
prepare alone in the night for his journey through hell, while all other beings
are sleeping. Just like in Canto I, the circle is always a reference to time. It
is for example used for the collaged sequence at the beginning of Canto II,
alongside the ultrasound pictures containing a date (“good friday / april 8
18:00”), symbolizing the elapsed time the narrator is talking about in the text.
Certain signs in the film therefore symbolise similar contents in the textadaptation, with new examples in almost every sequence. E.g. the representation of Charon and Phlegyas (Inferno III and VIII), who with their boats
drive the souls over the rivers Acheron and Styx, two rivers of the underworld,
Phillips and Greenaway twice insert the same looped and increasingly zoomed
sequence of a black and white and turned into colour-negative film sequence
of a bearded rower. They obviously did not focus on a diversifying representation of the two different mythological figures, but on the symbolic representation of the figures in their function as rowers.
Or they used radar images, which symbolise (mostly) divine elements with
their five concentric circles and punctiform movements: “A Marconi radar
film of aeroplanes circling about an airport gave us, with concentric circles
and an aetherial blips of movement, the ideal image of medieval cosmology,
complete with angels in flight” (Phillips 1992: 243). The radar circles therefore
always occur when the text talks about God or the divine. They also serve as
halos behind the faces of Beatrice, Maria and Lucia, who in the narrative of
the Divina Commedia were sent from heaven to bring to pass Dante’s salvation
244 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
(end of Inferno II). They also circle an actress, who in Dante’s interpretation
represents the allegorical figure of Fortuna.24 With a different meaning, Greenaway and Phillips use radar images, which are not shown head-on anymore,
but are introduced diagonally. This is a representation of the circles of hell
created by God, or can also be seen as a “real” radar, when Phlegyas’ boat
approaches at the beginning of Inferno VIII.
Just like in the artist book, Phillips and Greenaway do not continuously
transfer the polysemy of Dante’s poetry in their adaptation, but at least in
some instances. Phillips (1992: 246) explains in the postscript to the film, referring to Dante’s famous letter of dedication for the Paradiso to his benefactor
Cangrande della Scala:
Dante, in a letter to his patron says: “The work I have made is not simple; rather it is polysemous, by which I mean that it has many levels of
meaning.” The intention here was to try to match Dante’s claim in visual
terms, to have the richness of an illuminated manuscript combined with
the directness and impact of a newspaper’s front page. We also aimed to
carry Dante’s three levels of meaning (outlined in the same letter quoted
above). The first level is the Literal, by means of the actors and the simple
actions of events. The second [sic] is the Allegorical, by the addition of imagery that throws light on the text from different angles. The last level that
Dante mentions is the Anagogical (meaning the mysterious resonance with
existential truth). We hope that, when we’ve got things right, this unsayable
essence inhabits the texture of the work itself. [The fourth, moral, sense is
left apart by Phillips (TK).]
This method can clearly be seen in Canto I, when Dante’s encounter with the
three wild animals – leopard, lion and she-wolf – is described.25 I have already
analysed the corresponding illustration by Phillips above, a comparison of
picture and film therefore is elucidating here.
While the text of Dante’s Inferno is spoken, the film shows “an agile leopard moving at full speed” (If. I 32). The text continues saying, “and covered
with a coat of spotted fur!” (If. I 33), the following caption shows the closeup of a leopard skin, one of them in a small, the other one in a bigger box.
Sequences of nature films about leopards are presented in a footnote box in
the background, with the commentator Peter Attenborough explaining the
allegoric meaning of the leopard: “The leopard was thought to be an offspring
of the union of a lion and a panther. Sprung from two different parents, the
animal leopard might be regarded as the specifical symbol of sexual lust.”
24.See If VII 73-80: “Colui lo cui saper tutto trascende, / Fece li cieli e diè lor chi conduce /
Sì, che ogni parte ad ogni parte splende, / Distribuendo egualmente la luce: / Similmente
agli splendor mondani / Ordinò general ministra e duce / Che permutasse a tempo li ben
vani / Di gente in gente e d’uno in altro sangue […].”
25. Compare also the Veltro-prophecy at the end of the first canto in the Inferno (often paralleled with the DUX-prophecy in tle last canto of the Purgatorio)
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 245
This commentary is followed by erotic female laughter. In the next verses,
“It wouldn’t go from me but faced me out / and blocked my progress so insistently / I turned and turned in order to head back” (If. I 34-36), a looped
recording of a leopard moving towards the viewer alternating between right
and left is shown in a small box in the middle of the picture. A close-up of the
leopard skin can still be seen in a bigger box behind it. At the end of the verses, the close-up of the leopard skin remains in the background. In the center
of this image, a small box with the caption of a lion is shown, which seems to
be running towards the viewer twice in a black and white caption, once fast
and once slow (“He seemed to come straight at me”, If. I 45). The lion also
remains as a screenshot, tinted in red in the background, while Peter Attenborough explains in a little commentary box that lions have been imported
to Europe since the Roman times and that Dante had surely seen a lion once.
Film sequences repeatedly run behind Attenborough, showing a lion jumping
through a burning hoop. These two images – leopard and lion – are followed
by a third box, containing the purple-greenish tinted pictures of a running
dog by Muybridge. Attenborough points out that in the Middle Ages wolves
were seen as wild dogs, which had left civilization.26 The footnote-box contains excerpts from a nature film with wolves in the snow. In conclusion Tom
Phillips explains in a commentary box in front of the “beastly trinity” (Fig. 8),
a possible allegoric meaning of the scene: “The trinity of beasts represents the
levels of sin: the leopard, the superficial sins of flesh and concupiscence; the
lion, the sins of ambition and pride; and the she-wolf, the deep-seated sins of
envy and malice.”
The transferred meaning of the animals – incontinentia, malitia and feritas / matta bestialitade – is therefore designed by the directors, by layering
three different sized boxes, which correspond with the sequence of the sins in
the Inferno and the funnel of hell. The selection of the nature-film sequences
behind the commentators might also be in correspondence with the structure
of hell: moderately severe sins are usually punished with fire in the Inferno,
with the sinners starving in a boiling stream of blood, in a desert of fire, in
burning graves or the soles of their feet burning; correspondingly the lions in
the film jump through burning hoops. The most severe sins on the other hand
have to be atoned for in the perpetual ice of Cocytus, the lake of hell where
shadow images of the souls are frozen; and the wolves in the film are shown in
an icy, snow-covered landscape.
Within the symbolical adaptation, Tom Phillips and Peter Greenaway also
updated the medieval Inferno in some areas. Just like in the artist book – I
26. Phillips points out himself (1992: 244): “The lion appears abruptly in a head-on leap to
emphasise the confrontational aspect of aggression.”
246 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
have addressed the example of the towers of San Gimignano and the skyscrapers in New York – the updates are mostly used associatively.
Among others, Phillips and Greenaway transform the “wild forest” mentioned by Dante in the opening verses where he gets lost, into a street at
night, high rise buildings, traffic noise and provocative female laughter; they
can – according to the implicit poetry – cause similar confusion as the dark
forest in the original version. At the beginning of Canto II, the face of Joanne
Whalley is superimposed with the faces of Marilyn Monroe, Louise Brooks,
Joan Crawford and Jean Harlow, drawing a comparison from Dante’s distant,
adoring love for Beatrice, to the modern day idolizing of celebrities (Phillips
1992: 240). In the third canto, which talks about mediocre souls, meaning
those which were neither good nor bad, Dante’s cryptic hint towards a “pope
who committed a great refusal” is modernized. Dante refers, without using
names, to Pope Celestine V (5th July - 13th December 1294), who had to leave
his appointment shortly after his election and was replaced with Boniface VIII
(1294-1303), whom Dante hates. By layering the pictures with film scenes of
deported Jews in the background and captions of Pope Pius XII (1939-1958)
in the first picture, the medieval pope is structurally put on the same level as
his modern successor, who did not take an unequivocal stand with the Jews
during the Second World War with his reserved attitude.
Just like in the illustrations by Tom Phillips, the film only has a few, isolated references to modern affairs. To update their work, Greenaway and
Phillips chose highly symbolic and therefore recognizable pictures, which are
based on structural similarities to the original text, and portray them as modern “signs”. Using these selective and associative updates, A TV Dante might
have some references to modern facets of meaning, but it cannot be systematically interpreted with reference to the here and now, neither does it systematically criticize the modern society, using Dante’s system of sin and punishment
(Krewani 1998: 259). The updates, in my opinion, serve an anti-illusionistic
and focus on an outer aesthetics artistic approach, which Greenaway explains
the following way:27
My interest in cinema has a lot to do with aesthetics and definitely not
much with politics. Making this statement, I am however aware that it is
hardly possible to string together three words or to come up with a film
27. Retranslated from German into English: “Mein Interesse an Kino hat sehr viel mit Ästhetik
zu tun und ganz sicher nicht mit Politik. Allerdings bin ich mir bei dieser Aussage natürlich
bewusst, daß es kaum möglich ist, drei Wörter aneinanderzureihen oder eine Handlung
zu entwerfen, ohne damit auf irgendeine Art und Weise implizit politisch zu sein. Was ich
mache, sind Kunstprodukte. Es sind keine Ansichten über die Welt, keine Ausschnitte aus
dem Leben, vielmehr künstliche Kreationen, und ich möchte, daß sich das Publikum beim
Zuschauen immer der Tatsache bewußt ist, daß es ein Kunstprodukt vor Augen hat. […]
Ich hasse schon die bloße Andeutung, ich könnte didaktisch oder polemisch sein oder eine
Botschaft haben” (Lüdecke 1995: 224-225, 228).
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 247
plot without being at least implicitly political. What I do is art. These are
not views on the world, no extracts of a life, but rather artistic creations,
and I want the audience to be aware that it is looking at art. […] I hate
the indication that I am being didactic or polemic, or that I have a specific
message.
3. Reception of the film
The reactions to A TV Dante were very variable.28 A reviewer wrote on the
one hand for the London Times: “Nothing quite like it has been seen on television before” (xy 1990). Robert Köhler called the adaptation in an article for
the Los Angeles Times a milestone in the genre of literary screen adaptations:
“TV Dante is a delirious celebration of video art and a genuinely post-modern
examination of Dante’s Inferno. […] It’s already a landmark in how video can
interact with and enrich texts” (Köhler 1990). And the film was awarded with
the first prize as best video-production of the year at the Montreal International Film and Video Festival 1990 and the Italian film festival in Urbino 1991, as
well as a special award at the Prix Italia.
But there were also critical voices. In contrast to Robert Köhler, who valued the screen adaptation as a successful artistic adaptation of Dante’s Inferno,
which “enriches” the original text, David Wallace (1993: 255) draws a different
conclusion in a short paragraph on A TV Dante in The Cambrige Companion
to Dante:
Dante has now entered the television and video age, but not with any great
conviction: the TV Dante of Peter Greenaway and Tom Phillips […] has
some nice touches […], but seems likely to collapse of its own bombast
and inertia. What gets lost, or diminished in this orgy of flashing images
is the word […].
Andrew Taylor, lecturer at the University of Oxford, gives an account of the
negative feedback from his students on the first part of the film, which they
saw during their holidays, at the beginning of his essay “Television, Translation, and Vulgarization: Reflections on Phillips’ and Greenaway’s A TV Dante”
(Taylor 2004: 145):
When the term recommenced at Oxford the following October [1990],
I remember that the four episodes were the subject of some comment in
tutorials and not much of it was favourable! Of course, this negative reaction was the result of expectations of “textual fidelity” engendered by the
long tradition of BBC literary adaptations, such as the recent productions
of Sense and Sensibility and Middlemarch […]. In other words, viewers
expected a dramatization of the Inferno complete with medieval costumes
28. Further statements in Taylor 2004: 145.
248 Dante e l’arte 2, 2015
Tabea Kretschmann
and macabre stage sets that would accurately reflect the images they first
conceived when they read Dante in high school.
He himself is of the opinion that this adaptation is too unusual and complicated for “normal” television audience: “[…] the directors presume too much
from a mass audience, which […] is accustomed to a quite different emphasis
on character and plot in BBC literary adaptations” (Taylor 2004: 147). Andrew Taylor therefore concludes (2004: 151):
I have still not escaped the preference for BBC-style literary adaptations
that are faithful to the spirit of the original. In my defence, I should explain
that those painstakingly accurate BBC costume dramas are viewed in a very
particular cultural context: usually at five o’clock on Sundays, to coincide
with teatime, and just before the six o’clock religious service broadcasts,
typically from a picturesque Anglican church in the countryside.
Whether Tom Phillips and Peter Greenaway actually “enrich” (Robert Köhler)
the text of Dante’s Inferno with their screen adaptation, or whether it “diminishes” its significance (David Wallace) is up to each individual viewer to
decide. In my opinion it is important to point out and even understand that
the artists in A TV Dante – Cantos I-VIII convincingly managed to implement
their own ideas: they realised a new TV edition of Phillips’ artist book for
Dante’s Inferno, which has a noticeable connection to its previous edition.
Based on Phillips’ cycle of illustrations, they also developed a new strategy of
adaptation for a literary text, for which they did not turn the literary plot into
a motion picture (as seen in the BBC-adaptations of Middlemarch or Sense and
Sensibility), but transferred the text from a formalistic orientated point of view
into a symbolical film language. In the course of this, Phillips and Greenaway
also expanded the popular forms of expression on television at that time,
especially by using hypertext structures.
All in all, the choice of Dante’s Inferno as the text template, similar to
the novella A Humument, can be seen as mostly coincidental. Phillips’ illustrations, as well as the TV adaptation, were originally commissioned works.
The “random element” as part of this adaptation, however, corresponds with
the artistic ideas of Phillips and Greenaway, who mainly concentrated on
a structural level in their work. The underlying basic assumption can therefore be summed up with Greenaway’s personally chosen maxim: “In my
opinion, what matters most for every type of art is form and structure, not
the content.”29
29. Retranslated from German into English: “Meiner Ansicht nach ist letzten Endes das einzig
Bedeutsame jeder Art von Kunst ihre Form und Struktur und nicht ihr Inhalt” (Taylor
2004: 242).
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Fig. 1: Tom Phillips, A Humument
Fig. 2: William Blake, Inferno I
Dante e l’arte 2, 2015 249
250 Dante e l’arte 2, 2015
Fig. 3: Gustave Doré, Inferno I
Fig. 4: Tom Phillips, Inferno I
Tabea Kretschmann
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Fig. 5: Tom Phillips, Inferno II
Fig. 6: Tom Phillips, Inferno XXXI
Dante e l’arte 2, 2015 251
252 Dante e l’arte 2, 2015
Fig. 7: screenshot from A TV Dante (Canto I)
Fig. 8: screenshot from A TV Dante (Canto I)
Tabea Kretschmann
A TV Dante – Cantos I-VIII (1989) by Peter Greenaway and Tom Phillips
Dante e l’arte 2, 2015 253
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Dante e l’arte 2, 2015 255-274
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene
(con un’apparizione di Salvatore Sciarrino)
Simone Caputo
Università di Roma “La Sapienza”
[email protected]
Riassunto
L’indagine propone una disamina di Lectura Dantis, lavoro di Carmelo Bene del 1981, alla
luce delle riflessioni di Vincenzo Caporaletti sul Principio audiotattile, utilizzate in questo
caso di studio per un primo avvicinamento al teatro “sonoro” di Carmelo Bene. L’idea di
affrontare Lectura Dantis dal versante della musica e non da quello del teatro deriva dalla
lettura di due scritti dedicati a Bene: Antropologia di una macchina attoriale di Piergiorgio
Giacchè e Un muezzin per Dante di Andrea Cortellessa, che ravvisano nelle qualità soniche
dei lavori che Bene produsse tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta, alcuni dei cardini
del suo essere “dentro e contro” l’arte della scena. Il principio audiotattile, attraverso la
“codifica neoauratica” (la registrazione sonora), invita alla scoperta dei valori che attraversano Lectura Dantis di Carmelo Bene, restituendo una lettura organica di un fenomeno complesso, difficilmente categorizzabile, che nacque dall’intersezione tra una commemorazione
pubblica (la celebrazione dell’anniversario della Strage di Bologna, 1980), un canone della
letteratura italiana (la Divina Commedia), una performance scenica atipica (Bene si esibì
sulla Torre degli Asinelli di Bologna), phoné e musica (composta, montata, amplificata).
Parole chiave: Carmelo Bene; Lectura Dantis; teatro sonoro.
Abstract
This paper offers an analysis of Lectura Dantis, a work of Carmelo Bene from 1981, in the
light of the reflections by Vincenzo Caporaletti and his Principio audiotactile and the use
in this case of the study for a first approach to the “hearing” theatre of Carmelo Bene. The
idea of facing a Lectura Dantis with music and theatrical effects comes from the reading of
the two writings dedicated to Bene: Antropología di una macchina attoriale di Piergiorgio
Giacchè and Un muezzin per Dante by Andrea Cortellessa that analyses the sonic quality
of the work that Bene produced at the late 1970s and early 1980s, some of his cornerstones
being “in and against” the art scene. The audio tactile principle of his “codifica neoaurica”
(the sonic register) invites and reveals the values that are to be found in the Lectura Dantis
by Carmelo Bene, replacing an organic reading of a complex phenomenon, of difficult
categorization, that is born from the intersection of a public commemoration (the celebration of the massacre of Bologna, 1980), a canon of Italian literature (The Divine Comedy),
an atypical performance (Bene performed from the Tower of Bologna), phone and music
(composed, produced and amplified).
Keywords: Carmelo Bene; Lectura Dantis; Sonic theatre.
issn 2385-5355
256 Dante e l’arte 2, 2015
L
Simone Caputo
Premessa
a presente indagine si propone di tentare una disamina di Lectura Dantis,1
lavoro di Carmelo Bene del 1981,2 alla luce delle riflessioni elaborate da
Vincenzo Caporaletti sul Principio audiotattile, quale elemento cardine nel
processo di produzione segnica delle musiche non appartenenti alla tradizione
eurocolta, e utilizzato in questo caso di studio, producendo un’ovvia forzatura,
per un primo avvicinamento al teatro “sonoro” di Carmelo Bene.3 Per Principio audiotattile Caporaletti intende quel principio
sintetico, organico, globale di adesione somatico-comportamentistica alla
dimensione sonora, in funzione del quale il materiale musicale si configura
ed organizza in uno specifico senso linguistico-formale. Dà luogo ad una
modulazione fisico-gestuale di energie sonoro-musicali, agendo in modo
determinante ai fini della strutturazione del testo musicale (Caporaletti
2005: 106).4
Tale concezione ha lo scopo di modellizzare fenomeni creativi caratteristici di quelle musiche contemporanee non riconducibili agli svolgimenti della
tradizione d’arte scritta occidentale (con riferimento particolare al periodo
romantico e post-romantico).
