GRAMMATICA DIALETTALE PESARESE

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GRAMMATICA DIALETTALE PESARESE
NOTE DI
GRAMMATICA
DIALETTALE
PESARESE
A CURA DI
Marcello Martinelli.
… Il dialetto che prendo in considerazione è quello che io chiamo della zona del mè: è
infatti una zona molto ristretta quella in cui per dire io si dice mè; a Fano dicono ji, ad
Urbino dicono i , a Carpegna ia, in certe zone dell’entroterra pesarese dicono ié. Noi
siamo pertanto gli unici a dire mè, il che fa sì che la nostra lingua dialettale sia
considerata come la più meridionale delle parlate romagnole e non come un dialetto
marchigiano…..
Sono del parere che siano da preferire le forme che recano una u al posto di una o
quando la sillaba non è (o non è più) accentata: ad es. si dirà mè a purtèva e non mè a
portèva anche se nel presente ind. si dice mè a pòrt, così come avviene spesso per la a
che quando è colpita dall’accento diventa e (el panén > el pèn, el favén > la fèva, el
g’ladén > el g’lèd), ma soprattutto penso che il suono nasale dinanzi alle labiali P e B
sia nel nostro dialetto N e non M per cui scrivo sempre onbra , canp, bónba, lanp,
cunbinèd, ecc.
Da principio il lettore troverà l’accento acuto o grave sulle lettere e ed o (è/é, ò/ó)
nelle sillabe toniche, alla fine però esso sarà posto solo nei casi di omografia (p.es. abét
= abete e abèt = abate; caplén = cappellino e caplèn = cappellano).
A coloro che si avvicinano per la prima volta alla Lingua Dialettale Pesarese dico:
“In bocca al lupo”; ringrazio coloro che il dialetto lo conoscono già e che sperano di
trovare qualcosa di nuovo in questa pubblicazione, che non ha la pretesa di risolvere
tutti i problemi di una lingua dialettale che solo in questi ultimi tempi è diventata una
lingua scritta. Una pubblicazione alla buona, non certamente a livello accademico,
accessibile quindi a tutti.
M. M.
“Ormei el bsares vera i ‘nn el parla pió (più) nisciun (nesun)”. …..
L’ALFABETO
Le lettere dell’alfabeto si scrivono e si leggono quasi tutte come in italiano. Fanno eccezione:
C’
quando la C dentro una parola ha suono palatale ed è seguita da consonante (es. ec’ne = aci
no, ben diverso da ecne = eccone [ecne ona]; lac’me = allàcciami, ecc.).
CHJ
suono occlusivo velare sordo caratteristico del dialetto pesarese in parole che corrispondono a
termini italiani che finiscono per CHIO, CHIE, (es. macchj = macchie,
ochj = occhio, mucchj = mucchio, secchj = secchio, picchj = picchio). Le ultime due
parole non debbono confondersi con secch = secco e picch = picco (es. taja sti rèm secch
e i è gidi a picch).
E
normalmente è come in italiano, ma si userà e aperta (è) od e chiusa (é) nei casi di
ambiguità (e mè = io soggetto e me = me complem., tè e te, lètt = il lètto e létt = lètto (part.
pass. del v. leggere) od in parole tronche (Es. parchè = perché).
G’
quando la G ha suono palatale ed è, all’interno della parola, seguita da consonante (g’ner =
gennaio, g’led = gelato, g’nocchj = ginocchio, da non confondere con gnocch = gnocco.
GHJ suono occlusivo velare sonoro, caratteristico del dialetto pesarese in parole che corrispondono
a termini italiani che finiscono per GHIO, GHIE (a volte anche GLIO): Es.
cinghj
= cinghie,
unghj = unghie, svegghj = sveglio. Un suono simile si ritrova anche in
sgraffj = graffio, gonfj = gonfio, sgonfj = sgonfio ed altre parole terminanti in FI.
GN’ quando il suono nasale palatale si trova all’interno di una parola ed è seguito da consonante
(ad es. Sant’Agn’le = Sant’Angelo, agn’lén = agnellino, garavógn’la = caviglia.
J
si legge I e si trova a volte tra due vocali , com’era un tempo nella lingua italiana in termini
come rasojo, pajo, ecc. (Es. maja = maglia, sfoja = sogliola, sfoglia, ajud = aiuto) o
con funzione eufonica quando una parola che termina per vocale è seguita da una voce verbale
che inizia per vocale (lia la jà, mè a jandèva, lorle le javéva), inoltre si adopera quando
il
corrispondente termine italiano contiene il gruppo GLI (fojacc = fogliacce, vòja
=
voglia.
Infine si adopera j nel significato di a lui, a lei, a loro oppure nel significato di ci, vi, in quel luogo
(Es. A j dagh na lutta! = Gli do una bastonata! e An j vo’ bochè! =
Non vuole entrarci!).
O
normalmente è come in italiano, ma si userà o aperta (ò) od o chiusa (ó) nei casi di ambigui
tà (Es. pó = poi e pò = puòi, può, bótt = bótte e bòtt = rospo, colpo) ed in parole tronche
(Es. prò = però).
SC’ nei casi in cui SC è interno in una parola ed ha dopo di sé una consonante (Es. lasc’me stè =
lasciami stare - SC’ + CONS- mentre L’è fugid cum una lascia = E’ fuggito a gambe leva
te - SC +VOC.).
L’ ARTICOLO
È quella che tradizionalmente viene illustrata per primo fra le nove parti del discorso. Esso può essere
determinativo (singolare el, l’, la; plurale i, j, le o li): ad es. el lup = il lupo, l’albre = l’albero,
l’erba = l’erba, la ploja = il lamento; i turmènt = i tormenti, j abis = le matite, le sòr = le suore, li
àsol = le asole; oppure indeterminativo (solo singolare) un, ‘n (maschili) una, na, n’(femminili): ad
es. un ciaff = una cosa di poco valore, ‘n armèri = un armadio, una canbra = una camera, na volta =
una volta, n’ inticchia = un pochettino.
Esiste anche una forma di articolo detto partitivo usato
quando vogliamo dire al singolare un po’ di , al plurale alcuni (del, dl’, dla e di, dj, dle): Es. A vrìa
del pèn fresch = vorrei un po’ di pane fresco; A n’ vòj dl’ atre = ne voglio un altro po’; A vressme dla
nafta = vorremmo un po’ di gasolio; Furtuna ch’c’era di sulded propi malé = fortuna che c’erano dei
soldati proprio lì; c’era dj om malé in pid = c’erano alcuni uomini lì in piedi; tucarìa mettj anca dle
pated = ci si dovrebbe mettere anche alcune patate.
Useremo l’articolo indeterminativo quando vogliamo parlare di una cosa nuova, mai nominata prima;
se invece vogliamo parlare di cosa di cui abbiamo già detto, allora usiamo quello determinativo.
