L`anteprima di Un amore a Parigi di Remco Campert

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L`anteprima di Un amore a Parigi di Remco Campert
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Lo scrittore Richard Sanders si trovava davanti all’ingresso di un hotel sulla Place du Panthéon. Sulla vasta piazza, dominata dal monumentale edificio in cui
riposavano le ceneri dei francesi illustri, soffiava un
pungente vento di marzo.
Era appena giunto a Parigi. La stanza che gli era stata assegnata non dava sulla piazza ma su un cortile buio.
Il cielo era solcato da nuvole grigie. Disfece rapidamente le valigie, lasciò la camera, si fece chiamare un
taxi e uscì ad attenderlo. Il mattino era quasi al termine. Oggi, ormai, non si sarebbe fatto davvero chiaro.
In quel momento gli passò accanto una donna ben
vestita, elegante, come se ne vedevano più spesso a Parigi che non ad Amsterdam, dove abitava. La esaminò
di sfuggita. Sulla quarantina abbondante, forse sulla
cinquantina, in ogni caso più giovane di lui, valutò
automaticamente. Capelli neri corti, il viso di un bel
pallore, una bocca piccola e attraente. Mentre passava, anche lei lo guardò per un istante. Sul volto le
spuntò un sorriso incredulo, si fermò e disse: «Rik?».
Lo chiamò per nome con la forma abbreviata che
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lui usava in un periodo della sua vita in cui trovava Richard troppo solenne, troppo posato, in contrasto
con la vitalità che sentiva dentro di sé. Mai sarebbe
voluto diventare un Richard, un uomo adulto che si
era riconciliato con la società.
Cercò di riconoscere la donna che ora lo guardava
impaziente. Passò velocemente in rassegna molte situazioni cui il suo viso avrebbe potuto appartenere,
stanze, strade, ma non si accordava con nessuna di esse.
«Non sai chi sono, eh?» disse.
Nella sua voce non c’era rimprovero, né delusione.
La sua domanda era al tempo stesso un’affermazione.
«È terribile» disse Richard imbarazzato. «La mia
memoria…».
«È stato tanto tempo fa» disse la donna per consolarlo, vedendo la sua espressione addolorata. Ma lei
lo aveva riconosciuto.
La sua voce forniva qualche indizio? Era roca, e lui
aveva un debole per le voci roche. Aveva un lieve accento (francese?), ma questo non lo aiutava granché.
Eppure intravedeva delle immagini davanti a sé
che a prima vista non avevano niente a che fare con
lei o con lui come erano ora, lì nella luce che si faceva ancora più grigia sulla Place du Panthéon.
Vedeva un canale sullo sfondo di un piatto paesaggio olandese, le nuvole che si specchiavano nell’acqua, in lontananza il ponte di una ferrovia. Aveva mai
visto davvero tutto ciò? O non ricordava più neppure
questo, ed era stato davvero sulla riva di quel canale
in un giorno ventoso rischiarato da sprazzi di sole?
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Spesso si presentavano a Richard immagini che
sembravano provenire da un’altra realtà. Apparivano
spontaneamente. Era come se nelle profondità del
suo subconscio si svolgesse uno spettacolo continuo
di cui, in certi istanti non scelti da lui, poteva cogliere un barlume.
Perlopiù le immagini tornavano a scomparire con
la stessa velocità alla quale erano apparse. Di tanto
in tanto una permaneva ostinata, come se volesse rendergli evidente qualcosa. Allora, a volte, gli offriva
uno spunto per una poesia o per un racconto.
«Lei però si ricorda di me» disse Richard, tornato
alla realtà.
«Probabilmente non ho fatto una grande impressione» disse la donna beffarda.
«No, no, è la mia memoria. Dimentico perfino il
compleanno di mia moglie. Imperdonabile. La prego, mi dica il suo nome».
Razza di idiota! Perché aveva parlato della moglie?
Per autodifesa?
«Se smetti di darmi del lei».
«Scusami».
«Sacha Lefort. Ma quando ci siamo conosciuti mi
chiamavo ancora Sacha van Munster. Del resto, a quanto pare, neanche questo ti dice molto».