Va ricordato che la teoria mediologica audiotattile trae forza e suggestione
primariamente da un’applicazione in campo musicologico di concetti elaborati dalla cosiddetta scuola di Toronto (segnatamente, Marshall Mc Luhan e
Derrick De Kerckhove):5 in questo ambito il ruolo del medium comunicativo/
formativo, viene considerato come non neutrale ai fini della elaborazione e
*
Un particolare ringraziamento va a Goffredo Fofi e Piergiorgio Giacchè, per i materiali di
studio e i ricordi personali con cui hanno supportato la presente indagine. Il titolo ricalca
quello di un precedente contributo analitico di Marco Angius dedicato a Salvatore Sciarrino:
Sui poemi concentrici. Da Sciarrino a Dante (con un’apparizione di Carmelo Bene) (Angius
2002: 50-56).
1. Lectura Dantis, voce recitante Carmelo Bene, musiche di Salvatore Sciarrino, musicista
solista David Bellugi; fonici: G. Burroni, M. Contini, B. Bucciarelli; regia mixer: Carmelo
Bene; produzione: Rino Maenza. Bologna, Torre degli Asinelli, 31 luglio 1981.
2. Alla figura di Carmelo Bene (1937-2002), attore, regista, drammaturgo, filosofo, scrittore
e poeta italiano, è dedicata una vasta bibliografia, tra i cui titoli si segnalano: Grande 1982;
Fofi, Giacchè 1995; Giacchè 2007. Sul percorso artistico e di vita di Carmelo Bene cfr. Bene,
Dotto 1998.
3. L’idea di affrontare Lectura Dantis dal versante della musica e non da quello del teatro si deve
in particolar modo alla lettura di due scritti dedicati a Carmelo Bene: la già citata monografia Antropologia di una macchina attoriale di Piergiorgio Giacchè e l’articolo Un muezzin per
Dante di Andrea Cortellessa che, pur se in modo diverso – il primo ripercorrendo l’intera
produzionedi Bene, il secondo concentrandosi sulla registrazione sonora di Lectura Dantis
–, ravvisano nelle qualità soniche delle perfomances di Bene alcuni dei cardini del suo essere
“dentro e contro” l’arte della scena. Per questa ragione gli scritti di Giacchè e Cortellessa
ritorneranno più volte nel corso della presente indagine, citati in qualità di supporti fondanti per un avvicinamento ad un esempio significativo di teatro “sonoro” beniano.
4.Sul Principio audiotattile cfr. anche Caporaletti 2000.
5. Cfr. McLuhan 1962 e 1964; McLuhan, McLuhan 1988; De Kerckhove 1991.
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene
Dante e l’arte 2, 2015 257
della ricezione dei messaggi; ad essere posta in rilievo è “la funzione dinamica
che i principi epistemici inglobati nell’assetto mediale, attraverso cui i costrutti culturali sono prodotti e comunicati, esplicano sulle valenze simboliche dei
costrutti stessi, oltre che sulla riconfigurazione dell’assetto percettivo e sugli
schemi concettuali di chi li produce e recepisce” (Caporaletti 2010: 51-52).
Bisogna infine sottolineare che la specificità del principio audiotattile si manifesta compiutamente nella fattività della produzione del testo in presenza,
anziché della riproduzione musicale esecutiva di un testo creato in assenza: il
principio audiotattile “ha la sua magnificazione nel momento in cui per la comunicazione musicale si passa da un regime allografico, quello della notazione, che presuppone una diversificazione di ruoli tra compositore ed esecutore,
a quello autografico, in cui sono poi embricati, attraverso la medialità tecnologica, i processi che definisco di codifica neoauratica” (Caporaletti 2010: 54).
Con codificazione neoauratica Caporaletti intende una concezione antinomica
a quella della perdita dell’aura per l’opera d’arte nell’era della riproducibilità
tecnica, così come teorizzata da Walter Benjamin nel 1936 (Benjamin 2014:
19-56). Se è infatti indubitabile che con la replicabilità tecnologica si debba rinunciare all’unicità dell’opera dal vivo, è altrettanto vero che “gli aspetti riconducibili al principio audiotattile trovano nella registrazione sonora il mezzo
per una fissazione di alcuni indici significativi delle qualità processuali/evenemenziali, che ricostituiscono per queste formazioni musicali un nuovo modello di auraticità attraverso il supporto tecnologico” (Caporaletti 2010: 54).
Alla luce di questa premessa, nel corso della disamina che segue si osserverà
come il principio audiotattile (che si propone come modello cognitivo), attraverso la codifica neoauratica (la registrazione sonora), inviti a una scoperta
dei valori che attraversano un processo creativo come quello rappresentato
da Lectura Dantis di Carmelo Bene, restituendo una lettura profonda di un
fenomeno complesso che nasce dall’intersezione di commemorazione pubblica, perpetuarsi di un canone della letteratura italiana, performance scenica,
phoné, musica (composta, montata, amplificata), e per questo difficilmente
categorizzabile.
1. Bologna, Torre degli Asinelli, 31 luglio 1981
Prese a soffiare un vento di scirocco che fastidiava non poco li megafoni issati
in su le lance. Io mi forzavo trattener gli spirti e darmi pace, come usa pugilatore avanti la sua tenzone.
Era l’ora. M’inerpicai sui pioli d’una impervia scaletta e finalmente mi
mostrai alla folla che, meravigliata forse più di un suo numero che del
miraggio mio, salutò in me l’attesa. Fu di plauso un boato indescrivibile
che si ripercoteva dalle piazze lontane e ne le strade adiacenti tutte.
258 Dante e l’arte 2, 2015
Simone Caputo
Apparvi. Li occhi mia chiusi al leggio luminescente, presi a cantar li versi
d’Allegheri. Ma d’altrove, nel tempo delle nevi e del vin cotto di mia parvola vita. E venni meno, e il canto seguitò come profferto da ser Boccaccio
in quella villa istessa settecent’anni prima. Li suoni rincorreansi sovra i tetti,
e il silenzio divoto de le genti omai fatte incantamento mi suase al dolce
vanire (Bene 2005: 76-77).
Così Carmelo Bene ricordava la sua Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli, avvenuta il 31 luglio 1981, nell’anniversario della Strage di Bologna.6
L’occasione commemorativa – non trascurabile nell’analisi della performance
– fu accompagnata da numerose polemiche: come testimoniano i quotidiani
dell’epoca,7 la scelta del sindaco Renato Zangheri8 di affidare a Bene l’orazione in ricordo delle vittime dell’attentato suscitò diversi malumori, al punto
che alcuni esponenti del consiglio comunale non esitarono a definirla “una
pagliacciata”, mentre il socialista Massimo Pini, membro del consiglio d’amministrazione Rai, bocciò il progetto delle riprese televisive dell’evento. Al
contrario si trattò, come ricordano numerosi testimoni che vi presero parte,
di una serata auratica (Cortellessa 2004):9 lo stesso Bene individua nel suo
6. La strage colpì la stazione ferroviaria di Bologna la mattina di sabato 2 agosto 1980; fu uno
degli atti terroristici più gravi avvenuti in Italia nel secondo dopoguerra e al contempo uno
degli ultimi atti della strategia della tensione che sconvolse la nazione negli anni Settanta.
Nell’attentato rimasero uccise 85 persone ed oltre 200 furono ferite. Come esecutori materiali la magistratura ha condannato alcuni militanti di estrema destra, appartenenti ai
Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. I
mandanti sono tuttora sconosciuti.
7. Si propone di seguito una selezione dei numerosi articoli apparsi sui quotidiani nei giorni
precedenti e seguenti alla Lectura Dantis: S. Colomba, “Carmelo Bene: ‘Io verrò in ogni
caso, chi non mi capisce è un provinciale’”, Il Resto del Carlino, 5 luglio 1981; “Il programma
uscirà indenne dalla bufera delle polemiche?”, Il Resto del Carlino, 8 luglio 1981; R. Palazzi,
“Ma questi milioni sono per Bene?”, Il Corriere della Sera, 22 luglio 1981; V. Monti, “Alla
vigilia della recita Bene polemizza su giovani e terrorismo”, Corriere della sera, 31 luglio 1981;
F. Pezzato, S. Colomba, “Un Carmelo Bene ‘teologico’ al di sopra delle polemiche”, Il Resto
del Carlino, 31 luglio 1981; Goldoni L., “Dante Best-seller con il prof. Bene”, Corriere della
Sera, 2 agosto 1981; C. Marabini, “Dante sull’Asinelli: ha vinto la poesia”, Il Resto del Carlino, 2 agosto 1981; M. Scialoja, “Celebrazioni Bolognesi – ‘La Merda’, poema di Carmelo
Alighieri”, L’Espresso, 2 agosto 1981.
8. Così Rino Maenza ricorda la nascita della commissione: “La Lectura Dantis a Bologna
nacque da una passeggiata notturna di un dopo teatro, quando il sindaco Zangheri chiese
a Carmelo: ‘Perché non fai qualcosa che ricordi laicamente la strage della stazione?’ E
discutendo, ragionando così, venne fuori: ‘Ecco, bisognerebbe fare una riflessione laica,
recuperare la Bologna di Dante’” (cfr. Maenza 2012: 223). La storia del forte legame di
Carmelo Bene con Bologna risale a molto tempo prima del caso Lectura Dantis: nei primi
anni Sessanta, infatti, Bene era ancora un giovane sperimentatore del teatro d’avanguardia e
l’allora assessore alla cultura provinciale Carlo Maria Badini lo ospitò nel piccolo teatro della
Ribalta. Il suo primo spettacolo da autore fu un evento unico: Majakovskij. Quattro diversi
modi di morire in versi, un’antologia di alcune pagine poetiche di Majakovskij, Esenin,
Pasternak e Blok. Una sola recita, che andò in scena il 26 gennaio 1960, lo vide sul palco
accompagnato al pianoforte da Sylvano Bussotti, il quale aveva composto musiche originali
per lo spettacolo. Fu questa l’occasione per l’inizio di un fortunato e duraturo rapporto
artistico tra Carmelo Bene e le istituzioni bolognesi.
9. L’articolo è stato scritto da Cortellessa – presente la sera del 2 agosto 1981 a Bologna – in
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene
Dante e l’arte 2, 2015 259
Dante “uno dei più infernali casini del dopoguerra ma anche il più grande,
irripetibile evento della mia vita” (Bene e Dotto 1998: 242). Le pagine relative,
in Sono apparso alla Madonna, fanno da contraltare mistico, quasi sciamanico,
scritto in dannunziano pastiche quattrocentesco, a una vicenda quanto mai
terrena. La sera del 31 luglio, Carmelo Bene, salutato da una folla immensa,
arrampicatosi su una scaletta, si installò come un vate in cima alla Torre degli
Asinelli,10 nel cuore di Bologna; si dispose, dietro al leggio illuminato, a strapiombo sulla gente ai suoi piedi (centocinquantamila circa, gli spettatori), e
cominciò la Lectura Dantis.
Anche chi non aveva mai letto Dante quella sera si emozionò. Il dolore e
la speranza della Commedia si mescolarono al dolore per i morti e alla speranza per i feriti, vissuti dalla città dal giorno dell’orrenda strage. Il silenzio
di quella sera permise di rivivere il dramma del 2 agosto. […]
Non era facile il silenzio, quella sera del 31 luglio. La rabbia era ancora
una brace accesa. Le Brigate rosse cercarono di trasformarla in rivolta armata. Poco prima della Lectura Dantis furono trovati volantini che incitavano a
costruire una “colonna armata bolognese” e un appello registrato fu diffuso
da un’auto con altoparlante. Il silenzio delle migliaia di via Rizzoli fu una
risposta. Bologna voleva giustizia, non vendette (Meletti 2010).
Bene scelse di proporre alla città un’orazione civile che si configurasse al contempo come “apparizione”: il luogo prescelto non fu un teatro, una piazza, un
grande spazio all’aperto; posizionandosi sulla cima di una torre, Bene invitò i
cittadini ad alzare gli occhi al cielo, ad assistere ad un’epifania e a perdersi nel
suono dei versi di Dante, propagati sopra i tetti e lungo le strade della città da
un gigantesco impianto di amplificazione. L’effetto generato fu simile a quello
che si può udire quando il muezzin richiama i fedeli alla preghiera (Cortellessa
2004), con la differenza che mentre il muezzin, dal minareto, modula secondo una cantilena la formula stabilita, Bene, dalla Torre, intonò un canto alla
ricerca di continue variazioni e differenti soluzioni.
I pochi elementi sin qui richiamati all’attenzione consentono di affermare
che non si può ridurre la performance del 31 luglio a mero spettacolo di recitazione: Lectura Dantis va analizzata in quanto non solo teatro, ma soprattutto
“esibizione canora”, pur nella coscienza che l’esplicitazione del cantare resta in
Bene quasi sempre “sottocutanea” ma non “implicita”.
occasione della ristampa della registrazione audio di Lectura Dantis, pubblicata da Luca
Sossella Editore.
10. Le due torri, Asinelli (la maggiore) e Garisenda (la minore e più pendente), sono il simbolo
della città di Bologna; entrambe pendenti, sono situate al centro di una raggiera, non particolarmente ampia, da cui si dipartono le principali strade cittadine. La Torre degli Asinelli
è alta 97,2 metri; la Garisenda 48 (citata più volte da Dante, nella Divina Commedia e nelle
Rime, a riprova del suo soggiorno a Bologna).
260 Dante e l’arte 2, 2015
Simone Caputo
2. Recitar cantando, o viceversa
Nel corso degli anni Settanta, Bene porta avanti un’esasperata linea di ricerca
che lo conduce alla costruzione scenica dell’assenza; il suo teatro “oppone alla
festa dell’energia – ancora attraente e plausibile per i consumatori onnivori
dello spettacolo-merce – la sua stessa decadenza” (Giacchè 2007: 123): lo spettacolo dell’assenza si fa assenza dello spettacolo, esempio magico e arcaico di
meraviglia. Facendo riferimento ai lavori di quegli anni si potrebbero ricordare
le minuzie di centinaia di micro-movimenti, semitoni smorzati, espressioni
quasi cancellate, abiti cambiati, chiusure improvvise, cesure continue, suoni
spinti a morire all’acuto o al grave, gesti ripiegati sul nascere, parole liquefatte
mentre sono ancora in gola: la costante alla quale si assiste e che si ode è la
sparizione.
Momento di transizione fondamentale è S.A.D.E., spettacolo del 1975,
ancora teatrale, in cui le macchine del suono e il suono delle macchine hanno
un peso non più periferico e un ruolo non soltanto accessorio (Giacchè 2007:
124-126): quella di S.A.D.E. è una musica del caos, che esce dai ranghi per non
farvi più ritorno. Il primato del suono, spirito guida della successiva ricerca
oltre-teatrale di Bene, diventa esplicito e conduce in un luogo inesplorato,
che è al contempo molto lontano tanto dal canzoniere brechtiano quanto
dal varietà. Il teatro di Bene della fine degli anni Settanta, scrive Piergiorgio
Giacchè, “funziona come un’opera invertita, con stacchi musicali che non
fanno da sottofondo ma che invece sfondano le parole e le trasformano in
note e, dall’altra, con battute recitate che – da qualunque testo provengano –
si distendono fin dal principio almeno in versi e diventano alla fin fine per lo
meno suoni” (Giacchè 2007: 128). Per Bene la musica è come un continente
vasto che è insensato ridurre ad aggettivo di un genere teatrale; al contrario
il teatro può spiegarsi soltanto all’interno della musica, e anche se non ne diventerà mai del tutto parte, può sopravvivere solo all’interno dei suoi confini.
Il teatro dell’assenza, a cui Bene mira sempre più a partire dagli anni Settanta, non può che essere abitato da un unico invisibile protagonista: la voce
(Giacchè 2007: 130). Essa è destinata a impersonare il vuoto e ad assorbire in
sé il corpo dell’attore, la materialità della scena, i frammenti del testo. Nella
voce l’arte scenica può regredire fino alla sua natura primigenia, liberandosi
delle convenzioni e delle costrizioni dei significati e delle forme. La centralità
restituita alla voce trasforma gli spettacoli di Bene in “concerti”: dimenticare
che quella voce nasce e si afferma come protagonista dello “spettacolo della
dissoluzione” del teatro, significherebbe però tradire Bene. L’utilizzo della voce
che Bene fa, non è il risultato di una studiata riforma della recitazione, ma,
al contrario, un cantare che si soffoca nel dire, perché la musica è la matrice e
non solo l’obiettivo della sua recitazione.
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene
Dante e l’arte 2, 2015 261
Gli spettacoli-concerto Manfred e Lectura Dantis si configurano come il
punto d’arrivo di un percorso di dissoluzione teatrale cominciato alcuni anni
addietro, e si caratterizzano per il modo unico di “cantar recitando” (Giacchè
2007) – fatto di invenzioni, variazioni e continui cambi di intonazione – che
Bene mette in atto. Egli inaugura una via originale che trasforma la questione
del rapporto tra cantare e recitare; si ha l’impressione, ascoltando la registrazione di Lectura Dantis, che dopo Bene la relazione tra teatro e musica sia così
profondamente trasformata che addirittura manchino gli strumenti terminologici per ridefinirla. Lo stesso Deleuze, ad esempio, che si era limitato a
paragonare il “recitar cantando” del Bene degli anni Settanta allo Sprechgesang,
dopo il Manfred si avvide che il tentativo operato non era quello di sovrapporre la recitazione al canto, bensì di ricavare dalla voce forze sonore che tuttavia
non si confondessero col canto: “queste nuove potenze potranno accompagnare il canto, cospirare con esso, ma non formeranno né un canto e neppure
uno Sprechgesang; è l’invenzione di una voce modalizzata o piuttosto filtrata.
[...] Si tratta al contempo di fissare, creare o modificare il colore di base di un
suono (o di un insieme di suoni), e di farlo variare o evolvere nel tempo, di
cambiarne la curva fisiologica” (Deleuze in Bene 1981: 8).
In Lectura Dantis, ancor più che in Manfred, grazie all’imponente sistema
di amplificazione utilizzato per diffondere la performance nelle strade circostanti alla Torre degli Asinelli,11 ogni verso o singola parola “recitata” sembra
allungarsi e riverberare, per dar luogo a virtuosi effetti di suono che sono
al contempo ricercati difetti di senso che “manomettono” il significato del
testo dantesco. Attraverso la mediazione degli amplificatori e del microfono,
la voce di Bene si fa “totale”, attraversando anche chi non è direttamente
sotto la Torre: la voce, allo stesso tempo corpo e strumento, affranca l’attore
dal corpo stesso.12 Il corpo-attore di Carmelo Bene che legge dall’alto, appena visibile, la Divina Commedia, inventa e restituisce alla moltitudine degli
11. Così Carmelo Bene descrive in Sono apparso alla Madonna gli stregati marchingegni, affidati
alle cure di Rino Maenza, utilizzati per amplificare la Lectura Dantis: “In verità, trattavasi
d’assai complessi ponte vociatore che permetteva ascoltare e interloquire con la bottega
ubicata in quel di via delle calzolerie e di là con gli spalti della Torre Asinelli fermentata dai
genieri del suono in bel travaglio insolato che […] esperimentavano i tuoni e lor colori e
percezione e potenza d’uopo, ché la sera scendeva e n’era forza sbaragliar le nemiche fazioni,
e, d’altro canto, produrre grande strazio di core ne le genti in ascolto. Questi genieri scelti
in su li spalti roventi del meriggio, intimoriti punto del gran tumulto de le folle in basso,
con ordigno predisposto intendevano li consigli del mastro in succitata bottega Maenza
Salvator nomato, non vedente d’occhi due e perciò abilissimo conoscitor de la musica e
inventor di congegni altoparlanti di provata efficacia atti a disperdere qual si sia resistenza
dialettica inimica con l’assordar de li timpani se in caso necessitade” (Bene 2005: 76-77).