P.es.: ...L’altriri na tachena la jà ‘ncuntred ma un lup. El lup, ch’se sà ch’l’è pén d’malizia, j à dett,
ma la tachéna... .
Spesso l’articolo si fonde con una preposizione semplice formando in tal modo la preposizione
articolata.
Dalle preposizioni semplici abbiamo le seguenti preposizioni articolate:
da DE DEL (DE + EL) - DLA (DE + LA) - DI o DJ (DE + I od J) - DLE (DE + LE)
(di)
DL’ (masch. e femm. sing. qualora la parola che segue inizi per vocale).
da MA MAL (MA + EL) - (però scriveremo regolarmente ma l’, ma la, ma j, ma i, ma le)
(a) *
da DA
DAL (DA + EL) - (però scriveremo regolarmente da l’, da la, da j, da i, da le)
(da)
da TUN TEL (TUN + EL) ed anche IN TEL , ‘N TEL - TLA (TUN + LA) ed anche IN
(in)
TLA, ‘N TLA - TI o TJ (TUN + I od J) ed anche IN TI, ‘N TI, IN TJ, ‘N TJ TLE (TUN + LE) ed anche IN TLE, ‘N TLE. Ci sono anche le forme TL’, IN TL’
e ‘N TL’ quando la parola che segue inizia per vocale.
da SA SAL (SA + EL) - (scriveremo però regolarmente sa l’, sa la, sa i, sa j, sa le.
(con)
da SÓ SEL (SÓ + EL) ed anche IN SEL, ‘N SEL - SLA (SÓ + LA) ed anche IN SLA ,
(su) ‘N SLA - SI o SJ (SÓ + I od J) ed anche IN SI, ‘N SI, IN SJ, ‘N SJ - SLE
(SÓ + LE) ed anche IN SLE, ‘N SLE.
da PAR PEL (PAR + EL) - PLA (PAR + LA) - PI o PJ (PAR + I od J) - PLE
(per) (PAR + LE). Molto spesso però la fusione fra preposizione e articolo non avviene per cui
troviamo spesso
par el, par la, ecc.
TRA e FRA **)
NOTE
*) Oltre a MA troviamo la preposizione italianizzata A come nei segg. Esempi; al
ventisett del més (al ventisette del mese), ai prém giuvdé (ai primi giovedì), framezz ai stracc (in
mezzo agli stracci), a pid (a piedi); ed al posto di TUN possiamo trovare IN : l’era gid in chisa
(era andato in chiesa).
**) Le preposizioni TRA e FRA, come in italiano, non si articolano.
IL
NOME
Seguendo sempre l’ordine tradizionale veniamo ora a parlare del nome, che assieme al verbo è il
sostegno principale del discorso. Mi sembra inutile illustrare le varie categorie: concreto ed astratto,
principale e derivato, accrescitivo diminutivo peggiorativo e vezzeggiativo, comune e proprio, ecc.,
che sono le stesse che esistono nella lingua italiana. Occorre anzitutto sfatare l’opinione che il dialetto
sia un italiano di seconda categoria, l’italiano parlato da gente rozza e incolta, che non è capace di
esprimersi in lingua perché è ignorante. Ma noi, ci esprimiamo bene? Diciamo perchè (con la E finale
aperta, spesso addirittura spalancata), invece di dire esattamente perché; diciamo qui a Pesaro diéta
invece che dièta, dòpo anziché dópo, bósco al posto di bòsco, piéde e non piède e così via. Ad ogni
modo il dialetto non è l’italiano degli ignoranti: entrambe le lingue derivano dal latino, come due
sorelle, e questa dipendenza nel dialetto è spesso più evidente [p.es. léppa = scappellotto viene dal
latino alapa(m), luzza = creta, fango viene dall’aggettivo latino lutea(m)]. Ma torniamo alle
categorie del nome, delle quali stavamo parlando. A noi interessa soprattutto il genere del nome, che
può essere maschile o femminile. Ci sono dei nomi che passano dal maschile al femminile con
l’aggiunta di una a: el caval, la cavala; el lup, la lupa. Non ci si deve però lasciar trarre in inganno: el
chès (il caso) non è il maschile di la chèsa (la casa) e el stròppi (lo storpio) non è il maschile di la
stròppia (rinforzo nel traino): e così el pér è detto per significare “l’albero”, la péra per il “frutto”. Ci
sono poi dei nomi che si presentano perfettamente uguali al maschile ed al femminile, ma hanno
significati completamente diversi, come el frónt (la frontiera) e la frónt (la fronte). Alcuni esseri
animati hanno nomi completamente diversi per rappresentare il maschio e la femmina: l’om (l’uomo) e
la dòna (la donna), el baghén (il maiale) e la scróvva (la scrofa), el tòr (il toro) e la vaca (la mucca),
el gall (il gallo) e la galéna (la gallina), ecc.
Per quanto riguarda il passaggio dal singolare al plurale a noi interessa sapere quanto segue:
1) i nomi femminili che terminano in a talvolta pèrdono la vocale :la ròda (la ruota) > le ròd, la riga
> le righ, la vaca (la vacca) > le vach, la scarpa > le scarp, la schèla (la scala) > le schèl , la bócca >
le bócch; a volte cambiano la vocale a in e: la pégra (la pecora) > le pégre, l’aqua > li aque, la tavla
(tavola) > le tavle.
2) i nomi femminili che terminano per consonante nonsubiscono alcuna variazione fonetica,
cambiano cioè solo l’articolo: la légg (la legge) > le légg, la chièv ( la chiave) > le chièv, la luc (la
luce)> le luc, la cro (la croce) > le croc, la pèc (la pace) > le pèc, la nèv (la nave) > le nèv, la falc
(la falce) > le falc, la bótt (la bótte) > le bótt.
3) i nomi maschili restano invariati nel passaggio da singolare a plurale, cambiano solamente
l’articolo: el taj (il taglio) > i taj, el libre (il libro) > i libre, el carr (il carro) > i carr, l’albre
(l’albero) > j albre, el g’nochj (il ginocchio) > i g’nochj, el bracc (il braccio) i bracc. Fanno
eccezione i nomi terminanti in L che al plurale cambiano la L in I, p.es: garagól (murice) che fa
garagói, cavàl (cavallo) che fa cavài, ganbul (gambo, peduncolo*) che fa ganbùi, fjól (figlio) che
diventa fjói, zinèl (grembiule) che diventa zinèi, grasciól (cicciolo) che fa grasciói, psciaról
(pescivendolo ) che diventa al plurale psciarói. **
Dal latino HOMO (accus. HOMINEM) ci è venuta la parola l’om che al plurale resta invariata in j
om, ma ci è venuto anche il vocabolo l’omne che al plurale resta invariato inj omne, ma al singolare si
preferisce l’om, al plurale j omne. Alcuni sostantivi a volte si presentano al plurale pur avendo
significato singolare. Es. L’è casched par le schel oppure I à arfatt le pèc.
