studi - Acta Philosophica

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RIVISTA • INTERNAZIONALE • DI • FILOSOFIA
ACTA
PHILOSOPHICA
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rispecchiano unicamente il pensiero degli autori.
Imprimatur dal Vicariato di Roma, 7 gennaio 1999
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ISSN 1121-2179
Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana
Semestrale, vol. 8 (1999), fasc. 1
Gennaio/Giugno
sommario
5
Editoriale: Fede e ragione
Studi
7
Sergio Belardinelli
Individuo e bene comune nella società complessa
23
David M. Gallagher
Thomas Aquinas on Self-Love as the Basis for Love of Others
45
Alejandro G. Vigo
Intelecto, pensamiento y conocimiento de sí. La estructura de la autoconciencia en
Plotino (V 3)
Note e commenti
69
Federica Bergamino
La necessità assoluta nell’essere creato in Tommaso d’Aquino.
Sintesi ragionata di Contra Gentiles II, c. 30
81
Lynn Cates
A Note on Two Modal Propositions of Burleigh
87
Lawrence Dewan
St. Thomas and the Causes of Free Choise
97
111
Giorgio Faro
Menzogna e veracità: un problema risolto? Commento ad una tesi del filosofo
Antonio Millán-Puelles
Antonio Malo
El sentimiento en la Noología de Zubiri
119
Víctor Sanz Santacruz
Dos conversos frente a Spinoza: Stensen y Burgh ante el Tratado teológico-político
135
Javier Villanueva
Le spiegazioni scientifiche dell’evoluzione
Cronache di filosofia
151
Società filosofiche
154
Vita accademica
Recensioni
159
162
165
167
169
172
175
178
AA.VV., La tecnica, la vita: i dilemmi dell’azione (G. Faro)
S.L. BROCK, Action and Conduct. Thomas Aquinas and the Theory of Action (M.
Pérez de Laborda)
P. DONATI (a cura di), Lezioni di sociologia. Le categorie fondamentali per la comprensione della società (G. Chalmeta)
E. FIZZOTTI – A. GISMONDI (a cura di), Giovani, vuoto esistenziale e ricerca di senso (F. Russo)
M.A. LABRADA, Estética (I. Yarza)
J.I. MURILLO, Operación, hábito y reflexión (M.P. Chirinos)
M.C. REYES LEIVA, El ser en la metafísica de Carlos Cardona (M. Díaz del Rey)
R.A. TE VELDE, Participation and Substantiality in Thomas Aquinas (S.L. Brock)
Schede bibliografiche
185
186
189
189
A. ALES BELLO, Edith Stein. La passione per la verità (M. Filippa)
L. CEDRONI, La comunità perfetta. Il pensiero politico di Francisco Suárez (M.A.
Ferrari)
C. DAWSON, Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale (F. Russo)
F. HAYA SEGOVIA, El ser personal. De Tomás de Aquino a la metafísica del don
(F.R. Quiroga)
F. TOMATIS, Bibliografia pareysoniana (F. Russo)
E. VENTURA, Sobre hechos e ideas políticas (M. Fazio)
191
Pubblicazioni ricevute
187
187
Editoriale: Fede e ragione
La recente enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio, firmata il 14-IX1998, è un motivo non solo di soddisfazione per gli studiosi di filosofia, che
si vedono interpellati esplicitamente dal Romano Pontefice, ma più ancora
uno stimolo e un autentico incoraggiamento nel lavoro di ricerca della
verità. Sin dai tempi dell’Aeterni Patris, del 4-VIII-1879, non c’era stata una
presa di posizione orientativa così esplicita, nel campo proprio del Magistero
della Chiesa, nei confronti della filosofia.
Resta tuttora valida la particolare scelta epocale della Chiesa verso
Tommaso d’Aquino quale maestro di verità cristiana, insieme all’apertura
promossa dal Concilio Vaticano II nei confronti degli studi filosofici in ambito ecclesiale. Ciò è ribadito dall’attuale enciclica, la quale sottolinea in
modo particolare i legami vitali che debbono esistere e svilupparsi tra la
ricerca teologica e filosofica, alla base dei quali sta l’armonia intima tra la
ragione e la fede cristiana. Da una prima lettura di questo documento appare evidente la rilevanza della razionalità filosofica nel campo teologico: la
corretta comprensione della fede rivelata richiede la filosofia, ma una filosofia che a sua volta si sia nutrita alla luce della stessa fede soprannaturale,
dalla quale riceve un supplemento di forza per superare i propri limiti e i
propri travagli.
La filosofia forzosamente separata dalla fede, dopo una fase di autosufficienza razionalista, appare spesso caduta nell’indebolimento e inaridita in
ricerche settoriali e ristrette. Perciò nel documento pontificio viene ricordata
la fecondità dell’armonia tra conoscenza filosofica e conoscenza di fede, e
vengono indicate le condizioni imprescindibili perché la filosofia possa innestarsi nell’alveo della fede. «Bisogna non perdere la passione per la verità
ultima e l’ansia per la ricerca, unite all’audacia di scoprire nuovi percorsi. È
la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare
volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato
convinto e convincente della ragione» (n. 56). In definitiva, si chiede alla
5
filosofia di recuperare la sua originaria vocazione sapienziale e di non trascurare lo studio delle grandi questioni sulla verità dell’essere e sulla verità
dell’uomo.
L’enciclica Fides et ratio presenta agli studiosi di filosofia, anche non cristiani, un compito che non può essere disatteso, e sono un segno positivo i
primi studi e dibattiti che essa ha suscitato. Siccome la sua pubblicazione è
avvenuta qualche settimana prima della consegna del presente fascicolo alla
casa editrice, abbiamo preferito programmare una serie di saggi più ponderati sull’argomento, che saranno pubblicati nel primo fascicolo del 2000. Il
secondo numero del 1999, infatti, secondo un progetto già elaborato da
tempo, sarà prevalentemente dedicato alle “Filosofie del XX secolo”.
Ci auguriamo che il documento pontificio imprima una spinta al necessario rinnovamento della filosofia e al recupero dell’unità del sapere, perché il
mondo della cultura sia in grado di offrire una risposta ai quesiti antropologici che segnano la nascita del terzo millennio.
6
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1 - PAGG. 7-22
studi
Individuo e bene comune nella società complessa
SERGIO BELARDINELLI*
Sommario: 1. Differenziazione e individualizzazione. 2. Il trionfo e la crisi del pensiero debole. 3. Le provocazioni di Niklas Luhmann. 4. Bene comune e complessità sociale. 5.
Universalismo e comunitarismo. 6. Una cittadinanza solidale.
■
Quando si parla di società complessa, si allude in genere a una società altamente
differenziata, che certamente non sarebbe stata possibile senza il dispiegamento di
quei principii di autonomia, libertà e pluralismo che, come è noto, hanno rappresentato il centro propulsivo della coscienza moderna. Accade però che, proprio per fronteggiare la complessità prodotta da questa sua differenziazione, la società odierna finisce
paradossalmente per assecondare sempre di più le istanze funzionali dei suoi vari
sistemi parziali, senza troppi riguardi a quelle che potremmo dire le istanze “umane”.
Detto molto sinteticamente, per quanto costantemente evocato nella sua autonomia e
libertà, l’individuo sembra non costituire più il centro e la ragion d’essere della
società, venendo piuttosto relegato ai margini o, se si preferisce, nell’“ambiente” dei
suddetti sistemi sociali. È sempre più scontato, tanto per fare un esempio, che il mercato, la scienza, la politica, i mass media abbiano tutti la loro logica specifica, il loro
codice funzionale, col quale a nessuno è consentito d’interferire. Ragion per cui
all’uomo non sembra restare altro che adattarsi (se ci riesce, altrimenti tanto peggio
per lui). Con le parole di Niklas Luhmann, l’autore che certamente ha tematizzato con
la massima radicalità la posizione funzionalista, potremmo anche dire che «l’uomo
non è più il metro di misura della società»1. Ecco, in estrema sintesi, il senso per certi
versi inquietante della grande sfida etica, politica e antropologica che ci viene lanciata
da una società, quale è la nostra, sempre più funzionalizzata.
*
Università degli Studi di Bologna, Facoltà di Scienze Politiche, Sede di Forlì, Via G. della Torre
5, 47100 Forlì
1
N. LUHMANN, Sistemi sociali, Il Mulino, Bologna 1990, p. 354.
7
studi
Approfondirò questa sfida facendo particolare riferimento al problema del rapporto tra individuo e società, tra dimensione pubblica e dimensione privata; prima
però vorrei dire due parole sul contesto socio-culturale che l’ha, per così dire, preparata e nel quale essa prende forma.
1. Differenziazione e individualizzazione
I sociologi sono tutti più o meno concordi nel descrivere l’evoluzione della
società moderna come un processo di differenziazione che è anche un processo di
individualizzazione. Se nelle cosiddette società arcaiche tutto era connesso con tutto
e l’individuo non era nulla al di fuori della famiglia, della tribù o della “città” di
appartenenza, oggi registriamo un vero e proprio capovolgimento di questa prospettiva, così che da un lato la società si differenzia in innumerevoli sistemi parziali, dall’altro gli interessi e i bisogni individuali sembrano aver preso il sopravvento su
qualsiasi dimensione comunitaria. Agli amici che, dopo l’ingiusta condanna a morte
lo esortano a scappare da Atene, Socrate risponde che preferisce bere la cicuta, morire dunque, piuttosto che contravvenire alle leggi della città, dalla quale a suo avviso
dipende l’identità e il destino di ogni individuo2. Ma, come direbbe Durkheim, «a
misura che si procede nell’evoluzione, i vincoli che legano l’individuo alla sua famiglia, al suolo natale, alle tradizioni che il passato gli ha trasmesso, agli usi collettivi
del gruppo, si allentano»3. E oggi possiamo forse affermare che siamo arrivati all’esito estremo di questo processo: un esito contrassegnato da fondamentali ambiguità e
contraddizioni, che però, come vedremo, può alimentare anche qualche motivo di
speranza.
Da un lato la società in cui viviamo, almeno per quanto riguarda i cosiddetti paesi
industrialmente avanzati, ha radicalizzato la sua tendenza alla differenziazione e
all’individualizzazione; essa si presenta ormai come una società “acentrica”4, la
quale, proprio per esser tale, si ritiene che debba rinunciare a qualsiasi vincolo normativo “forte”, se così si può dire, e affidarsi invece a vincoli sempre più “deboli”,
esaltando la fluttuazione, l’individualità, la flessibilità, la mobilità, la capacità di
adattamento come suoi principii costitutivi; dall’altro, però, ci sono anche segnali
che fanno pensare a un’inversione di tendenza. Non nel senso, ovviamente, che si
stia per tornare indietro, magari all’antica “totalità etica” infranta dall’avvento della
moderna coscienza individuale – ché questo sarebbe impossibile oltre che per niente
affatto auspicabile –, bensì nel senso che proprio i suddetti principii costitutivi esasperatamente individualistici sembrano avere esaurito la loro forza propulsiva e
risolversi addirittura nel loro contrario. E mi spiego.
2
3
4
8
Cfr. PLATONE, Critone 43-54.
E. DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano 1971, p. 390.
N. LUHMANN, Sistemi sociali, cit.
Sergio Belardinelli
2. Il trionfo e la crisi del pensiero debole
Il grande Hegel aveva capito, forse meglio di chiunque altro, che cosa realmente
significasse la moderna scissione dell’antica “totalità etica”, dalla quale l’individuo
traeva tutta la sua identità, e l’irruzione invece della “singola coscienza individuale”,
alla ricerca spasmodica di autorealizzazione in un mondo “diviso”, sempre più incapace di prescrivere “a priori” le norme o la via di una “vita buona”. «Che cosa l’uomo debba fare, quali sono i doveri ch’egli deve adempiere per essere virtuoso – leggiamo nei Lineamenti di filosofia del diritto – è facile a dire in una comunità etica, –
non c’è niente altro da fare, da parte sua, se non ciò che a lui nei suoi rapporti è tracciato, enunciato e noto»5. Ma una volta che questa comunità etica è infranta, tutto
diventa più difficile, anzi, dovendo far conto soltanto sulle “singole coscienze individuali”, può diventare addirittura una tragedia (la famosa “tragedia del riconoscimento” di cui parla la Fenomenologia dello spirito).
In ogni caso Hegel credeva ancora nella possibilità di “conciliazione”, rappresentata dallo Stato. Chi invece, non senza una profonda inquietudine, vede il carattere
inconciliabile della coscienza moderna è Max Weber. Non esiste, non esiste più per
Weber, un senso oggettivo del mondo, un ordine razionale oggettivo, che la ragione
umana, faticosamente quanto si vuole, può tuttavia cogliere e realizzare nella sua
oggettività. Questi sono pensieri che appartengono inesorabilmente al passato, al
tempo in cui, come direbbe Heidegger, gli uomini vivevano ancora in prossimità
degli dei. La dinamica della società moderna, il cosiddetto processo di differenziazione e di funzionalizzazione scindono invece inesorabilmente la ragione e la società
in una pluralità di sfere di valore, che rendono addirittura ridicolo, agli occhi di
Weber, quello che in Economia e Società egli definisce il «carisma della ragione»6.
Né la fede, né la scienza sono più in grado di fornire una qualche unificazione “teorica” o “pratica” del senso del mondo; il divenire del mondo si configura ormai come
una “infinità” priva di qualsiasi senso oggettivo7, essendo quest’ultimo, il senso, soltanto il risultato di una faticosa, quasi tragica, costruzione dell’uomo. Ecco il weberiano “disincantamento” del mondo: non ci sono più riferimenti socio-culturali forti,
capaci di garantire agli individui una ben precisa identità; ciascuno per proprio
conto, a seconda dei gusti e delle circostanze, deve ormai cercare di inventarsene
una.
All’inizio del nostro secolo – e Weber ne è una prova – questa perdita di un senso
unitario del mondo, della società e delle singole esistenze individuali veniva vissuta
con un profondo pessimismo8. «Non abbiamo davanti a noi la fioritura d’estate,
bensì per prima cosa una notte polare di fredde tenebre e stenti», scriveva Weber in
Politik als Beruf9. La lucida visione di un mondo disincantato grazie alla sua orga5
6
7
8
W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1913, p. 144.
Cfr. M. WEBER, Economia e società, Comunità, Milano 1974, vol. II, p. 922.
Cfr. M. WEBER, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, p. 96.
Cfr. S. BELARDINELLI, “Kulturpessimismus” gestern und heute, «Geschichte und Gegenwart», 3
(1992), pp. 159-171.
9 M. WEBER, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948, p. 152.
9
studi
nizzazione burocratico-scientifico-tecnologica, la consapevolezza del tramonto delle
grandi concezioni metafisico-religiose, l’avvento di un’epoca di politeismo dei valori, “mortalmente nemici” l’uno rispetto all’altro, sono per Weber non soltanto frutti
“inevitabili” della conoscenza e dell’evoluzione sociale, ma anche “molesti”10. Oggi
invece tutto ciò sembra essere diventato pretesto per esaltare la differenza, la frammentazione, la creatività o la nascita di una nuova individualità che perde finalmente
le sue “caratteristiche violente”11.
L’odierna società complessa apre orizzonti di senso teoricamente illimitati; qualsiasi scelta diventa comparabile con qualsiasi altra; non c’è niente che non possa essere rivisto; in una parola, per dirla ancora con Niklas Luhmann, ogni cosa che è o che
facciamo è sempre possibile altrimenti (il trionfo della contingenza). Così non ha più
senso distinguere il vero dal falso, il senso dal non senso, uno stile di vita da un altro,
una coppia eterosessuale da una omosessuale; si vive ormai in forma “ipotetica”12:
oggi le cose stanno in un modo, ma domani potrebbero anche stare diversamente. Il
cosiddetto “pensiero debole” insomma sembra danzare davvero il suo tripudium.
Come spesso succede, però, anche in questo caso incominciamo a intravvedere
una sorta di eterogenesi dei fini: se da un lato sono aumentate e continuamente
aumentano per gli individui le possibilità di scegliersi percorsi personalizzati in ogni
campo d’azione (cosa che di per sé non sarebbe affatto un male); dall’altro, questo
che sembra essere un vero e proprio trionfo della differenza produce di fatto un indebolimento della stessa. Se tutto è possibile altrimenti, allora anche la differenza
diventa indifferente. E i vari sistemi sociali – dalla scienza alla politica, dai mass
media all’economia –, nei quali avevamo riposto tante speranze di liberazione, funzionano non a caso come se l’uomo non esistesse. Volevamo che il nostro io fosse in
primo luogo autonomo e libero, e invece non ci raccapezziamo più, non sappiamo
più chi siamo, né dove andare, sempre più in balia di esigenze “sociali” inconciliabili
con le esigenze “umane”.
Possiamo ovviamente continuare a scrivere, come fa certo pensiero cosiddetto
postmoderno, apologie del caso o del nichilismo, esaltando magari il gioco contro il
dovere o la spontaneità contro ogni forma di potere, ma ormai incomincia ad apparire piuttosto evidente quanto sia difficile trovarsi (l’allusione a Pirandello non è affatto casuale) in un contesto individuale e sociale così frammentato. Il crescente scollamento tra individuo e società, tra sistema sociale e sistema psichico, più che senso di
libertà, genera disordine, mancanza di radici, incapacità di gestire un rapporto soddisfacente tra l’io, gli altri e il mondo, sotto il crescente dominio di imperativi funzionali che operano alle nostre spalle e sopra le nostre teste. Così tutto è gratuito e al
tempo stesso tutto sembra sottostare alla più rigida necessità. Di qui un paralizzante
sense of drift – proprio nel senso in cui ne parlava Toynbee, come tratto caratteristico
dell’epoca tardo-ellenistica che tante analogie presenta con la nostra – e un desiderio
crescente di fuggire dalla realtà (si pensi alla droga, all’alcolismo, al mito della
vacanza o al numero impressionante di ore che trascorriamo davanti alla televisione).
10 Cfr.
11 Cfr.
12 Cfr.
10
M. WEBER, Il metodo delle scienze storico-sociali, cit., p. 332.
G. VATTIMO, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1980, p. 10.
R. SPAEMANN, Per la critica dell’utopia politica, Angeli, Milano 1994, pp. 41-57.
Sergio Belardinelli
3. Le provocazioni di Niklas Luhmann
Questo senso (paradossale) di assoluta gratuità e insieme di rigida necessità che
sembra aleggiare sulla nostra epoca è reso alla grande, anche se in forma inquietante, dalla sociologia sistemica di Niklas Luhmann. I concetti luhmanniani fondamentali (senso, complessità, contingenza, rischio, autopoiesi) si direbbero di natura “debole”, fatti apposta, cioè, per rendere la crescente gratuità delle nostre relazioni sociali. «Complessità – scrive Luhmann – vuol dire necessità di selezione,
necessità di selezione significa contingenza, contingenza significa rischio»13:
ecco, a suo avviso, il tratto fondamentale della società odierna. Se il primo peccato
originale (l’immagine è luhmanniana) aveva condannato l’uomo a lavorare col
sudore della sua fronte; il secondo, quello “tecnologico”, lo costringe a vivere nel
rischio. E indietro non si torna. Ma proprio nel momento in cui, in situazioni strutturalmente “rischiose”, sembrerebbero più necessari alcuni punti fermi di riferimento, il funzionalimo li distrugge tutti. Come aveva già rilevato Karl Mannheim,
«più la moderna società di massa viene razionalizzata funzionalisticamente e più
essa tende a neutralizzare la moralità sostanziale o a spingerla nel binario secondario del “privato”»14. A guidare il processo di differenziazione sociale non resta che
un imperativo funzionale: quello di «indicare le prestazioni che un sistema deve
offrire al proprio ambiente, per potersi conservare»15. Quanto all’individuo, in
questo processo di differenziazione esso sembra guadagnare in autonomia, non
essendo più vincolato ai ruoli, al ceto o a determinati gruppi sociali, come avveniva nel passato, ma perde paradossalmente in termini di capacità di incidere sulla
realtà, fino a ritrovarsi relegato nell’“ambiente” di sistemi sociali che funzionano
“autopoieticamente”, secondo codici specifici, incuranti delle sue esigenze. Come
ho già detto all’inizio, per Luhmann «l’uomo non è più il metro di misura della
società».
La società con la quale abbiamo a che fare oggi è a suo avviso una società “acentrica”, “rischiosa”, dove tutto è possibile indifferentemente, e che, proprio per questo,
si trova costretta a rinunciare all’idea che possa essere integrata secondo criteri normativi o razionali unitari, capaci di abbracciarla in toto, come poteva avvenire nell’antica polis. Ma proprio qui sta il punto. Un conto è dire, infatti, che la società
moderna, stante il pluralismo e la differenziazione che la caratterizzano, non può più
essere organizzata e integrata nel suo complesso, secondo progetti onnicomprensivi;
altro conto è dire che essa deve emanciparsi da qualsiasi criterio razionale-normativo
(ad esempio i diritti degli uomini) e affidarsi esclusivamente, come suggerisce
Luhmann, agli imperativi funzionali, alle capacità di autoregolamentazione dei sistemi sociali parziali che si sono via via differenziati, “chiusi” l’uno rispetto all’altro e
sostanzialmente indifferenti a qualsiasi istanza etica.
Non è questa ovviamente la sede adatta per approfondire le provocazioni luhman13 N. LUHMANN, Sistemi sociali, cit., p. 95.
14 Cfr. K. MANNHEIM, Mensch und Gesellschaft im Zeitalter des Umbaus, Leiden 1935, p. 45.
15 N. LUHMANN, Zweck-Herrschaft-System. Grundbegriffe und Prämisse Max Webers, «Der Staat»,
2 (1964), p. 150.
11
studi
niane in ordine alla realtà sociale nella quale stiamo vivendo16. Al di là delle reazioni
contrastanti che possono suscitare, direi comunque che il loro aspetto veramente
inquietante consiste nel fatto che purtroppo non possiamo escludere che l’odierna
realtà sociale in gran parte funzioni proprio nel modo in cui la descrive Luhmann. La
scienza, i mass media, l’economia, la stessa politica per molti versi sembrano funzionare davvero secondo criteri rigorosamente funzionali, come se l’uomo non esistesse. Quando ad esempio gli scienziati assumono la semplice fattibilità tecnica di qualcosa come condizione necessaria e sufficiente perché qualcosa venga tecnicamente
realizzato (si pensi alla genetica), o quando il profitto diventa l’unico criterio guida
del sistema economico e l’audience il solo criterio di validità di un programma televisivo, è in effetti assai difficile sostenere che Luhmann abbia torto. Eppure proprio
in queste tendenze che sembrano confermare il trionfo del funzionalismo, dobbiamo
saper vedere anche il segno della sua crisi. Più i suddetti sistemi si sviluppano secondo imperativi meramente funzionali e più diventano evidenti, infatti, i pericoli (e le
disfunzioni) che tale sviluppo nasconde. Non a caso, pur con tutte le incertezze che li
caratterizzano, gli appelli a una regolamentazione etica dello sviluppo scientificotecnologico, alla bioetica o all’etica economica si vanno facendo sempre più pressanti, così come, ed è quanto qui ci interessa particolarmente, va facendosi sempre più
pressante l’appello all’uomo, ai suoi diritti, nonché al “bene comune” e a una società
più “civile”.
4. Bene comune e complessità sociale
La riproposizione dell’idea di bene comune in una società complessa, differenziata, quindi pluralistica e conflittuale, quale è la nostra, mi pare che possa svolgere
un’importante, duplice funzione: impedire, da un lato, che un conflitto endemico,
segno di per sé di una società viva e vitale, porti alla disgregazione della società stessa e, dall’altro, che l’autonomia e la libertà individuali, fondamenti indiscussi della
moderna sovranità democratica, scivolino nell’“ambiente” di un sistema politico
sempre più autoreferenziale.
Immanuel Kant, tanto per fare un esempio, poteva ancora considerare il conflitto
come «il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue disposizioni» e quindi, «da ultimo», come «la causa di un ordinamento civile della società
stessa»17. Non mi pare però che la fiducia kantiana nella «socievole insocievolezza
degli uomini», la quale «si costringe da se stessa a disciplinarsi e a svolgere interamente i germi della natura con arte forzata»18, sia oggi di grande aiuto. Che ci sia un
“ordine” nel mondo e che ci sia una ragione capace di coglierlo sono idee che contrastano nettamente con l’aura “debole” che grava ormai come un macigno sulla
16 Per
un approfondimento rinvio a S. BELARDINELLI, Una sociologia senza qualità. Saggi su
Luhmann, Angeli, Milano 1993.
17 I. KANT, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in La pace, la ragione e
la storia, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 22-23.
18 Ibidem, p. 25.
12
Sergio Belardinelli
nostra epoca. In ogni caso dal dispiegamento dei nostri vizi privati si fa sempre più
fatica a veder scaturire le pubbliche virtù. A furia di esaltare il successo, la differenza, l’arbitrio, la contingenza o il fallibilismo, corriamo seriamente il pericolo di trasformarci in tanti sistemi autoreferenziali, i cui conflitti non hanno altra legittimazione se non la forza con la quale volta a volta riusciamo a imporre i nostri interessi o i
nostri punti di vista, che è come dire, sistemicamente, che conta soltanto la nostra
capacità di adattamento alla logica funzionale del sistema di riferimento. Tutto ciò
finisce ovviamente per avere conseguenze preoccupanti anche sul fronte delle nostre
istituzioni, le quali hanno sì un carattere per lo più “formale”, ma non si fondano su
valori meramente “ipotetici”, “fallibili”, che i cittadini possono da un giorno all’altro
mettere in discussione, né sono nate per funzionare autopoieticamente o per consentire a qualcuno di far valere i propri interessi a danno di qualcun altro. Se è vero
infatti che un’opinione pubblica critica e attenta, la ricerca del consenso, i conflitti, i
compromessi rappresentano gli ingredienti indispensabili di una normale dialettica
democratica, è altrettanto vero che le istituzioni democratiche non sono in grado di
sopportare che la discussione, la ricerca del consenso diventino quella che MacIntyre
ha definito una «guerra civile perseguita con altri mezzi»19. Esse richiedono, al contrario, fiducia reciproca, la dogmatica convinzione dell’inviolabilità di ogni uomo,
senso di responsabilità, di giustizia, di tolleranza, tutte cose che sono anche condizioni delle procedure democratiche, non soltanto effetti, e che rappresentano indicatori fondamentali di ogni società che voglia dirsi “civile”. In breve, più i conflitti si
fanno virulenti e più dobbiamo ritematizzare una qualche nozione di “bene comune”.
Come ho già detto, non si tratta ovviamente di riproporre un modello di società in
grande, una “città ideale”, da realizzarsi magari contro la volontà dei diretti interessati, i cittadini; sarebbe già molto, però, se si riuscisse a ritematizzare i diritti di questi ultimi, sottraendoli alla loro autocomprensione soggettivistica.
Adam Seligmann sostiene ad esempio che «la presunta sintesi di pubblico e privato, di interessi e desideri individuali e sociali», su cui poggiano le idee di società
civile e di bene comune, oggi «non regge più». A suo avviso «le condizioni sociali e
quelle filosofiche di questa sintesi sono drasticamente cambiate e non basterà un
ritorno a elaborazioni più classiche, né per le società dell’Europa centro-orientale, né
per quelle democratiche occidentali. Gli echi estremamente differenti suscitati dall’idea di società civile, in Ferguson e Smith, Hegel e Marx o anche in pensatori contemporanei da Budapest a Princeton, riflettono le contraddizioni dell’esistenza
moderna, nel XVII secolo come ai nostri giorni»20. In effetti nelle democrazie occidentali si direbbe che l’affermazione di principii individualistici vada per lo più a
svuotare autodistruttivamente ogni dimensione “comune”, anche quando si cerca
magari di rimediare con le prestazioni di uno stato sociale che rischia di ridurre i cittadini a “clienti” dello stato stesso, pronti a tutto pur di avere in cambio benefici
assistenziali. Quanto ai paesi dell’Europa centro-orientale, dopo un lungo periodo in
cui la dimensione “comune” è stata imposta con il terrore della polizia, bisogna dire
19 Cfr. A. MACINTYRE, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988, p. 302.
20 A. SELIGMAN, L’idea di società civile, Garzanti, Milano 1993, p. 229.
13
studi
che le condizioni “pratiche” per l’emergere di un’idea di bene comune compatibile
con il nostro modello liberal-democratico sono ben lungi dall’essere realizzate.
Eppure in questo quadro piuttosto sconsolante qualcosa si muove, almeno a livello teorico. Il fatto stesso che si riprenda comunque a parlare di “bene comune” è perché non siamo più così sicuri che il semplice dispiegamento degli interessi individuali o della logica autoreferenziale di questo o quel sistema siano sufficienti a dirimere le molte e nuove opposizioni che si vanno delineando nella nostra società; ci
sono poi, tanto per fare qualche altro esempio, i dibattiti tra “universalisti” e “comunitari”21, quelli sui diritti di cittadinanza22, sul gioco tra entitlements e provisions23 o
sui diritti dei popoli e delle nazioni24. Da questi dibattiti emerge certo il disagio di
un’epoca che fatica a trovare la bussola per orientarsi rispetto ai gravi problemi con i
quali deve fare i conti, ma emergono anche alcune indicazioni incoraggianti. A questo proposito mi sembra particolarmente istruttivo il fatto che, senza togliere nulla
alla centralità della persona umana e dei suoi diritti, anzi per valorizzarla a pieno, si
faccia sempre più forte l’impulso a uscire dalla semantica angusta dell’individualismo autoreferenziale e a utilizzarne invece un’altra, attenta soprattutto alle “relazioni” sociali e capace di guardare all’uomo anche a partire dai suoi legami e dalle sue
responsabilità di fronte ai propri simili, considerati non più soltanto come limite, ma
anche come condizione della sua libertà25. Senza alcuna volontà di enfatizzare alcuni
segnali, né di tornare a “elaborazioni più classiche”, come direbbe Seligman, mi pare
che proprio quest’ultima prospettiva potrebbe rendere forse meno vana, almeno a
livello teorico, la ricerca di una “sintesi” tra interessi individuali e sociali, capace di
aprirsi a un’idea di solidarietà, la quale, lungi dall’essere concepita come semplice
compensazione (il più delle volte retorico-moralistica) di alcuni sgradevoli effetti
collaterali della moderna società industriale, potrebbe diventare il fattore propulsivo
di un nuovo ordine sociale.
5. Universalismo e comunitarismo
È stato fatto notare che «parole come fraternità, appartenenza e comunità sono
talmente impregnate di nostalgia e di utopismo, da essere quasi prive di utilità come
guida alle reali possibilità di solidarietà nella società moderna. La vita moderna ha
mutato le possibilità della solidarietà civile, e il nostro linguaggio rimane indietro,
incespicando come un portatore sovraccarico da una montagna di vecchie scatole…
Il nostro compito è trovare un linguaggio per il nostro bisogno di appartenenza, il
quale non sia soltanto una maniera di esprimere la nostalgia, la paura e la estrania21 Cfr. A. FERRARA (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992.
22 Cfr. D. ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Bari 1994.
23 Cfr. R. DAHRENDORF, Il conflitto sociale nella modernità, Laterza, Bari 1989.
24 Cfr. J. RAWLS, La legge dei popoli, in S. SHUTE - S. HURLEY (a cura di), I diritti umani. Oxford
Amnesty Lectures 1993, Garzanti, Milano 1994, pp. 54-97; sui diritti delle nazioni si veda il
discorso tenuto da Giovanni Paolo II davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite il 5 ottobre
1995, Sono qui come testimone.
25 Cfr. P. DONATI (a cura di), Rapporto sulla società civile in Italia, Mondadori, Milano 1997.
14
Sergio Belardinelli
zione della modernità. Le nostre immagini politiche dell’appartenenza civile continuano a essere perseguitate dai fantasmi della polis classica, da Atene, Roma e
Firenze. Esiste un linguaggio dell’appartenenza adeguato a Los Angeles?»26.
Nella sua provocatoria lucidità, il brano appena citato esprime bene la difficoltà
cruciale con la quale occorre fare i conti allorché si tratta di reperire un senso di
appartenenza e di fiducia che sia adatto al mondo nel quale viviamo. La differenziazione, la diversità, il conflitto, la contingenza, l’instabilità sono diventati elementi
strutturali della nostra società; al tempo stesso, man mano che quest’ultima è diventata “mondiale”, per milioni di uomini è diventata una grande aspirazione poter vivere in una città come Los Angeles. Se dunque da un lato è impossibile che la società
odierna venga integrata nel suo complesso, secondo i canoni dell’antica Atene e, dall’altro, è innegabile una pericolosa tendenza alla disgregazione, allora si tratta di
individuare strategie teoriche e pratiche che, in alternativa a quella che definirei la
“ferrea flessibilità” dell’ordine sistemico, ci consentano di arginare la progressiva
disgregazione delle nostre metropoli e di sfruttarne al massimo le innumerevoli
opportunità.
Come ha scritto Christopher Lasch in un saggio molto bello sull’odierna cultura di
massa, «lo sradicamento sradica tutto, salvo il bisogno di radici»27. E siccome «l’esperienza dello sradicamento non porta al pluralismo culturale, ma a un aggressivo
nazionalismo, alla centralizzazione e al consolidamento del potere statale e finanziario»28, occorre trovare il modo di soddisfare il nostro bisogno di radici in una maniera
che sia conciliabile con la struttura pluralistica della società in cui viviamo e con i
principii universalistici che stanno a fondamento della cultura occidentale. Con la terminologia di Ferdinand Toennies, potremmo dire che l’odierna “società” non è più, né
può tornare a essere o è auspicabile che torni a essere una “comunità”29. Il pluralismo
che la caratterizza può essere considerato senz’altro come una conquista al pari delle
istituzioni dello Stato di diritto, nelle quali fondamentalmente esso si articola. Quando
però, all’insegna del pluralismo, si scrivono, come abbiamo già visto, apologie del
caso e del nichilismo, si esaltano il gioco rispetto al dovere, la spontaneità contro ogni
forma di potere e magari il consenso come unico criterio del vero e del giusto, si producono una molteplicità di effetti che mettono a poco a poco in discussione, fin quasi
a vanificarle, proprio quelle libertà e quei diritti individuali che stanno a fondamento
dello Stato di diritto liberale e democratico. La nostra società è diventata insomma
troppo “societaria” (nel senso di Toennies); ha allentato eccessivamente ogni suo
legame, col rischio di mettere a repentaglio proprio quell’autonomia e quella libertà
individuali, in nome delle quali ha combattuto le sue battaglie contro i troppo rigidi
legami “comunitari”. Se è vero infatti che questi ultimi hanno rappresentato sovente
una resistenza all’affermarsi di una cultura pluralistica, è altrettanto vero che ne
26 M. IGNIATIEFF,
The Needs of Strangers, 1984, pp. 138-139, citato in J. WALDRON, Valori particolari e moralità critica, in A. FERRARA (a cura di), Comunitarismo e Liberalismo, cit., p. 318.
27 Ch. LASCH, La cultura di massa in questione. Sradicamento, modernizzazione, democrazia,
«Futuro Presente», 4 (1993), p. 90.
28 Ibidem.
29 Cfr. F. TOENNIES, Comunità e società, Comunità, Milano 1963.
15
studi
hanno rappresentato anche una sorta di condizione di possibilità. Come aveva ben
intuito Alexis de Toqueville30, le libertà e le istituzioni liberali moderne faticano a
stare in piedi senza il sostegno di quelle convinzioni forti che per tanto tempo sono
state garantite dalla tradizione religiosa e tramandate di famiglia in famiglia; né è da
pensare che, specialmente oggi che viviamo in una società complessa, esse possano
essere prodotte per altra strada, magari politicamente, senza che la politica diventi a
sua volta religione. L’autonomia individuale, il pluralismo, la tolleranza, che stanno
alla base della moderna cultura liberale e democratica, vivono di presupposti che quest’ultima, da sola, non è in grado di garantire. Si potrebbe anche dire che il carattere
“societario” della società odierna si esplica tanto più conformemente al bene dell’uomo, quanto più la stessa società riesce a salvaguardare, da qualche parte, certi elementi, diciamo così, “comunitari” (legami e convinzioni “forti”, amore, amicizia, senso
dell’autorità), i quali, di per sé, non hanno la dimensione contrattuale dei rapporti
“societari”, ma ne costituiscono, come ho già detto, una specie di condizione di possibilità. A questo proposito, si pensi al ruolo fondamentale che viene svolto da un’istituzione come la famiglia, e ai pericoli di disgregazione sociale che potrebbero scaturire
e che scaturiscono dalla sua crisi31. Come ha scritto Pierpaolo Donati, «la società è
umana nella misura in cui istituzionalizza una sfera di relazioni orientate alla totalità
della persona umana: e questa sfera non può essere altro che la famiglia. In secondo
luogo, la famiglia rappresenta il punto di intersezione tra pubblico e privato necessario per una differenziazione non anomica e non alienante del sociale. In altri termini,
la famiglia è certamente sfera del privato, ma essa deve costantemente relazionarsi
alla società: in caso contrario, la privatizzazione diventa soggettivizzazione, fino al
narcisismo, e ciò priva la società di quel minimo di norme e valori condivisi che consentono un’ordinata vita civile. Senza la famiglia, una cultura non può realizzare i
suoi potenziali umani (specie quelli simbolici) e la società non può dispiegare i suoi
dinamismi associativi. Quando la famiglia si eclissa, i simboli e le forme associative
della società rischiano sempre di diventare modi di alienare l’umano, anziché esprimerne i contenuti distintivi»32.
Tanto più sono forti e vivi i suddetti valori “comunitari” e tanto meglio si affrontano gli esperimenti sociali quotidiani in cui consiste la nostra vita “societaria”, trasformandoli addirittura in un’esperienza gratificante. Checché ne dica Dahrendorf,
30 «Quando
tra un popolo non esiste più religione – scrive Tocqueville – il dubbio si impadronisce
delle più alte sfere dell’intelligenza e paralizza in gran parte le altre. Ci si abitua ad avere, sulle
materie che maggiormente interessano noi e i nostri simili, solo delle idee confuse e mutevoli; si
difendono malamente le proprie opinioni o le si abbandona, e siccome si dispera di poter risolvere da soli il maggiore dei problemi che il destino umano presenta, ci si riduce vilmente a non
pensarci più. Uno stato simile non può mancare di infiacchire gli animi, allenta le molle della
volontà e prepara i cittadini alla servitù. Così succede che essi non solo si lascino portare via la
libertà, ma che spesso la cedano» (A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, in Scritti
politici, Utet, Torino 1968, vol. II, p. 507).
31 Cfr. S. BELARDINELLI, Il gioco delle parti. Identità e funzioni della famiglia in una società complessa, Ave, Roma 1996.
32 P. DONATI, Famiglia, in SCABINI-DONATI (a cura di), Nuovo lessico familiare, Vita e Pensiero,
Milano 1995, p. 29.
16
Sergio Belardinelli
non è affatto vero che pluralismo, democrazia, differenziazione sociale, individualizzazione debbano essere considerati come “infelici compagni di letto” dell’“anomia”33. Lo possono certo diventare e, di fatto, per molti versi lo sono diventati. Ma
poiché le prime vittime di questo processo rischiano di essere proprio l’identità individuale, il pluralismo, la democrazia, la tolleranza e le istituzioni dello Stato di diritto, oggi più che mai occorre che la comunità familiare, per dirla con Horkheimer,
anche se in un senso radicalmente diverso dal suo, provveda «alla riproduzione dei
caratteri umani, secondo le esigenze della vita sociale»34.
Se quanto ho detto finora ha una qualche plausibilità, allora, riprendendo i termini di una discussione oggi molto accesa, si tratta in primo luogo di conciliare, non di
porre in alternativa, gli argomenti “comunitaristi” e quelli “universalisti”. In quanto
uomini, tutti dobbiamo sentirci accomunati dall’appartenenza alla stessa specie e
magari da universali diritti di cittadinanza, ma proprio la concreta determinatezza
storico-sociale della nostra natura ci lega a una determinata terra, a una determinata
lingua, a particolari gruppi umani, che vanno dalla famiglia fino al gruppo o all’insieme di gruppi etnico-culturali che siamo soliti chiamare nazione. La situazione planetaria in cui ci apprestiamo a vivere esige certo che si insista su ciò che ci accomuna, quindi sugli elementi “universalistici”, ma questo non deve porre in secondo
piano la rilevanza delle nostre differenze etniche, religiose, culturali. Ben vengano
dunque i discorsi di Habermas sulla “cittadinanza cosmopolitica”35 o quelli di
Dahrendorf sulla “società civile mondiale” e sui “diritti comuni di cittadinanza”36,
purché non si dimentichi il fatto che non c’è cultura politica che, per quanto universalistica, non si radichi profondamente in una storia, in un contesto socio-culturale,
religioso e istituzionale, sempre particolari. L’esasperazione della dimensione “universalistica” rischia di sfociare nell’astrattezza o, peggio ancora, nella più squallida
omologazione; l’esasperazione della dimensione “comunitaria” potrebbe sfociare
invece nella più radicale chiusura nei confronti dell’altro, fino alla più feroce volontà
di annientamento (si pensi alla tragedia di certi conflitti etnici). Pertanto, sia a livello
nazionale che internazionale, non si tratta certo di eliminare le diversità, quanto di
imparare a conviverci, convinti che, in quanto uomini, abbiamo tutti qualcosa di
essenziale che ci accomuna.
Sotto la spinta di un mercato che non conosce più confini e di reti telematiche
capaci di farci assistere in tempo reale a tutto ciò che accade in ogni parte del
mondo, sembra in effetti che tutti gli uomini si apprestino ormai a vivere in un “villaggio” sempre più piccolo; per usare un’espressione di Charles Taylor, per alcuni
aspetti si direbbe davvero che stiamo diventando tutti “universalisti”37. Al tempo
stesso, però, altri aspetti ci fanno pensare a una frammentazione mai vista in prece33 Cfr.
R. D AHRENDORF , Freiheit und soziale Bindungen. Anmerkungen zur Struktur einer
Argumentation, in K. MICHALSKI (Hrsg.), Die liberale Gesellschaft (Castelgandolfo Gespräche),
Klett-Kotta, Stuttgart 1993, p. 11.
34 M. HORKHEIMER, Studi sull’autorità e la famiglia, Utet, Torino 1974, p. 47.
35 Cfr. J. HABERMAS, Morale, Diritto, Politica, Einaudi, Torino 1992, p. 136.
36 Cfr. R. DAHRENDORF, Il conflitto sociale nella modernità, cit., p. 40.
37 Cfr. Ch. TAYLOR, Le radici dell’io, Feltrinelli, Milano 1993.
17
studi
denza; come direbbe il nostro Giacomo Leopardi, «ecco un’altra bella curiosità della
filosofia moderna. Questa signora ha trattato l’amor patrio d’illusione. Ha voluto che
il mondo fosse tutto una patria, e l’amore fosse universale di tutti gli uomini…
L’effetto è stato che in effetti l’amor di patria non c’è più, ma in vece che tutti gli
individui del mondo riconoscessero una patria, tutte le patrie si sono divise in tante
patrie quanti sono gli individui, e la riunione universale promossa dalla egregia filosofia s’è convertita in una separazione universale»38.
Poco sopra ho parlato di una rinnovata idea di solidarietà che possa fare da propulsore a un nuovo ordine sociale. A un secolo di distanza, forse incominciamo a renderci conto che lo sdegno di Nietzsche per la morale cristiana, ritenuta responsabile dell’ipocrisia che attanagliava la società del suo tempo, è ben povera cosa di fronte al
vuoto che potrebbe essere provocato dalla sua distruzione. Abbiamo quindi bisogno di
una vera e propria catarsi culturale, incentrata sulla dignità dell’uomo, se vogliamo
sottrarre la nostra società al suo destino “disumano”. Dopo tanti equivoci da entrambe
le parti, mi sembra sempre più evidente, ad esempio, come soltanto i valori della tradizione cristiana siano in grado di salvaguardare una certa eredità della società
moderna (la tolleranza, l’autonomia e la libertà del soggetto, le istituzioni democratiche e dello Stato di diritto), che una vasta letteratura ormai logora ha voluto interpretare in antitesi alla tradizione cristiana stessa; lo stesso può essere detto a proposito
del carattere multiculturale che contraddistinguerà sempre di più la nostra convivenza
sociale: dovremo per forza trovare il necessario punto di equilibrio, affinché il rispetto
del diritto di ogni uomo alla salvaguardia della propria identità culturale non degeneri
in chiusura, ma nemmeno in indifferenza o cedimento, quasi che una cultura valga
l’altra quando si tratta di salvaguardare determinati valori. Il revival, anche presso la
migliore cultura laica, di autori come Tocqueville o come i rappresentanti del cosiddetto “illuminismo scozzese” (Hume, Locke o Smith), è un segno evidente e incoraggiante di una consapevolezza nuova che va facendosi strada riguardo al fondamento
cristiano delle nostre istituzioni liberali. Se fino a ieri sembrava che liberalismo
dovesse essere sinonimo di individualismo, relativismo, scetticismo, edonismo e via
di seguito, oggi, anche sotto la pressione di problemi letteralmente immensi (il “diritto alla vita”, il multiculturalismo, la necessaria revisione dei nostri sistemi di welfare
state, l’esplosione di tragici conflitti etnici, la disoccupazione e la fame che attanagliano milioni di persone) mi pare che anche la cosiddetta cultura liberale scopra
quanto sia importante per la nostra civiltà il rinnovamento del suo ethos cristiano.
Come in parte ho già accennato, succede in sostanza che proprio i suddetti problemi,
da un lato, fanno vacillare la convinzione che l’unico criterio “razionale” di affrontarli
debba essere quello del calcolo delle utilità o quello “fallibile”, consensuale, del
razionalismo critico o, peggiore di tutti, perché più potente, quello “funzionale”, dall’altro costringono a ripensare “misure” meno arbitrarie, meno individualistiche,
meno indifferenti nei nostri discorsi sull’uomo e sulla società39.
38 G. LEOPARDI, Zibaldone, n. 149.
39 Per un approfondimento di questo
aspetto rinvio a S. BELARDINELLI, Mit welchem Liberalismus?,
in K. B ALLESTREM - H. O TTMANN (Hrsg.), Theorie und Praxis-Festschrift für Nikolaus
Lobkowicz zum 65. Geburtstag, Dunker & Humblot, Berlin 1996, pp. 193-206.
18
Sergio Belardinelli
6. Una cittadinanza solidale
Pierpaolo Donati sostiene giustamente che «la cittadinanza moderna, quella – per
intenderci – che si è sviluppata nell’arco di due secoli fra il 1789 (rivoluzione francese) e il 1989 (caduta del comunismo in Europa, tanto per prendere due date significative), è entrata in crisi per una moltitudine di “cause” (spesso solo “effetti”), ma basicamente perché non è riuscita a fare appello ad un sistema culturale capace di rispondere ai suoi dilemmi interni. Non è riuscita a conciliare ciò che essa stessa ha inteso
e intende per uguaglianza e libertà, nella contemporanea esaltazione di individualismo e solidarietà»40.
Questa crisi della cittadinanza, il groviglio quasi inestricabile tra diritti civili,
sociali e politici che ormai la caratterizzano, porta con sé anche la crisi di alcune
dicotomie tipicamente moderne che le facevano da sfondo, quali ad esempio quella
tra Stato e società civile o quella tra pubblico e privato, sulle quali vorrei spendere
alcune considerazioni. Il gioco di autonomia-interferenza tra istituzioni dello Stato,
mercato e tutta quella miriade di istituzioni sociali autonome, che vanno dalla famiglia ai partiti, dai sindacati alle associazioni degli industriali, dalla chiesa alle associazioni di volontariato e di tempo libero; questo gioco, in cui lo Stato tutela e promuove l’autonomia della “società civile”, ricevendo in cambio un forte senso dello
Stato, non è più concepibile in termini dicotomici. Dobbiamo piuttosto ricominciare
a guardare al corpo sociale nel suo insieme. La vita familiare, quella economica,
quella culturale, quella religiosa costituiscono la “societas” al pari e unitamente alla
vita politica, incarnata nello Stato, il quale, se così si può dire, governa la società dal
di dentro, non dal di sopra. Ne consegue, in primo luogo, che l’uomo non è riducibile tout court a “cittadino”, in secondo luogo, che, per quanto egoisti li vogliamo rappresentare, i cittadini non possono concepire la loro comunità socio-politica come se
fosse un campo di battaglia dove si lotta soltanto per ottenere vantaggi personali. E
ciò che tiene vivo questo legame di ciascuno con il resto della società, con un “bene”
non riducibile al nostro proprio tornaconto, possiamo chiamarlo senso di solidarietà
civica, il senso che, soprattutto attraverso le istituzioni, media tra interesse personale
e interesse collettivo, tiene viva un’istanza etica saldamente radicata nella dignità
della persona umana e che è tanto più indispensabile, quanto più la società diventa
complessa, accentuando a ogni livello il pluralismo e la differenziazione. In questo
senso, quali che siano i diritti concreti in cui essa si articola, credo che si possa parlare ragionevolmente di una cittadinanza solidale.
Quando, come accade oggi, da un lato sembra crescere la sensibilità per nuovi
“diritti” e, dall’altro, una congiuntura economica difficile sembra metterne in discussione altri che pensavamo fossero “acquisiti” una volta per tutte; quando, per fare un
altro esempio, da un lato si fa sempre più evidente che non possiamo negare i nostri
“diritti sociali” ai lavoratori extra-comunitari e, dall’altro, dobbiamo essere prudenti
sia riguardo alla concessione dei “diritti politici”, sia riguardo al numero di coloro
che possono essere accolti nei nostri paesi, senza che si creino pericolosi squilibri
40 P.
DONATI, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari 1993, p. 23.
19
studi
socio-politici; quando non possiamo più chiudere gli occhi sul degrado “ambientale”
in cui vivono milioni di uomini e in cui altri muoiono scandalosamente di fame, dal
momento che ormai li sentiamo letteralmente bussare alle nostre porte; quando accade tutto questo, ci rendiamo forse più facilmente conto di quanto sia importante che
a guidare le nostre scelte sia non soltanto il calcolo degli interessi, ma anche un
profondo orientamento alla dignità dell’uomo, quindi, al dovere della solidarietà.
Per dirla ancora con Donati, ma su questo punto avremmo potuto far parlare
anche Maritain o Sturzo e in genere tutta la tradizione del personalismo cristiano, si
tratta ormai di guadagnare una prospettiva, nella quale la società sia «pensata, raffigurata e praticata come un insieme di relazioni che valorizzano la persona umana
quale polo di sviluppo, ossia come soggetto degno di sé, e quindi come organizzazioni di istituzioni che esprimono tale visione. Una visione che non è, né potrebbe
essere “totalizzante”, dal momento che il suo principio non è quello di salvaguardare
un qualche potere esterno, tantomeno guardando a una qualche “totalità”, bensì quello di esprimere la dignità della persona umana e di promuovere le forme sociali che
l’attualizzano»41. Questa attenzione alle “relazioni che valorizzano la persona
umana” e alle “forme sociali che l’attualizzano” dovrebbe significare, secondo
Donati, la necessità di ridefinire gli stessi diritti di cittadinanza in riferimento non
più allo Stato, ma «all’uomo così come si realizza nelle formazioni sociali autonome, quale che sia la loro sfera di azione (economica, culturale, politica o sociale)»42.
E questo ovviamente non certo per superare la prospettiva dello Stato, il quale continuerà ad essere comunque l’ultimo garante di tutti i nostri diritti, quanto piuttosto
per rammentare i limiti e il fondamento della sua sovranità: il bene degli uomini e
delle comunità che in esso liberamente si organizzano.
Si tratta di un “bene” che deve dare i suoi frutti non soltanto all’interno di ogni
singolo Stato, ma anche sul piano del cosiddetto ordine internazionale, fino magari a
costringere anche i singoli Stati a uscire da quella sorta di stato di natura in cui ancora si trovano e, incredibile dictu, a rinunciare addirittura ad alcune loro sovranità. Se,
come dice John Rawls, esiste una «legge dei popoli», intesa come «una famiglia di
concetti politici informati a principi di diritto, di giustizia e di bene comune che specificano il contenuto di una concezione liberale della giustizia formulata in modo da
potere essere applicata alla legge internazionale»43; se esiste altresì, sempre secondo
Rawls, un obbligo di solidarietà da parte delle «società bene ordinate» nei riguardi
delle «società svantaggiate», poiché «la stessa concezione ideale della società dei
popoli condivisa dalle società bene ordinate impone che a tempo debito tutte le
società pervengano, o siano aiutate a pervenire, alle condizioni che rendono possibile
l’esistenza di una società bene ordinata»44; allora non è affatto temerario supporre
che i singoli Stati rinuncino ad alcune specifiche sovranità a vantaggio di un bene
comune, che ci induca a parlare addirittura di “famiglia di Stati”45. La guerra, per
41 Ibidem, p. 194.
42 Ibidem, p. 225.
43 J. RAWLS, La legge dei popoli, cit., p. 64.
44 Ibidem, p. 91.
45 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Sono qui come testimone,
20
cit.
Sergio Belardinelli
fare un esempio, non è più ammissibile come mezzo per perseguire gli obiettivi politici di uno Stato, e, se si giustifica, è solo come guerra di autodifesa. Qualcosa di
analogo può essere detto del diritto all’autonomia interna di uno Stato, se questo
viene accampato per legittimare violazioni gravi e continue dei diritti delle minoranze o dell’intera popolazione, a tutto vantaggio di élites di potere criminali. «I poteri
di guerra dei governi – dice Rawls –, quale che sia la loro natura, sono soltanto quelli che risultano accettabili nel contesto di una ragionevole legge dei popoli…
Dobbiamo quindi ridefinire i poteri di sovranità alla luce di una ragionevole legge
dei popoli, sbarazzandoci del diritto di dichiarare la guerra e del diritto all’autonomia
interna, entrambi elementi propri di quella legge internazionale (positiva) che nei
due secoli e mezzo successivi alla guerra dei trent’anni è stata parte integrante del
sistema classico degli stati»46.
Ovviamente, per la dinamica stessa che ha guidato la costituzione del moderno
“Stato nazionale”, questa “legge dei popoli” o, più ancora, l’idea di una “famiglia di
Stati” potrebbero risultare controverse e, per alcuni, si pensi soltanto a Carl Schmitt,
persino contraddittorie, visto che l’anima di ogni “Staatsbildung” sembrerebbe essere costituita dalla coppia amico-nemico. Se tuttavia partiamo dalla prospettiva che lo
Stato è sovrano nella misura in cui raccoglie e tutela i diritti dell’uomo, nella misura
in cui, come abbiamo già detto, governa le società dal di dentro, anziché dal di sopra,
allora diventa plausibile non soltanto il fatto che ogni singolo Stato deve rispettare i
diritti umani, ma anche il fatto che i rapporti tra gli Stati siano improntati al rispetto
degli stessi diritti.
Implica tutto ciò, e concludo, la trasformazione di un organismo come ad esempio
l’ONU in uno Stato mondiale? Non direi, e comunque non mi sembra neanche auspicabile. L’idea kantiana di una confederazione di Stati, che certamente ha guidato
l’ONU al momento della sua nascita, potrebbe rappresentare ancora la soluzione più
ragionevole e più vicina all’idea di una “famiglia di Stati”. Non c’è, a mio avviso, nessuna ragione che spinga a superarla in direzione di uno Stato mondiale e meno ancora
sono le ragioni che spingono a rimanerle indietro, ritornando all’anarchia del mondo
degli Stati. La debolezza di tale confederazione consiste invero nel fatto che essa si
basa soltanto sulla consapevolezza e la libera autodeterminazione di tutti; come ogni
autentica convivenza solidale (familiare), non funziona cioè con la costrizione. Se però
cresce la consapevolezza che in un mondo che diventa sempre più piccolo la libertà, la
pace e il benessere di un popolo dipendono dalle concessioni ai diritti e agli interessi
legittimi di altri popoli, da ciò potrebbe scaturire anche la sua forza47.
***
Abstract: In a complex, differentiated, and hence pluralistic and conflictual society
such as ours, the idea of the good can play an important, two-fold role: to prevent,
46 J. RAWLS, La legge dei popoli, cit., p. 62.
47 Mutuo quest’ultima considerazione da Karl
Ballestrem, Verso una politica mondiale? Riflessioni
in riferimento allo scritto di Kant “Per la pace perpetua”, manoscritto inedito.
21
studi
on the one hand, that an endemic conflict, in itself a sign of a living and healthy
society, lead to the crumbling of the society itself; and on the other hand, that individual autonomy and liberty, undisputed foundations of modern democratic society,
totter in the setting of an ever more self-referential political system.
22
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1 - PAGG. 23-44
Thomas Aquinas on Self-Love as the Basis for Love of Others
DAVID M. GALLAGHER*
Sommario: 1. Self-love as natural and as the source of all willing. 2. Love of self as the basis
for loving other (created) persons. 3. Self-love as the basis for loving God. 4. The Forms of
Self-love.
■
What is the relationship between self-love and love for other persons? The
answer to this question will clearly depend upon the view one has of human beings.
If they are naturally and necessarily egotistic such that they cannot love anything
except as ordered to their own individual well-being—the “Hobbesian” man—then
the relationship will always be one of ends and means. Others will be loved solely as
means to one’s own well-being. But if we take a more sanguine view of human
nature and grant that persons can and do love other persons and do indeed seek the
good of others for the others’ sake, then the issue is less straightforward. It may be
that the love of others is simply opposed to one’s self-love, so that to love another
person for his own sake necessarily means curbing or negating one’s self-love. It
may be that the two loves are not opposed but simply exist side by side, in which
case any opposition would be accidental, arising from the contingent limitations on
one’s time or resources. Or it may be, finally, that the very love of self inclines one
to the love of others, that rather than being opposed they are essentially complimentary, with the love of self finding its fulfillment precisely in the love of others.
It is the contention of this paper that Thomas Aquinas taught this latter view. In a
number of texts, Thomas refers to Aristotle’s statement, appearing in Book Nine of
the Nicomachean Ethics, to the effect that one person’s love for another person is
based on and derived from the love the lover has for himself1. Thomas does not
*
The Catholic University of America, Washington, D.C. 20064, USA
1
Nicomachean Ethics, 1166a 1-2. For typical citations of this text: Summa theologiae (ST) II-II,
q. 25, a. 4, c.; Summa contra gentiles (SCG) III, 153; Scriptum super libros Sententiarum, Bk.
III (In III Sent.), d. 29, a. 3, ad 3.
23
studi
understand this text, moreover, in a means-end fashion such that one starts with love
of self and then loves others merely as contributing to one’s own individual wellbeing. Rather, he understands the principle in the sense that self-love is a principle of
a love that seeks the good of the other for the other’s sake, i.e., a love of friendship or
benevolence. As Aquinas states in reply to an objection based on Aristotle’s text, «The
friendliness one has toward another comes from the friendliness one has toward oneself, not as if from a final cause, but rather as from that which is prior in the process
of generation»2. To clarify just how Thomas understands this process of generation,
just how one moves from love of self to the love of others, is the goal of this paper.
That such a move is even possible is by no means unanimously accepted. Take,
for example, Anders Nygren. In his well known study of the Christian idea of love,
Agape and Eros, Nygren summarizes Aquinas’s teaching on the status of love within
Christianity in two simple propositions: «(1) everything in Christianity can be traced
back to love, and (2) everything in love can be traced back to self-love»3. Nygren
then points out that Thomas tries to soften this position by introducing an
Aristotelian love of friendship by which one loves others for their sake. But Nygren
thinks that Thomas’s efforts in this direction, while noble, are a failure: «Apart from
the hopelessness of trying to express the meaning of Agape by the alien idea of
‘amicitia,’ it is obvious that this external corrective is unable to neutralize the egocentricity that is bound up with the very first premise of the Thomistic doctrine of
love»4. Even a solid Thomist like L.-B. Geiger is hesitant to derive the love of others
from one’s love of self. In his treatment of the Thomistic understanding of love, he
clearly rejects as a misinterpretation the view that all love is an extension of selflove, and prefers instead to see the love for others for their own sake to be simply the
consequence of the will’s capacity, as intellectual appetite, to respond to the objective goodness of the objects it encounters5. In a more recent study of self-love in
Aquinas, Avital Wohlman goes even further than Geiger in this direction6. Wohlman
thinks it completely mistaken to see the love for others, especially for God, as arising from or being derived from self-love. On her view, if we begin with self-love, we
shall remain permanently locked into that love7. To pass from love of self to love of
others for their sake—what she refers to as a “Copernican revolution”—is impossible, and consequently her whole effort is to show how Thomas can arrive at a love of
God for his own sake without passing through a stage of self-love8. So it seems that
2
3
4
5
In III Sent., d. 29, a. 3, ad 3.
Agape and Eros, trans. P. S. Watson (Philadelphia: Westminster Press, 1953), p. 643.
Ibid., p. 645.
L.-B. GEIGER, Le problème de l’amour chez saint Thomas d’Aquin (Montreal: Institut d’Études
Médiévales-Paris: J. Vrin, 1952). For Geiger’s view of the will’s objectivity, see especially pp.
56-92. The view rejected by Geiger is that of P. ROUSSELOT, Pour l’histoire du problème de
l’amour au moyen age, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, VI, 6
(Münster: 1908). For Geiger’s critique of Rousselot, see Le problème, pp. 17-38.
6 A. WOHLMAN, Amour du bien propre et amour de soi dans la doctrine thomiste de l’amour,
«Revue Thomiste», 81 (1981), pp. 204-34.
7 Ibid., p. 218.
8 Ibid., p. 223.
24
David A. Gallagher
all these commentators share a very basic assumption, viz. that it is illegitimate or
simply impossible to move from self-love to a love of friendship for others: a love
for others for their own sake and not just as a means to one’s own fulfillment.
Nygren thinks Aquinas makes this move and faults him for it, while someone like
Wohlman, wishing to defend Aquinas, simply denies that he makes such a move.
It is not my intention in what follows to analyze the above interpretations of
Thomas’s theory of love. Rather, I wish to outline 1) how, for Thomas, all love for
others is based on a natural love of self, 2) how self-love leads to love of others, and
3) how there are different kinds of self-love that appear in Thomas’s works and
which of these serves as the basis for the love of others. Throughout, the goal is to
see that there is in principle no reason to deny that a person can pass from self-love
to a love of friendship for others.
1. Self-love as natural and as the source of all willing
Our first task is to see how Thomas considers self-love to be natural to the will
and to be the source of all other acts of willing. As we shall see, what Thomas normally refers to as the will’s natural inclination to happiness or beatitude is actually
self-love. What is more, this natural inclination gives rise to all other acts of will,
including the loves one has for other persons.
Anyone familiar with Aquinas’s theory of the will knows that he finds in the will
a natural inclination that arises from the very nature of the will and is not the result
of any deliberate choice on the part of the willer. His usual argument for this natural
inclination parallels his argument for the first principles in the order of speculative
reason. Just as one cannot go back indefinitely in proving the premises of demonstrations but must start with some propositions which are grasped immediately
(without the mediation of a middle term) and to which one assents naturally, so too
one cannot go back indefinitely in the chain of ends for the sake of which one makes
choices. There must be some end or good that is willed naturally without having
been deliberately chosen, in view of which all choices are made9.
Thomas maintains that the object of the natural inclination in the will is happiness or beatitude (felicitas/beatitudo). And, corresponding to the fact that the will is
an appetitive power by which a being tends toward its good, the beatitude in question is the willer’s own beatitude. Every rational being, Thomas holds, spontaneously desires to be happy or fulfilled and cannot not want that. At times Aquinas refers
to the object of the will’s natural inclination as the good in general or universal good
(bonum in communi or bonum universale). This, I believe, is the same as beatitude,
for by saying that the will is ordered to the good in general or universal good, he
means to say that the will naturally tends not to any one particular good of the per9
See for example, ST I-II, q. 1, a. 5, c.: «...sicut in processu rationis principium est id quod naturaliter cognoscitur, ita in processu rationalis appetitus, qui est voluntas, oportet esse principium
id quod naturaliter desideratur». Cf. De veritate (DV), q. 22, a. 5, c. & ad 11; ST I, q. 82, aa. 1-2;
I-II, q. 13, a. 3, c.; De malo (DM), q. 16, a. 5, c.
25
studi
son or even to any one kind of good (e.g. sensible pleasures) but to any and all goods
of the person; it will tend toward whatever presents itself as good for that person. At
times Thomas also speaks of the object of the natural inclination as the perfect good
(bonum perfectum). This expression nicely combines the two other modes of referring to this object. On the one hand, the perfect good as such lacks no goodness (perfection taken as completion); it is the good which, when possessed, totally perfects
the one possessing it. Obviously, only the perfect good could be the good that beatifies—beatitude implying the total satisfaction of all inclination. On the other hand, if
in saying that the will’s object is the good in general or universal good we mean that
the will is not limited to any particular kind of good but can be directed to any and to
all the goods of the person, then we are implying that the object of the will is the perfect good, lacking in no way10.
The next point is to see that this natural inclination to fulfillment or beatitude is
self-love. For this it is necessary first to describe Thomas’s notion of love as it is
found at the rational level. Thomas employs a general term for love which is amor,
and what he says about amor generally applies at both the sensible level—love as a
passion—and at the rational level. But he uses a special term for love at the rational
level, i.e., “dilection” (dilectio). Dilection, for Thomas, is not just one sort of rational
love among several; rather, every rational love is dilection, including the love which
God has. Whenever a person, a rational being, loves, that love has the form of dilection11. Let us then see just how Thomas understands this dilection.
Dilection or rational love has a very definite structure, a structure to which
Aquinas constantly refers. He expresses this structure in terms of a distinction
between love of friendship (amor amicitiae) and love of concupiscence (amor concupiscentiae), a distinction he derives from Aristotle. We should note immediately
that Thomas gives to these terms, “love of friendship” and “love of concupiscence”,
his own, very determinate meanings, meanings that must be taken from his own
texts. To this end, the best locus is Prima secundae, q. 26, a. 4, which asks whether
love is suitably distinguished into amor amicitiae and amor concupiscentiae.
I answer that as the philosopher says in Rhetoric Bk. II, “to love is to will the
good for someone (amare est velle alicui bonum)”. In this way, then, the motion
of love tends toward two things: namely, toward some good which one wills for
someone, either for one’s self or for another; and toward that for which one wills
this good. Thus one loves the good that is willed for the other with love of concupiscence, and that for which the good is willed with a love of friendship12.
10 See
DV q. 22, a. 7, c.; ST I-II, q. 1, aa. 5-6; q. 2, aa. 7-8; q. 5, a. 8, c. & ad 3; q. 10, a. 2, c.; q. 13,
a. 2, c.; DM q. 6, a. un., c.
11 ST I-II, q. 26, a. 3, c.; also ad 3: «In parte tamen intellectiva idem est amor et dilectio».
12 «Respondeo dicendum quod, sicut Philosophus dicit in II Rhetoric, amare est velle alicui
bonum. Sic ergo motus amoris in duo tendit: scilicet in bonum quod quis vult alicui, vel sibi vel
alii; et in illud cui vult bonum. Ad illud ergo bonum quod quis vult alteri, habetur amor concupiscentiae: ad illud autem cui aliquis vult bonum, habetur amor amicitiae». ST I-II, q. 26, a. 4, c.
Cf. In librum Beati Dionysii De divinis nominibus expositio (De. Div. Nom.), Ch. 4, lect. 9, nn.
404-5. For Aristotle’s text see Rhetoric, II, 4, 1380b 35. Thomas does not believe that this
Aristotelian “definition” of dilectio is complete; for this see ST II-II, q. 27, a. 2, c.
26
David A. Gallagher
According to this text dilection has, we might say, two prongs. In any act of love,
there is a person who is loved—a love of friendship—and at the same time some
good willed for that person—a love of concupiscence. These two loves constitute
one act13. If one’s friend is thirsty and one wants the friend to have water, then there
would be a love of friendship for the friend and a love of concupiscence for the
water which is willed for the friend. So too if a person rejoiced in the good health of
a friend, there would be a love of friendship for the friend and a love of concupiscence for the health. The distinction between the two loves, then, should not be taken
as one between acts which could exist alone, but rather between two inseparable
aspects or elements of one single act. We do not love a person without wanting that
the person should have what is good for him, nor do we love what is not a person
except as good for a person. Thomas give the examples of horses and wine; they are
loved not as that for which we will good, but rather as good for ourselves or for others14. So what we have is a single act directed to two objects, a person and that person’s good. Hence we might say that the distinction between amor amicitiae and
amor concupiscentiae is a formal distinction between just these two aspects of love.
Despite the somewhat misleading connotations of the terms, it is not an evaluative
distinction between “good” love and “bad” love, or even a distinction between two
kinds of love, e.g., self-centered love and other-directed love. In fact, as the above
text clearly states, the person loved with love of friendship can be either oneself or
another person.
The important distinction, then, between the two loves is the distinction between
loving a person as that for which goods are willed and loving some good (even at
times a person) as good for a person. Thomas sometimes expresses this by saying
that what is loved with the love of concupiscence is loved as that by which a thing is
well off. In this vein, he relates these two loves to two fundamental kinds of goods:
those goods which are subsisting beings, viz., persons, and those goods which are
goods inhering in subsisting beings as accidents which perfect them15. Thus we
should note—again, to dispel any negative connotations—that the objects of the love
of concupiscence include not only things like food and drink, but also perfections
such as virtue, knowledge, and health; all these are loved as things by which persons
are better off16.
The object which is most loved with a love of concupiscence is beatitude, for
13 For
an explicit statement concerning the unity of the two loves, see for example, ST I, q. 20, a. 1,
ad 3: «Dicendum quod actus amoris semper tendit in duo, scilicet, in bonum quod quis vult
alicui; et in eum cui vult bonum». Also SCG I, ch. 91: «Sciendum itaque quod, cum aliae operationes animae sint circa unum solum obiectum, solus amor ad duo obiecta ferri videtur». Cf. De
perfectione spiritualis vitae, ch. 14.
14 In III Sent., d. 28, a. 2, c.; ST II-II, q. 23, a. 1, c.; q. 25, a. 3, c.; De perfectione spiritualis vitae,
ch. 14; De Div. Nom., ch. 4, lect. 10, nn. 428-29.
15 De Div. Nom., ch. 4, lect. 9, nn. 404-5; lect. 10, nn. 428-29. It is important to note the point made
at n. 429, viz., that we actually do love many subsisting things with love of concupiscence, but
that when we do so, we love primarily some accidental quality and do not truly love the objects
for themselves (secundum se).
16 See ST I, q. 60, a. 3, c.; In III Sent., d. 29, a. 4, c.
27
studi
beatitude as we have already seen contains in its very notion every possible good for
a person. Thomas explicitly refers to beatitude as that which is most loved as a
desired good (bonum concupitum)17. Hence it is easy to see how we can take the
will’s natural desire for beatitude as a self-love. The person loved with love of
friendship is oneself and the good willed for that person with a love of concupiscence is precisely beatitude.
The most important text wherein Thomas explicitly identifies the will’s natural
inclination with self-love is his treatment of the love of the angels in the Prima pars,
q. 60. Throughout this question Thomas draws a distinction between natural dilection (dilectio naturalis) and chosen or elective dilection (dilectio electiva). What he
here calls natural dilection is clearly the same as what he elsewhere calls the will’s
natural inclination. Moreover, in this question Thomas explicitly uses the distinction
between amor amicitiae and amor concupiscentiae (a. 3). The result is that he clearly describes the will’s natural inclination as natural dilection and describes it in
terms of the distinction between amor amicitiae and amor concupiscentiae18. Thus
he can say the following about natural dilection: «Whence [like beings without cognition] the angel and man naturally desire their own good and their own perfection.
And this is to love oneself. Hence both the angel and man naturally love themselves
insofar as each desires some good for himself by a natural appetite»19.
In addition, Thomas states just as clearly that this natural self-love is the source
of all other acts of will. Of course, the argument Thomas used to justify the existence
of a natural inclination in the will, i.e., the fact that every deliberate, chosen act of
17 ST
I-II, q. 2, a. 7, ad 2. See also III Sent., d. 28, a. 1; d. 29, a. 4, c.; ST I, q. 60, a. 4, ad 3; II-II, q.
25, a. 2, c.
18 This is a crucial point for the approach of Wohlman («Amour du bien propre et amour de
soi...»). She wishes to find in Thomas’s thought a distinction between a love of self (amour de
soi) and a love of one’s own good (amour du bien propre). The love of self, she maintains,
occurs only at the level of rational deliberation and choice, not at the level of nature, and is
structured according to the distinction between amor amicitiae and amor concupiscentiae (pp.