12. Robert Murray Schafer ha coniato il termine “schizofonia” riferendosi alla dicotomia tra il
suono originale e la sua riproduzione elettroacustica. I suoni originali sono sempre connessi
con il meccanismo che li produce. I suoni elettroacustici invece sono copie che possono
essere riprodotte in tempi e luoghi diversi.
262 Dante e l’arte 2, 2015
Simone Caputo
ascoltatori, con un significato nuovo, una possibilità di ascolto mai sperimentata prima. La voce, che raggiunge anche chi in lontananza non sa cosa
stia accadendo, suscita stupore e fascinazione quasi mistiche, infernali e paradisiache al contempo, proprio grazie all’invisibilità della sorgente. La voce
filtrata dall’impianto d’amplificazione, strumento musicale assoluto, realizza
la comunicazione “da un di dentro” – quello del performer Carmelo Bene –
ad un altro “di dentro” quello del pubblico: “ecco il di dentro che trapassa a
un altro di dentro. Voce-ascolto e voce-udita, intime proprio perché dislocate,
sottratte l’una all’altra. […] Chi parla e chi ascolta sono dissociati in natura
e riassociati in tecnologia” (Bene e Dotto 1998: 337-338). E ancora, come precisato da Deleuze, “non è questo o quel personaggio che parla, ma il suono
stesso diventa personaggio, quel preciso essere sonoro diventa personaggio”
(Deleuze in Costa 2003). L’impressione generata è quella di trovarsi di fronte
a una sovrapposizione di generi; prendendo in prestito le parole utilizzate da
Gerardo Guarnieri nel recensire Faust-Marlowe-Burlesque, Bene è superbo “nel
didattico come nell’intimo, nel pop infernale come nel sardonico affettuoso;
è satrapico e orientale; la sua recitazione speziata nasillarde, eccelle nel tono
pseudo confidenziale, nel condiscendente dileggiante, nello pseudoieratico,
nell’erotico-onanistico, nel blasfemo sarcastico: che antologia, che ventaglio”
(Guarnieri 1993: 295).
Come nel caso di molte musiche che si basano sul principio dell’improvvisazione, così per Lectura Dantis e altri spettacoli-concerto di Carmelo Bene, si
potrebbe affermare che ci sono opere che appartengono solo a chi le ha “performate”, data la non riconducibilità di queste opere d’arte al solo testo che
vi sta alla base. In una ipotetica successiva riedizione di uno spettacolo come
Lectura Dantis, un attore-cantante si troverebbe a fare i conti con un solo
possibile modello di cantar recitando – quello di Bene – fuori dal quale non
si darebbe più lo stesso dissonare del senso, non si perverrebbe più allo stesso
grado di ambiguità, non si cadrebbe nello stesso equivoco, non si suggerirebbe
più la stessa sensazione. Bene, eccedendo le forme e tradendo i significati in
ogni pur minimo segmento o momento della sua recitazione, impedisce ogni
possibilità di riproduzione della sua performance, nonostante l’apparente facilità imitativa che i suoi toni e gesti vocali lascerebbero presupporre (Giacchè
2007: 131-132). La registrazione sonora dell’evento è una chiara testimonianza
di quanto affermato.13
I canti danteschi, terzine incatenate d’endecasillabi in volgare fiorentino,
potrebbero considerarsi al pari di una rigida partitura musicale che va eseguita,
13. La registrazione live di Lectura Dantis è stata edita nel 1981 da CGD, LP 20283, poi ristampata in Cd audio a cura di Luca Sossella Editore (Roma) nel 2004. Esiste anche una
registrazione video della Lectura Dantis dal titolo Carmelo Bene legge Dante, a cura di Rino
Maenza, Dvd, Marsilio, Venezia 2007.
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene
Dante e l’arte 2, 2015 263
ma per Bene leggere, riferire e dire un testo significa “dimenticarlo”. L’attore,
se si preoccupa della memoria, non può lasciare spazio e densità al delirio della
voce. E dimenticando, Bene porta avanti un processo che non è lontano dall’idea di estemporizzazione, cardine delle musiche audiotattili (Caporaletti 2005:
98-115). Tuttavia la precisa selezione di alcuni testi della Divina Commedia e
la consapevolezza di una registrazione live comportano che, nel momento in
cui la registrazione prende vita, si realizza un testo, fissato e delineato dalle sue
intrinseche strutture formali, punto di riferimento per quanti successivamente
si avvicineranno all’opera dantesca.
Cancellando il dogma della dimenticanza, che Bene impone alla lettura, le
interiezioni e le interruzioni, le accelerazioni e le sospensioni, le altisonanze e
gli sprofondamenti che animano il testo finirebbero col ruotare intorno al solo
concetto d’interpretazione occidentale. La rielaborazione personale di Bene
della Divina Commedia si compone invece dell’incessante ed esigente inventio e selezione dell’auctor e della precisione e della capacità di estemporizzare
dell’actor (Giacchè 2007: 132), cristallizzandosi attraverso la registrazione sonora in opera d’arte. Proprio come avviene nel caso delle musiche di tradizione
orale, Bene non elude del tutto le prescrizioni che gli sono poste dal testo, ma
lo flette fino all’estremo, scalfendone quei valori che gli erano stati irrevocabilmente attribuiti da una tradizione secolare (Caporaletti 2005: 14-16).
Il nuovo testo, inscritto sul supporto tecnologico di riproduzione fonografica, viene così sottratto all’evanescenza della celebrazione del luglio del 1981 e
proiettato in un’oggettiva sfera di referenzialità come oggetto estetico.
In Lectura Dantis la voce di Bene è infine medium tra il corpo dell’attore
e lo sguardo dello spettatore, assumendo in sé, oltre ai significati e ai significanti del testo, il repertorio della gestualità. La voce annulla in parte i valori
tradizionali affidati al testo di Dante e restituisce un corpo fisico alle immagini
mentali, obbligandole a un percorso uditivo sempre nuovo: un baccanale sensitivo che lo spettatore riceve come volume sonoro in continua mutazione e
che il suo occhio è chiamato a riprodurre. La voce sola trattiene in sé e rimanda l’intreccio, le situazioni, i conflitti di uno o più personaggi; si traveste nella
varietà dei sensi che le sono offerti: la sua capacità di estemporizzare, dando
corpo e anima allo scritto dei versi danteschi, rende il suo agire attraverso
l’amplificazione “pre-vedibile” agli occhi dello spettatore in ascolto.
3. “…il suono stesso diventa personaggio”
Significativa è la selezione dei canti della Divina Commedia compiuta da Bene:
egli sceglie frammenti dal V, XXVI e XXXIII dell’Inferno, dal VI e dall’VIII
del Purgatorio e dal XXIII, XXVII e VII del Paradiso, ai quale aggiunge due
sonetti dalle Rime e dalla Vita Nova, “Guido, i’ vorrei che te e Lapo ed io” e
264 Dante e l’arte 2, 2015
Simone Caputo
“Tanto gentile e onesta pare”. Paolo e Francesca (If. V), Ulisse (If. XXVI),
Ugolino (If. XXXIII), Sordello (Pg. VI), “l’ora che volge il disio” (Pg. VIII),
“i pleniluni sereni” (Pd. XXIII), i due sonetti: si tratta di alcuni dei passi più
noti della produzione dantesca – con l’eccezione delle due meno conosciute
visioni paradisiache (l’invettiva di San Pietro contro i suoi successori del canto
XXVII, e l’intonazione di lode a Dio di Giustiniano nel VII canto) – anche
perché cardini della formazione scolastica italiana di base. Tale scelta amplifica
la volontà di Bene di produrre una lettura come “non ricordo”: filtrata dalla
voce, una storia – anche la più conosciuta – con il suo dramma, riappare in
forma di eco al quadrato (perché il filtro è doppio, dal momento che la voce
passa attraverso il microfono).
Alla fluidità del narrare Bene sostituisce gli sprazzi e i singulti di un cantar
recitando che a tratti sembra ricordare quello delle prefiche, preferendo al racconto delle gesta l’evocazione delle sembianze, e alla restituzione della vicenda
lo smembramento della stessa. Quello compiuto da Bene non va però confuso
con un semplice esercizio di stile: trapassati nella voce, i versi e i loro significati riemergono mutati e, disimpegnati dall’obbligo della comunicazione, si
trasfigurano oltre la comune rappresentazione attribuita loro nei secoli. L’intento di Bene – contrariamente a quello che potrebbe cogliere un ascoltatore
disattento – è quello di restituire al testo quella densità e credibilità smarrite a
causa delle troppe meccaniche riproposizioni dello stesso. La voce che avvolge
o che mangia le parole non va verso una forma di canto evanescente, futile e
compiaciuta; si spinge piuttosto verso la riconquista del mistero stesso della
parola.
Decisiva è la scansione delle letture, che mostra quanto Bene riesca a incidere sul tempo della recitazione e del canto, deframmentando e alterando il
ritmo di una lettura che, data la struttura incatenata delle terzine, tenderebbe
a conservare una forte coesione ritmica.
Bene dà voce alla topica e veemente tensione invettivale che permea lunghi
tratti della Commedia (Cortellessa 2004): formidabili i suoni aspri e chiocci
della parlata di San Pietro (la triplice esclamazione “il luogo mio”) e il sibilare
sferzante delle rime in -aca, -esse e -aschi (Pd. XXVII),
La provedenza, che quivi comparte
vice e officio, nel beato coro
silenzioso posto avea da ogne parte,
quand’ïo udi’: “Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché, dicen’io,
vedrai trascolorar tutti costoro.
Quelli c’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
nella presenza del Figliuol di Dio,
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene
Dante e l’arte 2, 2015 265
fatt’ ha del cimitero mia cloaca
del sangue e della puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, la giù si placa”.
“Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acuisto d’oro usata;
ma per acquisto d’esto viver lieto
e Sisto e Pio e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.
Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
d’i nostri successor parte sedesse,
parte da l’altra del popol cristiano;
né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;
né ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond’io sovente arrosso e disfavillo.
In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?
Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
S’apprecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!14
(Pd. XXVII 16-27, 40-60)
Pietro, dopo aver anticipato l’aspetto che presto invaderà tutto il cielo, aumentando l’attesa di Dante e dando solennità universale alle sue parole, rivolge
una sferzante invettiva contro Bonifacio VIII indegno usurpatore, in quanto
Cristo non guida misticamente la sua Chiesa attraverso di lui e non lo riconosce come suo vicario. Il canto esibisce un allestimento di motivi tematici che
preannunciano l’immediato futuro narrativo dell’opera ed allo stesso tempo
costituiscono una chiusura rivolta al già trascorso; con le sue ritualità interne
il canto descrive un passaggio definitivo del poema, quello tra terra e cielo, tra
penitenza e beatitudine, tra sofferenza e felicità, che Bene scandisce attraverso coordinate musicali gravi e sferzanti modalità intonative, in una perfetta
soluzione di continuità tra rappresentazione musicale e poetica che precede
qualsiasi considerazione sulla terribilità di quanto viene descritto.
14. Il secondo discorso di Pietro dichiara i vizi per cui il posto del vicario di Cristo è ora “usurpato”, e lo fa attraverso la forma retorica delle negazioni. Pietro confronta la Chiesa di un
tempo con quella presente: ai martiri di un tempo si sono sostituiti papi che dividono il
popolo cristiano. Quelle chiavi che un tempo furono date a Pietro per salvare, servono ora
per portare guerra e vendere privilegi immotivati, al punto che guardando dal cielo la terra,
si scorgono in tutte le regioni del mondo abitate dal gregge di Cristo lupi famelici travestiti
da pastori.
266 Dante e l’arte 2, 2015
Simone Caputo
Quindi Bene riproduce gli eccezionali e improvvisi vortici sonori di Ulisse
nel XXVI canto dell’Inferno. Dopo la nota esortazione “fatti non foste a viver
come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”, con cui Ulisse ha penetrato
i cuori dei suoi compagni, convincendoli a solcare nuovamente le onde del
mare alla scoperta del mondo sconosciuto, prosegue la descrizione del rischioso e arduo viaggio, sino alla tragica conclusione del canto: il gorgo finale che
inabissa la nave oramai giunta di fronte all’alta cima del Purgatorio.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stesse già de l’altro polo
Vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nuova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.
(If. XXVI 121-142)
E ancora si sofferma su momenti di poetica meraviglia, quale, ad esempio,
il dileguarsi fino a svanire delle parole in legato nell’Osanna estatico del VII
canto del Paradiso. Il canto si apre con un inno di lode a Dio, cantato da
Giustiniano al termine del suo discorso (riportato nel V canto del Paradiso);
la solennità dell’apertura in lingua latina liturgica prelude al grande tema teologico che il canto tratterà, ma che Bene decide di elidere, chiudendo con le
terzine di rara bellezza 7-9, 10-12 e 13-15: esse esprimono un profondo incanto,
quasi un rapimento dell’animo, ripetuto con versi di insistente dolcezza. È
questo uno dei momenti in cui, nell’ascesa al Paradiso, tra le visioni e le parole si pone una sosta di segno mistico, quasi a punteggiare il percorso con
un richiamo costante alla misteriosa ultima realtà a cui esso è diretto. E così
come le anime svaniscono agli occhi di Dante, per l’improvvisa distanza posta
tra loro e il poeta dal rapido allontanarsi delle anime stesse, così Bene lascia
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene
Dante e l’arte 2, 2015 267
andare il ricordo dei defunti della Strage di Bologna, prendendo in prestito
l’immagine dantesca per concludere l’orazione funebre.
“Osanna, sanctus Deus sabaòth,
superillustrans claritate tua
felices ignes horum malacòth!”.
Così, volgendosi a la nota sua,
fu viso a me cantare essa sustanza,
sopra la qual doppio lume s’addua;
ed essa e l’altre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville
mi si velar di sùbita distanza.
Io dubitaba e dicea ‘Dille, dille’!
fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna
che mi diseta con le dolci stille’.
Ma quella reverenza che s’indonna
Di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l’uom ch’assonna.
(Pd. VII 1-15)
Infine Bene, nel finale del V canto dell’Inferno, indaga il tempo della commozione, scandito non dalla voce, bensì dalle pause e dai silenzi:
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
(If. V 139-142)
Il significato dello svenimento di Dante va raccolto da tutto l’andamento della
storia e dell’incontro con Paolo e Francesca narrato nel V canto dell’Inferno, e
non può essere ridotto a semplice commozione per una singola tragica vicenda; è questo uno dei punti in cui la pietà dantesca giunge ad un grado di intensità eccezionale, elevandosi a comprensione di tutta la condizione umana,
attraverso versi che esprimono tutta la fatalità di quella caduta. Ed è in virtù
di questa intensità eccezionale – che va oltre la semplice vicenda di Paolo e
Francesca – che Bene sceglie il V canto dell’Inferno per aprire la Lectura Dantis
del 2 agosto del 1981.
Attraverso l’utilizzo di spettrogrammi è possibile esemplificare alcune delle
variabili del percorso sonoro proposto da Bene, riportando graficamente gli
esempi citati: i picchi similari raggiunti e mantenuti nella triplice rima in -aca
del XXVII canto del Paradiso (Es. 1); il gorgo che la voce genera nel finale del
XXVI canto dell’Inferno prima di cadere ripetutamente (Es. 2); il legato tenuto
sulla stessa altezza dell’incipit dell’Osanna del VII canto del Paradiso (Es. 3);
le ripetute e asimmetriche pause che scandiscono gli ultimi versi del V canto
dell’Inferno (Es. 4).
268 Dante e l’arte 2, 2015
Simone Caputo
Es. 1. Pd. XXVII 16-27. Spettogramma, peak frequency (riquadro: rime in -aca, vv. 23, 25 e 27).
Es. 2. If. XXVI 136-142. Spettogramma.
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene
Dante e l’arte 2, 2015 269
Es. 3. Pd. VII 1, “Osanna, sanctus Deus sabaòth”. Spettogramma (peak frequency).
Es. 4. If. V 139-142. Spettogramma (melodic range).
270 Dante e l’arte 2, 2015
Simone Caputo
E se nei frammenti della Divina Commedia Bene sembra trasmettere tutto
il dolore per una ferita, coi sonetti restituisce pace a chi ascolta: letti come
in un’atmosfera elettrica, essi vengono a sciogliere una tensione altrimenti
insostenibile.
Nella ricerca di Bene la bocca si configura come punta del corpo; basti
pensare al marcato e perentorio staccato col quale egli pronuncia la parola
“bocca”, nell’incipit del XXXIII canto dell’Inferno dedicato alla vicenda di
Ugolino:
La bocca sollevò dal fiero pasto
Quel peccator, forbendola a’capelli
Del capo ch’elli avea di retro guasto.15
Es. 5. If. XXXIII 1, “La bocca sollevò dal fiero pasto”. Forma d’onda.
Bene sembra propendere per un “uso” minore di Dante, che ne evidenzi le
deficienze, i balbettamenti, le improvvise esplosioni. Nel 1978 notava Deleuze,
in Un manifesto di meno, l’insistenza beniana sulle protesi, le bende, le più o
meno metaforiche amputazioni: segni appunto di “un trattamento minore o
di minorazione, per sprigionare dei divenire contro la Storia, delle vite contro
la cultura, dei pensieri contro la dottrina, delle grazie o delle disgrazie contro
il dogma” (Deleuze 2002: 91). Nello specifico dantesco, l’insistenza di Bene
a tratti fagocitante, “la continua ruminazione sillabica, lo snocciolarsi degli
staccati” (Cortellessa 2004), fanno quasi pensare – suggerisce Andrea Cortellessa – all’etimo falso di Comedia: da comedere, divorare; o ancora, riprendendo il Mandel’štam di Conversazione su Dante, si potrebbe affermare che “il
baricentro dell’attività discorsiva s’era spostato: verso le labbra, verso l’esterno
della bocca. D’un tratto, la punta della lingua s’era trovata in una posizione
di spicco” (Mandel’štam 2003: 123). La registrazione sonora della performance
del 31 luglio 1981 ci restituisce una Divina Commedia diversa, che mostra a
tratti la stupenda infantilità della fonetica italiana spesso vicina al farfugliare
dei bambini, a tratti quel misto di roco e stridulo che si ode nelle voci degli
15. La terzina è carica di tensione per la grande forza che si sprigiona d’attacco (la bocca avidamente attaccata alla testa del nemico) sino alla terribile immagine del cranio devastato dal
morso.