L’AGGETTIVO
L’aggettivo è quella parte del discorso che si aggiunge al nome per meglio qualificarlo o
determinarlo dal lat. adiectivu(m) = che si aggiunge. Quelli che esprimono una qualità prendono il
nome di qualificativi, quelli che indicano una determinazione si chiamano invece indicativi.
Questi ultimi si dividono poi in: possessivi, dimostrativi, indefiniti, interrogativi e numerali.
I QUALIFICATIVI sono quelle parole che si aggiungono al nome per indicarne una qualità (ad es.
córt = corto, lóngh = lungo, alt = alto, dólc = dolce) e si suddividono in due categorie:
1) quelli che al femminile singolare aggiungono una a al tema (giust, giusta, giust, giust - alt, alta,
alt, alt - trést, trésta, trést, trèst) o che cambiano in a al femminile singolare la vocale del tema
(négre, négra, négre, négre - pèri, pèra , pèri, pèri - mègre, mègra, mègre, mègre).
2) quelli che sono assolutamente indeclinabili (dolc, fort, viola).
Quelli della prima categoria al femminile plurale a volte possono aggiungere le ( S’à da fè le robb
giustle); in quelli della seconda categoria si può a volte trovare il femminile singolare in a (p.es.: An
s’à da magnè la roba dolcia!).
L’aggettivo qualificativo grand, se posto dietro al nome è di 1a categoria (l’ òm grand, na pózza
granda, di mur grand, le vasch grand); se invece precede il nome si hanno allora due casi: se il nome
inizia per vocale l’aggettivo può essere grand, che si apostrofa davanti a nomi femminili, (grand
òm, grand’inbizion), oppure più spesso gran (2a categoria); se il nome inizia per consonante allora
l’aggettivo è sempre gran (el gran maestre, na gran pozza, di gran mur, dle gran vasch). A volte gran
significa “molto”: c’era dla gran gent a sentìl = c’era molta gente ad ascoltarlo; un gran bel po’ =
molto.
L’aggettivo qualificativo bèl fa bèla, bèi, bèle o bèli (un bel sol, na bela fjòla, di bei ragazz, dle bele
ganb o dle beli ganb), forse per attrazione del pronome dimostrativo quel.
Gli aggettivi qualificativi sono anche soggetti ad alterazione: da bel viene blèn, da vèrd viene
verdastre, da grand > grandén, da gròss > gruslén, ecc.
Gli aggettuivi qualificativi puri e semplici vengono detti positivi (grand, fòrt, onèst, trést, ecc.); il loro
valore può però essere rafforzato o diminuito: nascono così i gradi che sono quelli delcomparativo e
del superlativo. Se la gradazione dell’aggettivo vien fatta per stabilire un confronto,una
comparazione, si presuppongono due termini in contrasto fra loro, due elementi che subiscono un
paragone; il positivo viene così inserito fra più o mén e ch’an è o de per il comparativo di
maggioranza o di minoranza e fra tant o acsé (che possono anche omettersi) e cum è o cum per
quello di uguaglianza: p.es. Mario l’è più sanpàtig d’Fernando; lia la jè pió granda ch’an è ló; la Nina
la jè mén precisa dla mèdra; Lino l’è mén pratigh ch’an è su zi; Luig l’è acsé svelt cum è ‘l padrón;
Giorgio el vèn alt cum el pedre.
Il superlativo indica invece il più alto grado della qualità ( o il più basso). Se questa è relativa ad un
gruppo di esseri animati o cose, trattasi di superlativo relativo: p.es. El più alt fra i tre; el mén
inteligènt dla class, a seconda che sia di maggioranza o di minoranza, con il positivo fra pió o mén e
de \ fra. Se invece il più alto grado della qualità è senza confronto allora abbiamo il superlativo
assoluto che si ottiene aggiungendo issim al tema delpositivo (da alt > altissim, da dólc > dolcissim,
da bel > belissim , e così via). Tuttavia questa forma di superlativo, pervenuta certamente attraverso
l’italiano, non è popolare: si preferisce raddoppiare il positivo (alt alt, fort fort, dolc dolc, ecc.).
Alcuni comparativi e superlativi, detti organici, come ad es. migliór, pegiór, méj, pégg, minim,
pessim, ecc. non vengono a volte riconosciuti dal dialetto come comparativi e superlativi per cui si
sente spesso dire: “Più pégg d’acsé an pudrìa gì”; “A vòj l’avuchèd pió méj ch’ce sia”; “I dic ch’t’si
el pió pégg dla class”; “An t’à el pió minim sens d’rispètt par i pió inzièn”.
Per terminare l’argomento aggettivi parleremo ora brevemente di quelli che abbiamo chiamati
indicativi. Essi hanno una funzione che esprime una determinazione possessiva o dimostrativa o
indefinita o interrogativa od anche numerale.
AGGETTIVI POSSESSIVI = hanno la funzione di specificare il possesso e nello stesso
tempo determinano la persona del possessore. Essi sono: mi = mio, mia, miei, mie (el mi ba, la mi mà,
i mi fradèi, le mi nòr), indeclinabile; tu = tuo, tua, tuoi, tue (el tu ba, la tu mà, i tu fradèi, le tu nòr),
indeclinabile; su = suo, sua, suoi, sue (el su ba, la su mà, i su fradèi, le su nòr), indeclinabile;
nòstre = nostro, nostra, nostri, nostre (el nòstre pèn, la nostra pèll, i nòstre débit, le nòstre pén), 1a
categoria; vòstre = vostro, vostra, vostri, vostre (el vòstre pèn, la vòstra pèll, i vòstre débit, le
vòstre pén, 1ª categoria; su = loro (come su di suo). Questo però quando il possessivo precede il
nome, quando invece lo segue aggiunge una a (a volte una o per il maschile) a mi, tu, su, mentre
nostre e vostre fanno allo stesso modo: solo mi, tu, su cambiano e diventano mia, tua, sua (a volte
al maschile mio, tuo, suo). Esempi : el mi pèn diventa el pèn mia o mio, la tu sédia diventa la sédia
tua, el su libre diventa el libre sua o suo, mentre le nostre chès e le vostre scarp non variano (le chès
nostre, le scarp vostre). Gli ha dato quello che si meritava in dialetto si dice j à dat le suo; in
questo caso il possessivo è usato, come spesso avviene, con funzione pronominale: ne parleremo a suo
tempo trattando dei pronomi. Per il momento si osservi la seguente frase nella quale il possessivo è
usato prima come aggettivo, poi come pronome: el tu (agg) quaderne l’è bèl, el suo (pron) el fa schif.
AGGETTIVI DIMOSTRATIVI = Sono chel e ste (questo e quello). Mentre in italiano c’è
una sola forma per l’aggettivo ed il pronome, in dialetto abbiamo vocaboli diversi: chel / ste sono
aggettivi, quéll (o quél) / quést sono pronomi. Riprenderemo l’argomento nella lezione riservata ai
pronomi.
quello = chel (cl’) - cla (cl’) - chi - cle.
questo = ste (st’) - sta (st’) - sti - stle.