211-12). The love of one’s own good, on the other hand, would be the love that takes its start in
the will’s natural love, paralleling the natural love of all beings for their own good. Wohlman’s
basic argument is that the natural love of God which Thomas speaks of arises not from the love
of self, but rather from this natural love of one’s own good. For this reason she thinks it mistaken
to see the natural love of God as originating in love of self (p. 218). Her interpretation, then,
hinges on her reading of the distinction between natural love and elective love as described here
in q. 60. Wohlman’s view, however, that the distinction between love of friendship and love of
concupiscence is not to be found at the level of natural dilection and that consequently at that
level one cannot properly speak of self-love does not seem to be borne out by the texts. Rather it
seems clear that for Thomas the distinction between love of friendship and love of concupiscence obtains in both natural and elective dilection (see especially a. 3). That is to say, Thomas
accepts that there is a natural self-love. Hence Wolhman’s distinction between self-love and love
of one’s own good does not seem to be one Thomas himself makes (she herself concedes that he
never makes it explictly: p. 208). As we have seen, for Thomas self-love includes love of one’s
own good; these are not two distinct loves but rather two aspects of a single love.
19 ST I, q. 60, a. 3: «Unde et angelus et homo naturaliter appetunt suum bonum et suam perfectionem. Et hoc est amare seipsum. Unde naturaliter tam angelus quam homo diligit seipsum,
inquantum aliquod bonum naturali appetitu sibi desiderat».
28
David A. Gallagher
the will requires as its principle some natural act, already makes it clear that this natural inclination underlies and gives rise to all subsequent acts. But in the second article of this question the point is made explicitly in the language of natural dilection:
I answer that in the angels there is a natural dilection and an elective dilection.
And in them natural dilection is the principle of elective dilection, because that
which belongs to what is prior always has the character of a principle; hence, since
nature is what is first in anything, it must be that, in any given thing, what pertains
to nature is a principle. And this appears in man both with respect to intellect and
with respect to will... Similarly, as is said in Book II of the Physics, the end plays
that role for the will which the first principle plays for the intellect. And so the will
naturally tends toward its own last end, for every man naturally wills beatitude.
And from this natural willing are caused all other willings, since whatever a man
wills, he wills on account of the end. Thus the dilection for the good which a man
wills naturally is natural dilection, while the dilection derived from that, dilection
for the good loved on account of the end, is elective dilection20.
It is clear, then, that Thomas holds self-love to be natural. Every person naturally
loves himself with a love of friendship and wants or wills for himself, with a love of
concupiscence, all the good(s) that are required for his fulfillment. That is to say,
each person naturally loves beatitude for himself with a love of concupiscence. From
this natural self-love arise all further acts of willing. Hence, if a person is to love
another person by an act of the will, the origin of that second love will have to be
explained in terms of the first and more basic love. In this sense Nygren was quite
right in his claim; all love is traced back to self-love. But as we shall see, the reduction to self-love does not necessarily imply that all the further loves will be simply
loves of concupiscence by which all objects are loved as good for the lover alone.
The question is how precisely this self-love can generate a love of friendship for
another person.
2. Love of self as the basis for loving other (created) persons
For Aquinas it does not seem possible for a person to love another person—seek
that person’s good—without the good of the person loved being in one way or anoth20 ST
I, q. 60, a. 2: «Respondeo dicendum quod in angelis est quaedam dilectio naturalis, et
quaedam electiva. Et naturalis dilectio in eis est principium electivae; quia semper id quod pertinet ad prius, habet rationem principii; unde, cum natura sit primum quod est in unoquoque,
oportet quod id quod ad naturam pertinet, sit principium in quolibet. Et hoc apparet in homine
quantum ad intellectum, et quantum ad voluntatem... Similiter in voluntate finis hoc modo se
habet, sicut principium in intellectu, ut dicitur in II Phys. Unde voluntas naturaliter tendit in
suum finem ultimum: omnis enim homo naturaliter vult beatitudinem. Et ex hac naturali voluntate causantur omnes aliae voluntates: cum quidquid homo vult, velit propter finem. Dilectio igitur boni quod homo naturaliter vult sicut finem, est dilectio naturalis: dilectio autem ab hac
derivata, quae est boni quod diligitur propter finem, est dilectio electiva».
29
studi
er the good of the lover. There seems to be no place for the “altruism” of the modern
sort by which one pursues the interests of another person that are in no way one’s
own21. Rather, for Thomas, one loves and seeks the good of another person only
when that other person’s good becomes his own22. And that good becomes his own
precisely when he loves the other person, especially with a love of friendship. Let us
look briefly at three examples where this view is clearly evident.
In his treatise on the virtue of hope, Thomas asks whether one can hope for eternal beatitude for a person other than oneself. He replies that, strictly speaking, one
only hopes for goods for oneself. Hope (and desire) is like motion and motion is
always toward the proper terminus proportionate to what moves (like a stone falling
to the center of earth). This terminus is the thing’s own good (proprium bonum) and
not the good of something else. Nevertheless, Thomas continues, «if we presuppose
a union of love with the other person, then it is possible for one to desire and hope
for something for someone else as if for oneself. And accordingly someone can
hope for eternal life for another person insofar as that person is united to him by
love»23. Again, while discussing pleasure, Aquinas argues that the actions of other
people can be a source of pleasure for us in three distinct ways. His argument
assumes that pleasure involves both that one possess one’s own good (bonum proprium) and that one be aware of that possession. In the first place, then, the action
of the other might yield us some new good (e.g. to be given a gift). Second the
action of the other may make us more aware of some good we already possessed
(e.g., to be praised or honored). Third, the actions can cause us pleasure «insofar as
the actions themselves of the other persons, if they are good, are taken as one’s own
good by virtue of love which makes one consider one’s friend to be, as it were, the
same as oneself»24. Finally, in explaining why benefiting another person can bring
one pleasure, Thomas says that it may be that one expects some return in the future
from the other, but it may also be simply the good achieved in the other that is the
source of pleasure: «...insofar as the good of another person is taken, as it were, to
be our own good (bonum proprium), on account of the union of love, we delight in
21 For
a description of this modern altruism along with its usual contrast term, “egoism”, see
Egoism and Altruism, by Alisdair MACINTYRE in The Encyclopedia of Philosophy (New York:
Macmillan, 1967).
22 Some statements of this view, by way of illustration, are the following (emphases added): «Ex
hoc igitur aliquid dicitur amari, quod appetitus amantis se habet ad illud sicut ad suum bonum»
(De Div. Nom., ch. 4, lect. 9, n. 401); «Et quia unumquodque amamus inquantum est bonum nostrum...» (Ibid., n. 406); In III Sent., dist. 29, a. 3, c: «Bonum autem illud unusquisque maxime
vult salvari quod est sibi magis placens; quia hoc est appetitui informato per amorem magis conforme; hoc autem est suum bonum. Unde secundum quod bonum alicujus rei est vel aestimatur
magis bonum ipsius amantis, hoc amans magis salvari vult in ipsa re amata».
23 ST II-II, q. 17, a. 3, c.: «Motus autem semper est ad proprium terminum proportionatum mobili:
et ideo spes directe respicit proprium bonum, non autem id quod ad alium pertinet. Sed praesupposita unione amoris ad alterum, iam aliquis potest desiderare et sperare aliquid alteri sicut sibi.
Et secundum hoc aliquis potest sperare alteri vitam aeternam, inquantum est ei unitus per
amorem».
24 ST I-II, q. 32, a. 5, c.: «Tertio modo, inquantum ipsae operationes aliorum, si sint bonae, aestimantur ut bonum proprium, propter vim amoris, qui facit aestimare amicum quasi eundem sibi».
30
David A. Gallagher
the good which is done by us for others, especially for friends, as we would in our
own good»25.
From these texts it seems clear that a person always seeks and rejoices in his own
good, but that it is possible for the good of another person to become his good, if he
is united to that other person by love26. In these cases the person is loving the other’s
good as his own with a love of concupiscence but is loving that good as good for the
other person. In other words, the person is taking as his own good a good that
inheres or belongs to another person precisely as belonging to that other person.
What occurs here is that the lover takes the loved as somehow one with himself—as
another self (alterum se/alter ipse) to use the phrase Thomas takes over from
Aristotle—and thus loves the goods of that person as if they were his own. Again to
quote Thomas: «The angel and man naturally love themselves. That, however, which
is one with something is the thing itself, whence each loves that which is one with
itself»27. Since each person naturally loves his own good, he will naturally love the
good of anyone he takes to be one with him28. This, then, is the application to the
love of concupiscence of Aristotle’s dictum about self-love being the basis of love
for others. Since a person naturally loves his own good with a love of concupiscence, he will also loves the good of another person with a love of concupiscence if
he somehow takes that other person to be one with himself.
Obviously in these texts Thomas presupposes the possibility of a relationship
between persons of such a sort that one person takes the other to be one with himself
(another self) and consequently the other’s good (well-being) to be his own. This is
precisely what he understands by having a love of friendship for another person.
Amor amicitiae, says Thomas, formally just is this kind of union: to be united to
another person in this way, i.e., as one for whom the lover seeks goods in the same
way he would for himself29. In this kind of union the lover desires that the beloved
acquire the goods that he (the beloved) lacks or retain the goods that he already has
(benevolence), and the lover acts to procure or protect those goods (beneficence).
There is also a union of wills such that the lover desires what the beloved desires and
is saddened by what saddens the beloved. That is to say, it is proper to this union that
both the lover and the beloved will the same goods30. In all this the lover wants the
good of the beloved simply as being the good of the beloved; in fact, the good of the
beloved is the good of the lover precisely by being the good of the beloved. It does
25 ST
I-II, q. 32, a. 6, c.: «Et secundum hoc, inquantum bonum alterius reputamus quasi nostrum
bonum, propter unionem amoris, delectamur in bono quod per nos fit aliis, praecipue amicis,
sicut in bono proprio».
26 Desiderium (desire/seeking) and delectatio or gaudium (delight/joy) are the two affections that
follow from amor, desire when the loved good is absent and delight when the good is present.
For this point see ST I-II, q. 25, a. 2, c.
27 ST I, q. 60, a. 4, c.: «...angelus et homo naturaliter seipsum diligit. Illud autem quod est unum
cum aliquo, est ipsummet: unde unumquodque diligit id quod est unum sibi».
28 ST I, q. 60, a. 4, ad 3; II-II, q. 27, a. 2, c.
29 ST I-II, q. 28, a. 1, c. & ad 2.
30 This doctrine is developed in Thomas’s discussion of mutual inherence (inhaesio mutua) as an
effect of love of friendship (ST I-II, q. 28, a. 2).
31
studi
not become the lover’s good only by somehow “returning” to the lover as would be
the case if the lover loved the beloved with a love of concupiscence. Thomas
expresses this point under the rubric of extasis, saying that in love of concupiscence
the love of the lover goes out to the beloved, but returns to itself, while in the case of
love of friendship, the love goes out to the beloved and remains there31.
We should note here that the unity effected by love of friendship is not an ontological unity such that either the lover or the beloved ceases to have his own individual existence. Rather it is a unity at the level of affections or will by which one
person affectively takes the other to be part of himself and the goods of the other to
be his own goods. As Thomas says, commenting on Aristotle, the unity of affections (unitas affectus) is not the same as natural unity (unitas naturalis)32. Thus to
say that the lover is united by love to the one he loves does not dissolve or destroy
the otherness of the two persons. Also, to say that the union is one of affections
does not mean that one merely desires or rejoices in the goods of the other; we are
speaking here primarily of affections of the will, and so the consequence of the
affective union is that the lover effectively seeks the good of the beloved (i.e.,
beneficence).
Granted this possibility of a love of friendship for other persons, we need to see
how such a love arises from one’s self-love. In general, the basis for the affective
extension of one’s self to include another person such that the other person is treated
as another self is, for Thomas, unity. In some mode the other person must be taken as
one with the lover. One way that this occurs, Thomas maintains, is that one person
sees another as “belonging” to him (ut aliquid sui existens) or as being a part of him
(utpote pars existens). This is the sort of love parents have for their children33. This,
in broader terms, is like a relationship between a whole and its parts. Since any good
of a part will be a good for the whole, the whole wants what is good for any of its
parts. In this way parents will generally want their children to have the goods they
(i.e., the children) lack and rejoice when their children possess goods34.
If we turn, however, to what we more normally think of as friendship, a relationship between (more or less) equals who come to love each other upon meeting and
getting to know each other, then the basis for the extension of one’s self to the other
31 ST
I-II, q. 28, a. 3; De div. nom., ch. 4, lect. 10, nn. 430-33. For a general description of
Aquinas’s understanding of amor amicitiae, see D. GALLAGHER, Desire for Beatitude and Love
of Friendship in Thomas Aquinas, «Mediaeval Studies», 58 (1996), pp. 1-47. See also, P.
KWASNIEWSKI, St. Thomas, Extasis, and Union with the Beloved, «The Thomist», 61 (1997), pp.
587-603.
32 See Sententia libri Ethicorum, Bk. IX, lect. 11: «Deinde cum dicit: Ut autem ad se ipsum etc.,
ostendit ex praemissis quid sit virtuoso et felici eligibile et delectabile respectu amici. Et dicit
quod virtuosus ita se habet ad amicum sicut ad se ipsum, quia amicus quodam modo est alter
ipse; sicut igitur unicuique virtuoso est eligibile et delectabile quod ipse sit, sic est ei eligibile et
delectabile quod amicus sit, et si non aequaliter, tamen propinque; maior est enim unitas naturalis quae est alicuius ad se ipsum quam unitas affectus quae est ad amicum» (Leonine, 47.2, p.
540, ll. 114-23). Cf. In III Sent., d. 29, a. 3, ad 1: «...mor non est unio ipsarum rerum essentialiter, sed affectuum».
33 ST II-II, q. 26, a. 9, c.
34 De div. nom., ch. 4, lect. 9, nn. 406-7.
32
David A. Gallagher
is similitude or likeness (similitudo)35. We see this in the question Thomas explicitly
directs to the causes of love (ST I-II, q. 27). In this text he first names the good as
the cause of love, something quite obvious since love is an affection of an appetitive
power whose object is precisely the good (a. 1). Next he names cognition, once
again an obvious point, since the motions of the appetitive powers depend upon cognition of the good (a. 2). But then, after the good and cognition, Thomas points to
similitude as the cause of love. To be similar or like another thing implies having
some formal sameness; both things must share in a greater or lesser degree in some
one form, or better, in some one formal perfection. This, however, constitutes a kind
of unity, which, when perceived, is the basis for benevolence and even beneficence.
The first kind of similitude causes love of friendship or benevolence. For from
the fact that two things are alike, having as it were one form, they are in a certain
manner one in that form, as two men are one in the species of humanity and two
white persons in whiteness. And therefore the affection of the one inclines toward
the other as toward what is one with himself: he wills the good for him as he does
for himself36.
For Thomas, then, to share in any formal perfection with another person is to be,
to that extent, one with that other person. Love, as appetitive, is based on the good
and so it is the shared good that is the basis for loving others. Consequently we love
only those who share some good with us and who, consequently, are similar to us. At
the widest level, for example, all human beings share in the form or species of
humanity, and on that basis there arises the basic love that each person should have
for all others, even strangers37. Of course persons can share many other things of
varying importance (e.g. shared parentage for siblings) and also share them in varying degrees. Consequently there are a variety of special loves of varying intensity
and varying in terms of the goods which are the basis for the love. We can speak of
specifically different loves and friendships such as those between citizens, colleagues, or spouses. Thus the unity of affections that constitutes love of friendship
arises on the basis of the perception of a preexisting unity, the ontological unity of
sharing in some one form. As a result of this perception a person is moved to take
the other person at the level of affection as another self and so to desire and seek that
35 Some
statements about similitude as a cause of love are the following: «amoris radix, per se
loquendo, est similitudo amati ad amantem» (In III Sent., d. 27, q. 1, a. 1, ad 3); «amor ex similitudine causatur» (Ibid., q. 2, a. 2, ad 4); «similitudo est principium amandi» (ST I, q. 27, a. 4, ad
2); «similitudo, proprie loquendo, est causa amoris» (ST I-II, q. 27, a. 3, c.). On this point see H.
D. SIMONIN, Autour de la solution thomiste du problème de l’amour, «Archives d’Histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», 6 (1931), pp. 257-62.
36 ST I-II, q. 27, a. 3, c.: «Primus ergo similitudinis modus causat amorem amicitiae, seu benevolentiae. Ex hoc enim quod aliqui duo sunt similes, quasi habentes unam formam, sunt quodammodo unum in forma illa, sicut duo homines sunt unum in specie humanitatis, et duo albi in
albedine. Et ideo affectus unius tendit in alterum, sicut in unum sibi: et vult ei bonum sicut et
sibi».
37 ST I, q. 60, a. 4, c.; I-II, q. 27, a. 3, c.
33
studi
person’s good38. This seems to be Thomas’s theory for explaining the origin of the
love of friendship for other (created) persons.
In terms of this theory we can now see how one’s self-love is prior to the love of
others. I love the others on the basis of their possessing goods that I first love for
myself. In his Sentence commentary, Thomas makes the observation that similitude
alone is not enough to cause love; if I do not love in myself the thing that I share
with the other, then I will not love the other on that basis39. For example, if I do not
take being from my hometown as good, then I will not, as is normally the case, love
others who also come from it. The import of this observation is that I will love others
only on the basis of sharing goods that I first love for myself. And, as we have seen,
to the extent that I want these goods for myself, I can be said to love myself. So here
again we encounter Aristotle’s dictum, that self-love is the basis of love for others.
The extension of one’s self, so to speak, to include others, occurs when one perceives that others share goods that one first loves in oneself. One wishes to promote
in the other what he already finds good in himself. If a person found himself in no
way good, in no way lovable, he would not be able to love others.
This priority of self-love shows up in Thomas’s doctrine concerning the order of
love (ordo amoris). With respect to other creatures, he says, it is proper that each
person love himself more than any other. The basis for this seems to be the following. I love others to the extent that I find in them the same good that I want for
myself. We form, by virtue of our shared good, a kind of community, and I love the
others as being one with me in that community. But it is only because I first love that
good that I love those that also have it; my possession of the good, my pertinence to
this community is prior to and the basis for my loving the others who are one with
me in it. Wanting the good more intensely for myself than I do for the others, I love
myself more intensely than I love them. Thomas summarizes this argument by saying that the relationship we have to ourselves is unity while the relationship we have
to others who possess that good is union; unity is stronger than union, however, and
so it follows that we love ourselves more than those with whom we share the good40.
38 Thomas
distinguishes three kinds of unity that are found in love: 1) an underlying unity based on
a shared form (or on the part-whole relationship as we shall see); 2) the unity of affections that
love causes in a formal way precisely by being that unity; 3) the actual or real presence of the
beloved to the lover in whatever form that takes. For these three, see I-II, q. 28, a. 1, ad 1.
39 In III Sent., d. 27, q. 1, a. 1, ad 3.
40 ST II-II, q. 25, a. 4, c.: «...unicuique autem ad seipsum est unitas, quae est potior unione. Unde
sicut unitas est principium unionis, ita amor quo quis diligit seipsum, est forma et radix amicitiae:
in hoc enim amicitiam habemus ad alios, quod ad eos nos habemus sicut ad nosipsos». Cf. q. 26, a.
4., c. where this principle is applied to caritas: «Deus diligitur ut principium boni super quo fundatur dilectio caritatis: homo autem seipsum diligit ex caritate secundum rationem qua est particeps
praedicti boni; proximus autem diligitur secundum rationem societatis in isto bono. Consociatio
autem est ratio dilectionis secundum quandam unionem in ordine ad Deum. Unde sicut unitas
potior est quam unio, ita quod homo ipse participet bonum divinum est potior ratio diligendi quam
quod alius associetur sibi in hac participatione. Et ideo homo ex caritate debet magis seipsum
diligere quam proximum». This relationship of one’s self-love as prior to the love of others repeats
itself in the many specifically different loves; see q. 26, aa. 6-8 for Thomas’s discussion of the
many different loves a person has based on the many different goods that are shared with others.
34
David A. Gallagher
Before leaving the topic of similitude, it is worth pointing out that this teaching
provides an account of why persons are not inclined to love and form friendships
with just anybody, but rather tend to exhibit preferences in this regard. Nor is it simply that one person sees good in another and so loves him on that basis (as described
by Geiger); unless that good is somehow a shared good and so able to be my good, it
will not provide the basis for love and friendship41. We can also note that in this
understanding of self-love as the basis for love of friendship for other persons,
Thomas does not seem to fall prey to the charges of Nygren and (especially) of
Wolhman. Their reasoning seems to be that self-love is constituted by a love of
friendship for the self and a love of concupiscence for all things other than the self,
which are loved for the self. It then seems to follow that if self-love is to be the basis
for loving others, these others, being something other than the self, will be loved
with a love of concupiscence for the self. But Thomas’s theory provides for an
extension of the self to include others, such that a person can be willing his own
good in willing that good for the other and willing it precisely as being in the other.
Without this possibility, Thomas’s whole ethics and anthropology would become
simple egoism42.
3. Self-love as the basis for loving God
Thomas holds that a rational creature can have a love of friendship for God, a
love which has the same basic elements as the love of friendship for others. God
is loved for his own sake and not simply as a means to one’s individual fulfillment. That is to say, we want that God have his goodness, especially in terms of
rejoicing in that goodness precisely as found in God43. There is the unity of wills
characteristic of friendship which is expressed in obedience to the divine law and
an acceptance of divine providence44. Thomas explicitly treats the love of friendship for God in his treatise on supernatural charity in the Secunda secundae, but
he also teaches that there is natural love of friendship, and even says that the
command to love God is the first of the precepts of the natural law45. Indeed, love
41 On
this point see R.O. JOHANN, The Meaning of Love: An Essay towards the Metaphysics of
Intersubjectivity (Westminster, Md.: The Newman Press, 1959), pp. 21-24.
42 On the importance of love of friendship for Thomistic ethics see, S. PINCKAERS, Der Sinn für die
Freundschaftsliebe als Urtatsache der thomistischen Ethik, in Sein und Ethos: Untersuchungen
zur Grundlegung der Ethik, ed. P. Engelhardt (Mainz: Matthias–Grünewald, 1963), pp. 228-35.
43 It is possible to rejoice in God’s goodness insofar as it is participated in by us. This is to love
God with a love of concupiscence, the love which, according to Thomas, animates the virtue of
hope. See ST II-II, q. 17, aa. 6, 8; q. 26, a. 3, ad 3.
44 See e.g., ST I-II, q. 19, aa. 9-10; q. 91, a. 1.
45 For the treatments of the natural love of God see In III Sent., dist. 29, a. 3; De perfectione spiritualis vitae, c. 14; De div. nom., ch. 4, lect. 9-10; ST I, q. 60, a. 5; ST I-II, q. 109, a. 3; ST II-II,
q. 26, a. 3. For a comprehensive and careful study of Thomas’s doctrine, see G. STEVENS, The
Disinterested Love of God according to St. Thomas and Some of his Modern Interpreters, «The
Thomist», 16 (1953), pp. 307-33, 497-541. For the precepts of the natural law, see ST I-II, q.
100, aa. 3, 6. In this paper I do not sharply distinguish between the natural and the supernatural
35
studi
of friendship for God constitutes the heart of Thomas’s ethics. Moral goodness
for him is first and foremost rectitude of will, and the will is rectified only when
it loves God with a love of friendship and wills everything in a way consistent
with that love46.
When, however, we consider the basis for the love of friendship one has for God,
then the structure is different from what we saw earlier. Here the ontological basis is
not similitude, but rather the relationship of part and whole. Nor are we dealing here
with it the relation of whole to part, as in the parent-child relationship, but rather
with that of part to whole. In any whole, says Thomas, the part is ordered to the
whole such that the good which it primarily seeks is the good of the whole. Persons
can be parts of wholes, the most obvious instances being communities made up of
several persons. Here a good member of a community, as such, seeks the good of the
whole community and not just his own individual good. In fact, he should, as a virtuous member, seek the good of the whole more than his own individual good. So just
as a person can recognize the good of other persons to be his own by means of similitude, so too he can take the good of other persons to be his own by being part of a
larger whole, i.e., a part of a community. The common good is his good and at the
same time the good of others47.
When Thomas treats the relation of the creature to God as one of part to whole,
he does so not in a pantheistic way such that all creatures would be parts of God, but
rather in terms of his doctrine of participation, by which each creature has in a partial
form perfections that are found in their complete or perfect form only in God48.
Whatever goodness they have in themselves and find lovable in themselves is to be
found in a fuller, more perfect form in God. A passage from Thomas’s Sentence commentary nicely sums up this teaching:
The good that each person most wishes to be preserved is that which is most
pleasing to him, since this is most in conformity with an appetite informed by
love. This, however, is one’s own good (suum bonum). Whence, according as the
good of something is or is thought to be a greater good for the lover himself, he
wishes the more that the good be preserved in the loved thing. The good of the
lover himself, however, is more to be found where is exists more perfectly. And
consequently, since any part is imperfect in itself, having its perfection within its
whole, it tends accordingly by a natural love more toward the preservation of its
whole than toward its own preservation. Thus an animal naturally exposes its
limb to defend its head, on which depends the preservation of the whole. So too,
even individual men expose themselves to death to preserve the community of
which they are parts. Since, then, our good is perfect in God as in the first, uniloves, since it seems to me that for the questions raised here, the distinction is not decisive. At
both levels, Thomas thinks that a person should love God as the common good, that he should
love God above self, and that he should order all he loves and all he does to God.
46 «...bonum morale praecipue consistit in conversione ad Deum, malum morale in aversione a
Deo». ST II-II, q. 19, 2, ad 2; cf. I-II, q. 19, esp. aa. 4, 9-10; II-II, q. 104, a. 4, ad 2.
47 ST II-II, q. 47, a. 10, ad 2.
48 De div. nom., ch. 4, lect. 9, nn. 405-6; lect. 10, nn. 431-32.
36
David A. Gallagher
versal, and perfect cause of goods, so it is naturally more pleasing that the good
exist in him than that it exist in us. Consequently, God is naturally loved by men
more than self even with the love of friendship49.
As is clear from this text, not only is there a natural love of friendship for God,
but also this love is greater than one’s self-love. Man should, in accord with this natural inclination, love God above himself. It is proper to the part, as part, to love the
good of the whole more than its own private good and to direct itself and its private
good to the good of the whole50.
Turning now to the question of self-love as the basis for this love of God, there
seem to be two ways we can approach the issue. The first is in terms of the good of
the whole being one’s own good, viz. God’s good as one’s own good. By his natural
self-love, a person naturally loves his own good. Once a person recognizes himself
as a part of a whole, he also recognizes the good of the whole as his good. This, as
we have seen, belongs to the part-whole structure. Thus once he perceives his good
to lie in the common good of the whole, he will be able to love that good as being
his good. He will love that good precisely as the good of those persons in which it is
found, i.e., as the good of those persons composing the community. In this way, he
comes to love the good for those other persons as well as for himself; that is to say,
he comes to have a love of friendship for those other persons. In the case of loving
God, there is this difference, that the common or universal good is found preeminently in God himself. The person in which this good is found is only one, God, and
so it is God and not a whole community of persons which in this case is being loved
with the love of friendship. Here, as in love based on similitude, an affective union
arises upon the cognition of an ontological union, yet one’s love of one’s own individual good precedes and is the basis for the extension. This is made clear in the
reply we have already seen in which Thomas explains Aristotle’s statement that love
of others comes from one’s self-love:
The friendliness one has toward another comes from the friendliness one has
toward oneself, not as if from a final cause, but rather as from that which is prior
in the process of generation. For just as each person knows himself before he
49 «Bonum
autem illud unusquisque maxime vult salvari quod est sibi magis placens; quia hoc est
appetitui informato per amorem magis conforme; hoc autem est suum bonum. Unde secundum
quod bonum alicujus rei est vel aestimatur magis bonum ipsius amantis, hoc amans magis salvari vult in ipsa re amata. Bonum autem ipsius amantis magis invenitur ubi perfectius est. Et
ideo quia pars quaelibet imperfecta est in seipsa, perfectionem autem habet in suo toto, ideo
etiam naturali amore pars plus tendit ad conservationem sui totius quam sui ipsius. Unde etiam
naturaliter animal opponit brachium ad defensionem capitis ex quo pendet salus totius. Et inde
est etiam quod particulares homines seipsos morti exponunt pro conservatione communitatis
cujus ipsi sunt pars. Quia ergo bonum nostrum in Deo perfectum est, sicut in causa universali
prima et perfecta bonorum, ideo bonum in ipso esse magis naturaliter complacet quam in nobis
ipsis. Et ideo etiam amore amicitiae naturaliter Deus ab homine plus seipso diligitur». In III
Sent., dist. 29, a. 3, c.
50 ST II-II, q. 58, a. 5, c.
37
studi
knows the other—even God—, so too the love which each person has for himself
is prior to that which he has for the other, in the process of generation51.
It is worth noting here, what we might call the “self-centered” aspect of this love.
I seek the common good for everyone in the community, but only of the communities to which I belong. I seek the good of my family, my university, my country, in a
way that I do not seek the good of other families, universities or countries. And I do
this precisely because they are mine. I do not love them more than I love others simply because I think they are better than others; in other words, my love for them is
not based only on the “objective” goodness they contain52. Rather I seek the good
for these communities (i.e., love them) because, by virtue of my belonging to them,
those common goods are my goods. This reasoning would seem to hold for Thomas
even at the level of God. That is, I love God with the appropriate degree of love, not
just because God is the best thing there is. I love God because he is the source of my
goodness and because I find in God my own goodness in the highest degree53. If, per
impossibile, there were two or three Gods each with his own created universe, then it
seems that I would love my God, the one who created me but not the other Gods,
because the goodness of the other Gods would not be mine. In sum, even in the love
for God there is an extension of the natural love of my own good, the natural inclination of the will.
The second way in which self-love gives rise to the love of God concerns not
how God’s good is seen as one’s own good, but rather with the choice one must
make if he is to direct his love toward God. If a person does come to see that his
good is to be found in God more than in himself, he must still make the choice to
love his good there more than in himself, i.e., he must still choose to love God and
direct himself toward God. A person may consider himself simply as an individual
and then ask what is best for himself; he has to look at all the possible goods one can
seek and to which one can dedicate oneself. It is Thomas’s view that the best thing a
51 In
III Sent., dist. 29, a. 3, ad 3: «Ad tertium dicendum quod amicabilia quae sunt ad alterum
venerunt ex amicabilibus quae sunt ad seipsum, non sicut ex causa finali, sed sicut ex eo quod
est prius in via generationis. Quia sicut quilibet sibi prius est notus quam alter, etiam quam
Deus; ita etiam dilectio quam quisque habet ad seipsum est prior ea dilectione quam habet ad
alterum, in via generationis».
52 This again would be the view of L.B. Geiger who interprets Aquinas as holding that one’s love,
at the rational level, is proportionate only to the objective goodness of a thing and not to its relationship to the lover. See Le problème de l’amour chez saint Thomas d’Aquin, pp. 58-61. As
with all loves of friendship, in loving the common good, a person would rejoice in the good that
is present and desire the good that is absent or lacking. Thus one need not be simply content with
the good (or lack thereof) one finds in one’s own community.
53 ST I, q. 60, a. 5, ad 1: «Sed in illis quorum unum est tota ratio existendi, et bonitatis alii, magis
diligitur naturaliter tale alterum quam ipsum; sicut dictum est quod unaquaeque pars diligit naturaliter totum plus quam se. Et quodlibet singulare naturaliter diligit plus bonum suae speciei,
quam bonum suum singulare. Deus autem non solum est bonum unius speciei, sed est ipsum
universale bonum simpliciter. Unde unumquodque suo modo naturaliter diligit Deum plus quam
seipsum». This is a reply to an objection based on unity as the ground for loving other persons,
viz., that one should love oneself more than one loves God because one’s union with self is
greater than one’s union with God.
38
David A. Gallagher
man can do for himself is to love God above self; in other words, a person can recognize that the best way to love himself is to love God more than himself54.
In this vein there is a rather interesting text in which Thomas asks whether a person can commit a venial sin without committing a mortal sin (ST I-II, q. 89, a. 6).
His answer, at least for the unbaptized, is “no”. His reasoning here is that a person
can sin only when he has reached a certain age, a certain degree of intellectual maturity. At that point, when the person makes his first free, deliberate act, the first thing
he considers is himself: to what good is he going to dedicate himself. At this point,
Thomas claims, the person either turns to something other than God and in so doing
commits a mortal sin, or he turns to God55. What is interesting, for our purposes, is
that the turning to God, the decision to love God above all else, is taken precisely in
view of what will be best for the person himself. In other words, it is precisely on the
basis of his self-love that the person chooses to love God more than himself. On the
basis of wanting what is best for self—self-love—a person chooses to love God
above self.
If then we now consider the claim made at the beginning that it is not possible to
move from self-love to love of God—the “Copernican revolution”—, this claim does
not seem to be borne out by Thomas’s texts56. Nor does there seem to be any conceptual difficulty. A person need only consider that what is best for himself is to love
God more than himself and on this basis move himself to such an act. There is no
necessary opposition between self-love and love of God.
4. The Forms of Self-love
As a concluding theme, let us take up the various forms of self-love one finds in
Thomas’s thought. This theme is of interest because, as we shall see, the claim that
one cannot move from love of self to love of others does hold for a certain self-love
but not for others. If one overlooks this variety, one may tend to see all self-love as
being of the sort closed to love of others and to conclude consequently that self-love
can in no way be the source of love for others and for God. Our goal here is to see
which forms of self-love are open to the love of others and which are not.
As we have seen, all dilection has the form of willing (seeking/rejoicing in)
goods for a person. Consequently, the different self-loves are to be distinguished primarily in terms of a) what the person takes to be his self and b) what goods the person seeks for himself. This is how Thomas treats the different self-loves, especially
in his discussion of whether sinners love themselves (ST II-II, q. 25, a. 7). There, following Aristotle, he distinguishes bad self-love in which a person takes as primary
within himself the sensitive and bodily side of his nature and accordingly pursues as
his chief goods sensible and bodily goods from good self-love wherein the rational or
54 ST I-II, q. 100, a. 5, ad 1 (see n. 61 below).
55 ST I-II, q. 89, a. 6, c.
56 Two other texts in which one’s love of self is
taken as the basis for willing the love of God are In
III Sent., dist. 29, a. 4, c. and ST II-II, q. 25, a. 2, c. (see n. 65 below).
39
studi
spiritual side of the nature is taken as primary and the corresponding spiritual goods
are principally sought. A related yet slightly different treatment of self-love is to be
found in Thomas’s treatise on the virtue of hope in a question dedicated to the gift of
fear (ST II-II, q. 19). There he says that fear is always based on self-love (one fears
to lose one’s own good), and so when he discusses the various kinds of fear he also
discusses the various ways one can love oneself. Consequently, in an article devoted
to the question of whether fear is compatible with charity, Thomas distinguishes
three different ways of loving oneself and the relation of each to the love of God
which is charity (a. 6). While Thomas’s chief interest in this text is precisely this, the
relationship of self-love to the love of charity, it seems that what he says there can be
applied more broadly to a person’s self-love within any community of which he is a
part. In what follows, we shall describe these three kinds of self-love as they relate to
charity and then try to show how they would pertain to a person’s relationship to any
community in general.
A first self-love is one which is incompatible with the love of God that is charity.
By this love the person seeks for himself his own individual goods in such a way as
to give priority to them. Here a person would be willing to ignore the demands of
charity such as obeying divine law, for the sake of such goods as bodily pleasure,
money, or honor. This self-love, which corresponds with what Thomas calls the selflove of sinners (q. 25, a. 7), is incompatible with charity; to love oneself in this way
precludes loving God above self. Thomas, speaking about the Fall, says at one point
that a consequence of the Fall is precisely a steady tendency toward one’s own private good and not toward the common good, especially the highest common good
which is God57.
In more general terms, this kind of self-love seems to be opposed to and corruptive of friendship and community. It is a selfish or egotistical self-love, one that
seeks for oneself precisely those goods which cannot truly be shared. These goods,
says Thomas, have so little goodness that they cannot be shared without being
diminished58. A person who seeks such goods as his primary goods will enter into
competition with others over them, since usually one has more only if others have
less (e.g. money, honor). Also, not being dedicated to the sorts of common goods
that can be shared, they will tend to lack the necessary basis for loving others. Thus
this kind of self-love is opposed to loving common goods and hence is always
destructive of friendship and community. The more a person is dedicated to such
goods, the less able he will be to enter into friendships and to seek goods for others.
Let us take a mundane example. If, during a game of football, a running back were
to run out of bounds just before making a first down in order to avoid being hit by a
57 ST I-II, q. 109, a. 3, c.
58 ST I-II, q. 28, a. 4, ad 2:
«Ad secundum dicendum quod bonum amatur inquantum est communicabile amanti. Unde omne illud quod perfectionem huius communicationis impedit, efficitur
odiosum. Et sic ex amore boni zelus causatur.—Ex defectu autem bonitatis contingit quod
quaedam parva bona non possunt integre simul possideri a multis. Et ex amore talium causatur
zelus invidiae. Non autem proprie ex his quae integre possunt a multis possideri: nullus enim
invidet alteri de cognitione veritatis, quae a multis integre cognosci potest; sed forte de excellentia circa cognitionem huius».
40
David A. Gallagher
defensive player, he would be at that moment preferring his own private good (his
health, absence of pain) to the common good of the team (victory). He would be, at
that moment at least, a bad member of the team, for at that moment he ceases to seek
the good of the team.
Thomas gives a second kind of self-love in which the goods wished for are compatible with one’s ordination to God59. Here a person does seek individual goods for
himself, but not any that are directly opposed to charity (i.e., not opposed to the
divine law)60. A person might will life and health for himself but not be willing to
pursue them if that pursuit were contrary to the love of God. Such a self-love is
clearly compatible with charity, although not identical with it insofar as the object of
the love is one’s own good and not the good of God. This love seems to be that
which Thomas calls the virtuous or good self-love by which a person wills for himself those goods that are truly best for him, especially the spiritual goods. Among
those goods would be included one’s ordination to God as to the primary good61.
In more general terms, we can say that this is the proper self-love of one who is
dedicated to a common good. A person who belongs to a community or has friends
does not thereby lose all concern for his own individual good. But his concern for
his individual good (e.g., the absence of pain for the football player) will be subordinated to his concern for the common good. What is more, one of the things he will
want for himself is precisely his ordination to the common good. Hence this love
presupposes a love for the common good, while remaining distinct from it. What the
person wants for himself is to be a good part of the whole; the focus here is still on
the goodness of the individual as such. Again, to return to our mundane example, it
is consistent with being a good team player, that a person delight in his own good
performance; it would be understandable that a person who played well while the
team lost should experience both disappointment and satisfaction: disappointment at
the team’s loss and satisfaction about his good play (or even that he was not injured).
Here the two goods, his own good (which remains precisely an ordination to the
good of the whole) and the good of the whole are clearly distinct.
The third kind of self-love that Thomas describes is not really distinct from charity at all. In this case one loves oneself only in terms of one’s ordination to God, only
as being ordered to the divine goodness. Here Thomas speaks of a person loving
himself propter Deum et in Deo and also as ad Deum pertinens62. In this love one
rejoices in one’s own good, not for oneself but only for God; if one loves one’s own
good with a love of concupiscence, this good is referred by a love of friendship not
to self but to God. Or, to make clear the contrast with the second self-love, we could
say that one would want his ordination to God just because God wanted it and only
59 I am here inverting Thomas’s order of treatment of the second and third self-loves in q. 19, a. 6, c.
60 For this relationship of charity to the divine law, see II-II, q. 24, a. 12, c. «Est igitur de ratione
caritatis ut sic diligat Deum quod in omnibus velit se ei subiicere, et praeceptorum eius regulam
in omnibus sequi: quidquid enim contrariatur praeceptis eius, manifeste contrariatur caritati».
61 ST I-II, q. 100, a. 5, ad 1: «...in hoc enim homo vere se diligit, quod se ordinat in Deum».
62 ST II-II, q. 19, a. 6, c.; q. 25, a. 4, c. Cf. q. 24, a. 12. c.: «... [ratio caritatis] consistit in hoc quod
Deus diligitur super omnia, et quod homo totaliter se illi subiiciat, omnia sua referendo in
ipsum».
41
studi
for that reason, not because it is a good for himself. This is like the love that Thomas
attributes to charity by which all things other than God are loved just because of
their relation to God and not because of their natural relationship to us as family
members or colleagues, etc.63.
This third form of self-love in its more general form is found when a person
seeks as his good only the common good of the whole and in so doing loves himself
only as a part of the whole. This, we could say, is the love of the part precisely as a
part, as opposed to the love of the part as itself an individual whole which we would
have in both the first and second self-loves. Here the only good desired and rejoiced
in is the good of the whole and the person sees himself as to be loved only because
he belongs to and contributes to the whole. His love of himself is an extension of his
love for the whole; because he loves the whole he loves all that belongs to the whole
including himself64. This is “total dedication” to the whole. To turn yet again to our
mundane example, if the team lost, in this case the player, no matter how well he
played, would experience only disappointment; his source of joy would be the victory of the team and he would not see himself as having any good other than that.
To return now to our question, which of these self-loves is the basis of our love
for others and for God? It seems clear that the first self-love is not. If one takes as
one’s good what cannot be shared with others, then there is no basis for loving the
other person, at least not with a love of friendship. The third sort of self-love seems
already to presuppose the love for the other(s). To love oneself as ordered to the
common good presupposes a prior act by which one determined oneself to be
ordered to the common good; being a member of the team presupposes having
joined the team. Hence it seems that it is the second form of self-love that provides
the basis for loving others and for loving God. This would certainly seem to be the
case for Thomas if we think of his discussion of the person’s first free act. There the
person first asks what is best for himself and decides that what is best for himself is
to love God more than himself. Thus the misgivings of those who think that self-love
can lead to nothing other than self-love apply to the first self-love but not to the second. There is no logical inconsistency nor any psychological impossibility in choosing to love another person for his own sake and even more than oneself as what is
best for oneself. In fact, it seems that such love of others must pass through this
phase of self-love. If we love others it must be because we think it better for ourselves to do so. As Thomas points out in another place, as free beings we must will
to will whatever we will. If we will to seek the good for others, we shall do so
because in some way it is better for ourselves. I as an individual must be better off
63 ST II-II, q. 19, a. 6, c. Cf. q. 26, a. 7, c.; q. 25, a. 4, c. (see following note).
64 When Thomas introduces this kind of self-love, he points out that it is really
not distinct from
charity (ST II-II, q. 19, a. 6, c.); we might say that it is the love of charity applied to oneself. On
loving oneself with the love of charity, see, q. 25, a. 4, c.: «Alio modo possumus loqui de caritate secundum propriam rationem ipsius, prout scilicet est amicitia hominis ad Deum principaliter, et ex consequenti ad ea quae sunt Dei. Inter quae etiam est ipse homo qui caritatem
habet. Et sic inter cetera quae ex caritate diligit quasi ad Deum pertinentia, etiam seipsum ex caritate diligit».
42
David A. Gallagher
for entering the friendship (e.g. marriage) or the organization or the community than
if I do not do so; otherwise it does not seem that I would do so65.
What happens to this second sort of self-love where the third form is to be found?
Does one simply cease to love oneself and become wholly absorbed in the common
good, or in the case of charity, in God? This does not seem to be Thomas’s view.
While the third form of self-love, seems more perfect than the second insofar as the
person is dedicated to a larger good (the common good and not his own individual
good), it nevertheless does not remove the second kind of self-love. For Thomas, one
does not, in loving God and loving other creatures in God as ordered to God, cease
loving himself or creatures on other bases (i.e. the unity with oneself and the union
with others by means of similitude). The natural self-love one has for oneself
remains; it is part of one’s nature. What does happen, however, its that this love
tends to be less and less actual; that is to say, the person adverts less and less to his
good in these terms. The love remains as a habitual love, a fixed disposition to
rejoice in one’s good and the good of others on these other bases, if one were to
advert them. According to Thomas, as one grows in charity, one adverts less and less
to these things, being more and more consumed by the goodness of God66. Thus we
should not think that the love of charity wholly removes this “self-centered” selflove leaving only the “God-centered” self-love. The two loves co-exist. This would
seem to occur as well in any case of dedication to a common good. A person might
seem to have “total dedication”, to seek nothing for himself as an individual and to
expend all his efforts toward some common goal. Yet here we should say that this
person has not ceased to love himself as an individual, but rather simply does not
advert to his own individual good. If asked whether he thought his dedication to the
common good were a good thing for him, he would surely answer affirmatively. But
he might also note that he had more important things to worry about. Thus the seeming replacement of love of self focused on self as opposed to love of self focused on
the common good, should be seen as an exchange between the habitual and actual
states of the two loves.
65 This
“self-reflective” aspect of love finds expression at ST II-II, q. 25, a. 2, c.: «Amor autem ex
natura potentiae cuius est actus habet quod possit supra seipsum reflecti. Quia enim voluntatis
obiectum est bonum universale, quidquid sub ratione boni continetur potest cadere sub actu voluntatis; et quia ipsum velle est quoddam bonum, potest velle se velle: sicut etiam intellectus,
cuius obiectum est verum, intelligit se intelligere, quia hoc etiam est quoddam verum. Sed amor
etiam ex ratione propriae speciei habet quod supra se reflectatur: quia est spontaneus motus
amantis in amatum; inde ex hoc ipso quod amat aliquis, amat se amare». The key point here is
that in order to love a person(s), one must will to do so and if that willing were in no way good
for oneself, one would not so will. It is important to note that this requirement occurs only with
regard to chosen acts, acts of what Thomas calls liberum arbitrium (will taken as a principle of
choice). There are also acts of the will which arise spontaneously from the will apart from
choice; these are what Thomas calls simple willings or voluntates (see ST I-II, q. 8); they arise
from the will considered as natural (voluntas ut natura) which is contrasted with liberum arbitrium (also called voluntas ut ratio; for this distinction see ST III, q. 18, aa. 3-6). On the question
of how one can take one’s loving another as good for oneself without the love for the other
becoming a love of concupiscence, see In III Sent., d. 29, a. 4, c.
66 ST II-II, q. 19, a. 10, c. For the distinction between actual and habitual willing, see ST I-II, q. 1,
a. 6, ad 3 and DV q. 22, a. 5, ad 11.
43
studi
There are two large themes in Thomas’s ethical doctrine in which the second selflove looms large. One is his doctrine of hope. The love that animates hope, Thomas
holds, is primarily a love of self. In hoping in God, one loves oneself with a love of
friendship and God with a love of concupiscence, as being good for oneself. This is
contrasted with charity whereby one loves God for God’s sake67. This same self-love
is also present throughout the treatise on the last end (ST I-II, qq. 1-5). The presupposition of those questions is that the agent naturally seeks what is good for himself.
Consequently the primary love of friendship in play there is one’s self-love, the love
by which one wants, with a love of concupiscence, what is best for oneself (beatitude). This “best” then turns out to be God. Thus, when read on its own, that treatise
can easily give the appearance that for Thomas one loves God only as that which
makes one happy and not for God’s own sake. It is chiefly the treatise on charity that
shows that such a self-love, while legitimate, is not the highest of loves, because it is
not directed to that in which one finds his own good most perfectly68.
***
Abstract: La tesi di questo articolo è che, per Tommaso d’Aquino, l’amore di sé è la
base di ogni amore per gli altri. Si dimostra, innanzitutto, che l’inclinazione naturale alla beatitudine che l’Aquinate trova nella volontà è, di fatto, l’amore di sé, e
che di conseguenza l’amore di sé è naturale ed è pure la fonte di tutto ciò che la persona sceglie e fa. In secondo luogo, si manifesta come l’amore di sé dia origine
all’amore di amicizia per altre persone, cioè, un amore verso di loro per loro stessi.
In virtù di una somiglianza, nel caso di altre persone create, e in virtù di un rapporto
parte-tutto nel caso di Dio, una persona può prendere il bene altrui come bene proprio. Finalmente, si distinguono tre forme di amore di sé: “cattivo” amore di sé, con
cui uno cerca solo i propri beni non condivisibili, in modo egoista; “buono” amore
di sé, con cui uno cerca per se stessi l’ordinamento ai beni comuni che condivide
con altri; e in fine l’amore per il bene comune come bene proprio, senza riferimento
alcuno al bene individuale. Si ritiene che la seconda forma di amore di sé è necessaria per dare luogo alla terza.
67 ST II-II,
68 ST II-II,
44
q. 17, aa. 6-8.
q. 26, a. 3, ad 3.
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1 - PAGG. 45-68
Intelecto, pensamiento y conocimiento de sí.
La estructura de la autoconciencia en Plotino (V 3)*
ALEJANDRO G. VIGO**
Sommario: 1. Introducción. 2. La distinción entre estructuras de reflexividad mediata e inmediata como hilo conductor de la interpretación. Platón y la reflexividad autoconsciente. 3.
Plotino: planteo de la cuestión y punto de partida en el tratamiento de V 3. 4. Reflexividad en
el acto de las facultades cognitivas del alma. 5. El nou~" como reflexividad autoconsciente
pura. 6. El descenso desde el nou~" al alma y las formas derivativas de la reflexividad autoconsciente. 7. Conclusión y perspectivas ulteriores
■
1. Introducción
El historiador de la filosofía, en general, y el interesado por la filosofía clásica, en
particular, está necesariamente familiarizado con ciertos esquemas explicativos y
clasificatorios que, como las periodizaciones y las caracterizaciones generales de la
temática central en las diversas épocas de la historia de la filosofía, suelen apelar a
determinados rótulos y categorizaciones genéricas, que pretenden dar cuenta de las
tendencias y motivaciones fundamentales de los períodos y épocas estudiados así
como de los correspondientes autores y escuelas. Estos rótulos y categorizaciones
suelen presentarse en la forma de contraposiciones de tendencias o corrientes filosó*
Una primera versión de este trabajo fue leída en el “IV Encuentro Internacional de Estudios
Clásicos”, organizado por el Centro de Estudios Clásicos, Facultad de Historia, Geografía y
Letras, Universidad Metropolitana de Ciencias de la Educación, Santiago, Chile, el 30 de
setiembre de 1994. En la presente versión el texto ha sido considerablemente ampliado y modificado. Agradezco a mi colega y amigo prof. Dr. Marcelo D. Boeri por sus observaciones y sugerencias, que me permitieron evitar algunos errores y enriquecer el texto en varios puntos. Por
una serie de útiles observaciones, fruto de una paciente lectura, agradezco también al prof. Dr.
Pablo Cavallero.
** Instituto
de Filosofía, Universidad de Los Andes, San Carlos de Apoquindo 2200, Las Condes,
Santiago, Chile
45
studi
ficas diferentes y, supuestamente, casi siempre inconciliables entre sí, al menos en
sus respectivas variantes más puras o extremas. Así, por ejemplo, en el ámbito de la
ontología y la gnoseología se apela frecuentemente a oposiciones como ‘realismo’ e
‘idealismo’, en el ámbito de la ética y la teología moral a la oposición entre ‘intelectualismo’ y ‘voluntarismo’, en el ámbito de la filosofía de la naturaleza a la oposición entre ‘mecanicismo’ y ‘teleologismo’, por mencionar sólo unos pocos entre los
contrastes habitualmente empleados en la discusión y la investigación filosóficas.
Contrastes como los mencionados, que son, en principio, de índole sistemática,
suelen proveer, a su vez, el punto de partida para la interpretación del desarrollo histórico de la filosofía en sus diversas etapas. Así, por ejemplo, en el plano ontológico
y gnoseológico se suele asociar el concepto sistemático de realismo con el período
histórico representado por la filosofía clásica, mientras que el concepto de idealismo
se asocia, más bien, con la filosofía moderna. De modo semejante, dentro del ámbito
de la ética, el contraste sistemático entre ética de la virtud y ética del deber suele
ilustrarse históricamente oponiendo la ética clásica a la moral moderna de cuño kantiano. De este modo se llega muchas veces a ciertas formulaciones canónicas, repetidas luego una y otra vez, como aquellas que establecen, por ejemplo, que la filosofía
clásica representaría en general la actitud filosófica del realismo y desconocería
incluso toda traza de idealismo, el cual aparecería exclusivamente con la filosofía
moderna post-cartesiana, o bien que la ética antigua estaría centrada exclusivamente
en las nociones de felicidad y virtud al punto de desconocer sin más el concepto de
deber, etc. etc.
No pretendo afirmar que caracterizaciones y formulaciones canónicas como las
que he mencionado carezcan de toda utilidad desde el punto de vista didáctico, ni
tampoco negar que pueden contener, en determinado nivel de análisis, importantes
núcleos de verdad. Me interesa, sin embargo, llamar aquí la atención sobre el enorme
peligro de simplificación que implica el recurso acrítico y mecánico a este tipo de
esquemas explicativos y formulaciones canónicas. Frente a este peligro real de simplificación el mejor antídoto preventivo es, a mi juicio, un estudio detallado y
paciente de los textos, que, mitigando la tendencia natural a la generalización rápida
y sustentada en datos insuficientes, nos permita llegar poco a poco a una visión más
diferenciada de los problemas que en cada caso nos interesan como objeto de estudio.
Uno de estos típicos esquematismos que implican serio riesgo de simplificación
está dado por la tesis según la cual, frente a la filosofía moderna que se orienta básicamente hacia la conciencia, la filosofía clásica, en general, y la griega, en particular,
serían filosofías orientadas hacia los objetos reales o hacia el ‘ser’, como también
suele decirse, para las cuales fenómenos como la conciencia y la autoconciencia,
centrales en el pensamiento posterior, carecerían de toda relevancia o serían incluso
completamente desconocidos. Quien tenga alguna familiaridad con las fuentes del
pensamiento griego post-clásico y, en particular, con los textos fundamentales dentro
del pensamiento neoplatónico admitirá, sin duda, desde el comienzo que la oposición
‘filosofía (clásica) del ser’-‘filosofía (moderna) de la conciencia’, aunque contiene
indudablemente un importante núcleo de verdad, no pasa de ser un esquematismo
46
Alejandro Vigo
que no debería tomarse jamás al pie de la letra, si no se quiere incurrir en una enorme simplificación de los hechos.
El tratado de Plotino contenido en Enéadas V 3 es, en este sentido, posiblemente el
mejor ejemplo, cuando se trata de mostrar hasta qué punto el pensamiento clásico estuvo en condiciones de elaborar un refinado análisis de fenómenos vinculados con lo que
modernamente denominamos de modo genérico como la ‘conciencia’ y, en particular,
la ‘autoconciencia’ o ‘conciencia de sí’1. Pero ni siquiera es cierto que debamos esperar a Plotino para hallar en el marco del pensamiento clásico importantes aportes para
el análisis de este complejo y difícil campo de fenómenos. Pues, sin desarrollar todavía
una teoría expresa de la autoconciencia, ya Platón y Aristóteles ofrecen importantes
puntos de partida para la tematización de algunas de las estructuras más complejas
dentro de este ámbito, e incluso en pensadores de la tradición presocrática se encuentran, aunque en una medida mucho menor, interesantes indicaciones en la misma dirección. Como prueba de lo que acabo de afirmar baste con recordar que el propio Plotino
presenta su tratamiento de la autoconciencia en V 3 no como la apertura original de un
campo fenoménico nuevo y nunca antes explorado, sino más bien como la continuación de una problemática abordada ya expresamente, en cierto modo, por Platón y
Aristóteles, y profundizada por autores posteriores como Alejandro de Afrodisia y los
representantes del platonismo medio, problemática que, en su origen más remoto,
remite a través de Sócrates y Heráclito al saber moral prefilosófico, tal como éste aparecía expresado ya en el mandato délfico del gnw~qi saujtovn.
Con lo dicho resulta suficiente, creo, para hacer plausible la conveniencia, cuando se trata de abordar desde una perspectiva histórico-sistemática el ámbito de fenómenos vinculados con la noción de conciencia, de resistir la tentación de refugiarse
en esquematismos del tipo de la oposición ‘filosofía del ser’-‘filosofía de la conciencia’, para detenerse más bien en el estudio pormenorizado de los textos clásicos relevantes, e intentar así precisar qué aportan éstos realmente para la clarificación de los
fenómenos vinculados con el tema en cuestión. De ese modo se estará también en
mejores condiciones para intentar responder a la pregunta de en qué medida los planteos clásicos del problema no sólo anticipan aspectos explotados posteriormente en
las concepciones características de la modernidad, sino también abren eventualmente
vías de indagación diferentes de aquellas que fueron sistemáticamente exploradas en
la posterior tradición de la filosofía post-cartesiana.
1
La existencia de una importante conexión histórica y sistemática entre el tratamiento plotiniano
de la autoconciencia y, en general, el llamado ‘pensamiento de la unidad’ de la filosofía neoplatónica con algunos de los motivos centrales de la filosofía del Idealismo Alemán (Fichte,
Schelling, Hegel) es bien conocida. Un excelente tratamiento de conjunto de algunas de estas
conexiones se encuentra en W. BEIERWALTES, Denken des Eines. Studien zur neoplatonischen
Philosophie und ihrer Wirkungsgeschichte, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1985. Una matizada
discusión de la posición de Plotino a la luz de la oposición realismo-idealismo se encuentra
ahora en J. BUSSANICH, Realism and Idealism in Plotinus, «Hermathena», CLVII (1994), 21-42.
El trabajo de Bussanich deja en claro, entre otras cosas, cuán difícil resulta encasillar el pensamiento de Plotino en una alternativa simple entre realismo e idealismo, entendida al modo
moderno, y provee, además, una breve discusión de los aspectos centrales en los que se han
basado los intérpretes que adjudican a Plotino una posición de tipo idealista.
47
studi
2. La distinción entre estructuras de reflexividad mediata e inmediata
como hilo conductor de la interpretación. Platón y la reflexividad
autoconsciente
Un punto de partida metodológicamente fructífero para la interpretación de la
concepción de la autoconciencia desarrollada por Plotino en V 3 puede estar dado
por la oposición entre dos tipos de estructuras reflexivas que pueden llamarse, respectivamente, estructuras de reflexividad directa o inmediata y estructuras de reflexividad indirecta o mediata. La orientación metodológica a partir de esta distinción
puede resultar fructífera en el doble sentido de permitir aclarar algunos de los aspectos centrales en la concepción de Plotino y, a la vez, facilitar un deslinde más claro
del papel que desempeña su concepción de la autoconciencia, desde el punto de vista
del desarrollo histórico que desemboca en las concepciones características de la
modernidad.
Este punto de partida metodológico me ha sido sugerido por la lectura de un brillante libro sobre Platón debido a W. Wieland, en el cual se aborda de modo directo
el peculiar tratamiento platónico de determinadas estructuras de reflexividad2. En el
§ 18 del libro, titulado Reflexive Strukturen in Wissen und Handeln, el prof. Wieland
llama la atención sobre una peculiaridad del tratamiento platónico de los fenómenos
vinculados con la reflexividad autoconsciente, la cual distingue el abordaje de las
estructuras de autoconciencia por parte de Platón precisamente de aquellos más típicamente característicos de la filosofía de la reflexión del Idealismo Alemán. Wieland
hace notar que, a diferencia de la representación dominante en posteriores concepciones de la autoconciencia, Platón no tiene en vista primariamente estructuras de
reflexividad inmediata o pura, sino más bien estructuras de reflexividad mediata o
indirecta. En un análisis detallado Wieland muestra cómo Platón, lejos de ignorar
simplemente los fenómenos vinculados con la reflexividad autoconsciente, los tiene
constantemente en la mira, lo cual, sin embargo, suele pasar inadvertido al lector
moderno acostumbrado a la temática propia de la posterior filosofía de la reflexión,
por cuanto Platón no apunta nunca en su abordaje de tales estructuras de reflexividad
a algo así como una mera conciencia de sí que dirige sus intenciones cognitivas de
modo directo e inmediato sobre sí misma. Por el contrario –tal es la tesis de
Wieland– las estructuras reflexivas tematizadas por Platón se caracterizan precisamente por el hecho de que en ellas el sujeto autoconsciente vuelve a sí sólo de modo
indirecto, es decir, a través de la referencia intencional a algo diferente de sí mismo,
a saber: tematizando un determinado objeto o bien permaneciendo referido de diversos modos teóricos o prácticos a algo diferente de sí mismo, y volviendo a sí de
modo indirecto y generalmente no-temático, precisamente a través de su reflejarse en
aquello diferente de sí a lo que se refiere de modo directo e inmediato. Como símil
sensible de este tipo de estructura de auto-referencia mediada o indirecta remite
Wieland a un ejemplo empleado varias veces por el propio Platón: el ejemplo del
espejo (cf. Fedro 255d; Alc. I 132d ss.; véase también Teeteto 144d; Lisis 205e). El
2
Véase W. WIELAND, Platon und die Formen des Wissens, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen
1982.
48
Alejandro Vigo
caso del empleo de un espejo provee un símil bastante adecuado de, al menos, algunas de las estructuras reflexivas tematizadas por Platón, ya que al emplear un espejo
el sujeto vuelve a sí sólo de modo indirecto, a través de la mediación de algo diferente de él mismo, que oficia de ‘medio’ en el cual el sujeto puede ‘verse’ reflejado3.
Este tipo de estructuras reflexivas indirectas o mediadas resulta fundamental,
entre otras cosas, para dar cuenta del componente reflexivo presente en todas las formas del saber práctico y del saber de uso, por cuanto en estas formas de saber el
sujeto, al ocuparse de algo diferente de él mismo, está, a la vez, haciendo referencia
a sí mismo de modo indirecto. Esto puede advertirse con claridad si se repara en el
hecho de que en todo saber práctico, incluidas las formas más elementales del saber
de uso, el sujeto está siempre ya poniendo en juego, aunque por lo general de un
modo sólo implícito y no-temático, la referencia de la situación concreta de acción a
un cierto entramado de propósitos y anticipaciones que, en último término, se articulan en un cierto proyecto global de la propia vida, por poco expreso y diferenciado
que éste pueda ser en muchos casos. Dicho en términos más clásicos: todo saber
práctico y toda praxis pone en juego, de modo directo o indirecto, el ‘bien’ del sujeto
de praxis. No es casual entonces que en la interpretación de Wieland sean precisamente tales formas del saber práctico y del saber de uso las que adquieren una
importancia central dentro del pensamiento platónico, lo cual constituye, sin duda,
uno de los aspectos más originales y filosóficamente relevantes de esta, en cierto
modo, revolucionaria lectura de la filosofía de Platón.
En este contexto, Wieland llama también la atención sobre un hecho de gran significación para una evaluación adecuada de la posición de Platón respecto de la
estructura de la reflexividad, a saber: no se trata simplemente de que Platón apunte
básicamente a formas mediadas o indirectas de reflexividad e ignore, sin más, la
posibilidad de la existencia de estructuras de reflexividad directa o inmediata. Por el
contrario, en un pasaje del Cármides (cf. 163e ss.) Platón considera precisamente la
posibilidad de la existencia de algo así como un saber o conocimiento que se agota
en la referencia a sí mismo, sin mediación de objeto alguno distinto de dicho saber o
conocimiento mismo (cf. 164d: to; gignwvskein eJautovn). Lo interesante, sin embargo, reside aquí en el hecho de que Platón parece considerar tal posibilidad, como
señala Wieland, al solo efecto de descartarla como absurda, pues Sócrates no está
dispuesto en el diálogo a admitir como genuino conocimiento un conocimiento que
no se refiera a un objeto diferente del conocimiento mismo, y considera, por tanto,
que la representación de un conocimiento puramente auto-referencial no ayuda a
explicar adecuadamente cómo el sujeto de praxis estaría en condiciones de aspirar a
su propio bien y realizarlo4. Esto último es, sin embargo, central en el contexto del
3
Sin embargo, el símil del espejo hace resaltar, sobre todo, uno de los caracteres básicos de las
estructuras tematizadas por Platón, esto es, su carácter mediado e indirecto. En cambio, el carácter de no-tematicidad, que es propio de muchas de las estructuras reflexivas avistadas por Platón,
no queda cubierto de igual modo por dicho símil, pues este tipo de empleo del espejo, al menos
en el caso normal, tiene lugar allí donde el sujeto busca contemplarse a sí mismo de un modo
expreso y temático.
4 Véase WIELAND, o.c., p. 312.
49
studi
diálogo, cuyo tema principal, como se sabe, gira en torno del concepto de ‘moderación’ o ‘templanza’ (swfrosuvnh).
Más allá de su significativo aporte para comprender mejor la peculiar posición de
Platón al respecto, los resultados obtenidos por Wieland abren también, a mi juicio,
perspectivas de gran interés para una reinterpretación del tratamiento de las estructuras reflexivas y los fenómenos de la reflexividad autoconsciente en el pensamiento
posterior a Platón mismo, en particular, en Aristóteles y Plotino. Si se toma como
punto de partida la constatación de Wieland con relación a la casi completa ausencia
en Platón de estructuras de reflexividad directa o inmediata, entonces Aristóteles y
Plotino se presentarán muy naturalmente como dos momentos ulteriores dentro de
un proceso de desarrollo en el cual primero se esboza, por así decir, la posibilidad de
una conciencia de sí no mediada por la referencia a algo diferente (Aristóteles), y
posteriormente se tematiza de modo autónomo tales estructuras de reflexividad
directa y se las integra en el marco de una teoría de conjunto, que pone en conexión
sistemática tanto formas puras o directas como formas mediadas o indirectas de la
reflexividad autoconsciente (Plotino).
Respecto de Aristóteles es importante llamar la atención, aunque sólo sea de
modo sumario y esquemático, sobre dos aspectos relevantes para la cuestión que
nos ocupa. En primer lugar, se observa en Aristóteles claramente la pervivencia y
el predominio de la temática desarrollada por Platón: también en Aristóteles el
interés se concentra primariamente en formas mediadas o indirectas de la reflexividad autoconsciente. Esto se comprueba de modo especialmente claro si se recurre
a aquellos desarrollos dentro de su filosofía práctica, por ejemplo, en la Ética a
Nicómaco, que presentan aspectos de interés para esta cuestión. Importantes concepciones desarrolladas por Aristóteles en su ética, tales como la expuesta en el
tratamiento de la noción del ‘amor a sí mismo’ (to; fivlauton) en IX 8 o la de la
amistad y la del amigo como alter ego desarrolladas en VIII-IX (véase especialmente IX 4, 1166a31 s.), ponen expresamente en juego estructuras de reflexividad
mediata o indirecta como componentes estructurales de los fenómenos analizados,
y se dejan interpretar provechosamente en atención a los componentes reflexivos
así identificados. Pero si se está dispuesto a ir en la interpretación más allá de
aquello que aparece tematizado en el primer plano de la atención del propio
Aristóteles, para penetrar en la dimensión de aquellas estructuras explicativas que
el propio autor presupone y emplea sin tomarlas a su vez como objetos de reflexión expresa, entonces se podría incluso afirmar sin exageración que sería posible
interpretar desde esta misma perspectiva, con un provecho seguramente mucho
mayor de lo que a primera vista podría esperarse, muchos de los elementos fundamentales del modelo descriptivo y normativo que Aristóteles elabora para dar
cuenta de las estructuras básicas de la praxis racionalmente orientada y del mundo
accesible a ella. Pues, de hecho, uno de los presupuestos fundamentales que subyacen al tratamiento aristotélico de las diferentes formas del obrar productivo y de la
praxis racionalmente orientada consiste precisamente en la constatación de que, en
los diferentes modos del tener que ver con otras cosas y con otros sujetos a través
de las diferentes formas del producir y el obrar, el sujeto racional de praxis está
50
Alejandro Vigo
siempre, de uno u otro modo, referido también a sí mismo y a su propia vida como
un todo5.
Ahora bien, junto a esta pervivencia y prevalencia del interés en las estructuras de
reflexividad mediada, no debe pasarse por alto el hecho de que Aristóteles –y éste es
el segundo aspecto a señalar en relación con su tratamiento de la reflexividad– hace
lugar expresamente dentro de su concepción a formas puras o no-mediadas de la
reflexividad autoconsciente. El caso crucial viene dado aquí, obviamente, por la concepción aristotélica de la esencia y la vida divinas, cuya caracterización en términos
de intelecto puro referido sólo a sí mismo queda cristalizada en la famosa fórmula que
remite a una novhsi" nohvsew" (cf. Met. XII 9, 1074b34 s.). Esta caracterización del
intelecto divino constituye, por cierto, un momento especulativo dentro del pensamiento aristotélico, que no provee el punto de partida orientativo de la concepción del
conocimiento de Aristóteles, sino más bien algo así como un punto focal último de
referencia al que se concede, sobre todo, una función arquitectónica y que hace posible cierto tipo de unidad sistemática. En tal sentido, la representación de una intelección que se consuma en un acto puro de reflexión auto-referente, pese a su importancia sistemática, resulta más bien marginal dentro de la gnoseología y la psicología
aristotélicas, pues en ellas el centro del interés lo ocupa el análisis de la estructura de
actos cognitivos como la percepción, la imaginación, la memoria o el mismo pensamiento, los cuales se caracterizan en su modalidad habitual de concreción por estar
intencionalmente referidos a un contenido objetivo diferente, en principio, del acto
cognitivo mismo a través del cual dicho contenido se hace accesible. Es más bien en
la filosofía post-aristotélica y, particularmente, en el ámbito del pensamiento neoplatónico donde, a través de la influencia de la noética de Alejandro de Afrodisia y de
autores del platonismo medio como Alcínoo, la representación –aristotélica en su origen– de una intelección referida intencionalmente a sí misma en un acto de reflexión
pura y directa deja de ocupar un lugar marginal para pasar al centro de la atención,
hasta constituirse en la piedra angular de una concepción del intelecto y la conciencia,
al mismo tiempo, tradicional en su origen e innovadora en sus implicaciones6.
Pues bien, ¿qué perspectivas se abren para la interpretación del tratamiento plotiniano de la autoconciencia a partir de lo dicho hasta aquí? Si, por un lado, se tiene en
cuenta como clave hermenéutica la distinción de Wieland entre estructuras reflexivas
directas e indirectas, y si se atiende, por otro lado, a la recepción neoplatónica de la
concepción aristotélica de la novhsi" nohvsew", la cual constituye un primer esbozo
positivo de la posibilidad de la reflexividad pura e inmediata, entonces hay, al parecer, buenas posibilidades de que la posición de Plotino, tal como aparece elaborada
5
Para algunos aspectos vinculados con este punto véase A.G. V IGO , Zeit und Praxis bei
Aristoteles, Karl Alber, Freiburg-München 1996, esp. p. 249 ss., 276 ss.
6 La importancia crucial de la representación aristotélica de la novhsi" nohvsew" como punto de partida de las intuiciones centrales de la noética neoplatónica es unánimemente reconocida por los
intérpretes. Para un excelente tratamiento de la recepción de Platón y Aristóteles en la noética de
Plotino véase Th. SZLEZÁK, Platon und Aristoteles in der Nous-Lehre Plotins, Schwabe & Co,
Basel-Stuttgart 1979. Para la recepción de la novhsi" nohvsew" por parte de Plotino véase especialmente p. 126 ss., 144 ss. Para Alcínoo, el presunto autor del Didaskalikós, véase abajo nota 11.
51
studi
en V 3, se deje interpretar como un intento de integrar sistemáticamente en una concepción unitaria los dos momentos presentes de diferentes modos en las concepciones de Platón y Aristóteles, esto es, el de la reflexividad directa o inmediata y el de la
indirecta o mediata. Ante todo, será importante precisar si –y en qué medida– Plotino
considera a alguna de estas posibles formas de reflexividad como básica o fundante,
cuando se trata de proveer una caracterización específica de la estructura de la autoconciencia. En lo que sigue ofreceré una interpretación de los pasajes relevantes en
el texto de V 3 desde la perspectiva abierta por las consideraciones anteriores.
Intentaré caracterizar la concepción de Plotino como una teoría compleja de la autoconciencia que comprende diferentes niveles de la reflexividad, muchos de los cuales presentan una estructura en principio indirecta, y en cuya cúspide aparece el nivel
representado por el intelecto puro que, como forma directa e inmediata de la reflexividad autoconsciente, ‘ilumina’ –para usar un lenguaje caro al pensamiento neoplatónico– desde arriba los niveles inferiores. En este sentido, y desde el punto de vista
histórico-sistemático, Plotino parece representar un punto de inflexión y de transición entre las concepciones clásicas de la reflexividad autoconsciente, orientadas
fundamentalmente a partir de estructuras de reflexividad mediata, y las concepciones
modernas de la autoconciencia pura, tal como éstas aparecen, sobre todo, en algunos
de los representantes de la tradición del Idealismo Alemán.
3. Plotino: planteo de la cuestión y punto de partida en el tratamiento
de V 3
El tratado V 3 es el número 49 en el orden cronológico establecido por Porfirio
para el total de los 54 tratados conservados. Pertenece, pues, a la última fase de la
producción filosófica de Plotino, y refleja así su posición final respecto de un problema que, como el del intelecto, es central dentro del andamiaje de su filosofía.
Porfirio lo colocó como parte de la Enéada V junto con los demás tratados referidos
al nou~", es decir, en una posición intermedia respecto de los escritos que tratan del
alma, agrupados en Enéada IV, y de aquellos que tratan de lo Uno y el Bien, agrupados en Enéada VI, lo cual responde a un intento de reflejar a través de la secuencia
de lectura de los escritos –al menos en el nivel del andamiaje formal del tratamiento– la secuencia sistemática que Plotino establece dentro de su concepción entre los
principios del alma, el intelecto y lo Uno7.