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene
Dante e l’arte 2, 2015 271
anziani, insieme a un certo suo congenito e raffinato dadaismo, attraverso un
prospetto ritmico e timbrico sempre – e improvvisamente – cangiante. Come
scritto da Piergiorgio Giacchè,
[Bene] somma l’invisibile e l’inaudito, dando suono musicale e senso vitale
ai versi più alti del patrimonio letterario italiano e mondiale. Per la prima
volta – quella volta – il miracolo ovvero lo spettacolo della “verticalità del
verso” diventerà evidente perché liberato da un’iperbolica rampa di lancio,
di cui poi non ci sarà più nessun bisogno ogni altra volta in cui la sua
Lectura Dantis sarà riproposta pubblicamente (Giacchè in Bene 2005: 171).
Bene stava resuscitando Dante come né prima né poi è mai riuscito ad
altri (tra parentesi vale la pena – e pena in tutti i sensi – di ricordare i tanti
fini dicitori spesso toscani che ancora cercano inutilmente di fare il verso
di Dante e a Carmelo). Bene stava resuscitando Dante – come gli è capitato e gli capiterà di fare con Majakovskij e Byron e Leopardi e Manzoni
e Campana e D’Annunzio – …ma soprattutto, consapevole o no, stava
resuscitando la Piazza. Quella Piazza ferita a morte appena un anno prima,
e da molti anni comunque assente dalla vita culturale e abbandonata dalla
vita sociale (Giacchè in Bene 2005: 173).
E la registrazione sonora ci restituisce quel miracolo sotto forma d’opera d’arte, Dante e la Piazza in un solo attimo e atto: un’esperienza sonora e un’orazione civile tra le più alte che, a memoria d’Italia, a un attore sia mai riuscito
di creare e inverare.
4. Una breve apparizione: Salvatore Sciarrino
In ultimo, avendo impropriamente, anche se necessariamente, portato Lectura
Dantis sul piano della riflessione di carattere musicale, devo ricordare con una
breve postilla che l’opera fu accompagnata anche da musiche composte per
l’occasione da Salvatore Sciarrino. L’organico prevedeva strumenti registrati
su nastro (in sovra-incisione) da un solo esecutore: flauti dolci (soprano, contralto, tenore e basso); flauto dolce sopranino; cromormo contralto e tenore;
dolzaina e cornamusa.
Il compositore siciliano fu chiamato da Bene a restituire, attraverso il nastro magnetico, le risonanze degli strumenti sotto forma di nuvole sospese,
“sfondi sonori continui ma cangianti su cui aleggiano brani medievali (a loro
volta intermezzi musicali per le ‘letture’ beniane)” (Angius 2002: 50).16 Sciarrino realizzò docici brevi minuti di musica che, in forma di frammenti, Bene
antepose a ciascuna lettura, quasi a dar vita a una sorta di “melologo” a metà,
in cui la musica, dal vago sapore arcaico, ha la funzione di introdurre e sot16. Interessante notare come Angius, pur senza far riferimento alla tipologia di perfomance
prodotta da Bene in Lectura Dantis, sottolinei la parola “letture”, a rimarcare la non riducibilità a mera “lettura” dello spettacolo prodotto in quella occasione.
272 Dante e l’arte 2, 2015
Simone Caputo
tolineare il passaggio da una lettura all’altra. Si trattò del primo incontro del
compositore siciliano con i versi della Commedia: un incontro tutto al servizio
di Bene e del suo cantar recitando, al quale Sciarrino partecipò in punta di
piedi, quasi fosse un nocchiero semplicemente chiamato a condurre l’ascoltatore da un canto all’altro, aprendo attraverso la musica uno spazio alla parola
di Dante e alla voce di Bene.
A partire da Lectura Dantis, e per oltre un decennio, il poeta rappresentò
per Sciarrino un punto fermo e stabile nella storia della cultura, una figura la
cui opera si colloca in modo granitico nell’evoluzione delle forme artistiche.
A dimostrazione del fascino esercitato da Dante sul compositore, basti un
dato: nessuno lavoro su Dante, dei diversi prodotti da Sciarrino, è valutabile
come un’esperienza isolata all’interno della carriera dell’artista siciliano, né
tanto meno come un bozzetto che ha preso vita in forma precaria, frutto di
un interesse passeggero e svagante a intervallare brani più rilevanti. Sciarrino
fu intimamente coinvolto da Dante, dalla forma delle cantiche, da quello
che esse raccontano, dall’ambiente sonoro che descrivono, dai suggerimenti
infiniti che concedono.
Lectura Dantis fu il punto d’inizio di un percorso di scoperta e conoscenza:
ancora il nastro magnetico fu protagonista nello stesso anno di La voce dell’Inferno, opera nata come originale radiofonico e poi diventata autonoma.17 Nel
prologo lo spettatore si trova come in un aeroporto, pronto a imbarcarsi, ma il
rombo assordante del motore di un velivolo si trasfigura in musica, proiettando così l’ascolto in un luogo astratto; in questo luogo, dopo un suono di passi,
quasi si fosse giunti sull’orlo di una voragine, si è come investiti dalla voce
dell’Inferno: manipolate elettronicamente, appaiono le figure, gli ambienti e
le situazioni della prima cantica.
Nel 1987 Sciarrino compose e incise per la Rai Sui Poemi concentrici I, II,
III per solisti e orchestra.18 L’anno successivo furono mixati su nastro magnetico col titolo Musiche per la Divina Commedia di Dante Alighieri, in modo
da sostenere l’intera recitazione dei testi per un totale di 15 ore complessive.19
Nel 1993 l’ennesima fatica su soggetto dantesco culmina nelle Musiche per il
Paradiso di Dante (Alfabeto oscuro, L’invenzione della trasparenza, Postille), per
orchestra con solisti.20
17. Salvatore Sciarrino, La voce dell’Inferno, per nastro magnetico, 1981; testo di Dante Alighieri.
“XXIII Premio Italia”, 2 settembre 1981 (elaborazione elettronica del nastro realizzata il 19
giugno 1981 presso lo Studio di Fonologia della Rai di Milano, tecnico del suono Marino
Zuccheri); cfr. Broglia 2010 e Carratelli 2012.
18. Salvatore Sciarrino, Sui Poemi concentrici I, II, III, per solisti e orchestra (Città di CastelloTorino, 1987); cfr. Angius 2002: 50-56.
19. Salvatore Sciarrino, Musiche per La Divina Commedia di Dante Alighieri, missaggio su nastro
per le cento puntate televisive (Rai, Raitre Dipartimento Scuola Educazione). Letture di
Giorgio Albertazzi (Inferno), Giancarlo Sbragia (Purgatorio), Enrico Maria Salerno (Paradiso).
20. Salvatore Sciarrino, Musiche per il Paradiso di Dante. Alfabeto oscuro, L’invenzione della tra-
Su Lectura Dantis di Carmelo Bene
Dante e l’arte 2, 2015 273
Viene naturale domandarsi il perché di tante occasioni dantesche. Come
traspare dall’ascolto delle opere, a Sciarrino preme – per certi versi proprio
come a Bene – l’urgenza di misurarsi con queste architetture poetiche dal
grande impatto formale, ma anche di rifuggire dalla banalizzazione del puro
“commento” sonoro: “a me pare che quando si affronta la globalità della Commedia, un vincolo progettuale si impone al compositore. Una musica che seguisse questi poemi parola per parola non avrebbe senso estetico: essi non si
lasciano trattare come un qualsiasi testo. Bisogna semmai creare con la musica
uno spazio per la parola di Dante”.21
Tanto l’attore Bene, quanto il compositore Sciarrino, ponendosi per scelta
“fuori dell’opera”, non si comportano certo come un cantante da palcoscenico
né tantomeno come un suonatore d’orchestra: non compiono gesti che accompagnino atleticamente l’attraversamento dantesco, né peggio che illustrino
personaggi o incoraggino significati. Essi tentano di risolvere il problema della
propria umana inadeguatezza di fronte all’oltremondano cammino verso il Paradiso, azzerando o, in altri casi, protestando la propria irriducibile presenza.
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21. Salvatore Sciarrino, Sui Poemi concentrici, note di sala dell’autore.
274 Dante e l’arte 2, 2015
Simone Caputo
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Note
Dante e l’arte 2, 2015 277-284
Dante visualizzato. Carte ridenti I: XIV secolo.
Convegno internazionale organizzato dalla rivista “Dante e l’Arte”
Universitat Autònoma de Barcelona
Museu Nacional d’Art de Catalunya, 20-22 maggio 2015
Rosa Affatato
Univesidad Complutense de Madrid, Asociación Complutense de Dantología
[email protected]
È
ancora possibile trovare nuovi spunti di lettura e interpretazione in un’opera come la Divina Commedia, scritta quasi 700 anni fa? A questo interrogativo cercano di rispondere le molte iniziative che in questo 2015, 750°
anniversario della nascita del Sommo Poeta, portano all’attenzione del pubblico di ricercatori, appassionati e semplici lettori il capolavoro che la Divina Commedia rappresenta ormai da sette secoli. Ci hanno provato anche
gli studiosi della rivista “Dante e l’Arte” i quali, in collaborazione con l’Universitat Autònoma de Barcelona, il Museu d’Art Nacional de Catalunya,
Villa I Tatti, l’Institut d’Estudis Medievals e l’Istituto Italiano di Cultura di
Barcellona hanno promosso una serie di convegni, il primo dei quali, “Dante
visualizzato – Le carte ridenti I: XIV secolo” si è svolto a Barcellona dal 20 al
22 maggio 2015, avendo come asse portante la ricerca sui più importanti manoscritti illustrati del ‘300 e la ricezione artistica della Commedia a partire dal
XIV secolo.
Precedute da sessioni propedeutiche per studenti svoltesi all’Universitat
Autònoma, poi nella sede prestigiosa e spettacolare della Reial Acadèmia de
Bones Lletres, ma anche nelle sale del bellissimo Museu Nacional d’Art de
Catalunya, in una cornice artistica e culturale d’eccellenza come è la città di
Barcellona, i tre giorni di convegno sono sfilati velocemente tra le diverse e
interessanti relazioni, a cominciare da quella di apertura di Marcello Ciccuto,
Dante e le parole illuminate. Percorsi recenti di lettura e di critica nella quale è
stato evidenziato come il rapporto tra il testo e sua percezione estetica attraverso le miniature si determina come un vero e proprio commento figurato,
a cominciare dal Dante Poggiali (Palatino 313) nel quale emerge un canone,
una tendenza a fissare alcune idee-immagini che diventerà poi comune e che
farà emergere individualità importanti come quella del Maestro del Biadaiolo. L’immagine come commento fornirà inoltre una spinta all’ampliamento
delle illustrazioni anche grazie alla diffusione dei commenti alla Commedia,
fino ad arrivare a svincolarsi dal testo di partenza come succede nel codice
issn 2385-5355
278 Dante e l’arte 2, 2015
Rosa Affatato
Filippino napoletano, che dimostra di aver raggiunto una vera autonomia
espressiva e rappresentativa.
La relazione di Marco Veglia, Vedere la Commedia. La poesia di Dante fra
storia e politica delle immagini è partita da quello che era stato un vero e proprio cambio di status delle immagini al tempo di Dante, quando insieme con
l’ascesa della classe mercantile e a partire da Giotto la rappresentazione del
sacro subisce una “rivoluzione visionaria” e l’immagine diventa un ente dotato di vita propria, un signum anche nella letteratura. Dal Duecento con
Francesco d’Assisi si propone l’immagine del creato come figura del creatore
ma senza sostituirsi ad esso; nel Trecento Dante invece approda, attraverso la
figura di Beatrice-Medusa nel XXXII del Purgatorio, all’allegoria del visibile
parlare, dove la dinamica dello sguardo appare rinnovata a mano a mano che
Dante si purifica, attingendo alla salvezza attraverso la parola come icona-velo
che senza esserne simbolo ne è direttamente la sostituzione.
Sandro Bertelli, nella relazione sulle Tipologie librarie nella Commedia primo-trecentesca ha spiegato come, parallelamente con la diffusione della Commedia nel Trecento, si è evoluto anche il gusto della committenza per quanto
riguarda i codici e le miniature. Si va dall’Ashburniano, il primo testimone
integro del poema, risalente al 1334, con una decorazione sobria, ai codici che
nei dieci anni successivi vedono una decorazione via via più articolata, con miniature e decorazioni lungo i margini e la presenza del commento, mostrando
come l’approccio al poema in poco tempo sia andato cambiando anche nelle
tipologie librarie volute, ricercate e realizzate da copisti e committenti. Non
solo; ma come ha evidenziato Alessandra Forte nella sua relazione su Errori in
miniatura: per i rapporti genealogici tra il Padovano 67 e il Laurenziano 40.01,
grazie, per esempio, a errori iconografici riscontrati in due codici vicinissimi
nell’aspetto ma lontani nei tempi di realizzazione si può arrivare a una ricostruzione delle tappe di trasmissione e di copia del testo, oltre a definire non
tanto una dipendenza dei testimoni tra di loro, ma bensì ricondurli a un probabile antigrafo e modello comune.
Laura Pasquini in L’apparato illustrativo del Ms. Holkham, misc. 48, della
Bodleian Library ha rilevato, attraverso la dettagliata analisi dell’apparato iconografico del manoscritto Holkham 514, come i disegni in esso presenti non
lascino spazio all’immaginazione, componendosi anzi in un vero e proprio
storyboard di andamento filmico che –anche se limitato al senso letterale–
identifica attraverso il linguaggio figurativo il percorso del manoscritto dalla
Toscana all’Umbria e alle Marche fino ad approdare a Napoli, alla corte di
Roberto d’Angiò, dove verrà probabilmente arricchito da elementi figurativi
dettati dal contesto culturale e scientifico della corte angioina, o anche provenienti dai pellegrinaggi nel sud Italia, come la rappresentazione della Trinità
con tre facce che si ritrova nel santuario di san Michele del monte Gargano.
Dante visualizzato. Carte ridenti I: XIV secolo.
Dante e l’arte 2, 2015 279
I disegni a fondo pagina formano un racconto completo e dettagliato di ogni
particolare descritto dal poema ma proprio per voler il più possibile rispecchiare il testo scritto ne illustra in modo particolareggiato solo il senso letterale, evitando gli elementi estranei alla narrazione vera e propria.
La Napoli degli Angiò ha costituito l’ambito geografico di riferimento
anche per la relazione di Andrea Mazzucchi, Illustrare e commentare la Commedia nella Napoli angioina. Soffermandosi sui codici della Pierpont Morgan
Library di New York e su quello Filippino napoletano spiega come il primo
codice, con il commento di Andrea Lancia, sia passato anche per Napoli,
come testimoniano le glosse interlineari in volgare napoletano e le illustrazioni
successive alla scrittura del testo anch’esse riconducibili all’area napoletana.
Mazzucchi ha identificato inoltre alcune suggestive attestazioni di termini del
volgare napoletano utilizzate ancora oggi, così come l’opera di miniatori napoletani nell’altro codice oggetto dell’intervento, il Filippino, che presenta
miniature con didascalie, cioè commentate come se si trattasse di un testo,
caratteristica tutta napoletana.
L’interessante relazione di Francesca Pasut I miniatori fiorentini e la Commedia dantesca nei codici dell’antica vulgata: personalità e datazioni ha spiegato
dettagliatamente come negli anni Trenta-Quaranta del Trecento la presenza di circa 40 manoscritti miniati denoti un contesto culturale relativo alla
Commedia già ben strutturato in area fiorentina e una articolata coralità tra
copistie miniatori. La miniatura consente infatti un approccio facilitato al
poema, anche se in tali codici l’interpretazione è didascalica e non allegorica,
rispondendo alle esigenze di un mercato vario la cui committenza è diversificata, in quanto i destinatari di tali codici costituivano probabilmente un
pubblico interessato a una produzione non ad personam ma addirittura in
serie. La differenziazione nelle immagini risponde invece a criteri cronologici,
in quanto una maggiore rigidità decorativa corrisponde a codici più arcaici
mentre miniature più dettagliate costituiscono una sorta di esegesi del poema
in immagini relativa ai codici più recenti, oltre a mostrare la personalità dei
miniatori fiorentini.
Nella comunicazione di Barbara Stoltz, Le strategie narrative e il commento figurativo nei Codici trecenteschi della Commedia di Dante: Strozzi 152/
Holkham 48 e Additional 19587 la studiosa ha evidenziato come gli elementi
presentati nell’iconografia di questi tre codici della Commedia non siano sempre scelti a commento del testo, ma anzi a volte si contrappongano a esso in
modo ironico e giocoso, pur costituendone comunque una chiave di lettura.
Tali immagini propongono a volte in modo metapoetico un coinvolgimento
del lettore, come per esempio nell’immagine del codice Strozzi con Virgilio e
Dante che entrano nella porta dell’Inferno rappresentata sull’estremo lato destro della pagina, quasi invitando il lettore a “entrare” attraverso quella porta,
280 Dante e l’arte 2, 2015
Rosa Affatato
cioè la pagina, nella finzione del racconto. I tre manoscritti cercano insomma,
come ha sottolineato Stoltz, di condurre il lettore attraverso le immagini ai
contenuti specifici di una lettura interpretativa e non letterale.
La relazione di Marco Cursi, Carte che ridono poco. La Commedia in mercantesca ha messo in luce come i codici della Commedia in scrittura mercantesca, di cui lo studioso individua un corpus di 13 testimoni dell’ultimo
trentennio del Trecento, pur costituendo un materiale e una tradizione povera
per la modestia dei codici, tutti cartacei e di solito non illustrati, siano interessanti per alcuni elementi che ne denotano l’uso nel mondo mercantile, in
particolare il Plut. 90 inf. 42, peculiare non solo per la scrittura, ma anche per
la presenza di illustrazioni, per il formato che richiama quello dei quaderni
mercantili e per la presenza del commento di Graziolo de’ Bambaglioli, a
dimostrazione che già a fine Trecento Dante era non solo letto dai mercanti
colti, ma che costoro avevano interesse a integrarne la lettura con il commento e le illustrazioni le quali a volte riproducevano non tanto il testo dantesco
quanto quello del commento.
Giuseppa Zanichelli in Racconti incrociati: La Divina Commedia ms.
Parm. 3285 della Biblioteca Palatina di Parma ha chiarito prima di tutto come i
canoni epistemologici di interpretazione dell’immagine non rispecchino quelli
propri della filologia in quanto le miniature emergono da un rapporto hic et
nunc con il testo, sono destinate a un pubblico definito e non c’è bisogno di
riconoscerne un archetipo. Tali elementi nei codici di lusso come il manoscritto in questione rendono difficile l’individuazione di un committente, pur
in presenza di stemmi di casate nobiliari. L’intervento ha mostrato le varianti
determinate dalla tradizione della bottega in cui furono realizzate differenziandole da quelle probabilmente suggerite dal committente, evidenziando sia
scelte iconiche particolari nei frontespizi di Inferno, Purgatorio e Paradiso sia
anche la raffigurazione dei lettori, elementi che probabilmente rimandano a
un committente religioso, colto e di alto rango.