I termini apostrofati fra parentesi si usano quando la parola che segue inizia per vocale (cl’agnel,
cl’inguélla, st’atre, st’inbiziosa. Io adopero al maschile plurale chj e stj se segue una vocale.
AGGETTIVI INDEFINITI = Si possono considerare come l’inverso dei dimostrativi.
Mentre questi determinano, specificano, gl’indefiniti danno di proposito un’indicazione indeterminata:
pressappoco la stessa differenza che c’è fra l’articolo determinativo e quello indeterminativo.
Riportiamo a mo’ di esempio gli aggettivi indefiniti più usati: ogni, qualch, qualunqv, qualcun,
gnènt, nisciùn , un cert, certi, ecc., spesso in combinazione con atre o antre (altro): gnent àtre,
nisciun àntre, ecc.
AGGETTIVI INTERROGATIVI = Gli aggettivi intrerrogativi sono: che? (indecl.) che
spesso si presenta apostrofato ch’ (Che carna i t’a dat? Ch’ razza d’individue l’è?) e quant?,
quanta?, quanti?, quantle? (Quant pèn è armast? = quanto pane è rimasto? Quanta pacenza c’vo’
par fè st’lavór? = quanta pazienza ci vuole per fare questo lavoro? Quanti més sarìa pasèd? = quanti
mesi sarebbero passati? Quantle dmand i t’à fatt? = quante domande ti hanno fatto?).
AGGETTIVI NUMERALI = Possono essere cardinali, se indicano una quantità numerica
(ón, dó, tre, qvatre, cinqv, séi, sètt, òtt, nòv, dic, ùndc o vóndc, dódc, vént , cinqvanta, s’santa,
stanta, cent, cinqcent, mélla, dómélla, dicmélla, ecc.) indeclinabili od ordinali se indicano l’ordine,
la successione, la classificazione (prém, sgónd, tèrz, qvart, qvint, décim, ecc. di 1ª categoria)
oppure moltiplicativi se hanno l’ufficio di rendere una quantità una o più volte maggiore (dóppi,
triple, qvadruple, ecc. 1ª categoria.
I PRONOMI
La parola pronome viene dal latino pro nomine che vuol dire “che sta al posto del nome”: esso si
adopera per non ripetere continuamente il nome. Ad es. Mè a j l’ò dett mal padron,, mo ló an j sent da
cl’urecchj (Io l’ho detto al padrone, ma lui non ci sente da quell’orecchio); per non ripetere fino
alla noia la parola padron, altrimenti si sarebbe detto: Mè a j l’ò dett mal padron, mo el padron an j
sent da cl’urecchj. I pronomi si dividono come gli aggettivi indicativi in possessivi, dimostrativi,
indefiniti, interrogativi, ecc.
PRONOMI PERSONALI = Sono detti così perché sono riferiti alle persone: a chi parla, a chi
ascolta o a terzi. Essi sono: per il SINGOLARE di 1ª persona mè, a = io (sogg.), me = me (compl. )
e m’; di 2ª persona tè = tu (sogg.), te = te (compl.) e t’; di 3ª persona (maschile) el, ló, ‘l, l’
= egli, lui - (femminile) lia, la = ella, lei (sogg. e compl.), j = gli, a lui, le, a lei; per il plurale
di 1ª persona nó o nojatre = noi (sogg. e compl.), ce, c’ = noi, a noi (compl.); di 2ª persona vó
o vojatre = voi (sogg. e compl.), ve, v’ = voi, a voi (compl.); di 3ª persona (maschile) lóri =
essi, loro (sogg. e compl.), (femminile) lorle = esse, loro (sogg. e compl.), j = ad essi, ad esse, a
loro. Pertanto diremo: Mè a vaggh sa ló (io vado con lui), tè t’ven da me (tu vieni da me), tè t’vo’
(tu vuoi), a veng da te (vengo da te), ló el curr (egli corre) , lia la piagn (ella piange), nó a gémm
(noi andiamo), vojatre a vlé (voi volete), lóri i sbatt (essi sbattono), lorle le chiacra (esse
chiacchierano). Me può apostrofarsi sia davanti a vocale che davanti a consonante: A m’arcord! (Mi
ricordo!), m’nissa ‘n colp s’an è vera! (È vero, è vero, te lo assicuro!). Così dicasi per tutte le altre
particelle pronominali che si riducono a semplici consonanti apostrofate; avremo perciò da me, te, ló,
sè, ce, ve, ecc. m’, t’, l’, ‘l, c’, s’, ecc.: el s’è dat na martleda si ded (si è dato una martellata sulle
dita), a c’ vedem (ci vediamo ), a v’ l’ arcont (ve lo racconto), ma te a l’ dirìa s’a pudessa parlè (a
te lo direi se potessi parlare), a so’ ch’i s’è incuntred parecchj volt (so che si sono incontrati
parecchie volte), t’à vist cò suced, santmass! (hai visto che cosa succede, tu che non ci credevi!).
Particolare attenzione deve farsi per J che come pronome significa a lui, a lei, ad essi, ad esse, gli, le,
loro (dal latino illi o illis) e come avverbio vuol dire ci, vi colà (dal latino illic o illac) . P.es. A j ò dat
tutt’ i nom (gli ho detto tante villanie), j à dat le suo (gli ha dato quello che si meritava), malà a ‘n j
veng (là non ci vengo), ló j vo’ ‘n gran ben (egli le vuole molto bene), an j vo’ bochè (non vuole
entrarci), j niva guesi da vumitè (gli veniva quasi da rimettere).
Si sappia per il momento che nelle voci verbali le persone sono quasi sempre ripetute: per questa
Ragione spesso si trova mè a, tè t’, ló l’, ló ‘l, lia la, nó a, vó a, lóri i, lorle le. Si tenga inoltre
presente che a, oltre che io, vuol dire anche noi e voi, che i vuol dire anche essi, perché a volte si
presentano da soli, come si può vedere nei seguenti esempi: A vengh! (Vengo!), Alora , a nì?
(Allora, venite?), A nimm, a nimm, avé pacenza! (Veniamo, veniamo, abbiate pazienza!), Fra poch i
passa (Fra poco passano). Ne parleremo più diffusamente trattando del verbo.
PRONOMI POSSESSIVI = Se n’è già parlato trattando degli aggettivi: sono gli stessi, solo
che in quel caso si aggiungevano al nome per determinarne l’appartenenza, come pronome invece
sostituiscono il nome. P.es. mi (aggett.) medra la jè giovna, la tua (pron.) invec la jè inziena. Quell’j
posto davanti alla voce verbale è, ha solo, come si è detto all’inizio, funzione eufonica.