7
Como base para la interpretación del texto de V 3 emplearé, fundamentalmente, la excelente edición con traducción alemana y comentario de W. Beierwaltes, que reproduce el texto de HenrySchwyzer. Véase W. BEIERWALTES, Selbsterkenntnis und Erfahrung der Einheit. Plotins Enneade
V 3, Klostermann, Frankfurt a. M. 1991. Una buena traducción inglesa comentada, con amplio
estudio introductorio, se encuentra en M. O OSTHOUT , Modes of Knowledge and the
Transcendental. An Introduction to Plotinus ‘Ennead’ 5.3 [49] with a Commentary and
Translation, B.R. Grüner, Amsterdam-Philadelphia 1992. Amplios comentarios de algunos pasajes de V 3 y de otros textos vinculados con el problema del conocimiento de sí contiene también
el importante estudio de J. BUSSANICH, The One and its Relation to Intellect in Plotinus, J. Brill,
Leiden 1988.
52
Alejandro Vigo
La estructura del tratado es bastante clara. Se divide en dos partes bien diferenciadas. La primera (caps. 1-9) está dedicada al tratamiento de la noción de autoconocimiento, y pretende establecer si y cómo es posible algo así como el ‘conocerse a sí
mismo’. La segunda parte (caps. 10-17) trata principalmente de la relación del intelecto con lo Uno en tanto principio supra-inteligible. Me concentraré en lo que sigue
exclusivamente en la primera de esas dos partes, que es la más importante para el
problema específico de la estructura de la autoconciencia.
En el cap. 1 Plotino plantea la cuestión de la posibilidad del autoconocimiento. El
modo de plantear la cuestión es ya, como tal, muy significativo, pues determina en
buena medida la marcha posterior de la reflexión en torno a la estructura de la autoconciencia. Plotino parte de la siguiente alternativa: si lo que se capta intelectivamente a sí mismo (to; noou~n eJautov) debe ser compuesto (poikivlon), de modo tal
que en el acto de autoconocimiento una de sus partes conozca a la otra, o bien si
debe admitirse que, de alguna manera, también lo que es simple (to; aJplou~n) es
capaz de ‘volverse sobre sí mismo’ (eij" eJauto; ejpistrevfein) y de captarse así intelectivamente a sí mismo (cf. V 3, 1, 1-5). Plotino decide de inmediato la alternativa a
través de una aclaración de índole conceptual, según la cual hablar de ‘autoconocimiento’ en relación con aquello a lo que se aplicara el modelo basado en la distinción de ‘partes’, una cognoscente y una conocida, implicaría no tomar la noción de
‘autoconocimiento’ en su sentido más genuino y estricto (ajlhqw~"), pues si lo compuesto ‘se conoce a sí mismo’ en el sentido de que la ‘parte’ A del todo compuesto
conoce a la ‘parte’ B, entonces allí no habrá genuino autoconocimiento, a menos que
en el acto de conocer a B la parte A se conozca a la vez a sí misma en cuanto A. Esta
posibilidad queda, sin embargo, excluida por hipótesis, pues se había partido de la
necesidad de explicar el autoconocimiento como un conocimiento de B por A, donde
A y B son diferentes partes de un mismo todo compuesto, y no como un conocimiento de A por A (cf. V 3, 1, 5-12). Sobre esta base, Plotino cree poder concluir que hay
que admitir necesariamente que también lo simple y carente de partes tiene que
poder conocerse a sí mismo e intentar explicar cómo ello es posible. De lo contrario,
habrá que renunciar a la creencia de que hay algo así como autoconocimiento en el
sentido estricto del término, pues el modelo basado en la distinción de una parte cognoscente y otra conocida no parece permitir captar el acto del ‘conocerse a sí mismo’
en su peculiaridad como tal (cf. V 3, 1, 12-15).
Renunciar a la posibilidad del autoconocimiento en sentido estricto es algo que
para Plotino no entra seriamente en cuestión. Plotino parte del supuesto de que, aun
cuando se estuviera dispuesto a negarle al alma (yuchv) la capacidad de genuino
autoconocimiento, no sería posible negársela al intelecto mismo (nou~"), pues a éste
se le atribuye la capacidad de conocer todas las cosas. Dicho de otro modo: no se ve
cómo el intelecto podría ser capaz de conocer todo lo demás y, en cambio, incapaz
de conocerse a sí mismo (cf. V 3, 1, 15-20). Esto permite comprender por qué, desde
un comienzo, el tratamiento plotiniano del autoconocimiento toma la forma fundamentalmente de una indagación acerca de la posibilidad de que el intelecto se conozca a sí mismo, y acerca de la peculiar estructura de tal autoconocimiento. El párrafo
final del cap. 1 es muy ilustrativo de la tendencia general de la teoría de Plotino y del
53
studi
verdadero alcance de su intento por fijar conceptualmente la estructura de tal acto de
autoconocimiento, en el sentido estricto del término. Aquí explicita Plotino cuáles
son las posibilidades puestas en juego. Reconstruyendo conceptualmente el contenido de este apretado pasaje se obtiene la siguiente tabla de alternativas referidas al
autoconocimiento del intelecto: el intelecto conoce o bien 1) objetos exteriores o
bien 2) objetos inteligibles que contiene en sí mismo; 1) si conoce objetos exteriores,
entonces a) conocerá sólo estos objetos o bien b) se conocerá a la vez también a sí
mismo (al conocer tales objetos); a su vez, 2) si conoce objetos inteligibles que contiene en sí mismo, entonces o bien a) conocerá sólo esos objetos o bien b) se conocerá a la vez a sí mismo (al conocer los objetos contenidos en él) (cf. V 3, 1, 20-28).
Ya la simple enumeración de las posibilidades y, sobre todo, el orden de la enumeración deja entrever que Plotino apunta fundamentalmente, desde el comienzo, a
la posibilidad señalada en 2b, es decir, a una autoconciencia en la cual el intelecto, al
conocer los objetos inteligibles contenidos en él mismo, se conoce también a sí
mismo. Esta forma de autoconciencia es la que Plotino considerará paradigmática, y
a ella apuntará el tratamiento de todos los otros modos de referencia autoconsciente
tematizados en V 3, tal como éstos se presentan en diferentes niveles de conciencia
situados por debajo del nivel correspondiente al intelecto intuitivo. Sobre esta base,
la posterior elucidación de cada uno de esos niveles de reflexividad autoconsciente
toma la forma, como es frecuente en Plotino, de una exposición circular en la que
primero se asciende gradualmente a través de los diferentes niveles de la conciencia
hasta llegar al nivel de la reflexión autoconsciente propia del nou~", para luego, aclarada ya la estructura de la autoconciencia tal como tiene lugar en éste, descender
nuevamente desde allí a los niveles inferiores y mostrar así en éstos la presencia del
‘reflejo’ –o, en términos también de Plotino, la ‘huella’– de la reflexividad autoconsciente, cuya estructura nuclear fue despejada progresivamente en el camino de
ascenso hasta el nivel de conciencia propio del nou~". De este modo, Plotino dedica al
‘ascenso’ hasta el nivel del nou~" los caps. 2-4 de V 3, en los que trata las diferentes
potencias cognitivas del alma tales como percepción (ai[sqhsi") y pensamiento discursivo (logivzesqai), hasta llegar al intelecto intuitivo como tal. Luego, en el cap. 5,
analiza la estructura de la reflexividad autoconsciente tal como ésta se da en el nivel
del nou~" mismo, para, finalmente, volver a tratar las facultades cognitivas del alma,
pero ahora considerándolas en tanto derivadas e iluminadas a partir de su origen en
el nou~" autoconsciente. La estructura de la argumentación desarrollada, con sus tres
etapas y su estructura de ida y vuelta, refleja en sí misma la estructura de la propia
reflexividad autoconsciente que Plotino toma como objeto de su análisis. En la marcha de dicho análisis el camino de ascenso se presenta como un proceso de progresiva eliminación de las diferencias, que reconduce la oposición polar entre el sujeto y
el objeto del conocimiento a su unidad originaria, para luego, desde allí, reconstruir
las mismas diferencias a partir de su unidad originaria en el nou~" autoconsciente.
Un detalle interesante a la luz de la distinción entre estructuras de reflexividad
directas y mediadas antes introducida reside en el hecho de que en el cap. 1 Plotino
apuntaría aparentemente sólo a estructuras de reflexividad mediada, pues en todos
los casos hace referencia aquí no a un mero conocimiento de sí, sino a un conoci-
54
Alejandro Vigo
miento de sí a través del conocimiento de determinados objetos. Esto, sin embargo,
no es más que una primera apariencia. El hecho de que Plotino enfatice como lo
hace la diferencia entre el conocimiento de objetos exteriores y el de objetos interiores revela ya su intención de debilitar la oposición sujeto-objeto en el caso del conocimiento de sí, presentando al objeto como inmanente a la conciencia misma. A esto
se añade, como veremos, que en el cap. 5 Plotino nivela expresamente la oposición
sujeto-objeto en el nivel correspondiente al nou~" a través de una consecuente y, en
cierto modo, innovadora reinterpretación de la tesis aristotélica de la identidad entre
el pensamiento y su objeto. El nou~" aparece así como el punto de fuga de la dualidad
sujeto-objeto, por cuanto en él tiene lugar la identidad entre el acto y el objeto del
pensamiento.
4. Reflexividad en el acto de las facultades cognitivas del alma
En los caps. 2-4 del tratado V 3 Plotino analiza las diferentes ‘facultades’ del
alma con vistas a establecer la presencia en cada una de ellas de determinadas formas de la reflexividad autoconsciente.
a) En primer lugar Plotino considera los actos correspondientes a la facultad perceptiva (to; aijsqhtikovn). Se trata aquí de actos que, por su propia estructura, están
siempre referidos a algo exterior al acto mismo (tou~ e[xw movnon) y que, por lo
mismo, no son directamente reflexivos. Sin embargo, Plotino no excluye de ellos
toda reflexividad. Por el contrario, a través de la introducción de la noción de ‘copercepción’ o ‘percepción concomitante’ (sunaivsqhsi") remite expresamente a la
presencia de un primer nivel de reflexividad involucrado ya en el acto perceptivo
como tal. En el acto de percepción no sólo percibimos un objeto exterior, sino que al
mismo tiempo el alma, por así decir, toma noticia de las afecciones que con ocasión
del acto perceptivo acontecen en el cuerpo. Dicho de otro modo, toda representación
sensible comporta una doble dirección: hacia el objeto, en cuanto es percepción y
representación de algo, y hacia el sujeto del acto, en cuanto es su percepción o
representación sensible de un objeto, tal como éste aparece a un órgano de los sentidos. De ese modo, al experimentar sensiblemente un objeto el sujeto se experimenta
a la vez a sí mismo (cf. V 3, 2, 1-6). Con todo, ni siquiera en la dirección subjetiva la
percepción sensible presenta una reflexividad pura o directa, pues el sujeto se relaciona aquí consigo mismo sólo a través de la mediación de una ‘imagen’ o impresión
sensible corpórea, la cual, por lo demás, se produce en conexión con y por referencia
a un objeto sensible exterior.
b) Algo en parte semejante y en parte diferente ocurre en el caso de la facultad
del pensamiento discursivo (to; logizovmenon), que es la que produce el acto cognitivo del juicio (ejpivkrisi") sobre la base de las representaciones perceptivas, al unirlas
(afirmación) o dividirlas (negación) (cf. V 3, 2, 7-9). También el acto judicativo propio de la facultad discursiva está fundamentalmente orientado ‘hacia fuera’, aunque
no excluye la presencia (latente) de momentos de reflexividad autoconsciente.
Plotino muestra esto a partir de un notable análisis del acto del juicio, al que consi-
55
studi
dera tanto en su génesis gnoseológica (psicológica) como en su estructura lógica.
Plotino se orienta aquí básicamente a partir del caso del juicio referido a objetos o
contenidos perceptivos. Si se atiende a los ejemplos dados más adelante (cf. V 3, 3,
1-9), habrá que precisar esto y decir que Plotino tiene en la mira, en principio, dos
tipos diferentes de juicios de contenido perceptivo, que espera poder contrastar, a
saber: i) juicios del tipo ‘X es Sócrates’, donde ‘X’ designa un objeto individual
dado en la percepción, y ii) juicios del tipo ‘Sócrates es bueno’. La diferencia esencial entre ambos tipos de juicio reside en el hecho de que en el tipo i) tanto el sujeto
como el predicado del juicio corresponden a representaciones de origen perceptivo:
ante la presencia en la percepción de un objeto que corresponde a un individuo
humano de tales o cuales características el pensamiento discursivo, apelando a los
contenidos de la memoria, identifica al individuo como Sócrates y predica de él su
nombre propio. En cambio, en el caso representado por el tipo ii) del individuo
Sócrates –presente como objeto de percepción (si no en el momento preciso del acto
del juicio, al menos en algún otro momento anterior) e individualizado por medio del
empleo del correspondiente nombre propio– se predica un concepto como ‘bueno’,
que no designa un objeto particular sensible, sino lo que en términos de la tradición
platónica se denomina una Idea, la cual aparece, por cierto, ejemplificada de alguna
manera por el objeto particular del caso, pero que como contenido cognitivo el alma
no extrae originariamente de la experiencia sensible misma, sino que más bien la
trae ya a priori en sí misma. Plotino explica esto en el cap. 3 de V 3 diciendo que el
predicado ‘bueno’ en el juicio ‘Sócrates es bueno’ no lo obtiene el alma de la experiencia sensible (dia; th`" aijsqhvsew") sino ‘a partir de sí misma’ (par’ aujth`"), en
cuanto posee en sí (par’ aujth`/) una ‘pauta del bien’ (kavnona tou` ajgaqou`), que
cumple la función de un standard normativo a partir del cual se regula la aplicación
del correspondiente predicado (cf. V 3, 3, 8-9).
Orientándose fundamentalmente a partir de ejemplos del tipo ii) Plotino está en
condiciones de explicar el acto judicativo de la facultad discursiva del alma como lo
que podríamos denominar un acto de mediación reflexiva entre los extremos de la
percepción sensible (‘abajo’, en términos de Plotino) y del intelecto intuitivo (‘arriba’), y ello tanto desde el punto de vista de la génesis gnoseológica del juicio como
desde el punto de vista de su estructura lógica. Desde el punto de vista de su génesis
psicológica, el juicio constituye una mediación entre el ámbito de la intuición sensible y el de la intuición intelectual, en cuanto es precisamente la percepción la que
desencadena en el alma la ‘reminiscencia’ (ajnavmnhsi") que lleva a actualizar de una
determinada manera el conocimiento latente de las Ideas que el alma trae ya en sí a
priori (cf. V 3, 2, 11-14)8. Inversamente, visto desde el punto de vista de la estructu8
La actualización del conocimiento de las Ideas que tiene aquí en vista Plotino no corresponde,
seguramente, a un acto de consideración temática de la Idea en su contenido, sino que parece
aludir más bien simplemente al hecho de que el ‘reflejo’ de la Idea en la cosa percibida ‘gatilla’
en el alma el proceso que lleva a identificar el predicado correspondiente a la Idea como aquel
que conviene aplicar a la cosa en cuestión a través del juicio. Se trata de uno de los tipos de
anámnesis avistados ya claramente por Platón (cf. p. ej. Fedón 72e-78b). La consideración temática de la Idea qua Idea no corresponde al nivel del acto judicativo aquí considerado, sino a la
visión intelectual del nou`" como tal.
56
Alejandro Vigo
ra lógica del juicio como tal, el acto de juzgar toma la forma de una determinación
del sujeto del juicio –cuyo lugar es ocupado por el concepto referido al objeto particular que provee el contenido de la percepción– por medio del predicado del juicio,
que contiene el concepto universal –en correspondencia con una Idea– que el alma
toma de sí misma. Desde el punto de vista lógico, al decir ‘Sócrates es bueno’ estamos determinando al individuo Sócrates por referencia al concepto universal ‘bueno’
o, para decirlo en términos de la lógica moderna, estamos ‘subsumiendo’ al individuo Sócrates bajo el concepto ‘bueno’. Si se conjugan en una consideración unitaria
ambas perspectivas de análisis, la correspondiente a la génesis gnoseológica del juicio y la correspondiente a su estructura lógica, puede comprenderse por qué para
Plotino el acto del juicio propio de la facultad discursiva constituye, como he sugerido antes, una suerte de ‘mediación reflexiva’ entre el nivel inferior de la intuición
sensible y el nivel superior de la intuición intelectual: en el acto de juzgar vamos en
un único ida y vuelta, por así decir, de la intuición sensible a la intuición intelectual
y, viceversa, de la intuición intelectual a la intuición sensible9. De este modo, el acto
9
Para esta descripción de la estructura del acto del juicio, el ejemplo escogido por Plotino es el más
adecuado y simple, porque justamente presenta ambos niveles involucrados en tal mediación claramente representados en el concepto sujeto (percepción) y el concepto predicado (intelecto), respectivamente, sobre todo porque el sujeto en cuestión es un nombre propio que designa directamente un particular y sin mediación aparente de conceptos. En cambio, casos como a) ‘la mesa es
redonda’ o b) ‘la amistad es noble’ no se dejan tratar de modo tan intuitivo como una mediación
reflexiva del mismo tipo, ya que en a) se identifica un sujeto particular dado en la percepción a
través de un concepto universal, y en b) el sujeto, otra vez identificado mediante un concepto universal, no se deja tratar como un particular perceptivo. En perspectiva plotiniana –y, en general,
platónica– habría que tratar estos casos, probablemente, de un modo diferente, a saber: por una
parte, b) no sería un ejemplo de juicio perceptivo sino un ejemplo de juicio en el nivel de la relación entre conceptos universales (participación de Ideas); por otra parte, casos de juicios perceptivos del tipo a) tendrían que ser tratados, aparentemente, de modo reductivo, más concretamente,
como casos de doble predicación –de un modo análogo a la posición desarrollada contemporáneamente por Russell con su famosa teoría de las descripciones–, casos de doble predicación en los
cuales, al menos de modo implícito, se predican de un individuo o particular dos nociones universales (vgr. ‘X es mesa y es redonda’). Así tratados, estos casos podrían considerarse como ejemplos típicos de una mediación reflexiva compleja, pero no fundamentalmente diferente de la ilustrada por el caso ‘Sócrates es bueno’. Un problema ulterior que esto presenta reside, sin embargo,
en el hecho de que por medio de este tipo de tratamiento reductivo quedan agrupados del lado del
predicado conceptos universales de muy diverso tipo, que no siempre se corresponden uno-a-uno
con una Idea. Aquí, nuevamente, debería emplearse una estrategia reductiva que analice conceptos universales de ‘cosas’ (para las cuales no hay Ideas) como etiquetas externas para ‘manojos’
de universales. Por último, tampoco juicios del tipo ‘X es Sócrates’ parecen poder tratarse de
modo trivial en términos de este modelo de mediación reflexiva, pues el concepto aquí predicado
es un nombre propio y no se corresponde con un contenido eidético universal, al menos, no de
modo directo. No es fácil determinar hasta dónde Plotino vio en todo su detalle estas complicaciones, algunas de las cuales ya habían sido barruntadas por Platón. Pero es claro que su filosofía
involucra, desde el punto de vista lógico, un fuerte componente crítico respecto del esquema aristotélico basado en la oposición sustancia-atributo. Para algunas lúcidas observaciones sobre este
punto véase A.C. LLOYD, The Anatomy of Neoplatonism, Clarendon Press, Oxford 1990, p. 85 ss.
Ya en la semántica de Porfirio hay desarrollos expresos en dirección de un modelo de tratamiento
reductivo de los términos individuales y los nombres propios, en conexión con la concepción de
las cosas individuales en términos de ‘manojos’ de universales. Véase A.C. LLOYD, o.c., p. 43 ss.
57
studi
discursivo del juicio representado por la estructura ‘sujeto-predicado’ aparece aquí
como un acto de mediación reflexiva entre dos formas polarmente opuestas de conocimiento intuitivo (es decir, no-discursivo): la intuición sensible (‘abajo’) y la intuición intelectual (‘arriba’). Sobre esta base se comprende por qué Plotino tiende a ver
la facultad discursiva, que es la más propia del alma como tal, como situada de alguna manera en un campo de fuerzas, creado por la tensión entre los polos opuestos de
la ai[sqhsi" y el nou~"10.
Ahora bien, ¿en qué medida tiene lugar en el acto discursivo del juicio la reflexividad autoconsciente? ¿Y dentro de qué límites? Puesto que en el acto del juicio el
alma se ve referida a contenidos que ella misma extrae de sí misma (vgr. el predicado del juicio en cuanto está en correspondencia con un objeto de la captación del
nou~"), es claro que hay aquí un componente esencial de reflexividad autoconsciente.
En todo acto de juicio, dicho de otro modo, en todo acto de determinación de un
sujeto por medio de un predicado el alma, además de conocer el objeto así determinado, se está en cierto modo conociendo también a sí misma, por cuanto está volviendo a sí y haciendo explícitos los contenidos de origen intelectivo, presentes a
priori en ella ya antes de toda percepción sensible, aunque de un modo sólo latente
hasta ser actualizados con ocasión de la experiencia misma. Con todo, se trata aquí
para Plotino de una modalidad de la reflexividad autoconsciente que resulta todavía
esencialmente limitada, ya que en el acto del juicio el alma permanece referida en la
intentio recta todavía ‘hacia fuera’, y no hacia sí misma. Dicho de otro modo, en el
acto del juicio permanecemos inmediatamente referidos al objeto conocido a través
de dicho acto, y no a nosotros mismos en cuanto sujetos de la producción del acto
cognitivo mismo. En el acto del juicio el alma se refiere a sí misma tan sólo en un
modo peculiar de la intentio obliqua. Una vez más, venimos aquí hacia nosotros mismos de un modo sólo indirecto y mediado, aunque se trata ahora de un nivel de reflexividad superior que involucra ya al nou~" y trasciende, por tanto, aquel propio de la
simple ai[sqhsi".
c) Sobre la base de este notable análisis del acto del juicio y de la función de la
facultad discursiva Plotino está en condiciones de abordar el problema de la relación
entre la facultad intelectual discursiva y la intuitiva, particularmente, en atención a la
presencia de una genuina reflexividad autoconsciente posibilitada por el nou~". Esto
le permite, a su vez, efectuar la transición al posterior tratamiento del nou~" como tal.
Lamentablemente, no puedo detenerme aquí en el detalle de estos complejos y muy
sutiles desarrollos, que, si se toma en cuenta todos los pasajes relevantes, abarcan la
mayor parte de los caps. 2-4. Me limito a unas pocas observaciones vinculadas con
la cuestión central que nos ocupa. Vimos que en el acto del juicio propio de la facultad discursiva del alma va involucrado un componente noético-intuitivo, es decir, va
implicada una cierta intervención del nou~", en cuanto éste facilita el acceso originario a los conceptos predicativos empleados en el juicio para determinar el objeto de
éste. Pero, a pesar de llamar la atención sobre la presencia de esta intervención noéti10 Véase
también la explicación de W. BEIERWALTES, Selbsterkenntnis und Erfahrung der Einheit,
p. 102 s.
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Alejandro Vigo
ca, Plotino enfatiza el hecho de que en la actividad discursiva del juicio el alma permanece como tal referida primariamente al objeto del juicio, y no vuelve sobre sí
misma en el modo de la intentio recta (cf. V 3, 2, 14-16). En tal sentido, mientras
permanecemos en el nivel de análisis correspondiente al acto discursivo del juicio,
no estamos todavía en presencia de un ‘intelecto puro’ (nou~" kaqarov"), que se refiera de modo directo a sí mismo. Lo que tenemos aquí es más bien un momento de
intervención intelectual intuitiva dentro del marco más amplio de un acto discursivo
del alma, el cual se refiere de modo directo a un objeto ‘exterior’, diferente del alma
misma y de su propio acto cognitivo (cf. V 3, 3, 19-29). Para decirlo en términos de
Plotino, el alma o, más precisamente, su facultad discursiva ‘se vale’ (proscrh`sqai)
aquí de un componente intelectual intuitivo que no le pertenece enteramente, en
cuanto por su origen la trasciende.
Ahora bien, en atención a esto puede decirse también que en el acto mismo del
juicio, en cuanto éste posee la peculiar estructura de mediación reflexiva antes analizada e involucra así cierta intervención del intelecto intuitivo, el pensamiento discursivo (diavnoia) se trasciende de algún modo a sí mismo. Una consecuencia, en principio, paradójica, pero necesaria a partir de las premisas básicas de Plotino, es que precisamente en el acto del pensamiento discursivo nosotros mismos, que como hombres somos fundamentalmente sujetos de pensamiento discursivo, nos trascendemos
en alguna medida a nosotros mismos y hacemos, por así decir, contacto con el intelecto universal, que es el que nos facilita el acceso inmediato (no-discursivo) al
ámbito superior de realidad representado por lo Ideal. Para Plotino, que en este punto
continúa y profundiza rasgos presentes ya de algún modo en la concepción aristotélica del intelecto agente, las actualizaciones del intelecto (tav tou` nou` ejnerghvmata)
se dan ciertamente en nosotros, pero no proceden sin más de nosotros, sino de más
allá de nosotros, de ‘arriba’ (a[nwqen), según lo formula Plotino (cf. V 3, 3, 29-45).
Reaparece aquí en la concepción de Plotino, e incluso de un modo potenciado en
sus consecuencias, la característica ambivalencia de la noética de Platón y
Aristóteles, según la cual el nou~" como lo divino en nosotros es, al mismo tiempo, lo
que nos distingue y caracteriza como hombres –pues sin esto no habría tampoco pensamiento discursivo– y lo que nos trasciende y va más allá de nosotros mismos.
Lejos de querer evitar esta tensión, Plotino se hace aquí cargo de ella, pues le resulta
esencial para poder dar el siguiente paso en el camino de ascenso hacia una autoconciencia pura referida de modo directo a sí misma. Plotino aclara, en efecto, que
‘nosotros’ nos identificamos como tales –es decir, como los individuos humanos que
somos– principalmente con la facultad discursiva del alma, y no con el nou~" mismo
(cf. V 3, 3, 37-40). Sin embargo, no es menos cierto que la propia actividad discursiva (juicio) presupone, como se vio, cierta intervención del nou~". Desde el punto de
vista de la pregunta por la posibilidad del conocimiento de sí, la implicación inmediata es: en el nivel de la diavnoia sólo podemos referirnos a nosotros mismos de
modo mediato e indirecto, y ello a través también de una cierta intervención del
nou~", pero todavía como los sujetos individuales que en cada caso somos; en el nivel
del nou~" mismo, en cambio, logramos por primera vez referirnos a nosotros mismos
de un modo no-mediato sino directo, pero entonces ya no nos capturamos a nosotros
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studi
mismos como los individuos concretos que en cada caso somos, sino que nos referimos a nosotros mismos en cuanto hay en cada uno de nosotros un componente intelectivo que trasciende nuestra propia individualidad. La transición hacia la intentio
recta en la reflexividad autoconsciente sólo puede realizarse aquí al precio de dejar
atrás definitivamente la individualidad del sujeto de tal acto de autoconocimiento. Al
volver a sí de modo directo en la captación intuitiva del nou~" el sujeto accede a sí
mismo simplemente como puro nou~", y no como el sujeto individual que es. Plotino
aclara expresamente en el cap. 4 que el que se conoce a sí mismo según el intelecto
(kata; to;n nou`n) lo hace deviniendo él mismo intelecto (nou~"), y se conoce a sí
mismo no en cuanto hombre, sino en cuanto ha devenido completamente otro (pantelw~" a[llon genovmenon), arrebatándose a sí mismo hacia lo alto (cf. V 3, 4, 4-15).
Para quien se oriente a partir de las representaciones actuales más corrientes acerca de lo que debería ser una teoría de la autoconciencia la obtención de la intentio
recta en el conocimiento de sí sobre la base de la supresión de la posibilidad de acceso a la individualidad del sujeto del acto de autoconocimiento podría representar un
precio lo suficientemente alto como para acarrear la bancarrota de la teoría como un
todo. No es éste el caso, en cambio, para Plotino. En rigor, desde su propia perspectiva, ni siquiera se trata aquí realmente de un ‘precio’ que la teoría tuviera que pagar a
fin de obtener un objetivo más alto. La supresión de la individualidad del sujeto del
acto de autoconocimiento aparece aquí más bien como un paso positivo esencial
para el logro de los objetivos de la teoría. Pues Plotino apunta en su concepción de la
autoconciencia, desde el comienzo, a una reflexividad autoconsciente que, para ser
genuinamente tal, debe situarse incluso más allá de la oposición entre el sujeto y el
objeto del conocimiento. Y, de hecho, la supresión o, más bien, la superación de la
individualidad del sujeto cognoscente no constituye sino un primer paso decisivo en
dirección de la superación de la dualidad sujeto-objeto, operada finalmente en el tratamiento del nou~" en el cap. 5. Como se aclara en el final del cap. 4, sólo del hombre
que ha dejado de lado todo lo que le pertenece a él mismo en cuanto individuo y que
contempla (blevpei) el nou~" por medio del nou~" mismo, y sólo por medio de él
mismo, podrá decirse que se contempla y conoce a la vez a sí mismo, en el sentido
estricto de la expresión ‘conocerse a sí mismo’, es decir, en la intentio recta; pero tal
hombre se conocerá a sí mismo no en cuanto individuo, sino en cuanto nou~" (cf. V 3,
4, 29-31).
5. El nou"~ como reflexividad autoconsciente pura
Como vimos, Plotino prepara la transición al tratamiento del nou~" en el cap. 5 por
medio del análisis del acto de la facultad discursiva, llamando la atención sobre la
intervención en dicho acto de un componente intelectual intuitivo que trasciende el
pensamiento discursivo como tal. Es importante retener el resultado del cap. 4, el
cual implica que en el nivel del nou~" mismo el sujeto del acto de conocimiento vuelve a sí y se conoce a sí mismo no ya como individuo humano, sino más bien sólo en
cuanto intelecto. Esta eliminación o superación de la individualidad del sujeto cog-
60
Alejandro Vigo
noscente es un paso esencial, necesario para lograr el objetivo último de la teoría
plotiniana de la autoconciencia, el cual consiste en establecer la existencia a nivel del
nou~" de una reflexividad autoconsciente pura, situada incluso más allá de la dualidad
entre el sujeto y el objeto del acto de conocimiento. Al cabo del cap. 4 nos encontramos en un nivel de reflexión en el cual tenemos enfrentados, por un lado, el nou~"
como intelecto cognoscente supra-individual y, por otro, su objeto, lo inteligible
como tal. El objetivo del cap. 5 será, pues, superar esta oposición entre el nou~" y su
objeto, poniendo de manifiesto la identidad de ambos. Una vez logrado esto, Plotino
habrá identificado finalmente una forma de reflexividad autoconsciente que, dirigiéndose a sí misma en el modo de la intentio recta, ‘se conoce a sí’, en el sentido
estricto de la expresión.
Como se recordará, en el cap. 2 Plotino consideraba dos posibles modos en que el
intelecto podría conocerse a sí mismo, a saber: o bien se conoce a sí mismo a través
del conocimiento de objetos exteriores y diferentes de él mismo, o bien se conoce a
sí mismo al conocer los objetos inteligibles contenidos en el interior de él mismo. En
el cap. 5 la primera de esas posibilidades es dejada, sin más, fuera de consideración,
ya que la hipótesis de que el nou~" se conozca a sí mismo a través de objetos exteriores e irreductibles a él –aunque en sí misma admisible e incluso necesaria para dar
cuenta de una cantidad de fenómenos relevantes, sobre todo, en el ámbito del acceso
práctico al mundo y al yo– obviamente no conduce de modo directo al tipo de
estructura de reflexividad autoconsciente que Plotino tiene en vista como objetivo
final de su análisis, pues no permite superar, sin más, la dualidad sujeto-objeto y, con
ello, no permite tampoco pasar de la intentio obliqua a la intentio recta, en la que el
nou~" se captura de modo inmediato a sí mismo. Plotino parte, por tanto, de la segunda posibilidad, es decir, de la representación –heredada del platonismo medio– de un
intelecto divino y universal que contiene en sí mismo la totalidad de los objetos inteligibles (ta; nohtav), esto es, el ‘mundo de las Ideas’ avistado por Platón11.
11 La
representación de las Ideas platónicas como ‘pensamientos’ en la mente divina se remonta en
su origen, al parecer, al escrito trasmitido con el título de Didaskalikós, que actualmente, sobre
todo a partir de los trabajos de J. Whittaker y J. Dillon, se atribuye mayoritariamente a Alcínoo,
filósofo platónico del s. II d. C., y no ya a Albino de Esmirna, como solía hacerse tradicionalmente (véase J. WHITTAKER, Alcinoos. Enseignement des doctrines de Platon, Les Belles Lettres,
Paris 1990; J. DILLON, Alcinous. The Handbook of Platonism, Clarendon Press, Oxford 1993).
Esta obra es el documento más importante para la reconstrucción del desarrollo de la filosofía
del período correspondiente al llamado platonismo medio, e ilustra importantes aspectos del proceso que lleva a la constitución de la filosofía del neoplatonismo. Independientemente de la
cuestión relativa a la atribución de la autoría del escrito, para la fuentes de Plotino en relación
con la concepción de las Ideas como pensamientos en la mente divina puede leerse todavía con
mucho provecho las clásicas contribuciones de R. MILLER JONES, The Ideas as the Thoughts of
God, «Classical Philology», 21 (1926) 317-326, y de A.H. ARMSTRONG, The Background of the
Doctrine that the Intelligibles are not outside the Intellect, «Entretiens Fondation Hardt», vol. V,
Genève 1957, pp. 393-413. Para la defensa de este punto de vista por parte de Plotino véase V 9,
5. Debe tenerse presente que la tendencia a concebir las Ideas como pensamientos está ya reflejada en un pasaje del Parménides de Platón, cuando en 132b se pone a prueba la hipótesis de que
las Ideas fueran pensamientos contenidos en el intelecto humano. Pero, como se sabe, en el
Parménides esta hipótesis finalmente se rechaza.
61
studi
Ahora bien, en cuanto están contenidos en el nou~", los nohtav pueden ser vistos
como ‘partes’ de éste. Por ello, Plotino replantea al comienzo del cap. 5 una posibilidad ya considerada y rechazada en general en el cap. 1, pero aplicada ahora específicamente al caso del nou~", esto es, la posibilidad de que el nou~" se conozca a sí
mismo, en el sentido de la expresión ‘conocerse a sí mismo’ que está basado en la
aplicación de un modelo de división en partes. Según esto, el nou~" se conocería a sí
mismo en el sentido de que una parte suya conoce a otra diferente (cf. V 3, 5, 1-3).
Esta posibilidad es, una vez más, enérgicamente rechazada, y por las mismas razones
que ya se habían dado en el cap. 1, a saber: el modelo basado en el desdoblamiento
en una parte cognoscente y una parte conocida no permite capturar la estructura de
un genuino ‘conocerse a sí mismo’ en el sentido avistado por Plotino, pues, bajo
tales presupuestos, lo cognoscente no se conocerá a sí mismo en lo conocido, al
menos, no en cuanto cognoscente. Plotino aclara justamente que este límite interno
del modelo basado en el desdoblamiento de partes no se supera ni siquiera asumiendo la identidad de contenido entre ambas partes distinguidas, ya que incluso en ese
caso permanecerá una diferencia insuperable entre lo cognoscente y lo conocido, en
cuanto en lo conocido no estará presente el acto mismo de conocer que caracteriza a
lo cognoscente como tal. Dicho de otro modo: lo que conoce no se verá reflejado en
lo conocido en cuanto cognoscente, sino sólo en cuanto conocido (cf. V 3, 5, 3-15).
Plotino se detiene todavía en otras posibles variantes más complejas, basadas en
la distinción inicial dentro del nou~" entre algo que conoce y algo que es conocido
(cf. V 3, 5, 15-21). Pero no vale la pena que nos detengamos aquí en ellas. Baste con
decir que el resultado es en todos los casos el mismo: partiendo de la dualidad entre
el sujeto y el objeto del acto de conocimiento se hace imposible hallar una estructura
de reflexividad autoconsciente que, en sentido estricto, pueda dar lugar a un genuino
‘conocerse a sí mismo’. Por ello, Plotino debe intentar, en un último paso del ascenso hacia el nou~", superar la dualidad sujeto-objeto característica de los niveles inferiores de la (auto)conciencia, por medio del establecimiento de la estricta identidad
de ambos. A ello apunta toda la parte constructiva de la argumentación desarrollada
en el cap. 5 (cf. V 3, 5, 21-48). Se trata entonces de mostrar la identidad estricta del
nou~" y los nohtav. Plotino lleva a cabo este tramo de la argumentación en tres pasos.
a) Plotino asume, en primer lugar, que la identidad del nou~" y sus objetos constituye una condición necesaria para que tenga lugar ‘verdad’ (ajlhvqeia) en el nou~".
Aquí ‘verdad’ remite precisamente a la absoluta identificación del pensar y su objeto, y a la posesión inmediata de su objeto por parte del nou~"12. Si, en cambio, hubiera diferencia entre el nou~" y los nohtav, entonces el nou~" no accedería a sus objetos
de modo directo, no los poseería, sino que tendría tan sólo una ‘imagen’ o ‘copia’
(tuvpo") de ellos, tal como ocurre en los niveles correspondientes a la conciencia
referida a los objetos sensibles, donde impera la dualidad sujeto-objeto y no resulta
jamás completamente reductible. En cuanto posee en sí los nohtav, el nou~" ha de ser
entonces idéntico a ellos (cf. V 3, 5, 21-28). Este intelecto idéntico a sus objetos o,
12 Para
esta peculiar noción de verdad véase las precisiones de W. BEIERWALTES, Selbsterkenntnis
und Erfahrung der Einheit, pp. 110 ss., 195 ss.
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Alejandro Vigo
dicho de otro modo, la identidad auto-referente nou~"-nohtav constituye, como tal, la
realidad entitativamente primera (to; o]n kai; prw~ton o[n) (cf. V 3, 5, 27)13.
b) Sobre esta base Plotino intenta aclarar cómo este nou~" idéntico a sus objetos se
capta intelectivamente a sí mismo (cf. V 3, 5, 28-31). Para ello intentará describir la
constitución ontológica del nou~" apelando a las nociones de ejnevrgeia y zwhv, tomadas aquí directamente de la noética aristotélica (cf. Met. XII 7, 1072b26-27: hJ ga;r
nou` ejnevrgeia zwhv). La descripción de la constitución ontológica del nou~" en términos de ejnevrgeia y zwhv apunta, en primer lugar, a excluir de él toda potencialidad:
en el caso del nou~" el pensar (to; noei``n) y el vivir (to; zh`n), en cuanto actividades,
no son añadidos desde fuera a su sustancia (oujsiva), sino que se identifican, sin más,
con ella, pues el nou~" es pura actividad. Esto implica que el nou~" como facultad intelectiva y la novhsi" como su acto propio se identifican de modo completo y sin residuo: el nou~" es como tal intelección, más precisamente, intelección sustancial (oujsiwvdh" novhsi") (cf. V 3, 5, 31-37), en el sentido de un acto de intelección ontológicamente idéntico a la facultad intelectiva de la cual es acto14. Lo mismo vale, argumenta Plotino, respecto de lo inteligible (to; nohtovn) en tanto objeto del nou~", ya
que: i) si el ser del nou~" y el ser de lo nohtovn son idénticos, y ii) si el ser del nou~"
es acto de intelección pura, es decir, novhsi" como ejnevrgeia, entonces se sigue necesariamente que iii) también lo nohtovn, que es el objeto inteligible del nou~" como tal,
ha de ser ello mismo intelección pura, esto es, novhsi" como ejnevrgeia. De este
modo puede afirmar Plotino la triple identidad que expresa el núcleo de su teoría de
la reflexividad autoconsciente pura, cuando declara: «intelecto, intelección y objeto
inteligible, todo ello será a la vez una sola cosa» (cf. V 3, 5, 43-44: evn a{ma pavnta
e[stai, nou~", novhsi", to; nohtovn).
c) A partir de la triple identificación nou~"-novhsi"-nohtovn Plotino está en condiciones de afirmar que en este nivel de reflexión correspondiente al nou~" como tal
hemos dado finalmente con una estructura de reflexividad autoconsciente de la que
puede decirse que da lugar a un ‘conocerse a sí mismo’, en el sentido estricto de la
expresión (cf. V 3, 5, 44-48). Pues la captación intelectiva de sí mismo por parte del
nou~" cubre aquí los dos aspectos requeridos por la noción de ‘conocerse a sí mismo’,
tomada en su sentido estricto, a saber: i) el nou~" como sujeto del acto de autoconocimiento es él mismo, en su propia esencia, la intelección por medio de la cual se
capta intelectivamente a sí mismo, y ii) en cuanto es él mismo su propio objeto inteligible, el nou~" es al mismo tiempo lo captado por dicha intelección (cf. V 3, 5, 4648). Es importante notar que Plotino llega a esta triple identificación de nou~", novhsi"
y nohtovn a partir de una interpretación radical de la identificación del pensamiento
y su objeto establecida por Aristóteles, allí donde ambos son tomados en el sentido
13 Esta
formulación remite a la concepción plotiniana del nou`" como segunda hipóstasis dentro del
esquema ontológico. Plotino puede afirmar que esta segunda hipóstasis constituye el ente primero, porque la primera hipóstasis, lo Uno, no es en absoluto un ente, por cuanto está, como tal,
más allá del ser. Para lo Uno como situado ‘más allá del ser’ véase p. ej. VI 9, 3, 36-55; VI 9, 5,
24-37, etc.
14 Para la noción de oujsiwvdh" novhsi" véase W. BEIERWALTES, Selbsterkenntnis und Erfahrung der
Einheit, p. 197 ss.
63
studi
del acto, identificación que, con las diferencias del caso relativas a los objetos en
cuestión, es estructuralmente paralela a la que tiene lugar entre el conocimiento sensible y su objeto en el acto de percepción como tal 15 . Como hace notar Th.
Szlézak16, la novhsi" funciona en esta terna de elementos como instancia mediadora
que permite vincular e identificar el nou~" y lo nohtovn, de modo de superar en el
plano de reflexión correspondiente al nou~" mismo la dualidad entre el sujeto y el
objeto del acto de (auto)conocimiento. Por medio de esta estrategia, basada en gran
medida en la radicalización de tendencias operantes ya en la noética de Aristóteles,
Plotino logra poner al descubierto una estructura de reflexividad autoconsciente en la
cual la intentio obliqua se ha transformado en intentio recta, y la reflexividad mediata e indirecta en reflexividad directa e inmediata. Como se recuerda, en el cap. 2 de
V 3 Plotino presentaba la posibilidad de que el nou~" se conociera a sí mismo a través
del conocimiento de los objetos inteligibles contenidos en él como una variante más
a ser descartada, por apuntar prima facie a una estructura mediada de reflexividad
autoconsciente. Pero esto, como se puede ver ahora, no era más que una primera
apariencia, a ser corregida a través de una adecuada interpretación de la relación
existente entre el intelecto y sus objetos, que pusiera de manifiesto la identidad esencial de ambos en el acto de (auto)conocimiento.
6. El descenso desde el nou"~ al alma y las formas derivativas de la
reflexividad autoconsciente
Para concluir con el examen de la argumentación de Plotino me resta aún considerar el camino de retorno desde la reflexividad autoconsciente pura del nou~" hacia
las formas derivativas de reflexividad autoconsciente presentes en el nivel de las
facultades del alma, las cuales son consideradas ahora, en los caps. 6-9 de V 3, precisamente desde la perspectiva abierta por la consideración del nou~". Para la argumentación de Plotino este camino de retorno y descenso es, sin duda, tan esencial como
el de la ida en ascenso. Pero no podré detenerme aquí ni siquiera en una consideración sumaria de los desarrollos contenidos en esta parte de la argumentación de
Plotino. Me limitaré tan sólo a unas pocas consideraciones respecto de los puntos
fundamentales.
a) Desde el punto de vista metodológico, el principio básico que debe guiar el
descenso desde el nou~" al alma consiste, según lo formula Plotino, en lograr la ‘persuasión’ del alma haciendo que contemple el arquetipo (to; ajrcevtupon) en una imagen (ejn eijkovni) (cf. V 3, 6, 8-18). Dicho de otro modo: se requiere trasponer de
alguna manera la estructura de reflexión autoconsciente avistada en la consideración
del nou~" proyectándola sobre el alma, a fin de hacer ver cómo está presente también
15 Cf.
De anima III 8, 431b20-432a1; III 4, 429b6, b30-31; III 5, 430a14-15, 19-20; III 7, 431a1-2;
Met. XII 7, 1072b21; XII 9, 1074b38-1075a5. Para el tratamiento de este punto por Aristóteles
véase R. SORABJI, Time, Creation and The Continuum, Cornell Un. Press, Ithaca (New York)
1983, p. 144 s.
16 Ibidem, p. 129 s.
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Alejandro Vigo
en el alma misma un momento de reflexividad autoconsciente pura, de origen noético. El mejor modo de lograr esto consiste, a juicio de Plotino, básicamente en reconsiderar un hecho estructural ya puesto de relieve con ocasión del análisis de la operación discursiva del alma, como parte del camino de ascenso hacia el nou~". Se trata
del hecho de que la propia operación discursiva del alma en el acto del juicio involucra una cierta intervención del intelecto no-discursivo, hecho en virtud del cual
puede decirse que el alma misma constituye una suerte de realización del intelecto
no-discursivo (nou~" ti"). La facultad discursiva del alma con el peculiar tipo de operación que le es propio (juicio) sólo es posible como tal en virtud del intelecto nodiscursivo (dia; nou`), y a partir del intelecto no-discursivo (para; nou`). Este aspecto
queda reflejado en el modo habitual de caracterizar al alma, en tanto capaz de pensamiento discursivo, como ‘facultad dia-noética’ (dianohtikovn) (cf. V 3, 6, 18-25).
b) El análisis del acto del juicio llevado a cabo por Plotino en el camino de ascenso hacia el nou~" apuntaba fundamentalmente a poner de manifiesto que en el mismo
acto discursivo del juicio el alma apela a contenidos eidéticos que trae ya en sí
misma, por haberlos tomado, por así decir, del nou~". O dicho ahora en términos más
afines a la perspectiva propia del camino de descenso hacia el alma: el alma apela a
las ‘huellas’ (i[cnh) del nou~" presentes en ella. El conocimiento discursivo de las
cosas sensibles tiene lugar cuando el alma, a través del acto determinación propio
del juicio, ‘ajusta’ (ejfarmovttonti) los particulares dados en la percepción a tales
‘huellas’ del nou~". Al hacer esto, al mismo tiempo que conoce el objeto del juicio, el
alma se está también conociendo a sí misma, aunque, en principio, sólo de un modo
indirecto y latente. Si el alma desea conocerse a sí misma de un modo directo y
expreso, entonces debe modificar la modalidad o la ‘dirección’ habitual de la intención propia del acto del juicio, de modo tal de no dirigirse ya primariamente ‘hacia
fuera’, es decir, hacia el objeto del juicio, sino más bien hacia sí misma y hacia lo
que extrae de sí misma. Al producir esta inversión en la dirección intencional propia
del acto judicativo el alma logra verse a sí misma, por primera vez, como ‘imagen’
del nou~" y, de este modo, se conoce a sí misma en un modo nuevo de autoconocimiento (cf. V 3, 6, 25-35)17. A producir tal modificación en la orientación intencional del alma hacia sus objetos de conocimiento apuntaba, precisamente, el análisis
del acto del juicio realizado por Plotino como parte del camino del ascenso hacia el
nou~". Ahora, como parte del camino de descenso desde el nou~" hacia el alma, el
mismo proceso no es meramente repetido, sino más bien redescripto desde la perspectiva abierta por la consideración de la estructura del nou~" como tal. Es importante
advertir que esta redescripción corresponde ahora a un plano de reflexión situado por
encima del correspondiente a la ejecución misma del análisis de la estructura del
acto del juicio, ya que apunta, como tal, a esclarecer el objetivo y el alcance de la
experiencia hecha por el alma a través de tal inversión de su orientación intencional
17 Esto
implica para Plotino la necesidad de dejar fuera de consideración todo tipo de intelección
práctica, pues al intelecto práctico (nou`" praktikov") le es esencial estar dirigido siempre, al
menos de modo directo y primario, ‘hacia fuera’, es decir, hacia los objetos exteriores con los
que se ocupa el obrar. El intelecto teórico puro no alberga, en cambio, ni siquiera deseo (o[rexi")
de algo exterior a él mismo. Véase V 3, 6, 35-44.
65
studi
habitual hacia los objetos exteriores del conocimiento discursivo. No basta en el
camino hacia el autoconocimiento del alma con hacer dicha experiencia, sino que es
necesario, además, que el alma misma quede reflexivamente esclarecida acerca de la
experiencia que ella misma ha realizado, y ello se logra contemplando dicha experiencia en su peculiar modalidad de ejecución, por así decir, desde ‘arriba’, esto es,
desde la perspectiva obtenida a partir del ascenso hasta el nivel de reflexión propio
del nou~". Tal es, en definitiva, el objetivo último del descenso desde el nou~" hacia el
alma, a saber: producir el esclarecimiento del alma acerca de sí misma llevándola a
verse como un reflejo de la autoconciencia del nou~". Se ve aquí en qué medida el
camino de descenso no es, en la concepción metodológica de Plotino, una mera repetición regresiva de las etapas ya descriptas en el ascenso, sino un momento complementario imprescindible dentro de una marcha unitaria que conduce finalmente al
genuino autoconocimiento del alma, en el cual ésta se ve a sí misma a partir de su
procedencia originaria en el nou~". Pues en dicho camino de descenso las ‘mismas’
etapas son vistas ahora desde una nueva perspectiva y, así, elevadas a una nueva
forma de saber autoconsciente. El genuino esclarecimiento autoconsciente en el que
el alma ha devenido completamente transparente para sí misma sólo se logra al cabo
de dicha marcha de ida y vuelta por el camino que lleva al nou~". Un punto esencial
–al que Plotino no alude de modo directo en el texto, pero que está, a mi juicio, presupuesto en su compleja y sutil concepción metodológica– reside en el hecho de que
también la toma de conciencia de la necesidad de este camino de ida y vuelta así
como del objetivo de la marcha a través de él forma parte, a su vez, de la experiencia
hecha por el alma misma en su marcha a través de dicho camino, y constituye, como
tal, un presupuesto del genuino autoconocimiento del alma. En tal sentido, el esclarecimiento de la estructura de la reflexividad autoconsciente a través de la reflexión
filosófica, tal como es llevado a cabo en V 3, resulta ser él mismo parte constitutiva
del proceso por el cual el alma deviene transparente para sí misma a través del conocimiento de sí18.
c) En cuanto es ‘imagen’ del nou~" autoconsciente el alma puede, al volver sobre
sí misma invirtiendo su orientación habitual ‘hacia fuera’, contemplar el nou~" en ella
misma, y contemplarse entonces a sí misma en cuanto originada en el nou~". Puesto
que en el alma hay una doble tendencia, que se manifiesta ya en la doble dirección
característica del acto del pensamiento discursivo (juicio), es decir, una tendencia
hacia el objeto exterior del juicio y una tendencia hacia el nou~", el alma sólo logra
contemplarse a sí misma como nou~" o bien como procedente del nou~" cuando se
orienta hacia su propio interior en un acto de pura contemplación teórica de sí, y no
en la actividad práctica o en la productiva, en las cuales tiene siempre que ver prima18 A pesar
de las muchas e importantes diferencias, no puede dejar de advertirse aquí una importante proximidad de fondo entre la concepción metodológica de Plotino y la de algunos de los
representantes más importantes de la filosofía de la reflexión del Idealismo Alemán, como
Schelling y, sobre todo, Hegel. En efecto, también en el caso de Hegel el proceso de auto-esclarecimiento de la conciencia, reconstruido y descripto en la Phänomenologie des Geistes, comprende, como parte integrante y culminante de dicho proceso, la descripción que, desde el punto
de vista filosófico, hace de él Hegel en dicha obra.
66
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riamente con algo diferente de ella misma (cf. V 3, 7, 25-34). Por el contrario, cuanto más se dirige ‘hacia fuera’, más borrosa se hace en ella la imagen y la huella del
nou~", tal como ocurre en la actividad práctica y, de otro modo, también en el acto de
la percepción sensible. En cambio, cuando se orienta hacia lo que en ella señala en
dirección del nou~", el alma se ve a sí misma como imagen de éste y como ‘iluminada’ desde la reflexividad autoconsciente del nou~" mismo (cf. V 3, 8, 20-57). En un
pasaje muy característico, Plotino ilustra esta ‘iluminación’ del alma esclarecida por
la conciencia de su propio origen a partir del nou~" con la bella metáfora que compara
el alma situada en tal estado de esclarecimiento con la aureola luminosa en torno al
sol resplandeciente (cf. V 3, 9, 1-28).
7. Conclusión y perspectivas ulteriores
Plotino elabora una teoría comprensiva de la autoconciencia, que intenta articular
diferentes niveles del conocimiento de sí, la mayoría de ellos correspondientes a formas prima facie indirectas o mediatas de reflexividad autoconsciente, hasta llegar al
nivel de la autoconciencia pura e inmediata del nou~". Dentro de este modelo hay un
claro primado de la forma pura o inmediata de la reflexividad autoconsciente representada por el nou~", en la medida en que es ella la que hace posible, en definitiva, los
niveles inferiores de autoconciencia, correspondientes a la actividad discursiva del
alma, incluida la percepción en lo que, al menos implícitamente, tiene de componente comprensivo y discursivo. Este primado de la reflexividad autoconsciente pura e
inmediata dentro del modelo de Plotino apunta claramente en la dirección transitada
luego por las concepciones modernas de la autoconciencia, tal como ellas aparecen,
sobre todo, en la tradición de la filosofía de la reflexión del Idealismo Alemán.
La puesta de manifiesto o, dicho en términos más cercanos a Plotino, el ‘ascenso’
hacia la reflexividad autoconsciente pura del nou~" implica, como vimos, superar y
dejar atrás reflexivamente no sólo la individualidad del sujeto del acto de conocimiento, sino también la dualidad misma entre el sujeto y el objeto de tal acto. Esto
trae consigo una doble consecuencia, a saber: por un lado, el individuo humano concreto sólo podrá conocerse a sí mismo qua individuo concreto de modo mediado e
indirecto; por otro lado, el individuo podrá acceder reflexivamente hasta un nivel de
conciencia en el cual está en condiciones de conocerse a sí mismo de modo inmediato en la intentio recta, pero entonces, al hacer esto, se habrá dejado ya irremediablemente atrás a sí mismo, y no se conocerá ya qua individuo, sino qua intelecto supraindividual, es decir, como puro nou~". Esta tensión interna presente en la teoría plotiniana de la autoconciencia no es, en definitiva, sino un reflejo de superficie de una
dualidad esencial que caracteriza ya a la noética de Platón y Aristóteles, en cuanto
ésta concibe al hombre en lo que tiene de más propio por referencia al nou~", pero a
la vez considera al nou~" como superior y trascendente al hombre mismo. Que el
hombre en tanto individuo sólo pueda conocerse a sí mismo de modo mediado e
indirecto, tal como ocurre, por ejemplo, en las formas de reflexividad autoconsciente
operantes en el ámbito del acceso práctico al mundo, y que, en cambio, acceda de
67
studi
modo directo e inmediato a sí sólo bajo el aspecto de intelecto supra-individual es
aquí, en definitiva, consecuencia de un hecho básico concerniente a la constitución
ontológica del hombre mismo, en cuanto éste es esencialmente nou~", pero no es pura
y exclusivamente nou~".
La idea central de Plotino según la cual en el sujeto individual humano anida un
momento de reflexividad autoconsciente pura y supra-individual, como condición de
posibilidad y como núcleo último de su actividad pensante, anticipa, sin duda, una
intuición básica de la posterior filosofía idealista de la reflexión y de las modernas
concepciones de la subjetividad trascendental. Sin embargo, no hay en Plotino ningún indicio que apunte en dirección de la subjetivización de tal estructura de reflexividad autoconsciente pura, característica del giro moderno hacia la subjetividad. Por
el contrario, el nou~" de Plotino es fundamentalmente el intelecto divino y universal,
y cuando el hombre lo halla en sí a través de la vuelta reflexiva sobre sí mismo, lejos
de haberse encerrado en sí, más bien ha saltado definitivamente fuera y más allá de
sí mismo, en dirección de lo que lo trasciende infinitamente. El nou~" es, por así
decir, el lugar ontológico donde el individuo humano entra en contacto con y penetra
en el ámbito de lo trascendente.
Por otra parte, no debe olvidarse que a pesar de su carácter de reflexividad pura
autoconsciente, vuelta directamente sobre sí misma, el nou~" trascendente de Plotino
está también muy lejos de quedar encerrado en su propia inmanencia. Pues el propio
nou~", en cuanto es imagen de lo que le está por encima, lleva en sí la huella de aquello que lo trasciende, y en su vuelta sobre sí remite entonces también más allá de sí
mismo, en dirección del principio trascendente y transobjetivo, fuente última del ser,
al que con un nombre inusual para nosotros, pero grávido de tradición neoplatónica,
Plotino suele denominar lo Uno.
***
Abstract: Il presente lavoro espone e interpreta l’originale concezione dell’autocoscienza elaborata da Plotino nell’Enneadi (V, 3). Il filo conduttore dell’interpretazione è dato dalla sistematica distinzione tra le forme dirette della riflessione autocosciente e quelle mediate. Rispetto alla concezione platonica che, come evidenziato
da Wieland, si muove esclusivamente sulla base di strutture mediate o indirette
dell’autocoscienza, la posizione di Plotino presenta uno schema più complesso teso
a sviluppare una concezione unitaria tanto delle forme mediate dell’autocoscienza
quanto di quelle dirette. A partire da una comprensione produttiva del concetto aristotelico di noésis noésos, il noûs si configura in Plotino come quella forma di riflessività autocosciente pura che fornisce il fondamento ultimo alle forme dell’autocoscienza che, per così dire, vi sottostanno. Nel noûs Plotino individua una forma di
riflessività autocosciente nella quale il soggetto può, per la prima volta, riferirsi a se
stesso nella modalità della intentio recta, ma ciò solo nella misura in cui rinuncia
alla propria individualità per stabilire un contatto con la sfera dell’Intelletto trascendente sopra-individuale.
68
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1 - PAGG. 69-79
note e commenti
La necessità assoluta nell’essere creato in Tommaso d’Aquino.
Sintesi ragionata di Contra Gentiles II, c. 30
FEDERICA BERGAMINO*
■
«Sebbene tutte le cose dipendano dalla volontà di Dio come da prima causa, la
quale nell’agire non è soggetta a necessità, se non supponendo il suo proposito,
tuttavia non si può escludere dalle cose il necessario assoluto così da obbligarci
ad affermare che tutte le cose sono contingenti»1.
Tommaso d’Aquino concepisce l’universo come creato da un Essere assoluto e
personale: Dio. In quanto assoluto Dio è l’Essere in senso pieno e perfetto, l’Unico
necessario e sussistente di per sé da cui tutte le cose dipendono; in quanto personale
è Intelligenza e Volontà, è Libertà. Tale Essere decide di far essere fuori-da-sé e
come altro-da-sé altri esseri: crea l’universo. È un dato della Rivelazione – assunto
nella concezione metafisica dell’Aquinate – la speciale origine ex nihilo di tale universo.
Sorge allora la domanda circa lo status ontologico della realtà creata. In che
senso si afferma la necessità assoluta in una creatura? Una metafisica della libera
creazione non dovrebbe concepire l’ente creato come contingente?2. Può possedere
∗
Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma
1
Summa contra gentiles, II, c. 30: «Licet autem omnia ex Dei voluntate dependeat sicut ex prima
causa, quae in operando necessitatem non habet nisi ex sui propositi suppositione, non tamen
propter hoc absoluta necessitas a rebus excluditur, ut sit necessarium nos fateri omnia contingentia esse».
2 È questa la posizione di alcuni autori di ispirazione tomista che sostengono la radicale contingenza dell’essere creaturale. Si veda ad es. L.B. GEIGER, La participation dans la philosophie de
Saint Thomas d’Aquin, J. Vrin, Paris 1942, p. 308; B. D ELFGAAUW, Thomas Van Aquino,
Bussum, Wereldventster 1980, p. 63; anche E. GILSON, Lo spirito della filosofia medievale, tr. it.,
Morcelliana, Brescia 1983, pp. 83-110. Quest’ultimo in particolare afferma la radicalità della
contingenza della creatura come una “novità metafisica” della filosofia “cristiana”. Detta tesi ha
69
note e commenti
necessariamente l’essere una realtà finita, effetto di un atto libero (che implica contingenza) di un Qualcuno da cui dipende nel suo stesso essere? La provenienza del
creato dal nulla non dovrebbe poi condurre necessariamente verso il nulla?
La condizione di creaturalità dell’universo, la sua origine ex nihilo effetto di una
libera scelta divina, non implicano necessariamente la sua contingenza essenziale.
Nelle realtà create – così come concepite metafisicamente da Tommaso – si dà
necessità assoluta.
L’argomentazione dimostrativa che l’Aquinate offre in Summa contra Gentiles II,
c. 30, evidenzia dapprima l’esistenza della necessità assoluta dell’essere di alcune
creature; secondariamente come l’attribuzione di detta necessità alle creature sia in
perfetta sintonia con ciò che si conosce del Creatore (per quanto attiene al suo agire
e ai suoi attributi); e da ultimo come si desume la necessità assoluta dalle diverse
cause prossime dell’ente creaturale.
La presente trattazione seguirà lo schema espositivo dell’Aquinate. Per motivi di
brevità non si analizzerà l’intera disamina di Tommaso ma solo i punti che sembrano
di maggior rilievo per chiarire la problematica impostata3.
1. Le creature assolutamente necessarie
«Quelle cose in cui non c’è possibilità di non essere, è necessario che siano in
senso pieno e assoluto. Ora, certe cose sono prodotte da Dio nell’essere in modo
da escludere dalla loro natura la potenza a non essere. Ciò avviene per il fatto che
in esse non c’è una materia che sia in potenza ad altre forme. Perciò quelle realtà
in cui non c’è la materia; oppure se c’è, non è suscettibile di altre forme, non
hanno la potenza a non essere. Perciò esse devono essere per una necessità in
senso pieno e assoluto»4.
come argomento dimostrativo essenziale la distinzione tra essenza ed esistenza nell’essere creato
che avrebbe la sua cartina al tornasole nel dato rivelato dell’origine ex nihilo dell’universo. Tale
argomento, come si vedrà in seguito, viene considerato e confutato dallo stesso Tommaso quando definisce la necessità assoluta in rapporto ai diversi tipi di cause e alla libertà del Creatore.
Per ciò che attiene poi alla “novità metafisica” della filosofia cristiana rispetto a quella greca sul
concetto di contingenza e in particolare sulla nozione di creazione in Tommaso e Aristotele si
rimanda a L. DEWAN, St. Thomas, Aristotle, and Creation, «Dionysius», 15 (1991), pp. 81-90. Si
troveranno invero interessanti osservazioni sulla continuità metafisica esistente tra Tommaso e
Aristotele che, sembra, rendono più precisamente ragione dell’autentico pensiero di entrambi.
Per una critica storico-teoretica al concetto di radicale contingenza nella creatura in Tommaso
d’Aquino si veda poi la trattazione di H.J.M.J GORIS, Free Creatures of an Eternal God. Thomas
Aquinas on God’s infallible foreknowledge and irresistible will, Publications of the Thomas
Instituut te Utrecht, New Series, vol. IV, Stichting Thomasfonds, Nijmegen 1996, pp. 277-281.
Sulla necessità assoluta delle creature in Tommaso si veda anche J. AERTSEN, Nature and
Creature, Thomas Aquinas’s Way of Thought, E.J. Brill, Leiden, The Netherlands 1988, pp. 239248.
3 A motivo di ciò non si tratterà la parte finale circa la necessità rispetto alle cause estrinseche
prossime.
4 Ibidem: «Illas enim res simpliciter et absolute necesse est esse in quibus non est possibilitas ad
non esse. Quaedam autem res sic sunt a Deo in esse productae ut in earum natura sit potentia ad
70
Federica Bergamino
Il necessario è ciò che non può non essere. Una cosa è assolutamente necessaria
quando la sua natura è tale per cui, possedendo un alto grado di perfezione, non ha la
capacità o potenza al non essere; è fatta per essere sempre. La necessità assoluta
delle cose si può inferire pertanto dalla considerazione delle cose così come sono in
se stesse, ossia dalla loro natura5.
Il fulcro dell’argomento di Tommaso fa perno sulle nozioni di potenza ed atto e
materia e forma: la materia è potenza, è infatti potenziale rispetto a più forme. Può
essere e smettere di essere a seconda della forma che la attualizza6. Essa partecipa
dell’essere per la forma7, pertanto la sua relazione con l’essere è mediata: la materia
non può essere senza forma. La forma invece viene seguita dall’essere di per sé: in
modo immediato, in virtù del suo status di forma. La forma in quanto tale – per se –
non può passare dalla privazione dell’essere al suo possesso o viceversa; può solo
essere: è inseparabile dall’essere8. Si può invece corrompere per accidens se è nella
materia e da essa dipende9; la materia infatti non può tenere una data forma per sempre.
5
6
7
8
9
non esse. Quod quidem contingit ex hoc quod materia in eis est in potentia ad aliam formam.
Illae igitur res in quibus vel non est materia, vel, si est, non est possibilis ad aliam formam, non
habent potentiam ad non esse. Eas igitur absolute et simpliciter necesse est esse».
In De potentia, q. 5, a. 3 Tommaso esplicita due modi in cui si può considerare la nozione
“potenzialità”. Scrive: «Uno modo per potentiam agentis tantum; sicut antequam mundus fieret,
possibile fuit mundum fore, non per potentiam creaturae, quae nulla erat sed solum per potentiam Dei, qui mundum in esse producere poterat. Alio modo per potentiam quae est in rebus factis; sicut possibile est corpus compositum corrumpi». Ed è in questo secondo modo, ossia dalla
considerazione della potenza che esiste nelle cose create, che si riscontra, in alcune di esse, il
potere di essere sempre, incorruttibilmente. Esiste poi un terzo modo in cui si può considerare la
possibilità: ciò che è possibile in quanto non è contraddittorio. Cfr. al riguardo Summa theologiae, I, q. 25, a. 3. È la potenzialità così intesa che viene considerata da Avicenna come riporta
l’Aquinate in De Potentia, q. 5, a. 3: «Avicenna posuit, quod quaelibet res praeter Deum habebat
in se possibilitatem ad esse et non esse. Cum enim esse sit praeter essentiam cuiuslibet rei creatae, ipsa natura rei creatae per se considerata, possibilis est ad esse; necessitatem vero essendi
non habet nisi ab alio, cuius natura est suum esse, et per consequens est per se necesse esse, et
hoc Deus est». Effettivamente non è una contraddizione che una creatura non sia, poichè in essa
si dà distinzione tra l’essenza e l’essere. Questo tuttavia non significa contingenza, che è invece
possibilità in riferimento a una potenza (Si veda De Potentia, q. 1, a. 4). Per un ulteriore
approfondimento della questione si rimanda a H.J.M.J GORIS, Free Creatures…, cit.
Tommaso contempla qui la possibilità che esista una materia suscettibile di essere informata da
una sola forma. Segue infatti la visione cosmologica di Aristotele circa l’incorruttibilità dei corpi
celesti: esseri materiali incorruttibili. Tale concezione ad ogni modo non intacca la sua metafisica: questo sarebbe un caso in cui la forma determina completamente la materia così da renderla
incorruttibile.
Cfr. ad es. Summa theologiae, I, q. 3, a. 2: «… omne compositum ex materia et forma est perfectum et bonum per suam formam: unde oportet quod sit bonum per participationem, secundum
quod materia participat formam».
Cfr. ibidem, I, q. 75, in particolare, a. 6: «Manifestum est enim quod id quod secundum se convenit alicui est inseparable ab ipso. Esse per se convenit formae, quae est actus. Unde materia
secundum hoc acquirit esse in actu, quod acquirit formam: secundum hoc autem accidit in ea
corruptio, quod separatur forma ab ea. Impossibile est autem quod forma separetur a seipsa.
Unde impossibile est quod forma subsistens desinat esse».
Cfr. Summa contra…, II, c. 30: «… per accidens corrompantur, sicut formae quae non subsistunt
sed esse earum est per hoc quod insunt materiae».
71
note e commenti
Ora, ogni cosa possiede l’essere in virtù della sua forma; per questo, se in una
natura non si dà materia (potenza) ed è solo forma (atto), sarà determinata a essere,
poiché l’essere segue necessariamente alla forma. Avrà pertanto l’essere in modo
necessario.
Ciò non esclude peraltro l’esistenza di una ulteriore causa dell’essere della cosa:
Dio. Tommaso afferma infatti che certe cose hanno ricevuto l’essere in modo tale da
escludere la potenza al non essere. La forma di un ente creato, anche se pura forma,
è invero distinta dal suo essere; non è atto puro10. Se è vero infatti che la forma ha
l’essere di per sé, vale a dire in modo immediato, si tratta pur sempre di una partecipazione di essere: l’essere non coincide con la sua essenza. Una forma particolare (di
un ente creato) è invero in potenza rispetto all’essere; tuttavia, è in potenza solo
rispetto all’essere e non al non-essere. La potenzialità della forma rispetto all’essere
è un caso di potenzialità determinata ad unum. Non è in potenza sia rispetto all’essere che al non-essere; una volta che è, è per l’essere che ha11, pertanto anche se causata è necessaria. Va altresì sottolineato che detta necessità non consiste in una necessità ipotetica. Non si tratta invero meramente di un effetto che, data la causa, segue
necessariamente. Si tratta invece di un effetto che è “in sé” qualcosa di necessario:
una necessità assoluta che deriva dai principi intrinseci alla cosa stessa12.
Nella determinazione dello status ontologico dell’ente bisogna pertanto tenere
presenti le diverse cause in virtù di cui qualcosa è. Si danno infatti cause intrinseche
(materia e forma) e cause estrinseche (efficiente e finale). Se la forma della cosa si
distingue dal suo essere (e questo vale per ogni ente creato), il suo essere dipenderà
non solo dai suoi principi essenziali ma anche dai principi estrinseci (Dio).
Tommaso afferma la necessità assoluta di essere in alcune creature in virtù delle loro
cause intrinseche, che sono quelle più immediate13.
10 Cfr.
Super Boetium De Trinitate, q. 5, a. 4, ad 4; anche Summa theologiae, I, q. 50, a. 2, ad 3:
«Subtracta […] materia, et posito quod ipsa forma subsistat non in materia, adhuc remanet comparatio formae ad ipsum esse ut potentiae ad actum. Et talis compositio intelligenda est in angelis».
11 È da considerare peraltro, che non ogni potenza è aperta agli opposti (Cfr. A RISTOTELE ,
Metafisica, Lib. IX, 2, 1046a 35-b 25). Scrive al riguardo Tommaso In Physicorum, Lib. 8, lect.
21, § 13: «In omni […] substantia quantumcumque simplici, post primam substantiam simplicem, est potentia essendi. Deceptus autem fuit [Averroes] per aequivocationem potentiae. Nam
potentia quandoque dicitur quod se habet ad opposita. Et hoc excluditur […] a substantiis simplicibus separatis, quia non est in eis potentia ad non esse […]; eo quod substantiae simplices
sunt formae tantum, formae autem per se convenit esse. Non enim omnis potentia est oppositorum: alioquin possibile non sequeretur ad necesse, sicut dicitur in II Perihermeneias».
12 Cfr. Summa contra…, II, 30: «… quod tales rerum naturae a Deo producerentur, voluntarium
fuit: quod autem, eis sic statutis aliquid proveniat vel existat, absoluta necessitatem habet».
13 Tommaso stesso, in De Potentia, q. 1, a. 4, chiarisce i criteri secondo cui si devono giudicare le
cose come contingenti o come necessarie: «… iudicium de possibili et impossibili potest considerari dupliciter: uno modo ex parte iudicantium; alio modo ex parte eius de quo iudicatur. […]
Si autem consideretur istud iudicium quantum ad naturam eius de quo iudicatur, sic patet quod
effectus debent iudicare possibiles secundum causas proximas, cum actio causarum remotarum,
secundum causas proximas determinetur, quas precipue effectus imitantur: et ideo secundum eas
praecipue iudicium de effectibus sumitur. […] effectus, inquantum est ex sui natura, non nisi
propinquis causis possibiles vel impossibiles dicuntur». Anche in Summa theologiae, I, q. 25, a.
72
Federica Bergamino
2. Il Creatore e la necessità assoluta della creatura
In questa prospettiva, la considerazione dell’origine non-necessaria della cosa
creata perché proveniente da un atto libero, non intacca la necessità sopraddetta.