«Vivi a Parigi?».
«Da anni. Ma non mi hai conosciuta qui».
«Aiutami».
«Ha senso?».
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Malgrado il tono leggero della loro conversazione, Richard aveva la sensazione di prendere parte a
un duro negoziato.
«Non puoi lasciarmi così. Non riuscirò a pensare
ad altro».
«L’idea è accattivante».
Da rue Soufflot spuntò un taxi che si fermò davanti all’hotel.
«Il mio taxi» disse Richard.
«Non ti tratterrò oltre».
«Aspetta un attimo, per piacere» supplicò Richard. Si avvicinò al taxi e chiese al conducente di pazientare un istante.
Sacha Lefort si era incamminata lentamente. Richard la raggiunse allungando il passo.
«Sacha…».
«Ci siamo incontrati per strada. Proprio come adesso».
«Ti sono corso dietro anche allora?».
Lei sorrise e scosse la testa.
«Sono troppo vecchio per gli indovinelli. Dove è
stato?».
Dal cielo scuro si abbatté improvvisamente sulla
piazza un misto di pioggia e nevischio. La donna
frugò nella borsa e ne estrasse un ombrello pieghevole.
«Ad Anversa. Dalle parti del giardino botanico in
Leopoldstraat. Adesso devo proprio andare». Alzò
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l’ombrello e, sostenendolo contro le folate di vento e
pioggia, si allontanò rapidamente. Richard rimase lì,
confuso. Non poteva correrle dietro un’altra volta.
La seguì con lo sguardo finché non scomparve dietro l’angolo e cercò di riconoscere nella sua camminata qualche indizio del passato (lo aveva già piantato in mezzo alla strada in un’altra occasione?), quindi si affrettò a entrare nel taxi.
«Editions Mondial. Rue de Verneuil».
Il tassista, obeso e con un maglione grigio sformato, annuì brevemente. Sul parabrezza dell’automobile era incollata la foto a colori di una donna con due
bambini. La donna aveva lo sguardo triste, i bambini, un maschio e una femmina, avevano un’aria risentita, come se rimproverassero il padre per qualcosa. Mentre il taxi svoltava a destra imboccando il
Boulevard Saint-Michel e il tassista brontolava per il
maltempo, Richard ripensava all’epoca in cui aveva
abitato ad Anversa. Era un periodo della sua vita al
quale non tornava volentieri con la mente. Per farla
breve: era sempre ubriaco e la donna con cui viveva
lo aveva ben presto lasciato. Non sapeva se una cosa
era dipesa dall’altra o viceversa.
Vide davanti a sé la Leopoldstraat, l’ospedale, l’inferriata che costeggiava il giardino botanico, gli antiquari e i negozi di abbigliamento di fronte, il teatro
in fondo alla strada.
Era estate, le otto del mattino, i binari del tram luccicavano al sole.
Rik usciva dal pronto soccorso dell’ospedale dove
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lo avevano medicato. In un locale dove regnava la
notte fino al giorno inoltrato qualcuno che non aveva simpatia per gli olandesi l’aveva colpito in faccia
con un bicchiere di birra. C’era anche Sacha?
Nel presente viaggiava lungo la Senna, sopra il Quai
des Grands-Augustins. Il tassista era curvo sul volante e guardava fisso davanti a sé tra un’oscillazione e
l’altra dei tergicristalli.
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Editions Mondial era una piccola casa editrice da
lungo tempo specializzata nella pubblicazione di guide di viaggio, attività grazie alla quale poteva permettersi anche un rispettabile catalogo di narrativa.
La sede si trovava all’interno di un vecchio palazzo signorile un tempo abitato da una famiglia altolocata e ormai frammentato in vari miniappartamenti in
cui alloggiavano persone che non si conoscevano tra
loro.
Richard si presentò in segreteria. Poco dopo percorse un interminabile corridoio zeppo di libri accatastati. Davano l’impressione che non sarebbero mai
usciti di lì. In cima ad alcuni mucchi c’erano tazze e
bicchieri vuoti.