PRONOMI DIMOSTRATIVI = Sono in dialetto diversi dagli aggettivi dimostrativi come è
stato preannunciato nella lezione precedente, fermo restando sempre il principio secondo il quale
l’aggettivo accompagna il nome, il pronome invece lo sostituisce.
I pronomi dimostrativi sono:
QUESTO = quést - quésta - quésti - quéstle
QUELLO = quéll o quél - quélla - quéi - quélle
COSTUI = stó - stia - stóri - stórle
COLUI = cló - clia - clóri - clórle
PRONOMI INDEFINITI = Il pronome indefinito è l’opposto di quello dimostrativo: infatti
mentre questo, il dimostrativo, indica il nome a cui riferisce in modo inequivocabile, il pronome
indefinito dà volutamente un’indicazione indeterminata ed approssimativa.
I più usati in dialetto sono i seguenti: ón = uso impersonale (Ón an sà cò s’fè = uno non sa che cosa
fare) oppure con valore di a testa perlopiù con accento aperto (dó pr’òn = due a testa, che si dice
anche pr’òm dal latino hominem) oppure in correlative, italianizzato spesso in un, (ón o un el savéva
léggia, clatre el savéva scriva = uno sapeva leggere, l’altro sapeva scrivere); qualcón o qualcdón o
qualcun, un tèl, ugnùn, un cèrt, certùni (pl.), chic(h)sia, gnènt, nisción qualcò, atre. Quest’ultimo
(atre) si combina con st’, cl, de (partitivo), nó v ‘n (art. indet. masch.), n’ (art. indet. femm.), dando
luogo a :
st’atre, st’atra, sti atre, stle astre (apostrofato o staccato)
clatre, clatra, chiatre, cleatre (tutto attaccato)
dl’atre, dl’atra, di atre o djatre, dle atre
nojatre, vojatre e ‘n antre, n’antra.
Come si vede da quest’ultimo esempio non è raro trovare antre per atre; solo con una certa
dimestichezza con la lingua dialettale si può sapere quando usare l’uno e quando l’altro.
Qualcò in unione con atre diventa qualcosatre: riprende la s per evitare l’incontro di due vocali.
PRONOMI INTERROGATIVI = Questi appartengono alla stessa categoria dei pronomi
relativi che vedremo sùbito sotto; si trovano in proposizioni interrogative. Esempi: Chi à da nì? = Chi
deve venire?; Cò l’è ch’a vlé? = Che cosa volete?; Quant ‘n è armast? = Quanto ne è rimasto?; Chi
di dó cméncia par prém? = Chi dei due incomincia per primo?; D’cò t’lamènt? = Di che cosa ti
lamenti?; T’me sa dì d’cò t’à paura!.= Mi sai dire di che cosa hai paura!
PRONOMI RELATIVI = Nel dialetto moderno esiste solamente il pronome relativo CHE
usato esclusivamente come soggetto o come complemento oggetto; nei casi obliqui si mette sempre
CHE ma per indicare la funzione si opera con i pronomi personali ai quali questa funzione è
demandata. Esempi di che in funzione di soggetto: el diretór ch’ el cmanda maché l’è ‘n mi parent.
Un maestre ch’ an sa insgnè è méj ch’el vaga a spighè ‘l sèl a marena. Esempi di che in funzione di
complemento oggetto: L’arlògg ch’a m’avé dat an funziona; La scialpa che tè t’m’à regalèd la tén
un gran cald. Esempi di proposizioni in cui il pronome relativo è in caso obliquo: Questo fatto del
quale hanno parlato tutti i giornali non è poi vero = Ste fatt ch’ n’ à parlèd tutt’i giurnèi ann è vera
pó. Quel ragazzo al quale ho regalato il libro non lo ha neanche letto = chel ragazz ch’a jò regaledj
el libre an l’à gnanca létt. Il cane con cui sono andato a caccia è di mio fratello = El chèn ch’sa ló a
so’ gid a cacia l’è d’mi fradel. Quel signore del quale ti ho parlato tante volte si è suicidato =
Chel sgnór che d’ló a t’ò parlèd tantle volt el s’è mazèd. Dobbiamo amare Iddio dal quale dipende
la nostra vita = A javém da vlé ben mal Signór ch’ da Ló davèn la nostra vita.
Non si deve confondere quest’ultima proposizione che è relativa con la seguente che è causale: A
javém da vlè bèn mal Signór chè da Ló davèn la nostra vita = Dobbiamo amare Iddio perché da Lui
dipende la nostra vita.
Il che della prima proposizione è pronome relativo, il chè della seconda proposizione è invece una
congiunzione causale e significa perché.
IL VERBO ed I VERBI AUSILIARI
Il verbo, assieme al nome, è senz’altro la parte più importante del discorso e, come questo ha la
funzione di definire gli esseri e le cose, così il verbo ha la funzione di rappresentarne le azioni o il
modo di essere.
Il soggetto, cioè quello che fa o subisce l’azione espressa dal verbo, è di solito rappresentato da un
nome o da un pronome, ma può essere rappresentato da qualsiasi altra parte del discorso, usata con
valore di sostantivo (es. Fra tutta sta mundézza è fadiga truvè = Fra tutta questa immondizia è fatica
trovare; stè l’è un verb e ste l’è ‘n agetiv = stè è un verbo e ste un aggett.).
I verbi sono transitivi se l’azione da loro espressa passa (o può passare) dal soggetto ad un
complemento oggetto (la mama la cóc el pésc = la mamma cuoce il pesce); quelli che indicano
un’azione che non passa (perché non può passare per sua natura) in un complemento oggetto vengono
detti intransitivi (I sulded i è partìd stamatena = I soldati sono partiti stamani).
Queste distinzioni sono le stesse che esistono nella lingua italiana ed in quasi tutte le altre lingue:
dobbiamo pertanto distinguere in una voce verbale la coniugazione, il modo, il tempo, la persona ed il
numero. Ma ciò che distingue il verbo della lingua dialettale è la mancanza nell’indicativo del tempo
passato remoto (pertanto anche del trapassato remoto!) e, soprattutto, la presenza di due soggetti
personali, spesso molto diversi fra loro. Per es. Mè a vaggh, tè t’ va, ló ‘l va, lia la va, nó (o
nojatre) a gémm, vó (o vojatre) a gì, lóri i va, lórle le va.
Sono del parere che le coniugazioni nel nostro dialetto siano quattro e non tre a giudicare dai quattro
diversi infiniti: 1a coniug. Ludè = lodare, truvè = trovare, cmincè = incominciare (con la e
aperta); 2a coniug. avé = avere, savé = sapere, duvé = dovere (con la e chiusa); 3a coniugazione
scriva = scrivere, leggia = lèggere, métta = mettere (con l’accento sulla penultima); 4a coniug.
durmì = dormire, aprì = aprire, partì = partire.