L’obiezione – riportata da Tommaso – di chi vede incompatibilità tra creaturalità
e necessità si delinea in questi termini: le cose che provengono dal nulla di suo tendono al nulla, pertanto in tutte le creature c’è la potenza a non essere14. Tale impostazione però, secondo quanto rileva l’Aquinate15, non considera che il provenire da
e il tendere a rispetto al nulla, non sono in potere della cosa creata. Non riguardano
la causalità intrinseca e si riferiscono invece a quella estrinseca che definisce i limiti
temporali16. L’ente che viene all’essere per la creazione, non ha in sé il potere di
essere prima di aver ricevuto l’essere, pertanto non ha nemmeno il potere di tornare
al nulla una volta creato. La provenienza dal nulla e la fine nel nulla rimandano a un
potere che supera la creatura: la potenza della Causa Agente17. La dimensione di
contingenza dell’essere creaturale – in quanto tale – consiste totalmente nel rapporto
che Dio ha con ciò che è fuori di Lui18, cioè nel suo potere di causarlo o di non causarlo e di stabilirne i limiti temporali. Non è quindi un attributo della creatura stessa,
un potere che ha in sé di essere o di non essere19.
3, ad 4 si legge: «possibile absolutum non dicitur neque secundum causas superiores, neque
secundum causas inferiores; sed secundum seipsum. Possibile vero quod dicitur secundum aliquam potentiam, nominatur possibile secundum proximam causam; […] Nam secundum conditionem causae proximae, effectus habet contingentiam vel necessitatem».
14 Cfr. Summa contra…, II, c. 30: «Si autem dicatur quod ea quae sunt ad ex nihilo, quantum est de
se, in nihilum tendunt; et sic omnibus creaturis inest potentia ad non esse…».
15 È da tenere presente che Tommaso considera e confuta tale obiezione anche in altri testi. Cfr. ad
es. De potentia, q. 5, a. 3, in cui l’Aquinate dedica buona parte del respondeo a dimostrare che
«… in tota natura creata non est aliqua potentia, per quam sit aliquid possibile tendere in nihilo».
16 L’espressione ex nihilo in Tommaso non significa che il nulla sia un componente della creatura,
ma solo che la creatura non ha un componente presupposto all’azione divina (non ex aliquo), ed
esiste dopo non esistere (post nihil). Cfr. ad es. Summa theologiae, I, q. 45, a. 1, ad 3.
17 Cfr. Summa theologiae, I, q. 9, a. 2: «Omnes […] creaturae, antequam essent, non erant possibiles esse per aliquam potentiam creatam, cum nullum creatum sit aeternum: sed per solam potentiam divinam, inquantum Deus poterat eas in esse producere. Sicut autem ex voluntate Dei
dependet quod res in esse producit, ita ex voluntate eius dependet quod res in esse conservat:
non enim aliter eas in esse conservat, quam semper eis esse dando; unde si suam actionem eis
subtraheret, omnia in nihilum redigerentur ut patet per Augustinum, 4 super Gent. ad Litt. [c.
12]».
18 Cfr. Summa theologiae, I, q. 19, a. 3, ad 5: «Quod causa quae est ex se contingens, oportet quod
determinetur ab aliquo exteriori ad effectum. Sed voluntas divina, quae ex necessitatem habet,
determinat seipsam ad volitum, ad quod habet habitudinem non necessariam».
19 Ciò non significa peraltro che Tommaso non attribuisca una qualche contingenza anche a quegli
enti creati per essere sempre; non si tratta tuttavia di una contingenza nell’ordine dell’essere
sostanziale. Si legge infatti in Summa theologiae, I, q. 9, a. 2: «… Substantiae incorporeae, quia
sunt ipsae formae subsistentes, quae tamen se habent ad esse ipsarum sicut potentia ad actum, non
compatiuntur secum privationem huius actus: quia esse consequitur formam, et nihil corrumpitur
nisi per hoc quod amittit formam. Unde in ipsa forma non est potentia ad non esse: et ideo huiusmodi substantiae sunt immutabiles et invariabiles secundum esse. […] Sed tamen remanet in eis
duplex mutabilitas. Una secundum quod sunt in potentia ad finem: et sic est in eis mutabilitas
secundum electionem de bono in malum […]. Alia secundum locum, inquantum virtute sua finita
73
note e commenti
E così la questione della necessità assoluta della creatura rimane aperta. La creatura in quanto tale, nella concezione di Tommaso, non è in potenza al non-essere; le
pure forme infatti non hanno alcuna tendenza intrinseca al non-essere.
Va poi rilevato che Dio è Principium totius esse. L’essere-creato implica invero
l’intervento di un Creatore che decide di sua propria volontà non solo di dare l’essere in quanto tale, ma anche la modalità dell’essere delle cose, e quindi la loro contingenza o necessità 20. Spiega Tommaso che
«… l’ente in quanto ente ha la sua causa in Dio stesso: quindi come lo stesso ente
è soggetto alla divina provvidenza, così anche tutti gli attributi dell’ente in quanto
ente, tra i quali ci sono il necessario e il contingente. Alla divina provvidenza pertanto appartiene non solo fare questo ente, ma anche dargli la contingenza o la
necessità. […] Cosa che certamente è propria solo a questa causa, ossia alla divina provvidenza. Le altre cause infatti, non costituiscono la legge di necessità o di
contingenza, ma essendo costituita da una causa superiore, la applicano. Quindi è
sottomesso alla causalità di una qualsivoglia delle altre cause, solo il fatto che il
suo effetto sia. Ma che questo (l’effetto) sia necessariamente o in modo contingente dipende da una causa più alta, che è la causa dell’ente in quanto ente; dalla
quale proviene l’ordine di necessità e di contingenza nelle cose»21.
Nel Creatore, e solo in Lui, risiede sia la potenza di dare l’essere o di toglierlo,
sia la facoltà di darlo in modo necessario o contingente. La considerazione dell’oripossunt attingere quaedam loca quae prius non attingebant». Si tratta quindi di una contingenza
secundum quid, non radicale, che non è in contrasto con la necessità absoluta rispetto all’essere.
Necessitas absoluta non significa invero totale, che è solo di Dio, significa invece incondizionale
anziché ipotetica. Un chiarimento terminologico si trova in Summa theologiae, III, q. 50, a. 5: «…
quod dico simpliciter, potest dupliciter accipi. Uno modo quod simpliciter idem est quod absolute:
sicut “simpliciter dicitur quod nullo addito dicitur” ut Philosophus dicit [2 Topic., e 11, n. 4]. […]
Alio modo simpliciter idem est quod omnino vel totaliter».
20 Si legge In Peri hermeneias, Lib. I, lect. 14: «… voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt
autem differentiae entis possibili et necessarium: et ideo ex ipsa voluntate divina originatur
necessitas et contingentia in rebus, et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus autem quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus
autem quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, id est potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa quae transcendit ordinem
necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia
causa; quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae».
21 In Metaphysicorum, Lib. 6, lect. 3: «… ens inquantum ens est habet causam ipsum Deum: unde
sicut divinae providentiae subditur ipsum ens, ita etiam omnia accidentia entis inquantum est
ens, inter quae sunt necessarium et contingens. Ad divinam igitur providentiam pertinet non
solum quod faciat hoc ens, sed quod det ei contingentiam vel necessitatem. […] Quod quidem
est singulare in hac causa, scilicet in divina providentia. Relinquae enim causae non constituunt
legem necessitatis vel contingentiae, sed constituta a superiori causa, utuntur. Unde causalitati
cuiuslibet alterius causae subditur solum quod eius effectus sit. Quod autem sit necessario vel
contingenter, dependet ex causa altiori, quae est causa entis inquantum est ens; a qua ordo necessitatis et contingentiae in rebus provenit».
74
Federica Bergamino
gine del creato quindi, rimandando a una causa agente principale – la volontà libera
e onnipotente di Dio – non contraddice la possibilità dell’assoluta necessità di alcune
creature22, anzi, la rende possibile23.
Detta necessità è peraltro in armonia sia con la perfezione del Creatore che produce cose simili a sé e liberamente può produrre necessità, sia con l’ordine gerarchico del creato: quanto più una creatura si avvicina al Creatore – Colui che è l’Essere
per sé – tanto più si allontana dal non essere. Pertanto le cose più vicine a Dio, «per
dare completezza all’ordine dell’universo, dovranno essere tali da escludere la
potenza al non essere»24.
Il creare di Dio d’altra parte, non consiste nell’aggiungere un “esistere fattuale”
(esse reale) a una “essenza ideale”25. Se così fosse, l’essenza sarebbe una sorta di
soggetto che “passa” dall’essere nella mente di Dio all’essere nella realtà, cosicché
“l’essere reale” sarebbe qualcosa per accidens e non per se rispetto all’essenza, e la
creazione sarebbe un mutamento. Ma tutto questo, nella metafisica di Tommaso, è
inconcepibile26. Creare è invece il potere di “far essere – dal nulla – tutto ciò che
appartiene all’essere della cosa”27 e quindi il potere di dare alle cose la loro capacità
22 Cfr.
anche Summa theologiae, I, q. 44, a. 1, ad 2. Si veda anche Summa contra…, II, c. 30: «Ex
quo res creatae ex divina voluntate in esse procedunt, oportet eas tales esse quales Deus eas esse
voluit. Per hoc autem quod dicitur Deum produxisse res in esse per voluntatem, non per necessitatem, non tollitur quin voluerit aliquas res esse quae de necessitate sint et aliquas quae sint contingenter, ad hoc quod sit in rebus diversitas ordinata». Cfr. Summa contra…, I, c. 85: «Vult
enim Deus omnia quae requiruntur ad rem quam vult […]. Sed aliquibus rebus, secundum
modum suae naturae, competit quod sint contingentes, non necessariae. Igitur vult aliquas res
esse contingentes. Efficacia autem divinae voluntatis exigit ut non solum sit quod Deus vult, sed
etiam ut hoc modo sit sicut Deus vult esse illud».
23 Cfr. inoltre Summa contra…, II, c. 26-27 in cui Tommaso dimostra come l’Intelletto divino non
sia coartato a determinati effetti e al contempo come volontariamente abbia prestabilito determinati effetti.
24 Summa contra…, II, c. 30: «… talia esse oportet, ad hoc quod sit rerum ordo completus, ut in eis
non sit potentia ad non esse».
25 Cfr. ad es. Summa theologiae, q. 45, a. 4, ad 2: «… creatio non dicit constitutionem rei compositae ex principiis preexistentibus: sed compositum sic dicitur creari, quod simul cum omnibus
suis principiis in esse producitur».
26 Cfr. al proposito quanto scrive In metaphysicorum, Lib. 4, lect. 2, § 11: «Esse enim rei quamvis
sit aliud ab eius essentia, non tamen est intelligendum quod sit aliquod superadditum ad modum
accidentis, sed quasi constituitur per principia essentiae. Et ideo hoc nomen “ens” quod imponitur ab ipso esse, significat idem cum nomine [res] quod imponitur ab ipsa essentia». Vedi anche
De potentia, q. 5, a. 4, ad 3: «…esse non dicitur accidens quod sit in genere accidentis, si loquamur de esse substantiae (est enim actus essentiae), sed per quandam similitudinem quia non est
pars essentiae, sicut nec accidens». Per quanto riguarda la critica al concetto di creazione come
mutamento cfr. De potentia, q. 3, a. 2 e Summa theologiae, I, q. 45, a. 2, ad 2.
27 Cfr. Summa theologiae, I, q. 45, a. 4 obj. 1: «Videtur quod creari non sit proprium compositorum
et subsistentium. Dicitur enim in Libro De Causis [prop. 4]: “Prima rerum creatarum est esse”.
Sed esse rei creatae non est subsistens. Ergo creatio proprie non est subsistentis et compositi». E
ibidem, ad 1: «… cum dicitur, “prima rerum creatarum est esse”, ly esse non importat subiectum
creatum; sed importat propriam rationem obiecti creationis. Nam ex eo dicitur aliquid creatum,
quod est ens, non ex eo quod est hoc ens: cum creatio sit emanatio totius esse ab ente universali,
ut dictum est». E in ibidem, I, q. 44, a. 2 si legge: «… causa rerum inquantum sunt entia, oportet
esse causam rerum […] secundum omne illud quod pertinet ad esse illorum quocumque modo».
75
note e commenti
intrinseca di essere. Creare significa quindi, nella visione metafisica di Tommaso,
produrre ex nihilo enti con capacità proporzionate per essere. E così, una volta che
Dio crea una forma, questa non ha bisogno di altro che di se stessa per la ricezione
dell’essere: lo possiede infatti di per sé, necessariamente.
3. Il ruolo della nozione metafisica di “forma”
Una volta dimostrata l’esistenza di creature assolutamente necessarie, chiarita la
relazione della creatura rispetto al Creatore e la non contraddizione dell’esistenza di
una necessità che sia causata in modo libero (ossia non necessario), Tommaso esplicita le diverse modalità di detta necessità assoluta nell’ente creato.
«Nelle creature […] sono diverse le maniere di queste necessità, secondo le
diverse cause. Per il fatto che le cose non possono sussistere senza i loro principi
essenziali, che sono la materia e la forma, è necessario in tutte le cose che ciò che
appartiene alla cosa in virtù dei principi essenziali, abbia necessità assoluta»28.
L’essenza è ciò in cui e per cui un ente ha l’essere: è la causa immediata dell’essere della cosa29. La necessità assoluta nell’ente si può allora dedurre dalla considerazione dei suoi principi essenziali. Si riscontra così una triplice necessità: necessità
di essere, necessità nel rapporto tra i principi e le diverse parti della materia e della
forma, necessità delle proprietà che seguono alla materia e alla forma.
Protagonista dell’intera disamina è la nozione metafisica di forma30.
Ciò non sorprende se si tiene presente quanto rilevato precedentemente al riguardo (la forma come inseparabile dall’essere) e se si intende ciò che esplicita qui
Tommaso: «La forma nella sua natura è un atto; e per mezzo di essa le cose esistono
attualmente»31. La forma è virtus essendi32. Per suo mezzo le cose hanno esistenza
attuale: sono. Essa è invero il principio immediato e proprio dell’essere; essendo il
principio costitutivo della cosa ha un ruolo di “fonte” dell’essere. L’essere è il suo
effetto. Ciò equivale a dire che, se una cosa ha l’essere, non solo la modalità di essere (essenza), ma l’essere stesso, è in virtù della forma33.
28 Ibidem:
«Diversimode […] ex diversis causis necessitas sumitur in rebus creatis. Nam quia sine
suis essentialibus principiis, quae sunt materia et forma, res esse non potest, quod ex ratione
principiorum essentialium rei competit, absolutam necessitatem in omnibus habere necesse est».
29 Cfr. De ente et essentia, c. 1.
30 Cfr. Summa theologiae, I, q. 86, a. 3: «Necessitas autem consequitur rationem formae: quia ea
quae consequuntur ad formam, ex necessitate insunt».
31 Summa contra…, II, c. 30: «Forma autem, secundum id quod est, actus est: et per eam res actu
existunt».
32 Cfr. ibidem, I, c. 20.
33 Si legge infatti in De anima, q. un., a. 10, ad 1: «forma dat esse et speciem materiae». Questo
significa che la creazione stessa viene “mediata” dalla forma. Si legge in De veritate, q. 27, a. 1,
ad 3: «esse naturale per creationem Deus causat in nobis nulla causa agente mediante, sed tamen
mediante aliqua causa formali; forma enim naturalis principium est esse naturali»; e in De caritate, q. un., a. 1, ad 13: «Deus esse naturae creavit sine medio efficiente, non tamen sine medio
76
Federica Bergamino
La necessità assoluta in rapporto all’essere viene allora desunta dalla forma.
Parimenti la non-necessità o corruttibilità deriva dalla mancanza di in-formazione o
determinazione della forma sulla materia34. La materia infatti – si è precedentemente
osservato – è potenza, per le sue disposizioni le cose sono corruttibili e ogni cosa
possiede l’essere nella misura della sua forma.
Se quindi un ente è pura forma, separato dalla materia, sarà sempre in atto a esistere35. Lo stesso avviene per quegli enti corporei (i corpi celesti) in cui la forma
determina completamente la materia così da impedire la potenzialità ad altre forme.
formali. Nam unicuique dedit formam per quam esset». Dio crea l’essere creando la forma. Solo
in questo modo si spiega metafisicamente come vi sia un “unico” termine o oggetto formale
della creazione: l’essere (Cfr. Summa theologiae, I, q. 45, a. 4, ad 1). La distinzione, reale in
ogni creatura, di essere ed essenza, non può portare ad affermare «la creazione distinta dell’essenza e dell’esse» (C. FABRO, Partecipazione e causalità, Società Editrice Internazionale, Torino
1960, p. 381). Tale espressione permette invero di pensare, se non a una doppia creazione, perlomeno a un “doppio termine” della creazione. Questo sarebbe così se la causalità della forma si
limitasse al livello formale, ossia se la forma desse solo “l’atto formale” (questo è quanto afferma Fabro nella sua peculiare interpretazione del forma dat esse di Tommaso in Partecipazione e
causalità, cit., pp. 345 e ss.) e non fosse invece anche il tramite causale dell’atto di essere. «Se
l’atto di essere è al di fuori della sfera causale della forma e quindi effetto esclusivo della creazione la limitazione formale che la forma impone sull’essere ha bisogno di essere spiegata da
una distinta derivazione in Dio» (R.A. TE VELDE, Participation & Substantiality in Thomas
Aquinas, E.J. Brill, Leiden, New York 1995, p. 222). In questo modo infatti la forma stessa,
essendo meramente “formale”, non costituirebbe di per sé un contributo all’essere. Ma per
Tommaso la forma non è un puro contenitore limitante il “flusso” di essere; è invece determinazione all’atto di essere. Per salvare l’unità della creazione, non basta poi dire che essenza ed
essere non sono “due cose” (Cfr. A.L. GONZALEZ, Filosofia di Dio, Le Monnier, Firenze 1988, p.
234); bisogna anche riconoscere il carattere “per se” della loro unione. Il ruolo metafisico della
nozione di forma è essenziale in tal senso. La creazione termina all’essere perché la forma stessa
quale “strumento” della creazione, termina all’essere. La speciale causalità della forma si può
intendere in tutta la sua portata se si ha presente che per l’Aquinate Dio stesso è Forma, anzi Lui
è massimamente Forma (Cfr. ad es. Summa theologiae, I, q. 3, a. 2 e I, q. 13, a. 12, obj. 2). Non
si può approfondire qui la questione: condurrebbe il discorso fuori dai limiti di questo lavoro.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda all’analisi di Rudi A. TE VELDE, Participation and
Substantiality…, cit. Tali precisazioni sembrano comunque utili ai fini del presente studio per
sottolineare che la disamina si svolge nell’ordine dell’essere e non in un ordine puramente “formale o predicamentale” (per usare la terminologia di Fabro, che separa il livello dell’esse o trascendentale da quello della forma o predicamentale).
34 Cfr. anche De potentia, q. 5, a. 3: «Si enim forma ex hoc quod inest materiae, est principium essendi in rebus materialibus, nec res materialis potest non esse nisi per separationem formae; ubi ipsa
forma in esse suo subsistit nullo modo poterit non esse; sicut nec esse potest a se ipso separari».
35 Essere sempre in atto non implica peraltro essere atto puro. La pura forma si distingue nella
creatura dal puro atto, e la forma, che è atto rispetto alla materia, è potenza rispetto all’essere. Va
sottolineato però, che detta potenzialità non è passiva, altrimenti la forma sarebbe separabile dall’essere. La difficoltà nel definire il ruolo metafisico della nozione di forma si riscontra anche in
quegli autori che, pur sostenendo l’inseparabilità di forma ed essere e quindi la necessità di essere di alcune creature – cfr. ad es. ALVIRA-CLAVELL-MELENDO, Metafisica, Le Monnier, Firenze
1987, pp. 98-99 – ne rendono poi inintelligibile il significato quando assimilano la potenza della
forma alla potenza passiva (cfr. ibidem, p. 68). Ma questo è esplicitamente negato da Tommaso,
se così fosse infatti la forma sarebbe corruttibile. Si legge ad es. In de caelo, Lib. 1, lect. 6, § 5:
«Quod autem obiicit [Ioannes Philoponus] virtutem corporis caelestis esse finitam, solvit
Averroes dicendo quod in corpore caelesti est virtus sive potentia ad motum secundum locum,
77
note e commenti
Non possiederanno l’essere in modo necessario solo quelle sostanze che, a causa
della materia e per un conflitto di forme, possono perdere la loro forma. Se infatti la
forma non esaurisce la potenzialità della materia, questa rimane suscettibile di perdere questo essere e di riceverne un altro. È il caso degli elementi o dei corpi misti: in
entrambi i casi la forma non determina totalmente la materia e rimane così in essa la
capacità contraria al suo essere36.
Esistono poi altri due modi – derivati dai principi essenziali – in cui negli enti
creati si dà necessità assoluta: la necessità che deriva dal rapporto che i principi
hanno con le diverse parti della materia o della forma di un composto37, e quella che
deriva dalla relazione dei principi essenziali con le proprietà che seguono la materia
e la forma38.
La disamina proposta dall’Aquinate in Summa contra gentiles II, 30 permette
così di condividere la posizione di chi afferma che «ciò che predomina nella visione
metafisica delle creature in Tommaso è la necessità assoluta»39. Una creatura, solo
per il fatto di essere creatura, non è un essere contingente. Negli enti creati si dà
necessità assoluta di essere e di essere in un certo modo. Le modalità di esistenza di
detta necessità sono molteplici; differiscono rispetto alle diverse cause40.
La nozione chiave di comprensione dell’intera trattazione, è data dal concetto
metafisico di forma. La forma è la causa intrinseca dell’essere della cosa e (in alcune
creature) della sua necessità di essere41.
non est autem virtus sive potentia ad esse, neque finita neque infinita. Sed in hoc manifeste dixit
contra Aristotelem, qui infra in hoc eodem libro ponit in sempiternis virtutem ad hoc quod sit
semper. Fuit autem deceptus per hoc quod existimavit virtutem essendi pertinere solum ad
potentiam passivam, quae est potentia materiae; cum magis pertineat ad potentiam formae, quia
unumquodque est per suam formam. Unde tantum et tamdiu habet unaquaeque res de esse, quanta est virtus formae eius. Et sic non solum in corporibus caelestibus, sed etiam in substantiis
separatis est virtus essendi semper»; e anche Summa contra…, I, c. 20 § 22. L’Aquinate nega qui
espressamente che la forma sia una potenza passiva e utilizza l’espressione virtus essendi che
aiuta a non concepire la forma come qualcosa di puramente passivo rispetto all’essere. Se infatti
è vero che la forma è un puro “ricettore di essere”, e in questo senso è potenza a essere, tuttavia
non basta a spiegare il suo ruolo metafisico affermare che è potenza “per” l’essere; si potrebbe
ancora pensare che sia paragonabile alla materia celeste di Tommaso, che non è potenza passiva
(cfr. Summa theologiae, I, q. 79, a. 2), essendo potenza solo per una forma e quindi inseparabile
da quella forma. Ma l’inseparabilità di forma ed essere è molto più forte; si tratta della causalità
della forma sull’essere. La forma è virtus essendi mentre la materia non è virtus formae!
36 Cfr. De potentia, q. 5, a. 3.
37 Cfr. Summa contra…, II, c. 30: «Quia enim materia propria hominis st corpus commixtum et
complexionatum et organizatum, necessarium est absolute hominem quodlibet elementorum et
humorum et organorum principalium in se habere».
38 Cfr. ibidem: «… sicut necesse est serram, quia ex ferro est, duram esse; et hominem disciplinae
perceptibilem esse».
39 L. DEWAN, St. Thomas…, cit.
40 La considerazione delle diverse cause ha messo così in evidenza come non sia corretto affermare
la radicalità della contingenza nell’essere creaturale.
41 In III Metaphysicorum lect. 4 § 384 Tommaso parla della forma come una delle cause dell’ente
in quanto ente studiate dalla metafisica. Si legge: «Omnis autem substantia vel est ens per seipsam, si sit formam tantum; vel si sit composita ex materia et forma est ens per suam formam;
unde inquantum haec scientia (la metafisica) est considerativa entis, considerat maxime causam
formalem».
78
Federica Bergamino
La considerazione della necessità assoluta di alcune creature ha permesso di mettere in evidenza il ruolo essenziale della forma nell’ente. La forma non è invero solo
limitazione dell’essere42: è invece e soprattutto atto della cosa, causa dell’essere e al
contempo potenza per l’essere e solo a esso. Se una natura è necessariamente, ciò è
dovuto al fatto che è forma.
La relazione forma-essere, evidenziata come intrinseca e inseparabile, permette
altresì di evitare i rischi di una interpretazione della metafisica di Tommaso come
contingentista. Nella visione creazionista dell’Aquinate l’essere non si aggiunge
all’essenza accidentalmente. La composizione essenza-essere dell’ente creato non è
una sorta di associazione per accidens, l’essere è l’atto dell’essenza43 ricevuto ed
effuso nella cosa per la forma.
La considerazione della necessità assoluta delle cose rispetto alle proprie cause
intrinseche, e la relazione rispetto alle cause estrinseche dell’essere (Dio), ha permesso inoltre di mettere in luce come la dipendenza nell’essere da un Creatore, non
solo non sia di ostacolo per la propria necessità di essere, ma ne sia la condizione di
possibilità. La realtà creata, proprio perché dipendente da Dio, ha in sé tutta la virtualità di essere ciò che è. E così la necessità delle cose, invece di compromettere la
trascendenza divina o limitarne il potere, si rivela come conseguenza dell’infinita
efficacia della potenza di Dio che può comunicare una certa invincibilità ai suoi strumenti.
42 La
determinazione propria della forma non coincide infatti con il concetto di limitazione.
Qualcosa può essere determinato e al contempo infinito. Cfr. al proposito le considerazioni di L.
DEWAN, St Thomas…, cit., circa la forma infinita in Tommaso e Summa theologiae, I, q. 7, a. 1.
43 Cfr. L. DEWAN, St Thomas…, cit.
79
80
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1 - PAGG. 81-86
A Note on Two Modal Propositions of Burleigh
LYNN CATES*
■
In De Puritate Artis Logicae Tractatus Brevior, Burleigh affirms the following
propositions:
(1)
Impossibile potest esse verum.
(“The impossible can be true”)1.
(2)
Quod potest esse possibile est impossibile.
(“That which can be possible is impossible”).
I contend that these propositions, subject to my understanding of Burleigh’s interpretation of them, entail, respectively, the denial of the characteristic axiom schema of
S5 (i.e., Mα ⊃ LMα), and of the characteristic axiom schema of S4 (i.e., Lα ⊃ LLα).
1. Denial of the characteristic axiom schema of S5
In explicating the sophism associated with (1), Burleigh notes in the solutio that:
Prima est multiplex secundum compositionem et divisionem. In sensu compositionis est falsa, et denotatur, quod haec est possibilis: ‘Impossibile est verum’. In
sensu divisionis est ulterius multiplex, ex eo quod impossibile potest accipi pro eo,
quod est impossibile, et sic est falsa, vel pro eo, quod potest esse impossibile, et sic
est vera2.
*
1401 E. Rundberg #357, Austin, Texas 78753, Austin Community College
1
2
All translations are mine.
W. BURLEIGH, De Puritate Artis Logicae Tractatus Longior, with a revised edition of the
Tractatus Brevior, Franciscan Institute, St. Bonaventure, New York 1955, pp. 240-1.
81
note e commenti
The first [proposition] is ambiguous according to composition and division. In
the sense of composition it is false and denotes that this is possible: “The impossible
is true”. In the sense of division it is again ambiguous since that which is impossible
can be accepted for that which is impossible, and thus it is false, or [it can be accepted] for that which can be impossible, and thus it is true.
If I understand this claim correctly, a more perspicuous version of (1) would be:
(1’) Quod potest esse impossibile potest esse verum.
(“That which can be impossible can be true”).
What logical sense are we to make of (1’)? It seems that Burleigh wants to say
that some proposition can, at the same time, be both possibly impossible and possibly true – that is, merely possible. Formulated in a formally stated object language,
(1’) becomes:
(1’’) M~Mα • Mα
where ‘M’ denotes the possibility operator and ‘α’ denotes some proposition.
If (1’’) is a correct formalization of (1’), it is easy to verify that this entails the
denial of the characteristic axiom schema of S5 as follows:
{1}
{1}
{1}
{1}
1. M~Mα • Mα
2. ~LMα • Mα
3. Mα • ~LMα
4. ~(Mα ⊃ LMα)
assumption
def. of ‘M’ and double negation
commutation
negation of conditional
Q. E. D.
2. Denial of the characteristic axiom schema of S4
Typically, in a mediaeval sophism, one adduces a probatio (proof), an improbatio
(disproof), and a solutio (solution). These are intended to function respectively as i)
a ground for the truth of what the sophism states, ii) a ground for the falsity of what
the sophism states, and iii) a way of determining what the sophism really states and a
resolution of the problem engendered by the sophism — often by making a distinction with regard to the probatio or improbatio — in such a way as to allow both probatio and improbatio to be true, but one of them with a certain qualification or qualifications added.
In the improbatio of the sophism, Burleigh contends that:
Improbatur sic. Omne quod potest esse verum, est possibile; sed impossibile
potest esse verum, igitur impossibile est possibile. Conclusio falsa, ergo aliqua praemissarum; non minor, ergo maior […] Ad improbationem dico, accipiendo maiorem
82
Lynn Cates
secundum quod vera est, non sequitur conclusio haec: ‘Impossibile est possibile’3,
sed ista: ‘Quod potest esse possibile est impossibile’, et hoc est verum4.
[The sophism] is disproved thus. Everything which can be true, is possible; but
the impossible can be true; therefore, the impossible is possible. The conclusion is
false, therefore, [so is] one of the premises. [But] the minor [premise is] not [false].
Therefore, the major [premise is]… For the disproof, I claim (accepting the major
[premise] according to that which is true) this conclusion, “The impossible is possible” does not follow. But this [conclusion], “That which can be possible is impossible” (and this is true) does [follow].
In claiming that “That which can be possible is impossible” is true, Burleigh
explicitly endorses (2). Stated formally, this amounts to:
(2’) MMα • ~Mα
Again, it is easy to show formally that this entails a denial of one of the characteristic axiom schemata – this time the S4 axiom schema5:
{1} 1. MMα • ~Mα
{1} 2. ~(MMα ⊃ Mα)
assumption
negation of conditional
Q. E. D.
If I have correctly interpreted Burleigh’s two propositions, evidently the denial of
these two characteristic axiom schemata follows. It remains to give some account of
why Burleigh makes this move.
3. The meaninglessness of modal iteration
Unfortunately, my interpretation of Burleigh’s rejection of these modal axiom
schemata runs into a bit of a problem when I seek to account for his motivation of
that rejection. Normally, when one accepts or rejects a modal axiom schema one
does so upon compelling logical or ontological grounds. Does Burleigh have such a
reason, based on his expressed views, for rejecting these schemata? It seems so.
Notice that both axiom schemata require an iteration of a modal operator. Hence, if
one explicitly rejects a meaningful iteration of such operators, one seems forced to
deny the meaningfulness of these axiom schemata. And Burleigh seems to deny the
meaningfulness of such iteration. He argues:
3
4
5
Reading ‘possibile’ for ‘impossibile’.
W. BURLEIGH, o.c., pp. 240-1.
For convenience’s sake I utilize the S4 axiom schema stated in terms of possibility, viz., MMα ⊃
Mα, rather than the more usual statement in terms of necessity, viz., Lα ⊃ LLα. It is easy to verify, however, that these formulations are equipollent.
83
note e commenti
Propositio modalis non potest modificari per modum alicuius, quia sic essent duo
modi. Et tunc, si sit idem modus, erit nugatio. Si diversi modi, vel erit oppositum in
adiecto vel erit nugatio, ut si unus modus sit in plus quam alius, sicut possibile est in
plus quam necessarium6.
A modal proposition cannot be modified through the mode of anything, because
then there would be two modes. And then, if it were the same mode, it would be
redundant; if different modes, either it would be opposite in adjacency, or it would
be redundant, as if one mode is useless compared to another [mode], as the possible
is useless compared to the necessary.
This clever argument directed at the meaningfulness of iterated modal propositions is astonishing, especially when one considers that the very propositions
Burleigh wishes to defend in the sophism above are just such propositions. Clearly,
there must be a tension in Burleigh between these opposing views. How can one best
relieve that tension? I shall examine two possible ways out for Burleigh.
4. An attempted harmonization of Burleigh’s opposing views
First, one could argue that (1’’) and (2’) would be better expressed with tense
operators included in the formalization, so that, for example, the pre-formalized version, (1’), would amount to, roughly:
(1’’’) “What is impossible now, will later become possible”
or vice versa. Similarly, (2) might be expressed roughly (again, prior to formalization) as:
(2’’) “That which is possible at one time is impossible at another time”.
In this way the first possibility operator in the formal version (2’) would stand for
a metalogical predicate, indicating that something can be possible at one time but
impossible at another. On this interpretation, it is not clear that (1’) and (2), by themselves, entail the denial of the axiom schemata of S5 and S4. (Of course, the denial
of the meaningfulness of these axiom schemata would still follow, however, from his
denial of the meaningfulness of modal iteration in general.)
But there is a problem with this interpretation. The wording of the Latin text
seems to preclude (1’’’) as an accurate interpretation of Burleigh’s (1’), for in (1’’’),
the scope of the ‘potest esse’ seems not to include the ‘impossibile’, and hence
seems to rule out its being used to modify it. But it seems clear in (1’) that Burleigh
intends precisely that the modal phrase ‘potest esse’ should operate on the modal
word ‘impossibile’. Consequently the tension in Burleigh’s views remains.
6
W. BURLEIGH, o.c., p. 236.
84
Lynn Cates
A second, and I believe better, try would be to consider (1’) and (2) as modal
characterizations of assertoric propositions — even though such sentences contain
modal words. Burleigh claims that:
Adhuc necessitas vel contingentia potest accipi dupliciter, uno modo ut res, alio
modo ut modus. Quando enim modus est subiectum vel praedicatum in propositione,
tunc accipitur ut res; sed quando est determinatio compositionis, tunc accipitur ut
modus; sic enim dicendo: ‘Hominem esse animal est necessarium’, secundum quod
li ‘necessarium’ praedicatur, accipitur ut res, et non facit propositionem modalem,
sed tunc est propositio de inesse. Sed quando necessitas vel contingentia determinat
compositionem inhaerentiae preadicati ad subiectum, tunc est propositio modalis, ut:
‘Homo necessario est animal’, ‘Homo contingenter est albus’. Et tunc modus non est
praedicatum nec pars praedicati nec est dispositio praedicati, nec etiam est subiectum
nec pars subiecti, nec etiam dispositio subiecti, sed est dispositio compositionis principalis unientis praedicatum cum subiecto7.
Necessity or contingency can still be taken in two [further] ways, in one way [it
can be taken] as a thing, [but] in another way [it can be taken] as a mode. For when
the subject or predicate in a proposition is a mode, then [the modal word] is taken as
a thing. But when [the modal word] is a determination of the composition, then [the
modal word] is taken as a mode. For by saying thus: “That man is an animal is necessary”, according to which ‘necessary’ is predicated, [the modal word] is taken as
a thing, and it does not make the proposition modal, but in that case it is an assertoric
proposition. But when necessity or contingency determines the composition of the
inherence of the predicate to the subject, then it is a modal proposition, as: “Man
necessarily is an animal”. But then the mode is not a predicate, nor a part of the
predicate, nor is it a disposition of the predicate, nor is it even the subject nor a part
of the subject, nor even a disposition of the subject, but [instead] it is the disposition
of the main composition uniting the predicate with the subject.
Given the view above, Burleigh might allow (1’) and (2) to be meaningful8. So
one would have to read (2), for example, as:
(2’’’) “It is possible that something9 is possible, but is in fact impossible”.
On Burleigh’s view, (2’’’) would contain but one modal word as a ‘thing’ and the
remainder of the proposition would be assertoric10. One could then argue that the
characteristic axiom schemata of S4 and S5 would still be disallowed by Burleigh —
not because his propositions entail their denial but because these schemata are usually expressed as iterated adverbial modal propositions: ‘necessarily necessary’, ‘necessarily possible’, and so on, and these — insofar as they represent genuine modali7 Ibidem, pp. 234-5.
8 Ibidem.
9 The “thing” in question here must
10 W. BURLEIGH, o.c., pp. 234-5.
almost certainly be a proposition if (2’’’) is to make any sense.
85
note e commenti
ties and not ‘things’ — are subject to his analysis of modal iteration and consequently are meaningless. On this interpretation, Burleigh could both deny modal iteration
— understood as adverbial iteration — and yet hold (1’) and (2) as meaningful since
they would be non-adverbial modalizations of assertoric propositions, and hence
they would not really be modal at all, but rather the modes would be ‘things’.
This solution, however, has its flaw, for in contemporary logical theory, (2’’’)
would be properly formalized by (2’), and would not differ from the claim that some
sentence is both possibly possible, and impossible. And in that case it is not clear
how one ought to formalize these propositions to reflect the difference in adverbial
and non-adverbial modes, since there seems to be no such contemporary distinction
in formal logic. Put simply, if one lets the first modal operator, in a pair of modal
operators, stand for a metalogical remark about a sentence containing a modal word,
the formalized result would be the same as if one applied an adverbial modal word to
an adjectival or nominal modal word. To take a simple example, suppose I were to
claim that:
(3)
“2 + 2 = 4 is necessary”.
Now suppose I claim further that the truth of (3) holds only in light of God’s will
and that once God wills something it is eternally true, and what is eternally true is
necessary. So, I could contend that:
(3’) “It is necessary that (3) be true”.
But this seems to me to amount to the same claim, logically, as:
(4)
“It is necessarily necessary that 2 + 2 = 4”.
And if (3’) is logically equivalent to (4), Burleigh may not be able to resolve the
tension in his claims in the manner I have suggested, even if he thinks he can.
In summary, then, Burleigh affirms two propositions which entail the denial of
the S4 and S5 axiom schemata, while denying the meaningfulness of modal iteration. Since the propositions he affirms rely precisely on such iteration, a tension
develops between these views. In relieving that tension, Burleigh may have recourse
to a distinction between adverbial and non-adverbial modalities (which, in my considered opinion, is surely his actual “solution” to the problem), but then it is not clear
how he can avoid this distinction from collapsing, leaving unresolved the tension in
his position11.
11 I
would like to express my thanks to Professor I. Angelelli for helpful comments on an earlier
draft of this paper.
86
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1 - PAGG. 87-96
St. Thomas and the Causes of Free Choice
LAWRENCE DEWAN
■
The stimulus to compose this paper came from my reading of David Gallagher’s
paper, entitled “Free Choice and Free Judgment in Thomas Aquinas”1. Gallagher
presents Thomas on free choice at considerable length, following the doctrine
through the De veritate and the Contra gentiles to the De malo and the Prima secundae. Choice is seen as something which follows upon knowledge, but in order for
choice to be truly free, the will itself must control that knowledge, i.e. must somehow determine what aspect of things the intellect as source of specification of the
choice considers. How can this be? Will we not get into an infinite regress of acts of
intellect and acts of will [275]? Gallagher’s first principle is that the will must be primary in the situation. His ultimate solution is to stress the simultaneity of the acts of
intellect and will. We read:
It is true that the intellectual activity of deliberation precedes the will’s movement in choice, but the determining consideration of the will’s object is that
which arises in the choice itself and which arises through the agency of the will.
The will is said to “follow” reason not in a temporal sense, but only insofar as its
act receives its formal determination from reason. Thus the “prior” act of the will
by which reason is moved from one consideration to another is in fact the act of
choice itself. There is no series of acts and so no regress. [276, my italics].
He also stresses the unity of the human being, so that one does not have such a
strong picture of one power’s acts causing another power’s acts2. In the end, he seems
to think he has avoided presenting Thomas’s choice as something irrational [277].
*
College Dominicain, 96 Empress Ave., Ottawa ON K1R 7G3
1
D.M. GALLAGHER, Free Choice and Free Judgment in Thomas Aquinas, «Archiv für Geschichte
der Philosophie», 76 (1994), pp. 247-277. I refer to places in this paper simply by page number
in my own text.
2 St. Thomas himself certainly exploits the unity of the human being for an understanding of the
relations between intellect and will; cf. the very important Summa theologiae 1-2.17.5.ad 2, on
how the will, an appetite, understands a command from the intellect.
87
note e commenti
I am far less sanguine than Professor Gallagher about his success in this regard.
For one thing, Thomas himself seems to take great interest in the causal relations
among the acts of the powers. Consider, for example, the way he answers an objector
who notes that St. John Damascene calls deliberation an “appetite” (Thomas’s own
position being that deliberation is substantially a cognitive act):
… when the acts of two powers are ordered one to another, there is in each something that pertains to the other power; and so either act can be given a name from
either power. But it is evident that the act of reason directing as regards things
which are for the goal [in his quae sunt ad finem], and the act of the will tending
towards those things in accordance with the rule of reason, are ordered to each
other. Hence, in [that] act of the will, which is choice, there appears something of
reason, viz the order; and in the deliberation, which is the act of reason, there
appears something of will, as matter, because deliberation is about those things
which a man wills to do; and also as source of movement [sicut motivum],
because by the fact that the man wills the end, he is moved to deliberate about
those things which are for the end. And so the Philosopher says in Ethics VI
[1139b4] that “choice is appetitive intellect”, that he may show that both concur
for choice; and so also Damascene [De fide orthodoxa II.22 (PG 94.945)] says
that “deliberation is inquisitive appetite”, that he may show that deliberation in a
way pertains both to will, concerning which and starting from which there is
inquiry [circa quam et ex qua fit inquisitio], and to the inquiring reason3.
What I admire and stress in this text of Thomas is his care in distinguishing two
different roles of will, one as prior and one as posterior to reason, and the entirely
causal nature of the analysis. There is a series and very explicitly so.
To back away from this diversity within the human agent seems to me a highly
questionable move if the goal is to interpret Thomas. But, most of all, I believe that a
close reading of Thomas reveals a different line of thinking than one gets from a
reading of Gallagher. My aim in what follows is to suggest that line of thinking.
1. Will as self-mover through deliberation
Since the writings of Thomas on free choice are so extensive, and since there is
even talk (and on Gallagher’s part [249]) of a development of doctrine in this matter,
I will “begin at the end”, so to speak. I will take as my guide the De malo, q. 6 presentation. Here, we have a disputed question on the express issue of human freedom
of choice, and one which all see as pertaining to the later writings. Thomas is
answering a need during the Averroïst crisis of about 12704. One would expect that,
3
4
THOMAS AQUINAS, Summa theologiae [henceforth “ST”] 1-2.14.1.ad 1. My italics.
THOMAS AQUINAS, Quaestiones disputatae de malo [henceforth “DM”], in Opera omnia, t. 23,
Rome/Paris, 1982: Commissio Leonina/Vrin, p. *4. These notes on the date of q. 6 and the rest
are by L.-J. Bataillon, O.P. [cf. p. *68].
88
Lawrence Dewan
if there has been development, Thomas will have “gotten it together” by this time
and will carefully display the key issues surrounding human choice.
Still, I will not depend exclusively on DM 6, but will also use the ST 1-2.8-17, on
the will’s elicited and commanded acts. In fact, this study by Thomas of the types
and gradation of acts of the will is the primary thing to consider, and I am using DM
6 only as a kind of key framework for the free choice issue.
The question bears on human choice, “electio humana”: whether the human
being has free choice of his acts or chooses of necessity. Choice is viewed as an
event, a movement, in the human being, and the question bears on the mode of production of that event or movement. In the body of the question, the positive teaching
focuses on the principle or source of one’s acts. The principle within the human
being is compared to and distinguished from the principle in (a) things which altogether lack cognition, “natural things”, and (b) also brute animals. What is the same
in all is that inclination follows upon form: i.e. there is a form which is the principle
of action, upon which form follows an inclination: from these the action follows.
What is different is the universality of the form in the human intellect, as contrasted
with the form individuated by matter in the lower things. Because of this universality
of the form, the inclination of the will is indeterminate as regards many; Thomas
uses the example of the architect who conceives the form of the house, universally,
under which are included diverse shapes of house, so that his will can be inclined to
making a square house or a round one or some other shape.
This, then, is the first consideration of all: the indetermination of the will’s inclination, based on the universality of the intelligible form.
Secondly, we discuss the movement which can be visited upon the powers of the
soul (our interest ultimately being in a movement in the power of the soul called
“will”, a movement called “choice”). There are two aspects under which a power is
movable, specification (doing this or that) and exercise (acting well or not so well,
acting or not acting at all). Specification, in nature, comes from the object, something which pertains to the formal order. Intellect, having as its object “that which
is” or “the true” (the supreme item in the order of form), has the supreme object, and
so has the primacy in that “movement” of powers called “specification”. Exercise, in
nature, comes from the agent which sets a thing in motion; and since every agent
acts for an end, the power of the soul which has as object the end as such is supreme
in the order of exercise. This power is the will, which moves even the intellect to act
or not act. Indeed, the will, as supreme in the order of exercise, is able to move itself
in that order.
Thirdly, and, as it seems to me, most important for our purposes, Thomas investigates whether the will, in putting itself into that movement which is a choice, gives
itself a necessitated movement or a free movement.
This part of the discussion bears upon the exercise of acts. The first thing Thomas
points out is the will’s ability to move itself, just as it moves the other powers. This
is considered through a sort of possible objection: does not “moving oneself” mean
that one and the same thing will be both in act and in potency, an impossibility? No,
says Thomas: just as the intellect knowing principles moves itself to conclude, so the
89
note e commenti
will, actually already willing something in act, moves itself to will something else in
act. We get the description of the willing of health, the deliberation about things that
can confer health, and ultimately the willing of the swallowing of the medication.
The first act of the will Thomas also describes as “willing to deliberate” [… ex uoluntate uolentis consiliari.]. [DM 6, Leonine line 377]
It is this picture of the will bringing about, itself, the movement of willing, by
means of deliberation, which is used to answer the question: movement, i.e. exercise,
of the will, free or necessary? The key is the nature of deliberation. Deliberation is
not a demonstrative inquiry, but one allowing of coming to opposite conclusions.
Since this is the proper means by which the will moves itself, the movement which it
imparts to itself is not necessarily this or necessarily that (not even “to choose” or
“not to choose”)5.
Here I might digress slightly to note two things. One is the causal structure of
producing an act of choice. Just as in ST 1-2.9.3, which asks whether the will moves
itself, so here we have the insistence on the two roles of the will itself: agent and
patient. By means of one act already present (willing the end), it produces another
act, a “moved movement” which is precisely the choice. And this is in harmony with
the general doctrine of ST 1.60.2, on the act of love in angels and human beings, that
all elective loving is caused by our natural love6.
Secondly, this focus on the nature of deliberation and its proper object, the contingent, concerning which reason can come to opposite conclusions, is found both in
ST 1-2.13.6 (“whether man chooses freely or of necessity”) and in ST 1.83.1, on
whether man has free choice. Indeed, in the 1-2 text, the power of reason to view
particular contingents in a variety of ways is made the explanation of the freedom in
both the order of specification and the order of exercise.
2. The need for an exterior mover
To come back to DM 6, no sooner is the solution proposed, however, than we are
reminded that the will is not always in the act of “willing to deliberate”. Thus, it
must be moved to that act, and if by itself, the act of doing so will require a previous
deliberation. Thus, Thomas himself sees his solution as, in itself insufficient, i.e. as
in itself leading to an infinite regress. How does he solve this problem? He tells us
that the only solution is to posit the first act of the will as coming from some exterior
agent (this bestowed first act presumably incorporates willing the end and willing
5
The argument is very definite. We read: Cum igitur uoluntas se consilio moueat, consilium
autem est inquisitio quedam non demonstratiua set ad opposita uiam habens, non ex necessitate
uoluntas se ipsam mouet. [lines 377-381].
6 We read: «… the will naturally tends towards its own ultimate end; for every human being naturally wills beatitude. And from this natural willing are caused [causantur] all other willings;
since whatever a man wills, he wills because of the end. Therefore, the love of the good which
man naturally wills as an end is natural love; the love derived from this, which is of the good
which is loved because of the end, is elective love [dilectio electiva]». [ST 1.60.2 (363b1-11)].
90
Lawrence Dewan
the deliberation to attain it)7. While some people have thought that this could be a
celestial body, Aristotle rightly saw that it must be something superior to will and
intellect, namely God.
The last touch on this solution is to point out that God moves things in accordance
with what befits the nature of the moved thing. It is God who gives light things movement upwards in accordance with their form and heavy things downward movement
in accordance with their form or nature. Thus, the movement he gives to the will in
making it a source of the movement to move itself is the proper act of the will, i.e. a
movement towards the universal good which remains indeterminate as regards particular goods […indeterminate se habentem ad multa…] [lines 414-415].
This, then, is Thomas’s general answer as regards the exercise of the act of the
will. Because the will gives itself movements by means of deliberation, a nondemonstrative inquiry, the resulting movements are not necessitated but optional.
And while this requires that there be at the beginning of the will’s acts a movement
of which it is not itself the source, nevertheless that movement from God is of a
nature to assure that the resulting self-imposed movements will remain optional. (In
ST 1-2.10.4, we have an article devoted especially to the non-necessitating character
of this outside influence8. In ST 1.82.4.ad 3, it is notable that God as the outside
mover of the human willing agent is called, not merely the principle of the human
acts of understanding, but of the acts of deliberating: “…principium consiliandi et
intelligendi…”).
In Gallagher’s presentation of St. Thomas, one escapes from infinite regress by a
doctrine of simultaneity of the contributions of intellect (specification) and will
(exercise). There is no mention of the need to go outside the human being for a
coherent account of human freedom. I wish to pose the question: can human freedom be understood, according to Thomas, unless it is understood as moved from
without? I think not.
3. Freedom of choice and the object of deliberation
We come now to what, in my counting, is a fourth step, the examination of the
movement of the will as regards “determination” or “specification” of its acts: is
there necessitation of the acts of the will from this angle, or are all acts free from this
7
I say “only solution” because Thomas argues that the external mover is a necessity. We read:
…Sed cum uoluntas non semper uoluerit consiliari, necesse est quod ab alio moueatur ad hoc
quod uelit consiliari; et si quidem a se ipsa, necesse est iterum quod motum uoluntatis precedat
consilium et consilium precedat actus uoluntatis; et cum hoc in infinitum procedere non possit,
necesse est ponere quod quantum ad primum motum uoluntatis moueatur uoluntas cuiuscumque
non semper actu uolentis ab aliquo exteriori, cuius instinctu uoluntas uelle incipiat. [lines 381391].
8 As can be seen from other contexts, God’s ability to provide an effect with its proper mode,
either of necessity or of contingency, follows from his being the cause of being as being, necessity and contingency being the properties or differences of being as being; cf. In Metaph. 6.3
(#1220); In Perihermeneias 1.14 [Leonine lines 437-461]; and cf. ST 1.22.4.
91
note e commenti
point of view? Not surprisingly, just as the focus in discussing exercise ultimately
was on the object of deliberation, so also here the question is: what is the sort of
object which moves the will? First, we have the general point that the object of the
will is the apprehended good and fitting item. It is not enough for something to be
good; it must be fitting. “Fitting” here seems to mean “for me”, i.e. for the subject
who does the willing. However, Thomas goes further, reminding us that since actions
are with regard to singular and contingent things, “particulars”, it is only the particular good and fitting item which will be an object of choice: i.e. what is good and fitting for me here and now. In this way, approaching the objects of choice, we ask
whether there can be necessitation of the movement of the will. The answer is yes: if
there is presented to the mind an object which in every respect, in all particulars, is
good and fitting, the will cannot will its opposite. This is the case with the object
called “beatitude”, i.e. the state rendered perfect by the assembling of all goods.
However, Thomas is quick to remind us that this necessity is in the order of specification, the domain of “this or that”. This means that the opposite object cannot
move the will to produce a choice. Nevertheless, the will is not necessitated to will
beatitude (i.e. “exercise the act”), since the human act of willing is a particular good
which need not be chosen. Let us notice that once again, it is the nature of the object
of deliberation which makes possible this doctrine: reason can come to opposite conclusions about contingent particulars.
Having considered the unique case of beatitude, Thomas goes on to all the other
particular contingent good and fitting items, as regards specification. If the object
under consideration is such a good as is not found to be good as regards all particulars which can be considered, it will not move the will, even as regards determination of the act: someone can will the opposite, even while thinking about it. The
opposite can be “good and fitting” in consideration of some other particular: what is
good for health is sometimes not good for pleasure. - Again, we see that it is the
object of deliberation, as regards its very nature, which makes for freedom. (God
does not deliberate, but he knows the objects of deliberation without having to deliberate9).
We have not yet finished the issue of specification. Indeed, we come to a most
interesting consideration by Thomas. I would say that it bears most directly on the
problem which is truly involved in free choice as seen by Gallagher. Deliberation
offers us many good particulars. Why does the will (seeking the end) prefer this one
to that one? Clearly, it is the will which make the decision, just as Gallagher contends. However, everything depends on how we see the will placed in making the
decision. It is the will as agent in the self-movement, i.e. the will which will confer
upon itself the movement towards a means, the will as intending the end, and seeking
reasonable means (i.e. deliberating), which is considered10. It is not the will as
9
Cf. ST 1.19.3 [ed. Ottawa, 133a17-32]: God creates freely, because created being as such has the
status of a merely optional ad finem item, relative to the expression of the divine perfection; i.e.
it has the status of an object of deliberation.
10 On the nature of the act of intention, cf. ST 1-2.12, especially 12.4.ad 3, on the difference
between intention and choice.
92
Lawrence Dewan
undergoing the movement of choice. There is every reason to consider a series of
acts of will, and a causal series at that.
In any case, Thomas, now considering the resulting movement in the will, the
moved movement, the choice, says:
… And that the will is borne towards [feratur in] that which is offered to it more
according to this particular condition than according to another, can happen in
three ways.
In one way, inasmuch as one [particular condition] is preponderant; and then the
will is moved in accordance with reason: for example, when the man gives the
nod [preeligit] to that which is good for one’s health [id quod est utile sanitati]
over that which is pleasant [utile uoluptati].
In another way, inasmuch as one thinks of one particular circumstance and not of
another; and this happens mostly through some surprise appearance [occasionem], shown [to him] interiorly or exteriorly, such that that thought occur to
that [person].
In the third way, it happens because of the disposition of the man: because, as the
Philosopher [Aristotle] says: “Given that a person is such, the end will appear to
that person in such wise;” thus, the will of an angered person and the will of an
untroubled person will be differently moved regarding something, for the same
thing is not “fitting” [conueniens] for both; just as food is differently welcomed
by a well person and a sick person.
Here, then, we have what we might call “the general problem of the disposition”.
Thomas now goes on to explore its variety as regards the question: what necessitates
the movement of the will, as regards specification of the act?
If the disposition in question is natural, one not subject to the will, then the will
prefers that by natural necessity: thus, all human beings naturally desire being, living, and understanding. If the disposition is such that it is not natural, but subject to
the will, as for example when someone through habit or passion is so disposed that
something seems to him good or bad in its particularity, its moving of the will will
not be necessary: because he would be able to get rid of the disposition, so that the
thing not appear so; for example, when someone quiets the anger within himself so
as not to judge the way an angry person would. - Thomas notes that it is easier to get
rid of a passion than a habit.
Thomas concludes that there are some objects by which the will is moved of
necessity, but this is not true of all. And his last word is that still, on the side of exercise of acts, the will is not moved of necessity. - Thus, all of this last consideration, so
close to the Gallagher interest, comes under the heading of the specification of acts.
It seems to me that the most important point in this doctrine of the will and its
following of deliberation is the first way the will is seen as responding, i.e. in fol-
93
note e commenti
lowing that good item which has preponderance from the viewpoint of reason itself.
This is will operating as will, i.e. as the appetite which accompanies intellect or reason as such, and as desiring the true ultimate end. The other key consideration is the
case of the will considering things inasmuch as bad habituation is ruling the deliberation (the nature of an imprudent act). The simple point here is that there is no necessitation since one can eliminate the habit or passion before acting. Of course, this
would require a prior deliberation, thus getting one into a regress until one is moved
by an outside mover11.
I have now followed out the DM 6 main reply. What seems to me central is the
role of deliberation as the proper instrument of the will as self-mover: the proper
object of deliberation and the power of reason to discern it is the key to the doctrine
of free choice.
4. Toward an adequate account of deliberation
Here I might add two notes of commentary on Gallagher’s paper. One has to do
with his conception of a sort of “gap” between the conclusion of deliberation and the
performance of the choice. The other is related to that, namely that I think we should
give more attention to the doctrine of consent and to the picture of “superior reason”
(the domain of “ultimate deliberation”) as the “part” of us responsible for consent.
Seeking to know how the will controls the consideration of the object of choice,
Gallagher eventually comes to deliberation, but only to present it as considering “all
options” [269]. Thus he says:
… Nevertheless, consideration [270] of this sort does not specify choice, since
the good aspects of only one option actually perform that role. Hence, it is only
the consideration in the choice itself which does so, and this can occur only when
the will moves itself to the choice; there is no specification until there is exercise.
[269-270, his italics]
This is inadequate, in that he should here be going into the distinction between
consent and choice (alluded to briefly in his n. 58, p. 269). But most of all, he should
not cut off the judgment and command operative in the choice from the preceding
deliberation. He should bring in all the phases discussed by Thomas in the acts pertaining to prudence: cf. e.g. ST 2-2.51.2: deliberation, judgment, and command. All
of this is the work of deliberating reason12. All of it is prior to the act of choice,
properly considered13.
11 Cf.
especially ST 1-2.9.6.ad 3: not only does God give the universal inclination without which a
man does not will anything, but God also “sometimes” specially moves some to a determinate
act of willing a particular good, as when someone is moved by grace.
12 See especially ST 1-2.17.5.ad 1: reason (under the influence of the will) only truly commands
once it has gone beyond a fluctuation between commanding and not commanding.
13 Cf. ST 1-2.15.3 [797b18-22]: «… appetitus eorum quae sunt ad finem, praesupponit determina-
94
Lawrence Dewan
Still, Gallagher’s point that the will must be exercising a control on the deliberation
is correct, and relates to the doctrine of higher reason and consent. This is St. Thomas’s
picture of consent as falling under the supreme judge within us, the ratio superior
which is both reason (or intellect) and will, as turned towards the ultimate end14.
To conclude: I think it is unsuitable that almost nothing is said of the true role of
deliberation [consilium], which as a non-demonstrative source of conclusions, is the
proper answer for Thomas, as regards why the will is free in its choices15. Nor is the
properly Thomistic answer to how the will controls its deliberations given, i.e. that it
does so by virtue of prior deliberation and so ultimately needs an outside mover.
The conclusion of Gallagher’s article strangely speaks of “simultaneity” as a
help, and warns us against seeing one power as acting on another. Yet that one power
act on another seems of the very essence of the Thomistic discussion16. One would
never know it from Gallagher’s presentation, but the ST 1-2 expressly gives us a
line-up of acts, some belonging to the intellect, some to the will, with causal interaction as the key to understanding the outcome17.
I wonder if more attention ought not to be given to our rational nature, i.e. as
involving a layering of events, some universal, i.e. all-invading, with respect to
other, more particular acts18. In a sense, Gallagher’s question is: how do we conceive of the act of ratio superior? It seems that it should be a kind of syllogistic
event, i.e. an event with an inner cause-effect structure, with the principles being
seen as principles of the conclusions. The eye of wisdom includes both principles
and conclusions and the relation between them.
Appendix
I find a most explicit and useful text in In Perhermeneias 1.14 [Leonine lines
462-519, concerning Aristotle at 19a7-8; and cf. Leonine lines 100-123]. Thomas is
defending Aristotle’s focus on deliberation as a root of contingency (the other root,
for contingency in nature as distinguished from human affairs, is matter in potency
to both of a pair of opposites; cf. Leonine lines 191-195). The objection is posed
that, if the will has the good as its object, then it will have to opt for what seems
good to it, and so choice, as following upon deliberation, will come about of necessitionem consilii. Et ideo applicatio appetitivi motus ad determinationem consilii, proprie est consensus».
14 Cf. ST 1-2.15.4. Prudence is of course dependent on the will willing the true ultimate end, and
the will cannot be truly virtuous unless it has at its service prudent deliberation: ST 1-2.65.1
[1047b5-29].
15 Cf. ST 1-2.17.1.ad 2: the will is the subject in which liberty is found, but the cause of the will’s
liberty is reason, reason as able to have diverse conceptions of the good.
16 ST 1-2.17.1; 17.4.ad 1.
17 See especially ST 1-2.15.3, showing that consent has as object the ad finem as such; the explanation of the sequence of acts in our practical life is spelled out in this article.
18 Reason is able to issue commands regarding its own acts because of the diversity of objects
which fall under the act of reason; reason participates in itself, as we see when the knowing of
the conclusion participates in the knowing of the principles: ST 1-2.17.6.ad 2.
95
note e commenti
ty. Thomas answers by focusing on the nature of the object of deliberation as such.
We read:
… But particular goods, with which human actions have to do, are not such [as
those without which one could not be happy], nor are they apprehended under
that aspect that without them there could not be happiness, for example to eat this
food or that, or to abstain from it, yet they have in them what it takes to move the
appetite, in function of some good considered in them; and so the will is not
induced to choose them of necessity. And for this reason the Philosopher expressly [signanter] assigned the root of contingency in those things which are done by
us to deliberation [ex parte consilii], which has to do with those things which are
ordered to an end and nevertheless are not determinate; in the domain of those
things wherein the means are determinate there is no work for deliberation, as is
said in Eth. 3 [1112a34-b9].
96
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1 - PAGG. 97-110
Menzogna e veracità: un problema risolto? Commento ad
una tesi del filosofo Antonio Millán-Puelles
GIORGIO FARO∗
■
1. Impostazione del problema
Il presente saggio-commento vuole da una parte ribadire quel principio etico fondamentale che prescrive la necessità di evitare qualsiasi menzogna, in quanto azione
intrinsecamente cattiva contro la dignità della persona, sempre e comunque, a prescindere da circostanze e conseguenze. Dall’altra, vuol rilevare che, se non si apporta un’adeguata definizione di menzogna, ciascuno di noi si rende perfettamente
conto di essere il primo a non attenersi a questo precetto, nell’esperienza della vita
quotidiana. Quanti scrupoli, infatti, se cominciamo a riflettere sul fatto che questo
principio non ha eccezioni; che, insomma, non si può “mentire a fin di bene”, poiché
il fine, per quanto buono, mai potrà giustificare l’uso di un mezzo intrinsecamente
cattivo. Di conseguenza, risulta arduo definire anche la stessa virtù della veracità,
strettamente connessa al divieto di mentire.
Questa difficoltà ad integrare teoria e prassi ha trovato eco anche tra grandi filosofi del passato, tra cui lo stesso S. Agostino, come vedremo più oltre. Come dunque
preservare il principio suesposto, senza renderlo utopico, ovvero non vivibile da una
persona comune nella sua vita ordinaria? Come evitare un rigorismo assoluto e cieco
(cui inevitabilmente sembra tendere, ad esempio, Kant) che non esita a contrapporsi
al comune senso della vita, senza svuotare di significato, al contempo, quel precetto
che ci esige di non ricorrere per alcun motivo alla menzogna e di cui ognuno, intuitivamente, avverte la fondatezza?
È chiaro che, in questo saggio, escludiamo tutto il filone di pensiero caratteristico
dello scetticismo gnoseologico, a base empirista-nominalista (per il quale la verità
certo esiste, ma risulta inconoscibile all’uomo); per esso, la presente tematizzazione
è del tutto indifferente, dal momento che il concetto inafferrabile di “verità” si tra∗
Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma
97
note e commenti
svaluta in quello di “utilità” o “piacere”. La problematica trattata riguarda, piuttosto,
lo spiritualismo ed il realismo filosofico, nonché, e non mi sembra poco, il senso
comune di ogni persona che, da sempre, coglie l’importanza di questo principio, a
prescindere dalle considerazioni dei filosofi di professione. Tema, dunque, sempre
attuale per l’uomo comune, necessariamente interessato all’agire pratico e bisognoso
di criteri attuabili nella vita.
Antonio Millán-Puelles sembra offrire una risposta forte a questi interrogativi
attraverso un suo recente pregevole libro, il cui ultimo capitolo, intitolato Le dimensioni etiche della comunicazione della verità, propone un’interessante argomentazione per superare l’antinomia tra inderogabilità del precetto e vita pratica1. Il filosofo
spagnolo ha infatti avanzato una precisa definizione di menzogna, distinguendola da
quella di comunicazione ingannevole. Vedremo che non si tratta di un mero gioco di
parole e ci accingiamo ad offrire al lettore un minimo di lessico specializzato per
penetrare l’argomento; non prima, però, di fornire un’ampia citazione di Robert
Spaemann che può riepilogare quanto esposto finora e stimolare l’interesse allo sviluppo del tema. Il filosofo tedesco nota come la menzogna, intesa quale inganno
volontario perpetrato dal comunicatore, in base ad un fondato rapporto fiduciario nei
confronti del destinatario del messaggio, sia stata dichiarata sempre ingiustificabile
(unverantwortlich). Tuttavia, riconosce anche che ci sono state sempre divergenze di
opinioni tra moralisti, riconducibili alla carenza di un adeguato concetto di linguaggio (che, come vedremo, Millán-Puelles si propone di risolvere). Spaemann asserisce
che «al discorso umano è infatti pertinente non solo un soggetto emittente e la parola
da lui espressa, ma anche un destinatario e la modalità con cui questi recepisce il
messaggio linguistico. Raccontare favole non è mentire. Perché un discorso veritativo abbia pienezza di senso, occorre che sia recepito come tale dal destinatario.
L’avversario in guerra, l’ispettore di polizia che domanda se ho nascosto qualche
latitante, non si trovano nei riguardi dei rispettivi interlocutori in quel rapporto etico
di fiducia richiesto da ogni discorso sincero. È noto come sia possibile confondere
una persona, convinta fin dal primo istante che io stia mentendo, proprio dicendole
la verità; ma dove esiste un effettivo rapporto di fiducia, dove colui che domanda ha
tutto il diritto di aspettarsi che gli venga detta la verità (come il paziente da parte del
medico, o il coniuge o un amico da parte del compagno), allora è veramente lesivo
della dignità umana non dire la verità, anche se per una comprensibile considerazione umanitaria […]. La menzogna — dice Kant — è prima di tutto una mancanza di
responsabilità verso sé stessi, poiché distrugge quell’identità costitutiva di uomo
interiore e uomo esteriore, in cui consiste l’autorelazione etica»2.
1
Il capitolo in questione conclude l’opera di A. MILLÁN-PUELLES, El interés por la verdad, Rialp,
Madrid 1997, pp. 294-334. Nelle successive citazioni, userò la sigla IPV per indicare tale testo.
Inoltre, per distinguere le citazioni di chi scrive da quelle utilizzate dal filosofo spagnolo, segnalerò sempre queste ultime rinviando a IPV.
2 R. SPAEMANN, La responsabilità personale ed il suo fondamento, in AA.VV., Etica teleologica o
etica deontologica, CRIS, 49/50, Roma 1983, pp. 19-20.
98
Giorgio Faro
2. Strumenti definitori e lessico usati per una soluzione
Per affrontare la questione è indispensabile l’uso di definizioni chiare dei termini.
Pertanto, da quanto ho desunto dalla citata opera di Millán-Puelles, mi sembra
opportuno ordinare, distinguere ed integrare le seguenti definizioni:
a) verità (posseduta intellettualmente, sia essa oggettiva o soggettiva)3;
b) veracità come virtù; ossia, in prima approssimazione, l’abito consolidato di
esprimere come vero ciò che reputo vero, o come probabile, dubbio o falso ciò che
reputo rispettivamente tale;
c) comunicazione della verità, che può essere ingannevole o meno; e non solo per
il contenuto, ma anche per il modo di porgerlo al destinatario;
d) inganno, ovvero far credere ad altri di ammettere ciò che intimamente non
ammettiamo, o viceversa; oppure, indurre altri ad ammettere ciò che intimamente
non ammettiamo, o viceversa (logicamente le due formulazioni non si escludono).
Come si rileva, la definizione di veracità proposta è, per ora, solo approssimata.
Definire direttamente ed univocamente la veracità come virtù, ossia come comportamento sempre buono, non è tanto agevole. Resta comunque inteso che la veracità
non consiste nel comunicare tutto ciò che riconosciamo vero (svelare il segreto professionale, la critica tagliente che evidenzia ad altri un errore o un difetto alle spalle
dell’interessato, ecc., sono considerate gravi mancanze etiche). Inoltre, «non tutti
quelli che dicono la verità per questo compiono un’azione buona. Possono dire la
verità con amore perché vogliono bene a qualcuno, oppure possono usarla come
un’arma, mossi da intenzioni infami»4.
La veracità presuppone un’altra virtù: la naturalezza. Tale virtù, applicata alla
veracità, consiste nel percepire che «ci sono cose che non si dicono perché non si
devono dire; e cose che si dicono perché si devono dire»5. A sua volta, la naturalezza
è integrata da altre due virtù essenziali.
Innanzitutto la prudenza, che rende naturale non rivelare ad altri qualcosa che
potrebbe essere male interpretato o non compreso dal destinatario, o che non è
opportuno rivelare in un determinato momento o anche mai (come, ad esempio, la
confidenza intima di un amico); poi la giustizia, che viene meno, ad esempio, quando si infrange il segreto professionale della propria azienda. Infine, la carità (l’amore
al prossimo), che ci porta a tacere — ad esempio — un aspetto negativo di una persona, per evitare che altri, in base a quel difetto, se ne facciano un’idea sbagliata;
nonché ad intervenire privatamente, nei suoi confronti, per manifestargli il difetto in
questione, di cui forse nemmeno è consapevole, ma che potrebbe indurre altri a mal
giudicarlo e comunque a danneggiarlo, non rivelandoglielo.
3
Circa la presenza della verità principalmente nell’intelletto, Aristotele afferma che «il falso ed il
vero non si trovano nelle cose stesse — come se il buono, ad esempio, fosse vero ed il male
falso — ma soltanto nella mente» (Metafisica, I. VI, c. 5 (BK 1027b); idea ribadita anche da
Tommaso d’Aquino, quando afferma che «così come il vero si trova principalmente nell’intelletto che nelle cose, a sua volta si trova maggiormente presente nell’atto del giudizio intellettuale
che nella semplice apprensione» (De Veritate, q. 1, a. 3).
4 R. SPAEMANN, Concetti morali fondamentali, Piemme, Casale Monf. 1993, p. 110.
5 GREGORIO MAGNO, Regula Pastoralis, 2, 4.
99
note e commenti
Millán-Puelles afferma che, contrariamente a qualsiasi altra virtù la cui definizione è sempre e solo positiva, ogni definizione di veracità — a suo parere — contiene
sempre una qualche esclusione negativa. Così appare dalla formulazione di veracità
che lui stesso esplicita come segue: «la veracità è la rettitudine etica propria di chi,
nel manifestare ciò che effettivamente ammette, non vuole recare nessun innecessario pregiudizio ad altri o a se stesso»6. Ciò induce il filosofo di Cadice ad affermare
che questa è l’unica virtù che si può intuire con chiarezza solo indirettamente, attraverso il precetto negativo del “divieto di mentire”. In effetti, nel Decalogo (che
peraltro non è un elenco di virtù) si legge: «non dire falsa testimonianza».
Rispettando l’opinione dell’autore in questione, mi sembra tuttavia, a tale riguardo, che una volta esplicitata la dipendenza dalla prudenza, dalla carità e dalla giustizia di questa virtù, che lo stesso Millán-Puelles valorizza con profondità nel suo
libro, implicitamente si esclude ogni possibile danno intenzionale innecessario7.
Pertanto, a mio parere, seppure con i limiti di genericità tipici di ogni definizione, si
potrebbe positivamente definire la veracità come l’abitudine consolidata a comunicare, secondo prudenza, giustizia e carità, ciò che ammettiamo in noi.
È chiaro, comunque, che ora dovremo concentrare i nostri sforzi sulla natura
della menzogna. Se non siamo in grado di definirla adeguatamente, la stessa definizione di veracità, oltre che generica, rimarrà a sua volta ambigua.
3. Sull’essenza della menzogna
Appare fondamentale definire la menzogna, per il tema trattato, in modo inoppugnabile, univoco e semplice. Infatti, solo così si potrà poi asserire che mentire è
un’azione intrinsecamente cattiva, sempre e comunque. Almeno su ciò concordano
molteplici autori antichi e moderni, come Solone, Aristotele, Agostino, Tommaso
d’Aquino, Wolff, Kant, Fichte, solo per citarne alcuni.
Riassumendo le tematiche dibattute sull’essenza della menzogna, tra gli elementi
caratterizzanti emerge la voluntas fallendi (l’intenzione di ingannare), cui alcuni
filosofi, come Agostino e Kant, sembrano conferire una preminenza esclusiva, o
quasi. Come Millán-Puelles sottolinea, Tommaso d’Aquino riconosce che «l’indole
della menzogna si desume dalla falsità formale, ovvero dal fatto che qualcuno ha la
volontà di enunciare il falso»8. Tuttavia, l’Aquinate nega che l’essenza specifica
della menzogna consista nella voluntas fallendi, che ne sarebbe solo un segno, un
effetto necessario per perfezionare l’azione tecnica di mentire. Di fatto, però,
Tommaso non definisce in cosa consista l’essenza della menzogna, pur affermandone l’intrinseca malizia. Intuisce, nondimeno, che la sola voluntas fallendi non è sufficiente e, per lui, non identifica l’essenza dell’agire menzognero. Per questo, MillánPuelles resta comunque insoddisfatto da tale posizione; più che altro per il ruolo
secondario cui Tommaso sembra relegare la voluntas fallendi, a differenza della
6
7
8
IPV, p. 295.