Mirko Volpi ha messo perfettamente in luce la Centralità del manoscritto
Riccardiano-Braidense nella sua relazione che porta questo titolo come manoscritto che discostandosi dall’area toscana, in quanto appartiene all’area bolognese, si sia allontanato anche dai canoni linguistici precedenti, in quanto
contiene un commento in volgare e non in latino, cioè quello di Iacomo della
Lana (1324-28). Il manoscritto Riccardiano-Braidense si pone dunque come
realizzazione perfetta di un codice della Commedia destinato alla cultura universitaria e mostra come gli strumenti della scolastica siano usati dal Lana
per la stesura di un’opera progettata e scritta per leggere la Commedia come
un vero e proprio piano di studi universitario che contiene tutte le materie,
e per di più in volgare, dunque destinato a tutti, non solo agli universitari.
Anche le miniature sottendono un progetto editoriale ben preciso di aderenza
Dante visualizzato. Carte ridenti I: XIV secolo.
Dante e l’arte 2, 2015 281
al commento, raffigurando in una delle lettere incipitarie un uomo in toga, un
magister, che parla a un gruppo di persone con in mano un libro: la raffigurazione dell’aula universitaria –ma anche forse di Dante come magister– sembra
collocare nell’ambito bolognese trecentesco la tesi di R. Imbach, cioè il ruolo
del laicus che nel contesto intellettuale del suo tempo cerca e costruisce una
cultura diversa da quella dei clerici anche attraverso un testo come la Divina
Commedia che diventa l’alternativa a quelli sacri.
Anna Pegoretti in I domenicani leggono Dante: la Commedia Egerton 943
della British Library ha esaminato il manoscritto più antico completamente
illustrato come proveniente dall’area domenicana, grazie alla puntuale riconsiderazione delle diverse componenti in cui, di pari passo con le immagini,
anche il commento dell’Anonimo Teologo, egli stesso frate domenicano, gioca
un ruolo importante sia nell’aspetto retorico sia in quello morale, mostrandosi
insieme con le bellissime immagini quasi una “garanzia” dell’ortodossia di
Dante, essendo stata proibita nel 1335 ai Predicatori della Provincia Romana la
lettura del poema dantesco.
La relazione di Antonella Ippolito, Testo ed immagine nel Dante di Altona
(ca. 1360) conservato ad Amburgo ha presentato nel manoscritto, appartenente probabilmente all’area bolognese, la messa in scena delle immagini che
ne sottolineano il differente approccio interpretativo, a volte allegorico, come
accade per esempio nella rappresentazione del grifone con le ali aperte verso le
sfere celesti –allegoria della sua natura divina–, a volte naturalistico, come nei
disegni a penna del Purgatorio che illustrano con grande precisione elementi
decorativi come fiori e foglie. Il confronto proposto con il codice Chantilly
597 dischiude inoltre a ulteriori risultati nella ricerca sia filologica, per la presenza del commento di Guido da Pisa come complementare alle immagini, sia
figurativa per l’uso delle lettere guida a identificare i personaggi in entrambi
i codici, pratica non molto diffusa. Così pure lo studio grafico dei disegni
a penna all’interno dello stesso codex Altonensis potrebbe aprire sicuramente
nuove e interessanti prospettive di studio.
Salvatore Sansone ha confrontato nel suo intervento su Immagini su muro:
Purgatorio, X, e Roman de la rose gli exempla di umiltà intagliati sul marmo
della prima cornice del canto X del Purgatorio nei principali manoscritti trecenteschi (la Vergine, David e l’imperatore Traiano) con i dipinti dei dieci
peccati sul muro di cinta del giardino del Roman de la rose. Le miniature
nei codici analizzati rendono le scene purgatoriali come staccate dal muro,
non come bassorilievi. Anzi, l’Egerton rende addirittura a colori l’immagine murale di Traiano, come se la scena si svolgesse dal vivo, sotto gli occhi
dello spettatore. La stessa cosa accade infatti nel Roman de la Rose in cui i
vizi raffigurati sul muro sono personificazioni allegoriche che effettivamente
si muovono e parlano, riflettendo rapporti strettissimi sia nella loro rappre-
282 Dante e l’arte 2, 2015
Rosa Affatato
sentazione sia nella funzione allegorico-morale di purificazione dell’amante
che le ha contemplate nel giardino del Roman e di Dante che a sua volta le
contempla nel Purgatorio.
Del codice conservato a Budapest ha parlato Eszter Draskóczy con Le illustrazioni del Codex Italicus 1 fra il testo, la tradizione iconografica e la fantasia
del miniatore spiegandone la probabile provenienza veneziana, il ricco apparato iconografico –si tratta di uno dei primi codici miniati della Commedia, risalente al 1345– e la lacunosa storia della sua tradizione. Alcune questioni sono
ancora aperte, nonostante gli studi già condotti in Ungheria, come per esempio il ruolo del postillatore rispetto a quello del miniatore; ma che il primo
corrisponda o no al secondo, di quest’ultimo sono messe in luce le personali
e peculiari scelte nella rappresentazione dei personaggi come Farinata, rappresentato –ed è l’unica occorrenza– come uno scheletro, gli avari e i prodighi
a destra e a sinistra di un tavolo con sopra sassolini o monete, Lucifero con
miniature più grandi delle altre per metterne in evidenza il ruolo di “creatore”
dell’Inferno oltre che l’enormità fisica rispetto agli altri diavoli.
Marisa Boschi Rotiroti ha presentato una minuziosa analisi dei codici
miniati trecenteschi nell’intervento su I manoscritti miniati trecenteschi della
Commedia. Analisi codicologica, soffermandosi sui livelli di elementi decorativi e individuandone 5, dal manoscritto con decorazione completamente
assente fino a quello con elevata presenza di fregi e miniature. Il rapporto tra
livello di decorazione e scrittura è segnato come uno spartiacque dall’Antica
Vulgata, prima della quale non si notano varietà nell’uso della scrittura, dopo
della quale invece le scritture cambiano. Cambia inoltre la relazione tra l’impaginazione e la tipologia delle raffigurazioni a seconda che i disegni fossero
o no previsti nel progetto iniziale del codice, specie in presenza di spazi vuoti
successivamente non riempiti. L’evidenziare tali relazioni serve a spiegare l’eventuale presenza di automatismi e modelli unici nella progettazione di un
codice, assenti invece nei codici analizzati, mentre si lascia, come già si è visto
nelle precedenti relazioni, libertà interpretativa al copista e al minatore.
Il punto di vista storico sulla miniatura è stato sottolineato da Daniele
Guernelli, che nell’intervento su Considerazioni sul Dante Gradenigo (Rimini, Biblioteca Gambalunga, ms. 1162) mostra come il culto dantesco fosse già
fiorente nell’ultimo decennio del Trecento in Veneto, periodo al quale appartiene il codice riminese. Jacopo Gradenigo, autore della scrittura dell’Inferno,
era membro di una importante famiglia veneziana e probabilmente partecipò
anche all’illustrazione del codice, secondo quanto afferma nell’acrostico con
cui firma il manoscritto e viste le influenze padovane presenti sia nella raffigurazione dell’abbigliamento sia nelle modalità illustrative. Un secondo miniatore avrebbe poi continuato il lavoro semplificando man mano le illustrazioni,
mentre anche il commento del Purgatorio appartiene a un’altra mano rispetto
Dante visualizzato. Carte ridenti I: XIV secolo.
Dante e l’arte 2, 2015 283
a quella del Gradenigo. Molte questioni restano comunque ancora aperte,
come il motivo per il quale il Gradenigo non abbia terminato l’opera, o anche
quella della datazione del manoscritto, grazie al confronto con altre miniature padovane successive che potrebbero postdatarlo al secondo decennio del
Quattrocento.
Ha chiuso i lavori la relazione di Silvia Maddalo, La corona e la porpora:
Dante politico tra Chiesa e Impero in un codice primoquattrocentesco che ha
aperto l’arco temporale al XV secolo con il codice parigino ms. ital. 74 della
Bibliothèque Nationale de France come anticipo della prossima edizione del
Convegno. Maddalo si sofferma sull’illustrazione del canto X dell’Inferno in
cui dalle arche scoperchiate emergono, oltre a Farinata, la tiara del papa Bonifacio VIII e la testa di Federico II, imperatore scomunicato ma sul cui capo
il miniatore ha posto un triregno, a spiegare figurativamente l’idea politica
dantesca su Chiesa e Impero. Nel canto X sono presenti infatti i seguaci della
cultura epicurea, laica, tra i quali non viene raffigurato Cavalcante forse perché, secondo l’analisi qui condotta, “ebbe a disdegno” anche l’Impero. Siamo
in presenza insomma di una “glossa figurata” che illustra la teoria dei due
poteri universali che nel ‘400 interesserà gli umanisti tra cui Piccolomini che
verrà poi creato papa.
La presentazione della rivista “Dante e l’Arte” ha piacevolmente interrotto
le attività pomeridiane del primo giorno, con la presenza dei direttori Rossend
Arqués e Eduard Vilella, la segretaria Helena Aguilà oltre a Juan Miguel Valero e Raffaele Pinto in rappresentanza del Consiglio di redazione e Marcello
Ciccuto e Andrea Mazzucchi in rappresentanza del Comitato scientifico. La
rivista, edita in formato cartaceo dall’Institut d’Estudis Medievals dell’UAB
è composta da una sezione tematica (Dossier) e una miscellanea (Articoli)
con l’obiettivo di approfondire gli aspetti figurativi e artistici legati a tematiche dantesche da Dante fino a oggi. Nel 2014 è stata alla sua prima uscita
con “Dante e il teatro”, mentre nel 2015 è previsto il numero su “Dante e la
musica”. Il sito web http://revistes.uab.cat/dea riporta tutte le informazioni
utili alla sua collocazione nel panorama dantesco internazionale, all’invio di
contributi, a scadenze e a norme redazionali.
I momenti di dibattito e di scambio di idee hanno aperto tra i convegnisti nuove possibilità di collaborazione e ricerca, proseguite anche durante il
momento di convivialità offerto dall’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona
che nella persona della direttrice dott.ssa Roberta Ferrazza ha preparato ai
convegnisti un rinfresco all’aperto nel bel patio recentemente rinnovato.
Le prospettive di approfondimento e di studio sono quindi ancora molte,
specie allargandole alla riflessione intellettuale e politica sulla società nella
quale viviamo, alla quale il progetto culturale dantesco, già in fase di realizzazione nel Trecento –come ha individuato Volpi nella raffigurazione del magi-
284 Dante e l’arte 2, 2015
Rosa Affatato
ster laicus nelle miniature del manoscritto braidense – conferma che non solo
sul piano ideale ma anche su quello sociale è fondamentale “dare a molti” per
avere ancora oggi, in una realtà mondiale sottoposta a imperativi economici
generatori di crisi, i risultati intellettuali e sociali che Dante sette secoli fa si
aspettava.
Dante e l’arte 2, 2015 285-288
Dialoghi - Rispecchiamenti - Trasformazioni:
Dante e le arti figurative
Dialoge - Spiegelungen - Transformationen: Dante und die bildenden Künste
Università di Basilea, 6-8 maggio 2015
Antonietta Terzoli
Università di Basilea, Istituto di Italianistica
[email protected]
I
n occasione del 750° anniversario della nascita di Dante, dal 6 all’8 maggio
2015 si è svolto a Basilea un Convegno internazionale di studi intitolato
Dialoghi – rispecchiamenti – trasformazioni: Dante e le arti figurative / Dialoge –
Spiegelungen – Transformationen: Dante und die bildenden Künste. Organizzato
dall’Istituto di Italianistica dell’Università di Basilea (Prof. Dr. Maria Antonietta Terzoli) in collaborazione con l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Vienna (Prof. Dr. Sebastian Schütze), il Convegno intendeva indagare il
complesso e produttivo rapporto fra letteratura e arti figurative partendo dal
caso emblematico e straordinario di Dante.
Testo fondante della cultura europea, la Commedia è stata oggetto per
secoli di una tradizione esegetica che ha prodotto innumerevoli commenti
e interpretazioni, ed è stata fin dall’inizio punto di partenza privilegiato di
significative interpretazioni figurative. Dante stesso, che nella Vita nova si
raffigura intento a disegnare figure di angeli, si mostra interessato all’arte contemporanea e nella Commedia cita pittori come Cimabue e Giotto, miniatori
come Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese. Con la celebre descrizione dei
bassorilievi istoriati del Purgatorio rinnova programmaticamente la tradizione
antica dell’ecfrasi. Lo straordinario successo del poema è evidente già negli
splendidi manoscritti miniati prodotti in Italia nel corso del Trecento e del
Quattrocento, e una delle prime edizioni a stampa, uscita a Firenze nel 1481
con il commento di Cristoforo Landino, è accompagnata da xilografie, eseguite probabilmente a partire da disegni di Sandro Botticelli.
In questo dialogo tra parola e immagine, gli episodi più significativi sono
estrapolati e condensati in una raffinata interpretazione figurativa, che ci illumina anche sulle consuetudini e le aspettative dei contemporanei nella fruizione di testi e immagini. Plasticità e “visibile parlare” sono caratteristiche del
poema dantesco e hanno fornito suggestioni e motivi di ispirazione sempre
nuovi a grandi artisti come Sandro Botticelli, Luca Signorelli e Michelangelo
Buonarroti, più tardi William Blake, Eugène Delacroix, Gustave Doré e Auguste Rodin: le loro rappresentazioni dantesche costituiscono anche momenti
issn 2385-5355
286 Dante e l’arte 2, 2015
Antonietta Terzoli
significativi della fortuna della Commedia e ne influenzano la ricezione fino
ai nostri giorni.
Al convegno di Basilea hanno preso parte studiosi di diverse discipline provenienti da varie università europee e americane (Basilea, Berlino, Bochum,
Bologna, Chicago, Francoforte, Halle-Wittenberg, Losanna, Monaco, Pisa,
Vienna). Il tema, di grande attualità e rilevanza, ha suscitato l’interesse non
solo degli specialisti, ma anche di un pubblico più ampio che ha avuto modo
di approfondire da una nuova prospettiva uno dei capolavori della letteratura
universale. Gli Atti usciranno nella primavera 2016 presso l’editore De Gruyter
di Berlino, come primo volume di una nuova collana, Refigurationen, diretta
da Sebastian Schütze e Maria Antonietta Terzoli, e dedicata al rapporto tra
letteratura italiana e arti figurative.
Il Convegno si è aperto con una Lectio magistralis di Kurt Flasch sul diavolo nella Commedia e le due giornate successive hanno affrontato in maniera
specifica il rapporto tra la poesia di Dante e le arti figurative. Una sezione è
stata dedicata alle immagini di alcuni manoscritti medievali e di primo Rinascimento e ne ha messo in luce il significato storico e le valenze iconografiche.
Le relazioni di Laura Pasquini e di Emilio Pasquini hanno indagato i rapporti
tra testo e immagine nel manoscritto Holkham 514 della Bodleian Library di
Oxford, Lucia Ricci Battaglia si è soffermata in particolare sul manoscritto
riccardiano-braidense della Commedia. Marcello Ciccuto ha proposto alcuni
modelli iconografici altomedievali per la costruzione della figura di Matelda.
Friederike Wille ha insistito in particolare sul rapporto tra testo e immagini
in un codice pisano di metà Trecento conservato ad Amburgo. L’iconografia
celebrativa del manoscritto aragonese della Commedia (Yates Thompson 36
della British Library) e la sua influenza sul Novellino di Masuccio Salernitano
è stata indagata da Vincenzo Vitale.
Le relazioni di Michael Viktor Schwarz e di Serena Romano si sono soffermate, con nuove ipotesi, sul controverso rapporto tra Dante e Giotto, ipotizzato a partire da dichiarazioni d’autore nell’XI canto del Purgatorio. Maria
Antonietta Terzoli si è occupata dell’ecfrasi e dei suoi precedenti classici nei
canti X-XII del Purgatorio, mettendo in evidenza il complesso rapporo di imitatio e di aemulatio con il testo virgiliano, in particolare con l’ecfrasi dello
scudo di Enea. Il tema di Dante pittore, proposto nella Vita nova, è stato affrontato da Marco Santagata, che ha collegato la competenza tecnica di Dante
alla sua appartenenza all’arte degli speziali. Ulrich Pfisterer ha proposto un’interpretazione in chiave dantesca dell’iconografia delle Cappelle Medicee di Michelangelo, Klaus Herding ha analizzato con nuove proposte interpretative la
celebre Barca di Dante di Delacroix. Elizabeth Helsinger ha indagato la centralità del mito dantesco nell’immaginario figurativo di Dante Gabriele Rossetti,
e Adrian La Salvia ha presentato le illustrazioni della Commedia di Gustave
Dante e le arti figurative
Dante e l’arte 2, 2015 287
Doré e il loro recupero nell’immaginario cinematografico di primo Novecento.
Sebastian Schütze ha chiuso il convegno analizzando i rapporti che, nel segno
di Dante, legano la Porta dell’Inferno di Rodin alle sculture di Michelagelo.
In occasione del Convegno è stata anche allestita presso la Biblioteca Universitaria di Basilea una piccola mostra di edizioni dantesche antiche possedute dalla biblioteca: da un incunabolo del 1493, con il commento di Cristoforo
Landino, all’edizione curata da Ugo Foscolo e pubblicata da Mazzini nel 18421843. In particolare Ueli Dill ha illustrato le vicende legate alla pubblicazione
dell’editio princeps della Monarchia, uscita a Basilea nel 1559 e nello stesso anno
pubblicata anche in tedesco.
Programma del convegno
Mercoledì 6 maggio, ore 18.15
Apertura e presentazione del relatore:
Prof. Dr. Maria Antonietta Terzoli, Universität Basel
e Prof. Dr. Sebastian Schütze, Universität Wien
Prof. Dr. Kurt Flasch, Ruhr-Universität Bochum
Der Teufel in Dantes Göttlicher Komödie
Giovedì 7 maggio, ore 9-12.30
Apertura:
Prof. Dr. Maria Antonietta Terzoli – Prof. Dr. Sebastian Schütze
Presiede Prof. Dr. Maria Antonietta Terzoli, Universität Basel
Prof. Dr. Emilio Pasquini, Università di Bologna
Fra parole e immagini: il “visibile parlare” nel manoscritto di Oxford Holkham 514
(Bodleian Library, misc. 48)
Dr. Laura Pasquini, Università di Bologna
Fra parole e immagini: il “visibile parlare” nel manoscritto di Oxford Holkham 514
(Bodleian Library, misc. 48)
Prof. Dr. Lucia Battaglia Ricci, Università di Pisa
Letture figurate della ‘Commedia’: il caso del Dante riccardiano-braidense.