I verbi ausiliari (cioè quelli che si adoperano in unione al participio passato passivo del verbo che
esprime l’azione per ottenere le voci composte dell’ attivo e tutte le voci del passivo) sono DUE: il
verbo avé ed il verbo éssa.
verbo avé ( = avere)
INDICATIVO presente mè a jò, tè t’à, ló l’ à, lia la jà, nó a javém, vó a javé, lóri jà, lorle le jà
imperfetto mè a javéva, tè t’avév, ló l’avéva, lia la javéva, nó a javémmi, vó a
javévi, lóri javéva, lorle le javéva
futuro s. mè a javrò, tè t’avrà, ló l’avrà, lia la javrà, nó a javrém , vó a javrì, lori
javrà, lorle le javrà
I tempi composti dell’INDICATIVO (passato, trapassato, e futuro anteriore) si ottengono
aggiungendo il p.p. avùd ai tempi semplici: mè a jò avùd, tè t’avev avùd, ló l’avrà avùd, lia la jà
avùd, nó a javém avùd, nó a javémmi avùd, ecc.
CONGIUNTIVO presente che mè a java, che tè t’av, che ló l’ava, che lia la java, che nó a javém,
che vó a javé, che lori java, che lorle le java
imperfetto che mè a javéssa, che tè t’avéss, che ló l’avéssa, che lia la javéssa;
che nó a javéssme, che vó a javéssi, che lóri javéssa, che lorle le javéssa
I tempi composti del CONGIUNTIVO (passato e trapassato) si ottengono aggiungendo il p.p avùd
ai tempi semplici: che mè a java avùd, che tè t’avéss avùd, che lia la java avùd, che nó a javéssme
avùd, ecc.
CONDIZIONALE presente mè a javrìa, tè t’avress, ló l’avrìa, lia la javrìa, nó a javréssme, vó
a javréssi, lori javria, lorle le javria.
IMPERATIVO. av, avé
GERUNDIO semplice: avénd
PARTICIPIO
presente: avent
passato: avùd
INFINITO
composto: avénd avùd
presente: avé
passato: avé avùd.
verbo éssa (essere)
INDICATIVO presente mè a so’, tè t’si, ló l’ è, lia la jè; nó a sém, vó a si, lóri jè, lorle le jè.
imperfetto mè a jera, tè t’er, ló l’era, lia la jera; nó a jermi, vó a jervi, lóri jera,
lorle le jera.
futuro s. mè a sarò, tè t’sarà, ló ‘l sarà, lia la sarà; nó a sarém, vó a sarì, lóri
i sarà, lorle le sarà.
I tempi compiosti dell’INDICATIVO (passato, trapassato e futuro anteriore) si ottengono
aggiungendo il p.p. stèd ai tempi semplici: tè t’er stèd, mè a so’ stèd, ló ‘l sarà stèd, lia la jè stèda,
nó a sém stèdi, ecc.
CONGIUNTIVO presente che mè a sia, che tè t’sia, che ló ‘l sia, che lia la sia; che nó a sém,
che vó a si, che lóri i sia, che lorle le sia.
imperfetto che mè a fussa, che tè t’fuss, che ló ‘l fussa, che lia la fussa; che
nó a fussme, che vó a fussi, che lóri i fussa, che lorle le fussa.
I tempi composti del CONGIUNTIVO (passato e trapassato) si ottengono aggiungendo il p.p. stèd
ai tempi semplici: che mè a sia stèd, che tè t’fuss stèd, che lia la sia stèda, che nó a fussme stèdi,
ecc.
CONDIZIONALE presente mè a sarìa, tè t’saress, ló ‘l sarìa, lia la sarìa; nó a saréssme, vó
a saréssi, lóri i sarìa, lorle le sarìa.
Il CONDIZIONALE al t.passato si ottiene aggiungendoil p.p. stèd al presente: Es. mè a sarìa stèd,
nó a saréssme stèdi, lia la sarìa stèda, lóri i sarìa stèdi, ecc.
IMPERATIVO: sì, sì
PARTICIPIO presente: (manca)
passato: stèd *
GERUNDIO semplice: esénd
composto: esénd stèd
INFINITO presente: éssa
passato : éssa stèd
L’ AVVERBIO
È la prima delle parti invariabili del discorso. La parola deriva dal latino “ad verbum”: è infatti una
parola che si pone vicino al verbo per meglio qualificarlo, per attenuarlo o rinforzarlo, per
determinarlo nel tempo e nello spazio. Abbiamo così gli avverbi qualificativi (utilment,
discretament, facilment, abilment, ecc.), che si ottengono aggiungendo ment al tema dei rispettivi
aggettivi qualificativi; quelli di tempo (ogg = oggi, iri = ieri, dmèn = domani, adèss = adesso, sciubte
o subte o sóbit = sùbito, spéss = spesso, alóra = allora, ancóra = ancora, prèst = presto, mèi = mai,
ecc.); quelli di luogo (maché o maquà = qui o qua, malé o malà = lì o là, j = ci o vi, do’ = dove,
ecc.); quelli di quantità (molt o na mucchia o na massa = molto, pòch = poco, tròpp = troppo, dafàtt
= completamente, apéna = appena, guèsi = quasi, ecc.); quelli di affermazione (scé o sé = sì, cèrt =
certamente, pròpi = proprio, scigur o sigur = sicuramemte, ecc.); quelli di negazione (nò = no, nun o
an o en o ‘n o ‘nn o ann’= non, ménga = mica, gnanca = neanche o neppure, pargnènt = minimamente
o nient’affatto, ecc.); quelli di dubbio (forsi = forse, parchèsi =per caso, ecc.). Si deve ricordare
anche ècch, ècch ch’, ècch che (Ecch, adess a l’ veggh! = Ecco adesso lo vedo!; Ecch ch’ el vèn ló
tutt baldanzós! = Ecco che arriva lui tutto baldanzoso!; Ecch che lóri i vo’ dì la sua! = Ecco che essi
vogliono esprimere la propria opinione!
LA PREPOSIZIONE
Fra le quattro parti invariabili del discorso le preposizioni hanno una grande importanza perché sono
proprio loro che stabiliscono il maggior numero di rapporti fra le parole. Se ne è già parlato nel
capitolo riservato all’articolo, a proposito delle preposizioni articolate. Le principali preposizioni
italiane sono: di, a, da, in, con, su, per, tra, fra; ad esse corrispondono nel nostro dialetto de, ma od
a, da, tun od in, sa, só, par, tra, fra.