IPV, pp. 311-334 (anche se il filosofo di Cadice parla in particolare di giustizia e prudenza).
TOMMASO d’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 110, a. 1; cit. in IPV, p. 297.
100
Giorgio Faro
maggior parte dei filosofi. Sembrerebbe, caso mai, che sia proprio l’inganno a rappresentare l’immancabile effetto per la pienezza di una menzogna.
A parere di Millán-Puelles, la menzogna è regolarmente costituita anche quando
la comunicazione ingannevole non sortisce il suo effetto. Questo, secondo chi scrive,
può avvenire solo per i seguenti due motivi:
a) perché il destinatario della comunicazione scopre l’inganno in essa contenuto,
prima di una qualsiasi sua decisione, o comunque non presta fede alla comunicazione offertagli: dunque nessun danno può derivarne a lui o a terzi; né può essere vittima di inganno alcuno;
b) perché chi soggettivamente pretendeva di ingannare ha detto, invece, la verità
(in tal caso possono seguirne sia conseguenze positive, che non positive: infatti,
motivi di prudenza, carità o giustizia potrebbero opporsi a tale comunicazione veridica).
Nel primo caso, per usare un generico linguaggio aristotelico-tomista, sarebbe
presente sia formaliter che materialiter l’essenza della menzogna; nel secondo, mancherebbe accidentalmente l’elemento materiale. Ciò rivela che l’interlocutore, pur
avendo l’intenzione di ingannare o di danneggiare qualcuno, non può perfezionare la
menzogna, dal momento che la sua comunicazione non è foriera di inganno, ma di
verità.
Per Millán-Puelles sarebbe comunque indifferente distinguere tra punto a) o b).
Per lui la voluntas fallendi resta, infatti, un elemento che, a differenza di Tommaso,
risulta essenziale, ma non sufficiente a qualificare la menzogna9.
A tale proposito, già gli antichi Stoici sembravano ricercare un ulteriore elemento
per determinare l’essenza della menzogna. Aulo Didimo, filosofo eclettico coevo ad
Augusto, è autore di un’opera intitolata Sulle scuole filosofiche, di cui resta la
seguente testimonianza relativa al concetto stoico di verità: «Si afferma che il saggio
non mente, ma dice il vero in ogni circostanza; infatti il mentire non consiste nel dire
il falso, ma nel dirlo con l’intenzione di mentire e di ingannare il prossimo»10. Il
testo prosegue affermando, inoltre, che il saggio non deve dire solo la verità e tutta la
verità agli stolti, anche se non deve esplicitamente mentire. Sembra dunque che, pure
per gli Stoici, non basta la voluntas fallendi, ma c’è anche un altro elemento intenzionale, anche se la terminologia è troppo generica per illuminarci sulla base di questo frammento. Comunque sembrerebbe che, per essi, menzogna ed inganno non
siano sinonimi.
Infine, c’è un prezioso riferimento dell’Antico Testamento, ove si legge la
seguente prescrizione: «non userete menzogna o inganno gli uni a danno degli altri»
9
L’Aquinate, tra l’altro, afferma (ibidem) che «cupiditas fallendi pertinet ad perfetionem mendacii, non autem ad speciem suae causae», affermazione che, in IPV (p. 298), viene così tradotta
da A. Millán-Puelles: «Il desiderio di ingannare appartiene alla perfezione della menzogna, sebbene non alla sua determinazione specifica, così come nessun effetto appartiene all’essenza specifica della sua causa».
10 Citazione tratta da C. NATALI, La menzogna dai sofisti agli stoici (DIDIMO in Stobeo, II, 7, p. 111,
10-21), in AA.VV., De Mendacio e Contra Mendacium di Agostino di Ippona, Città Nuova,
Roma 1997. Il corsivo nella citazione è di chi scrive il presente articolo.
101
note e commenti
(Lev. 19,1-2). Da tale lettura, emerge un ulteriore elemento, meglio delineato che nel
precedente testo stoico: il fine del danno altrui (voluntas nocendi).
Occorre dunque distinguere la voluntas fallendi, ovvero l’intenzione di ingannare
il prossimo, dallo strumento che la perfeziona, ovvero l’inganno in quanto tale, che
si manifesta necessariamente nella comunicazione ingannevole (non esclusivamente
verbale).
Cominciamo a percepire, inoltre, che la voluntas fallendi non è sinonimo della
voluntas nocendi (l’intenzione di danneggiare qualcuno). Infatti, non ogni intenzione
di ingannare il prossimo implica necessariamente il desiderio di danneggiare qualcuno.
Per ora possiamo solo constatare, in base all’esperienza comune, che tutte le
volte che si dà una menzogna, necessariamente le si accompagna un inganno voluto
come tale (vero o presunto, riuscito o meno) nella comunicazione; inganno che
potrebbe esulare dal contenuto stesso della comunicazione (veracità e veridicità non
sono sinonimi), ma affiorare nel modo di comunicare un’affermazione vera. In tal
senso, rinviando il lettore alla precedente citazione di Tommaso d’Aquino sull’indole
della menzogna, ci rendiamo conto che essa non è del tutto felice. La menzogna, o la
sua indole, non consiste “nell’enunciare il falso”. Come infatti rileva Millán-Puelles,
citando Agostino, chi enuncia un’affermazione vera, ma in modo da non essere creduto, è menzognero11.
Si può insomma mentire anche dicendo la verità, ma in modo da non essere creduti (se ne trova parziale conferma anche nella citazione di Spaemann, esposta nell’introduzione del presente saggio).
Infine, si potrebbe pensare che il problema di veracità e menzogna si possa risolvere ricorrendo alla semplice regola etica per cui non si può mai ricorrere ad una
comunicazione ingannevole (o tentare di farlo), regola tanto più valida per chi vuole
mantenersi veritiero, ovvero vivere la virtù della veracità. Tuttavia, anche questa
apparente semplificazione non appare inattaccabile. Se, infatti, di fronte ad un
aggressore che mi vuol togliere la vita, con un inganno posso salvarmela, non sempre (dipende dalle circostanze: di certo non posso incolpare un innocente al mio
posto), ma in taluni casi è perfettamente ammissibile ricorrervi, sulla base delle stesse argomentazioni che tutelano il diritto alla legittima difesa12. In una citazione inse11 Cfr.
S. AGOSTINO, De Mendacio, cap. IV. La citazione letterale, più elaborata, appare in IPV, p.
296. L’opera fu scritta nel 395 d.C. (l’anno in cui Agostino divenne vescovo di Ippona), in funzione anti-manichea sul problema del significato delle bugie cui ricorrono alcuni personaggi
dell’Antico Testamento. Rinviamo il lettore alla citata antologia di AA.VV., di cui alla nota n. 8.
Qui si possono raccogliere ulteriori tentativi di definizione di menzogna da parte di Agostino,
come: «la bugia non è nascondere qualcosa di vero tacendo, ma dire qualcosa di falso parlando»;
oppure: «mente chi pensa una cosa ed afferma con le parole e con qualunque altro mezzo di
espressione qualcosa di diverso» (ibidem, 3, 3). Quest’ultima affermazione, tra l’altro, appare in
contrasto con il caso, citato dallo stesso Agostino, che ha determinato la redazione della presente
nota.
12 Appare convincente il parallelismo che Millán-Puelles adduce tra la giustificazione dell’uccisione per legittima difesa in Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 7) e l’eventuale
uso di una comunicazione ingannevole (e che quindi, in tal caso non è menzogna, così come
sopra si esclude il delitto di omicidio) adottata per lo stesso motivo; cfr. IPV, pp. 302-303.
102
Giorgio Faro
rita nel suo libro, Millán-Puelles enumera un’interessante casistica (non esaustiva) di
situazioni che renderebbero eticamente plausibile il ricorso ad una comunicazione
ingannevole13.
4. La proposta di Millán-Puelles
Premesse le considerazioni fatte finora, il filosofo spagnolo arriva alla significativa conclusione che l’essenza della menzogna non può essere la presenza dell’inganno in quanto tale, anche se non può esistere menzogna senza inganno nella comunicazione. Infatti, come già visto, il ricorso ad una comunicazione ingannevole può
apparire alle volte giusto ed adeguato, proprio dal punto di vista morale. È chiaro
che, di per sé, la parola inganno ha per principio una connotazione etica negativa;
ma tale connotazione non è assoluta. Anche “nascondere qualcosa”, o “agire di
nascosto” implica una connotazione negativa; ma se proteggo un ebreo nella
Germania di Hitler, non posso che agire di nascosto. Infatti le leggi vigenti condannano questo mio comportamento, anche se la considerazione etica comune lo giudica
diversamente.
Dunque, si può catalogare come menzogna solo «quella comunicazione il cui fine
proprio è l’inganno o qualunque altro ingiusto pregiudizio arrecato al destinatario, o
a chiunque altro»14.
Questa, che è la definizione offerta da Millán-Puelles, implica, in realtà, tre possibilità di sviluppo che, a mio parere, vanno commentate separatamente e tenute
distinte:
a) quando la comunicazione ingannevole è fine a sé stessa;
b) quando è funzionale a procurare un ingiusto vantaggio a favore del comunicatore o di terzi (escludendo comunque l’intenzione finale di danneggiare qualcuno);
c) quando la comunicazione ingannevole rappresenta il tramite per danneggiare
altri.
Pertanto, si può concludere, a mio avviso, che la struttura della menzogna, sia a
livello intenzionale che pratico, è triplice:
a) voluntas fallendi + comunicazione ingannevole, come fine ultimo;
b) voluntas fallendi + comunicazione ingannevole, come mezzo per trarre un
ingiusto vantaggio a favore del comunicatore o di terzi;
c) voluntas nocendi + voluntas fallendi + comunicazione ingannevole, dove il
danno altrui rappresenta il fine ultimo proprio; anche qui, la comunicazione ingannevole risulta aver natura meramente mediale o strumentale.
Nel primo caso potrebbe rientrare la menzogna di chi racconta storie spacciandole per vere, per il puro piacere di farlo (che in tal caso rappresenterebbe, più che il
fine ultimo soggettivo, la conseguenza inclusa e cercata nell’inganno); nel secondo,
il caso di chi vuole evitare, perché la teme, la giusta punizione che il suo cattivo
comportamento richiede (come denuncia la sua coscienza); o, ancora, di chi ricorre
13 IPV,
14 IPV,
p. 306.
p. 295.
103
note e commenti
all’inganno per evitare che altri, venendo a conoscere tale comportamento negativo,
perdano la stima nei suoi confronti; oppure, ancora, di chi usa lo strumento dell’adulazione per ottenere privilegi o vantaggi. In tutte le categorie di condotta suesposte,
c’è comunque sempre un danno personale ed una qualche ingiustizia (se non altro
l’abuso o la manipolazione della buona fede altrui, e comunque il venir meno di
quell’autorelazione etica tra uomo esteriore e uomo interiore, di cui parla Kant: non
mi risulta che gli schizofrenici siano e vivano felici).
La definizione propria della menzogna in c), a mio parere, sarebbe costituita da
“quel comportamento che ricorre alla comunicazione ingannevole per ottenere come
fine ultimo proprio il danno altrui”. E qui, non c’è bisogno di far alcun esempio. È
chiaro comunque che, perché si abbia menzogna, la voluntas nocendi assume la
voluntas fallendi, ovvero l’intenzione di ricorrere, ed il ricorso in quanto tale, ad una
comunicazione ingannevole idonea a danneggiare altri. Infatti, la sola voluntas
nocendi può qualificare benissimo altri comportamenti, eticamente rilevanti, che non
sono peraltro menzogne (ad esempio un’aggressione o un furto).
Comunque, tornando alla definizione originaria di Millán-Puelles, si è così chiarito che ogni menzogna usa la comunicazione (nel contenuto o nel modo) ingannevole, ma non tutte le comunicazioni ingannevoli sono menzogne. Il fatto poi che non
lo siano, non significa che ogni comunicazione ingannevole sia moralmente lecita.
Menzogna ed inganno non sono sinonimi. Altrimenti, quando si parla di “menzogna
sociale” (far rispondere che non si è in casa, per tutelare la privacy familiare, in certe
situazioni), o “menzogna giocosa” (alla base di uno scherzo che risulti tale, in determinate circostanze), come si può allora affermare che ogni menzogna è un “assoluto
morale” e quindi sempre riprovevole, o che è vietata anche per fini altruistici, giacché il fine non giustifica i mezzi?
Tali equivoci, che il buon senso spesso risolve in pratica, ma non in teoria, nascono proprio dalla mancata distinzione tra menzogna e comunicazione ingannevole,
che ben ha rilevato il filosofo in questione.
A questo punto, appare anche utile chiarire i criteri per distinguere comunicazioni
ingannevoli eticamente lecite, e non. Millán-Puelles propone i seguenti parametri di
liceità (cui aggiungo esempi personali):
a) deve essere moralmente lecito il fine (ad esempio l’allegria che produce lo
scherzo, una volta svelato l’inganno; o la tutela della privacy familiare);
b) devono esserlo anche le circostanze e le conseguenze della comunicazione
ingannevole (per un medico che ha in cura malati gravi, può non essere lecito rendersi irreperibile per tutelare la privacy familiare; un determinato scherzo può essere
mal architettato o non tener conto della suscettibilità della persona in quelle circostanze; o essere semplicemente fuori luogo; di conseguenza potrà provocare, risentimento, offesa o sconcerto, invece che allegria)15.
Dunque, da quanto sopra affermato, appare chiaro che anche la tradizionale definizione giuridica di menzogna, ovvero che mendacium est falsiloquium in praeiudicio alterius («la menzogna è dire il falso, in pregiudizio altrui»), è insufficiente.
15 Cfr.
104
IPV, pp. 305-307.
Giorgio Faro
Occorre infatti precisare che l’essenza della menzogna, intanto non consiste nel dire
il falso, ma risiede nel fine ultimo intenzionale, presente nel comunicatore, di ingannare (per il piacere di farlo o per avvantaggiare ingiustamente sé o altri) o di procurare un danno ad altri; e tale, quindi, è lo scopo finale della sua azione. Infine, una
volta distinto tra comunicazione ingannevole e menzogna, mi sembra che — solo ora
— si possano trarre dall’argomentazione di Millán-Puelles alcune conclusioni che, a
mio avviso, dovrebbero essere le seguenti:
a) ogni menzogna (che ha per intenzione ultima finale l’inganno in sé, l’ingiusto
vantaggio proprio o altrui, o il danno altrui, e che si attua sempre attraverso una
comunicazione ingannevole, autentica o presunta tale dal suo autore) è intrinsecamente cattiva (assoluto morale); e quindi da evitare sempre, a prescindere da circostanze e conseguenze;
b) nessuna comunicazione della verità è intrinsecamente buona; intanto, perché
potrebbe comunicare una verità ritenuta soggettivamente tale da chi la comunica, ma
che non lo è oggettivamente, inducendo in errore (e relative conseguenze per il destinatario della comunicazione o terzi); ciò non inficia comunque la veracità del comunicatore (per lo meno, ove trattasi di ignoranza — in quel momento — invincibilmente erronea); poi, perché la comunicazione della verità rimane sempre subordinata
alle circostanze e conseguenze, in base a quelle ragioni di giustizia, carità o prudenza, che sempre devono precedere e misurare la virtù della veracità affinché la si
possa ritenere tale. Infatti, ogni agire imprudente coinvolge tutte le altre virtù nel fallimento etico dei fini dell’azione; se poi viene a mancare la forma virtutis, ossia la
carità, l’intero agire non può considerarsi più virtuoso (e neppure giusto, come — a
livello legale — ci ricorda il noto detto: summum ius, summa iniuria);
c) nessuna comunicazione ingannevole è intrinsecamente cattiva; può essere
buona, però, solo se tale è l’ultimo fine che si propone e, al contempo, tali risultano
essere anche le circostanze in cui si attua.
Risulta facile intravedere come, per questo ultimo aspetto, l’argomentazione del
filosofo di Cadice possa suggerire interessanti applicazioni in svariati campi d’attualità, la cui regolamentazione è tutt’altro che definita e chiara: ad esempio, quello
della cosiddetta pubblicità ingannevole.
5. Un caso etico per valutare la nuova formulazione di menzogna
Proponiamo ora un caso etico, per considerare la portata di quanto precedentemente affermato.
In un quartiere di Berlino (siamo nel 1940), la polizia ha avuto ordine di perquisire ogni casa per assicurarsi che non risultino ebrei che sopravvivano nascosti. Io, (il
lettore si identifichi!) mi chiamo Georg. Sono cittadino tedesco, decorato nel primo
conflitto mondiale e attualmente invalido di guerra. Abito una casa di quel quartiere.
Improvvisamente, mi trovo di fronte un vecchio compagno d’arme e di liceo che, a
capo di una squadra di poliziotti, ha ordine di perquisire anche la mia casa. È Hans.
Mi riconosce. Dai tempi del liceo mi stima e mi rispetta, anche per la decorazione
105
note e commenti
militare che tuttora porto. Pertanto, pur essendo trascorso del tempo, mi si rivolge
con deferenza e rispetto dicendomi: «Caro Georg, a te non recherò alcun disturbo.
Conosco bene la tua sincerità e fedeltà alla nazione dall’epoca del liceo: giurami sul
tuo onore che non ci sono ebrei nascosti nel tuo appartamento e andremo altrove. Io
ed i miei uomini non abbiamo tempo da perdere». Io, Georg, effettivamente nascondo un ebreo in casa mia. Cosa rispondo?
Potrei rispondere con una frase garbatamente ironica del tipo: «eh! Caro Hans!
Dal momento che mi conosci bene, allora sai anche che sono proprio il tipo capace
di nascondere un ebreo in casa!» E penso che Agostino non approverebbe questa
risposta (anche se sto dicendo la verità), e nemmeno se ricorressi ad una variante
retorica del tipo: «ma caro Hans, ti pare che sia il tipo da nascondermi un ebreo in
casa?»
Allora potrei dire semplicemente: «caro Hans, ti giuro sul mio onore che qui
perdi il tuo tempo»; ma lo sto dicendo nel senso di una riserva mentale (sono convinto che il nascondiglio è così ben dissimulato che la perquisizione, se effettuata, difficilmente e solo nella peggiore delle ipotesi permetterebbe di individuare il ricercato).
Mi sembra, però, che la riserva mentale, anche per quanto ne parla Millán-Puelles
(sull’autorevole netto rifiuto di ogni risposta equivoca opposto dal Cardinal J.H.
Newmann), non può essere la strada giusta per una soluzione etica decisiva16.
Spesso appare un escamotage. Inoltre, il solo fatto di non costituire quella risposta
netta che si richiede nelle circostanza, può anzi indurre l’interlocutore al sospetto,
nonché allo scrupolo di verificarlo.
Oppure, infine, potrei dire con chiarezza: «Hans, in questa casa non ci sono
ebrei!».
Potrei giustificare tale risposta, pensando che l’inganno cui ricorro nella mia
affermazione, forte della credibilità che il mio vecchio amico Hans mi concede, è
giustificato dalla considerazione etica che non si può mai cooperare ad azioni intrinsecamente cattive, quali l’uccisione o la deportazione di un innocente, la cui esistenza non minaccia affatto il III Reich, come le leggi vigenti ci obbligano a credere.
Una tale impostazione potrebbe far ritenere che la nota regola etica pacta sunt servanda (l’obbedienza alle leggi di Stato o a qualunque altra legge) valga solo tra
quanti cooperano al bene. Eppure, anche questa valida giustificazione, potrebbe
apparire inconsistente, se manteniamo inalterato il significato usuale di menzogna,
inteso specialmente ut voluntas fallendi.
È interessante notare come Agostino si sarebbe trovato in grave difficoltà ad
accettare l’ultima risposta di Georg. Infatti, ciò avrebbe significato, per lui, derogare
al principio assoluto secondo cui “i buoni non mentono mai”. Nel De mendacio, il
celebre Vescovo di Ippona enumera i seguenti principali motivi, dal più grave al
meno grave, che comunque configurano la menzogna. Nell’ordine, non si può mentire:
1) per convertire qualcuno (si strumentalizza la fede: peccato gravissimo);
2) per fare del male tout court (quella che abbiamo definito voluntas nocendi);
16 IPV,
106
pp. 309-310.
Giorgio Faro
3) per godere dell’inganno;
4) per far piacer ad uno, nuocendo ad altri;
5) per far piacere ad uno, senza nuocere a nessuno;
6) per ravvivare la conversazione;
7) per salvare una vita;
8) per evitare a qualcuno un oltraggio impuro17.
In particolare, Agostino si mostrava indulgente verso gli ultimi due motivi,
appoggiandosi anche al detto paolino «e per queste cose chi è pronto?» (Cor 2,16).
Con ciò, intendeva dire che non mentire mai è proprio difficile18. Rimane palese,
tuttavia, nonostante le sue condivisibili esitazioni, una certa posizione di fondo piuttosto rigorista19.
Lo stesso Tommaso d’Aquino, di fronte a simile eventualità, tradisce il dissidio
che un caso come questo pone, quando sostiene che «non è lecito dire bugie per stornare un pericolo qualsiasi da una persona», per poi attenuare la difficoltà citando
proprio S. Agostino, ove afferma che «è lecito nascondere prudentemente la verità
con qualche scusa»20. È evidente che l’espressione riesce piuttosto vaga, ma rivelatrice del disagio profondamente sentito e della volontà di porvi rimedio.
Per non parlare di Kant, che ha scritto un noto opuscolo dal significativo titolo Su
un presunto diritto a mentire per filantropia. Nel caso in questione, il filosofo di
Königsberg non avrebbe dubbi in proposito. Egli, infatti, nell’opera citata, non afferma che tutto ciò che è vero debba essere detto, ma che è un dovere che tutto ciò che
uno dica sia vero. Pertanto, ritiene sempre menzognera la condotta di chi attesta il
falso, anche quando intenda proteggere un innocente, rifugiatosi in casa sua, da chi
lo richiede per sopprimerne ingiustamente la vita21.
Lo stesso Fichte sembrerebbe attestarsi su tale posizione, ovvero che “l’uomo
retto non mente mai”. Si rischia dunque di incorrere nel divieto paolino che esclude
che si possa fare un male perché ne derivi del bene (Rom. 3,8), ripreso dallo stesso
17 S. AGOSTINO, De Mendacio, cap. II.
18 Cfr. M. BETTETINI, Il De Mendacio:
bugie ed ermeneutica, in AA.VV., De Mendacio e Contra
Mendacium…, cit., pp. 45-46.
19 Da sottolineare la presenza di una tendenza minoritaria, tra autorevoli esponenti della patristica e
della teologia morale, a legittimare la menzogna laddove dire la verità è di grave nocumento a
qualcuno (senza quindi distinguerla dalla comunicazione ingannevole). Tra i Padri: Clemente
Alessandrino, Origene, S. Giovanni Crisostomo, S. Ilario, Cassiano; tra i teologi: Guglielmo di
Auxerre, Alessandro di Hales e S. Bonaventura; a tale proposito, cfr. AA.VV., Nuovo dizionario
di teologia morale, voce: bugia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, pp. 105-112. Si tenga presente che anche recentemente, partendo dall’indicativo paolino «fare la verità nella carità», c’è
chi ritiene che le particolari circostanze e l’intenzione soggettiva che inducono alla parola contraria al pensiero, mentre non possono mutare la qualità etica della menzogna, che rimane oggettivamente tale, possono renderla meno colpevole, incolpevole o soggettivamente difendibile (cfr.
CONGREGAZIONE DEL CLERO, Caso Washington, 26.4.71, Ench. Vat. 4, 698). A chi scrive, sembra
che l’equivoco resti.
20 TOMMASO d’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 110, a. 3, ad 4. Curiosamente, questa posizione tomista non è citata in IPV.
21 Su questa posizione kantiana, riportata in IPV (p. 305), cfr. I. KANT, Über ein vermeintes Recht
aus Menschenliebe zu lügen, AK VIII, pp. 421-427.
107
note e commenti
Fichte: «colui che vuol fare il male per cavarne il bene è un empio (Gottlosser); […]
in un governo morale del mondo non può derivare dal male niente di buono»22.
Anche insistendo, poi, sul principio che pacta sunt servanda valga solo per chi coopera al bene, dovremmo dedurre che chi non è su questa linea va considerato alla stregua di un nemico, e che, ad un nemico, è lecito mentire. Del resto anche Platone ammetteva tale eccezione, unitamente alla «menzogna per pubblica utilità»23. Tuttavia, neanche ciò sembrerebbe ancora decisivo ed inoppugnabile, come rivela il seguente aneddoto, tratto da George Schultz, in una conferenza tenuta a Princeton sulla “guerra fredda”.
In quell’occasione, l’ex-Segretario di Stato americano ha raccontato un episodio
avvenuto ai tempi dell’invasione sovietica in Afganistan. Il presidente del Pakistan
Zia ul-Haq, fu costretto dai potenti vicini, Unione Sovietica ed India, a firmare un
trattato internazionale in cui si impegnava a far cessare le forniture d’armi, provenienti dagli Usa, a favore dei ribelli afgani. L’allora presidente Carter telefonò preoccupato al suo alleato, il quale, con molto candore, affermò che il traffico d’armi
sarebbe continuato esattamente come prima. Al che, Carter rispose incredulo: «ma
come è possibile, se avete appena firmato un trattato internazionale!». La risposta
del presidente pakistano fu semplice: «per noi musulmani non è lecito mentire.
Questo però non vale con gli infedeli!»24. Penso che, almeno per un occidentale, sia
difficile non essere altrettanto sconcertati di Carter. Immagino, poi, la fiducia che lo
stesso Carter, sapendosi un “infedele”, avrà riposto nelle presenti e future assicurazioni di un qualsiasi alleato di religione islamica…
Tornando al quesito principale, possiamo provare a difendere l’ultima risposta di
Georg con un’altra giustificazione che, in qualche modo risolverebbe anche i dubbi
sollevati dalla precedente. Si tratta di applicare la teoria etica dell’azione a duplice
effetto (uno positivo, il principale; uno negativo, il secondario). Il fine principale della
mia azione, infatti, non è quello di mentire ad Hans (che è disposto, diamolo per scontato, a credermi in buona fede), ma di salvare una persona dal rischio di morte, a
causa di leggi contrarie al più elementare diritto umano: quello alla vita; diritto valido
per ogni essere umano, a prescindere da razza, sesso, età, condizioni di salute, ecc.
A tal proposito, confrontiamo un caso classico di azione a duplice effetto, elaborato dalla considerazione morale maturata nella tradizione cattolica (ma condivisibile
anche al di fuori), relativo all’aborto.
Nel caso che a una donna incinta venga diagnosticato un tumore all’utero, solo
cure immediate comporteranno la guarigione della madre; ma queste stesse cure,
indirettamente, provocheranno la morte del feto. Orbene, se la madre non vuole
22 J.G.
FICHTE, Über den Grund unseres Glaubens an eine göttliche Weltregierung; trattasi della
prefazione al noto scritto di F.K. FORBERG, Entwicklung des Begriffs der Religion: Die Schriften
zu J.G. Fichtes Atheismus-Streit, Lindau, Berlino 1818, pp. 31-32. Tale scritto provocò l’accusa
di ateismo a Fichte ed il suo allontanamento da Jena, benché il filosofo idealista non si identificasse che in parte con il pensiero di Forberg.
23 La posizione platonica è citata in IPV, p. 298. Resta tuttavia il problema, non da poco, che c’è un
unico vocabolo greco classico ad indicare, indistintamente, i termini di menzogna e inganno
(pseudos), come sottolinea Millán-Puelles. In realtà, alle volte, appare anche il termine apàte, che
è usato p.e. da Aristotele per indicare un’apparenza ingannevole, e potrebbe tradursi con inganno.
24 Aneddoto tratto da un articolo del quotidiano di Roma Il Tempo, del 2.3.1993.
108
Giorgio Faro
assumere l’atteggiamento eroico di portare fino in fondo la gravidanza, a rischio
della vita, e ricorre perciò alle cure per il fine primario di guarire (e non di perdere il
figlio che ha in grembo), non può certo essere considerata un’omicida. L’effetto
negativo è indiretto e non voluto come intenzione primaria. Il mezzo usato è una
terapia che ha per fine la guarigione dal tumore, e non la soppressione del feto;
anche se tale circostanza è proprio ciò che indirettamente avviene.
Se, invece, per motivi psichici o economici presenti e futuri, la madre ritiene pericolosa la sua gravidanza e ricorre all’aborto, il fine principale non è proporzionato (la
vita umana vale più di queste circostanze sfavorevoli; comunque, portare a termine la
gravidanza può essere compatibile — in casi limite — con il rifiuto successivo della
maternità). Inoltre, è chiaro che l’azione di uccidere il figlio è direttamente provocata
e si configura come omicidio: il fine (le buone condizioni psicologiche o economiche
della madre, non la sua vita) non può giustificare il mezzo. Quest’ultimo, poi, non è
più un’azione indiretta, ma un’azione diretta esplicitamente a sopprimere il feto. Non
è una medicina che guarisce il malessere psicologico ed economico della madre e,
indirettamente, provoca “l’interruzione di gravidanza” (non mi risulta, ad esempio,
che si usi la chemioterapia per provocare aborti).
Eppure se io — Georg — inganno Hans, sto tradendo la fiducia di una persona che,
in buona fede (sul vincolo dell’amicizia e del rispetto), crede in me. Spaemann (sia
pure senza alcuna pretesa esaustiva, ma d’altra parte senza azzardarsi a farlo) definisce
la strumentalizzazione del linguaggio come male intrinseco, quando si tratti di «mentire ad una persona che ha una motivata fiducia in noi», come visto in apertura del presente saggio. Il filosofo tedesco, potrebbe pur sempre dichiarare che, in questo caso,
non sussistono le condizioni etiche di fiducia idonee a far prevalere il valore dell’amicizia; ma, allora, anche la stessa definizione di Spaemann non si sottrae a quell’inadeguatezza linguistica che, proprio lui, indica quale ostacolo ad esprimere ciò che intuiamo. Altrimenti, l’affermazione di Georg, contraria non solo alla realtà, ma alla fiducia
che l’amico è disposto a concedergli in virtù dell’amicizia stessa, potrebbe apparire
come male intrinseco. Infatti (se vogliamo escludere “giochi” con le riserve mentali),
pare un mezzo diretto, l’unico nella circostanza, per ottenere il fine principale buono
dell’azione. Come dunque è possibile affermare che qui il fine non giustifichi i mezzi?
Sembra ora evidente che la risposta di Georg, esaminata per ultima, si risolve
nella misura in cui si applica la teoria di Millán-Puelles. Ovvero la comunicazione
ingannevole, usata nella fattispecie, non configura l’affermazione di Georg come
menzognera, poiché il fine ultimo di Georg non è né di ingannare Hans per il piacere
di farlo, né di avvantaggiare ingiustamente sé stesso o altri, né di recare innecessario
ed ingiusto pregiudizio ad alcuno, ma di salvare la vita ad un innocente. Anche il
contesto, inoltre, giustifica il ricorso a tale comunicazione ingannevole.
6. Conclusioni ed osservazioni finali
In conclusione, possiamo affermare che, se ogni menzogna esige una comunicazione ingannevole per essere tale, non ogni affermazione che includa una comunicazione ingannevole è necessariamente una menzogna. In poche parole, la cifra della
109
note e commenti
menzogna non è sic et simpliciter la voluntas fallendi (pregiudizio tipico, come
visto, sia di Agostino che di Kant, nonché tuttora assai diffuso tra la gente comune),
ma la voluntas fallendi con il fine ultimo proprio di ingannare (per il piacere di farlo
o per trarre ingiusto vantaggio a sé o per terzi), o la voluntas nocendi che implica il
danno altrui, come fine ultimo proprio della comunicazione ingannevole.
In questa sede, vorrei anche sottolineare una finezza del filosofo di Cadice, che ci
fa apprezzare meglio la sua insistenza nel parlare non semplicemente di fine ultimo
della menzogna, ma di fine ultimo proprio. Il motivo nasce dal prendere le distanze
dalle motivazioni offerte da San Tommaso sulla giustificazione della legittima difesa, che, come visto in precedenza, sosterrebbero anche quelle per un inganno utilizzato in tal senso (sempre, ove le circostanze lo consentano). L’Aquinate afferma che,
in caso di legittima difesa, l’uccisione dell’aggressore è praeter intentionem (fuori
dall’intenzione), dal momento che il movente della mia azione è la difesa della mia
vita25. Cioè, io non voglio uccidere e pertanto non sono omicida, anche se nella colluttazione sopprimo l’aggressore. Millán-Puelles, anche per la sua accurata formazione fenomenologica, non concorda. È chiaro invece che, una volta aggredito, io
voglio uccidere quale unica possibilità di salvarmi la vita; così come un inganno che
mi salvi la vita è esplicitamente voluto intenzionalmente ed anzi, spero che sia efficace, che riesca (così come Georg vuole e spera di essere creduto da Hans, quando
nega la presenza di ebrei in casa sua). In entrambi i casi, la debolezza dell’argomento
preterintenzionale in Tommaso d’Aquino viene sostituita dalla tesi che sia l’uccidere
o l’ingannare non sono affatto estranei al soggetto dell’azione, ma semplicemente
non ne rappresentano l’ultimo fine proprio e quindi se ne esclude l’illiceità morale26.
Questa, dunque, appare la stimolante proposta di Millán-Puelles sul problema
oggetto della presente analisi. A mio parere, essa ha il grande merito di sottolineare
l’errore in cui incorre l’interpretazione spiritualista-formalista del dilemma posto dal
binomio veracità-menzogna, che può creare tuttora difficoltà e scrupoli nell’agire
dell’uomo qualunque (lasciando spesso, comunque, una incoerenza irrisolta tra teoria e prassi). Naturalmente, non si intende affermare che ogni problema etico su questo tema, si possa risolvere ora automaticamente e immediatamente. C’è però un criterio chiaro ulteriore, e — mi sembra — ben fondato, per risolvere in modo più coerente i casi che la vita stessa propone.
Se poi mi è consentito avanzare qualche altra osservazione, oltre a quella con cui
sostengo la possibilità di definire in modo positivo la virtù della veracità, avrei
un’altra piccola obiezione da opporre al filosofo spagnolo. Millán-Puelles, parlando
dell’inganno, afferma che «non è possibile ingannare intenzionalmente senza dire
nulla, né con parole, né in nessun altro modo»27. A mio parere, anche per consuetudine, ci sono determinate situazioni in cui un silenzio equivale ad un’ammissione,
sia pure tacitamente espressa. Di conseguenza, è sempre possibile un inganno volontario, anche attraverso il valore comunicativo del silenzio. Dunque l’uso intenzionale
del silenzio, in certi casi, può avere valenza etica.
25 Cfr. TOMMASO
26 IPV, p. 303.
27 IPV, p. 295.
110
d’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 7; cit. in IPV, pp. 302-303.
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1 - PAGG. 111-117
El sentimiento en la Noología de Zubiri
ANTONIO MALO*
■
Con la publicación de Inteligencia y realidad, Zubiri creó una nueva disciplina
filosófica, a la que dio el nombre de Noología. El objetivo de ésta no era sólo el estudio de los actos de intelección (inteligencia sentiente), sino también del sentimiento
(sentimiento afectante) y de la volición (voluntad tendente). Aunque Zubiri no llegó
a desarrollar en vida estas dos últimas dimensiones con el detalle y la precisión de la
primera, entre sus papeles inéditos, procedentes de cursos orales, se encuentran
amplios desarrollos que permiten reconstruir los elementos fundamentales de su teoría.
La reflexión zubiriana sobre el sentimiento, se encamina a dilucidar la esencia del
sentimiento estético mediante tres pasos sucesivos: en primer lugar, establecer qué es
un sentimiento; en segundo lugar, indicar cuál es la relación entre el sentimiento y la
realidad; en tercer y último lugar, abordar en qué consiste el sentimiento estético. En
nuestro estudio nos limitaremos a las dos primeras etapas, pues nos parece que, a
pesar de sus penetrantes intuiciones, Zubiri no ha desvelado la esencia del sentimiento por falta de una tercera pregunta que debería añadirse a las dos primeras: ¿por qué
el sentimiento supone una relación con la realidad? La respuesta a esta cuestión
constituirá el objetivo de este breve ensayo.
1. El sentimiento es atemperamiento
Zubiri analiza críticamente dos teorías del sentimiento: la clásica, que considera
el sentimiento como un modo tendencial, y la kantiana, que lo concibe como un estado. Zubiri rechaza que el sentimiento, formalmente considerado, sea un modo tendencial, porque, si bien algunos sentimientos lo son, hay muchos otros que no guardan ninguna relación con las tendencias. A modo de ejemplo, cita los sentimientos de
*
Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49,
00186 Roma
111
note e commenti
melancolía y euforia. «¿Y el que está triste porque es melancólico? Se dirá que es
por razones fisiológicas. Las causas no importan. También se puede decir que un
señor está muy alegre por razones físicas, p.e., porque ha tomado sustancias euforizantes. De lo que aquí se trata es de que no es verdad que todos los estados que se
agrupan bajo la palabra tendencia sean formalmente fenómenos tendenciales»1.
Zubiri está de acuerdo, en cambio, con la tesis de Schulze, Mendelsohn, Tetens y
Kant, para quienes el sentimiento es un estado. Por eso, afirma que el sentimiento
«no es formalmente una tendencia, sino algo más elemental, más difícil de explicar
[…]: la forma en que uno “está”; es estado»2. No comparte, sin embargo, la consideración del sentimiento como un estado subjetivo íntimo, es decir como algo que pertenece exclusivamente a la subjetividad. Por supuesto, que el sentimiento es un
modo de sentirse el sujeto, pero —según Zubiri— contiene siempre una referencia a
la realidad; más aún es un modo de estar realmente en la realidad. De ahí que el sentimiento pueda definirse como un modo de estar realmente en la realidad, o si se
quiere, como sentirse realmente en la realidad.
Ahora bien, ¿qué entiende Zubiri por un modo de estar en la realidad? Para explicarlo, se sirve de una doble perspectiva: una genética y otra formal. De acuerdo con
la perspectiva genética, el hombre está en la vida inicialmente como un animal: recibe en su momento aprehensor ciertos estímulos que suscitan respuestas; estos estímulos modifican algo que todos los animales poseen, el tono vital. A través de esta
modificación surgen en el animal y también en el hombre diversas tendencias, dirigidas a dar una respuesta adecuada al estímulo. Sin embargo, en el hombre, este
momento aprehensor de estímulos es sólo una etapa que precede a la de la intelección, en donde se entiende el propio estímulo como realidad. La respuesta no consiste ya en hacer algo que restaure o amplíe el equilibrio vital, sino que consiste en
decidir por la forma de realidad que se va a adoptar.
Con este momento aprehensor de realidad está relacionado el sentimiento. Por
eso, para Zubiri, los animales no tienen sentimientos, aunque sí poseen afecciones,
pues la afección corresponde al cambio de tono vital originado por los estímulos y
las respuestas tendenciales, mientras que el sentimiento es una modificación que
concierne al modo de sentirse en la realidad. Las afecciones tónicas del hombre, por
su modo de estar en la realidad, son siempre de la realidad considerada como tonificante. La realidad como principio de tono, esto es genéticamente hablando el sentimiento.
Desde el punto de vista formal, el sentimiento consiste en el atemperamiento, es
decir en el estar acomodado tónicamente a la realidad. De ahí que el sentimiento no
sea un modo subjetivo de sentir. Ciertamente, según Zubiri, en el sentimiento —lo
mismo que en la intelección y en la volición— hay un acto del sujeto (estar triste,
estar alegre, ser compasivo, estar iracundo, etc.), pero este envuelve formalmente un
1
X. ZUBIRI, Sobre el sentimiento y la volición, Alianza Editorial, Madrid 1992, p. 331. El libro
recoge algunos textos no publicados de tres cursos, titulados respectivamente: «Acerca de la
voluntad» (1961), «El problema del mal» (1964) y «Reflexiones filosóficas sobre lo estético»
(1975).
2 Ibidem.
112
Antonio Malo
momento de realidad. La realidad está presente en el sentimiento y ciertamente es
del sentimiento.
Este ser de no significa una conexión causal; no es que la realidad sea causa de
los sentimientos. Tampoco es un ser intencional en el sentido husserliano, o sea no es
el correlato del acto del sujeto. En opinión de Zubiri, la conexión entre sentimiento y
realidad es puramente genitiva, porque los caracteres sentidos (tristeza, alegría, amabilidad, antipatía, etc.) pertenecen a la realidad: «Es la realidad misma la que es
entristeciente, la que es alegre, la que puede ser amable, antipática u odiosa. No se
trata únicamente de los actos o de los estados que en mí suscita esa realidad»3.
¿En qué sentido se puede afirmar que la realidad es triste, alegre, etc.? Zubiri
intenta responder a esta pregunta analizando la relación entre sentimiento y realidad.
2. La realidad como temperie
Para resolver esta cuestión, Zubiri parte de una característica exclusiva del hombre: el modo de habérselas con las cosas como realidades. Este modo consiste en el
hábito (habitud) de que las cosas queden en cierto modo presentes a él mismo. El
quedar presentes de las cosas —denominado por Zubiri actualidad— es correlativo
al modo en que el hombre las hace presentes. La actualidad no es sin embargo una
producción del hombre, pues toda actualidad, por el mismo hecho de ser actualidad,
es siempre actualidad de una realidad.
Ahora bien, que toda actualidad sea actualidad de una realidad no quiere decir
que la actualidad pertenezca a las notas reales de una cosa. Por ejemplo, una galaxia
puede encontrarse a cientos de millones de años luz y, por no estar presente al hombre, no ser actual; sin embargo la galaxia sigue siendo la misma esté presente o no.
Por tanto, para que se dé este hábito de que las cosas queden en cierto modo presentes, es necesaria la unidad del hacer que las cosas queden y del quedar de las cosas.
Y esto es precisamente —según Zubiri— lo que constituye el ser de la realidad que
existe en la intelección, en la volición y en el sentimiento, el cual no es “término
intencional”, sino “actualización en”4.
La actualización en la inteligencia es la realidad misma como verum; la actualización en la voluntad es la realidad misma como bonum; la actualización en el sentimiento es la realidad misma como atemperante. Si los sentimientos son muchos y
muy diversos desde el punto de vista de los actos que el hombre ejecuta, desde el
punto de vista de la realidad en que todo sentimiento se actualiza, no hay más que
dos sentimientos: fruición o gusto y disgusto. «La fruición es la satisfacción acomodada a la realidad actualizada en el sentimiento. Es el disfrute en esta actualidad»5.
En definitiva, la realidad no es sólo aprehensible ni sólo optable, sino que es algo
3
4
Ibidem, p. 336.
«La actualidad queda modificada en cuanto actualidad, por aquello en quien se actualiza. Y estos
modos, precisamente por ser de actualidad, son modos de la realidad misma de las cosas, califican a la realidad misma» (ibidem, p. 339).
5 Ibidem, p. 341.
113
note e commenti
más: es justamente atemperante. A esta cualidad de la realidad, Zubiri la llama temperie. Por eso, los sentimientos no son meramente subjetivos. «Todos los sentimientos nos presentan facetas de la realidad, no solamente estados míos. Se ha dicho y se
ha comentado largamente en muchos libros, que el amor, por ejemplo, es vidente,
que ve cosas que no ve la pura inteligencia. Esto es verdad, aunque quizá no tan verdad como se dice en los libros, pero, en fin, es mucha verdad. Pero esto no es exclusivo del amor; es propio de todo sentimiento. Todo sentimiento es en cierto modo
vidente de la faceta que nos presenta. Pero hacía falta decir por qué y en qué sentido.
Y se nos ha omitido siempre esa explicación. Yo creo que es pura y simplemente por
eso, porque presenta un modo de actualidad de la realidad en el enfrentamiento
atemperante con ella»6. En conclusión, en el sentimiento la realidad se nos hace presente en dos dimensiones: la fruición y el disgusto.
3. Dificultad de la concepción zubiriana: la actividad del sujeto
Una de las objeciones que puede hacerse a la tesis de Zubiri es la de analizar sólo
uno de los polos del sentimiento: el de la realidad, descuidando el estudio del otro
polo: la actividad del sujeto. Parecería que Zubiri, tan riguroso en la investigación
del ser de la realidad que constituye formalmente el sentimiento, mostrase escaso
interés en la investigación del acto del sujeto que siente. Esta impresión se ve reforzada por el carácter general que presenta su descripción del acto del sentimiento.
Efectivamente, Zubiri define la actividad del sujeto en el sentimiento como «el modo
en que el hombre hace presente el atemperamiento de la realidad». Este modo —
según Zubiri— es múltiple y variado, a diferencia de las dos dimensiones de la realidad del sentimiento (la fruición y el disgusto). Una de estas dimensiones estaría
siempre presente en actos tan diversos como estar triste, alegre, iracundo, etc.
La cuestión que debemos plantearnos se refiere, pues, a la función del sujeto en
el sentimiento. En primer lugar, es necesario afirmar que la denominación de acto
para referirse al sentimiento es problemática. Ciertamente, si el acto se define —
siguiendo a Zubiri— como la actualización de la realidad en, entonces se puede
emplear este término tanto en el acto de entender y de querer, como en el de sentir.
Pero, ¿en qué consiste ese en? En el caso del entender y del querer está claro que el
en es la inteligencia y voluntad; por lo que respecta al sentimiento, sin embargo,
Zubiri no dice nada sobre ese en. Podría pensarse que Zubiri, siguiendo la tesis kantiana, haya hecho del sentimiento mismo el en, donde se actualiza la realidad en
forma de temperie. Tendríamos así tres tipos de en: el intelecto, la voluntad y el sentimiento; lo que supondría colocar el acto de sentir al mismo nivel de la intelección y
de la volición. Si así fuera, nos parece que no se tendría en cuenta algo importante,
sobre todo, desde el punto de vista de la estructura de estos actos: en el sentimiento
no se da la reflexión que caracteriza los otros dos tipos de acto (se conoce algo y se
conoce que se conoce; se quiere algo y se quiere querer), ya que el sentir por así
6
Ibidem, p. 343.
114
Antonio Malo
decirlo no permite la reflexión, o sea no se siente algo y se siente que siente, sino
más bien se conoce que se siente7.
La dificultad de la tesis de Zubiri para distinguir el sentimiento de los actos de
conocer y de querer aumenta cuando se analiza la relación del sentimiento con la
realidad. En efecto, si bien Zubiri concibe el de de la realidad propio del sentimiento
en una doble dimensión (fruición y disgusto), en el estudio «Acerca de la voluntad»
define la voluntad como amor fruente de lo real como real8. Si en la voluntad la realidad viene actualizada como fruición, ¿cuál es entonces la diferencia entre sentimiento y volición?
Los editores de estos cursos orales sostienen que la definición de voluntad, por
ser cronológicamente anterior a la del sentimiento, debería ser matizada. Nos parece,
sin embargo, que no es la definición de voluntad la que debe ser corregida, sino la de
sentimiento, pues la fruición —como sostiene, por ejemplo, Santo Tomás9— corresponde al acto de la voluntad que ha alcanzado el fin amado.
4. El caracter tendencial de los sentimientos
La tesis del sentimiento como algo ligado a la tendencialidad del hombre, no
debe por tanto ser descartada, sino que ha de ser entendida y desarrollada, pues de
otro modo no sólo no se entiende el sentimiento, sino tampoco —por lo menos, de
modo adecuado— los actos de la inteligencia y de la voluntad.
Desde luego, si —como hace Zubiri— se considera la tendencia como la respuesta
ante determinados estímulos, no hay la posibilidad de entender el sentimiento humano
a partir de las tendencias. Pero la tendencia humana, como el instinto animal, no consiste simplemente en una respuesta ante determinados estímulos, sino que son ante
todo inclinaciones que el animal o el hombre tienen en relación a sus respectivos
fines. Hacer depender el comportamiento animal de los estímulos supone caer en una
7
Esta incapacidad del sentimiento para reflexionar sobre sí mismo se debe a lo que Millán-Puelles
denomina reflexión originaria, pues en los sentimientos la subjetividad está inmediatamente autopresente, en cuanto que constreñida por algo. «La subjetividad en acto de una vivencia originariamente reflexiva es, pues, la subjetividad cuasi-objetivamente autopresente por virtud de aquello
mismo que la insta y cuya objetividad tiene carácter meramente vivido y no tematizado. Es imposible que algo me esté instando sin ser, de alguna forma, diferente de mí, pero también si no se da
ante mí como un cierto objeto o cuasi-objeto. Y este darse ante mí lo mismo que me insta es lo
que me hace ser “cuasi” objetivamente autopresente, porque yo soy más bien la subjetividad irreductible que en todas sus vivencias se vive en una tautología concomitante y, desde luego, solo
inobjetiva en tanto que es por completo heterogénea de toda objetivación o cuasi-objetivación»
(A. MILLÁN-PUELLES, La Estructura de la subjetividad, Rialp, Madrid 1967, p. 272).
8 Cfr. X. ZUBIRI, o.c., p. 42 y p. 97, nota 2.
9 «La intención es un acto de la voluntad relativo al fin. Pero la voluntad dice relación al fin de
tres modos. Primero, de modo absoluto: y entonces se denomina querer, en cuanto queremos la
curación, u otras cosas del género. Segundo, se considera el fin como objeto en que la voluntad
descansa; y en este caso la relación con el fin se llama fruición. Tercero, se considera el fin como
el término de las cosas ordenadas a él: y entonces dice relación al fin la intención» (SANTO
TOMÁS, Summa Theologiae, I-II, q. 12, a. 1). La traducción y el subrayado son nuestros.
115
note e commenti
especie de necesidad extrínseca, pues la respuesta sería causada necesariamente por el
estímulo externo; en cambio la necesidad que hay en el comportamiento animal no
depende en primer lugar de los estímulos, sino de los instintos; dicho de otro modo, el
estímulo puede suscitar una respuesta porque en el animal hay instintos10.
Si el hombre, a diferencia del animal, posee la capacidad de captar el estímulo
como realidad no se debe —en contra de la tesis de Zubiri— a un hábito genérico de
actualizar la realidad, sino a la relación íntima entre su tendencialidad y su inteligencia. Mientras que para satisfacer el instinto basta captar fines sensibles, porque el
instinto tiende sólo a la posesión sensible de aquello que lo satisface; para satisfacer
la tendencia del hombre no basta la captación sensible del fin, sino que es necesario
captarlo como tal, es decir como fin sensible-inteligible, o si se quiere como realidad
en cuanto realidad. En definitiva, si el animal carece de sentimientos, se debe a los
instintos rígidos que no le permiten una apertura a la realidad como realidad, sino
sólo como ambiente; a la rigidez de los instintos corresponde un conocimiento puramente sensible y viceversa. Este plexo instintos-conocimiento sensible se funda, a
nuestro parecer, en el ser del animal, que carece de un sí mismo y por tanto de libertad. Pero el animal es capaz de tener sensaciones originadas por el plexo instintoconocimiento sensible: hambre, sed, peligro, satisfacción, etc., las cuales suponen la
relación del animal como totalidad con el ambiente.
En el hombre el plexo tendencias-intelecto y voluntad es capaz de explicar la
existencia de sentimientos, porque las tendencias humanas se hallan abiertas tanto a
la intelección, y a través de ella a la realidad en cuanto realidad, como a la voluntad,
y a través de ella al acto humano. Ciertamente la apertura del sentimiento al acto
humano es sólo como posibilidad: el sentimiento de ira como posibilidad del acto de
agresión; el miedo como posibilidad del acto de huida; la esperanza como posibilidad del acto de superar los obstáculos; el amor como posibilidad del acto de unión
con el amado, etc., pues la inclinación nunca es la causa del acto humano, sino sólo
un motivo para actuar.
Debido a la existencia de este plexo tendencias-intelecto y voluntad, los sentimientos humanos son a la vez algo relacionado con el sujeto y la realidad. Este algo
lo podemos definir como afección de la realidad en cuanto realidad. La afección del
sentimiento supone, a la vez, inclinación de las tendencias y presencialidad de la realidad. En efecto, no basta la inclinación tendencial para que pueda hablarse de sentimiento; por eso, el hambre y la sed, en los cuales hay sólo inclinación tendencial, no
son sentimiento sino sensaciones tendenciales. Tampoco basta la presencialidad,
pues existen realidades que para nosotros carecen de resonancias afectivas. Se
entiende así por qué en la voluntad hay fruición, es decir sentimiento, pues en ella se
dan la tendencialidad y la presencialidad.
10 Estas
conductas instintivas a menudo tienen como componentes «estructuras regulativas pertenecientes a distintos niveles evolutivos —taxias, sensibilizaciones, reflejos innatos, condicionamientos— que en la práctica son muy difíciles de distinguir entre sí, pero que en última instancia
abonan la tesis de que los instintos son formas conductuales complejas irreductibles a meras
cadenas de reflejos incondicionados» (J.L. PINILLOS, Principios de psicología, Alianza Editorial,
Madrid 1988, p. 221).
116
Antonio Malo
Aunque los sentimientos tienen en común la posesión de este rasgo esencial, se
puede establecer una distinción en ellos a partir de la tendencialidad: hay sentimientos como la ira y el miedo, cuya tendencialidad es pasiva, pues nace por ejemplo de
la inclinación involuntaria a ser estimado o a conservar la propia vida; mientras que
en la fruición del acto de voluntad, la tendencialidad es activa (se siente fruición porque se ama, es decir se quiere querer). La presencialidad de la realidad en la afección, si bien tiene un origen cognoscitivo, no se reduce a la presencialidad que la
realidad tiene en el conocimiento, sino a aquella presencialidad que la realidad tiene
en el hombre a través de la tendencia. Por eso, en el sentimiento, resulta imposible
separar la tendencialidad de la presencialidad. De ahí que en el sentimiento no se
pueda hablar —como sostiene acertadamente Zubiri— de intencionalidad11. Ahora
bien, no porque ésta no exista (pensamos que el ser intencional existe allí donde hay
conocimiento), sino porque la presencialidad de la realidad en el sentimiento es
siempre la presencia de la inclinación hacia la realidad. Por eso resulta imposible
hablar de ira, miedo, enamoramiento, venganza, como si fueran realidades semejantes a un árbol, una casa, un hombre, pues la ira es inseparable del sentir la realidad
como injustamente ofensiva y el miedo de sentir la realidad como peligrosa. El
árbol, el hombre, etc. existen en la realidad como individuos independientes del sujeto que los conoce, mientras que la ira, el miedo no existen en la realidad, sino en
cuanto esta realidad se acomoda a la tendencialidad del sujeto.
En conclusión, el sentimiento consiste en una relación especial con la realidad,
porque supone la adecuación o falta de adecuación de la realidad a las tendencias del
hombre. De ahí que una teoría de los sentimientos sólo sea posible a partir del estudio de la tendencialidad humana, la cual tiene su origen lo mismo que la inteligencia
y la voluntad en el ser del hombre, radicalmente libre. Esto explica que, si bien las
tendencias no dependen de la inteligencia y de la voluntad en aquello que constituye
su raíz (la apetición natural), puedan participar de la libertad de la inteligencia y de
la voluntad: se orienten a la realidad en cuanto tal y constituyan motivos del acto
humano.
El sentimiento, en cuanto acomodación de la realidad a la tendencialidad humana, no puede por tanto considerarse un acto, sino más bien el reflejo de la tendencialidad en su relación positiva o negativa con la realidad. Por esta razón, el sentimiento
no es exclusivo de las tendencias espontáneas. En efecto, la voluntad, debido a su
carácter tendencial e intencional, no sólo se manifiesta en la volición, sino también
en el sentimiento, pues el hombre, además de querer querer, goza de aquello que
quiere.
11 Ricoeur,
por ejemplo, sostiene la existencia de una intencionalidad particular en el sentimiento:
«Por una parte, designa cualidades sentidas en las cosas, en las personas, en el mundo; por otra,
manifiesta, revela el modo en que el yo es afectado íntimamente» (P. RICOEUR, Philosophie de la
volonté 2: Finitude et culpabilité, 2ª ed., Aubier, Paris 1988, p. 100).
117
118
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1 - PAGG. 119-134
Dos conversos frente a Spinoza: Stensen y Burgh ante el
Tratado teológico-político*
VÍCTOR SANZ SANTACRUZ**
■
Las cartas de Burgh y Stensen, de las que me ocuparé a continuación, enfrentan a
Spinoza con la faceta más práctica y existencial de la religión y, a diferencia de
otras1, se caracterizan por pretender explícitamente lograr su conversión.
Esta coincidencia en el propósito se explica por el paralelismo de sus vidas:
ambos se convirtieron al catolicismo en Italia y recibieron posteriormente la ordenación sacerdotal, tuvieron amistad con Spinoza —Burgh, como discípulo, desde 1668,
y Stensen unos años antes, como participante en las reuniones de Rijnsburg, que
también frecuentaba Spinoza2— y se conocieron personalmente, por todo lo cual es
probable que se hubiera producido al menos un cambio de impresiones respecto al
modo de proceder con el antiguo amigo común3, más todavía si se tiene en cuenta
*
Este artículo es parte de un proyecto de investigación sobre la religión en la correspondencia de
Spinoza, realizado con la ayuda de una Beca de la Fundación Alexander von Humboldt.
** Departamento de Filosofía, Universidad de Navarra, 31080-Pamplona, España. E-mail:
[email protected]
1
Sobre la correspondencia con Blyenbergh véase: V. SANZ, La religión en la correspondencia de
Spinoza: 1. La relación Blyenbergh–Spinoza, «Pensamiento», 53 (1997), pp. 453-472.
2 Cfr. K.O. MEINSMA, Spinoza et son cercle. Étude critique historique sur les hétérodoxes hollandais, Vrin, Paris 1983, pp. 230 y 430-431. Sobre Stensen y su relación con Spinoza cfr. S. VON
DUNIN-BORKOWSKI, Spinoza, Aschendorff, Münster 1935, Bd. III, pp. 162-182 y A. FALLER,
Anatomie und Philosophie: Niels Stensen (1638-1686) und sein Jugendfreund Benedictus de
Spinoza (1632-1677), «Gesnerus», 43(1986), pp. 47-60 (especialmente pp. 47-51).
3 Scherz sugiere en su biografía de Stensen que éste dio a conocer su carta a Burgh, quien por su
parte decidió escribir también a Spinoza, y observa asimismo que en la carta de Burgh hay aspectos que recuerdan a las ideas de Stensen: cfr. G. SCHERZ, Niels Stensen: eine Biographie, St.
Benno, Leipzig 1987, vol. I, pp. 347-8. Walther habla de la posibilidad de que la carta de Burgh y
la publicación el mismo año de la de Stensen hubieran sido planeadas de mutuo acuerdo, «a pesar
de, o justamente a causa de, la diferencia en el tono y en el nivel de la argumentación» (B.
SPINOZA, Briefwechsel, C. Gebhardt-M. Walther (hrsg. von), F. Meiner, Hamburg 19863, p. 410).
119
note e commenti
que Stensen, según se desprende de su correspondencia, intervino personalmente en
el proceso de conversión de Burgh4. En todo caso, por la contestación de Spinoza a
Burgh sabemos que uno y otro habían comentado la conversión de Stensen, ocurrida
en 1667, coincidiendo entonces en el juicio —hay que suponer que negativo— respecto al paso dado por éste5. A pesar de estos lazos comunes a los dos corresponsales, la forma en que están escritas ambas cartas es, sin embargo, muy diferente. A la
mesura y el respeto con que escribe Stensen se opone la ira y el exceso de celo de
Burgh, quien adopta un tono altivo e impertinente y recurre a la amenaza e incluso al
insulto para reconvenir a Spinoza, cuya réplica —no se conserva, si es que la hubo,
la respuesta a Stensen, aunque Spinoza le cita en su carta a Burgh6— es no menos
agria y llena de mordacidad.
Comenzaremos por el estudio de la carta de Stensen, pues es anterior a la de
Burgh, pese a que, desde la edición de Gebhardt, se acostumbra a situarla a continuación de la de éste7.
4
Véase la carta de Stensen al Gran Duque Cósimo III (¿junio? de 1675), en N. STENONIS,
Epistolae et epistolae ad eum datae, G. Scherz (ed.), Busck/Herder, Hafniae/Friburgi 1952, E
105, vol. I, pp. 305-6. La carta es bien clara al respecto y en ella se apoya Scherz para afirmar
que «no hay duda alguna de que Burgh se convirtió y permaneció algún tiempo en Florencia
bajo la guía de Stensen» (G. SCHERZ, o.c., vol. I, p. 347). En el relato de la conversión de Burgh
que expone Arnauld en 1681, según una relación muy fidedigna que afirma haber recibido, no se
hace, sin embargo, mención alguna al papel de Stensen en la conversión de Burgh, a pesar de
que inmediatamente antes de ésta se incluye una breve narración de la conversión de Stensen:
cfr. A. ARNAULD, Apologie pour les catholiques, Liège 1681, en Oeuvres de Antoine Arnauld,
d’Arnay, Paris 1775-1783 (repr. Culture et Civilisation, Bruxelles 1967), t. XIV, pp. 861-864.
5 Cfr. Ep 76 (IV, 316-317), texto citado más abajo, en n. 61. Los textos de Spinoza, así como las
cartas dirigidas a él e incluidas en su correspondencia, se citan según la ed. de C. Gebhardt,
Spinoza Opera, C. Winter, Heidelberg 1925. A continuación de la referencia de la obra o carta
(Ep) de que se trate, se indica entre paréntesis el volumen de la edición de Gebhardt, en números
romanos, y la página. El texto castellano lo he tomado de la traducción de sus obras realizada
por A. Domínguez (Alianza, Madrid 1986-1990) y por Vidal Peña en el caso de la Etica
(Alianza, Madrid 1987).
6 Giancotti piensa que es casi seguro que Spinoza no respondió a Stensen y que éste, ante la falta
de respuesta, decidió años después editar la carta: cfr. E. GIANCOTTI, Notes sur la diffusion de la
philosophie de Spinoza en Italie, en P. CRISTOFOLINI (ed.), L’hérésie spinoziste. La discussion sur
le Tractatus theologico-politicus (1670-1677) et la réception immédiate du spinozisme, (Actes
du Colloque international de Cortona, 10-14 avril 1991), APA-Holland University Press,
Amsterdam 1995; el artículo de Giancotti fue publicado por primera vez en «Giornale critico
della filosofia italiana», 3 (1963), pp. 339-362. Sobre la carta de Stensen véase la nota siguiente.
7 En su carta afirma Stensen no haber «cumplido aún el cuarto año en la Iglesia», Ep 67A (IV,
295) y, puesto que la conversión de Stensen tuvo lugar el 2-XI-1667, la carta fue escrita en 1671,
cuatro años antes que la de Burgh. La carta fue impresa en 1675 en Florencia y hasta 1921 no
fue descubierta por W. Meijer e incorporada a la correspondencia de Spinoza, situándola cronológicamente de acuerdo con la fecha de impresión; véanse las observaciones de Walther en B.
SPINOZA, Briefwechsel, cit., pp. 409-410. Scherz afirma que «probablemente la conversión de
Burgh y su correspondencia con Spinoza fue lo que movió a Stensen a editar la carta a su antiguo amigo» (G. SCHERZ, o.c., I, p. 348). Se conserva un comentario de Leibniz, de 1677, a la
carta de Stensen: G.W. LEIBNIZ, Autre lettre au mesme, en N. STENONIS, Epistolae et epistolae ad
eum datae, cit., vol. II, p. 929 (ADD 13), que se halla reproducida también en: G.W. LEIBNIZ,
Textes inédits, G. Grua (ed.), PUF, Paris 1948, vol. I, pp. 158-163.
120
Víctor Sanz Santacruz
1. La carta de Stensen
La carta de Niels Stensen8 lleva por título “Sobre la verdadera filosofía al refomador de la nueva filosofía” y se dirige contra la doctrina expuesta en el Tratado
teológico-político (TTP), obra a la que alude sin citarla expresamente. Desde el
comienzo, el autor subraya su interés por la persona de Spinoza, poniéndose por dos
veces a su disposición para examinar con él los argumentos que desee9. Hace también varias alusiones amables y elogiosas a su antiguo amigo10, a quien trata de
ganarse atribuyéndole una actitud más favorable que otros respecto a la Iglesia
Católica11, y le interpela directamente, pero con respeto, procurando removerle12 e
incitándole a reconocer sus errores y a retractarse de ellos, así como a informarse de
la auténtica doctrina de la Iglesia en fuentes dignas de crédito13. Para facilitarle esta
tarea, el propio Stensen traza un resumen de la doctrina de la Iglesia, donde explica
8
Nació en Copenhage en 1638, estudió medicina y anatomía en su ciudad natal y luego en
Holanda (Leiden y Amsterdam), donde conoció a Spinoza. Durante un viaje a Italia, se convirtió
al catolicismo en Florencia, en 1667. En 1675 fue ordenado sacerdote y en 1677 obispo, desarrollando su actividad en el norte de Alemania, primero en Hannover, donde trabó amistad con
Leibniz, y luego en Münster, Hamburgo y Schwerin, falleciendo en esta ciudad en 1686. Ha sido
declarado beato en 1988. Junto a una producción científica considerable y de gran altura, que
abarca campos como la anatomía (en 1660 descubrió el conducto que lleva su nombre), embriología, paleontología, geología y mineralogía, se dedicó a partir de 1670 al cultivo de la teología,
que compaginó con una amplia labor pastoral. Ediciones de sus escritos: N. STENONIS, Opera
philosophica, V. Maar (ed.), Tryde, Copenhagen 1910 (2 vols.); N. STENONIS, Opera theologica,
K. Larsen - G. Scherz (ed.), A. Busck, Hafniae, ed. secunda 1944 (2 vols.); N. STENONIS,
Epistolae et epistolae ad eum datae, G. Scherz (ed.), Hafniae-Friburgi 1952 (2 vols.). La biografía más completa sobre Stensen es la de G. Scherz, en dos volúmenes, citada más arriba, en n. 3;
véase también M. BIERBAUM , Niels Stensen: Anatom, Geologe und Bischof (1638-1686),
Aschendorff, Münster 1979. Una amplia documentación sobre su vida y sus escritos se halla en
la obra de A. RÄß, Die Convertiten seit der Reformation, Herder, Freiburg im Breisgau 18661880, vols. VII, pp. 290-297 y XII, 155-263, así como en la “Positio” de la introducción de su
proceso de beatificación: SACRA CONGREGATIO PRO CAUSIS SANCTORUM, Beatificationis et canonizationis Servi Dei Nicolai Stenonis, Episcopi Titiopolitani († 1686), Positio super introductione causae et super virtutibus ex officio concinata, Romae 1974. Sobre la carta de Stensen a
Spinoza y el eco que su publicación tuvo en el mundo intelectual florentino, véase el estudio,
con abundante información histórica, de G. TOTARO, Niels Stensen (1638-1686) e la prima diffusione della filosofia di Spinoza nella Firenze di Cosimo III, en P. CRISTOFOLINI (ed.), L’hérésie
spinoziste…, cit., pp. 147-168.
9 Cfr. Ep 67A (IV, 293 y 298).
10 «Al ver que camina en semejantes tinieblas un hombre que fue antaño muy amigo mío y que
tampoco ahora, según espero, es mi enemigo (pues estoy convencido de que el recuerdo de la
antigua costumbre conserva aún ahora el amor mutuo) […]», Ep 67A (IV, 292); «el amor a la
paz y a la verdad que yo he visto antaño en usted y que aún no se ha extinguido en esas tinieblas
[…]», Ep 67A (IV, 293).
11 «Usted descubrirá así en ella [la Iglesia Católica] una evidencia de credibilidad que le satisfará,
sobre todo porque usted piensa de forma más mitigada que los demás adversarios nuestros sobre
el Romano Pontífice y porque admite la necesidad de buenas obras», Ep 67A (IV, 296).
12 «Pero, a fin de que reconozca más fácilmente esto, descienda primero a usted y sacuda su alma;
pues, si lo escruta todo correctamente, verificará que está muerta», Ep 67A (IV, 297).
13 Cfr. Ep 67A (IV, 296 y 298).
121
note e commenti
«qué le promete a todos y qué concede a los que se quieren acercar a ella»14. Esta
exposición constituye el núcleo de la carta y, aunque se ciñe a la doctrina tradicional,
trata de responder a los intereses de su destinatario, y revela un buen conocimiento
del TTP y de la filosofía de Spinoza15. Por otro lado, en ella apenas hace referencia a
los aspectos propiamente dogmáticos, movido sin duda por el intento de buscar, por
encima de todo, puntos de coincidencia que le permitan lograr el fin pretendido. Así
alude, por ejemplo, a su propio pasado, reconociendo los errores en los que él mismo
incurrió16, y evita la polémica en aspectos tales como la interpretación de la Sagrada
Escritura17 y los milagros, insistiendo en este caso en la importancia de los milagros
de tipo espiritual, especialmente el de la conversión18, y tratando de que su escrito
no se sitúe en un plano exclusivamente teórico o académico, sino propiamente parenético o de exhortación moral, como ya señaló Leibniz19.
La argumentación de Stensen se inscribe en un proceso en el que podemos diferenciar tres pasos, que guardan una estrecha relación entre sí. En primer lugar, critica
el carácter elitista de la filosofía de Spinoza, que hace que esté reservada a unos
pocos selectos capaces de comprenderla, por lo que le acusa de dejar «a los ineptos
14 Ep
67A (IV, 293). Seguramente en esta exposición se inspiró Burgh para elaborar la pars construens de su carta, en la que expone, de modo más clásico y más completo que Stensen, la doctrina católica acerca de los motivos de credibilidad o preambula fidei.
15 Cfr. W. KLEVER, Steno’s statements on Spinoza and spinozism, «Studia Spinozana», 6 (1990), pp.
303-313. Al final del artículo reproduce Klever dos pasajes de una obra de Stensen publicada en
1680, que confirman la gran familiaridad de su autor con el pensamiento de Spinoza: cfr. N.
STENONIS, Defensio et plenior elucidatio Epistolae de propria conversione, en ID., Opera theologica, cit., I, pp. 388-391. Cfr. asimismo G. TOTARO, o.c., pp. 152-153.
16 Cfr. Ep 67A (IV, 292-3).
17 «Pero, como acerca de la interpretación de la Escritura opina de forma distinta de nuestra doctrina, que tan sólo admite la interpretación de la Iglesia, paso aquí por alto este argumento», Ep
67A (IV, 296).
18 «Sé bien qué puede objetar usted a los milagros […] yo considero que el mayor milagro de todos
es que quienes pasaron treinta, cuarenta o más años accediendo a todos sus deseos, como si en
un momento se hubieran alejado de toda malicia, se conviertan en ejemplos de virtud, como los
que yo he visto con estos ojos y abrazado con estas manos y que muchas veces nos hicieron llorar de alegría a mí y a otros», Ep 67A (IV, 295).
19 «Vuelvo a la carta de Mons. Stensen, que es toda ella parenética, llena de exhortaciones que tienen como fin despertar la atención de Spinoza y obligarle a examinar la verdadera iglesia, cuestión que él bien sabía que a Spinoza apenas le preocupaba, sin verse muy afectado por ello.
Spinoza no ha sido muy afectado por la exhortación de Mons. Stensen, a causa de la gran diferencia de pareceres. En efecto, me parece que Mons. Stensen supone demasiadas cosas para persuadir a un hombre que creía tan poco en ellas» (G.W. LEIBNIZ, Autre lettre au mesme, en N.
STENONIS, Epistolae et epistolae ad eum datae, vol. II, p. 929; ADD 13). La carta, que presenta
un resumen de la de Stensen y una crítica a ella, fue escrita probablemente en la primavera de
1677, pues dice de Spinoza que «ha dejado esta vida hace algunas semanas». Al final se encuentra un testimonio personal de Leibniz acerca de Stensen: «le dejo juzgar a usted y finalizaré después de haber hecho una declaración que me parece necesaria y es que le aseguro que, bien lejos
de reprobar a Mons. Stensen, puedo decir que le estimo y, si se me permite decirlo, que le amo,
pues creo reconocer en él un celo animado de una verdadera caridad» (ibidem, vol. II, p. 931).
Sobre esta carta: cfr. I. B ETSCHART , Stensen, Spinoza, Leibniz im fruchtbaren Gespräch,
«Salzburger Jahrbuch für Philosophie und Psychologie», II (1958), pp. 135-151. Sobre la relación entre Leibniz y Stensen: cfr. G. SCHERZ, o.c., II, pp. 61-71.
122
Víctor Sanz Santacruz
para su filosofía en tal estado de vida, que se diría que son autómatas privados de
alma y sólo nacidos para el cuerpo»20. Stensen advierte el alcance soteriológico de la
filosofía de Spinoza21, que no se limita sólo a la dimensión teórica o especulativa,
sino que tiene una pretensión de totalidad. Precisamente por esto, a su elitismo
opone, en una argumentación que evoca los primeros tiempos del cristianismo22, el
carácter universal de la religión católica, que hace que personas carentes de instrucción sean capaces no sólo de ser salvados23, sino de llegar incluso a un conocimiento
profundo de Dios, mediante una vida santa24.
