Lo scrittore solitario

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Lo scrittore solitario
Lo scrittore solitario
di Emanuele Biolcati
Il paese è piccolo e insignificante. E gli abitanti, piccoli e insignificanti a
loro volta, non fanno che rendere il luogo inospitale e chiuso, in modo ancor
più marcato di tutti gli altri paesini francesi.
Sasha siede ad un tavolo di una non originale brasserie, in attesa della
sua noix d’entrecote, e scrive. Scrive per non voler sembrare il solito single
acido che cena da solo, senza nemmeno un patetico libro sporco di cibo da
leggere tra una forchettata e l’altra. O forse scrive per non pensare ad Irina,
cosı̀ lontana, cosı̀ estranea.
Arriva la birra, arriva il cestino con il pane, arriva il coltello, rigorosamente Laguiole, mentre i francesi al tavolo accanto continuano a parlottare
mantenendo il loro consueto tono di voce senza accenti e senza enfasi. Una
bambina entra nel locale, quattro anni e capelli lunghi sugli occhi. Sasha
non ha dubbi che la madre le ordinerà patatine fritte con tanto ketchup.
All’improvviso si accendono le luci del tramonto e il locale acquista nuovi
colori. Ora si crea persino una ben definita ombra di mano e penna che
scrivono.
Ombra. Il pensiero vola immediato ad Irina e alla sua ombra in quella
vecchia fotografia sulla neve, scattata velocemente, senza pensare troppo a
tempi e diaframmi, ma giusto per non perdere l’espressione dei suoi occhi.
Occhi che, a dirla tutta, non si vedono neppure nell’immagine, perché è una
silhouette e pure in bianco e nero, ma Sasha non li può dimenticare, cosı̀
come non può dimenticare tutta la loro tristezza. Stava, infatti, per finire
quell’isolata settimana di vacanza e lui sarebbe presto ripartito per il lavoro
in quell’assurda Francia. Irina si impegnava e si impegnava per nascondere
tutta la sua amarezza, ma gli occhi rimanevano lucidi e brillavano per il
riverbero del sole sulla neve.
Entra ora una ragazza altissima e splendida. Un ragazzo entra dopo
di lei e sı̀, si accomodano allo stesso tavolo. Paradosso, casualità, destino,
qualunque cosa sia, ma rimane il fatto che quello e proprio quello è il tavolo
in cui Sasha e Irina consumarono la loro prima cena francese. Quella sera
faceva freddo, era inverno, e lui poteva scaldarle le mani passando alla destra
del piatto.
Ma perché è andato in quella brasserie?
Ecco la carne, ottima, come già sapeva. Quando si è soli il rumore
delle posate sul piatto diventa assordante e cosı̀ Sasha continua a scrivere,
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scrivere, scrivere.
Mentre le lettere cadono dalla penna, il volto di Irina gli rimane fisso
davanti agli occhi e dietro quel volto si alternano paesaggi che i due amanti
hanno visitato insieme. Ora il castello medievale quasi tratto da una favola,
ora il Mar Rosso, quando lei, piena di salsedine gli raccontava delle specie
rare di pesci che aveva visto.
La cameriera. È carina, magra, giovane, ma ciò che più colpisce Sasha
è la sua sicurezza. La sicurezza dolce di chi non ha dubbio che a fine turno
potrà chiamare, guardare o baciare qualcuno che ricambia amore. Sasha
non ha la centesima parte di quella sicurezza.
Allora perché stare lı̀ a quello stupido tavolo? In quel tanto diverso
paese? Cosı̀ lontano dalla sua terra, quando invece potrebbe stare stretto a
lei, dormire nel suo letto, sentire quella tanto desiderata voce!
Sasha ora sa cosa deve fare. Dice la sua forse ultima frase in francese:
“L’addition, s’il vous plait” per poi uscire e cambiare tutto. Mentre lascia
la mancia alla cameriera la fissa negli occhi, ora hanno entrambi la stessa
sicurezza.
Sono la cameriera della brasserie di S*** e ho trovato queste pagine sul
tavolo, lasciate da un insolito cliente che ha scritto durante tutta la cena. È
passato ormai un anno da quella sera. Oggi è entrata nel locale una donna
russa di nome Irina Michailovna e mi ha chiesto se per caso avessi mai visto
un tale la cui descrizione mi ha fatto venire in mente proprio quell’insolito
cliente. Le ho mostrato le pagine scritte e lei hai riconosciuto la sua scrittura,
poi si è messa a piangere e mi ha detto che da quasi un anno non ha più sue
notizie.
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