Vediamole singolarmente nelle loro funzioni.
de: * compl. di specificazione > Le foj de sta pianta le jè tutt manèd = Le foglie di questa pianta sono
tutte ammalate. * compl. di materia > Ma ló jà rubedj ‘n arlògg d’òr = A lui gli ha rubato un orologio
d’oro. * compl. di origine > L’è on de Napoli = È uno di Napoli. * compl. di argomento > Lascè gì
d’parlè d’politiga! = Smettetela di parlare di politica! * compl. di tempo > El s’è alzèd de préma
maténa = Si è alzato di buon’ora * compl. di causa > L’è mort de tumór = È morto di tumore *
compl. di paragone > Ló l’è molt più vechj dla mój = Egli è molto più vecchio della moglie *
compl. di qualità > L’è un scritór de grid = È uno scrittore di grido * compl. di modo > El lavora
d’bona vòja = Lavora di buona voglia * compl. di abbondanza > I èra péni d’buff = Erano pieni di
debiti. *compl. di colpa > L’è stèd incolpèd ló del furt! = È stato incolpato lui del furto!
ma: * compl. di termine > La jà fatt la limòsna ma chel pòr vechj = Ella ha fatto l’elemosina a quel
povero vecchio * compl. di tempo > I s’è alzèd mal cant del gall = Si sono alzati al canto del gallo
* compl. oggetto > La jà mazèd anca mal gatt = Lei ha ammazzato proprio tutti * compl. di st. in
luogo > A t’aspétt mal vòlt = Ti aspetto alla curva
a : * compl. di modo > El giva a pid = Andava a piedi * compl. di st.in luogo > El viv a Rómma =
Vive a Roma * compl. di moto a luogo > L’è gid a Rimne = È andato a Rimini * compl. di mezzo
> L’è arturnèd a caval = È tornato a cavallo * compl. di distanza > A stagh a cent métre da la
piaza = Sto a cento metri dalla piazza * compl. di pena > I l’à cundanèd a mort = L’hanno
condannato a morte.
QUALCA
RIFINIDURA
LA MAGIA DELL’ACCENTO
L’accento tonico esercita una strana azione sulla vocale colpita: esso determina una variazione
lessicale da o ad u oppure da è ad a, a seconda che la vocale, tonica nel vocabolo primitivo, non
sia più tale in quello alterato o derivato.
Esempi di passaggio da o ad u: pòrta (la porta) > purtón (il portone), fjól (il figlio, il bambino)
> fjulén (il figlioletto, il bambinello), sòma (la soma) > sumàr (il somaro), vóc (la voce) >
vucéna (la vocina), dòna (la donna) > dunéna (la donnetta), cóch (il cuoco) > cucéna (la
cucina), gròss (grosso) > gruslén (grosso ma non troppo), pózz (il pozzo) > puzétt (il
pozzetto), lògg (le logge) > lugèd (il loggiato), biónda (bionda) > biundéna (biondina),
Agóst (Agosto) > Gustén (Agostino), òchj (l’occhio) > uchiéda (l’occhiata), fnòchj (il
finocchio) > infnuchiè (imbrogliare), dóppi (doppio) > rindupièd (raddoppiato), gózz (il
gozzo) > sguzè (sgozzare), mòrt (morto) > murtèl (mortale), bród (il brodo) > brudétt (la
zuppa di pesce), rósc (rosso) > rusciól (triglia).
Esempi di passaggio da è ad a: chèn (il cane) > cagnèra (zuffa), frèt (il frate) > fratén (il
fraticello), g’lèd (il gelato) > g’ladén (il gelatino), prèt * (il prato) > praticèl (il praticello),
grèd (il grado) > graduèd (il graduato), mèr (il mare) > maréna (la marina), grèzia (la
grazia) > sgrazièd (disgraziato), pèri (pari) > parégg (il pareggio), bèg (il bacio) > bagén
(il bacetto), chèsa (la casa) > casupla (la casupola), rèma (il ramo) > ramós (ramoso), rèm
(il rame) > ramèd (ramato), vès (il vaso) > vasén (il vasetto), chèp (il capo) > capòccia (il
capofamiglia), lègh (il lago) > alaghèd (allagato), lèma (la frana) > slamèd (franato), èquila
(l’aquila) > aquilón (l’aquilone), rèd (rado) > radùra (la radura), nès (il naso) > nasèda
(l’olfatto), scèp (lo sciocco) > sciapità (la sciocchezza), quèdre (il quadro) > squadrèd
(squdrato).
Se invece la e è chiusa (é), o resta invariata nei derivati: prét (il prete) > pretén (il pretino),
spréma (spremere) > spremùda (la spremuta), rét (la rete) > retén (il retino); o diventa i:
vést (visto) > visuèl (la visuale), blén (bellino) > inblinì (abbellire).
L’effetto del passaggio da o ad u e da è ad a quando sulla vocale cade o meno l’accento, si fa
sentire maggiormente nella coniugazione dei verbi, come ben si può vedere dai seguenti esempi:
verbo purtè (portare) mè a pòrt, te t’pòrt, ló ‘l pòrta, nó a purtém, vó a purtè, lóri i pòrta / nó a
purtémmi, vó a purtaré, purtànd, purtèd, ecc.
verbo ludè (lodare) mè a lòd, tè t’lòd, ló ‘l lòda, nó a ludém, vó a ludè, lóri i lòda / nó a
ludèmmi, vó a ludaré, ludànd, ludèd, ecc.
verbo gòda (godere) mè a gòd, tè t’gòd, ló ‘l gòd, nó a gudém, vó a gudé, lóri i gòd / nó
a gudémmi, lori i gudrà, gudénd, gudùd, gòda, ecc.
verbo mac’nè (macinare) me a mècin, tè t’mècin, ló ‘l mèc’na, nó a mac’ném, vó mac’nè,
lori i mèc’na / nó a mac’némmi, ...lori i macinarà, mac’nànd, mac’néd.
verbo badè (badare) mè a bèd, tè t’bèd, ló ‘l bèda, nó a badém, vó a badè, lori i bèda / nó
a badémmi, lori i badarà, badànd, badèd.
OMOGRAFI ED OMOFONI
Sono molte in dialetto le parole omografe (che si scrivono allo stesso modo), che però non sono
omofone: si pronunciano cioè in maniera diversa. Sono molte di più che non in italiano. Noi già
conosciamo questo fenomeno in italiano nelle parole accètta ed accétta, bòtte e bótte
(variazione da è ad é o da ò ad ó nella stessa sillaba tonica); oppure nelle parole capitàno e
càpitano, perdóno e pèrdono (variazione di sillaba tonica). Vediamoli un po’ alcuni di questi
vocaboli dialettali ed impariamo a riconoscerli in modo da afferrare sùbito il senso del discorso:
abèt = l’abate
fèn = farne
prèt = il prato
abét = l’abete
fén = fino
prét = il prete
bèva = la bava
béva = bere (vb.)
grèv = grave
grév = greve, pesante
pèl = il palo
pél = il pelo
bòtt = lo scoppio, il rospo
bótt = la bótte
mà = la mamma
ma = a (prep.)
pèr = pare (vb.)
pér = il pero
brèv = bravo
brév = breve
mè = io (sogg.)
me = me, mi (compl.)
pèra = il paio
péra = la pera
capèi = i cappelli
capéi = i capelli
mèl = il male
mél = il melo
sa = con (cong.)
sà = sai, sa, (vb.)
còla = la colla
cóla = la cola, la grondaia
mèn = la mano
mén = meno
nèv = la nave
név = la neve
cunprès = comprarsi (vb.)
cunprés = compreso
nò = no (avv. di negaz.)
nó = noi (pron. pers.)
sèn = sano, intero
sén = il seno
dà = egli dà (vb.)
da = da (prep.)