El segundo momento del proceso argumentativo de Stensen, consecuencia inmediata del anterior, hace referencia a su interpretación de la “verdadera filosofía”,
según la expresión incluida en el título de la carta, que es el cristianismo. Este punto,
al mismo tiempo que incide de nuevo en la dimensión soteriológica mencionada, es
un claro indicio de la incompatibilidad radical entre la posición de uno y otro, de
manera similar a como ocurrió en la correspondencia con Blyenbergh, cuando éste
escribió que procuraba ser un “filósofo cristiano”25. Stensen, después de pedir a
Spinoza que acuda a las verdaderas fuentes y a los auténticos maestros de la doctrina, «perfectos en toda sabiduría y gratos a Dios», escribe: «entonces reconocerá que
el perfecto cristiano es perfecto filósofo, aunque no se trate más que de una viejecilla
o de una esclava destinada a viles ministerios o de un idiota a los ojos del mundo,
que se gana el sustento lavando andrajos y, a la vista de ello, exclamará usted con
San Justino: ésta es la única filosofía que encuentro segura y útil»26.
La correspondencia que Stensen reconoce entre los aspectos práctico y especulativo de la fe —o entre la obediencia y la razón, en terminología de Spinoza— es
totalmente ajena al pensamiento del filósofo de Amsterdam. Por eso, no se entiende
que Stensen aduzca en su favor el hecho de que Spinoza «admite la necesidad de
buenas obras»27, ya que esta tesis hay que referirla a varios lugares del TTP en los
que Spinoza contrapone el pasaje de la epístola de Santiago donde se afirma que «el
hombre se justifica por las obras y no por la fe» (Iac 2, 24), a otro de S. Pablo (Rom
3, 27-28), quien enseña que nadie se justifica por las obras, sino sólo por la fe. La
confrontación le sirve para señalar en el capítulo XI del TTP cómo los apóstoles han
edificado la religión sobre fundamentos diferentes, de donde se siguen los cismas
20 Ep 67A (IV, 292).
21 Cfr. I. FALGUERAS ,
La “res cogitans” en Espinosa, Eunsa, Pamplona 1976, p. 254 y A.
BILLECOQ, Spinoza et les spectres, PUF, Paris 1987, p. 132.
22 Cfr. S. JUSTINO, Apología II, 10, 8; TACIANO, Discurso contra los griegos, 32; CLEMENTE DE
ALEJANDRÍA, Stromata, IV, 58, 3; TERTULIANO, Apologético, 46, 9.
23 Cfr. Ep 67A (IV, 293).
24 Cfr. Ep 67A (IV, 295 y 298). Véase también el texto citado más adelante en n. 29.
25 Cfr. Ep 20 (IV, 96-97); me permito remitir a mi artículo antes citado: La religión en la correspondencia de Spinoza: 1. La relación Blyenbergh–Spinoza, cit., especialmente las pp. 464-467.
26 Ep 67A (IV, 298). La cita de S. Justino se encuentra en Diálogo con Trifón, 8, 1. De manera
similar escribe Stensen unas páginas antes: «de ahí que, si lo examina todo convenientemente,
sólo en el cristianismo hallará la verdadera filosofía, que enseña sobre Dios cosas dignas de Dios
y sobre el hombre cosas adecuadas al hombre y que guía a sus cultivadores a la verdadera perfección de todas las acciones» (ibidem, p. 295).
27 Ep 67A (IV, 296); texto citado más arriba, en n. 11.
123
note e commenti
que ha padecido la Iglesia y que, a su juicio, seguirá padeciendo hasta que se decida
a prescindir de las especulaciones filosóficas y se reduzca a un conjunto mínimo de
enseñanzas morales28. En el capítulo XIV se halla un desarrollo aún más amplio de
esta controversia, donde Spinoza se inclina decididamente por la sentencia de
Santiago, porque en ella puede apoyar mejor su propia tesis de que la fe no tiene que
ver con la razón, sino con la obediencia y la piedad. Para Spinoza, la obediencia que
trae consigo la fe tiene que ver sólo con las obras29, mientras Stensen sostiene, por el
contrario, que «la santidad de vida muestra la verdad de la doctrina»30. Parece que
Stensen, pasando por alto el trasfondo de la exposición de Spinoza y el contexto en
el que se sitúa, sólo pretende captar la benevolencia de su antiguo amigo de un modo
entre ingenuo y bienintencionado, que resulta difícil pensar, no obstante, que lograra
su objetivo, y que contrasta con el juicio más cauteloso que sobre el mismo problema emite Velthuysen en su carta31. Lo cual confirma el diferente punto de vista que
uno y otro adoptan en su crítica a Spinoza.
La coincidencia de Stensen y Spinoza en el carácter absoluto de la filosofía, que
en el caso del primero se expresa en su explicación de lo que entiende por “verdadera filosofía” y en Spinoza alcanzará su formulación más rotunda en una célebre afirmación de su respuesta a Burgh32, no oculta sin embargo la gran diferencia que los
separa en lo que respecta al contenido del término “filosofía”. Aun así, resulta de
indudable interés aludir a ello, porque reproduce de algún modo la situación que se
daba en la antigüedad y que, en breves palabras, consiste en el retorno a una idea de
filosofía entendida como modo de vida33 o incluso como saber de salvación. La diferencia fundamental reside en que mientras Spinoza enlaza con la tradición griega que
parte de Sócrates y alcanza un considerable desarrollo en la época helenística —
especialmente en el estoicismo y en el epicureísmo—, Stensen se sitúa en el punto
de encuentro de la filosofía griega con la religión cristiana y se remite explícitamente
a S. Justino, quien polemiza con esta postura y entiende la religión cristiana como la
auténtica filosofía, pues sólo ella puede proporcionar esa salvación que los filósofos
28 Cfr. TTP, XI, (III, 157-8).
29 «No podemos considerar a
nadie como fiel o infiel, a no ser por las obras. Es decir, si las obras
son buenas, aunque discrepe de otros fieles en los dogmas, es, sin embargo, fiel; y al contrario, si
las obras son malas, aunque esté de acuerdo en las palabras, es infiel. Porque, puesta la obediencia, está necesariamente puesta la fe, y la fe sin obras está muerta» (TTP, XIV (III, 175).
30 Ep 67A (IV, 298).
31 «Dado, pues, que ambas proposiciones, tanto la de Pablo como la de Santiago, contribuían magníficamente, según las distintas circunstancias temporales y personales de cada uno, a que los
hombres inclinaran su espíritu a la piedad, opina el autor que fue prudencia de los apóstoles el
emplear ora la una ora la otra», Ep 42 (IV, 215).
32 Cfr. Ep 76 (IV, 320); texto citado más adelante en n. 66.
33 Sobre este punto, véanse, entre otras, las obras de P. HADOT, Exercices spirituels et philosophie
antique, Institut d’études augustiniennes, Paris 19862 y Qu’est-ce que la philosophie antique?,
Gallimard, Paris 1996 y la de J. DOMANSKI, La philosophie, théorie ou manière de vivre? Les
controverses de l’Antiquité à la Renaissance, Cerf-Ed. Universitaires de Fribourg, ParisFribourg 1996. Una amplia exposición de la tesis de Hadot se encuentra en la introducción de
A.I. DAVIDSON a la versión inglesa del primero de los libros de Hadot citados: Philosophy as
Way of Life. Spiritual Exercices from Socrates to Foucault, Blackwell, Oxford/Cambridge (MA)
1995, pp. 1-45.
124
Víctor Sanz Santacruz
en vano prometían. Según la tesis de Stensen y de S. Justino, la religión cristiana
absorbe la filosofía, al ser entendida ésta como un saber de salvación; o, dicho de
otro modo, la religión es la auténtica filosofía y sólo ella puede aspirar a lo absoluto.
En el caso de Spinoza, en cambio, hay un movimiento de sentido inverso, pues es la
filosofía la que hace suyas las características de la religión y se convierte, también
merced a la noción de salvación, en una religión de la razón, con ese carácter elitista
que Stensen le reprocha; la filosofía es así para Spinoza la auténtica religión.
Por último, el tercer paso se apoya, como hará también Burgh, en una actitud
escéptica frente a la teoría spinozana del alma —que Stensen describe como «un sistema formado a partir de suposiciones»34— y a los límites de la certeza demostrativa
de la filosofía de Spinoza, que no supera el nivel de la hipótesis35. Esta desconfianza
de Stensen tiene en su origen una doble fuente. Por un lado, procede de su dedicación durante muchos años a las ciencias naturales, basadas en la observación y en la
experiencia, y se remonta a dos experimentos científicos acerca del movimiento del
corazón y de los músculos, que llevó a cabo cuando residía aún en Holanda y que le
convencieron de la falsedad del sistema de Descartes y de su explicación mecanicista, que hasta entonces tenía por infalible, según relatará años después en una carta a
Leibniz36. Su actitud crítica frente a la filosofía, especialmente la cartesiana37, es
paralela a un despertar de su interés por la religión, la otra fuente de su escepticismo,
mientras continúa dedicándose a sus investigaciones científicas38. La decepción que
34 Ep 67A (IV, 292).
35 «Y, sin embargo, su
certeza demostrativa ¡en cuán estrechos límites se encierra! Escudriñe, por
favor, todas sus demostraciones y propóngame una sola que diga cómo se unen lo pensante y lo
extenso, cómo se une el principio que mueve con el cuerpo que es movido. Pero ¿por qué le pido
demostraciones de estas cosas, si ni siquiera podrá explicarme sus modos probables? Por eso
usted es incapaz de explicar, sin presupuestos, el sentido del placer y del dolor, ni el movimiento
del amor o del odio. Aún más, toda la filosofía de Descartes, analizada y reformada por usted
con todo esmero, no puede explicarme demostrativamente este único fenómeno, a saber, cómo el
impulso de la materia sobre la materia es percibido por el alma unida a la materia. Y sobre la
misma materia, ¿qué noticia nos proporcionan ustedes, aparte del examen matemático de la cantidad relativo a las figuras, hasta ahora sólo hipotéticamente probadas en cualquier tipo de partículas? ¿Y qué es más ajeno a la razón que negar las palabras divinas de aquel, cuyas divinas
obras están patentes a los sentidos, o el simple hecho de que repugnen a las demostraciones
humanas, basadas sobre una hipótesis?», Ep 67A (IV, 297).
36 Cfr. carta a Leibniz (¿noviembre? de 1677), en N. STENONIS, Epistolae et epistolae ad eum
datae, E 143, vol. I, pp. 366-9. Leibniz hará referencia más adelante a ello: cfr. G.W. LEIBNIZ,
Sämtliche Schriften und Briefe, hrsg. von der Deutschen Akademie der Wissenschaften, II, 1, p.
503.
37 En una carta a M. Malpighi (24 de noviembre de 1671), escribe Stensen: «tengo ciertos amigos
en Holanda dedicados todos a la filosofía cartesiana, hasta el punto de querer convertir la filosofía en juez de las manifestaciones (notizie) de la gracia» (N. STENONIS, Epistolae et epistolae ad
eum datae, E 65, vol. I, p. 249). Véase también su Defensio et plenior elucidatio Epistolae de
propria conversione, en N. STENSEN, Opera theologica, cit., I, pp. 387-390; cfr. supra, n. 15.
38 Stensen escribe a Leibniz, en la carta citada en n. 36, que los experimentos mencionados le
hicieron pensar de los filósofos cartesianos que «si en las cosas materiales expuestas a los sentidos, se han equivocado tanto, qué seguridad me darán de no equivocarse igualmente cuando tratan de Dios y del alma», carta a Leibniz (¿noviembre? de 1677), en N. STENONIS, Epistolae et
epistolae ad eum datae, E 143, vol. I, p. 368. Más adelante afirma que Dios, por medio de los
125
note e commenti
entonces sufrió es —como ya advirtió Leibniz39— claramente perceptible en su
carta a Spinoza, donde acude tanto a la ciencia como a la religión (o la fe), para contrarrestar las tesis de su antiguo amigo. La ciencia desempeña la función de impugnar el valor demostrativo de la filosofía, cuando ésta pretende demostrar algo apodícticamente40 en ámbitos que no le corresponde, poniendo de manifiesto sus límites, mientras que la religión proporciona la deseada seguridad, que Spinoza también
busca41, pero, según Stensen, con medios inadecuados42. En último término, la verdadera seguridad no es sino la salvación eterna, advertirá Stensen43.
La intensa actividad de polemista y apologista a la que Stensen se dedicó desde
su conversión, muestra con claridad que no es la suya una postura irracionalista o
fideísta a ultranza, sino la actitud de quien es consciente de los límites de la razón y
descubrimientos anatómicos, le hizo «renunciar a la presunción filosófica» (ibidem, p. 369).
Desde entonces, según confesión propia, comenzó a mostrar interés por la religión católica y a
preguntarse si no sería la verdadera. Leibniz se lamentará en varias cartas del abandono de las
investigaciones científicas por parte de Stensen, dedicado sólo a la actividad teológica y pastoral
(cfr. G.W. LEIBNIZ, Sämtliche Schriften und Briefe, cit., I, 4, p. 331; I, 7, p. 354; II, 1, p. 385; II,
1, p. 518; III, 2, p. 462), así como en la Teodicea: cfr. Essais de Théodicée, § 100 (en G.W.
LEIBNIZ, Die philosophischen Schriften, ed. Gerhardt, Bd. VI, pp. 158-159).
39 «No me extraño de que esté desengañado de la filosofía, porque todavía no ha experimentado la
fuerza de las demostraciones metafísicas» (G.W. LEIBNIZ, Autre lettre au mesme, vol. II, p. 931).
40 Cfr. TTP, Prefacio (III, 10); VI (III, 91); Ep 76 (IV, 324).
41 El término “seguridad”, que se repite varias veces en la carta de Stensen (véase el texto citado en
la nota siguiente), es empleado con frecuencia por Spinoza para referirse a la “seguridad de la
vida” y a la “seguridad del Estado”, como garantía de la felicidad: cfr. Tratado de la reforma del
entendimiento (TRE), n. 14 (II, 9); TTP, III (III, 46-48), V (III, 71), XVI (III, 191), XVII (III,
203, 218, 220), XIX (III, 232 y 236), XX (III, 240-241). En el Tratado político (TP) las referencias son todavía más numerosas. En la Etica, por el contrario, tiene una connotación negativa,
pues es una de las «señales de un ánimo impotente», Etica, IV, prop. 47, esc. (II, 246).
42 «Observo que usted lo refiere todo a la seguridad pública o más bien a su propia seguridad, que
es, según usted, el fin de la seguridad pública. Sin embargo, ha adoptado usted los medios contrarios a la deseada seguridad y ha descuidado totalmente aquella participación suya, de cuya
seguridad había que preocuparse tan sólo. […] Y que usted ha descuidado totalmente aquella
participación suya, de que tan sólo debería preocuparse, consta por el hecho de que permite a
todos pensar y hablar de Dios lo que les plazca, a condición de que no sea algo que suprima la
obediencia que se debe, según usted, no tanto a Dios cuanto a los hombres. Lo cual viene a significar que usted encierra todo el bien del hombre dentro de los bienes del régimen civil, es
decir, dentro de los bienes del cuerpo», Ep 67A (IV, 292). En relación con esto, es digna de mención la acusación de materialismo que Stensen dirige a Spinoza en un pasaje posterior de la
carta: «se desplaza usted entre la materia movida, como si le faltara la causa que la mueve o
como si no sirviera para nada. En efecto, la religión que usted introduce es de los cuerpos y no
de las almas», Ep 67A (IV, 297). También en su Defensio et plenior elucidatio Epistolae de propria conversione, acusa de materialismo a Spinoza y sus seguidores, «quienes no conocen más
que la materia, hacen de Dios el agregado de todas las cosas materiales, conceden al hombre
licencia para gozar de todas las atracciones de los sentidos, etc.» (ID., Opera theologica, cit., I, p.
389).
43 «La Iglesia promete a todos la verdadera seguridad, la seguridad eterna, es decir, la paz estable,
que acompaña a la verdad infalible», Ep 67A (IV, 293); «ni cabe dudar de la garantía con la que
[la Iglesia] promete la seguridad eterna», Ep 67A (IV, 295). En el TTP establece también
Spinoza en varios lugares la correspondencia entre seguridad y salvación: cfr. TTP, XVII (III,
218), XIX (III, 232).
126
Víctor Sanz Santacruz
de la capacidad argumentativa humana44. Sí se puede calificar, en cambio, de antiracionalismo el punto de vista de quien, como Stensen, afirma que «la certeza divina
no puede ser demostrada sino a quien la experimenta»45. Por eso, su carta a Spinoza
pretende incitar, mostrar, presentar, pero no convencer mediante un razonamiento
demostrativo estricto. Y precisamente por eso, aunque no sabemos si Spinoza recibió
la carta, cabe suponer, con Leibniz, que el filósofo de Amsterdam respondería «que
las promesas son bellas, pero que él ha hecho voto de no creer nada sin prueba»46.
En definitiva, se trataría de un diálogo casi imposible entre dos interlocutores que
quizá conservaban aún el antiguo afecto, pero a los que separan concepciones tan
diferentes que resulta difícil pensar que el intento de Stensen pudiera contribuir a
aproximarlas.
2. La carta de Burgh y la respuesta de Spinoza
Albert Burgh era hijo de Coenrad Burgh, regidor de Amsterdam, y conoció a
Spinoza durante su época de estudiante de filosofía en Leiden47. Años después, en
un viaje a Italia se convierte al catolicismo, como él mismo comunica a Spinoza en
una carta fechada en Florencia en septiembre de 1675, en la que no proporciona más
44 En
este sentido, no comparto el juicio de Totaro, quien considera que la continua apelación a la
razón por parte de Stensen es problemática, desde la perspectiva religiosa en la que éste se sitúa,
y no pasa de ser un expediente meramente retórico: cfr. G. TOTARO, o.c., p. 151. El concepto de
“fideísmo”, tal como lo entiende R.H. POPKIN, por ejemplo, en su obra La historia del escepticismo desde Erasmo hasta Spinoza, FCE, México 1983, es a mi juicio demasiado amplio y poco
significativo, ya que, en el fondo, con ese término se designa todo lo que no es racionalismo
estricto. Así, escribe Popkin que clasifica como fideístas las opiniones que «reconocen que no
pueden encontrarse ni establecerse verdades indudables sin algún elemento de fe, sea religiosa,
metafísica o de otra índole» (ibidem, p. 19). El propio autor advierte que lo hace para que resalte
el elemento escéptico implícito en la visión fideísta y reconoce que una acepción más rigurosa
del término, como la que proponen otros estudiosos, llevaría a una clasificación totalmente distinta de los pensadores y doctrinas que él califica como “fideístas”: cfr. ibidem, pp. 19-20.
45 Carta a J. Sylvius (12 de enero de 1672), en N. STENONIS, Epistolae et epistolae ad eum datae, E
73, vol. I, p. 260.
46 G.W. LEIBNIZ, Autre lettre au mesme, vol. II, p. 929. Faller opina que el distanciamiento que se
había producido entre las ideas de Stensen y las de Spinoza, unido al tono conciliador y benevolente de la carta de Stensen, fue lo que llevó al filósofo de Amsterdam a no contestarle, evitando
así una polémica con quien, años después, continuaba aún dándole muestras de su afecto: cfr. A.
FALLER, o.c., pp. 48-49.
47 Nació en Amsterdam en 1650. Al parecer, fue alumno de latín de F. van den Enden, antes de
estudiar filosofía en Leiden de 1668 a 1673. Tras su conversión en 1675, durante un viaje por
Italia, decidió ingresar en la orden franciscana. Tras una breve estancia en su patria en el año
1677, regresó a Roma, siendo ordenado sacerdote en 1682. Desde esta fecha hasta su muerte,
acaecida en 1708, se dedicó a la predicación, a la actividad apologética y de controversia teológica, y llegó a ocupar diversos cargos en la curia romana. Cfr. J.B. KAISER, Albert Burgh O. F.
M. Ein Konvertit aus dem XVII. Jahrhundert, «Franziskanische Studien», 10 (1923), pp. 61-94 y
A. EMMEN, P. Franciscus de Hollandia O. F. M. (1650-1708) in saeculo Albertus Burgh. Nova
documenta biobibliographica, «Archivum Franciscanum Historicum», 37 (1944/47), pp. 202306. Véase también la documentación contenida en A. RÄß, o.c., vol. XII, pp. 274-301.
127
note e commenti
detalles de ese acontecimiento, pues su objetivo es sólo añadir «algunas cosas que
pueden resultarle útiles»48. Esta frase resume muy bien el fin práctico que le mueve,
aunque en la carta, el deseo manifestado de lograr la conversión de su antiguo maestro se alterna con duros reproches y una crispación en progresivo aumento, que no
parece, ciertamente, el mejor camino para el fin pretendido49.
La carta de Burgh tiene dos partes claramente diferenciadas: en la primera, o pars
destruens, critica la relación que Spinoza establece entre teología y filosofía y la
concepción de ésta como un saber de salvación, su interpretación de la Sagrada
Escritura y su negación de la divinidad de Cristo; le advierte de la incapacidad de la
filosofía —no sólo de la de Spinoza— para dar cuenta de las esencias de las cosas,
así como de la falta de legitimidad y de competencia de Spinoza para juzgar y descalificar la religión cristiana50. En resumidas cuentas, Burgh le acusa de rechazar todos
aquellos aspectos del cristianismo que no concuerdan con sus propios principios.
La segunda parte, o pars construens, es una defensa de la fe, apoyada en los
motivos de credibilidad, que responde al modelo de la apologética católica clásica,
que había surgido con fuerza en el Renacimiento italiano y que en los inicios de la
Edad Moderna experimenta un considerable impulso, como reacción a los primeros
brotes de ateísmo y deísmo y a los avances del espíritu libertino. Burgh subraya la
historicidad de los acontecimientos capitales del cristianismo y el consenso unánime
que ha merecido de multitud de hombres, la perdurabilidad de la Iglesia a través de
los siglos, las notas o propiedades que la adornan y, por último, la vida ejemplar de
sus miembros más insignes, que contrapone a la de los ateos51. En su exposición de
los méritos y virtudes de la religión católica, Burgh no hace alusión a los errores,
debilidades y excesos cometidos en nombre de la fe —que Spinoza le recordará con
un alusión llena de ironía52— y, en general, se aprecia una ausencia de modestia y de
ecuanimidad, atribuible sin duda al celo, poco purificado y falto de la madurez que
da la experiencia, del recién converso. La exhortación al arrepentimiento y la manifestación de su aprecio por Spinoza y de la noble intención con que le escribe, que
ponen fin a la carta, muestran esa alternancia de irritación y aprecio sincero, de violencia y buena intención, que recorre todo el escrito y que refleja el carácter impaciente y colérico de quien la remite53. Todos estos ingredientes causan en el lector
una impresión semejante a la que en su momento quizá provocó en su destinatario y
antiguo amigo.
48 Cfr. Ep 67 (IV, 281).
49 S. von Dunin-Borkowski
considera que la carta de Burgh es «descortés, grosera y carente de psicología» (S. VON DUNIN-BORKOWSKI, o.c., III, p. 163).
50 Cfr. Ep 67 (IV, 281-285).
51 Cfr. Ep 67 (IV, 285-290).
52 Cfr. Ep 76 (IV, 321-322).
53 Véanse, por ejemplo, algunos pasajes: «cuanto más le admiraba antes por la agudeza y penetración de su ingenio, tanto más le compadezco y lloro ahora, pues, siendo usted un hombre de gran
ingenio, que ha recibido de Dios un alma dotada con los más excelsos dones y es amante e incluso ávido de la verdad, se ha dejado, sin embargo, descarriar y engañar por el miserable y orgullosísimo príncipe de los espíritus malignos», Ep 67 (IV, 281); «arrepiéntase de sus pecados
tomando conciencia de la perniciosa arrogancia de su mísero y demente razonamiento» (ibidem,
128
Víctor Sanz Santacruz
Burgh es consciente, como Stensen, del alcance soteriológico de la filosofía de
Spinoza y así lo afirma expresamente, a la vez que subraya los límites de la razón y
la filosofía en este ámbito: «¿qué es toda su filosofía, sino pura ilusión y quimera? Y,
sin embargo, usted confía a ella no sólo la tranquilidad de su alma en esta vida, sino
también la salvación eterna de su alma»54. El escepticismo que asoma en Burgh
tiene también un origen científico, como el de Stensen, pero presenta características
diferentes, pues, por un lado, recuerda a la inducción completa de Bacon55 y, por
otro, acude al repetido argumento del desacuerdo entre los filósofos, que Burgh
interpreta en beneficio propio y de manera a todas luces abusiva como un acuerdo
unánime de las demás filosofías frente a la de Spinoza56, y, por último, no está exento de una curiosa amalgama de aspectos científicos y mágicos57, que coinciden en
algunos de los temas planteados por Boxel en su correspondencia con Spinoza.
Siebrand ha subrayado que el caso Burgh es de gran importancia para la historia del
anti-spinozismo y se lamenta de que, pese a ello, «en la literatura sobre Spinoza, Albert
p. 283); «¿es que usted, hombrecillo miserable, vil gusano de la tierra, e incluso ceniza, pasto de
guanos, pretende anteponerse, con indecible blasfemia, a la Sabiduría Infinita Encarnada del
Padre Eterno?» (ibidem); «dése por vencido y arrepiéntase de sus errores y pecados; revístase de
humildad y regenérese» (ibidem, p. 285); «arrepiéntase, hombre filósofo, reconozca su sabia
necedad y su necia sabiduría; de soberbio, vuélvase humilde y sanará» (ibidem, pp. 290-1); «por
mi parte, le he escrito esta carta con intención auténticamente cristiana: primero, para que sepa
el amor que le tengo a usted, aunque sea gentil; y después, para rogarle que deje de pervertir
también a otros» (ibidem, p. 291); «Dios quiere arrancar su alma de la condenación eterna, con
tal que usted quiera. No dude usted en obedecer al Señor, que tantas veces le llamó por otros y
que le llama una vez más, y quizá la última, por mí, que he alcanzado esta gracia de la inefable
misericordia de Dios y que pido la misma con todas mis fuerzas para usted. No se resista, porque
si usted no atiende a la llamada de Dios, se encenderá contra usted la ira del Señor, y corre el
peligro de que sea abandonado por su infinita misericordia y se haga víctima de la justicia divina, que todo lo consume en su ira» (ibidem).
54 Ep 67 (IV, 281).
55 «Usted alardea de haber encontrado de nuevo la verdadera filosofía. ¿Y cómo sabe usted que su
filosofía es la mejor entre todas las que han sido jamás enseñadas en el mundo y que aún se
enseñan o serán enseñadas en lo sucesivo? ¿Acaso ha examinado usted todas aquellas filosofías,
tanto antiguas como nuevas (por no mencionar el examen de las futuras), que se enseñan aquí y
en la India y en todo el orbe terrestre?», Ep 67 (IV, 281).
56 «Y, aun cuando las haya examinado correctamente todas ellas, ¿cómo sabe usted que ha elegido
la mejor? Dirá usted: mi filosofía está acorde con la recta razón, mientras que las otras la contradicen. Pero todos los demás filósofos, fuera de sus discípulos, están en desacuerdo con usted, y
lo mismo que dice usted de su filosofía, lo dicen ellos de sí mismos y de la suya, y con el mismo
derecho; y le acusan de falsedad y de error, lo mismo que usted a ellos. Es, pues, evidente que,
para que brille la verdad de su filosofía, debe usted exponer las razones que no son comunes a
las otras filosofías, sino que sólo se pueden aplicar a la suya; de lo contrario, habrá que confesar
que su filosofía es tan incierta y engañosa como las demás», Ep 67 (IV, 281). Estas últimas palabras reflejan la opinión de Burgh respecto al valor de la filosofía en general, no sólo la de
Spinoza. En la primera parte del texto se observa un eco anticipado de la afirmación de Bayle en
su artículo del Dictionnaire dedicado a Spinoza: «las objeciones surgen en masa contra él» (P.
BAYLE, Dictionnaire historique et critique, 5ème éd., Amsterdam 1740 (repr. Slatkine, Genève
1995), art. «Spinoza», t. IV, p. 266). Se confirma así una vez más la impresión de extrañeza y
desconcierto que en muchos de sus contemporáneos producían las ideas del filósofo de
Amsterdam.
57 Cfr. Ep 67 (IV, 283-284).
129
note e commenti
Burgh es un tema casi inexplorado»58. Pero esa importancia tiene para él un significado ante todo político, pues se basa en la presunta influencia que Burgh pudo ejercer,
desde su función como consultor del Santo Oficio, en la postura católica oficial frente
al spinozismo. En cuanto a la carta misma de Burgh, afirma que lo único que cabe es
compararla con la de Stensen, de la que piensa que depende, y con las principales preocupaciones religiosas de los anti-spinozistas59. Por mi parte, pese a las evidentes prevenciones que hay que tomar ante una carta como la de Burgh, considero que puede
arrojar alguna luz para entender la postura de Spinoza, más en lo que atañe a la actitud
psicológica de fondo que al orden especulativo. En mi opinión, la carta de Burgh se
puede considerar como una provocación, a lo que contribuye decisivamente el tono en
el que está escrita, que es lo que sin duda ha conducido a que sea minusvalorada por
los estudiosos de Spinoza; pero precisamente por eso cumple su función, en cuanto que
saca a relucir algunas actitudes y juicios del filósofo de Amsterdam acerca de la religión, que, de no mediar un estímulo tan claro, quedarían en penumbra, como sucede
con otros aspectos del carácter e intenciones de Spinoza60.
Un primer dato significativo de lo que se acaba de decir es que la carta no quedara sin respuesta, pese a que, en una primera reacción, Spinoza había decidido no contestarla, según él mismo confiesa61. El hecho de que al final no fuera así, indica que
58 Cfr.
H.J. SIEBRAND, o.c., p. 133. El autor afirma que «en las ediciones de la correspondencia de
Spinoza la carta de Stensen se presenta siempre como una réplica a la de Burgh. Sin embargo, la
carta de Burgh fue escrita ocho días después, a saber, el 11 de septiembre de 1675» (ibidem, p.
136, n. 168). Esta observación es claramente equivocada, pues en realidad, la carta de Stensen,
como ya vimos, es cuatro años anterior a la de Burgh. En esa misma página se encuentran otras
inexactitudes, que dan la impresión de una narración más novelada que rigurosamente histórica
por parte del autor, pues, a la vista de la documentación disponible, no parece que puedan confirmarse los datos que menciona: así, afirma que Stensen comenzó a escribir su carta el 3-IX-1675,
que sería el día de la llegada de Burgh a Florencia; dato que no es posible conocer, pues la carta
en la que Stensen comunica a Cósimo III su encuentro con Burgh es probablemente de junio de
1675 (cfr. supra, n. 4). Por último, señala que el propio Burgh marchó después a Bruselas, para
comunicar su conversión a Arnauld. Del texto de Arnauld se deduce con claridad que el relato de
su conversión no se lo hizo llegar Burgh en persona; si así fuera, es lógico pensar, además, que
Arnauld lo hubiera señalado expresamente. He aquí el texto de Arnauld: «Il arriva à Bruxelles:
& passant de-là pour aller à Amsterdam, l’Auteur de la Relation qu’on m’a envoyée dit, qu’il le
rencontra dans une barque, vêtu pauvrement; que le P. Harney le lui fit connoître, & qu’il l’obligea de lui conter l’histoire de sa conversion» (A. ARNAULD, o.c., t. XIV, pp. 862-3).
59 Cfr. H.J. SIEBRAND, o.c., pp. 140-141 y 146-147.
60 Leibniz, quien seguía muy de cerca todo lo referido a Spinoza, leyó la respuesta de éste a Burgh.
No conocía, en cambio, la carta de Burgh, pero conjetura que sus razones no serían quizá muy
convincentes. Reconoce asimismo que las de Spinoza tampoco le contentan, «aunque se explica
– añade – con mucha nitidez» (G.W. LEIBNIZ, Carta al Duque Johann Friedrich (1677), en G.W.
LEIBNIZ, Sämtliche Schriften und Briefe, cit., II, 1, p. 301).
61 «Me había propuesto no contestar a su carta, seguro de que usted necesita servirse más del tiempo que de la razón para retornar a sí mismo y a los suyos, por no mencionar ahora otros motivos
que usted mismo aprobó antaño, cuando hablamos los dos sobre Stensen (cuyos pasos sigue
ahora). Pero algunos amigos, que se habían forjado conmigo grandes esperanzas por sus excelentes dotes, me han rogado reiteradamente que no faltara a su deber de amigo y que pensara
más bien en lo que usted era antes que en lo que es ahora, y otras cosas por el estilo. A instancias
suyas, le escribo, por fin, estas pocas cosas y le ruego vehementemente que se digne leerlas con
ecuanimidad», Ep 76 (IV, 316-317).
130
Víctor Sanz Santacruz
no es mero fruto de un impulso o reacción incontrolada ante la desmesura del escrito
de Burgh; lo cual, por otra parte, no respondería a su carácter, como se desprende del
conjunto de su correspondencia y de las noticias biográficas que nos han llegado,
incluidas las menos favorables a sus ideas. El talante sereno y sosegado con el que
inicia Spinoza su respuesta viene en apoyo de esta opinión, así como la ironía y sátira mordaz de las que rebosa.
Spinoza reafirma la tesis, repetida en el TTP a propósito sobre todo de la elección
del pueblo hebreo, de que la santidad de vida no es exclusiva de una confesión, sino
común a todas y lo aplica en este caso a la Iglesia Católica y a las demás confesiones
cristianas. En apoyo de esta afirmación aduce el texto de S. Juan que ya había incluido como lema al comienzo del TTP y que aparece también citado en el capítulo XIV:
en esto conocemos que permanecemos en Dios y Dios permanece en nosotros62. Con
ello subraya de nuevo que «la justicia y la caridad es la única señal segurísima de la
verdadera fe católica y del verdadero fruto del Espíritu Santo», de manera que
«cuanto distingue a la Iglesia Romana de las demás, es totalmente superfluo y, por
tanto, producto exclusivo de la superstición»63. Con estas palabras, subraya la doctrina, repetida con frecuencia a lo largo del TTP, según la cual la ley de la justicia y
la caridad constituye el núcleo de la enseñanza de la S. Escritura, cuestión que queda
reflejada en el quinto de los dogmas de la fe universal64. Hasta aquí, la carta mantiene el tono mesurado mediante el cual su autor buscó quizá resaltar el contraste con el
escrito de Burgh. Pero, como si no quisiera o no pudiera resistir a la provocación de
éste, va haciéndose progresivamente más duro y agresivo y no renuncia a la burla y
al desprecio abierto contra algunos aspectos centrales de las nuevas creencias de su
antiguo amigo, en un lenguaje radical y decididamente antirreligioso65.
62 1 Jn 4, 13; texto citado en Ep 76 (IV, 318) y en TTP, XIV (III, 175-6).
63 Ep 76 (IV, 318).
64 «El culto a Dios y su obediencia consiste exclusivamente en la justicia
y la caridad o en el amor al
prójimo», TTP, XIV (III, 177). En su comentario ya citado a la carta de Spinoza, escribe Leibniz:
«es verdad que la justicia y la caridad son los verdaderos signos de la operación del Espíritu
Santo, pero yo creo que aquellos a los que Dios ha dado esta gracia no despreciarán por esos los
mandamientos particulares de Dios, los sacramentos ni otras ceremonias y leyes positivas divinas
y humanas»; y más adelante añade: «he aquí lo que me ha parecido necesario decir respecto a la
opinión de los que reducen la religión a la sola moral y dicen que no merece la pena ocuparse de
todas esas pretendidas revelaciones, que es, según me parece, el fundamento de la carta de
Spinoza» (G.W. LEIBNIZ, Carta al Duque Johann Friedrich (1677), cit., II, 1, pp. 301 y 302).
65 Cfr. Ep 76 (IV, 319-320). Refiriéndose a ese pasaje, Leibniz afirma que es «un poco rudo», G.W.
Leibniz, Carta al Duque Johann Friedrich (1677), cit., II, 1, p. 302. Neercassel escribe al año
siguiente: «considero que apenas puede pensarse algo más pernicioso contra la religión critiana
y católica que esa carta que Spinoza envió a Italia al nobilísimo joven Alberto Burgh», carta a L.
Casoni (9-IX-1678), Rijksarchief Utrecht (OBC 597); cit. por J. ORCIBAL, Les Jansénistes face à
Spinoza, «Revue de littérature comparée», 23 (1949), p. 466. A juicio de V. PEÑA, «todo el texto
de la carta deja malparada la imagen de un Espinosa «dulce y paciente», que muchos se han
complacido en forjar. En esta y otras ocasiones (véase, por ejemplo, su correspondencia con
Hugo Boxel), Espinosa emplea un lenguaje antirreligioso al modo de un ilustrado radical, y
muestra sus espinas la rosa que había escogido como sello» (V. PEÑA, en B. SPINOZA, Etica
demostrada según el orden geométrico. Introducción, traducción y notas de V. Peña, Alianza,
Madrid 1987, p. 17). Vernière denomina «terrible respuesta» la contestación de Spinoza a Burgh:
cfr. P. VERNIÈRE, Spinoza et la pensée française avant la Révolution, p. 211.
131
note e commenti
El escepticismo en el que Burgh se había apoyado para desacreditar a la filosofía
es contestado por Spinoza con una afirmación categórica acerca de su conocimiento
de la verdadera filosofía66, que recibe la plena aprobación de Leibniz67. En ese texto
se encierran dos manifestaciones del pensamiento moderno en su versión racionalista: por un lado, el convencimiento de que el nuevo camino o método descubierto
posee un carácter único y definitivo y, por otro, el modelo matemático o geométrico
en que se funda tal modo de pensar68. Esto es lo que ha llevado a Popkin a hablar del
«escepticismo y el antiescepticismo de Spinoza» y a escribir que «al tiempo que
Spinoza era tan escéptico de las afirmaciones de conocimiento religioso, era completamente antiescéptico respecto al “conocimiento racional”, es decir, la metafísica y
las matemáticas»69. Se puede decir que la postura que adoptan Burgh y Stensen es el
contrapunto de la de Spinoza, en cuanto que ambos se muestran escépticos en lo que
atañe al conocimiento racional —si bien se trata de un escepticismo moderado, que
no niega la capacidad de la razón, sino que reconoce sus límites— y antiescépticos
en las afirmaciones de conocimiento religioso. El escepticismo de Spinoza en materia de religión y teología es en cambio total, como reconoce también Popkin70, y una
buena muestra de ello es la peculiar acepción del término “teología” en las obras de
Spinoza, especialmente en el TTP, con connotaciones diversas y equivalencias cambiantes, todo lo cual implica en definitiva la negación de su estatuto científico.
Al carácter universal de la filosofía, basado en su estricta racionalidad, opone
Spinoza la particularidad de toda religión positiva, que «no puede dar ninguna razón
de su fe»71, según le espeta a Burgh, sin que el recurso a la antigüedad y a la tradición ininterrumpida que alega éste en su carta posean valor probativo alguno para
Spinoza, quien en el TTP emplea también el término “tradición” con una connotación siempre negativa72. Después, al igual que antes a Velthuysen, acusa ahora a
66 «Yo
no presumo de haber hallado la mejor filosofía, sino que sé que entiendo la verdadera. Si
me pregunta usted cómo sé eso, le contestaré que del mismo modo que sabe usted que los tres
ángulos de un triángulo son iguales a dos rectos», Ep 76 (IV, 320).
67 «Lo que dice de la certeza de la filosofía y de las demostraciones es bueno e incontestable»
(G.W. LEIBNIZ, Carta al Duque Johann Friedrich (1677), cit., II, 1, p. 302). Cfr. supra, n. 39.
68 A este segundo aspecto alude en un pasaje posterior de la carta: «mas suponga que todas las
razones, que usted aduce, están únicamente a favor de la Iglesia Romana. ¿Cree usted que
demuestra matemáticamente con ellas la autoridad de dicha Iglesia?», Ep 76 (IV, 322-323). En el
TTP afirma en varios lugares que la certeza de los profetas no era matemática, sino sólo moral,
pues se trata de un conocimiento inferior que se apoya en la imaginación y los signos: cfr. TTP,
II (III, 30-32); XV (III, 185). De esta manera, la profecía y, con ella, la revelación, es algo particular, adaptado a la capacidad de cada profeta: cfr. TTP, II (III, 32).
69 R.H. POPKIN, o.c., p. 340; cfr. ibidem, pp. 353-364.
70 Cfr. R.H. POPKIN, o.c., p. 349.
71 Ep 76 (IV, 320).
72 Cfr. Ep 76 (IV, 321). Las escasas referencias a la tradición que se encuentran en las obras de
Spinoza, principalmente en el TTP, aluden a las tradiciones hebraicas y se acompañan de calificaciones que subrayan su carácter “inseguro”, “incierto”, “falso”, “sospechoso”, “dudoso”,
“incoherente”, “ridículo”, “erróneo”: cfr. TTP, II (III, 34); VII (III, 105 y 116); X (III, 146);
XVIII (III, 223); adnot. XXV (III, 262). Asimismo, en una carta a Oldenburg se refiere a las
“adulteraciones sin número” de algunas tradiciones antiguas: cfr. Ep 73 (IV, 307).
132
Víctor Sanz Santacruz
Burgh de haberse hecho «esclavo de esta iglesia, no tanto guiado por el amor de
Dios, cuanto por el miedo del infierno, que es la única causa de la superstición»73.
La nitidez que Leibniz reconocía como rasgo característico de la carta de
Spinoza, en parte suscitada por el tono provocador de Burgh, se manifiesta también
en la claridad con que expresamente califica de supersticiosa la religión católica, así
como las otras dos grandes religiones monoteístas, la judía y la musulmana74. Este
hecho no constituye una novedad para el lector del TTP, aunque es cierto que en esta
obra Spinoza es menos directo y explícito y en su prefacio, donde se ocupa ex profeso del tema, se sirve de una terminología que evita la acusación abierta, describiendo
la superstición como una propensión natural de todos los hombres, consecuencia del
miedo75, de la que es imposible que el vulgo se libere totalmente76, porque se halla
todavía sometido a la “superstición pagana”77. Incluso en la muy clara alusión a la
clase eclesiástica de la Holanda de la época, no se menciona expresamente la superstición78. El núcleo de la acusación de Spinoza, al igual que en el TTP, se basa en que
entiende la superstición como ignorancia y renuncia a la razón79 y recuerda la equivalencia que en el TTP se establece entre supra-natural e infra o contra-natural80.
En su carta, Stensen se ofrece a Spinoza para examinar juntos los puntos de desacuerdo y los argumentos de uno y otro y, aun así, quedó claro que, en caso de que
dicho diálogo hubiera tenido lugar, la dificultad de aproximar posturas tan alejadas
sería casi insalvable, como apuntó Leibniz, pese a la indulgencia con la que Stensen
73 Ep 76 (IV, 323).
74 Cfr. Ep 76 (IV, 318, 321-323).
75 Cfr. TTP, Prefacio (III, 6 y 10).
76 Cfr. TTP, Prefacio (III, 12).
77 TTP, Prefacio (III, 7).
78 Cfr. TTP, Prefacio (III, 8). En los
demás lugares del TTP donde, de forma más dispersa que en el
prefacio, se alude a la superstición, Spinoza elude aplicarla directamente al cristianismo y habla
así de las “supersticiones de Egipto” (TTP, II; III, 41) y de la común superstición del vulgo (cfr.
TTP, IX; III, 129), emplea el término para calificar las ficciones de los fariseos (cfr. TTP, III; III,
53 y IX; III, 137), o afirma que la religión de los hebreos degeneró en superstición (cfr. TTP,
XVIII; III, 222). Las referencias a la religión cristiana como superstición, aunque son claras, evitan la explícita conexión de ambos términos: «¡qué feliz sería también nuestra época, si la viéramos libre, además, de toda superstición!», TTP, XI (III, 158); cfr. TTP, VII (III, 98) y XII (III,
159).
79 «Deje de llamar misterios a los errores absurdos ni confunda torpemente las cosas que nos son
desconocidas o que aún no hemos descubierto con aquellas que se demuestra que son absurdas.
como lo son los horribles secretos de esa iglesia que, cuanto más repugnan a la recta razón, más
cree usted que trascienden el entendimiento», Ep 76 (IV, 323).
80 «Tampoco es mi intención refutar la opinión de aquellos que defienden que la luz natural no
puede enseñar nada sano sobre las cosas relativas a la verdadera salvación; puesto que como
ellos no se otorgan a sí mismos ninguna razón sana, tampoco lo pueden probar con ninguna
razón; y si pretenden poseer algo superior a la razón, es una pura ficción y algo muy inferior a la
razón, como lo ha demostrado su estilo habitual de vida», TTP, V (III, 80); «por una obra y, en
general, por cualquier cosa que supere nuestra capacidad, no podemos entender nada», TTP, VI
(III, 85); «por lo demás, en este momento no reconozco diferencia alguna entre obra contra la
naturaleza y obra sobre la naturaleza, es decir, como ellos suelen expresarse, una obra que no
contradice a la naturaleza, pero que no puede ser producida y efectuada por ella» (ibidem, p. 86);
cfr. TTP, VII (III, 112-113), XI (III, 153), XIII (III, 167-168).
133
note e commenti
pasa por alto algunas diferencias. La imposibilidad real del diálogo queda patente en
la correspondencia entre Burgh y Spinoza. En realidad, se trata de dos cartas que no
buscan el acuerdo, ni siquiera los puntos de coincidencia, por mínimos que fueran,
que abrieran las puertas a un verdadero diálogo. No cabe duda de que Burgh, con su
estilo ofensivo e insolente, marcó la pauta de este intercambio epistolar y obtuvo
como fruto la carta más brusca y tajante que Spinoza escribió jamás, en palabras de
Freudenthal81. Ambos permanecen inamovibles en sus respectivas posiciones, convencidos de que el error, en su forma más completa y acabada, está de la parte del
otro. Esto explica la invitación al arrepentimiento que cada uno de ellos hace al otro
y con la que ponen fin a sus cartas, en una semejanza que sorprende a primera vista y
que quizá haya que interpretar más como muestra de inquebrantable convicción y
sincero deseo que como expresión de un refinado y perverso cinismo82.
Por último, en cuanto a las afinidades y puntos de convergencia entre los escritos
de Stensen y Burgh, que explicaría también la posible dependencia del último en
cuanto a la estructura y a la argumentación empleada, se advierte un claro paralelismo en la afirmación de la superioridad de la fe sobre la filosofía y en la comprensión
de la filosofía de Spinoza como un saber de salvación, lo cual le lleva a adoptar una
actitud escéptica, que acentúa los límites de la razón y pone en duda su capacidad
para explicarlo todo. Asimismo, la pars construens de ambas cartas se apoya en el
modelo clásico de la apologética católica, aunque Stensen lo hace de un modo más
flexible y abierto, que busca sobre todo conectar con los intereses del destinatario,
mientras que Burgh expone de modo más académico y formal los argumentos tradicionales83. Más significativa es la diferencia que uno y otro manifiestan respecto a la
proximidad de la postura de Spinoza a la doctrina protestante. Así, Burgh considera
que el principio de interpretación de la Escritura por sí misma es una herejía, similar
a la de los «herejes que salieron un día, salen hoy o saldrán en el futuro de la Iglesia
de Dios», y afirma que «quizá ni los calvinistas ni los llamados reformados, ni los
luteranos, ni los menonistas ni los socinianos, etc., pueden rechazar su doctrina»84.
Stensen, en cambio, sostiene que Spinoza se aleja de la enseñanza protestante por su
postura más mitigada acerca del Romano Pontífice y porque admite la necesidad de
buenas obras85 y evita pronunciarse, como ya vimos, acerca de la interpretación de
la Sagrada Escritura, limitándose a mencionar la diferencia de posturas, aunque no se
excluye, como se afirmó más atrás, que tal modo de proceder forme parte de su
estrategia de acercamiento a Spinoza, con el fin de encontrar puntos comunes que
permitan el diálogo.
81 Cfr.
J. FREUDENTHAL, Spinoza: Leben und Lehre, C. Gebhardt (hrsg. von), C. Winter, Heidelberg
1927, I, p. 287.
82 Cfr. Ep 67 (IV, 291) y Ep 76 (IV, 324).
83 Siebrand defiende la opinión contraria: cfr. H.J. SIEBRAND, o.c., pp. 140-141. La discrepancia
reside, a mi juicio, en que Siebrand afronta la cuestión desde el punto de vista de la filosofía, que
parece identificar con el acceso “académico” al problema. Si ambas exposiciones se analizan, en
cambio, desde el punto de vista de la ciencia apologética, pienso que la exposición de Burgh se
atiene mejor al modelo clásico o académico de la disciplina en cuestión.
84 Ep 67 (IV, 282).
85 Cfr. Ep 67A (IV, 296); texto citado más arriba en n. 11.
134
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1 - PAGG. 135-149
Le spiegazioni scientifiche dell’evoluzione
JAVIER VILLANUEVA*
■
In un fascicolo precedente di questa rivista1, abbiamo tentato di fornire alcuni
elementi chiarificatori per un dibattito sull’evoluzione e sull’evoluzionismo. Alcuni
punti soltanto accennati sono stati ripresi con più ampiezza nel fascicolo successivo2; ora ci prefiggiamo di ritornare più sistematicamente sulle diverse spiegazioni scientifiche dei dati acquisiti dalle varie discipline. Il nostro lavoro sarà diviso
in tre parti: le prime due sono dedicate alle spiegazioni precedenti (ispirate alla “vecchia scienza”, di cui si parlava nei lavori precedenti) e l’ultima alla spiegazione
attuale (destata dalla “nuova scienza”).
I fatti, dicevamo, sono questi: 1) le specie sono stabili o fisse o immobili, la
maxievoluzione non esiste come filiazione ma soltanto come successione, ossia esiste un fissismo maxievolutivo; 2) le razze cambiano, la microevoluzione esiste come
filiazione oltre che, ovviamente, come successione; 3) la minievoluzione è da provarsi caso per caso: alcuni cambiamenti sono più probabili di altri.
La dottrina che sostiene questi fatti dovrebbe essere chiamata fissismo (in parte)
e (in parte) evoluzionismo; oppure né fissismo (assoluto) né evoluzionismo (assoluto); piuttosto un fissismo flessibile ed elastico o fissismo evolvente, un “fissismo
moderato”. Invece dovrebbe essere denominato fissismo (simpliciter) oppure fissismo universale o panfissismo quello che nega la microevoluzione; ed evoluzionismo
(simpliciter) o panevoluzionismo quello che afferma la macroevoluzione. Ma il fatto
della microevoluzione non è negato nemmeno dai letteralisti protestanti, i quali proclamano la corrispondenza tra la visione biblica e la visione scientifica in ciò che
riguarda la macroevoluzione intesa come successione di scaglioni e non come filia*
Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49,
00186 Roma
1
Cfr. Una riabilitazione dell’evoluzionismo? Elementi per un chiarimento, «Acta Philosophica»,
I/7 (1998), pp. 127-148.
2 Cfr. Lo stato attuale dell’argomento “evoluzione”, «Acta Philosophica», II/7 (1998), pp. 323-352.
135
note e commenti
zione: un “fissismo scaglionato”, potremmo chiamarlo3. Verità che non può essere
messa a tacere da eventuali esagerazioni concordiste di alcuni suoi esponenti. Si trovano invece autori che difendono la macroevoluzione e, quindi, il panevoluzionismo,
detto anche evoluzionismo (simpliciter). Quest’ultimo è costretto a postulare il gradualismo o continuismo nonché il progressismo, perché una trasformazione a balzi o
a gradini suppone stalli o ripiani: in altre parole, equivale ad un fissismo scaglionato.
Gli stessi fatti danno luogo, dunque, a due meccanismi esplicativi opposti: il fissismo e l’evoluzionismo. Vediamoli brevissimamente.
1. Fissismo
Georges Cuvier è considerato il prototipo di fissista assoluto. Non lo è. È piuttosto uno scrupoloso scienziato che non permise alle sue idee extrascientifiche di interferire con la propria scienza. Non invano fu il fondatore della moderna paleontologia
e dell’anatomia comparata. È stato vilipendiato soprattutto perché si oppose all’atteggiamento antiscientifico dei primi evoluzionisti, Lamarck in testa, i quali però a
lungo andare ebbero la meglio. Molte delle critiche al darwinismo, che oggi si vanno
imponendo, erano state già indicate da lui. Oltre a constatare lo scaglionarsi delle
specie fossili, sostenne pure che i registri paleontologici mostrano l’assenza di forme
intermedie (o anelli mancanti).
Se le specie comparivano, c’erano apparentemente due possibilità soltanto:
prima, o comparivano realmente in quel momento (detta “ipotesi delle creazioni successive” ovvero “progressionismo”), oppure seconda, esistevano dall’inizio ma in
luoghi diversi e in proporzioni irrilevanti e in seguito a catastrofi migrarono e prosperarono sino a diventare numerose e a lasciare traccia nel registro fossile (detta
“teoria delle catastrofi”). Il Cuvier preferì la seconda perché gli sembrò meno provvidenzialista e quindi più scientifica. Come sappiamo oggi, in diversi casi sembra
essere accaduto proprio così.
I fissisti, benché negassero la filiazione tra le specie, non rinunciarono a mettere
in ordine gli innumerevoli dati sulle specie attuali e scomparse a loro disposizione
(p.es. il Cuvier, non a caso fondatore dell’anatomia comparata). Non si trattava dunque di scoprire le leggi (diacroniche) del causarsi delle specie, ma di trovare delle
leggi (sincroniche) che rendevano conto del perché ogni specie era così e non leggermente differente. Si trattava insomma di individuare le cosiddette “leggi della
forma”, che dovevano generare la scala naturae linneana: qualcosa di simile al lavoro dei cristallografi, che hanno trovato le leggi delle mutue trasformazioni (che sono
poche); qualcosa di paragonabile alle leggi di riempimento degli orbitali atomici, che
generano la tavola periodica di Mendeleiev degli elementi chimici. Ma a nessuno
venne in mente ieri né oggi che la graduale continuità dei cristalli e degli elementi
3
Siffatto “fissismo scaglionato” si contrappone al “fissismo puntuale”, alla teoria cioè della permanenza delle specie, sia dall’eternità del mondo, sia dall’inizio di esso. Alcune frasi di Karl
Linneo appartengono al secondo tipo di fissismo; anni più tardi le temperò. Eppure, per quanto
riguarda i diversi regni di batteri, è vero.
136
Javier Villanueva
chimici rifletta il relativo ordine di sintesi, attraverso cioè l’aggiunta di atomi o di
particelle rispettivamente. Questo è vero soltanto sulla carta, ma non nella realtà. In
natura invece gli atomi pesanti si formano attraverso la fusione di atomi leggeri. Il
che vuole dire che in natura non esiste una causalità continua, ma discontinua.
Kauffmann e Waddington, riscoprendo le leggi dei sistemi auto-organizzanti e degli
embrioni, ossia la loro stabilità, hanno riesumato il fissismo giusto.
2. Evoluzionismo
Accenniamo ora alle principali correnti del variegato (maxi-)evoluzionismo o
(pan-)evoluzionismo gradualista e progressista. I problemi a cui esse devono dare
risposta sono: 1) la comparsa delle differenze, 2) la loro stabilizzazione e 3) la loro
trasmissione. Tali correnti si differenziano a seconda delle soluzioni a questi problemi.
Negli autori dell’antichità greca e latina — Anassimandro di Mileto, Empedocle
di Agrigento, Epicuro; il poeta Tito Lucrezio Caro, divulgatore di Epicuro — troviamo già tutti gli elementi teoretici che si ritrovano poi in Lamarck e Darwin.
Ovviamente in forma meno elaborata di quelle recenti, in quanto mancano i dettagli
di come agiscono questi meccanismi.
2.1. Il lamarckismo
Lucrezio influì su Jean Baptiste Monet, conte di Lamarck, il quale teorizzò il trasformismo4. I quattro principi su cui poggia sono: 1) le somiglianze non possono che
derivare da un processo di filiazione (ossia da un principio interno finalizzato e
deterministico)5; 2) le dissomiglianze procedono per filiazione in circostanze cambiate (l’influsso indiretto dell’ambiente6, l’innata capacità dei viventi di adattarsi
sempre meglio alla pressione ambientale, e il bisogno o desiderio della funzione crea
l’organo ovvero l’adattamento); 3) l’uso o il non uso migliora o peggiora l’organo;
4) la stabilizzazione dei caratteri acquisiti e la loro trasmissione agli eredi; 5) il
tempo infinito a disposizione della natura per ottenere gradualmente e progressivamente grandi trasformazioni. In sintesi: l’ambiente interviene nella comparsa delle
novità e nella loro selezione.
4
Il concetto non era davvero nuovo giacché imperava nell’alchimia, la quale rifiutava l’idea che
gli atomi fossero immutabili anziché soggetti ad un continuo cambiamento, tale da permettere di
partire da qualsiasi punto e di arrivare a qualsiasi punto. In verità, tale idea è una concretizzazione della gnosi.
5 Si tratta dunque di una teoria finalista o teleologica; e al contempo deterministica, poiché non
ammette il “caso reale”: per Lamarck, si tratta di ignoranza, di “caso gnoseologico”.
Filosoficamente è scientista, materialista e agnostico. Fu lui a coniare il nome di “biologia”, e a
consolidarla.
6 Qui sta la differenza rispetto ai suoi seguaci Étienne Geoffroy Saint Hilaire e Herbert Spencer,
che ipotizzavano un influsso diretto.
137
note e commenti
2.2. Il neolamarckismo
Uno dei pregi della spiegazione di Lamarck è quello di aver rilevato l’influsso
ambientale. Ma nello stabilire la misura di tale capacità egli sbagliò: la ritenne
immensa. Esperimenti posteriori di August Weissmann e di altri attestarono proprio il
contrario. Oggi si è appreso che la verità si trova fra queste due opinioni, poiché ci
sono molti caratteri acquisiti non trasmissibili e molti altri trasmissibili. I contemporanei di Lamarck che auspicarono un lamarckismo moderato vengono oggi definiti
come “i primi neolamarckiani”, per distinguerli da “i secondi neolamarckiani” o
“lamarckiani posteriori al 1950”, consapevoli del fatto che l’ambiente è composto da
multistrati (esterno, interno all’organismo, interno alla cellula, interno al DNA, ecc.) e
che il meccanismo di tale influenza è meno semplice di quanto ipotizzavano i due
lamarckismi. Waddington ha mostrato che l’ambiente influisce sull’embrione prima e
sull’adulto poi, il quale dà origine a una discendenza diversa sottoposta alla selezione:
questo processo viene da lui denominato «acquisizione o assimilazione genetica di un
carattere ambientale»7. Si raggiunge quindi un risultato lamarckiano attraverso un
meccanismo darwiniano. La riabilitazione di Lamarck, dunque, dovrebbe denominarsi “pseudolamarckismo”, piuttosto che “neolamarckismo”, seppure “secondo”.
2.3. Il darwinismo
Oltre ai romanzieri e filosofi, specie francesi, ci furono numerosi scienziati,
soprattutto inglesi, che accumularono i materiali che poi, dopo opportuni rimaneggiamenti, furono sistematizzati in un’unica ipotesi da tre autori inglesi contemporanei: il botanico Patrick Matthew (1790-1865), il botanico Edgard Russell Wallace
(1823-1913) e il naturalista Charles Darwin (1809-1882). In giustizia, l’ipotesi
scientifica dovrebbe portare il nome dei tre suddetti autori, e non solo quello del
terzo, a cui però spetta il merito di averla fatta accettare8. Ci sono però differenze
metabiologiche: tra uomo e scimmia, Wallace scorge una differenza sostanziale, e
Darwin accidentale9; il primo accertava una finalità intrinseca e non bandiva l’esi7
C.H. WADDINGTON, L’evoluzione di un evoluzionista, Armando, Roma 1979, pp. 104 ss. (d’ora
in poi verrà citato con la sigla WADD). Già agli albori del XX secolo, F.R. Lillie scoprì l’influsso dell’ambiente ormonale durante lo sviluppo dell’embrione: la vitella era sterile se il suo
gemello era vitello. Ma esempi più normali sono presenti negli insetti sociali e non: il cibo, la
temperatura e perfino il comportamento sociale ne determinano il sesso, la morfologia e il comportamento.
8 Si rammenti che Charles Darwin si precipitò a preparare un resoconto delle idee che maturava
da anni — e che nel 1856 aveva deciso di cominciare a redigere — quando nel 1858 ricevette,
con la preghiera di pubblicarlo, un breve articolo dal giovane Wallace, che soggiornava allora
nell’arcipelago malese. Darwin lo stampò nel Journal of the Proceedings of the Linnean Society,
di Londra, nel 1858, ma assieme ad un estratto delle proprie idee. I titoli sono significativi: Sulla
tendenza delle varietà ad allontanarsi indefinitamente dal tipo originario, attraverso la selezione naturale (Wallace) e Sulla variazione degli esseri organici allo stato naturale (Darwin).
9 Il primo discute le opinioni darwiniane nel suo saggio Il darwinismo applicato all’uomo e le
combatte perché in aperta contraddizione con molti fatti bene accertati.
138
Javier Villanueva
stenza di un Dio che avesse immesso tale tendenza, mentre il secondo rifiutava
entrambe; infine Wallace non era materialista, mentre Darwin sì.
Darwin mutua dagli allevatori londinesi la loro procedura e la estrapola dall’ambito microevolutivo a quello maxievolutivo. Le sue risposte ai tre suddetti quesiti
sono le seguenti: 1) le differenze o già c’erano o compaiono casualmente; 2) quando
le condizioni sono malthusiane (sproporzione tra cibo e commensali) si mette all’opera l’Allevatore naturale, il quale seleziona alcune delle differenze e scarta le
restanti prefiggendosi di raggiungere qualche qualità pregiata10 e può farlo gradualmente e progressivamente poiché il tempo a sua disposizione è pressoché infinito;
3) le qualità acquisite si trasmettono secondo le leggi dell’eredità, e si conservano
attraverso un isolamento geografico casuale al fine di evitare il mescolamento
diluente tramite incroci indesiderati con gli organismi scartati (questa era la teoria in
vigore prima di Mendel) e attraverso la stabilità delle condizioni ambientali (altrimenti continuerebbe a evolversi).
Nelle prime edizioni della sua opera del 1859 Darwin minimizza il ruolo della
pressione ambientale e dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, mentre nell’ultima
(1872) lo aumenta11. Rinuncia pure al suo panselezionismo, ossia ad una selezione
naturale onnipotente, diminuendone il ruolo. Inoltre accentua di molto i concetti antifinalistici. Sicché si può parlare di un primo Darwin (antilamarckiano) e un secondo
Darwin (lamarckiano moderato). Non possiamo in questo scritto nemmeno accennare
alle molteplici critiche e autocritiche di ordine fattuale, scientifico (paleontologico,
biologico, genetico), filosofico (logico, epistemologico, ermeneutico, metafisico) e
teologico di cui è stato bersaglio il darwinismo nelle sue diverse forme12.
10 Si
badi che l’Allevatore naturale è intelligente ma non consapevole; che non è il Dio oltremondano ma la Natura immanente (con la maiuscola ossia divinizzata). Per ora, si badi che questa immanentizzazione è di natura metafisica e non biologica: Darwin ha spodestato Dio
mediante una rivoluzione regicida. Inoltre questo Allevatore naturale seleziona con una finalità e
al contempo per caso. Darwin, secondo un’ appropriata frase del biologo darwinista britannico
Richard Dawkins, propose un “Orologiaio cieco”. Il suo nome è “Selezione naturale”; il suo
meccanismo è la malthusiana “lotta per la vita”; e il suo esito «la sopravvivenza del più forte,
pasciuto, sano e quindi prolifico».
11 La soluzione più semplice al problema di come appaiono le variazioni è quella lamarckiana: i
medesimi ambienti esterni differenti ne stimolano il sorgere. Darwin la prospettò, ma glielo vietava la sua convinzione che l’ambiente uniforme delle isole Galapagos ospitava specie differenti.
Sicché il libro del 1859 lascia senza vera risposta tale problema, il quale si sposta da origine
delle specie a semplice conservazione di cui si ignora l’origine, come del resto trapela dal sottotitolo: Sull’origine delle specie per selezione naturale ovvero la conservazione delle razze favorite nella lotta per l’esistenza.
12 Forse una delle più notevoli autocritiche è il rifiuto dell’onnipotenza della selezione naturale o
“panselezionismo”. Scrive Darwin: «Io ora ammetto che nelle prime edizioni della mia Origine
delle specie ho probabilmente attribuito troppo all’azione della selezione naturale e della sopravvivenza del più adatto […] Non avevo considerato allora a sufficienza l’esistenza di molte strutture che sembrano non essere, per quanto possiamo giudicare, né benefiche né dannose; e questo
credo sia una delle più grandi sviste trovate sinora nel mio lavoro» (L’Origine delle specie per
selezione naturale ovvero la conservazione delle razze favorite nella lotta per l’esistenza,
aggiunta al capitolo XIV nella sesta edizione, p. 430 dell’edizione Newton Compton, Roma
19954, tradotta da Celso Balducci e con Introduzione di Pietro Omodeo, che riporta la prima edizione del 1859 e le modifiche della sesta edizione del 1872).
139
note e commenti
2.4. I neodarwinismi
Il mutamento del “secondo evoluzionismo darwiniano” attraversa diverse tappe.
Spetta al lettore valutare se tali cambiamenti sono minimi o massimi, vale a dire se
sono accidentali o sostanziali: nel primo caso saremmo dinanzi ad una nuova razza o
versione del darwinismo (un “neodarwinismo”), mentre nel secondo caso saremmo
davanti ad una nuova specie, che non ha diritto ad essere chiamata neo-darwinismo
né darwinismo, così come un uccello non ha diritto ad essere nominato neo-rettile né
rettile. Tale specie novella ha diritto soltanto ad essere definita come una “spiegazione dell’evoluzione”, una “teoria dell’evoluzione”, una “ipotesi sull’evoluzione”, alla
pari come l’uccello può essere chiamato animale.
Il “primo neodarwinismo” corrisponde all’evoluzionismo dell’embriologo
August Weissmann (1834-1914), importante perché dimostrò sperimentalmente la
non ereditarietà dei caratteri acquisiti, ossia il lamarckismo e, di conseguenza, il
secondo darwinismo13. Paradossalmente, Weissmann continuò a divulgarlo con tale
lena che, a sentire lo storico della scienza Geymonat, «può forse considerarsi il maggior teorico dell’evoluzione dopo Darwin»14. Il “darwinismo senza l’ereditarietà dei
caratteri acquisiti” di Weissmann fu detto da G.J. Romanes nel 1896 “teoria neodarwiniana”, ma era un darwinismo amputato della sua sorgente essenziale: la fonte
prima delle variabilità, e perciò destinato a declinare. Viene oggi chiamato anche la
“prima sintesi” o la “vecchia sintesi”, perché sintetizza i materiali e le riflessioni dei
pensatori precedenti, e perché ci saranno successive sintesi. Ma Weissmann è importante perché cominciò a parlare del plasma germinale (il “programma genetico”,
diremmo oggi), il che lo rende un primitivo DNA-centrismo.
Il “secondo neodarwinismo” è la conseguenza dell’assimilazione, da parte del
primo neodarwinismo di Weissmann, delle idee di Mendel riscoperte nel 1900.
Venne fuori una sintesi di darwinismo e di mendelismo denominata “darwinismo
mendeliano” o, più spesso, “secondo neodarwinismo”. Secondo Waddington si tratta
di un “post-darwinismo” (WADD, 326), tra l’altro perché sconfessa il continuismo: i
geni sono elementi discreti15. Per quest’autore, «molti dei successi conclamati dai
neodarwinisti andrebbero attribuiti al mendelismo piuttosto che al neodarwinismo» (WADD, 291), fino al punto di denominarlo “neomendelismo”, per risaltare la
continuità con Mendel (WADD, 243, 248).
Per notare la comparsa delle variazioni casuali in una linea genealogica e analizzarla matematicamente ci vogliono tempi lunghi, forse infiniti. Ma poiché per i
matematici l’ordine dei fattori è senza influenza, ben pensarono a moltiplicare le
linee genealogiche, in modo da trovarne variazioni in un tempo a misura di uomo. Si
accorsero insomma che, in popolazioni di grandi numeri, le infrequenti “variazioni
dalla norma” — ossia ciò che Darwin denominava “sport” e oggi viene chiamato
13 L’esperimento
cruciale e chiarificatore lo svolse, però, nel 1903 il botanico danese W.
Johannsenn con razze pure di fagioli (che sono autofecondanti).
14 L. GEYMONAT, La storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1971, vol. V, p. 675.
15 Tant’è vero che nel 1932 J.B.S. Haldane, un neodarwinista, pubblicò il volume intitolato Causes
of evolution, nella cui introduzione compare il motto «Il darwinismo è morto. Una preghiera»
(citato da WADD, 327).
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Javier Villanueva
“mutazione” — si erano realizzate alcune (poche) volte. Nella decade 1920-1930, si
passò dunque dal “paradigma genocentrico dell’individuo”, che studia «geni individuali in organismi individuali», al “paradigma genocentrico delle popolazioni”, che
studia «geni individuali in popolazioni di organismi», analizzabili statisticamente.
Ricalcando i passi della fisica, la biologia si era modellata sul paradigma della meccanica statistica. Era incominciata la “genetica delle popolazioni” e quindi il “terzo
neodarwinismo”, il cui motto è «la sopravvivenza della popolazione più adatta»
(questa è, in realtà, la prima fase del terzo neodarwinismo; perché si passò presto ad
una seconda fase, che estese il pensiero statistico a tutti i geni: «Popolazioni di geni
in popolazioni di organismi»).
Più tardi, tre studiosi non genetisti incorporarono alla genetica delle popolazioni
elementi macroscopici delle rispettive discipline: il paleontologo George Gaylord
Simpson, lo zoologo Theodosius Dobzhansky e soprattutto lo zoologo, pensatore e
grande divulgatore Ernst Mayr; senza dimenticare il ruolo svolto dai genetisti Sewall
Right e G.L. Stebbins. La teoria fu completata verso il 1937, ma soltanto nel 1942 fu
battezzata dal biologo Julian Huxley (nipote di Thomas) come “Evolutionary
Synthesis”, ossia “sintesi evoluzionistica”, “teoria sintetica” o anche “nuova sintesi”
o “sintesi moderna” o “neosintesi”, “neodarwinismo” insomma. Ora il nome ebbe
più fortuna e si fece strada. Questi nomi — e altri come “neodarwinismo statistico” e
“terzo neodarwinismo” — vogliono sottolineare la continuità con le idee di Darwin,
sebbene — come è ormai assodato — siano stati introdotti tanti e tali rimaneggiamenti da implicare una discontinuità o frattura: è una vera evoluzione dell’evoluzionismo darwinista, e perciò non è darwinismo. La teoria riscosse un grande successo
e si affermò per molto tempo. Anni più tardi, Jacques Monod incorporò le nuove
scoperte di Watson e Crick sul DNA.
I contributi della paleontologia sperimentarono dopo gli anni 40 una impennata;
ma andarono nella direzione inattesa, smentendo cioè il continuismo e confermando
il catastrofismo, come aveva propugnato Cuvier. Sebbene fosse stata contemplata (e
rigettata) da Darwin16, l’idea di base era stata prospettata agli inizi del ’900, con le
esperienze genetiche di Th.H. Morgan e Cuénot, e riproposta poi proprio negli anni
40 da R. Goldschmidt, ma la sua proclamazione e divulgazione dopo il 1972 è merito degli statunitensi Stephen Jay Gould17 e Niles Eldredge18: la loro teoria è chiamata degli “equilibri punteggiati” oppure “equilibri puntuali” ovvero “equilibri intermittenti”, cioè “stalli e salti”, dove ogni serie comincia con le cosiddette “specie
basiche”. Questi sono i “neodarwinisti saltazionisti o eterodossi”. A loro si oppongono radicalmente i “neodarwinisti gradualisti o ortodossi”, come Richard Dawkins19,
John Maynard Smith e William Hamilton.
Il neodarwinismo si trova oggi in uno stallo, visto che i secondi sono smentiti dai
fatti (i salti appunto), mentre i primi non li spiegano. Uno dei più importanti rappre16 Cfr. L’Origine delle specie…, variante del capitolo XIV alla sesta edizione, p. 432.
17 Zoologo e paleontologo, professore a Harvard, autore di libri famosi come Pollice
di Panda
(1980) e La fiera dei dinosauri (1991).
18 All’epoca lavorava al Museo Americano di Storia Naturale.
19 Biologo britannico autore de L’Orologiaio cieco (1986).
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note e commenti
sentanti attuali del neodarwinismo è il biologo spagnolo ma residente negli USA
Francisco Javier Ayala, noto tra l’altro per il tentativo d’incorporare la teoria saltazionista nel gradualismo (sebbene resti piuttosto gradualista)20. Insieme a G.L.