Dr. Friederike Wille, Universität Berlin
«Galeotto fu il libro». Bücher und Bilder: Die Medien der Commedia und ihre
Evidenzen
Giovedì 7 maggio, ore 14.30-17.30
Presiede Prof. Dr. Sebastian Schütze, Universität Wien
Prof. Dr. Michael Viktor Schwarz, Universität Wien
Giottos Dante, Dantes Giotto
Prof. Dr. Serena Romano, Université de Lausanne
Dante e Giotto: tangenze, affinità, diversità. E un’ idea per Giotto a Roma
Prof. Dr. Maria Antonietta Terzoli, Universität Basel
Visibile parlare: ecfrasi e scrittura nella ‘Commedia’
288 Dante e l’arte 2, 2015
Antonietta Terzoli
Giovedì 7 maggio, ore 18.00-19.00
UB, Vortragssaal
Dr. Ueli Dill,
Die Basler editio princeps von Dantes De monarchia (1559) und ihr Umfeld
Mostra:
Edizioni dantesche nella Biblioteca Universitaria di Basilea
Dante in der Universitätsbibliothek Basel: Frühe Editionen
Venerdì 8 maggio, ore 9-12.30
Presiede Prof. Dr. Michael Viktor Schwarz, Universität Wien
Prof. Dr. Marco Santagata, Università di Pisa
Dante pittore
Prof. Dr. Ulrich Pfisterer, Universität München
Die Medicikapelle – Michelangelos ‘Purgatorio’
Prof. Dr. Klaus Herding, Universität Frankfurt am Main
Der Hölle Bann, Vision des Grauens - Delacroix ‘Dantebarke’
Prof. Dr. Elizabeth Helsinger, University of Chicago
How They Met Themselves: Dante, Rossetti, and the Visualizing Imagination
Venerdì 8 maggio, ore 14.30-18.00
Presiede Prof. Dr. Emilio Pasquini, Università di Bologna
Prof. Dr. Marcello Ciccuto, Università di Pisa
Origini poetiche e figurative di una leggenda dantesca: Matelda nell’Eden
M.A. Vincenzo Vitale, Universität Basel
La Commedia aragonese (British Library, Yates Thompson 36).
PD Dr. Adrian La Salvia, Universität Halle-Wittenberg
Dante e Doré – L’aura della Divina Commedia nell’arte moderna
Prof. Dr. Sebastian Schütze, Universität Wien
Dante – Michelangelo – Rodin
Dante e l’arte 2, 2015 289-296
Review of the conference Dante and Music
University of Pennsylvania, Philadelphia, 5-6 November 2015.
Francesco Ciabattoni
Georgetown University
[email protected]
O
n 5-6 November 2015, the University of Pennsylvania hosted a conference the theme of which was Dante and Music. The organizers--Kevin
Brownlee, Mauro Calcagno, Marina Della Putta Johnston and Fabio Finotti-drew many fine scholars together from different disciplines, creating an excellent occasion for intellectual exchange and growth.
Professor Kevin Brownlee opened the day with “Explicit Song and Cited
Scripture in the Commedia: Five Key Examples”, analyzing the function of
musical progress of the songs in Pg. XXVII, 6-63, 29.1-51, Pd. VIII, 25-39, Pd.
XXIII, 94-111 and in Pd. XXXII, 94-99. Focusing on the modes of representation and performance, Brownlee revealed the meaning in the Commedia of the
musical psalms, Charles Martel’s quotation of Dante’s own Voi che ’ntendendo
and Gabriel’s circular song to the Virgin.
In “Dante Decrypted: musica universalis in the Textual Architecture of the
Commedia,” Catherine Adoyo created a model of the poem’s comprehensive architecture founded on musico-mathematical data that shows the formal
design of Dante’s poem. Exploring the association between Beatrice and the
number nine, the paper demonstrated the Commedia’s textual architecture,
and both the physical and metaphysical concepts of Ptolemaic cosmology
rooted in musica mundana.
Helena Phillips-Robins argued in “‘[L]or compatire a me’: Singing for
Dante in Purgatorio XXX-XXXI” that the performance of Psalm 30 in Pg.
XXX, 82-99 triggers a spiritual transformation in the pilgrim, melting his frozen fears into contrition. The angels’ singing plays a key role in this process,
and Phillips-Robins reveals the important connection between music and its
social aspects: an audience (the angels but also the readers of the Commedia)
is necessary to a performance. Because the angels stop short of “Miserere mei”,
the readers of Pg. XXX-XXXI are prompted to mentally perform “Miserere
mei” as a latent song in the Earthly Paradise.
“Stasis and carnal song: the Hag-siren of Purgatorio XIX” by Fiorentina
Russo explored the patristic and medieval traditions of the siren as a figure
issn 2385-5355
290 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
for the negative effects of music on the soul, casting her as a more tempting
version of the Medusa of If. IX. Russo connected the sexualized voice of the
siren to the sexually charged rime petrose of Dante’s earlier production.
Martin Eisner (“Dante’s Song: Reconsidering the Significance of “Amor
che ne la mente mi ragiona” in Purgatorio II”) challenged the critical claim
that the musical performance of “Amor che ne la mente mi ragiona” in Pg.
II should be seen as a censoring of the Convivio. Drawing evidence from the
Virgilian and Boethian tradition of using songs as a way of reinforcing a past
experience, Eisner argues that Casella’s song is in fact a reflection on the ontology of poetry and the authority of the poet.
In “Sound Production and the Soul,” Alison Cornish investigated the notion of sound’s evanescence. As something that is alive but immaterial, sound
disturbs matter by breaking the air. Voice, a particular sub-category of sound,
possesses breath and blood, and Dante often calls attention to the anatomic
mechanics of voice emission as well as to its realistic auditory details (from
the spluttering trees of the suicides to the flickering speech of the fraudulent counselors who burn in flames, to the mysterious voice(s) intoning “Te
Deum” at the gates of purgatory, to the conglomerate voice of the eagle in the
heaven of Jupiter). Cornish frames her critical discussion with Aristotle’s De
anima, in which the physics and acoustics of sound production explain the
dynamics of words and sound that make up vocal music.
Francesco Ciabattoni (“The Sweet Roar of Thunder”) showed the historical-musicological context of the lemma “organi” / “organo” as it appears in Pg.
IX, 144 and Pd. XVII, 44. Drawing from medieval treatises and monks’ descriptions such as Raban Maur, Notkerus Balbulus, Baldric of Dol, Aelred of
Rievaulx and Wulstan, Ciabattoni demonstrated that Pg. IX, 144 (“quando a
cantar con organi si stea”) evokes a great pipe organ as was found in some medieval churches. Ciabattoni also argued that Pd. XVII, 43-44 (“come viene ad
orecchia / dolce armonia da organo”) should be understood as a polyphonic
organum that serves the twofold purpose of lending authority to the Commedia’s longest prophecy and of musically representing the harmonious reconciliation of life’s highs and lows.
In “Song(s) of Songs: Musical Genres in the Divine Comedy,” Andrés
Amitai Wilson proposed that the music of the spheres begins in the ineffable
space where speech ends. Wilson investigated Dante’s ontological understanding of music and the connections between the Commedia and various medieval music genres, paying particular attention to the Book of Psalms and
the Song of Songs, in order to show the elastic boundary between speech and
music that Dante knowingly exploits.
Andrea Gazzoni’s paper “Scores for a particular chemical orchestra: Reading Dante with Osip Mandelstam” focused on the network of music-based
Review of the conference Dante and Music
Dante e l’arte 2, 2015 291
images through which the Russian poet Osip Mandelstam read the Commedia
in his 1933 Conversation about Dante. Gazzoni tackles Mandelstam’s independent, non-philological reading of Dante’s poem as a way to explore sound
and the imagery of sound as the most generative and visionary dimension
of poetry.
“Dante vivo” was the title of Julia Bolton Holloway’s talk, as well as a
pedagogical project she directed in Florence. As a collaboration with the Ensemble San Felice, who performed the music of Dante’s Commedia, this series
of concerts held in Orsanmichele, Cologne, Avila, Graz, and Ravenna, was
greatly successful. Bolton Holloway brought to life Dante’s geography and
history of his exile through music, journeying from the Babylonian cacophony of Hell’s “Vexilla regis prodeunt” and from the tonus peregrinus of Psalm
113, “In exitu Israel de Aegypto,” to the Ars nova polyphony of Verona and
Ravenna. A DVD of this marvelous multimedia project illustrated the texts
and made the music enjoyable to all.
Pedro Memelsdorff ’s presentation “‘Che cosa è quest’ Amor’: Cavalcanti
and Dante’s Paradiso in a ballata by Francesco Landini” traced the connections between Dante’s work and the music of Italian Duecento and Trecento.
Memelsdorff considered a group of late fourteenth century musical compositions by Francesco Landini, Paolo da Firenze and Lorenzo Masini in relation
both to each other and to Dante’s Paradiso. Memelsdorff connected one of
these songs, Landini’s ballata “Che cosa è quest’ Amor”, to Guido Cavalcanti’s
“Chi è questa che ven ch’ogn’om la mira” and construed it as a response to
the sonnet. Landini’s setting transfigures Cavalcanti’s Averroism in the light
of Dante’s cosmology, both hinted at through a web of textual allusions and
correspondences. Moreover, Landini’s ballata shares several features with some
other texts related to Antonio Gherardi da Prato’s Il Paradiso degli Alberti.
Thus, the contextualization of “Che cosa è quest’ Amor” within Gherardi’s
Paradiso may shed further light on the intellectual interaction between Landini and the philosophical circles of his time.
In “The Sensuous and the Asperous: Marenzio and Dante” Giuseppe Gerbino probed Luca Marenzio’s unusual choice of a Dantean canzone (Così nel
mio parlar voglio esser aspro) for a polyphonic madrigal. The light sensuousness
of Marenzio’s music coupled with Dante’s deliberately harsh style makes this
choice even more unique in a musical and literary panorama dominated by
Petrarchism. Gerbino contextualized this search for asperity in the shifting
interest in the values of a philosophically and morally high form of poetry
that no longer had “piacevolezza” as its primary goal. Gerbino investigated
the role of sound in the construction of poetic gravitas and the role of parlar aspro in musical language, also presenting Tasso’s discussion of Dante’s
definition of poetry as “fictio rethorica musicaque poita” and Alessandro
292 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
Guarini’s identification of Marenzio with Petrarch and Luzzasco Luzzaschi
with Dante.
Jess Tyre’s talk, “Conversations with Francesca: Tchaikovsky, Liszt, and
Wagner (and Zandonai and Granados and Rachmaninov) Go to Hell,” profited from he intertextual connections of Tchaikovsky’s Francesca da Rimini
with Wagner’s Ring of the Nibelung and Liszt’s Dante Symphony to expand
the critical discourse and discuss the intertextual dialogue Tristan und Isolde.
Tyre established a “conversation” between Francesca’s tale, as related in Dante’s
work and articulated through Tchaikovsky’s and Liszt’s music, and King Marke’s speech at the conclusion of Act II of Tristan. The results suggest that these
musicians shared a common language for projecting the story’s narrative and
for evoking its central emotions of desire, betrayal, guilt, and love.
David Heinsen (“Concerning Ugolino: Diverging Dante Aesthetics in Donizetti’s Cantata”) employed the depiction of Italy as a “literary construction”
to discuss Gaetano Donizetti’s 1828 musical adaptation of Dante’s episode
of Count Ugolino (Canto XXXIII della Divina Commedia: Il Conte Ugolino). Heinsen distinguished the cantata’s original intent from its critical reception, showing that the Italian Risorgimento transformed the poet’s work
from an aesthetic-literary phenomenon into one of political-ethical sacrosanctity. Heinsen proposed that Donizetti composed Ugolino with the intent of
aesthetic preservation rather than politicization, and the speaker linked the
differing frames of reference to their corresponding Dantean perspective in
order to explain opposing views through the concept of codal interference:
the obstructed communication of composer intent due to the Risorgimento’s
ideological recontextualization of Dante aesthetics.
Tekla Babyak (“Dante, Liszt, and the Alienated Agony of Hell”) offered a
musical analysis of Franz Liszt’s Dante Symphony (1857), which expresses the
loneliness of Dante’s sinners, against the backdrop of the Romantic cult of
solitude and its association with solitary contemplation, transcendence and
ecstasy. On the contrary, Liszt’s Dante Symphony rejects this position and
reflects instead the horror of isolation. Babyak concludes that the Dante Symphony provides Liszt with an aesthetic framework for taking issue with the
Romantic admiration for loneliness and artistic seclusion.
As a worthy conclusion of the first day, Italian pianist Leonora Armellini
played Tre Sonate by Alessandro Scarlatti, Sonata Fantasy No.2 Op. 19 by Alexander Scriabin, Franz Liszt’s Après une lecture de Dante and four compositions
by Frédéric Chopin: Scherzo No. 2, Op. 31, Souvenir de Paganini, Barcarolle
Op. 60 and Ballade No 4 Op. 52. Armellini regaled her audience with a truly
exceptional concert, and her performance of Liszt’s Dantean music also put
into musical practice the importance of the theme of this conference.
Review of the conference Dante and Music
Dante e l’arte 2, 2015 293
The second day of the conference opened with Alfred Crudale’s paper,
“‘Canzone…t’ho allevata per figliuola d’Amore.’ The Three Songs of Love in
Dante’s Vita Nuova.” Crudale focused on three canzoni from the Vita Nuova,
(“Donne ch’avete intelletto d’amore,” “Donna pietosa e di novella etate” and
“Li occhi dolenti per pietà del core”) and illustrated how the poetics of musicality produces specific meanings by evoking the desired emotion in the
reader. Crudale also linked Dante’s canzoni to Guinizzellian and Provençal
poems with a keen intertextual analysis.
Thomas Peterson’s talk “From Casella to Cacciaguida: A Musical Progression Toward Innocence” acutely linked the musical performance of Amor che
ne la mente mi ragiona in Pg. II to Cacciaguida’s musical episode and to Dante’s critical discussion of music’s powers in the Convivio, with the constant
presence of the planet Mars operating in all three texts. The ontological identification of Mars with music marks the pilgrim’s moral and spiritual trajectory toward the eternal time of Cacciaguida’s perspective.
Mirko Tavoni’s “Poetry and Music in the De vulgari eloquentia” focused
on the fabrilis quality of poesis in Dante’s linguistic treatise. Tavoni examined
three key passages that define the relationship between poetry and music,
highlighting first the two components – verbal and musical – of poetry (“poetry is […] a verbal invention composed according to the rules of rhetoric
and music.” DVE II iv 2). Tavoni then called attention to the preeminence
of the poet over the musician (“no player of a wind or keyboard or stringed
instrument ever calls his melody a canzone, except when it is wedded to a real
canzone” DVE II viii 5), while stating that music becomes paramount for the
genre of canzone because “every stanza is constructed harmoniously for the
purpose of having a particular melody attached to it” DVE II x 2). Tavoni
proposed to solve the apparent contradiction of Dante’s argument by referring
his notion of music allied to words in the DVE to a metrical notion, as stated
by Boethian principles.
Karen Raizen’s paper “Apostolo Zeno, Comedyphobe and Commediaphile” showed that, in keeping with the poetics of Arcadia, Zeno conceived of
comic elements as separate from serious drama, distancing himself from the
mixed style of baroque theater. Thus, despite his admiration for Dante apparent in his letters and his Biblioteca dell’eloquenza italiana (he also supported
publications of De vulgari eloquentia and Monarchia), Zeno’s position toward
the Commedia was ambivalent and tended to exclude the stylistic coarseness of
the Inferno. Raizen illustrated how Zeno’s reading of Dante informed his ideas
on genre and literary reform, as well as his libretti, particularly in relation to
images of sublimity and ‘comic’ ascent.
In her talk “A Harsh Mistress: The Seconda Prattica and Monteverdi’s Dantean Style,” Aliyah Shanti laid bare the many Dantean references in Alessan-
294 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
dro Striggio’s libretto for Monteverdi’s Orfeo, whose many references to the
Commedia are often marked by musical highlights. Shanti showed that Monteverdi’s very notion of seconda prattica, in which “the words are the mistress
of the harmony,” reflects the dichotomy between roughness, associated with
the harsh sounds of Dante’s Inferno, and elegance often likened to Petrarch’s
stylistic balance. Shanti argued that Monteverdi’s use of Dante in Orfeo was a
direct result of the poet’s association with the seconda prattica and the musical
innovations in the madrigals of the composer’s predecessors.
In “‘Dentro a la danza de le quattro belle’: Dance in Dante’s Commedia,”
Madison U. Sowell devoted critical attention to the representation of dance in
the Commedia. Sowell looked into the allegorical roles of dance for the salvific
experience, dwelling in particular on the Terrestrial Paradise pageant of “la
danza de le quattro belle” (Purg. XXXI, 104), in which the cardinal virtues parallel the encounter with the three theological virtues, who are also “danzando
al loro angelico caribo” (Pg. XXXI, 132). Sowell then linked these dances to
that of the twenty-four wise spirits in Pd. XIII, 20-21, observing how all of
these circular dance figures have the pilgrim at their center.
Carolyn T. Amory (“La Vita Nuova and Operatic Form”) took cues from
the Greek and then Roman concept of music as a force capable of affecting
human thought and conduct. The medieval mind interpreted this concept
through the Church’s repression of “excessive emotion” in music, a position
that Dante does not share in the Commedia, construing emotion in music as
potentially positive. Amory then linked the Dantean musical expression of
emotions with the evolution of recitative and aria, establishing an association
between Dante and the early Opera of the Camerata de’ Bardi and the Corsi
group. These included Vincenzo Galilei (Galileo’s father), TorquatoTasso, and
Jacopo Peri (composer of the first opera). They all rediscovered ancient Greek
melodic design based on verbal inflection and the resulting stile recitativo of
Peri’s Euridice (1585), to the lyrics by Ottavio Rinuccini, marked a new era in
music. Amory then paralleled the alternation of prose and poetry in opera to
the alternation of poetry and prose in Dante’s Vita nuova.
Juliana Chapman (“From Dante’s La Commedia to Monteverdi’s L’Orfeo
via Boethian musica”) put emphasis on the interdisciplinarity of early opera as
a musico-literary form and used Boethius’s De institutione musica as a critical
lens for analyzing the relations of text and music in Dante’s Commedia and
in Monteverdi’s first opera Orfeo (1607), which bears the visible influence of
Dante’s masterwork. Chapman showed that Dante and Monteverdi had a shared perspective on classical Boethian music theory as both utilized it to create
a series of explicit aesthetic moments that use the images and ideas of music,
rhetoric, and poetry to shape musical and literary narratives of rhetorical interplay and unifying harmonic structure.
Review of the conference Dante and Music
Dante e l’arte 2, 2015 295
Maria Ann Roglieri’s talk “Dante’s Commedia in Music: An Overview and
Greatest Hits” focused on musical adaptations of Dante’s masterwork, from
the sixteenth century to the present. After a short but insightful overview of
such musical compositions and their composers, Roglieri explored a selection
of the most effective and acclaimed musical representations of all three canticles. These ranged across very disparate musical styles, places and times, and
included Brazilian thrash metal band Sepultura and US rock band Alesana in
addition to the more academically customary Jacques Charpentier, Franz Liszt
and others. Roglieri’s talk offered a fascinating survey of musical works inspired by Dante, showing how his poetry has been a constant reference point for
musicians worldwide throughout the centuries.
Alex Cuadrado followed in a similar vein with his talk “‘Angels in the
Architecture’: The Case for a Dantean Framework in Paul Simon’s ‘You Can
Call Me Al.’” Cuadrado proposed to look at the journey of Paul Simon’s song
against the backdrop of Dante’s journey and indicated some lines that seem
reminiscent of Dante’s Commedia, demonstrating how the song’s three verses
and their respective choruses line up with the three canticles of the Commedia.