òr = l’oro
ór = le ore
sòla = la suola
sóla = sola
dó = due (num.)
do’ = dove (avv. di luogo)
pèn = il pane
pén = pieno
sòn = il suono
són = il sonno
dè = dare (vb.)
de = di (prep.)
dé = il giorno
pò = può
pó = poi, dopo (avv. di tempo)
po’ = (un) poco
si = sei, siete (vb.)
sì = sii (vb.)
si = sui (prep.art.)
sòra = suora, signora
sóra = sopra (prep.)
stòri = le storie
stóri = costoro
vent = venti
vènt = il vento
vént = vinto
vèn = viene (vb.), vano
vén = il vino, le vene
tòrt = torto, il torto
tórt = le torte
sòrt = la sorte
sórt = spesso, sorto
spèr = lo sparo
spér = spero (vb.)
vèst = la veste
vést = visto
vo’ = vuole (vb.)
vó = voi
ATTENTI AGLI OMOFONI
Spesso succede di non saper come scrivere una certa espressione dialettale che abbiamo in testa. Ad
esempio TLA: come si scrive? Tla?, t’l’à?, t’la? Naturalmente vanno bene tutte e tre le
soluzioni;bisogna solo sapere che cosa si vuol dire. 1° L’è d’là TLA canbra. = È di là nella
camera. In questo caso tla è preposizione articolata. 2° An T’L’À vést ma mi fjol? = Non l’hai (tu)
visto mio figlio? In questo caso le lettere T, L, ed À hanno ciascuna il proprio valore: T significa tu, L
significa lo ed À vuol dire hai. 3° T’ LA jà vésta adess? = L’hai (tu) vista adesso? In questo caso
T vuol dire tu e LA è pronome personale femm. sing.
Vediamo di orizzontarci nel ginepraio di queste parolette:
C’né = cenate, cenare > A che ora a c’né a la sera? / Bsogna c’né leger.
C’ne = ce ne > C’ne vo’ d’ tenp tun sta roba! / C’ne passa fra me e ló.
C’n’è = ce n’è, ce ne sono > Stè indrìa, c’n’è par tutti! / C’n’è dj atre maché.
Chel = quel, quello > Chel purett l’è casched gió mort. / Chel pcion l’ è vuled via.
Ch’el = che egli > An stè a sentì quell ch’el dic. / Lascia pur ch’el mond el dégga.
Cla = quella (agg. dim.) > El s’è tajed sa cla lametta ch’c’era sla tavla / Cla dona la jè scepa.
Ch’la = che ella > An capisc quel ch’la dic cla fjulena. / A creggh ch’la venga.
Ch ‘l’à = che egli ha > Cle noc ch’l’à cunpred le è tutt fraid. / Fa’ quell ch’l’à dett.
Cle = quelle > A m’sentiva un pizigh in mezz a cle sòr. / Tira via cle manacc!
Ch’le = che esse > Fra tutt cle donn ch’le laveva i pagn c’era mi moj. / Pèr ch’le vola!
Ch’l’è = che egli è > Che inbecéll ch’l’è. / Alzte, l’è ‘n pezz ch’l’è giorne
Sa = con (prep) > A sem gidi via sa ló. / Le jè arturned sa ‘n gran ventaj.
Sà = sa, sanno > Quest j ‘l sà anca mi fjol, ch’el fa la sgonda / I ’n sà quel ch’i dic.
S’a = se io, se noi, se voi > S’a mor mè i mor tutti. / S’a javem da vnì, a nirem. / S’a vlé ‘n
qualcò, a l’avé da dì.
S’à = si deve > S’à da partì a bonora dmatena. / An s’à da fè mèi el mèl ma niscion.
Ste = questo > Ma ste sgrazied a l’ vlé veda mort! / Ste mèl d’schena an vo’ pasè.
Stè = state, stare > S’ a stè in pid a v’strachè / Cum om an è ‘n gran che, mo par cumdè j
arlogg lascèl pur stè.
Ste’ = state! (imperat.) > Ste’ boni vojatre, ch’a j pens mè. / Ste’ fermi, par piacer.
S’tè = se tu > S’tè t’vò ch’ a dcemm acsé, par nó va ben. / Dil par tenp s’tè rest a magnè.
Sta = questa > Par nojatre sta legg la ‘n è giósta. / Prema o dop l’aveva da fè sta fén.
S’t’à = se (tu) hai > S’t’à un po’ d’tenp da perda, legg maché cum i dic. / S’t’à voja,
s’nò a fém n’antra volta.
Stà = stai, sta, stanno > An tè stà ferme un second. / Ló ‘l stà senpre a seda sun cla sedia. /
On el lavora e tre i stà a guardè.
Sta’ = sta’ (imper) > E sta’ bon na muliga! / Mo sta’ zétt: me pèr d’essa un antre.
Mèn = mano, a cominciare da.. > Sa na mèn j l’ tneva dur e sa clatra j mneva. / Da mèn da l’alt.
Mén = meno > Tre mén sett an s’pò. / L’è sparid in mén d’un batta d’cilli.
Mè ‘n = io non > Mè ‘n veng pió sa vojatre dó.
Mén = bastono, bastoni > A mén e pó a fugg. / S’ t’ mén ma st’fjulen a t’dagh un bugaton!
Mnè = picchiate, picchiare > S’a mnè par prèm a mnè dó volt / An s’à da mnè ma i fjulen.
M’ne = a me ne > Mo stà zétt: m’ ne capita d’tutt’ i culor! / An m’ne fid.
Tel = nel (prep.art.) > A l’ò mess tel cumò / Tel prém ló an j vleva creda.
Tèl = tale > L’è tèl e quèl su pedre. / Chel tèl an me pièc pargnent.
Tè l’ = tu lo > Tè l’ ved adess ? / S’ tè l’ dic te s’à da creda.
Te l’ = te lo > A te l’ veggh a vnì vers d’me tutt infuried sa la bèva ma la bocca.
Tun = in > Entrè pur tun chesa.. / Tun chel mentre ariva ló
T’un = in un > A c’sem spersi t’un bósch fétt fétt. / L’è sparid t’un balen.
Tné = voi tenete > S’a l’ tné dur va ben, s’nò a facc daparmè. / Vó a l’ tné e me a mén.
T’ne = a te ne, tu ne > A t’ne dagh ‘n antre pezz. / T’ne pudrà fè ‘n pèra par stasera?
Questi sono i tranelli dell’omofonia che mi vengono in mente, ma chissà quanti sono: bisogna stare in
guardia!