Stebbins — un altro professore dell’Università della California a Davies —, Ayala
sostiene che le differenze siano soltanto sfumature all’interno di una visione evolutiva comune21. Non siamo d’accordo: ci sembra un camuffamento del problema.
Prenotano addirittura un posto nel partito dei vincitori quando scrivono: «Qualunque
sia il nuovo accordo che sorgerà dalla ricerca e dalla controversia attuale, […] la teoria sintetica del ventunesimo secolo si allontanerà considerevolmente da quella elaborata pochi decenni fa, ma il suo processo di apparizione sarà più simile a una evoluzione che ad un cataclisma»22. Qui si potrebbe giocare con le parole di Ayala: tale
evoluzione dell’evoluzionismo, ne genererà una nuova razza o una nuova specie,
ormai non evoluzionistica? In altre parole, il “post-neodarwinismo” in senso temporale sarà un prolungamento abbellito del “secondo neodarwinismo” oppure sarà una
rottura con esso?23 A dire il vero esiste una terza scuola, quella degli scettici: essi
sostengono che la questione delle origini è un mistero e che si deve abbandonare.
Accertare di quale tipo di evoluzionismo si stia parlando è imprescindibile quindi
per chi s’inoltra in questo terreno. Tra l’altro perché spesso viene spacciato per evoluzionismo ciò che, in rigore, evoluzionismo non è. Insomma, non vanno sempre prese
come vere le dichiarazioni degli autori, ma è doveroso badare al loro contenuto. Il
timore di avversare la cultura dominante non li fa essere pienamente chiari e sinceri.
La pars construens di una teoria postdarwiniana dell’evoluzione dovrebbe essere
preceduta, ovviamente, dalla pars destruens delle corrispondenti teorie darwiniana e
neodarwiniana. Si dovrebbe quindi passare in rassegna le principali critiche, meno
conosciute di quanto di solito si pensa. Ma i limiti di questo articolo non lo consentono. Siamo costretti dunque ad esporre i nuovi indirizzi della scienza che si occupa
dell’evoluzione.
3. Il post-neodarwinismo
Se il neodarwinismo era basato su una scienza ristretta ad un’area limitata della
realtà — sulla scienza moderna —, ora che è cominciata la scienza post-moderna —
aperta a tutta la complessa realtà — possiamo formulare in biologia un post-neodarwinismo. Il vocabolo è stato coniato da Waddington per additare questo nuovo
20 Ayala non riscontra incompatibilità fra il suo cattolicesimo religioso e il suo gradualismo biologico.
21 Cfr. G.L. STEBBINS - F.J. AYALA, La evolución del darwinismo, «Investigación y Ciencia», 108
(1985), pp. 42-53.
22 Ibidem, p. 42.
23 In disaccordo
con Ayala, Waddington ritiene necessario elaborare un nuovo paradigma che
«esige cambiamenti radicali di alcuni dei dogmi biologici più profondamente radicati», che esige
«ristrutturazioni radicali» (WADD, 292 in fine), il che significa che è «un cambiamento di paradigma più fondamentale» o radicale di quelli stabiliti dai neodarwiniani (WADD, 14, 292 in fine,
355 in fine). Non ha torto: non si può caratterizzare il copernicanismo come un neotolomeismo
per il fatto che conservi quanto di vero c’era nel paradigma precedente.
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Javier Villanueva
paradigma biologico24. È una rivoluzione scientifica, simile al passaggio da Tolomeo
a Copernico o da Newton a Einstein25. È anche un mutamento di paradigma filosofico, da quello platonico e quello aristotelico26.
Oggi sappiamo che ogni elemento — a qualunque livello si trovi — possiede
delle tendenze verso altri elementi, che statisticamente rendono probabile ciò che
senza di esse era improbabile; ma sono tendenze rivolte non verso chiunque bensì
verso pochi privilegiati: in altre parole, l’evoluzione non può svilupparsi in qualsiasi
direzione ossia in infinite direzioni, non è onnipotente, come invece pensano i darwinisti. Tali tendenze spontanee sono il dado truccato e limitato di Dio; sono forze presenti fin dal principio, coesistono con la selezione naturale e sono più forti di essa:
questa è la prima “legge universale” trovata da Kauffmann (KAUFF, XV, 29, 36,
173). Ricorrendo ad espressioni care a questo biochimico, gli elementi si autoorganizzano in sistemi, dal caos creano ordine. Ma tali tendenze non sono onnipotenti bensì limitate: una necessità casuale27. Tendenze limitate dagli altri elementi e
quindi dipendenti da essi: contingenti insomma. Questa contingenza delle condizioni
favorevoli “spiega” la comparsa saltuaria e istantanea di pianeti, della vita, dei tipi
biologici o «specie madri», delle singole specie e razze28. Ma si tratta pure di una
24 WADD,
337, 373. Giacché il nuovo paradigma assume come suo punto di avvio l’embriologia e
non la genetica, Waddington parlerà di “teoria epigenetica dell’evoluzione” (WADD, 263).
25 Lo stesso Waddington ne è consapevole (WADD, 351). E Kauffmann parla di un capovolgimento
dei tre dogmi centrali del neodarwinismo (S.A. KAUFFMANN, The origins of order: self-organization and selection in evolution, Oxford University Press, New York-Oxford 1993, p. 10 (in seguito
useremo la sigla KAUFF seguita dal numero di pagina). Condividendo e approfondendo le critiche
più diffuse, a nostro avviso, egli ha messo il punto finale all’avventura evoluzionista. Perfino
Gould condivide la diagnosi: «Non completeremo la rivoluzione di Darwin fino a quando non troveremo un altro modo di rappresentare la storia della vita. […] Serviranno nuovi paradigmi» (S.J.
GOULD, L’evoluzione della vita sulla Terra, «Le Scienze», 316 (1994), pp. 64-72; p. 72).
26 Cfr. il punto della situazione fatto da A. STRUMIA, Le scienze, verso una teoria dell’analogia?,
«Divus Thomas», 100 (1997), pp. 65-88. Afferma che «questo momento della vita delle scienze
potrebbe passare alla storia come un tempo di svolta metodologica di notevole rilievo» (p. 64).
«Si tratta dell’emergenza di problematiche metafisiche che giungono alla filosofia attraverso la
logica o l’epistemologia» (p. 71), le quali «oggi si prendono in considerazione perché toccano
quelle che da sempre vengono considerate le vere scienze: la chimica, la fisica e le matematiche»
(p. 71). Da un approccio filosofico, Llano indica come spartiacque tra modernità e post-modernità il rifiuto o l’accoglienza dell’analogia (cfr. C. LLANO, Cuatro conceptos para un pensamiento no ilustrado (analogía, otredad, empatía y epimeleia), «Tópicos», 6 (1994), pp. 117-155).
Anche per Muratore si ritorna oggi a Aristotele e a san Tommaso: «La categoria tomista di forma
è di una modernità straordinaria, specie se rapportata al contesto scientifico contemporaneo» (S.
MURATORE, L’uomo e la sua relazione al cosmo, «La Civiltà Cattolica», 147 (1996), pp. 224237; p. 230). Altrettanto si dica del concetto di qualità, bandito dalla scienza moderna in favore
della quantità, molto più malleabile.
27 Come nei dadi: è casuale quale numero uscirà, ma è necessaria la probabilità di 1/6. Come nei
gas: è casuale quale molecola e con quanta forza colpirà la superficie, ma è necessario un dato
valore della pressione.
28 Per Kauffmann, basta aggiungere gli ingredienti necessari e nelle quantità e condizioni necessarie alla vita, per ottenere la vita (KAUFF, cap. 7: pp. 285 ss.). Ma chi può conoscere tutto ciò?
Egli denomina «eretica ed eterodossa» questa soluzione, la chiama pure una «audace ipotesi»,
ma è tale soltanto rispetto al darwinismo.
143
note e commenti
contingenza o caso non assoluti bensì limitati, vale a dire sottomessi a leggi ferree o
necessarie.
Sappiamo pure che ogni elemento, seppure piccolo, interviene nel tutto di cui fa
parte. Non esiste nessuno che sia irrilevante e insignificante: ognuno è significativo,
sebbene in misura diversa (contro il riduzionismo precedente). Ognuno è concausa,
seppure in maniera diversa: alcuni agiscono come cause essenziali, altri come cause
accidentali. Ancora una volta interviene il caso, facendo che la traiettoria evolutiva
non sia lineare ma a zig zag29. Inoltre, elevando il numero di variabili di una equazione, e quindi la complessità di questa, il calcolo resta fuori della portata umana.
Ma l’intensità dell’effetto di una causa non dipende da essa soltanto, ma anche dal
contesto in cui è inserita. I sistemi caotici, p.es., possiedono la caratteristica di
amplificare esponenzialmente le piccole fluttuazioni, provocando effetti enormi. Tale
meccanismo potrebbe consentire agli organismi naturali l’accesso alla novità. Ma
simili cambiamenti esponenziali agiscono a salti e non per gradi, non conservano
l’informazione precedente e quindi scombussolano e annullano il sapiente e finalizzato lavoro della selezione naturale30.
Inoltre, né le singole proprietà degli elementi né la loro somma annunziano le
proprietà del sistema che essi integrano. Queste emergono da quelle, senza però contraddirle (sembra una conferma che le realtà metafisiche appartengono alla scienza:
solo la loro generalizzazione compete alla filosofia; una ratifica scientifica dunque
dell’ilemorfismo aristotelico). Perciò sono imprevedibili per lo scienziato. I sistemi
risultanti sono estremamente complessi: sono unità forti, e non le unità deboli immaginate dalla scienza moderna31. Persino le macchine, che non sono un mucchio o un
aggregato di pezzi, bensì un loro assemblaggio, un integrato. Questo vale soprattutto
per gli organismi — che sono un insieme organizzato di genotipo e fenotipo, sul
quale la forza evolutiva agisce principalmente sul secondo e molto secondariamente
sul primo, come ha proclamato Waddington (WADD, 14) —, ma vale pure per gli
atomi, per il pianeta Terra, per il sistema solare, per l’universo. Ogni sistema emergente rappresenta un salto rispetto ai componenti non assemblati: Kauffmann lo
visualizzava come una transizione di fase. Olismo è la nuova parola d’ordine, trasmessa soprattutto da Waddington e da Kauffmann, parola che si oppone all’atomi29 «L’idea-base
di Waddington è quanto mai semplice: […] inserire un meccanismo non-lineare in
quello della mutazione genetica. Ovvero considerare il sistema organismo-ambiente come un
sistema fuori dell’equilibrio. In tal senso, il corredo genetico non definirà più univocamente lo
sviluppo dell’organismo adulto [p.es. la differenza tra l’emisfero destro e sinistro del cervello],
ma solo con una certa probabilità [cioè entro certe soglie massime e minime]. Sarà l’interazione
con l’ambiente interno ed esterno a quell’organismo a favorire o l’una o l’altra delle possibili
alternative […] che la non-linearità del meccanismo della mutazione genetica lascia aperte» (G.
BASTI, Filosofia dell’uomo, EDB, Bologna 1995, p. 168; d’ora in poi verrà citato con la sigla
BASTI). Questa fluttuazione casuale dello sviluppo viene chiamata da Lewontin “rumore di
fondo dello sviluppo”.
30 Cfr. J.P. CRUTCHFIELD - R.S. SHAW et al., Il caos, «Le Scienze», 222 (1987), pp. 10-21, p. 21c.
31 «Il XVIII secolo, alla stregua di Newton, ha studiato l’organizzazione semplice. Il XIX secolo,
attraverso la meccanica statistica, ha studiato la complessità disorganizzata. Il XX e il XXI, la
complessità organizzata» (KAUFF, 173).
144
Javier Villanueva
smo o frammentarismo precedente32. L’unificazione di questi elementi è ritenuta di
portata paragonabile all’unificazione, in ambito fisico, delle leggi elettromagnetiche
fatta da Maxwell (WADD, 266).
I costituenti di siffatti sistemi dipendono vicendevolmente, interdipendono: il
loro principio si chiama “retro-azione”, opposto al principio obsoleto dell’“azione &
reazione”33. Inoltre, tali costituenti lavorano in parallelo piuttosto che farlo in modo
indipendente, sequenziale: qui viene situato lo spartiacque tra due generazioni di calcolatori; “complessità autoregolantesi” è il corrispondente motto. Per Basti, la nozione di autoregolazione «fornirebbe la chiave di volta concettuale allo sviluppo di
un’adeguata biologia teorica, che è la grande assente nell’odierna enciclopedia delle
scienze naturali»34. Dipendenza tra gli organismi e l’ambiente, come hanno ricordato i catastrofisti e i neolamarckiani contro i neodarwinisti. Solidarietà è anche un
nuovo motto: tutto si tiene insieme o tutto cade insieme. Ne consegue una maggiore
stabilità e conservatorismo. L’esempio paradigmatico non è la società fortemente
gerarchizzata, come quella monarchica o militare, bensì la società debolmente gerarchizzata, come quella democratica non assolutista. Nel primo modello il controllo e
la possibilità di trasformarsi sono facili; nel secondo, impervi (KAUFF, 427, 428).
Atomi, molecole, astri, arti, organismi (embrionali e adulti), specie, biosfera e cosmo
sono fondamentalmente stabili, tendono alla stabilità e lottano per la stabilità. Essa
però non è assoluta o rigida, ma ammette gradi di flessibilità o elasticità o di tolleranza, il che permette l’azione della selezione naturale (KAUFF, 174). Bisogna
ripensare dunque l’idea che l’organismo deve essere preciso (come un orologio o un
calcolatore sequenziale), e concepirlo invece come un sistema impreciso35.
32 Essi
non esitano a definirla «biologia sintetica», opposta alla «biologia analitica» (WADD, 77;
KAUFF, 366). Ma senza spingere l’olismo fino al punto di approdare alla teoria filosofico-religiosa di Gaia, la Terra ritenuta un vivente, come dà adito ad essere interpretata la proposta della
statunitense Lynn Margulis e del britannico Joveloy.
33 «È tutt’ora in corso il processo di revisione dei principi della meccanica statistica, tutti legati alla
sempre più evidente insufficienza del principio di equilibrio [= azione-reazione] per rendere conto
della stabilità e dell’ordine in sistemi complessi fuori dell’equilibrio» (BASTI, 166). E Waddington
dichiara che in tali interazioni risiede «il nocciolo della sua argomentazione» (WADD, 365).
34 BASTI, 154. «La nozione scientifica di auto-regolazione può fornire una buona via per rendere
intelligibile all’uomo moderno la nozione metafisica di azione immanente come tipica delle operazioni organiche» (BASTI, 112). Consiste infatti nell’azione di una parte o sotto-sistema sulle
altre parti, tutte interne all’organismo o sistema. I principali sotto-sistemi di un organismo sono:
l’effettore, l’organizzatore, il supervisore e (negli umani) l’intelletto (BASTI, 140, 150). Si può
dire che «la nozione scientifica di retroazione e di informazione ha rintrodotto a pieno diritto la
nozione di finalità nell’ambito delle scienze naturali, liberandola da quell’aura esclusivamente
filosofica e pre-scientifica e riavvicinando di fatto scienze della natura e scienze dell’uomo.
Genericamente si dice che si sia passati, riguardo al principio di finalità, dalla teleologia di tipo
esclusivamente filosofico alla teleonomia ovvero allo studio delle leggi naturali e matematiche
della finalità» (BASTI, 166-167).
35 Cfr. KAUFF, 29. Ora veniamo a sapere che «la recente biologia molecolare ha mostrato che il
genoma è flessibile, dinamico, portatore di un sistema attivo di risposte e non d’informazioni
passive. Esso risulta molto più interattivo col citoplasma di quanto non fosse ritenuto in passato»
(E. JABLONKA - M.J. LAMB, Epigenic inheritance and evolution. The lamarckian dimension,
Oxford Univ. Press, Oxford 1995). È il ritorno al mondo del pressappoco.
145
note e commenti
Comunque, conviene ribadire che l’ordine spontaneo è un ordine primario e
sostanziale, mentre l’ordine raggiunto dalla selezione è un ordine secondario e accidentale36. Alcuni individui e alcune specie si adattano a moltissimi ambienti, mentre
altri soccombono fuori di una nicchia molto ristretta: come regola generale si può
dire che l’aumento di complessità porta con sé un aumento esponenziale di stabilità37. Grande sorpresa ha destato la scoperta della ingente quantità di geni latenti in
ogni organismo (causa della grande adattabilità dei microbi agli antibiotici, p.es.); e
la scoperta della grandissima variabilità di qualsiasi specie allo stato brado (responsabile, mediante la deriva genica, della comparsa spontanea di nuove razze). La differenza di grado di tolleranza spiega perché alcuni geni e alcune specie — a parità di
condizioni ambientali — restano immutabili (p.es. gli atomi fossili, i fossili viventi)
mentre altre mutano in continuazione (dando origine a nuovi atomi, nuovi astri,
nuovi geni, nuove razze o perfino nuove specie). Ma resta inspiegato il perché della
differenza: di sicuro è contenuto nella diversa organizzazione dei componenti —
ovvero nella diversa natura e nella rispettiva tendenza —, ma non si sa qual è e come
prevederla38.
Saper cambiare per adattarsi alle mutevoli condizioni esterne suppone la capacità
di saper “inventare” le soluzioni convenienti. Si tratta propriamente di “inventarle”,
nel senso di “crearle ex novo”, non nel senso di “trovarle” già pronte nel magazzino
che ogni essere porta con sé. È proprio la differenza tra un’impostazione di tipo aristotelico e una platonica, fra i calcolatori della nuova generazione (i cosiddetti programmi “esperti”, programmati per imparare e per innovare) e quelli delle generazioni precedenti, tra il sistema immunitario e altri sistemi, ecc.39. Ovviamente, questi
sistemi — a parità d’informazione raggiungibile — sono meno ingombranti di quelli. Ciò suggerisce in parte come organismi apparentemente semplici possano generarne altri più complessi. Ma tale capacità d’inventare è limitata, in proporzione alla
complessità e quindi alle dimensioni del programma. Ciò fa supporre, al di là di ogni
36 I
sistemi sono organizzati primariamente non a causa della selezione, ma malgrado essa.
L’ordine spontaneo primario non riflette il successo ma l’insuccesso della selezione naturale
(KAUFF, XV, 24, 29, 120). Con un esempio: la selezione naturale non può costruire gli strumenti musicali; può soltanto rifinirli, sintonizzarli o rifiutarli (KAUFF, XIV, 11, 29, 30). Per un
darwinista, simile conclusione antidarwiniana sembrerebbe annullare qualunque sforzo per comprendere le origini degli organismi. Invece avvenne proprio il contrario: infatti, se le proprietà
sono stabili si manterranno nel futuro e si sono mantenute nel passato (KAUFF, 24).
37 Kauffmann la chiama “catastrofe della complessità” (KAUFF, 36, 67). Dagli studiosi di sistemi
Kauffmann prende in prestito la distinzione tra sistemi ordinati, disordinati o caotici e altri semiordinati o complessi; in breve, egli distingue tra ordine, caos e complessità, rappresentabili con
vallate, vette e crinali. I sistemi complessi possono contenere diversi “punti di catastrofe” oppure
“punti critici” o “punti di equilibrio instabili”, che sono come massimi tra diversi minimi (denominati attrattori): quando il sistema si trova in uno dei punti di catastrofe, è “indeciso” sull’attrattore verso cui dirigersi.
38 In ciò risiede uno dei limiti del lavoro di Kauffmann: nel fatto che soltanto a posteriori è possibile sapere il grado di ordine e quindi di stabilità di un dato sistema.
39 «Certamente, quest’approccio si avvicina molto di più dei precedenti ad un’impostazione di tipo
aristotelico della problematica, come in particolare R. Thom si è reso conto, dedicando addirittura un libro all’interessantissima questione (R. THOM, Esquisse d’une sémiophysique, InterEditions, Paris 1988)» (BASTI, 168).
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ragionevole dubbio, che non possa esistere un programma iniziale e universale di
mutamento progressivo verso la complessità (WADD, 294 in fine). Ciò è dovuto, tra
le altre ragioni, al fatto che il programma non contiene tutta l’informazione necessaria per agire; parte di essa si trova fuori di lui ovvero nell’ambiente. Solo di fronte
ad uno stimolo esterno il programma può agire (reagire, a rigore dei termini). Non si
deve infatti dimenticare che ogni essere programmato non si trova isolato, ma in rapporto con tutti gli altri. Questo è un altro motivo per sostenere che, neanche conoscendo pienamente il programma dell’universo (p.es. le leggi fondamentali della fisica), si potrebbe prevedere lo sviluppo del Big Bang. Dicasi altrettanto del Little
Bang di vita avvenuto all’inizio del Cambrico, e della sua posteriore concretizzazione in classi e ordini (WADD, 366). Neppure conoscendo tutte le proprietà dell’acqua
è possibile accertare quante volte si è ghiacciata lungo la sua storia.
Ma la creatività di alcuni esseri naturali non si limita a creare soluzioni nuove,
bensì a creare addirittura programmi e funzioni nuove. Ciò non ha niente di miracoloso, giacché si ottiene semplicemente mediante la continua definizione e ridefinizione della funzione: un dato esterno inserito in una funzione offre un risultato che
modifica la funzione stessa, ossia la ridefinisce; un nuovo dato esterno ripete il ciclo
finché il risultato è uguale al precedente e la nuova funzione resta invariata (BASTI,
168-170). Ne costituisce un esempio il sistema costituito da organismi e ambienti; un
altro, il sistema osservatore e osservato (Heisenberg, Einstein). Ma forse il caso più
frequente e interessante è ogni organismo: come sottolinea Basti, la genialità di san
Tommaso sta nel dire che è l’individuo medesimo che, insieme ad altre cause precedenti e concomitanti, partecipa alla definizione e ridefinizione di se stesso, sia una
parte su un’altra parte, sia dell’individuo completo in un momento dato (bambino)
sull’individuo completo in un altro momento (adulto)40. Waddington descrive il suo
paradigma come «apprendimento e innovazione», «adattamento e improvvisazione»
oppure in termini informatici come «ricompilazione e ricerca euristica» (WADD,
14). Contro il riduzionismo neodarwinista, Waddington ha ricordato che il secondo
modifica il primo, ma che il primo modifica pure l’ambiente (WADD, 343, 384, 405406): sia l’ambiente fisico (di fronte alla siccità alcuni organismi migrano fino a trovare un ambiente simile a quello precedente), sia l’ambiente biotico (un eccesso di
predatori diminuisce il numero di prede, il che fa calare il numero di predatori fino
all’equilibrio).
Sappiamo però che i mutamenti degli esseri non possono contraddire alcune
regole fisiche, chimiche e genetiche, che oggi si conoscono. Una è la seguente: nessuno dà ciò che non ha. Concretamente: l’informazione genetica (espressa più silente) in un organismo semplice non può dare luogo ad un essere la cui quantità di geni
sia molto diversa dal primo (il che equivale a negare almeno la maxievoluzione); ci
vuole un apporto d’informazione supplementare. Apporto sottomesso ad un caso le
cui regole non possono essere conosciute.
Tale informazione non può essere acquisita attraverso piccole mutazioni puntuali
in un gene, ma tramite massive “trasfusioni” di catene di geni ovvero mediante sim40 BASTI,
185-187. L’autore offre in questo capitolo un interessante studio metafisico dell’evoluzione fisica.
147
note e commenti
biosi tra gli organismi, come propongono Margulis e altri41 (teoria che, tra l’altro,
ridimensiona di molto la lotta come meccanismo evolutivo e rivaluta la cooperazione). Conviene ricordare però che il modo migliore per ricombinare il genoma di una
specie è mediante il meccanismo sessuale, sebbene esso non permetta di valicare la
microevoluzione (questa implica anche un secondo meccanismo di rimescolamento,
quello che avviene durante la meiosi). In tal modo, l’evoluzione rivela meandri che
neppure Charles Darwin sospettò. E tali meccanismi mettono in primo piano, ancora
una volta, la contingenza.
Come si desume da quanto si è accennato, la scienza postmoderna assegna il
ruolo di protagonisti alla finalità e al caso, ovvero all’ordine e al caos (soltanto in
questa misura è accettabile la formula di Monod «caso e necessità»). È significativo
che uno dei fautori del neodarwinismo, il paleontologo George Gaylord Simpson, sia
approdato a questa conclusione42. Tale scienza è sostanzialmente indeterminista,
così come fu determinista la scienza moderna. La disciplina modello non sarà ora la
matematica (deduttiva ed esatta) né la meccanica, bensì la meteorologia (induttiva e
inesatta). Ad essa si devono ispirare la cosmologia e la biologia ogniqualvolta cerchino di delineare l’evoluzione degli esseri. Questi saperi forniranno allora i materiali idonei affinché la filosofia possa compiere l’inferenza conclusiva, vale a dire l’esistenza di una Intelligenza superiore, di un Programmatore provvidente che dirige
tutte le cose, servendosi delle loro attività finalizzate, verso un fine a loro estraneo
— eterogeneo — perché le sovrasta e le trascende43.
In questo nuovo ampio contesto la biologia darwinista resta valida in un’area
41 Cfr.
nel nostro precedente articolo (citato nella nota 2) le pagine dedicate all’ambito della realtà
chiamato bioevoluzione.
42 «La storia della vita è decisamente non casuale. Ciò appare chiaro da molte caratteristiche […]
Ma ciò risulta ancora più chiaro da due altri fenomeni abbondantemente documentati dai fossili
[…] Il primo riguarda la direzione del mutamento della morfologia […] che in una data linea di
discendenza continua spesso per lunghi periodi di tempo senza notevoli deviazioni [= stalli]; il
secondo riguarda l’esistenza di orientamenti simili o paralleli che spesso compaiono tanto
contemporaneamente che successivamente in moltissime diverse linee di discendenza che di
solito sono correlate. Questi fenomeni sono ben lungi dall’essere universali; non sono “leggi”
dell’evoluzione; ma sono così comuni e così perfettamente accertati dalle prove concrete, che
postulano l’esistenza di una forza direzionale che agisce con estrema precisione nei processi
evolutivi. Essi escludono qualsiasi concetto di evoluzione puramente casuale, quale si ebbe
abbastanza ingenuamente col mutazionismo, che godè pure di considerevole prestigio nei primi
anni del s.XX. Quali siano le forze direzionali che gli elementi in nostro possesso ci impongono
o consentono di ammettere, è una di quelle domande per cui chiediamo la risposta al documento
fossile [e che purtroppo non ci ha dato]» (G.G. SIMPSON, L’evoluzione. Una visione del mondo,
Sansoni, Firenze 1972, p. 154). E conclude: «L’uomo non costituisce il vertice di una singola e
costante tendenza verso cose sempre più alte. […] L’uomo sorse realmente in seguito a una
sequenza tremendamente lunga di eventi in cui ebbero parte sia il caso che l’orientamento. Non
fu il caso soltanto che favorì il suo apparire, […] ma vi contribuì anch’esso. L’orientamento non
si manifestò sempre in direzione dell’uomo, e non condusse in linea diretta all’uomo, ma prese
parte in tale direzione» (ibidem, pp. 368-369).
43 È il tentativo di autori come S. ANDERSEN - A. PEACOCKE (Evolution and Creation: A European
Perspective, Aarhus University Press, Aarhus (Denmark) 1987), D. BARTHOLOMEW (Dio e il
caso, SEI, Torino 1987), R.M. GASCOGNE (The History of Creation: a christian view of inorganic and organic evolution, Fast Books, Sydney 1993).
148
Javier Villanueva
molto piccola — quella della microevoluzione —, così come la fisica newtoniana
assoluta, reversibile e lineare rimane giusta in un ambito molto ridotto della realtà.
Sicché il panevoluzionismo darwinista, rappresentato come un albero, viene negato e
spezzato in parecchi alberetti, vale a dire in cespugli (seguendo in ciò la Margulis,
che oramai accettano quasi tutti)44. Il tronco di questi alberelli sarebbero le cosiddette “specie madri o basiche o archetipiche”. Esse potrebbero assimilarsi alle formule
che, modificandone anche di poco le variabili, danno luogo ad una famiglia di
forme: pensiamo ai frattali e ai cristalli.
44 Illustrativa
è la storia del cavallo: nel 1874 veniva raffigurata come una linea, nel 1918 come un
albero, nel 1955 come un cespuglio o candelabro che rimanda indietro il tronco e la radice (G.
SERMONTI, Le forme della vita (Introduzione alla biologia), Armando, Roma 1981, pp. 88 ss.).
149
150
cronache di filosofia
a cura di Juan A. MERCADO
SOCIETÀ FILOSOFICHE
L’etica applicata è stato il tema del ventunesimo simposio internazionale della
Austrian Ludwig Wittgenstein Society (Kirchberg am Wechsel, dal 16 al 22 agosto
1998). Nella sessione “Wittgenstein” si sono tenuti gli interventi di M. Ouelbani: Die
Philosophie des Post-Tractatus und das Schicksal der Ethik, B. Essenkoulov:
Wittgenstein’s Ideas in the Context of the Modern Philosophical; M. Kroß: Was gut ist,
ist auch göttlich; J. Zovko: Platon und Wittgenstein. Sessione “Business and Professional
Ethics”, interventi di P. Koslowski: Wirtschaftsethik - Wo ist die Philosophie?; A. Krebs:
Recht auf Arbeit oder Grundeinkommen?; W. Zimmerli: Drei Gründe, warum (auch)
eine Wirtschaftsethik hermeneutisch sein muß. Sessione “Politics and Ethics”, G.
Doppelt: Liberalism, Ethnic Identity and Group Rights or The Politics of Identity and the
Morality of Liberalism. Altri interventi di R. Chennouifi: Ethik und Kolonialismus; M.
Marcelli: Philosoph als Wegweiser, Philosoph als Dolmetscher; M. Popovytch: Ethical
Dimension of Postcommunist Political Life: The Ukrainian Experience; J. NidaRümelin: The Idea of a Global Civil Society; A. Thomas: Normativity and Moral
Reasons. Sessione “Technology and Ethics”, C. Hubig: Sachzwänge: Herausforderung
oder Entlastung für eine Ethik der Technik; G. Ropohl: Welche Schwierigkeiten die
Technik mit der Ethik hat. Sessione “Environmental Ethics”, K. Chin: Der
Naturschutzgedanke aus der Sicht des koreanischen traditionalen Gedankens or Die
Überwindung der ökologischen Krise und der koreanische traditionale Gedanke; D. von
der Pfordten: Welche Entitäten sind ethisch zu berücksichtigen?. Sessione “Bioethics and
Medical Ethics”, F. Kamm: Physician Assisted Suicide; H. Sass: Differential Ethics in
the Life Sciences. Integrating Facts and Norms; J. Bachman: Religious Voices in Secular
Settings; R. Steindl: Wie ist der Tod durch die Veränderungen in den politischen
Strukturen beeinflußt?; H. Wettstein: On Death and Dignity. I due workshop sono stati
dedicati a: “Genetics and Ethics” e “Feminism and Ethics” con le relazioni di D.
Birnbacher: Ethische Probleme der Somatischen Gentherapie; e H. Nelson: Resistance
and Insubordination: A Feminist Response to Medical Hegemony. Già prima del
Congresso erano stati pubblicati due volumi a cura di Peter Kampits, Karoly Kokay e
Anja Weiberg con il titolo Applied Ethics: Papers of the 21st International Wittgenstein
Symposium, August 16-22, 1998, Kirchberg am Wechsel. Volume VI/1 e Volume VI/2 of
della serie “Contributions of the Austrian Ludwig Wittgenstein Society”. Kirchberg am
Wechsel: ALWS, 1998. ISSN 1022-3398. pp. 733. Il Congresso del 1999 avrà il titolo
generale Metaphysik im postmetaphysischen Zeitalter / Metaphysics in the PostMetaphysical Age e si svolgerà sempre a Kirchberg am Wechsel dal 15 al 21 agosto.
Informazioni: Austrian Ludwig Wittgenstein Society, Conference Office, Markt 63, A2880 Kirchberg am Wechsel, Austria, tel/fax +43 2641 2557, e-mail: [email protected]
151
cronache di filosofia
Il XVII Convegno Nazionale dell’ADIF (Associazione Docenti Italiani di
Filosofia) si è tenuto dal 4 al 6 settembre 1998 nella storica sede dell’Istituto
“Aloisianum” di Gallarate (Varese). I soci ed altri studiosi si sono incontrati per discutere
sul tema Verità e libertà nella cultura contemporanea, affrontato da diverse relazioni e
comunicazioni. La relazione introduttiva del prof. Battista Mondin, Presidente
dell’Associazione, ha avuto come titolo Fare l’uomo nella libertà secondo verità; ad essa
è seguita la relazione del prof. Giuseppe Savagnone, che ha delineato un quadro globale
della Dialettica tra verità e libertà. Dal punto di vista più teoretico, sono intervenuti il
prof. Lluís Clavell, che ha parlato della Metafisica della libertà, e il prof. Vittorio
Possenti, che si è soffermato sul rapporto tra Libertà e percezione del bene. Con una prospettiva più storiografica, si sono succedute le relazioni del prof. Giuseppe Riconda, in
riferimento a Dostojevski e a Berdiaev, e il prof. Giorgio Penzo, riguardo a Nietzsche,
Heidegger e Jaspers. Il pensiero di Maritain sull’argomento è stato esposto dal prof.
Piero Viotto, che ha sostituito il previsto intervento del prof. A. Molinaro, assente per
motivi di salute. Come nelle precedenti edizioni del convegno, è prevista la pubblicazione degli Atti.
Dal 25 al 28 settembre 1998, a Mussomeli, in Sicilia, si è tenuta la conferenza su The
History of Philosophy and European Identity, a cura della British Society for the
History of Philosophy e l’Associazione Culturale ‘Archimede’. I relatori sono stati S.
Brown (Open University), D. Garber (University of Chicago), H. Gatti (Università La
Sapienza, Roma), G.A.J. Rogers (University of Keele), J.B. Schneewind (John Hopkins),
L. Simonetti (Università di Milano), Y.C. Zarka (CNRS, Paris). Informazioni: G.A.J.
Rogers, Department of Philosophy, University of Keele, Keele, Staffs, U.K. ST5 5BG email: [email protected] http://www.wolfon.ox.ac.uk/~go/mufp98.html
Il Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche ha organizzato tre incontri nell’ultimo trimestre del 1998: il 31 ottobre, Filosofia mistica al femminile, in occasione della
pubblicazione degli studi Edith Stein. La passione della verità (Messaggero di Padova,
1998), della prof.ssa Angela Ales Bello, e La passione di pensare. Angela da Foligno,
Maddalena de’ Pazzi, Jeanne Guyon (Carocci, Roma 1998), di Francesca Brezzi, con la
partecipazione di Bianca Maria d’Ippolito, Margarete Durst, Giorgio Penzo e Marcelo
Sánchez Sorondo; il 28 novembre, conferenza del prof. Giuseppe Longo sulla
Incompletezza dei formalismi e Geometria dello spazio sensibile, in occasione della pubblicazione del suo libro The Mathemathical Continuum, from Intuition to Logic, Stanford
Univ. Press, 1998; il 19 dicembre, il prof. Armando Savignano parlerà su La generazione
del 98 in Spagna e la filosofia europea.
Il 27 febbraio 1999 avrà luogo la conferenza Anti-Individualism, Self-Knowledge, and
Scepticism, all’Università di Bristol in collaborazione con la Mind Association per analizzare i problemi collegati al rapporto fra anti-individualismo, scetticismo e soggettivismo. Per informazioni rivolgersi a Mrs. D.R. Harding, Departmental Secretary, email:
[email protected]; fax: +44-(0)117-928-8626.
The Crisis in Analytic Philosophy è il titolo della conferenza indetta dal Centre for
Post-Analytic Philosophy (University of Southampton, 12-13 aprile). L’interesse per le
origini storiche della filosofia analitica come revisione delle basi della sua identità e il
futuro dell’analisi logica fanno parte dei temi da discutere in questo evento. Fra i relatori
152
cronache di filosofia
si trovano James Conant, Colin McGinn, Alan Montefiore, Stephen Mulhall, Mark
Sacks, Quentin Skinner e Crispin Wright. Nel mese di settembre (11-12) si svolgerà un
altro convegno dedicato a Nietzsche e la filosofia post-analitica. La home page del
Centre — http: www.soton.ac.uk/~philosop/cpap.htm — presenta complessivamente
l’informazione sull’istituto e le sue svariate attività e ci si può mettere in contatto con il
prof. Denis McManus all’indirizzo e-mail “[email protected]” per ulteriori informazioni.
La Ontario Society for the Study of Argumentation della Brock University (St.
Catharines, Ontario, Canada) ha indetto per i giorni 8-10 maggio la sua terza conferenza.
Quest’anno il titolo è Argumentation at the Century’s Turn. I relatori principali saranno
Trudy Govier, Rob Grootendorst (Università di Amsterdam) e Michael Leff
(Northwestern University). Gli organizzatori sono Hans V. Hansen (Liberal Studies
Department of Philosophy, Brock University, email: [email protected]) e
Christopher W. Tindale (Trent University, Dept. of Philosophy, Peterborough, ON
Canada, email: [email protected]).
La Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG, Società tedesca di ricerca) e il Center
for Philosophy and Ethics of Science dell’Università di Hannover hanno organizzato
una conferenza sulla Incommensurability (and related matters). La critica iniziata negli
anni sessanta da Kuhn e Feyerabend contro alcuni dei punti basilari della filosofia della
scienza tramite la nozione di incommensurabilità ha suscitato una polemica ricca di
spunti che non si sono ancora esauriti. La conferenza si presenta come un’occasione per
definire i termini attuali sullo stato generale della questione. Il sito internet offre l’informazione dettagliata delle attività, relatori invitati, ecc. (http://sun1.rrzn.unihannover.de/zeww/inc.conf.html).
Con una tematica aperta alla psicologia, alla neurofisiologia e allo sviluppo dei sistemi informatici, la Society for Philosophy and Psychology (SPP) della Stanford
University ha organizzato l’incontro in occasione del suo XXV anniversario da tenersi
dal 19 al 22 giugno. L’organizzazione è curata da Kenneth Taylor (e-mail:
[email protected]).
Nella conferenza annuale della Society for Applied Philosophy, in collaborazione
quest’anno con la International Society for Environmental Ethics, si affronterà il tema
Moral and Political Reasoning in Environmental Practice (Mansfield College, Oxford,
27-29 giugno). Le questioni principali saranno “Politics versus Philosophy” e “Justice,
Non-Humans and Future Generations”, con una sessione dedicata alla discussione sulla
base di casi documentati. Coordinatore dell’incontro è il prof. Andrew Light, e per ulteriori informazioni ci si può rivolgere a Adam Hedgecoe, SAP, Room 313, Senate House,
Malet St. London WC1E 7HU, UK, e-mail: [email protected]
Fra i seminari di filosofia dell’Istituto Italiano per gli studi filosofici (Pal. Serra di
Cassano, via Monte di Dio, 14 - Napoli) per il 1999 menzioniamo: Agostino tra Platone
e Kant come uno dei “Fortzeugenden Gründern des Philosophierens” con il prof.
Boghos Levon Zekiyan (Univ. di Venezia), 1-5 febbraio; Introduzione al pensiero hegeliano e all’hegelismo, con la prof.ssa Cinzia Ferrini, dal 15 al 18 febbraio; prof. Osvaldo
Guariglia (Università di Buenos Aires), L’etica universalista, 8-12 marzo; Valori e perso-
153
cronache di filosofia
na in Nicolai Hartmann, prof. Antonio Da Re (Univ. di Padova), 15-18 marzo; con il
prof. Nicolas Tertulian (École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris), Ontologie
del XX secolo, 29 marzo-1 aprile; prof. Giuseppe Cacciatore (Università di Napoli
“Federico II”), I fondamenti teorici e filosofici della “Storia della cultura”, 26-29 aprile;
Maître et disciple, prof. George Steiner (Università di Cambridge), 10-12 maggio; Paul
Ricoeur, L’autorità in questione, 17-21 maggio.
VITA ACCADEMICA
In questa sezione del primo fascicolo di ogni anno pubblicheremo d’ora in poi alcune
notizie riguardanti la vita accademica della nostra Facoltà di Filosofia.
Informiamo innanzitutto che il 20 luglio 1998 Giovanni Paolo II ha concesso il titolo di
«università» al Pontificio Ateneo della Santa Croce, che diventa, così, la sesta università
pontificia di Roma. Le attività accademiche erano iniziate nel 1984 con i corsi delle facoltà
di Teologia e di Diritto Canonico, a cui si è aggiunta subito dopo la Facoltà di Filosofia; nel
1996 è stata avviata la Facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale.
Attività
— In occasione della festa di Santa Caterina d’Alessandria, patrona della Facoltà (25
novembre 1997), il prof. Sergio Belardinelli, dell’Università di Bologna, ha tenuto una
conferenza dal titolo La cultura della società civile.
— Nei giorni 26 e 27 febbraio 1998 ha avuto luogo il VII Convegno della Facoltà
intitolato Dio e il senso dell’esistenza umana. Prossimamente sarà disponibile nella collana di pubblicazioni della Facoltà il volume contenente gli interventi dei relatori e alcune comunicazioni. I titoli delle prolusioni sono stati: Dio nella cultura del passaggio di
millennio: prospettiva teologica (Card. Paul Poupard); Il pensiero scientifico e l’accesso
a Dio: prospettiva epistemologica (Thomas F. Torrance); Pensiero metafisico e apertura
a Dio: prospettiva metafisica (Luis Romera); L’uomo, via verso Dio (Leonardo Polo); La
questione di Dio nella prospettiva fenomenologica (Angela Ales Bello); Dio nella prospettiva ermeneutica (Gaspare Mura).
— Il Convegno dell’anno accademico 1998-1999 dal titolo L’attualità del pensiero
aristotelico si svolgerà nei giorni 22-23 febbraio 1999, nella sede dell’Università (P.zza
Sant’Apollinare 49, 00186 Roma), con il seguente programma: lunedì 22 febbraio:
Presentazione del Convegno (Rev. prof. Stephen Louis Brock, Presidente del Comitato
Organizzativo); Aristotele e pensiero cristiano: le sostanze aristoteliche esistono? (prof.
Ralph McInerny, University of Notre Dame, USA); Aristotele e il metodo della filosofia
(prof. Héctor Zagal, Universidad Panamericana, México); Aristotele e la logica (Rev.
prof. Kevin Flannery sj, Pontificia Università Gregoriana, Roma); Aristotele e il futuro
della metafisica (prof. Fernando Inciarte, Universität Münster, Germania). Martedì 23
febbraio: Aristotele e l’etica (Rev. prof. Ignacio Yarza, Pontificia Università della Santa
Croce); Aristotele e la rinascita della retorica (prof. Carlo Natali, Università di Venezia,
Italia); Aristotele e la filosofia della scienza (Rev. prof. William Wallace, op, University
of Maryland, USA); La presenza di Aristotele nella filosofia odierna (prof. Enrico Berti,
154
cronache di filosofia
Università di Padova, Italia). Oltre alle relazioni previste nelle mattinate, nei pomeriggi
si svolgeranno due tavole rotonde con la partecipazione dei relatori. Nel primo pomeriggio avrà luogo anche la presentazione delle comunicazioni.
Nomine
Il rev. prof. Juan José Sanguineti è il nuovo Decano della Facoltà dal mese di febbraio 1998; subentra al rev. prof. Angel Rodríguez Luño, il cui secondo mandato è giunto
a termine.
Nuove pubblicazioni curate dalla Facoltà
— Gabriel CHALMETA, Etica applicata. L’ordine ideale della vita umana, Collana
“Filosofia e realtà” n. 7, Le Monnier, Firenze 1997, 259 pp. (traduzione del libro Etica
especial, Eunsa, Pamplona 1996).
— Robert A. GAHL Jr. (a cura di), Etica e politica nella società del Duemila, Collana
“Studi di filosofia” n. 14, Armando, Roma 1998, 175 pp. Contiene gli atti del convegno
tenutosi nel mese di febbraio 1997.
— Mariano FAZIO, Due rivoluzionari: Francisco de Vitoria e Jean-Jacques Rousseau,
Collana “Studi di filosofia” n. 15, Armando, Roma 1998, 283 pp.
Seminari per professori
— Prof. Marco D’Avenia, Università Cattolica del Sacro Cuore, sul tema La conoscenza per connaturalità in Aristotele, 27 novembre 1997.
— Prof. Mariano Artigas, Università di Navarra, sul tema Presupposizioni ed implicazioni del progresso scientifico, 4 dicembre 1997.
— Prof. Deal W. Hudson, Capo redattore della rivista culturale «Crisis», già professore presso la Facoltà di Filosofia della Fordham University (New York) sul tema
Happiness: An Eudaimonistic Account, 23 febbraio 1998.
— Prof. Franco Poterzio, Pontificia Università della Santa Croce, sul tema Riflessioni
intorno al documento del Pontificio Consiglio per la Famiglia «Sessualità umana, verità
e significato», 27 marzo 1998.
— Prof. Martin Rhonheimer, Pontificia Università della Santa Croce, sul tema Diritti
dell’individuo, interesse proprio e doveri di solidarietà, 20 ottobre 1997.
— Prof. Javier Villanueva, Pontificia Università della Santa Croce, sul tema
L’evoluzionismo oggi, 10 giugno 1998.
Corsi di dottorato
Fra i corsi di dottorato svolti, citiamo i seguenti:
— Prof. Martin Rhonheimer: Questioni attuali di filosofia politica, ottobre 1997.
— Prof. Marco D’Avenia: Esperienza Morale e Fondazione dell’Etica in Alasdair
MacIntyre, novembre 1997.
— Prof. Mariano Artigas: Umanesimo, ragione e tolleranza nella filosofia di Karl R.
Popper, dicembre 1997.
Studenti
Nell’anno accademico 1997-98 gli studenti iscritti alla Facoltà sono stati 147, dei
quali 39 al primo ciclo, 49 alla licenza e 59 al dottorato. Gli studenti che hanno conseguito il baccellierato in filosofia al termine del primo ciclo di studi sono stati 15, quelli che
hanno ottenuto la licenza sono stati 43, mentre altri 17 hanno discusso la tesi dottorale.
155
cronache di filosofia
Tesi dottorali discusse
1. ANDRYSZCZAK Piotr, La concezione della libertà di B.A. Ackerman (25-06-1998)
2. CANTÚ Guillermo, La fe en la gnoseología de Emanuele Severino (23-06-1998)
3. CRUZ AMORÓS Vicente José, El fundamento metafísico de la relación entre las
analogías de atribución y de proporcionalidad (27-05-1998)
4. CUNHA CRUZ Pedro, Antropologia e Razão moderna no pensamento de H.C. de
Lima Vaz (28-11-1997)
5. DÍEZ MANTECA José María, Racionalidad y libertad. Las dimensiones de la
libertad según Millán-Puelles (29-09-1998)
6. EKWUTOSI Cosmas Maduakonam, Freedom to do Evil in the Philosophy of John
Stuart Mill (26-05-1998)
7. LÓPEZ CARPIO José Luis, Epistemología de la filosofía de la cultura. Forma y
contenido en Thomas Stearns Eliot (30-06-1998)
8. LÓPEZ RUIZ Francisco Javier, Fin de la teoría de Pierre Duhem (13-01-1998)
9. MARTÍNEZ LÓPEZ Francisco José, La fundación de la ética realista. Valoración
de la propuesta de A. Millán-Puelles (9-06-1998)
10. ORDEIG CORSINI Jorge, La analogía en las ciencias. Hacia una definición rigurosa de conocimiento científico (7-10-1997)
11. PARDO CABALLOS Antonio, La controversia “de aeternitate mundi” entre San
Buenaventura y Santo Tomás (20-10-1997)
12. PÉREZ DE CASTRO Jorge, La felicidad y la trascendencia en Julían Marías (2303-1998)
13. PONT CAMPS Xavier, Habitar el Siglo XX. Estudio interdisciplinario del concepto de habitar en la teoría de la arquitectura moderna y contemporánea y en la
filosofía de Heidegger (25-06-1998)
14. SABUY SABANGU Paulin, Nature, raison et personne. Une approche anthropologique d’après Robert Spaemann (25-06-1998)
15. SHAW John Michael, The Morality of Human Acts. A Study of the Philosophy of
St Thomas Aquinas (20-11-1997)
16. S PALEK Christian, El alcance metafísico en la filosofía de Dietrich von
Hildebrand (16-01-1998)
17. VIAL MENA Wenceslao, Antropología del sufrimiento en Viktor Frankl (24-061998)
156
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/recensioni
recensioni
AA.VV., La tecnica, la vita: i dilemmi dell’azione (Annuario di filosofia Seconda navigazione), Mondadori, Milano 1998, pp. 288.
■
Il presente annuario di filosofia si presenta in realtà privo di numerazione, trattandosi
di esemplare unico nei 12 mesi: pertanto è l’anno a scandirne l’individuazione e la successione. Inoltre, si caratterizza in quanto polarizzato sullo sviluppo di un tema monografico, seppure trattato secondo varie modalità ed una certa interdisciplinarietà (in questo
caso, tra scienza genetica e filosofia). Il numero del corrente anno, tratta il tema esposto
dal titolo in tre sezioni. La prima, e più vasta, intitolata Filosofia della Tecnica; si muove
tendenzialmente a partire da un approccio epistemologico ed etico; la seconda: Natura e
Sostanza, l’approccio ontologico; si definisce da sé; la terza ed ultima, intitolata
Clonazione, genetica e libertà, affronta temi specifici di attualità in soli quattro saggi, di
cui tre sviluppati da specialisti di medicina e bioetica e l’ultimo da un filosofo della scuola di Ricoeur (D. Jervolino). Gli autori dei vari saggi appartengono alle aree ed alle
opzioni culturali più diverse (accomunando ad esempio: G. Cottier, R. Spaemann, E.
Berti con P. Rossi, S. Tagliagambe, ecc.), probabilmente come segno di pluralismo aperto
e per una maggior efficacia dialettica (nel senso platonico) nella trattazione tematica.
L’editoriale parte dalla nota critica di Marx ad una tesi di Feuerbach, «i filosofi hanno
finora soltanto interpretato diversamente il mondo: si tratta invece di trasformarlo», per
constatare che, se questa è la soluzione di ogni problema, anche l’esito di una filosofiarivoluzionaria è risultato fallimentare. Se però tale frase si applica all’impressionante
ritmo dello sviluppo tecnologico attualmente in corso (particolarmente rilevante nella
genetica, dove la “cultura” sembra in grado di trasformare la “natura”), parrebbe che proprio la tecnologia sia allora l’unica realtà mediatrice in grado di “inverare” l’affermazione di Marx, o il suo noto postulato per cui l’uomo non è, ma si fa.
Non potrò che effettuare una selezione dei saggi inclusi nel presente volume, non
avendo lo spazio per commentarli tutti, sia pure brevemente.
Il primo saggio, di Vittorio Possenti, tra le varie interessanti argomentazioni sottolinea il fatto che la tecnologia moderna differisce dalla scienza e dalle tecniche tradizionali. Queste ultime, infatti, dichiarando preventivamente l’obiettivo della ricerca e la tecnica impiegata, consentivano all’etica di intervenire già in fase di enunciativa degli scopi e
dei mezzi idonei a conseguirli. La tecnologia invece si preoccupa di migliorare e diversi-
159
recensioni
ficare le potenzialità dei mezzi, lasciando in secondo piano una pluralità di nuove e
poliedriche applicazioni (fini), in gran parte sfumati e non immediatamente determinabili. Di conseguenza, spesso l’etica finisce per esprimersi solo di fronte al “fatto compiuto”
(si pensi al far west attuale prodotto dalla fecondazione in vitro, che richiede tuttora una
legislazione adeguata, e di conseguenza, una riflessione etica a posteriori su una situazione di fatto per molti versi inquietante, ingovernabile e problematica).
Per Paolo Rossi la tecnica è ambigua per essenza, come la figura mitica di Dedalo:
produce il male e offre rimedi al male. Guai però a quei filosofi (metafisici o etici) che
pretenderebbero di inserirsi in questo problema: sono liquidati in un paragrafo dal significativo titolo di parrocchialismo filosofico. Sembra che bisogna limitarsi a contemplare
il fluire del divenire, salvo intervenire quando il fiume rischia di impaludarsi, invece che
scorrere (verso dove?). In quest’ottica l’unico filosofo da salvare è Francesco Bacone ed
i suoi più fedeli epigoni (tra cui, immagino, si annovera lo stesso Rossi). Al saggio di P.
Rossi, sembra contrapporsi invece quello di E. Agazzi che ribadisce la necessità di connettere la tecnoscienza (così definisce la sofisticata tecnica attuale) con l’etica e l’antropologia, rifiutando una visione meccanicista della natura (e di conseguenza della tecnologia) che impoverisce la priorità della dimensione morale dell’uomo, invece pienamente
ribadita dall’autore.
J. Sanguineti, analizzando la filosofia classica, vede come la tecnica appaia una continuatio, una imitazione della natura non umana volta ad integrarla e perfezionarla: è un
misto di necessità e libertà. L’uomo stesso appartiene, con la razionalità, alla natura. È
naturale per lui usare la ragione e la tecnica. Cosa lega dunque natura non-umana e natura umana? Il fatto che la ragione umana è naturale nella sua radice, e la natura infraumana è inconsapevolmente razionale (leggibile solo da un intelletto umano o di altro essere
razionale: intellegibile). Interessante lo studio filosofico della tecnologia, distinta in tre
livelli:
– tecnica A: ovvero, la fabbricazioni di artefatti strumentali;
– tecnica B: quella capace di indurre la genesi di sostanze o specie viventi, o almeno
in grado di produrvi una modifica strutturale, nel loro modo di funzionare o nei loro
ritmi;
– tecnica C (solo allusa): è la tecnica B che appare inaccettabile se applicata all’uomo
(ovvero quando si esclude il semplice curare o completare ciò che manca in natura per
difetto congenito); infatti si scontra con le esigenze etiche della persona, che in un certo
senso danno diritto all’etica di analizzare e valutare anche le tecniche A e B, in quanto
indirettamente sono comunque connesse a persone. Infatti il possibile etico ed il tecnicamente possibile non coincidono.
La tecnica appare a Sanguineti come una delle grandi risposte dell’uomo al male
naturale (il male fisico), purché non sia affidata solamente a “tecnocrati”, proprio per
l’ambiguità delle sue applicazioni future (non esiste solo un male fisico, per l’uomo).
La seconda sezione è introdotta da un breve, ma prezioso saggio di E. Berti che preferisce seguire la tesi aristotelica sul concepimento della vita, piuttosto che quella tomista, influenzata dalla lunga tradizione cristiana della “animazione successiva”, facilmente
impugnabile oggi da parte di chi si oppone a concedere uno statuto all’embrione, per lo
meno a partire dallo zigote. Mi pare profonda la difesa del concetto di sostanza, e di
sostanza individuale (derivata dalla definizione boeziana-aristotelica di persona) contro
una teoria attuale per cui l’embrione non è un individuo, ma una pluralità di individui.
Berti risponde con una nota distinzione che Aristotele fa tra l’universale e l’intero. Il
primo si predica di molti individui, restando identico in ciascuno di essi (cioè non è una
160
recensioni
sostanza); mentre l’intero è l’unità continua di molte parti, che non si predica di esse e
quindi può anche essere una sostanza. La divisibilità dell’embrione sarebbe proprio di
questo tipo. Ciò dunque non gli impedisce di essere una realtà individuale, nel senso di
realtà particolare, suscettibile di ulteriori determinazioni a partire dalla sua “totipotenza”
(termine tecnico-scientifico per indicare una poliedricità di sviluppi determinati, presente
solo nella fase selettiva iniziale dell’embrione, e non necessariamente una pluralità di
individui originaria che preceda il processo selettivo).
Cottier ci offre un quadro di atteggiamenti storicamente determinatisi di fronte al rapporto tra uomo e natura e, di conseguenza, uomo e tecnica. Una delle preziose indicazioni che emergono è che se oggi il termine “diritto naturale” appare tuttora in discredito,
ciò si deve solo ad un tenace pregiudizio “moderno”, per cui per la libertà e per la moralità, la natura non ha alcuna struttura normativa (pregiudizio, fondato da Cartesio nella
sua divisione tra res extensa, regno della necessità e res cogitans, regno della libertà,
amplificato poi da Rousseau e Kant).
Infine Robert Spaemann offre un penetrante studio sul termine natura, condannando
come contradditorie, in base alle loro conseguenze, le opposte teorie del naturalismo e
dello spiritualismo. Infatti, queste dissociano nell’homo sapiens la sua dignità di persona
(totalità di senso come universale), unico fondamento esaustivo dei cosiddetti diritti
umani, dalla sua conformazione biologica materiale. Ovvero, il valore universale unico
ed intangibile che nel concetto forte di persona è strettamente congiunto alla sua individualità, che necessariamente non si può impunemente separare dalla corporeità: l’uomo
non è solo res cogitans. Pertanto Spaemann ammonisce contro quel falso personalismo
di stampo illuminista lockiano, che distingue tra persona ed uomo, attribuendo diritti solo
alla prima e negandoli così a non nati, malati di handicap gravi, affetti da demenza senile, ecc. Se la persona è dunque uno status, non si comprende infatti come vietare di uccidere un esemplare adulto e sano della specie homo sapiens quando dorme: in quella
situazione certo non è persona, ma semplicemente uomo...
Rinvio senza altri commenti alla lettura dell’ultima interessante sezione, che consente
di aggiornarci sui problemi della genetica attuale secondo un profilo più medico-scientifico, ma sempre inquadrabile in ambito epistemologico, etico ed antropologico.
Giorgio FARO
161
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/recensioni
Stephen L. BROCK, Action and Conduct. Thomas Aquinas and the Theory
of Action, T&T Clark, Edinburgh 1998, pp. XII + 266.
■
Sono diversi i motivi per cui considero questo un libro importante. Da una parte,
mentre da alcuni decenni nell’ambito anglosassone è evidente la ripresa dell’interesse per
lo studio di Aristotele, non si può dire lo stesso dello studio della filosofia medioevale, e
in particolare dell’opera di San Tommaso. Ma, come indica R. McInerny nel prologo a
questo libro, il solo fatto della profondità dei commenti tomisti a Aristotele sarebbe già di
per sé un motivo per stimolare gli odierni filosofi a studiare Tommaso. Il libro che presento può essere uno stimolo in questo senso.
Dall’altra parte, l’argomento considerato è interessante non solo dal punto di vista
della storia della filosofia. In effetti, la tesi principale del libro è che «la conoscenza del
rapporto tra l’azione fisica e l’azione volontaria è fondamentale per comprendere la stessa azione volontaria, e che Tommaso può aiutare assai per promuovere una tale conoscenza» (p. 3), e in particolare per mostrare ai filosofi sommersi nella tradizione analitica
una teoria dell’azione che non confina le nozioni di intenzione e di azione nell’ambito
dell’azione umana.
Il libro comincia quindi con un’analisi dell’analogicità del termine “azione” (cap. 1).
È analogico, da una parte, il termine “actus”, che viene usato da Tommaso, sulla scia di
Aristotele, sia per l’azione sia per la forma, è ciò serve a mostrare meglio il rapporto che
c’è proprio fra l’operazione e la forma; ma lo è a sua volta anche il termine “azione”,
poiché esse possono essere sia immanenti sia transitive, e perché il loro soggetto può
essere anche assai svariato. L’analogato principale sarebbe l’azione propria della persona, cioè, l’azione volontaria.
Nel caso delle creature che non hanno un dominio sui loro atti, cioè che non sono
razionali, si può dire che esse sono in qualche modo degli strumenti nelle mani di un
altro agente. Esse evidentemente agiscono — come qualsiasi strumento, che influisce
sempre sul modo di essere dell’effetto —; ma lo fanno seguendo un pattern predefinito,
che cerca la conservazione della specie, o che ci siano nell’universo le condizioni necessarie perché ci sia la vita. E da ciò deriva che siano sempre scambiabili. Esercitano un
ruolo che viene prefissato loro dalla natura, e lo compiono senza beneficio proprio: non
lo fanno quindi per loro, cercando la loro perfezione.
Come segnala Brock, l’espressione per se aguntur definisce invece il modo di agire
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recensioni
degli agenti razionali, che ordinano le proprie azioni al loro fine. Sono quindi gli unici
enti padroni delle loro azioni.
Questa differenza fra questi due modi ben diversi di agire fa che sia in Aristotele sia
in Tommaso ci siano dei termini usati esclusivamente per le azioni umane: “praxis” e
“condotta”.
In coerenza con la sua intenzione di studiare l’azione volontaria considerando prima il
suo rapporto con l’azione fisica, Brock dedica i capitoli 2 e 3 dell’opera ad analizzare le
caratteristiche comuni a tutti i diversi tipi di azione, cioè l’efficacia, la finalità e il rapporto
agente-paziente. La prima tesi discussa nel secondo capitolo è aristotelica: «l’azione dell’agente è nel paziente», ed intorno ad essa girano le pagine successive. Secondo l’A., essa
servirebbe ancora per spiegare un particolare aspetto dell’azione: la continuità delle loro
diverse parti, in particolare fra l’evento che si dà nell’agente e quello che si dà nel paziente.
Nel terzo capitolo si considera il rapporto fra efficacia e finalità, cioè il fatto che ogni
agente agisce primariamente in virtù della sua inclinazione verso un fine (Omne agens
agit propter finem), indicando il diverso rapporto che gli agenti razionali e quelli irrazionali hanno con il fine. Brock distingue quindi due sensi di “intenzione”, uno attivo e un
altro passivo — secondo cui qualcosa è mosso verso un fine da un agente —. In questa
maniera si può evitare la spiegazione teleologica che Taylor fa, riducendo la teleologia
all’ambito dei viventi.
Siccome la finalità è una delle cause della filosofia classica, Brock fa anche alcune
indicazioni sulla nozione di causa, con il proposito di dare una risposta alla spiegazione
humeana della causalità dalla prospettiva di San Tommaso. In seguito passa a studiare
alcuni dei componenti essenziali della nozione di azione — le nozioni di potenza e di
inclinazione, così importanti per comprendere la specificità degli agenti razionali — e la
distinzione fra azioni dirette e azioni indirette, per indicare che anche nel caso di queste
ultime si può parlare di causalità: ad esempio, quando un effetto è attribuito ad esso in
virtù del suo non agire.
Nel quarto capitolo, una volta indicate le caratteristiche comuni a tutte le azioni,
Brock tenta di precisare la natura dell’azione volontaria. Per farlo bisogna in primo luogo
stabilire il rapporto che in esse si dà fra l’intelligenza e la volontà. È merito di Brock
l’indicare in modo chiaro e preciso il ruolo dell’intelligenza nella costituzione dell’oggetto volontario, e la distinzione fra entrambe le facoltà, che i filosofi analitici tendono ad
assimilare. Ed è anche interessante — e importante di fronte ad alcune questioni morali
— un altro punto che l’A. mette spesso in risalto: la statuto di azione volontaria che
hanno alcune omissioni e passioni, anche se esse non hanno la loro fonte primaria in un
potere dell’agente.
Una volta raggiunto il suo scopo prioritario di contribuire a una spiegazione dell’azione volontaria attraverso l’analisi delle caratteristiche comuni alle azioni in generale,
nel quinto capitolo, con cui finisce l’opera, l’A. si sofferma su alcune azioni che dipendono dall’efficienza della volontà in un modo solo indiretto, e in particolare sui cosiddetti effetti praeter intentionem. Dopo aver presentato i diversi modi in cui un’azione può
derivare indirettamente dall’intenzione di qualcuno — il tendere verso il male in quanto
tale, il non voler prevenire un male, e le omissioni —, considera quelle che non sono
imputabili al soggetto in nessun modo, in quanto neanche indirettamente dipendono dalla
sua intenzione: in particolare, l’ignoranza non colpevole.
L’opera è quindi un’ottima introduzione alla teoria tomista dell’azione volontaria,
fatta con la precisione caratteristica dei più illustri pensatori anglosassoni, che ha inoltre
il pregio di mettere in confronto la summenzionata teoria dell’azione con quelle proprie
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recensioni
delle diverse teorie analitiche, mettendo anche in rilievo l’importanza che ancora oggi ha
il pensiero tomista per comprendere una delle cose che sta più a cuore capire all’uomo
odierno: la sua stessa azione.
Miguel PÉREZ DE LABORDA
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/recensioni
P. DONATI (a cura di), Lezioni di sociologia. Le categorie fondamentali per
la comprensione della società, cEDAM, Padova 1998, pp. XIX + 401.
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Era da molto tempo che il sottoscritto, studioso di Etica e Filosofia sociale che solo
ogni tanto (e sempre con un po’ di sgomento) si affaccia all’impervio mondo della sociologia, cercava qualcosa di simile a queste Lezioni di sociologia. Ci troviamo, infatti,
dinanzi ad un manuale di sociologia che — cosa insolita — è davvero un manuale. Lo è,
anzitutto, per la sua completezza, che mancava invece nel pur stupendo saggio introduttivo di M.S. Archer, La morfogenesi della società, la cui traduzione italiana è stata recentemente pubblicata dai tipi di F. Angeli (saggio molto chiaro, nonostante il “titolone”).
Ed è anche un vero manuale, perché — è questo il fatto più insolito — risulta perfettamente intelligibile ai non specialisti, sia che abbiano un interesse strettamente personale
per conoscere più profondamente e globalmente il senso del sapere sociologico, sia che
cerchino un sussidio valido per impartire corsi introduttivi di sociologia.
Più precisamente, pensando all’uso di questo volume da parte degli eventuali studenti, si deve forse dire che le lezioni non sono di lettura facilissima; ma, con l’aiuto delle
spiegazioni fatte durante le lezioni, ritengo che persino quanti di questa scienza hanno
soltanto qualche vaga e non molto positiva cognizione, forse perché ricavata dalle interviste televisive al sociologo di turno, potranno trarne un grande profitto. Se non altro,
stuzzicheranno la curiosità di saperne di più e si troveranno con tutto l’armamentario
concettuale che si richiede a tal fine.
L’opera è stata curata da Pierpaolo Donati, che è — per più motivi — uno degli autori
più importanti ed originali dell’attuale panorama sociologico internazionale. Sua è
l’Introduzione, e anche il primo degli otto capitoli che compongono questa opera collettiva. Ma è soprattutto suo il punto di vista relazionale che viene adottato da tutti gli autori
delle Lezioni. Il che ha un duplice vantaggio. In primo luogo, perché grazie a questa prospettiva comune l’intera esposizione si presenta coerente e continua, e normalmente s’indovina facilmente la presenza degli stessi principi a fondamento delle riflessioni particolari contenute nei singoli capitoli. In altre parole, non si ha quasi mai quella fastidiosa
impressione, che troppo frequentemente causa la lettura delle opere collettive, di trovarsi
dinanzi ad un agglomerato di temi, metodi e prospettive che sono in realtà pezzi appartenenti a rompicapi diversi.
Ad ogni modo, il “vantaggio” più importante di questa sociologia impostata relazionalmente è un altro. Mi riferisco alla maggiore idoneità di questo approccio sociologico,
rispetto ad altri tipi di approcci (a sfondo filosofico) più diffusi nel passato, per conoscere la società ed i diversi fenomeni sociali. È infatti del tutto essenziale, come spiega
Donati nell’Introduzione, imparare a leggere relazionalmente la struttura e dinamica
165
recensioni
della società; pena il grave rischio di averne una visione totalmente distorta, o almeno
l’incapacità di cogliere molti degli aspetti costitutivi. Ciò perché «la società […] non è
un ordine di realtà che possa essere concepito in modo sostanziale alla stessa maniera di
altre realtà, concrete e tangibili, come gli individui umani, o le cose che essi producono e
scambiano, o determinate strutture che appaiono come meccanismi immodificabili nel
tempo. Non è neppure una realtà residuale rispetto ad altre realtà, come non è un ammasso o mescolanza di fattori di altro ordine (per esempio economici, psicologici, culturali,
giuridici, politici, ecc.). Essa consiste, invece, di una propria “stoffa”, e segue dinamismi
propri. Il “materiale” di cui è fatta è la relazione sociale, e i suoi dinamismi corrispondono a peculiari processi di morfostasi e morfogenesi» (p. XI).
La società “è”, dunque, relazione (non “ha” relazioni), e da tale presupposto, che
viene fondato ed ampiamente sviluppato da Donati nel primo capitolo (“La società è
relazione”), deriva che un determinato modo di osservare e fare scienza su di essa, il
modo relazionale per l’appunto, dev’essere considerato il più idoneo per spiegare, ossia
attribuire cause, e comprendere, ossia attribuire un senso, a questa peculiare realtà.
Imparare a leggere la società vuol dire mettersi in relazione con essa attraverso un sistema di osservazione (approccio a sfondo filosofico + paradigma di lettura + metodologia
di ricerca empirica + risposta concreta: cfr. P. Donati, Introduzione alla sociologia relazionale, F. Angeli, Milano 1988) che sia sensibile alle relazioni, cioè che osserva con e
attraverso le relazioni sociali che — nel contesto volta per volta esaminato — implica la
condizione umana di chi agisce e di chi osserva.
Per quanto riguarda gli argomenti trattati nei capitoli successivi, in questa sede dobbiamo purtroppo limitarci quasi al solo enunciato, ancorché fortemente tentati di aggiungere qualche osservazione.
Nel secondo capitolo il paradigma relazionale viene stupendamente inquadrato da S.
Belardinelli nel panorama storico-teoretico delle rappresentazioni che la sociologia ha
dato della società. Esso appare, allora, come un tentativo di ricomporre l’unità
dell’“umano” e del “sociale”, che il pensiero moderno e postmoderno (un certo modo di
intendere il postmoderno, per la precisione) hanno indebitamente scisso e separato sia a
livello dei concreti rapporti sociali, sia a livello di interpretazione sociologica. Come
questa ricomposizione possa (e debba!) avvenire nei diversi sistemi di relazioni sociali, è
l’argomento che viene affrontato subito dopo: nell’ambito della cultura, e considerando i
suoi stretti rapporti con il fenomeno religioso (terzo capitolo, ancora di S. Belardinelli);
nel processo di socializzazione primaria e secondaria che si realizza fondamentalmente
all’interno della famiglia e della scuola (quarto capitolo, di G. Rossi Sciumé); nei processi della comunicazione, così essenziali oggigiorno alla configurazione delle relazioni
sociali (quinto capitolo, di G. Mangiarotti Frugiuele); nella rete di relazioni economiche
(sesto capitolo, di I. Colozzi) e politiche (settimo capitolo, di G. Rovati). Il capitolo che
chiude il libro (l’ottavo, di A. Maccarini, che sembra fare proprie molte delle tesi di M.S.
Archer nel saggio sopra citato) spiega — sempre in chiave relazionale, e in modo alquanto convincente — come la società mantenga nel tempo o modifichi le sue strutture attraverso processi di morfostasi e morfogenesi.
Molto ben indovinato dal punto di vista pedagogico è il glossario di parole-chiave
(una cinquantina) con cui termina il volume; anche come strumento a sé stante da consultare in qualsiasi momento. Ottimamente curata l’edizione; tra l’altro, perché abbondano i grafici utili alla buona comprensione e sintesi dei vari temi esposti, e perché la
CEDAM è stata più che generosa nell’uso di carta e inchiostro allo scopo di rendere più
semplice la lettura di queste ottime Lezioni di sociologia.
Gabriel CHALMETA
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/recensioni
Eugenio FIZZOTTI – Angelo GISMONDI (a cura di), Giovani, vuoto esistenziale e ricerca di senso, Las, Roma 1998, pp. 176.
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Lo psichiatra Viktor E. Frankl affermò in un discorso del 1972 che «ogni epoca ha la
sua nevrosi ed ogni epoca necessita di una sua psicoterapia» (la conferenza è tradotta in
italiano nel volume La sofferenza di una vita senza senso. Psicoterapia per l’uomo d’oggi, Elle Di Ci, Leumann 19873). La sua affermazione era ben fondata e derivava da una
lunga esperienza a contatto con moltissime persone afflitte dalle conseguenze psicologiche della carenza di senso nella propria vita. L’insignificanza dell’esistenza si rivelò a
Frankl come uno dei più pericolosi fattori patogeni, che conduce alla condizione di vuoto
esistenziale, la cui diffusione è purtroppo allarmante. Se si tiene presente che più della
metà dei suicidi compiuti nel mondo (un suicidio ogni dieci minuti circa: cfr. p. 14 del
presente volume) sono opera di giovani dai 10 ai 25 anni, si comprende che sono proprio
questi la categoria maggiormente a rischio.
Nel piccolo e interessante volume che stiamo recensendo sono contenuti dodici contributi, presentati e discussi nel corso di un convegno internazionale svoltosi nella
Università Pontificia Salesiana e promosso dall’Associazione di Logoterapia e Analisi
Esistenziale Frankliana (A.L.Æ.F.). Viene pubblicata anche un’intervista inedita di Enzo
Romeo a Frankl, rilasciata nel 1990 e trasmessa nel corso di una trasmissione radiofonica. I testi raccolti ruotano attorno alla diagnosi e alla terapia del problema enunciato all’inizio di queste righe, con il pregio di unire alla riflessione teorica l’attenzione per le conseguenze pratiche.