Alain Mitron, l’editore, seduto alla scrivania, era al
telefono quando entrò Richard. Gli fece un cenno di
saluto e gli indicò una sedia. Era giovane, alto e magro. Sul suo cranio calvo troneggiava un paio di occhiali da sole. Dopo qualche istante concluse la conversazione, si alzò e abbracciò Richard, facendosi ricadere gli occhiali sul naso.
«Richard, my friend, there you are».
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Ogni volta che lo vedeva (ormai era la terza), ne approfittava per esercitare il suo inglese».
«Era l’assistente di Pivot» disse indicando il telefono. «Sto facendo del mio meglio per farti comparire nel suo programma televisivo.
«Ci riesci?».
«Bernard non ha ancora avuto il tempo di leggere
L’art d’oublier. Mi farà sapere. Ma dimmi, hai fatto
buon viaggio?».
Uno dei motivi che avevano portato Richard Sanders a Parigi era la pubblicazione della traduzione in
francese del suo libro L’arte di dimenticare, una raccolta di prose poetiche che spesso non superavano
la pagina. Si trattava di un genere che in Olanda veniva sempre guardato con una certa diffidenza (un
libro del genere valeva il suo prezzo?), ma che in
Francia trovava facilmente accoglienza. Alla pubblicazione sarebbero state organizzate delle interviste,
un’apparizione da Pivot e naturalmente una presentazione ufficiale con tanto di fotografi, gli aveva scritto Alain.
«Ho una sorpresa per te» disse gongolando Alain.
«La presentazione si terrà alla Galerie Delano durante il vernissage del tuo amico Tovèr».
L’inaugurazione di quella mostra era un altro dei
motivi per cui Richard era a Parigi. Con Tovèr, che
in realtà si chiamava Ton Verstrijden ma che fin dai
tempi del liceo aveva adottato un nome d’arte, aveva
convissuto per un periodo a Parigi agli inizi della sua
carriera di scrittore. Da allora Tovèr era diventato
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famoso. Aveva detto ad Alain che lo conosceva una
volta che erano a cena insieme ad Amsterdam, e lui
a quanto pareva lo aveva tenuto bene a mente.
«Ma ora vorrai certo vedere il tuo libro!» disse
Alain. Ne estrasse una copia da una pila pronta sulla
scrivania e la porse solennemente a Richard, che la prese facendo debita mostra di gratitudine e bramosia.
«Bello» disse. «Una buona stampa».
«Che te ne pare della copertina?».
In copertina c’era una foto di una donna nuda seminascosta dietro una nuvola grigia trasparente.
«Va bene, ma perché una donna nuda?».
«Si tratta della nuvola» disse Alain estraendo da
un piccolo frigorifero alle sue spalle una bottiglia di
champagne.
«La nuvola rappresenta l’oblio. Nella prima versione c’era un paesaggio, ma non diceva molto. Una
donna nuda attira sempre l’attenzione. E poi c’è nel
libro».
«Ne sei sicuro?».
Alain sfogliò il volume finché non trovò il passaggio in questione.
«Un nuage gris cachait son corps».
«L’avevo dimenticato» disse Richard.
Camminava lungo il Suikerrui ad Anversa diretto
verso i bar del porto che si affacciavano sulla Schelda. Erano le dieci di sera, un vento implacabile spazzava le strade deserte. In qualche angolo di quella
parte della sua memoria oscurata da nuvole grigie doveva aggirarsi Sacha van Munster.
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Andò a pranzo con l’editore in un ristorante dietro
l’angolo in rue du Bac.
Nel bagno al piano di sotto osservò ancora una
volta la sua copia de L’art d’oublier. Non era granché
soddisfatto. Scrittura patinata, pensò contrariato, in
francese poi ancora di più. Avrebbe preferito che
Alain pubblicasse uno dei suoi romanzi, ma quella
sua proposta era stata rinviata a un altro momento.
Prima L’art d’oublier, per cominciare a far circolare
il nome di Richard. Nel 2000 avrebbe inaugurato una
collana dedicata ai romanzi. C’erano viaggi nei suoi
libri?