Moreover, at the center of “You Can Call Me Al,” Simon recreates the dramatic climax of Purgatorio XXX, where Dante loses his first guide Virgil and
Beatrice calls out his name. Cuadrado argued that this central vocative motif,
also in Simon’s song title, reverberates in the “Al” the song’s title hinting to the
poet’s family name “Alighieri,” while Beatrice’s name becomes “Betty” in the
song. A reference to Virgil’s return to Hell would be adumbrated in the song
as the protagonist’s “role model” who “ducked back down the alley with some
roly-poly little bat-faced girl.”
Henry Martin’s “Three Symphonies Based on the Purgatorio” presented
his own Dante-inspired composition, a set of three symphonies dedicated to
the Commedia’s second canticle. Martin chose to present the second symphony, inspired by the central and longest section of the Purgatorio, in which the
ascent through the terraces in the symphony’s four movements is linked to the
use of recurring motifs, a structural aspect that recurs in Dante’s text. The format of entering a terrace, encountering instructive examples, interacting with
one or more sinners, encountering further instructive examples, meeting an
angel who chants a Beatitude and erases a P from Dante’s forehead, then climbing to the next level repeats through all seven terraces. Martin envisioned
these actions as the principal motives of Dante’s climb and assigned a musical
theme to each of those elements, so that each step in the ascent through the
terraces would have a precise musical idea.
William Mahrt (“The Cessation of Music in the Paradiso”) offered a final
and insightful lecture on the interruptions of music and dance in Heaven.
Mahrt explained these moments of quiet in the otherwise ever-performing
296 Dante e l’arte 2, 2015
Francesco Ciabattoni
universe as an anticipation of the ultimate point of the Paradiso, the vision of
God as light, eternal and without motion. Since music is motion and is based
on time, the final cantos where the pilgrim approaches the vision of God, the
unmoved mover, must be without music. Mahrt framed his discussion in the
context of Dante’s use of music as an essential part of the narrative, in which
musical types and antitypes characterize progress through the various stages of
the Commedia. Mahrt recapitulated the musical progress through the Commedia from the noise of the Inferno through a progressive series of musical types
to the cessation of music into silence.
This was the first conference specifically dedicated to Dante and music,
a subject that has proven of great interest and extremely relevant for both a
deeper understanding of Dante’s works and an assessment of his enduring
influence on the arts throughout the world. Special praise and thanks go to
the organizers, whose efforts made this conference a rewarding and enjoyable
experience for all the participants.
The full program can be found by following the link https://www.sas.
upenn.edu/italians/event/2015/11/dante-and-music.
Recensioni
Dante e l’arte 2, 2015 299-302
Pegoretti, Anna
Indagine su un codice dantesco:
la “Commedia” Egerton 943 della British Library
I
ntraprendere l’indagine su un codice dantesco, per Anna Pegoretti, significa mettere insieme, come un detective, tutti gli elementi indiziari utili a
ricostruire il contesto di produzione del manoscritto, per provare a “farsi contemporanea” dei primi lettori della Commedia e “ritrovare l’incertezza fondamentale che ancora circondava il destino del poema” (p. 17).
L’obiettivo fondamentale, in ultima analisi, è tracciare una modalità di
ricezione dell’opera che possa legare il codice a quel contesto. Con tali dati
indiziari ma oggettivi si devono confrontate le ipotesi avanzate dalla critica
relativamente ad Eg – sigla che ormai identifica il codice della British Library per la comunità degli studiosi – rivelandone la frequente unilateralità di
visione. Soltanto l’adozione di un metodo di studio globale, che prevede la
sinergia tra analisi codicologica, paleografica, filologica, linguistica e storico
artistica può portare nella giusta direzione la comprensione del manoscritto,
fuori dell’impasse che ha visto contrapposti storici dell’arte e filologi (gli uni
ottimisticamente orientati su una datazione assai precoce di Eg, gli altri prudentemente e rigidamente fermi al breve lasso di tempo 1350-55, entrambi
incerti sulla collocazione di Eg tra Padova e Bologna). La struttura del libro
di Anna Pegoretti rende chiara la progressiva ricostruzione per indizi, guidata
dalla successione di incisivi ed evocativi titoli di paragrafo: Testi in viaggio, La
“Commedia” secondo Eg – quello più denso, Raccontare per immagini, Soglie,
Diagrammi, Conclusione. Chiudono il libro un utile Elenco descrittivo delle
immagini – che deve far fronte all’impossibilità di riprodurre l’intero corredo
illustrativo del codice a causa dei costi proibitivi – e un’Appendice con le schede descrittive oltre che di Eg dei manoscritti ad esso legati.
La studiosa parte giustamente dal principale problema posto dal manoscritto: il più antico codice superstite della Commedia a recare un completo ciclo illustrativo risulta privo di elementi che consentano l’identificazione
degli attori coinvolti nel suo allestimento, sia all’interno del codice, privo di
sottoscrizioni, sia in documenti esterni. Di fronte a tale vuoto, la Pegoretti
si affida al manoscritto stesso, alla ricerca di dati oggettivi sui quali costruiissn 2385-5355
300 Dante e l’arte 2, 2015
re un’ipotesi di lavoro. A partire dalla mise en page e dalla tipologia graficolibraria: prodotto di lusso attentamente programmato nella preparazione della
pergamena, nella stesura dei testi e nella loro distribuzione nella pagina, ed
inoltre nell’organizzazione dell’apparato paratestuale che comprende la decorazione aniconica e l’illustrazione. Fino all’analisi di quelle “forme di esegesi
minima” costituite dagli usi terminologici.
Alla fine di questo accurato esame, l’autrice può tirare le prime somme.
Dal punto di vista del progetto editoriale, Eg non è inquadrabile in quell’evoluzione editoriale indicata da Armando Petrucci come asse portante del
basso Medioevo italiano: né “libro cortese di lettura”, né “libro-registro di
lusso”. L’uso della gotica e l’impaginazione monocolonnare con commento
disposto attorno al testo si collocano a metà tra il libro giuridico universitario
e il codice biblico glossato; anzi, come osserva l’autrice, la disposizione di
testo e glosse e il margine superiore inutilizzato ricordano in modo preciso la
tradizione esegetica biblica. Tale forma editoriale ben si accorda all’ambiente
domenicano che produsse le glosse testimoniate da Eg (il cosiddetto Anonimo
Teologo e le sue stratificazioni), al quale la Pegoretti dedica il secondo capitolo.
Dal punto di vista della collocazione geografica e temporale, il riesame, da
un lato, delle vicende delle glosse e del modo in cui esse risultano stratificate
in Eg, dall’altro della carriera del miniatore – il Maestro degli Antifonari di
Padova –, associato alla sopra menzionata analisi linguistica degli usi terminologici, fa propendere la Pegoretti per una datazione a ridosso del 1340, “in un
centro urbano dotato di una produzione libraria e di un livello culturale tali
da rendere possibile un’operazione tanto sontuosa e complessa” (p. 77). Rimane intricato il problema dei collegamenti culturali ed istituzionali fra l’area
emiliano-romagnola e quella padovana, ininterrotti mediante flussi di libri e
di uomini (professori e studenti) fin dalla fondazione dello studium euganeo.
Flussi sostanziati anche dalle maestranze dell’industria libraria, come attestano
numerosi casi coevi: vedi ad esempio la carriera artistica dei bolognesi Nicolò
di Giacomo e Stefano degli Azzi.
Il secondo capitolo indaga la ricezione della Commedia da parte dei domenicani testimoniata dalle glosse di Eg; tema problematico, a partire dalla
constatazione dell’assenza del poema nelle coeve testimonianze sulle biblioteche dell’ordine e dei noti episodi di antidantismo, fino all’eclatante divieto di
lettura emanato dal Capitolo di Firenze nel 1335. Eg, di fatto, rappresenta il
solitario testimone del tentativo di assimilazione del poema da parte dei frati
Predicatori di primo Trecento, celebrati nelle glosse come esempi di virtù ed
eccezionalmente raffigurati nel Cielo del Sole come spiriti sapienti. Nell’approccio del lettore domenicano il poema rappresenta anzitutto un testo di
filosofia e disciplina morale. Pietro Lombardo, Tommaso d’Aquino e Alberto
Magno sono i riferimenti costanti. A quest’ultimo, in particolare, si deve la
Dante e l’arte 2, 2015 301
suddivisione dell’inferno in quattro luoghi che comprendono i due limbi e il
purgatorio, basata su una valutazione puramente spirituale che ha come metro
di giudizio la lontananza dalla condizione di beatitudine. L’autrice esamina
quindi tutte le ipotesi di una genesi di Eg interna all’ordine domenicano,
passando in rassegna i possibili candidati a dare un nome all’Anonimo Teologo.
Senza giungere a ipotesi risolutive, può procedere ancora soltanto per indizi e
per esclusione – non un inquisitore – con il merito di restituire un ambiente
culturalmente vivace, vicino a quel movimento laico di riscoperta dei testi
profani classici di cui Padova fu il centro propulsore e, aggiungerei, vicino
anche all’ambiente per certi versi protoumanistico dello studium domenicano
di Pisa (vedi la figura di Bartolomeo da San Concordio). Riguardo alla committenza, l’ipotesi, più che condivisibile, che emerge da tale contesto è che
l’allestimento di Eg sia stato condotto sotto la direzione di un autorevole frate
su richiesta di un facoltoso membro di una confraternita legata ai domenicani.
Il terzo capitolo è dedicato al ricco corredo figurativo, analizzato dalla
Pegoretti a partire dall’organizzazione dei riquadri nell’architettura della pagina fin nelle variazioni degli sfondi che determinano la dimensione spaziale
dell’aldilà. L’autrice mette in evidenza l’abilità narrativa del miniatore - maturata attraverso l’illustrazione di altri testi letterari, anzitutto il Roman de
Troie - che amplifica l’illustrazione del Purgatorio rispetto agli altri cicli coevi,
con un’attenzione particolare alle serie di esempi di virtù e vizi puniti. Tale
accuratezza rappresentativa degli exempla purgatoriali riconduce all’ambiente
dei predicatori, il cui insegnamento aveva alla base identici meccanismi, abilmente e originalmente tradotti dal miniatore. Il repertorio iconografico sacro
al quale fanno riferimento i canti del paradiso terrestre spiega l’abbondanza di
miniature poste di corredo a questi canti.
Il capitolo successivo – dall’emblematico titolo Soglie – è dedicato alle
pagine incipitarie delle cantiche, che Lucia Battaglia Ricci ha autorevolmente
insegnato a considerare soglie interpretative del testo.
Infine, non minore importanza hanno in Eg i diagrammi anteposti alla
prima e alla terza cantica, con funzione mnemotecnica, che l’autrice indica
come primo esempio di una tradizione iconografica che arriva fino alle edizioni moderne del poema dantesco.
Chiara Balbarini
Università di Pisa
Pegoretti, Anna,
Indagine su un codice dantesco: la “Commedia” Egerton 943 della British Library
Collana di Studi italianistici diretta da M. C. Cabani, Pisa, Felici 2014
323 pp., isbn: 978-88-6019-742-9
Dante e l’arte 2, 2015 303-308
De Martino, Delio
Dante & la pubblicità
C
he dopo 750 anni l’opera di Dante continui non solo a suscitare interesse,
ma a essere letta nei modi più disparati, non è certo una novità, tanto più
quando la si ritrova legata agli strumenti di comunicazione artistica che negli
ultimi due secoli hanno rivolto la loro attenzione al poeta e alla sua opera. Da
generi letterari moderni come la letteratura per l’infanzia al cinema, al teatro,
al musical, le nuove arti non hanno potuto fare a meno di “incorporare” un
po’ di Dante nei loro compositi e diversi percorsi.
In questo spazio rientra anche in quella che viene chiamata “la dodicesima
arte”, cioè la pubblicità, il cui linguaggio si è molto spesso nutrito di letteratura, come spiega il giovane studioso Delio De Martino che da più di un decennio si sta occupando di linguaggio letterario antico e moderno nell’ambito
pubblicitario. “Benché non manchino studi sul binomio letteratura e pubblicità, poca attenzione hanno suscitato le presenze letterarie negli slogan e nei
manifesti pubblicitari” spiega De Martino (p. 12). Nei suoi precedenti lavori,
dalle due tesi dottorali al volume «Io sono Giulietta». Letterature e miti nella
pubblicità di auto (2011) l’autore aveva già individuato un corpus “testuale e
mediatico” sul quale ha fondato un’analisi che viene presentata nel libro Dante
& la pubblicità circoscrivendo l’indagine all’ambito dantesco nel linguaggio
pubblicitario negli ultimi due secoli.
Il libro presenta nelle sue due parti una prima dedicata agli studi sulla
presenza di Dante nelle marche di prodotti e negli spot pubblicitari da prima
di Carosello – il notissimo contenitore pubblicitario che la TV italiana ha
proposto per vent’anni tra il 1957 e il 1977 – ai giorni nostri, con relativo apparato iconografico; e una seconda, Spot, dedicata alla vera e propria schedatura degli spot e dei manifesti pubblicitari riferiti a Dante con una dettagliata
riproduzione dei fotogrammi, la durata degli spot, la citazione del luogo e
dell’anno di produzione e inoltre a una breve descrizione dello spot e della
relativa sceneggiatura.
La prima parte, risultato di una scrupolosa operazione di ricerca e di analisi sulla percezione mentale della società contemporanea a proposito dei temi
issn 2385-5355
304 Dante e l’arte 2, 2015
danteschi, mostra come il modello pubblicitario abbia “saccheggiato” la letteratura in genere e la produzione dantesca in particolare, utilizzandola come
un’immensa base di dati da cui attingere temi, versi ma anche motti e proverbi
sui quali fondare le operazioni di marketing.
Naturalmente il significato originario dei testi danteschi è messo in secondo piano o completamente rovesciato in quello che a mio parere può essere
definito un “contrappasso pubblicitario” per analogia o per contrasto. Un caso
di tale “contrappasso” che riguarda la vita dello stesso Dante è per esempio
quello della marca italiana dell’olio “Dante”, nato come olio da esportare negli
Stati Uniti per gli emigranti italiani e che richiamasse già solo per il nome il
concetto di patria lontana, oltre ad associare immediatamente l’Italia al nome
del suo Poeta. E non è da dimenticare, nota De Martino (p. 22), che in Paradiso XXI, 115 Dante fa parlare san Pier Damiani dei suoi semplici pasti conditi
con “liquor d’ulivi”.
Un altro esempio di questo “contrappasso” riguarda il caso della pigrizia
delle anime del purgatorio associata alla pigrizia intestinale che sarebbe evitata grazie all’acqua purgativa “Beatrice” della San Pellegrino ricollegata al
verso “io son Beatrice che ti faccio andare” –ma qui sottintendendo “andare di
corpo”–, slogan di cui si sono già occupati vari dantisti spesso disapprovando,
come ha fatto A. Vallone nel 1991, lo stravolgimento –un vero rovesciamento
“scurrile”– del verso dantesco (p. 37).
Dante è stato impiegato a fini divulgativi e pubblicitari anche in altri ambiti, come nelle riviste aziendali dei primi del ‘900, tra cui quelle della Fiat e
della Pirelli che hanno utilizzato Dante per avvicinare il mondo della scienza
automobilistica a quello della letteratura; ma si dà anche il caso della propaganda politica italiana della prima guerra mondiale, quando i versi danteschi
sono stati utilizzati su cartoline illustrate con fini di divulgazione e giustificazione della politica interventista (p. 41).
Ma è dall’inizio di “Carosello”, il programma pubblicitario incominciato
in Italia il 3 febbraio 1957, che Dante entra a pieno titolo nella pubblicità televisiva. Oltre al già citato olio, anche la pubblicità Barilla proponeva l’attore
Giorgio Albertazzi che recitava il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare legandolo ai suoi ricordi a proposito di poesie d’amore studiate da adolescente.
Il nesso con la pasta Barilla nello spot del 1958 non appare chiaramente ma
ricordiamo che anche attualmente il marchio evoca nei suoi spot e nello slogan
il richiamo alla famiglia, all’adolescenza e all’infanzia.
E proprio come accade nella Divina Commedia, in cui il contrappasso
avviene anche per contrasto, il nesso tra il contrappasso pubblicitario ed episodio dantesco può essere anche rovesciato, come è il caso della pubblicità
di Paolo e Francesca che, nello spot del 1963-1965 della macchina per cucire
Singer, leggono fumetti di Walt Disney. Il lieto fine della vicenda sottolinea
Dante e l’arte 2, 2015 305
il rovesciamento: Gianciotto non uccide i due amanti, ma anzi è felice che
Francesca “abbia finalmente trovato qualcuno che le legga i fumetti mentre
lui va a caccia” (p. 53).
Dopo la chiusura di Carosello, nel 1977, “la presenza di Dante in pubblicità subisce un calo decisivo” ma ritroverà nel cinema, spiega De Martino, “la
sua rivincita e la sua affermazione in una forma nuova e creativa” (p. 55), come
è il caso dei film di Federico Fellini. In Amarcord (1973), per esempio, nella
scena della tabaccaia “Fellini gioca con un manifesto del Fosforil con un visual
dantesco surreale” in un contesto in cui “la parodia letteraria giocosa riflette il
punto di vista del film ovvero quello del giovane Titta (p.58)”, il protagonista
del film. Più sarcastico nel film Ginger e Fred (1985), Fellini propone nella
scena iniziale del film Ginger che, arrivata alla stazione, sale su un pulmino
dove si sta trasmettendo, in un piccolo monitor sistemato sul cruscotto, una
pubblicità di orologi interpretata da Dante che, perso nella selva oscura, usa
l’orologio di marca “Beatrix” per ritrovare la strada. Il contesto del film è
quello della “«selva» di cartelloni pubblicitari grotteschi, mendaci e spesso
volgari di cui il film è ricchissimo e segna una critica ironica ma severa alla
pubblicità che, oltre a banalizzare e volgarizzare la letteratura, ne diventa una
potenziale nemica” spiega De Martino alle pp. 59-60. Negli anni ‘80 infatti
il film evidenziava una società –e di conseguenza anche il mondo della pubblicità–completamente cambiata, con la preminenza della TV commerciale
rispetto ai valori culturali che avevano caratterizzato i primi anni della TV
italiana. Sarà nel decennio seguente, tra il 1990 e il 2000, che Dante tornerà
sulle scene pubblicitarie italiane ma “in versione allegra e scanzonata”, abbandonando il suo prestigio letterario e scendendo a livelli quotidiani e più
concreti. La nuova partita si gioca –spiega De Martino, riprendendo J.-M.