Nella relazione iniziale Eugenio Fizzotti indica alcuni sintomi del nostro tempo, quali
l’atteggiamento di provvisorietà, il fatalismo, la spersonalizzazione collettivistica e il
fanatismo. Tali segnali d’allarme sono particolarmente evidenti tra i giovani, che vivono
in una società munifica in gratificazioni materiali ma molto avara in tensioni ideali. Il
clima sociale non prepara adeguatamente ad assumere la propria vita come compito, per
la cui esecuzione nelle singole situazioni non si hanno risposte precostituite e certe: bisogna accettare la lotta e la responsabilità personale, senza illudersi di avere garanzie su
tutto. In effetti, se si studia il contesto sociale in tutta la sua complessità, è facile cogliere
alcuni dei motivi profondi di molte devianze giovanili. Come spiega Gaetano De Leo, i
comportamenti trasgressivi dei giovani sono per lo più riconducibili a dei fattori chiaramente legati alla situazione di vuoto esistenziale: si tratta di tentativi inefficaci di colmare vuoti e squilibri di identità, in risposta a situazioni familiari o scolastiche di crisi;
oppure si tratta della conseguenza di ripetuti insuccessi nella socializzazione, che vengono affrontati con un atteggiamento di disimpegno morale.
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Oggi si verificano due fenomeni molto diffusi e correlati: da una parte, quello di una
maturazione precoce, tra le cui cause Elisabeth Lukas indica l’imposizione precoce di
discussioni profonde e complesse, che non permettono più ai bambini di essere tali (cfr.
p. 47). Dall’altra, si verifica un’adolescenza prolungata, perché è avvenuto uno sfasamento nello sviluppo delle tre dimensioni dell’uomo, quella biologica, quella psicologica
e quella spirituale. Accanto a questi due fattori, ne vengono rilevati altri, come l’incapacità di affrontare rinunce o sacrifici e l’alterazione del confronto generazionale; ma proprio perché la diagnosi eseguita è molto puntuale, giunti alla metà circa del libro, si
avverte sempre più la necessità di una proposta di terapia.
A questa esigenza va incontro, tra gli altri, il saggio di Pina Del Core, che propone
una terapia di autotrascendenza per una corretta immagine di sé. L’autrice prende spunto
dalle odierne analisi delle dimensioni del narcisismo e dell’individualismo, cogliendone
le implicazioni e le conseguenze. Proprio queste tendenze la inducono a indicare come
terapia il recupero dell’autotrascendenza, definita da Frankl come «l’essenza dell’esistenza», perché «essere-uomo vuol dire essere sempre rivolto verso qualcosa o qualcuno,
offrirsi e dedicarsi pienamente a un lavoro, a una persona amata, a un amico cui si vuol
bene, a Dio che si vuol servire» (p. 67). Tale principio antropologico trova diverse applicazioni ed è un sicuro punto di riferimento per orientare verso un’adeguata autostima e
un’autentica autorealizzazione.
Mi sembra, però, che taluni segni di tendenze narcisistiche o individualistiche siano
inevitabilmente presenti nei giovani e negli adulti. Pertanto, nella consapevolezza che
non è possibile stabilire una demarcazione netta tra salute e malattia, non bisogna dare
l’impressione che ogni sintomo sia di per sé conseguenza di una patologia. L’autotrascendenza è un principio dinamico in un processo di crescita che non sarà mai definitivamente raggiunto.
Grazie ai suoi fondamenti antropologici, la logoterapia di Frankl è un efficace strumento di prevenzione del disagio esistenziale: come ricorda Angelo Gismondi, essa è
nata, tra l’altro, con quest’obiettivo preventivo nei confronti dei giovani (cfr. p. 90).
Pertanto, è possibile ricorrere ai principi ispiratori del metodo logoterapeutico per realizzare un intervento volto ad evitare o a limitare la comparsa degli stati di devianza o di
malessere psicologico. In tal senso, sono molto significative le testimonianze contenute
nella seconda parte del volume. Esse rispecchiano brevemente l’impegno attivo in diversi settori dei problemi giovanili: riguardo alla tossicodipendenza (P. Gelmini, L. Rubano,
B. Juretic), ai disturbi alimentari psicogeni (G. Froggio), alla condizione carceraria giovanile (P. Auricchio), all’AIDS (I. Punzi), ai compiti evolutivi del preadolescente e dell’adolescente (A. Pacciolla).
Il volume, di cui ribadisco l’incisività e l’interesse, è corredato opportunamente da
un’appendice con la bibliografia italiana sulla logoterapia, ma sarebbero state utili alcune
indicazioni più esplicite sugli autori dei vari saggi.
Francesco RUSSO
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/recensioni
María Antonia LABRADA, Estética, Eunsa, Pamplona 1998, pp. 204.
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“Le cose belle sono difficili” afferma Platone nel Cratilo (384 b), e scrivere su di
esse, potremmo aggiungere, non è mai stato un compito facile. Anzi, si potrebbe dire che
proprio là, dove la natura e l’ingegno umano si sono dimostrati tante volte fecondi, là,
nella bellezza, la filosofia non ha saputo esserlo altrettanto, risultando poche volte convincente nella sua pretesa di svelarne il mistero. María Antonia Labrada, professoressa di
Estetica e di Teoria delle arti all’Università di Navarra (Spagna), scrive questo manuale
sulla bellezza precisando fin dall’inizio la sua intenzione e i suoi limiti. Si tratta di un
manuale, come afferma nella Presentazione, nel senso in cui lo fu l’Oracolo di Baltasar
Gracián, vale a dire non un trattato sistematico con pretese di compiutezza, ma piuttosto
un insieme di riflessioni sulla bellezza da tenere a portata di mano per, eventualmente,
ricorrere ad esse nella propria riflessione su una questione che, come poche altre, resiste
ad essere ricondotta al rigore dell’esposizione teoretica e che, anche come poche altre,
chiama in causa anzitutto la propria esperienza. L’A. è ben consapevole che non è possibile tradurre completamente in termini concettuali quel plus che la bellezza sempre comporta e che può essere colto solo personalmente e vitalmente.
Le riflessioni dell’A. vanno sgranandosi e articolandosi seguendo un ritmo tematico,
passando con facilità, con certa naturalezza, uno dopo l’altro i grandi temi che da sempre, in modo più o meno esplicito, fanno parte della filosofia della bellezza e dell’estetica
dei grandi pensatori, antichi e moderni. Il discorso inizia con la considerazione della percezione del bello, con il suo significato a prima vista evidente e al contempo misterioso,
per continuare a penetrare a poco a poco nei perché dello stupore che la sua percezione
sempre desta. La domanda successiva è sulla ratio propria della bellezza, per passare poi
al significato del gusto, alla differenza tra il bello e il sublime, all’espressione artistica,
all’immaginazione simbolica e, infine, al rapporto tra l’arte e la libertà.
Non è un ordine arbitrario; ognuno degli argomenti va integrandosi nel discorso con
la forza della logica che, intuiamo, ha condotto la riflessione e la ricerca dell’A. Ci sono
dei temi che non possono venire studiati senza prima averne trattato altri; ciò che è affermato sulla bellezza in generale, sulla contemplazione o sul gusto, deve farsi presente nel
momento di dare ragione della bellezza artistica e dell’attività creativa. In questo modo
lo studio acquista l’armonia di un lavoro ben definito, di una riflessione coerente e compiuta, senza però contraddire il carattere volutamente propedeutico con cui l’A. lo ha
concepito.
L’A. si serve del pensiero dei grandi filosofi per costruire, in dialogo con loro, il proprio. Questa è forse una delle caratteristiche più interessanti di questo manuale: la storia
169
recensioni
dell’estetica non viene trattata come una parte preliminare e distaccata dallo studio tematico; la storia dell’estetica si fa essa stessa estetica, filosofia della bellezza, diventando
tutto il manuale al contempo tematico e storico. In ogni argomento vengono sottolineati i
tratti che, a giudizio dell’A., e al di là della sua sistemazione storica, hanno maggiore
influsso sulla formazione dell’estetica: le novità introdotte da un filosofo o da un altro, i
suoi presupposti e le conseguenze che ne derivano, le limitazioni e i pregi. Vale a dire, è
una riflessione che non ha paura di ascoltare, per poi dialogare e confrontarsi con le proposte più rilevanti intorno all’arte e alla bellezza. Appunto per questo, l’A. dimostra di
averle comprese in profondità ed essere in grado, di conseguenza, di accoglierle, svilupparle o criticarle, sempre però attraverso un dialogo serrato e serio. Tutto ciò lascia intendere, ovviamente, che l’A., proprio attraverso questo dialogo, si è formata ed è in grado
di sostenere non soltanto una propria estetica, ma più in generale un pensiero filosofico
entro il quale integrare la sua riflessione sulla bellezza e sull’arte. In qualche modo l’estetica che l’A. presenta, come necessariamente accade ad ogni estetica seria, è emblematica di una visione comprensiva del reale; vi è implicito un pensiero metafisico,
un’antropologia precisa, così come una gnoseologia e un’etica ben determinate. In altri
termini, è un manuale di estetica perché sa dare ragione dell’arte e della bellezza dalla
terra ferma di un pensiero filosofico guadagnato nello sforzo di risolvere i problemi che
la bellezza e l’arte presentano. Pensare la bellezza, fare filosofia dell’arte, è compito conclusivo che richiede previamente, anzi, che costringe a dare risposta a problemi e questioni previe e a prima vista più serie.
Proprio perché si tratta di una riflessione personale, diventa difficile ricondurla all’interno di una corrente di pensiero, qualificarla con un’etichetta di comodo. Affermare che
le sue radici, la tradizione d’appartenenza, è la filosofia realista, potrebbe indurre a equivoci e far pensare al lettore che troverà davanti a sé una riedizione del pensiero estetico
aristotelico-tomista. È vero che Aristotele e Tommaso sono presenti in queste pagine e
forse costituiscono la più rilevante fonte d’ispirazione, ma assieme a loro compare la
migliore e più influente riflessione estetica classica e moderna: Platone, Shaftesbury,
Hutcheson, Kant, Hegel, Schelling, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Gadamer…
Forse il miglior modo di far vedere tutto ciò è quello di far ricorso a un esempio, cioè
all’esposizione che l’A. fa della produzione artistica; esempio, d’altronde, che occupa la
quasi metà del volume, perché nella sua comprensione si fanno presenti le risposte prima
date ad altri problemi e, allo stesso tempo, spinge ad affrontare e risolvere altre questioni
ad essa intimamente legate.
Nella sua riflessione sulla produzione artistica ha un posto di tutto rilievo la Poetica
di Aristotele e le sue nozioni di mimesi, verosimiglianza e catarsi, ma a tutto ciò l’A. sa
incorporare altri elementi procedenti da tradizioni diverse. Chiedersi sul fare artistico
significa rispondere alla questione dell’ispirazione, al problema sulla presenza e sul ruolo
che ognuna delle facoltà umane gioca in essa. E questa è l’occasione per dialogare con
Platone, per esaminare e capire la theia mania dell’artista; ma è pure l’occasione per esaminare e discutere la concezione kantiana del genio, la visione che Schopenhauer e
Nietzsche hanno dello spirito, della sua presenza nella creazione artistica e del compito
dell’arte nella vita umana. Tutto ciò costringe a precisare il modo in cui l’immaginazione, oltre all’intelligenza e alla volontà, si fa presente nell’ispirazione, a chiedersi qual è il
compito dell’immaginazione creativa, la validità dell’interpretazione che, su questo
punto, Heidegger fa di Kant.
Come ho cercato di far vedere, il passaggio da un problema a un altro, dall’ispirazione alla produzione dell’opera d’arte, dalla presenza delle diverse facoltà umane al modo
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di articolarle, sorge con naturalezza; certi problemi implicano altri, certe soluzioni aprono o chiudono il passo ad altre. Dalla techne aristotelica al procedere estetico del concetto in Hegel, dalla presenza del fine contemplato nel processo artistico, alla sua considerazione esclusiva come termine, come prodotto realizzato e, di conseguenza, all’attività
che vi conduce come attività soltanto poietica, tecnica. E, di nuovo, la presunta presenza
dello spirito, della libertà, in ogni opera d’arte, porta a interrogarsi sulla sua dimensione
espressiva, simbolica, e anche sul suo significato etico.
Facendo ricorso a un’immagine che all’A. piace citare, quella del Danubio celebrato
da Magris, si potrebbe dire che le pagine di questo breve manuale sanno accogliere e
dare unità ai migliori contributi della tradizione filosofica occidentale sull’estetica.
Accoglie, ripensa, fa discorrere il materiale elaborato durante secoli senza pretendere
però di avere esaurito la sua fecondità né di avere svelato definitivamente il mistero della
bellezza. Come il Danubio, più di esso, la bellezza ammette tantissime prospettive;
importante è che quella scelta, come in questo caso, senza pretendere di essere l’unica
possibile, rallegri il nostro sguardo e ci inviti a continuare a guardare, convinti che in tale
guardare ne va dell’orientamento della nostra vita.
Ignacio YARZA
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/recensioni
José Ignacio MURILLO, Operación, hábito y reflexión, Eunsa, Pamplona
1998, pp. XII + 231.
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Siguiendo las sugerencias fundamentales de la filosofía de Leonardo Polo, esta obra
permite confrontarlas —quizá de un modo más riguroso— con sus fuentes tomistas —el
Comentario a las Sentencias, las Q.D. De Veritate, la Summa Theologiae, y la Expositio
de Trinitate—; y, paralelamente, consigue un objetivo importante del pensamiento poliano, a saber, partir de las verdades ya alcanzadas en la historia de la filosofía y desarrollar
sus virtualidades.
Más que una descripción de cada uno de los capítulos de la obra, parece de mayor
interés ofrecer al potencial lector algunas pinceladas sobre las tres nociones que se anuncian en el título, —operación, hábito y reflexión—, y que —como el autor mismo propone en el subtítulo—, conducirán a lo específicamente humano, a lo que Polo denomina
actus essendi hominis.
Murillo define la abstracción como el inicio de la vida intelectual humana, su primera
y natural operación, por la que el fantasma y objeto de la sensibilidad pierde su condición material y su dependencia orgánica, para ascender al nivel de lo inmaterial e inorgánico (p. 61). Lo conocido se convierte así en un objeto intencional y universal (pp. 73 y
87), que surge al separar la forma de la materia. Frente al nominalismo, el autor defiende
que nuestro entendimiento no alcanza el singular directamente —admite otro modo: el
conocimiento práctico—; pero esto, lejos de ser un defecto, es una prerrogativa (p. 75):
el singular es una designación mental de lo que en la realidad está constituido por la
causa formal y la causa material; e —insiste— lo propiamente conocido mediante la operación natural o abstracción es una forma y una forma abstraída (p. 77).
Ahora bien, ¿cómo se conoce de un modo adecuado lo real, que es —si cabe hablar
así— exterior a la mente? Un conocimiento de esta índole ha de estudiarse con especial
atención. Murillo realiza un análisis muy interesante y agudo sobre la necesaria distinción entre el orden lógico y el real; distinción que se fundamenta, a su vez, en su comparación (p. 86 y ss). Cuando afirmo “Sócrates es hombre” estoy aplicando una forma universal en cuanto naturaleza —hombre—, a un singular, tal como existe fuera de la mente:
Sócrates. Ahora bien, para conocer intelectualmente el singular, la abstracción es insuficiente, porque debo alcanzar la forma no en su razón de universal sino en cuanto principio de la materia que informa. Por tanto, lo que interesa dilucidar es cómo se conoce la
materia.
La clave de todo el realismo se encuentra para Murillo ahí, a saber, en la no confusión del orden lógico y del real, que consiste en evitar identificar la relación universal172
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singular, con la composición real de materia y forma. Siguiendo siempre tesis tomistas,
Murillo atribuye esta capacidad de distinguir sin confundir —es decir, de comparar— al
juicio: «sólo si conocemos la composición de la forma con la materia, podemos pensar y,
en consecuencia, predicar la composición del universal con el singular» (p. 88). En efecto, el conocimiento de lo material acaece mediante cierta comparación con el fantasma,
principio de determinación (p. 88), por la que es posible denominar al juicio operación
comparativa, tal y como Santo Tomás lo define en la Expositio al De Trinitate. Gracias a
este acto intelectual y en concreto a la reflexión que lo caracteriza (p. 94), el entendimiento se hace cargo de lo exterior y reconoce la materia y la forma como causas reales
(p. 89). En el juicio se refieren varias captaciones intelectuales a un principio real de unidad: no afirmamos que la humanidad sea la blancura, sino que el hombre es blanco (p.
97). Se da un cumplido incremento del conocimiento, porque hay una ganancia en intensidad —la realidad extramental conocida— y en ideas abstractas (pp. 75-77).
La concepción del juicio propuesta en esta obra se separa, pues, de su definición
moderna y se une a los logros alcanzados, por ejemplo, en la filosofía analítica. No estamos frente a una idea compleja, ni a una composición o unión de notas (p. 95): «el juicio
es afirmación en sentido fuerte: es conocimiento afirmativo de lo real. La afirmación es
lo cognoscitivo del juicio —juicio como acto— y la composición se da en la afirmación»
(p. 100). En cuanto operación intelectual, al igual que la abstracción, el juicio exige un
verbo —el verbum complexum: la proposición o dimensión lógica—; en cuanto operación comparativa —a diferencia de la abstracción— refiere lo mental a lo real, mediante
la fuerza asertiva (p. 99).
Todo este tema se abre hacia una cuestión importante (pp. 100-101): ¿qué tipo de ser
se conoce en el juicio?, ¿se puede aceptar la tesis gilsoniana de que en el juicio existencial se afirma el actus essendi, que es la clave temática de la filosofía tomista? Esto,
según Murillo, parece dudoso. El “es” en el juicio no se debe tomar como signo de un
conocimiento del ser en cuanto acto primero (p. 101), porque —según hemos visto— aún
no hemos abandonado el ámbito de la causa material y de la formal, sino que permanecemos todavía en el orden predicamental. Es preciso ir más allá de la actividad judicativa y
buscar otro tipo de conocimiento —distinto a la operación—, que permita acceder precisamente al acto de ser como coprincipio real junto con la esencia. De esta forma quedamos introducidos en el rico terreno gnoseológico de la reflexión y el hábito.
La reflexión viene definida como el acto que da razón de la pluralidad de las operaciones y del progreso de la actividad intelectual humana, sin desligarse de su inicio natural (p. 129). Mientras, en el nivel de la sensibilidad, la reditio o reflexión sólo puede ser
incompleta y exige una instancia distinta para llevarla a cabo, en las operaciones intelectuales, se da un ejercicio absoluto de la reditio (p. 144).
Ahora bien, ¿en qué términos se realiza? En este punto, aparecen de modo explícito
las divergencias con la filosofía tomista, que entiende el conocimiento intelectual como
reflexivo de suyo. Concretamente, el tratamiento de Murillo comparte plenamente la
tesis de Polo sobre la reflexión: ésta no se define en términos de acto auto-reflexivo, ni
auto-objetivo; es, sí, un acto, pero distinto y a modo de vuelta o retracción sobre el acto
radical, sin que esto implique un proceso (pp. 153-156).
Esta retracción sobre sí del entendimiento «indica que la operación primera no se
queda en objetivar sino que perfecciona a la potencia como potencia» (p. 148), lo cual es
lo específico del hábito intelectual, que se alcanza con un solo acto. Murillo también lo
denomina reditio constitutiva del entendimiento, que no hay que confundir con otros
tipos de reflexión, como la que se da cuando se trata de hacerse cargo de un acto intelec-
173
recensioni
tual sub ratione actus (p. 156). En efecto, el hábito, a diferencia del juicio y de la simple
aprehensión, nunca produce un verbo —no es intencional—, porque el verbo sigue y
limita necesariamente al conocimiento actual operativo (p. 160). En este sentido, el hábito es “menos operativo” que la abstracción y el juicio; y, en cambio, más comparativo.
Además, en el orden ontológico perfecciona más a la potencia o facultad que la operación, permitiéndole ejercer una operación superior a las anteriores (p. 163).
Lógicamente, un planteamiento así de la reflexión y del hábito se aparta no sólo de
Santo Tomás (p. 153), sino también de otras posturas contemporáneas —muchas de ellas,
continuadoras del pensamiento tomista—, que postulan la dimensión reflexiva de la operación judicativa (p. 156 ss.). El autor no las desconoce, sino que se enfrenta y propone
su propio análisis, que viene a coincidir con un tema estrictamente poliano —el axioma
de la conmensuración—, que reza así: no hay nada conocido al margen del acto: éste se
encuentra estrictamente conmensurado con el objeto. La tesis a defender es, por tanto, la
siguiente: la reflexión o cierta reflexión es distinta del acto que conoce (p. 159), y para
que comparezca, es preciso recurrir a una instancia intelectual, también distinta, que es el
hábito.
La interpretación que propone Murillo del hábito tiene como primer paso situarlo por
encima del orden categorial (pp. 163-164). El hábito, pues, no se define en términos de
operación, y por esto, es posible situarlo en un ámbito distinto. Lo que se trata de ver
ahora es si, a través de algún hábito, podemos acceder al primer principio —el acto de
ser—, aunque esto no signifique hacernos completamente cargo de él. La operación no lo
puede conseguir porque no es un acto trascendental, sino derivado, predicamental: el
mismo carácter de operación es la causa de esta limitación (p. 169).
Después de estudiar el hábito de las ciencias, Murillo aborda el de los primeros principios, y lo define como la última instancia cognoscitiva, que capta el fundamento de
todo lo real (p. 168). Por este hábito, nuestro entendimiento agente alcanza una potencialidad superior ya que está vertido hacia el conocimiento del actus essendi (p. 171). Santo
Tomás —explica Murillo— corroboraría esta afirmación, ya que es suya la tesis de que
el objeto natural del entendimiento es la esencia (y no el ser) (p. 169). Y aunque también
es suyo que el juicio respicit in ipsum esse, esto no significa que conozca el ser en su
carácter distinto de la esencia, o lo que es lo mismo, en su dimensión trascendental (p.
168). Y no puede ser una tesis tomista porque nos encontraríamos ante un acto predicamental y limitado —el juicio— que pretende conformarse con el actus essendi. De ahí
que, para llegar al ser —que en este caso, es además, el ser del hombre— haya que
emprender otro camino, el del hábito de los primeros principios (pp. 168 y ss).
Hasta aquí, un avance del tratamiento de las nociones de operación, hábito y reflexión. Paralelamente, van surgiendo a lo largo de la obra interesantes sugerencias sobre
otros temas gnoseológicos de envergadura como el conocimiento sensitivo (pp. 15 ss.), la
libertad en el entendimiento (pp. 59 ss.), los sentidos de la especie (pp. 141 ss.), el papel
del intelecto agente (pp. 133 ss.), el conocimiento del yo —al que Murillo dedica todo el
último capítulo—, etc., que contienen aportaciones de especial relevancia para el lector.
Hay cuestiones que ciertamente exigen una previa familiaridad con la filosofía poliana,
pero —al mismo tiempo— las referencias a los textos de Santo Tomás permiten, precisamente, hacerlas más explícitas, y no sólo iluminan el fructífero pensamiento de Leonardo
Polo, sino que además contribuyen a entroncarlo en la más pura tradición aristotélicotomista.
María Pía CHIRINOS
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/recensioni
Mª Cristina REYES LEIVA, El ser en la metafísica de Carlos Cardona,
Cuadernos de Anuario Filosófico — Serie de Filosofía Española, n. 4,
Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1997,
pp. 112.
■
La radical referencia a la metafísica como uno de los elementos distintivos de la filosofía contemporánea —ya sea afirmándola o negándola— es el comienzo de esta obra de
Mª Cristina Reyes. Señala a Carlos Cardona como uno de los grandes filósofos de nuestro tiempo, al que define como «un valioso representante de la vía metafísica» (p. 5) o,
más adelante, como «un pensador eminentemente metafísico» (p. 109).
El mismo Cardona había sintetizado en tres ideas su pensamiento: el momento moral
del conocimiento metafísico, el momento intelectual de la configuración ética y la
memoria del ser. Este estudio subraya la centralidad de la tercera idea en su metafísica,
«término resolutivo de su reflexión filosófica» (p. 5). Ya en la introducción, el lector
encuentra aquí la clave para la interpretación de este filósofo.
Tras presentar la biografía de Carlos Cardona en su contexto (pp. 11-26), la autora
describe los avatares sufridos por la noción de ser en la modernidad (pp. 27-70) y termina deteniéndose en la comprensión del ser en la filosofía del autor que es objeto de este
estudio (pp. 71-108).
Cardona aprende de los que ya siguieron la andadura del ser. Su principal maestro es
Tomás de Aquino, a quien debe el núcleo de toda su filosofía: el actus essendi. El filósofo catalán da un paso más al partir de la centralidad del ser personal. Del Aquinate adopta
el concepto de filosofía como búsqueda de la verdad que se ordena al bien de la persona.
Aprende de él el modo de filosofar, es decir, a dialogar abiertamente con otros pensadores y a hacer una filosofía en la que el intelecto humano trabaja armónicamente con la fe
(pp. 17-21). Se deja guiar también por la inspiración realista de Gilson y Fabro, principalmente. Hace suya la distinción de Gilson de la existencia de dos posibles actitudes
intelectuales —actitudes, no sistemas de pensamiento—: realismo versus inmanentismo.
Cardona añadirá «la opción intelectual como acto de libertad, en el inicio del filosofar
humano» (p. 23). Con Fabro postula un tomismo esencial o un retorno al fundamento
(actus essendi) e incorpora la noción de libertad como creatividad participada (pp. 2324).
Recibe además la influencia de otros pensadores, especialmente de Kierkegaard, de
quien toma la primacía del individuo singular, el concepto de libertad esencial y el amor
como acto de libertad, al que se opone la indiferencia (pp. 24-26). La profundización en
la filosofía de Heidegger le permite integrar algunos elementos, ya que ambos coinciden
175
recensioni
en el punto de partida, pero Cardona se distancia de él al advertir la falsificación del ser
(pp. 34-48). Destaca, por último, el influjo de las enseñanzas y la vida del Beato
Josemaría Escrivá de Balaguer, con el que Carlos Cardona trabajó y convivió estrechamente durante sus años romanos. De este maestro de vida cristiana aprende lo que es el
valor liberalizante de la entrega de la libertad y la coherencia entre vida cristiana y planteamiento intelectual (pp. 11 y 88).
En su trayectoria intelectual, Cardona detectó la esquizofrenia del hombre actual que
ha perdido el sentido de su vida: un hombre que ha cambiado la noción de ser por la de
autoconciencia o la de existencia, la verdad por la certeza, la libertad por la voluntad de
poder. El ser-en-sí se ha sustituido progresivamente por el ser-para-mí, de tal manera que
la absolutización del yo ha suplantado al ser en el universo. Se juzga sobre lo que debe
ser la realidad, y no lo que el hombre conoce de ella. Haciéndose violencia a sí mismo,
de sujeto del ser ha pasado a ser pensador del ser. Ya no es el ser de los entes el criterio
de verdad. Todo este cambio radical es fruto de un largo proceso que arranca formalmente de Descartes que, con su duda metódica, quiso crear una verdad desligada del ser. Su
afán de certeza le llevó a una deformación de lo real (pp. 48-54). Al final de esta trayectoria del olvido del ser encontramos a Nietzsche, culmen de la filosofía cartesiana. Con
él surge la voluntad metafísica —voluntad de poder— de ser por y para sí mismo. En
esta nueva composición pensada de lo real, se observa una «radicalización del devenir y
del representar sobre el ser». Lo corpóreo prima sobre lo espiritual. La libertad misma
cambia su propia esencia. El bien se sustituye por el valor, que es pensado como ser (pp.
54-58). Heidegger, aunque descubre que el error de base está en el olvido del ser, acaba
cayendo en la visión inmanentista que él mismo critica, haciendo una metafísica de la
subjetividad, esto es, sin fundamento consistente (pp. 58-61).
Reyes se adentra en el pensamiento de Cardona y se cuestiona con él el porqué de la
centralidad del ser: «¿cuál es la importancia de la pregunta por el ser del ente?; más aún,
¿por qué es crucial una correcta formulación de este interrogante?» (p. 71). Para responder, caminará cuidadosamente tras los pasos que sigue Cardona en su razonamiento. En
primer lugar, establece la distinción entre ente y ser, tomando como punto de partida el
ente, que es lo primero conocido y captado como complejo. La misma composición revela la actualidad del ser y su limitación, que remite a su vez a un Ser por Esencia, Dador
del ser a los entes (pp. 71-75).
Profundiza en esta noción del ser y descubre su intensidad, esto es, el esse como acto
intensivo del ente, como «perfección absoluta y omnicomprehensiva, del que todas las
perfecciones —naturales y sobrenaturales— y, por tanto, todos los entes o criaturas no
son más que participaciones» (pp. 75-79).
Así llega al punto de destino: ha logrado el encuentro con el ser. Ahora bien, en los
seres espirituales el esse supone una “novedad” en el universo. El distintivo de la personalidad es precisamente la propiedad privada del acto de ser, como señala Carlos
Cardona. Esto supone una «singular relación con quien le otorga el ser: Dios». Cada persona es alguien delante de Dios y para siempre (pp. 81-82). Aquí confluyen la metafísica
y la ética: asumir la condición ontológica es la raíz de la vida moral. La novedad del ser
fundamenta la novedad del actuar (ser persona es ser libre). Define la libertad como
característica trascendental del ser del hombre, que confiere humanidad a sus actos (p.
84). Es la autodeterminación hacia el Origen (p. 88); y, puesto que somos creados por
Amor y estamos llamados al Amor, el sentido último de la libertad será el Amor. A nivel
predicamental, distingue dos amores: un amor natural, que brota del ser, y un amor electivo, propio del ser libre. El primero, lleva a la persona a amar a Dios en cuanto principio
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de todo su ser. Es la actitud primaria o la tendencia necesaria a la propia felicidad.
Implica el amor a uno mismo; pero la propia finitud del hombre revela la imposibilidad
de ser fin último de sí. De hecho, porque es criatura, es un ser indigente, que realmente
necesita ser amado. La dilección, en cambio, resulta de la excedencia del ser personal. Es
el amor de benevolencia o de amistad, el amor de donación de quien busca el bien del
otro (p. 94).
Por último, la participación en el ser remite al Creador, Acto Puro y Amor
Subsistente, fin último de la persona creada. La nostalgia ontológica del Ser no impide
que la memoria metafísica sea una cuestión de libertad (pp. 102-104): ante Dios, la actitud debida de la criatura personal es el amor de amistad, raíz de la moralidad, del que
derivan el amor electivo a los demás y a uno mismo, según el querer de Dios. En definitiva, el olvido del ser en la metafísica de Carlos Cardona es el olvido del ser creado por
Amor y para el Amor. La memoria es el retorno al Amor Subsistente (pp. 104-108).
Finalmente, la autora esboza los rasgos generales del pensar de Cardona en el epílogo
(pp. 110-112), haciendo una aguda síntesis. Concluye con una exhaustiva bibliografía, en
la que recoge tanto las publicaciones de este metafísico, como todas las obras escritas
sobre él y aquellas que pueden servir de complemento para su mejor comprensión.
Mª Cristina Reyes ha desarrollado una profunda labor de investigación sobre la totalidad de la producción escrita de Carlos Cardona, como bien se pone de manifiesto. La
conoce a fondo y conecta con su planteamiento, sabiendo hacerlo asequible y atractivo al
lector. Prueba de ello es la metáfora, gráfica y pedagógica, del itinerario intelectual. No
pretende ser sólo un homenaje merecido a Cardona. Más bien, quiere divulgar —sin desvirtuar— las aportaciones de este filósofo, sacándole el máximo provecho. Remarca la
centralidad del ser personal en el pensamiento de Carlos Cardona, e insiste en sus implicaciones: el reconocimiento (la memoria) del ser es una actitud vital, la más coherente
con la realidad de la persona. Es una cuestión ética ante la verdad, que implica una
opción intelectual acorde y un actuar consecuente.
María DÍAZ DEL REY
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/recensioni
Rudi A. TE VELDE, Participation and Substantiality in Thomas Aquinas,
edited by J.A. AERTSEN, Studien und Texte zur Geistesgeschichte des
Mittelalters 46, E.J. Brill, Leiden-New York-Köln 1995, pp. XIV + 290.
■
This splendid book is about St Thomas’s metaphysical account of creation. The title
refers to its dominant theme, which is how the account succeeds in resolving apparent
tensions between the notions of participation and substantiality as elements of fundamental ontology. A fascinating theme in itself, Dr. te Velde has also found the heuristic
value of it. For all the progress that has been made over this century in recovering
Thomas’s metaphysics, his inquiry brings to light serious problems for prevalent interpretations of the doctrines of participation in being, creative causality, and the relation
between being and essence. With a clarity of exposition that is simply extraordinary, in
my judgment it also goes far toward resolving the issues.
What is meant by ‘tensions’ between participation and substantiality is nothing
obscure. The terms themselves evoke the tensions between Platonism and Aristotelianism,
and it is not hard to see how the Christian doctrine of creation adds further twists. Te
Velde goes straight to the issues. For instance, the idea that creatures are ‘beings by participation’ seems to fit well with their status as totally dependent upon God. Can Thomas be
consistent in also regarding the creature as a substantial being, something enjoying
“ontological density”, endowed with essence, existing in and through itself? On the other
hand, the thesis that creatures merely participate in being implies an absolute substantial
diversity, and so an extremely imperfect likeness, between them and God: the essence of
created substance is not its being. Does this imply a somewhat negative factor in the
“exceedingly good” work of creation? Again, how can one apply the notion of participation without blurring the distinction between the divine and the created, or attributing to
the creature a component that, albeit finite, is one in substance with the infinite whole
from which it emanates — literally a part of God? And so on.
We are reminded of the problem of Boethius’s De hebdomadibus. How can substances be good insofar as they are, without being substantial goods? If they are only
good by participation, it seems, then they will not be good insofar as they are. Te Velde’s
reading of Thomas begins by looking at how he treats the problem in his commentary on
De hebdomadibus, where he analyzes the notion of participation at length, and also in De
veritate q.21, with which the commentary is conjectured to be contemporaneous. These
would be two fairly early works.
Boethius’s own answer was that the goodness that a substance has, insofar as it is, is
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neither the substance itself nor something participated, but a relation, that of conformity
to the will of the First Good. In the De veritate Thomas explicitly departs from this
answer and holds fast to goodness by participation. He does so by appeal to a notion he
finds in De hebdomadibus itself, the very notion of participation in substantial being
(esse). Created substances are not their being, but they have it insofar as they are, and it
makes them good.
Already quite conscious of the Platonic background, Thomas is of course careful to
steer the doctrine clear of Aristotle’s criticisms of the Ideas and of ‘participation’ as a
sufficient explanatory term. The resolution to a first and immaterial source does not
apply to the species or genera of corporeal beings, but only to the so-called transcendentals; the participation cannot be univocal; and efficient causality must play a role. Te
Velde brings out well the extent to which Thomas’s procedure depends on Aristotle’s
own reduction from the categories of sensible being to immaterial or separate substance
by way of the primacy of substance as form. He also draws an interesting connection
between metaphysical separatio and Thomas’s notion of the self-denomination of
transcendental predicates. This means that they can be applied, by analogy, to their own
abstract forms: goodness is good, truth is true, etc. One only wishes that this discussion
had been capped with a closer look at analogy.
If the early works show Thomas heedful of Aristotle’s quarrels with participation in
general, it is only in later works, te Velde judges, that he displays a full appreciation of the
difficulties for the special notion of participation in being that arise from the Aristotelian
doctrine of the absolute universality of being and of its immediacy to every nature. Te
Velde finds in these difficulties a strong motive for Thomas’s well-known, ever more decisive rejection of the ‘Avicennian’ way of conceiving being as an accident of created
essence. In this regard he duly stresses the importance, and the difficulty, of not confusing
the composition of form and being with that of subject and accident or matter and form. A
form is neither a substance in act prior to its being nor, like matter, a merely indeterminate
potency whose determinate act is therefore separable from and in a way accidental to it.
The distinction between a form and its being must not be interpreted to the detriment of
the fact that each is referred to the other per se. The distinction is in their relation to one
another, and the differences among forms are not independent of their relation to their
being, but are differences in how being is apportioned through them.
Part Two examines participation and the causality of creation. The general concern
seems to be how the composition of essence and participated being in the creature
squares with the notion of creation as a production having no presupposed subject. Te
Velde disputes Geiger’s postulation of a double participation, viz. essence as a self-limited formal participation of the divine essence by similitude, and being as a real or actual
participation limited by the essence. A double participation is implausible in itself, and
granting an independent participation to essence risks presenting being as a mere mode
of it. Thus Fabro criticizes Geiger for weakening the real distinction between essence and
being as potency and act. But te Velde finds Fabro still making the essence a too absolute
‘other’, first limited ‘in itself’ and then conferring its limitation on its being, which ‘in
itself’ would be unlimited.
Fabro is in fact led to posit a distinct creation of essence and being. Yet what Thomas
says is that to create essence is nothing other than to attribute being to it. It is as though
for Fabro limitation by a quiddity were something alien to being, in any instance — as
though, for a horse, to be in act were anything other than to be a horse in act. He even
speaks of creation as an “ontological fall”, meaning the «total dissimilitude, the ontologi-
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recensioni
cal difference of opposition between effect and cause» (my emphasis). Is a creature like
God, and so good, despite its nature, not because of it? Te Velde interprets participation
as a more organic and positive connection between the creature’s composite structure and
its precise status as an effect, which as such is conformed with and inferior to the cause.
Essence and being function together in establishing both the likeness of creature to
Creator and the inequality of the likeness. «Any distinction on the part of the creature
insofar is it is created must be understood, not by reducing the distinct elements in the
effect to a distinction in the cause…, but formally as the way the effect represents the
cause as distinguished from itself» (p. 116). Further on, in an exceptionally lucid way, he
articulates a similarly organic relation between God’s agency and created agency in the
causation of natural effects and even of esse itself.
The last chapter in Part Two examines what esse commune means and how being, as
being, is differentiated. This discussion has the welcome result of countering the impression, often left by the ‘existential’ Thomists in their striving against rationalism, of a sort
of gap between the intelligible and the real (the “inconceivability” of being). Concerning
esse commune, te Velde takes his stand against the view that it reaches all the way to the
first cause of being. This would make it a mere logical notion, the truth of propositions
(which extends even to non-being). It is the common actuality of all things in rerum
natura; and, precisely as common — belonging to a multitude in an intelligible co-ordination — it falls short of the very cause of the order. As said of the cause, being must
mean something proper to it. At the same time, being as actuality is something formal, or
what we might call the term at which a thing is first brought to stand in a certain order.
And in each thing being is what is simplest and most formal, the thing’s engagement in
the most universal, all-encompassing of orders. Hence it is what first ranges a thing
under the scope of that most universal of all powers, intellect.
So esse is that by which things are first intelligible; but what the intellect first grasps
is ens. This Thomas will often interpret as what has essence, and primarily as a subject
subsisting in its essence. Esse itself has no meaning except as referred to a subject and as
related to a constitutive act of the subject, a form, as its actuality. (Te Velde even suggests reading ‘actualitas omnium actuum’ to mean the very act-ness, so to speak, of
every act and form.) In sensible ens, which is what we know first, these are really distinct
components; the ens is their result. Hence ‘ens’ has a concrete or composite mode of signifying. Yet what is signified by ‘ens’ is something whole, and in that sense something
primary, not a result. The only explanation for this situation is that sensible ens is not primary ens. Thus it is ‘ens’ itself that urges the mind through the step-by-step resolution to
the one utterly simple, wholly self-explanatory being. Te Velde notes Thomas’s care to
save the full meaning of ens in God: not only being in act, but also subsistence and
essence. Thinking again of existential Thomism, here he might also have dwelt on
Thomas’s conception of God as essentially form (Summa theologiae I q.3 a.2).
But te Velde has his own way of presenting Thomas’s notion of form as “something
divine” in things. Form is the main target of the final Part, “Degrees of Participation and
the Question of Substantial Unity”. From the earlier chapters it is clear that «as related to
the act of being the nature is related, not to something else, but to its own actuality, and
likewise being, as related to the nature in which it is received, is related to something of
itself, its own determination» (p. 200). Now he spells out the per se connection between
form and being. It means a causal role of form with respect to being. And it is not just an
indirect and occasional role, that of limiting being in some cases. It is tied to what being
itself is. Being needs form.
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It is especially here that the interpretations of Fabro and Gilson are seen to limp.
They restrict the effect of form to esse formale or “formal actuality”, as opposed to actus
essendi or “existential” act. Gilson speaks as though a formal cause and an efficient
cause cannot have one and the same effect. Fabro, while granting form the name of ‘act’
insofar as it completes an essence, all but withdraws it again by reading it as a “positivity
of nothingness”. The only unqualified act is the act of being. Form’s job is to give it a
recipient that limits and so negates it.
The texts just do not bear them out. Thomas could hardly be clearer about holding
that form gives esse in actu, esse actuale, esse et speciem. He even says that although by
creation God causes esse without the mediation of any other agent, still it is always “by
means of some formal cause”. True, as a result of mediation, esse takes on a limited
mode; but limiting esse is not the chief role of the form. Its role is to fix the positive
proportion to God according to which the creature participates esse from Him. «Hence
form is not in one respect potency and in another respect act» (p. 226). The expression
‘form is act’ does indeed mean that it completes an essence; but what this means is precisely that being follows immediately. Form is not only the determination of a thing’s
being but also the thing’s determination to its being. It is only if a form is a mere principle of, hence distinct from, its being — its being only follows immediately — that it is
not pure or self-sufficient act, but only a perfect vehicle for appropriating the influence
of a nobler act (a nobler form), relative to which it is a finite and receptive potency.
I now come to my one reservation about te Velde’s presentation. It is rather marginal,
and I hope I am not forcing the issue. It concerns something that he himself seems somewhat uncomfortable about: the occasional adoption of a ‘Hegelian’ way of speaking.
Take this passage. «As [a being other than God] must be distinct from the first being, the
only way for it to be a determinate being is by negating in itself the identity [of essence
and esse] which defines the first being» (p. 154; my emphasis). Now, if we took this
strictly, what would it mean? Would it not mean that the distinction of the thing’s essence
from its esse is the thing’s own effect? The distinction would be traced back to something in its essence, as though the essence excluded its esse from itself. But a thing’s
essence is signified by its definition; and if ‘esse’ is not included in anything’s definition,
neither does the definition assert its exclusion. The essence is simply a potency for esse.
A thing does not fall short of God by positively removing itself from God.
I very much doubt that te Velde means the above formulation to be taken strictly. But
my question is, is the language of negativity really necessary here, or even merely neutral? It favors interpreting being in terms of movement and rest, especially the movement
and rest of human thought. Is that really suited to Thomas’s meta-physics? And its spell
is powerful.
In Chapter X.5, on the meaning of creation ‘ex nihilo’, te Velde lays a curious stress
on the possibility of thinking of creation as a “dynamism”, a “transition” from non-being
to being. He notes that Thomas assigns two senses to ‘ex nihilo’: not just the negative
‘non ex aliquo’, but also the affirmative, temporal ‘post nihil’. Of course Thomas denies
that creation is a movement in the strict sense, and te Velde is very clear about that. But
he is somehow drawn to give ‘ex nihilo’ an affirmative sense that would evidently apply
even if God had made things without a temporal beginning (as Thomas says He could
have). «By His infinite power God determines, one might say, each thing from pure nonbeing to a determinate and finite being…. That a being is created out of nothing means
that the determinateness of its being (=essence) is the result of a determinate negation
with respect to God’s infinite and simple being itself» (p. 159).
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To me this is more confusing than clarifying. To be sure, it is much more nuanced
than Fabro’s extravagant notion that ‘nulla’ is something real, functioning after creation
to secure the distinction between creatures and God. But still, does not the expression
“the result of a determinate negation” treat the distinction as depending on a kind of
removal? God is pure esse, and if pure non-esse is not real, are we not still being coaxed
into envisioning it as, so to speak, the limit of a function, His ‘ideal’ contrary? The partial (“determinate”) approach to it would be what yields the creature’s distinction from
Him. But can pure esse even be conceived to have a contrary? Would that not be to put it
in a genus, at least a logical one (S.Th. I q.3 a.5)? Is it not a sort of very abstract materialism to think of pure non-being as a contrary?
Te Velde clearly wants not to posit any sort of contrary of God. A creature is not «different from God by a positive difference»; analogy means «the aspect of difference cannot be isolated from the sameness of being» (p. 281). But then should we even see the
difference as the effect of a negation, giving negation itself the positive status of a cause?
Once more: «He determines His effect to a finite being according to the decision of his
will and the conception of his wisdom» (p. 159). Certainly He decides wisely among His
possible effects; but must He determine the effect to finitude, go out of His way to apply
a negation to it? To be His effect entails finitude. (Compare te Velde’s citation, De potentia q.1 a.2 ad 13, with S.Th. I q.25 a.2 ad 2.)
So I would ask: is not the very relation of cause and effect between God and creature
enough to establish the opposition, the real distinction, and the inequality between them?
They are relative opposites. No absolute opposition, no original removal, is needed (see
De potentia q.7 a.8 ad 4). To put it another way: for God to know a creature properly,
must He contrast it with Himself? Could He not simply grasp it in its positive analogy,
i.e. proportion to Himself?
Now, Thomas says that the proportion of creature to God is one of effect to cause,
and of potency to act (S.Th. I q.12 a.1 ad 4). Recall again te Velde’s superb prescription.
«Any distinction on the part of the creature insofar is it is created must be understood,
not by reducing the distinct elements in the effect to a distinction in the cause…, but formally as the way the effect represents the cause as distinguished from itself». He is concerned about how Thomas understands the “identity of the difference” between essence
and being in creatures (p. 88). Could not the language of negativity be set aside, and the
logic of analogy be brought forth instead, especially as applied to the relation of potency
and act? When this is properly understood, there is no more question of ‘what makes the
difference’. A potency is not distinct from its act by virtue of a differentia, or any note of
contrariety or removal. The distinction is in the very proportion of one to the other. That
is why their union is immediate (see Metaphysics VIII.6, 1045b17-19). (As an aside, I
would also suggest that a closer study of potency and act, in their application to essence
and being, could help to further the work of distinguishing this composition from that of
matter and form and bringing out the special ‘positivity’ of form. For potency and act are
not generic terms that apply equally to the two pairs or that express the very same proportion between them. It would be a study of Thomas’s teaching that ‘potency’ is equivocal as said now of matter with respect to form, now of form with respect to being.)
My last quibble along these lines concerns more than the language, and it is the only
one I pose as a real objection. The final chapter studies how, building on pseudoDionysius, Thomas works to reduce all perfections in things to a single divine principle,
rejecting the Neoplatonic tenet that only being, the most common perfection, derives
from the highest god, while lower divinities must account for the more special or proper
182
recensioni
perfections. Here too there is much to praise. Te Velde shows how the key move is to
interpret all other perfections as forms of being, to understand being as what constitutes
all perfections as perfections. He sharpens the point by asking how the basic grades
beyond common ens, namely life and intelligence, can be understood in terms of degrees
of being, as pertaining to what being itself is. The answer turns on the fact that the being
of each thing is what is most its own, the ‘interiority’ giving it stability in its own identity. A being is something that is ‘in itself’. Life and intelligence are precisely higher and
higher ways of existing ‘in’ oneself, ways of remaining at home with oneself even in
one’s engagement with others. Finally te Velde considers how these are to be understood
to belong to God in His utter simplicity of being. God has interiority to the very highest
degree, so much so that His life is entirely that of the perfect immanence of intelligence,
and His intelligence is in perfect act about all things through itself alone, self-sufficiently, just in being itself.
But then te Velde goes on to ask: does calling God pure esse, or “infinite sea of
being”, adequately convey His perfection of life and intelligence? Te Velde says no. His
reason is that these involve a perfect relation not only to Himself but also to all other
things. God’s universal perfection «must include somehow a principle of articulation or
of differentiation, as God in knowing himself knows all things with a proper knowledge,
according to how they are distinguished from each other» (p. 273). And so he feels he
must call attention to how Thomas presents the inner procession of God the Son in terms
of the operations of life and intelligence. Te Velde’s thought is that only this procession
can account for God’s having His full perfection of intelligence. It would be in virtue of
generating a distinct Word that God knows things properly. «One may say that the indistinct and simple power of the divine essence becomes articulated by God’s inner word
according to the many diverse things that are indifferently contained in this (creative)
power. In this sense, the inner distinction in God is the necessary condition for possessing distinct and proper knowledge of the things that proceed from God» (p. 278).
I think there is some confusion here as to how Thomas understands the role of the
mental ‘word’ in the intellect’s operation. By a word, the intellect represents something it
knows and uses its knowledge; but the word is not that by which the intellect first knows
the thing that the word represents. In any case, te Velde is not very explicit about how the
‘distinction’ of the Word is supposed to help explain God’s proper knowledge of things.
He seems almost to think that while God’s essence provides the exemplar of things insofar as they are like Him, it does not suffice, qua essence, as a basis for knowing ‘otherness’ and applying it to them; there must be, as it were, an uncreated, exemplary distinction in Him. But does this fit with te Velde’s own principle that distinctions in the creature are not explained by simply being traced back to distinctions in the creator?
Thomas sees no need at all to appeal to the procession of the Word in explaining
God’s proper knowledge of things (see S.Th. I q.14 a.6). He clearly does not think that
the things in the power of God’s essence are contained by it “indifferently”, if this means
that His essence is not, as the essence it is, a perfect exemplar and intelligible ratio of
what is proper to each thing. No work needs to be done to “articulate” it. The distinctions
among creatures are according to their proper modes of participating in the divine perfection, and to understand these is nothing other than to understand the divine perfection
itself in its full participability. And this pertains to it as perfection. Thomas gives a nice
example: if you understand the six-fold, by that very fact you have a proper understanding of the three-fold. After showing so clearly how the more proper perfections of life
and intelligence are folded back into being, why does te Velde think that anything more
183
recensioni
than God’s total perfection of being must be adduced in order to explain His knowledge
of the propria of things? Is it after all the specter of omnis determinatio est negatio?
I do not mean to gainsay a very important point made by te Velde here (p. 278):
God’s identity should not be thought of solely in terms of ‘first act’, substantial being,
which is something absolute, to the exclusion of second act or operation, which involves
relation to others. But to avoid doing that, need we look beyond what pertains to His
essence as essence? Is the point not secured just by saying that His essence is pure esse?
For this means that He is outside all the genera of being, even that of substance, and embraces them all as principle of the whole of being (S.Th. I q.3 a.5). In Him, operation and
even relation have the nobility of essence.
A very great deal can be learned from this book. Here I have been making disproportionately much ado about ‘nothing’. But I have some excuse. The rest is said better there.
Stephen L. BROCK
184
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/schede
schede bibliografiche
■
Angela ALES BELLO, Edith Stein. La passione per la verità, Messaggero,
Padova 1998, pp. 139.
Com’era prevedibile, la recente
canonizzazione di Teresa Benedetta della
Croce (Edith Stein) è stata accompagnata
da un moltiplicarsi di pubblicazioni su
questa filosofa. Effetto analogo aveva già
avuto la beatificazione, suscitando in vari
ambienti un interesse che non si è più
spento. Abbiamo così visto risvegliarsi la
collana “Edith Steins Werke” (Lovanio,
1950-1998), dopo una pausa di circa
quattro anni, che ha completato l’opera
omnia con l’uscita del diciottesimo volume. Nel panorama di nuove pubblicazioni
non poteva mancare la voce della professoressa Ales Bello, esperta di fenomenologia e attenta studiosa di Edith Stein,
curatrice dell’edizione italiana delle sue
opere per l’editrice Città Nuova.
Gli studi su Edith Stein si possono
dividere in due grandi gruppi: le biografie/agiografie e i saggi filosofici; quest’ultimi normalmente strutturati secondo
la successione cronologica delle opere. La
professoressa Ales Bello ha scelto invece
un approccio per temi, con l’intento di
evidenziare la forte influenza della personalità, e in particolare della femminilità,
della filosofa tedesca sul suo pensiero.
L’evolversi della sua riflessione è, infatti,
caratterizzato da una costante attenzione
alla dimensione vitale e alla ricerca dell’armonia delle parti nella totalità.
Lo studio in esame divide la produzione della Stein in tre fasi che, pur
avendo una certa corrispondenza con la
cronologia delle opere, si riferiscono
soprattutto a tre ambiti di riflessione.
Dopo una breve introduzione biografica,
il primo capitolo si riferisce alla sua produzione propriamente fenomenologica.
L’autrice difende la tesi secondo cui
Edith Stein è rimasta sempre fedele al
metodo fenomenologico, e pertanto non
sarebbe esatto distinguere fra produzione
fenomenologica e non. Tuttavia, in questo capitolo vengono illustrate le prime
ricerche della filosofa, incentrate soprattutto sull’uomo e la sua capacità di vivere in comunità.
Il secondo capitolo riprende il tema
dell’indagine sull’uomo, ma per seguirlo
questa volta nella sua evoluzione verso il
rapporto con Dio. Viene qui esaminata la
concezione steiniana dell’antropologia,
con le interessanti implicazioni sulla questione femminile. Tutta la trattazione è
attraversata dalla domanda fondamentale
sulla finalità dell'esistenza umana, che
porta alla riflessione su Dio e sulla vita di
fede.
Una terza dimensione della riflessione sull’uomo viene esposta nel terzo
capitolo: la dimensione soprannaturale,
che pone domande sul rapporto fra natura
e soprannatura, e su quali mezzi l’uomo
abbia per studiare quest’ultima. Si esamina soprattutto la produzione più attinente
alla mistica, in particolare gli studi su S.
Teresa di Gesù e S. Giovanni della Croce.
Nello studio dell’esperienza mistica,
Edith Stein trova un riscontro alle sue
precedenti indagini antropologiche, confrontando la metafora delle sette stanze,
usata da S. Teresa, con le nozioni prece185
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/schede
dentemente acquisite su anima, spirito,
persona, ecc.
Angela Ales Bello ha voluto offrire
una visione unitaria di tutto il pensiero di
Edith Stein. La riflessione sull’uomo
appare come il tema che ha occupato la
santa durante tutta la vita, articolandosi
nelle indagini sulla società, sulla persona
e le relazioni interpersonali, per arrivare
allo studio e all’esperienza vissuta della
mistica. Il risultato è un modo originale di
presentare il pensiero steiniano, al prezzo,
forse, di lasciare alcuni aspetti, come la
metafisica, meno sviluppati.
La presenza di una buona bibliografia essenziale fa di questo saggio uno
strumento valido per chi voglia iniziare lo
studio di questa filosofa.
M. FILIPPA
Lorella CEDRONI, La comunità perfetta. Il
pensiero politico di Francisco Suárez,
Studium, Roma 1996, pp. 142.
Il testo della Cedroni analizza alcuni
elementi, testualmente fondati, della teoria politica di Suárez, e offre in ogni tema
una bibliografia ampia e pregevole sul
pensiero del filosofo granadino.
La Cedroni sostiene che si dia in
Suárez il proposito di conferire al pensiero tradizionale tomista una veste nuova,
che può essere definita “moderna” e nella
quale devono essere intese l’affermazione
suareziana dell’origine popolare del potere politico, la sua concezione comunitaria
del potere e il democraticismo implicito
nelle sue tesi. Questa posizione viene illustrata soprattutto attraverso il confronto
Suárez-Hobbes. In Hobbes il corpus politicum costituisce una artificiale unità fisico-organica, dove la ragione universale è
sostituita dalla ragione terrena e laica del
sovrano; in Suárez, invece, il corpo politico è communitas perfecta, dove i cittadini
agiscono in una sfera autonoma — senza
sottrarre spazio al sovrano —, e ritrovano
la loro dimensione originale e autentica
proprio nella convivenza politica. La
communitas perfecta «è democrazia origi-
186
naria fondamentale, precedente logicamente e ontologicamente qualsiasi forma
di reggimento politico» (p. 80).
Se tutti gli uomini sono per natura
liberi e non assoggettati a nessuno, il
governo e le leggi si giustificano solo in
quanto necessari per la promozione e conservazione del bene comune. Il passaggio
da una situazione di libertà naturale alla
società politica tuttavia è per Suárez il
frutto di una scelta umana: un cambiamento legittimo si realizza soltanto tramite il consenso. Al contempo, ciò che
rende un sistema di governo giuridicamente valido non è propriamente il consenso, bensì la congruenza dei decreti del
governo con la legge di natura.
Questi ed altri elementi del pensiero
politico di Suárez portano la Cedroni ad
affermare che egli «non propone [...] una
formula unitaria e uniforme di democrazia, ma ne accentua il carattere sostantivo
più che formale. La sua idea è quella di
un sistema politico democratico di tipo
fiduciario, in cui il potere viene affidato
al sovrano che lo esercita secondo ragione
e coscienza, per il bene del popolo» (p.
102).
La seconda parte del libro offre una
breve presentazione del progetto politico
suareziano. Il concetto di democrazia in
Suárez — rileva l’autrice — «scorre
parallelamente all’affermazione della
radice comunitaria del potere e della proprietà» (p. 12). Tutta l’analisi si orienta
quindi a evidenziare un punto centrale e
al contempo ambiguo del filosofo scolastico: il passaggio dalla communitas perfecta allo Stato. Emerge così — come
particolarmente interessante — il concetto di bene comune: un bene qualitativamente superiore alla domanda totale dei
beni individuali e sociali come beni offerti ai singoli (p. 109).
Successivamente la Cedroni studia
la teoria della proprietà. La natura del
dominium (concetto diverso da quello di
proprietà privata) è un elemento chiave
sia per capire i rapporti tra il potere e i
cittadini nell’ambito della proprietà sia la
funzione economica dello Stato.
È da sottolineare inoltre che il libro
di Lorella Cedroni ha il valore di aggiun-
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/schede
gersi ai pochi studi italiani di rilievo sulla
filosofia politica di Suárez, poiché l’interesse per il suo pensiero politico è stato
scarso in ambito italiano, almeno se paragonato agli studi realizzati in altri paesi
d’Europa — la Germania, i paesi britannici, il Portogallo, la Francia e, naturalmente, la Spagna — e in area latino-americana.
M.A. FERRARI
Christopher DAWSON, Il cristianesimo e la
formazione della civiltà occidentale,
Rizzoli, Milano 1997, pp. 296.
Occorre riflettere sulle vicende storiche, riconoscendo «che la storia non
consiste in una laboriosa accumulazione
di fatti, ma che essa influisce direttamente
sul destino della società» (p. 18). Tale
riflessione corre il rischio di essere impedita dal processo di specializzazione in
atto negli studi, a causa del quale si può
perdere di vista l’intero percorso di una
civiltà e trascurare gli elementi vitali che
la muovono.
A questa esigenza va incontro il presente saggio di C. Dawson, storico della
cultura e della religione, e perciò va considerato con soddisfazione che esso sia
ora disponibile anche nella Biblioteca
Universale Rizzoli, nella collana “I libri
dello spirito cristiano”. L’obiettivo di
fondo di queste pagine è mettere in luce il
motore e i fondamenti della civiltà occidentale, rilevando nelle prime fasi del suo
sviluppo il ruolo decisivo delle forze spirituali che sospinsero «un lungo processo
educativo che cambiò gradualmente l’orientazione del pensiero umano e allargò
le possibilità dell’azione sociale» (p. 22).
Ovviamente l’autore non cade in alcun
trionfalismo, ma osserva pur nei decadimenti e nelle alternanze politico-istituzionali una continuità culturale e spirituale.
Il periodo preso in esame va dalle
origini della civiltà occidentale, individuate nella nuova comunità sorta dal crollo dell’impero romano sotto la spinta
delle invasioni barbariche, fino al XIII
secolo. Dawson traccia un itinerario agevole ed avvincente, senza intrattenimenti
eruditi, ma attento ai segni che contraddistinguono la cultura forgiatasi nell’Europa occidentale. Ne emerge con chiarezza
il rapporto inscindibile tra religione, storia e civiltà, giacché «le grandi religioni
sono, per così dire, dei grossi fiumi di
sacre tradizioni che scorrono attraverso i
secoli e il mutevole paesaggio storico che
essi irrigano e fertilizzano» (p. 16). E nel
risalire alle sorgenti della storia della cristianità ci si imbatte in un panorama di
riferimento straordinariamente ricco.
F. RUSSO
Fernando HAYA SEGOVIA, El ser personal.
De Tomás de Aquino a la metafísica
del don, Eunsa, Pamplona 1997, pp.
331.
El estudio metafísico de la persona
tiene una historia secular; su indagación
fenomenológica es una aportación de
nuestro siglo a la elucidación de la condición de ser más noble, que es precisamente la persona. ¿Se trata de dos caminos
paralelos o confluyentes? Fernando Haya
se propone mostrar que la aproximación
metafísica y la fenomenológica no sólo
no se excluyen sino que son necesariamente compatibles y complementarias.
Se dedica el capítulo I a la investigación de la realidad personal de acuerdo
con los sentidos del ser. Se analiza la tradicional situación de la persona en el
orden de las sustancias primeras, y se
obtiene la conclusión de que es correcta,
pero que no basta. Se puede ver a la persona desde esta perspectiva, pero se constata que no es la más importante, la
mayormente explicativa de lo que la persona es. Hay que averiguar cuál es el sentido privilegiado del ser, porque será
desde ahí desde donde habremos de considerarla. El Autor sostiene que la persona
queda explicada del modo mejor a través
de la noción de acto, por eso continúa la
investigación (capítulo II) en esta línea. A
través de una cuidada reflexión sobre
187
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/schede
algunos textos de Santo Tomás, muestra
el valor trascendental de la diferencia
relativa, que conduce a una comprensión
de la persona como diferencia original
del ser. «La persona es una novedad radical, y así se vive a sí misma incluso cuando ella misma piensa el orden trascendental o del fundamento. Yo existo, soy compatible con el ser o con el fundamento,
pero no me incluyo en el fundamento: soy
una novedad, no un despliegue; soy, pero
en este sentido no soy el ser. Y por otra
parte, y éste es el otro sentido, ser tiene
para mí el valor eminente, privilegiado
cuando digo yo. En este sentido último no
hay para mí una manifestación más clara
de lo que es ser, que en la emergencia, en
el destacamiento del propio ser personal
ante sí» (p. 154).
Retomando la temática del capítulo I,
se dedica el III a la revisión del concepto
de substancia. El Autor, siguiendo a
Leonardo Polo, afirma que no se puede
sostener la noción de sustancia trascendentalmente entendida, porque supone la culminación de la criatura en términos de en
sí, cuando lo propio del ser creado es persistir y el persistir no es culminación (cfr.
p. 203). La persona no es trascendental en
el sentido de que lo trascendental pertenece a la inclusión en el fundamento —que
explicita la metafísica—, mientras que la
persona —radicalidad original— es irreductible al fundamento. A la par, la persona es compatible con el fundamento. A
esta condición se la denomina co-trascendentalidad (cfr. pp. 219-220). Hay que
entender a la persona no como posibilitante del fundamento, pero sí del horizonte en
el que cabe alguna manifestación del fundamento; por eso puede ser descrita «como
horizonte o apertura a lo abierto del ser»
(p. 220). Tal descripción ha de mirar con
atención a la pluralidad y la diferencia ya
que el ser personal es el ser como diferencia. Cada persona «abre consigo un universo que no estaba contenido ni implícito
en la realidad en cuanto tal» (ibidem).
Desde las perspectivas alcanzadas,
el Autor afronta en el capítulo IV, el tema
de la libertad radical. A través de un análisis del acto de pensamiento, concluye
con la afirmación de la libertad como
188
poder radical de la conciencia, como una
novedad respecto del orden de lo antecedente en general. «La libertad no está ya
dada en lo peculiar de ella misma. En
tanto que antecedente, habría que describirla como poder o como acto, pero aún
en ese caso la antecedencia de la libertad
no pertenece al orden trascendental, porque la aparición de la libertad es la de lo
peculiar original, la del ser personal, que
en cuanto tal no viene contenido ni presagiado en modo alguno en el ámbito del
ser en cuanto tal» (p. 256). En virtud de
su poder original, la subjetividad se pone
(o no) en favor del orden de lo primero,
es decir, asume su propio ser. El ser asumido es sí mismo de un modo nuevo, que
se describe como intenso» (cfr. p. 257).
Esta intensificación es un salto de la subjetividad que no puede ser una actualización, porque el acto radical del sujeto en
cuanto tal no la admite. Esa posición de sí
que pertenece a lo radical del sujeto, se
describe como una donación. «En el don
la propia actuación del donar es en cierto
modo lo donado, el don mismo. Don dice
el donar y dice también lo donado. Por
eso sirve muy bien para expresar aquello
que es en el modo de actuarse como posición de sí» (p. 258).
A partir de la consideración de la
libertad como «poder radical de la persona», se llega a una excelente profundización del dinamismo operativo personal
(capítulo V). La libertad es acto que se da
junto con una esencia. El poder esencial
lo constituyen las facultades, que incluyen potencialidad pasiva; el poder de la
libertad es, en cambio, acto, acto primero.
Por eso, el poder radical dispone de la
esencia, en la forma de ejercer sus facultades. La operación es distinta del esse,
que es su principio radical; esto significa
que «las facultades han de articularse en
el acto primero, porque de otra manera no
se explicaría el vínculo entre la operación
y el ser, y consiguientemente la potencia
quedaría por delante en el plano mismo
de la actividad» (p. 289). La esencia del
alma es potencial respecto a los objetos
de sus operaciones, es decir, en el plano
de la especificación; pero no en el del
ejercicio, en el que goza del dinamismo
del esse. Esto permite una mejor comprensión de la excelencia ontológica de
los hábitos. «Si el esse no acompañara a
la operación no cabría un incremento
diferencial de la esencia; dicho de otro
modo, la operación no revertiría a la
forma que es su principio esencial (...)
Los hábitos vienen a ser las configuraciones ulteriores de la estructura del agente
creado, y son actos de orden superior a la
operación, en virtud de los cuales las operaciones se vinculan al ser mismo del
alma. Los hábitos son por lo tanto el
revertir del esse a la esencia, del actuar a
configuración, estableciendo el dinamismo de crecimiento ontológico de la criatura» (p. 291).
A lo largo de toda la obra se
encuentran las oportunas referencias
bibliográficas. Las de Tomás de Aquino
son excelentes; muy acertadas también
las del profesor Polo. Se echa de menos,
en cambio, que no comparezca ningún
autor de la corriente fenomenológica,
siendo esa aproximación a la persona una
de las fuentes inspiradoras del estudio.
Una línea de pensamiento que sin duda el
Autor conoce bien, como pone de manifiesto su reciente obra La fenomenología
metafísica de Edith Stein.
El ser personal es un libro importante que vale la pena estudiar no sólo por
lo que aporta sino por los nuevos caminos
que sugiere.
F.R. QUIROGA
Francesco TOMATIS, Bibliografia pareysoniana, Trauben, Torino 1998, pp. 158.
Ho accolto con piacere questo volume, curato da Francesco Tomatis, il quale
ha già scritto, tra l’altro, una monografia
sull’ultima fase del pensiero di Luigi
Pareyson. Dopo aver compulsato diversi
archivi, l’autore ha preparato con pazienza e costanza un imprescindibile strumento di lavoro per gli studiosi del filosofo
torinese, pubblicato a ottant’anni esatti
dalla sua nascita.
Il libro si apre con un minuzioso iti-
nerario biografico, ripercorso con scansione annuale e illuminato da sprazzi di
testimonianze di familiari e conoscenti; la
sintetica ricostruzione non si limita alle
vicende accademiche, ma si estende
anche ad altri aspetti significativi della
sua vita, quali l’impegno nella Resistenza
e il confronto con la sofferenza. Seguono
l’elenco dei corsi tenuti, nell’arco di quasi
quarant’anni, nelle università di Torino,
Pavia e Mendoza (Argentina) e quello
delle numerosissime pubblicazioni, comprese le interviste e le collaborazioni con
i quotidiani: utilissima la catalogazione
numerica per identificare i singoli elementi dei volumi collettanei e le traduzioni degli scritti in inglese, francese, romeno, spagnolo, portoghese e tedesco.
Per certi versi sorprendente è l’elenco degli inediti, suddivisi in nove sezioni,
dei quali alcuni sono stati pubblicati postumi. Occupa circa cinquanta pagine la rassegna della letteratura su Pareyson, distribuita in bibliografie, voci, volumi, saggi,
articoli, recensioni, discussioni e citazioni.
La penultima sezione è costituita da 5
documenti, tra cui un breve ma illuminante
frammento autobiografico e il testamento
letterario risalente all’agosto 1991, cioè a
circa un mese prima della morte.
Chiude il libro il progetto delle opere
complete, elaborato dal Centro Studi filosofico-religiosi “Luigi Pareyson”, di cui
Tomatis è membro. Vi sono previsti trentanove tomi, di cui però una parte è già in
commercio: qui forse sarebbe stato meglio
indicare con più chiarezza le modalità di
pubblicazione o di riedizione. Il primo
volume, contrassegnato con il n. 19,
dovrebbe uscire mentre questa mia recensione viene data alla stampa, con il titolo
Essere libertà ambiguità (Mursia).
F. RUSSO
Eduardo VENTURA, Sobre hechos e ideas
políticas, Ediciones Ciudad Argentina,
Buenos Aires 1997, pp. 526.
Eduardo Ventura, Profesor de Historia de las Ideas Políticas en la Uni-
189
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 8 (1999), fasc. 1/schede
versidad Católica Argentina y en la
Universidad Austral (Buenos Aires), es ya
un escritor conocido en el ámbito de la
Historia de las Ideas. Sobre hechos e ideas
políticas es un libro que oscila entre el
manual y el ensayo: tiene la sistematicidad
del primero, y la amenidad y la incisividad
de la pluma personal del segundo. Se trata
de una historia de las principales ideas
políticas de la tradición occidental, puestas siempre en su contexto histórico. Las
ideas políticas no nacen por generación
espontánea: es necesario partir del análisis
de las circunstancias históricas para comprender el porqué de muchas doctrinas
sobre el Estado y la sociedad. Por otra
parte, los hechos históricos son influidos
continuamente por las ideas y las corrientes de pensamiento. Ventura logra en su
libro poner de manifiesto la influencia
mutua entre hechos e ideas.
Acertadamente, Ventura considera
que la relación entre libertad y verdad es
una temática continuamente presente en
el pensamiento político occidental.
Considerando que dicha problemática
tiene su origen en la antigüedad clásica, el
autor presenta las distintas soluciones que
los griegos fueron dando al problema
político, para abocarse después al análisis
de las formas políticas de la cultura gótico-cristiana. Si en la Grecia clásica
Ventura destaca los tentativos de establecer formas mixtas de gobierno como un
medio para evitar despotismos o anarquías, en sus páginas sobre el Medioevo va
delineando instituciones jurídicas y sistemas políticos que pondrían de manifiesto
la continua presencia de circunstancias
político-institucionales que garantizaban
la participación popular y la limitación
del poder. Las consecuencias sociales del
Cristianismo, que permea muchas de las
instituciones medievales, llevaría a la
construcción de una societas donde la
libertad estaba subordinada a la verdad.
Ventura continúa su trabajo estable-
190
ciendo que la separación entre libertad y
verdad es una de las características de
gran parte de las corrientes modernas de
pensamiento político. El autor otorga gran
importancia al influjo de la reforma protestante sobre las instituciones políticas
de la Modernidad, período en el cual distingue dos corrientes fundamentales: la
norteamericana, defensora de la democracia constitucional o del sistema republicano; y la francesa, de origen ilustrado y
racionalista, que históricamente osciló
entre el totalitarismo y el sistema republicano. Ventura señala la influencia de las
confesiones cristianas en el camino institucional norteamericano, sistema que
garantiza la dignidad de la persona humana reestableciendo, en algunas de sus
manifestaciones, la subordinación de la
libertad a la verdad.
Las circunstancias históricas, instituciones e ideas políticas que Ventura analiza más detenidamente son las francesas,
por considerarlas como las más influyentes en la consolidación institucional de la
República Argentina. Ventura finaliza este
manual-ensayo analizando los totalitarismos contemporáneos, en donde libertad y
verdad desaparecen. Son particularmente
sugerentes sus reflexiones sobre el marxismo gramsciano y sus posibilidades de
supervivencia después de 1989.
En definitiva, es un libro que ofrece
al lector una armoniosa presentación de la
relación entre hechos e ideas, como indica el título de la obra. Los análisis de
Ventura parten de una comprensión profunda de las consecuencias políticas y
sociales que la antropología cristiana trae
consigo. Sus preferencias por las formas
mixtas de gobierno, o por lo que los autores del The Federalist llamaban sistema
republicano, están apoyadas en exigencias éticas, que en la situación actual de
las democracias occidentales es necesario
no soslayar.
M. FAZIO
Pubblicazioni ricevute
AA. VV., Generalized Nets in General and
Internal Medicine, Publishing House of the
Bulgarian Academy of Sciences, Sofia 1998.
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Conflitto e conciliazione di teoria e pratica,
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L. POLO, Quién es el hombre. Un espíritu en
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L. PAREYSON , Essere, libertà, ambiguità,
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