Floch (1992)– sulla “pubblicità obliqua”, cioè “su quella altamente ipertestuale
che gioca con la parodia letteraria” (p. 62). Ne è un esempio la pubblicità del
caffè Lavazza del 2002, dove in una scena ambientata in Paradiso –con riferimento all’eccellente qualità del caffè– san Pietro spiega che “Una volta qui
c’è stato un poeta di passaggio, […] Dante Alighieri” (p. 65); ma anche quella
dissacrante in cui appare la “podomorfizzazione”, come la definisce l’autore,
dell’immagine del poeta proposta dalla marca di pantofole De Fonseca che nel
2007 ridisegna la faccia di Dante “a forma di piede avvolto da un cappuccio
rosso a mo’ di pedalino con tanto di alloro”. Ma la partita dell’effimero tra
la pubblicità e il capolavoro dantesco è giocata, e probabilmente vinta dalla
pubblicità, nello spot della carta igienica Foxy Mega, dove il poeta è rappresentato mentre ha appena finito di scrivere la Divina Commedia niente meno
che su carta igienica, con allusione nello slogan alla lunghezza “smisurata” del
rotolo (pp. 66-67).
306 Dante e l’arte 2, 2015
Una rivalutazione, pur sempre briosa, della figura del poeta si ha nella
campagna del 2012 diretta da G. Muccino per la Tim, nota compagnia telefonica italiana, che nel ciclo “La storia d’Italia secondo Tim” pensata per i
150 anni dell’Unità d’Italia ha dedicato moltissimi spot alla Divina Commedia.
Nel corso di questa campagna –“la più ampia […] mai realizzata sull’autore
[…] si rievocano moltissimi canti ed episodi danteschi”, basandoli sul principio della “transmotivazione”, ovvero della “nuova motivazione positiva che
prenda il posto di quella originaria” (p. 72) attraverso l’uso di artifici retorici
quali l’ironia e l’anacronismo, come lo smarrimento nella selva oscura dovuto
alla mancanza di credito nel telefonino oppure alla comunicazione tra Dante
e Beatrice che avviene dall’Inferno al Paradiso proprio grazie al telefonino.
Queste scene sono ancora la testimonianza, a nostro parere, di un nuovo tipo
di corrispondenza analogica tra l’opera dantesca e il mondo contemporaneo
che si fa notare anche in altri ambiti, come quello della cultura digitale.
È qui infatti che Dante viene proposto come un vero e proprio gioco, anzi,
un videogioco. “Dante’s Inferno” (2010) della Electronic Arts Italia si apre con
i primi versi della Commedia tradotti in inglese, manifestando da una parte
la transnazionalità della diffusione dell’opera dantesca, dall’altra –e principalmente– l’idea commerciale dell’uso della prima cantica nella diffusione del
videogioco in ambito internazionale.
Tra le immagini presenti nella successiva e nutrita sezione iconografica,
relativa alle pubblicità e alle marche citate in questa prima parte di Studi, sono
inserite anche altre “chicche” dantesche: i francobolli dedicati a Dante dal
Regno d’Italia e dalla Repubblica Italiana in varie occasioni; la marca di sigari
“Dante” che dal XIX secolo propone di fumare con il Sommo Poeta; e infine
si presenta il tema dantesco nel settore dell’abbigliamento, con una serie di
foto di t-shirt dal tema dantesco tra cui quelle della serie proposta dalla ditta
Edicart e finanche una borsetta con il profilo di Dante e i l’incipit dell’Inferno.
La seconda parte del libro raccoglie e cataloga l’intera serie degli spot danteschi dal 1957 a oggi ordinati sia cronologicamente sia per lemmi dei prodotti
o delle aziende. Spiega De Martino che “il numero di spot danteschi realizzati
–una cinquantina dal 1957 al 2013– è notevole in riferimento a un solo autore”
(p. 130), specie se si pensa che per le letterature antiche ha schedato meno di
centocinquanta spot e per quelle moderne e contemporanee meno di centotrenta nell’insieme. Visualizzare Dante in una forma artistica odierna come è
quella del messaggio visivo pubblicitario e ascoltarlo attraverso il messaggio in
essa contenuto serve anche per stimolare alla lettura di Dante, perché secondo
De Martino il messaggio pubblicitario contiene, nel suo ipotesto, “un velato e
indiretto invito alla lettura”, trasformandosi in “involontaria pubblicità sociale
e culturale” (p. 84). Il libro si presenta quindi come un ottimo e completo
strumento di lavoro per chi si accinga a studiare la presenza di Dante nei
Dante e l’arte 2, 2015 307
modi di “visualizzazione” pubblicitari degli ultimi due secoli, oltre a essere
un’interessantissima miniera di scoperte e fonte di idee a livello didattico per
presentare Dante in una veste quanto meno inusuale.
Certo il poeta non si sarebbe mai aspettato di finire per essere “oggetto” di
consumo, a sette secoli e mezzo dalla sua nascita, dopo essersi scagliato contro
il consumismo ante litteram della Firenze trecentesca e contro la brama di ricchezza dei suoi contemporanei. L’uso dell’immagine del poeta e del suo poema
nella pubblicità manifesta di certo una contraddizione che rivela quanto il
cambiamento di orizzonte ideologico nell’evoluzione delle forme sociali arrivi
a rendere anche un’opera come quella dantesca un simbolo economico di
cui servirsi; ma la rende anche un’opera da godere in modo diverso da quello
strettamente letterario, proprio attraverso il gioco e l’ironia. Proprio come era
già nel Trecento, quando bottegai e artigiani fiorentini recitavano versi della
Commedia durante le loro attività e i mercanti li trascrivevano sui loro libri
mastri (cfr. C. Bec, 1967) a mo’ di arguzie e detti proverbiali. Forse non è esattamente quello che Dante si aspettava nel suo intento di dare a tutti il pane
del sapere; ma i modi del sapere sono cambiati e questo libro dimostra quanto
sia estremamente necessario adattarsi ai tempi per favorire la circolazione delle
idee e della cultura in ogni sua forma.
Rosa Affatato
Univesidad Complutense de Madrid
De Martino, Delio
Dante & la pubblicità
Levante editori, Bari 2013
256 pp, isbn: 978-88-7949-626-1
Dante e l’arte 2, 2015 309-314
Kretschmann, Tabea
“Höllenmaschine/Wunschapparat”.
Analysen ausgewählter Neubearbeitung von Dantes ‘Divina Commedia’
S
e l’influenza di Dante sulle arti figurative costituisce da gran tempo un
fertile terreno di studi, non così si può dire per le reinterpretazioni della
Divina Commedia in forma teatrale, musicale, radiofonica e cinematografica. Il recente lavoro di Tabea Kretschmann, Höllenmaschine/Wunschapparat.
Analyse ausgewählter Neubearbeitungen von Dantes ‘Divina Commedia’ inaugura una linea di ricerca che intende colmare questa lacuna a partire dalla
categoria di ‘ricezione produttiva’ fissata da Peter Kuon (1993) nella sua ricerca
sulla fortuna novecentesca del poema. Le messe in scena rappresentano infatti
appieno l’idea di una riscrittura interpretativa che, al di là del gioco intertestuale con i materiali danteschi, fa di questi l’oggetto di una costante transcodificazione e trans-valorizzazione: in questo contesto, è proprio la distanza
incolmabile tra il mondo concettuale e narrativo di Dante e quello degli autori
moderni a determinare la forza innovativa e talvolta provocatrice delle opere
che ne risultano, caratterizzate da un’indipendenza artistica particolarmente
accentuata.
Struttura e procedimenti metodologici della ricerca sono precisati in una
breve Introduzione (pp. 7-23), in cui l’autrice, allieva di Kuon a Salisburgo, definisce tra l’altro il concetto di Neubearbeitung (rielaborazione creativa)
in rapporto a quello di ‘ricezione produttiva’. Nella Neubearbeitung dantesca Kretschmann individua un trend, una spinta artistica presente negli ambiti artistici più diversi, le cui funzioni vanno esplorate in rapporto ai vari
contesti culturali.
A questo scopo, l’autrice analizza una gamma abbastanza ampia di adattamenti lasciando volutamente da parte sia le arti figurative che le rielaborazioni in forma di thriller [sul quale tema (ad esempio su The Dante Club
di Matthew Pearl) si può rimandare ai lavori di D. Frenz (2003, 2009)] e
concentrandosi su testi provenienti da ambiti culturali diversi. Oggetto dell’analisi sono, accanto alle riscritture drammatiche della Divina Commedia di
Edoardo Sanguineti, Mario Luzi e Giovanni Giudici (1989-91) ed al musical
religioso La Divina Commedia. L’opera. L’uomo che cerca l’Amore (2007) di
issn 2385-5355
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mons. Marco Frisina, il dramma Inferno di Peter Weiss (1964/2003), la trilogia di Tomaž Pandur Inferno. The Book of the Soul (2001-2002) e il dramma
radiofonico Radio Inferno (1993) di Andreas Ammer. Completano il corpus
l’adattamento televisivo A TV Dante – Cantos I-VIII (1988), di Peter Greenaway e Tom Philipps, e la commedia di animazione Dante’s Inferno (2007) di
Sean Meredith.
L’indagine si apre con il dramma di Peter Weiss, composto nel 1964 e
pubblicato postumo nel 2003 (Cap. 1, pp. 25-78). Si tratta di un’opera particolarmente rappresentativa della ricezione tedesca di Dante nell’immediato
dopoguerra, che utilizza i temi dell’Inferno per alludere all’inferno dei sopravvissuti ed alla vita in esilio mettendo in scena “il rapporto d’interdipendenza tra linguaggio e progetto esistenziale” (p. 57). Il motivo della perdita di
linguaggio e memoria vi riveste un ruolo di primo piano; ci si può chiedere
a questo proposito fino a che punto la sua rilevanza sia in rapporto con la
dimensione autobiografica dell’autore, come interpreta Kretschmann (pp. 60
ss.), e non piuttosto con un contesto sociale che rifiuta il confronto con il
proprio passato e che pure è criticamente riflesso nel testo (pp. 44ss.).
Nel secondo capitolo (pp. 79-108) si analizza la Commedia drammatizzata
di Sanguineti, Luzi e Giudici. In particolare il “travestimento dantesco” di
Edoardo Sanguineti si presenta quale espressione della poetica del gruppo 63
come un testo assai complesso, in cui i materiali linguistici e tematici tratti
dalla Divina Commedia sono oggetto di una decostruzione talvolta dissacrante. Attraverso il mezzo artistico, Sanguineti sembra, secondo Kretschmann (p.
92) presupporre e al tempo stesso respingere la valenza “sociale” del poema
dantesco e del suo contenuto per il mondo attuale. La stessa idea traspare dalla
rappresentazione del Purgatorio da parte di Mario Luzi (p. 98), nonostante la
prospettiva più realistica, attraverso lievi scarti che introducono “piccoli punti
interrogativi” (ibid.) nella percezione dello spettatore; lo stesso principio di
straniamento appare sotteso alla “satura drammatica” Il paradiso. Perché mi
vinse il lume d’esta stella di Giovanni Giudici. Nelle nove scene con prologo in
cui essa si articola, la struttura chiusa della narrazione dantesca viene spezzata
a favore di un procedimento collage che mette insieme citazioni e reminiscenze
di testi ed autori delle epoche più diverse, quasi a dimostrare che “ciò che costituiva la grandezza riconosciuta dell’opera non ha più una validità assoluta”
a livello sia estetico che tematico (p. 108). Si tratta di un punto fondamentale,
che forse sarebbe valso la pena di inquadrare più accuratamente sullo sfondo
dell’estetica della seconda metà del Novecento.
La trilogia Inferno. The Book of the Soul di Tomaž Pandur, caratterizzata dai
marcati toni surreali e dal forte riferimento alla sfera della corporeità, è oggetto nel terzo capitolo di una lettura comparatistica che la riconnette al théâtre
de la cruauté di Artaud. L’autrice rileva giustamente a questo proposito la rile-
Dante e l’arte 2, 2015 311
vanza dell’elemento arcaizzante e mitico, che avvicina notevolmente la poetica
di Pandur a quella di Artaud malgrado l’assenza nella trilogia del principio
dello “choc estetico” (p. 136). La dimensione mitica e l’uso del testo come
veicolo d’impressioni a carattere estetico e sensoriale costituiscono secondo
Kretschmann l’interesse preponderante dell’autore rispetto ad altri piani di
significato quali la trasmissione di significati sociali e politici (p. 138); i due
livelli di senso, tuttavia, a nostro giudizio non si escludono a vicenda, specie
se si inquadra la riscrittura dantesca sullo sfondo della poetica postmoderna,
in cui i procedimenti intertestuali danno vita a “opere aperte” caratterizzate
proprio dalla compresenza di letture diverse, contrastanti e tutte legittime, in
dipendenza unicamente dalle scelte del lettore. Non a caso, le rielaborazioni intermediali della Commedia mostrano una forte autoriflessività anch’essa
tipica dell’arte postmoderna; un aspetto di grande interesse che la ricerca di
Kretschmann riscontra già a partire dall’Inferno di Peter Weiss e pone giustamente in rilievo. I testi sembrano mettere in questione il valore assoluto
della parola, specialmente nella misura in cui vi affiancano la potenza dell’immagine e/o del gesto. Questo è evidente, in particolare, nella messa in scena
televisiva di Greenaway e Phillips (Cap. 4, pp. 139-170), che si presenta per
certi versi come un palinsesto di citazioni e interpretazioni, come pure nella
rielaborazione radiofonica di Ammer (Cap. 5, pp. 171-196) a cui non sono
estranei aspetti di critica ai media (p. 179).
La critica sociale è alla base anche della commedia animata di Sean Meredith (pp. 197-228), rappresentata nel 2007 con figure disegnate a mano
che appaiono sul palcoscenico di un teatrino di marionette. In questo caso,
assistiamo ad una rielaborazione particolarmente complessa ed a più livelli:
l’animazione è basata su un testo illustrato, opera a quattro mani del pittore
americano Sandow Birk e del giornalista Marcus Sanders, in cui l’Inferno dantesco diviene paradigma-parodia della società americana. Gli autori si servono
a loro volta di una varietà di reminiscenze intermediali, tra cui quelle evidentissime da alcuni cicli illustrativi classici del poema dantesco, quali le stampe
di Doré, per una riscrittura il cui valore eversivo e provocatorio Kretschmann
sembra sottovalutare leggermente attribuendole soprattutto scopi d’intrattenimento con effetti comici (p. 224-225).
Nell’ultimo capitolo dell’analisi, l’autrice discute infine quello che è un
caso unico nella ricezione della Divina Commedia, e cioè la messa in scena
del poema dantesco in forma di musical ad opera di mons. Marco Frisina,
direttore musicale della basilica di San Giovanni in Laterano ed autore di
composizioni che spaziano tra i più diversi generi, dall’oratorio alla musica
liturgica, fino alla colonna sonora di film andati in onda sulle reti televisive
italiane. Il musical, ideato in corrispondenza con la pubblicazione dell’enciclica papale Deus caritas est (2005) sul tema dell’amore, si propone di avvicinare
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il testo della Commedia ad un pubblico il più vasto possibile attingendo alla
cultura contemporanea dell’”evento d’intrattenimento” (p. 247) ed evidenziando il tema dell’amore divino come la vera chiave di lettura del poema. In
relazione al proposito di divulgazione alla base del progetto, Kretschmann si
sofferma sulle modalità di organizzazione e promozione dell’evento, nonché
sulla ricezione, nel cui ambito – malgrado il generale successo – non sono
mancate voci critiche (p. 233-234). Le caratteristiche dell’opera di Frisina sono
discusse sulla scorta delle letture sociologiche dell’attuale Erlebnisgesellschaft
ovvero “società dell’esperienza” (il riferimento è qui al complesso di impressioni cognitive ed emotive derivanti dai vari momenti del vissuto, come sintetizzato dal termine tedesco Erlebnis, di per sé intraducibile e collegato al
verbo erleben – cioè vivere partecipando, vivere direttamente e fino in fondo,
per l’appunto un’esperienza) e inquadrate nel contesto di tutta una serie di
rielaborazioni della Commedia in forma di evento culturale che hanno visto
la luce intorno all’inizio degli anni Duemila, come lo spettacolo di acrobati,
fuochi d’artificio, musica e giochi di luce ad opera del gruppo catalano La
fura dels Baus, andato in scena il 19 giugno 2002 in piazza Pitti a Firenze o la
recitazione radiofonica di Vittorio Sermonti (1987-1992), anch’essa caratterizzata da propositi divulgativi (p. 250). Pertanto, il musical religioso si sviluppa
secondo la lettura di Kretschmann come un tentativo di attualizzazione del
testo medievale, trasformando quest’ultimo, attraverso il processo di ricodifica
intermediale, in un’opera moderna con valore edificante che evidenzia una
delle letture possibili di Dante ma ne esclude al contempo molte altre (p. 246).
Tale carattere unidimensionale dell’opera ne costituirebbe uno dei principali
limiti: il musical darebbe vita in ultima analisi ad un evento “missionario” in
formato “Klero-Pop” (p. 255), tanto più che, come giustamente osservato dalla
studiosa (p. 248), tipico della “cultura dell’evento” è escludere la riflessione in
favore di una fruizione sensorial-emozionale del testo.
Nel capitolo finale (pp. 257-271), il lettore troverà uno sguardo riassuntivo
che tira le somme della riflessione condotta nell’analisi. I testi considerati da
Kretschmann confermano la tendenza già osservata da Kuon a proposito della
narrativa: Nella cultura attuale, il carattere paradigmatico della Divina Commedia quale testo legato ad una precisa visione del mondo su basi di fede ne fa
un riferimento intertestuale ed intermediale privilegiato la cui decostruzione
o reinterpretazione evidenzia, per contrasto, con particolare efficacia la definitiva caduta di tale visione e la perdita di certezze. Proprio per questo, come già
sopra accennato, sarebbe stata opportuna una più accurata contestualizzazione
culturale delle opere discusse, in relazione alle poetiche e ai procedimenti artistici del postmoderno, questione affrontata parzialmente nell’analisi e giustamente accennata nel capitolo finale (p. 267); ciò risulta comunque al lettore
più che comprensibile in considerazione della ampiezza e varietà del corpus e
Dante e l’arte 2, 2015 313
rientra tra gli aspetti che fanno del lavoro di Tabea Kretschmann un utilissimo
punto di partenza per ulteriori ricerche, non solo per i dantisti ma anche per
studiosi di cultura e media.
Antonella Ippolito
Kretschmann, Tabea
“Höllenmaschine/Wunschapparat”. Analysen ausgewählter Neubearbeitung von Dantes
‘Divina Commedia’
Bielefeld, Transcript 2012
291 pp., isbn: 978-3-8376-1582-1
Riferimenti bibliografici
Kuon, P., 1993, Lo mio maestro e’l mio autore. Die produktive Rezeption der “Divina
Commedia” in der Erzählliteratur der Moderne, Frankfurt am Main, Klostermann.
Frenz, D., 2003, “Dante und die Serienkiller. Zur Erfolgsgeschichte einer
Genrekonstante“, in W. Hülk (ed.), Spektrum. Siegener Perspektiven einer romanischen Literatur-, Kultur- und Medienwissenschaft, Siegen, universi –
Universitätsverlag, 2003, 37-51;
—, 2009, “Dante und die Serienkiller II. Spielarten des Genres bei Matthew Pearl
und Giulio Leoni“, in M. Erstic (ed.), Spektrum reloaded, Siegen, universi –
Universitätsverlag 2009, 113‑143.