Dimenticare non era un’arte, ma un difetto. O un
pavido rifugiarsi nel nulla. La smania di non conservare niente, di ricominciare ogni volta daccapo senza
gravami, alla lunga avrebbe finito per nuocergli. Un
giorno, sul letto di morte, senza più nulla da contemplare davanti a sé, privato dei ricordi, a cosa avrebbe
rivolto i suoi pensieri?
In quegli ultimi istanti avrebbe visto delle immagini, e quali? La paura di essere colto dalla morte
con l’immagine sbagliata davanti agli occhi lo prese
alla gola. Sarebbe stato un modo assai triste di concludere la vita. Nessuno avrebbe saputo cosa vedeva
e non avrebbe più avuto alcuna possibilità di correggere quell’immagine.
Mentre si lavava le mani, Richard si guardò allo
specchio. Vide la testa di un vecchio, affaticato, con
radi riccioli grigi appiccicati al cranio. Della sua gioventù, e di quella che alcuni avevano considerato la
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sua avvenenza, non trovava più traccia in quel volto
raggrinzito.
Eppure il suo viso doveva aver conservato qualcosa di un tempo, visto che Sacha l’aveva riconosciuto.
Probabilmente non era la persona più indicata per
esaminarsi attentamente. O era giunto ormai il momento in cui era proprio questo che doveva fare, e
sarebbe stato meglio affrettarsi a farlo?
Nell’angusto spazio antistante il bagno c’era un
uomo al telefono. Indossava un abito estivo sgualcito e aveva una sciarpa violetta al collo. Lunghi riccioli
biondi gli pendevano sul viso, le guance pallide mostravano un colorito roseo che sembrava ottenuto
con il fard. Aveva la barba lunga. Attorno a lui aleggiava un odore nauseabondo di vino rosso.
«No, I told you, my credit card was stolen in the
subway» disse l’uomo con un tono disperato nella
voce quando Richard gli passò accanto e si avviò su
per le strette scale di marmo che lo avrebbero riportato al ristorante.
Non deve avere ancora quarant’anni, pensò.
Da quando aveva compiuto sessant’anni Richard
calcolava automaticamente l’età di tutti quelli che
incontrava. Erano sempre di più le persone più giovani di lui. Il loro numero non avrebbe fatto che crescere, finché tutte insieme non lo avrebbero spinto
infine oltre il ciglio.
Era diventato un assiduo lettore di necrologi. Anche tra i defunti c’erano individui più giovani di lui.
Quando gli capitava di leggere uno di quegli annun17
ci, non poteva evitare un certo compiacimento. Almeno a quello lì era sopravvissuto.
Ma la maggior parte aveva un’età che ormai si avvicinava anche per lui. Per molto tempo gli era sembrato che la vita non avesse fine. Poteva tenere a freno il tempo a suo piacimento senza perderne il controllo. Ma a un certo punto si era distratto e lo aveva
smarrito. Il tempo si era liberato dalla sua presa e,
non più trattenuto, sfuggiva da ogni parte. Una vicenda avvenuta secondo Richard l’anno precedente
risultava in realtà essersi svolta quattro o anche otto
anni prima. I ruoli si erano invertiti, ora era il tempo
a giocare con lui.
Il brusio dei clienti del ristorante e soprattutto le
voci dei camerieri che, entrando in cucina, gridavano le ordinazioni lo risollevarono. Niente dava un’impressione di vitalità come l’ora del pranzo a Parigi.
Era ammirato dall’efficienza con cui lavorava il personale. Non si perdeva un secondo, non si vedeva mai
nessuno ciondolare, eppure non regnava un’atmosfera frenetica. Gli avventori stavano seduti gli uni sugli altri a dei tavolini striminziti il cui formato non
cambiava da secoli, ma una volta che ci si era accomodati tutto sembrava entrarci a meraviglia, anche
le ingombranti corporature del Nord.
Il suo editore aveva un tavolo fisso. Anche il padre
di Alain, che aveva lasciato la cura della casa editrice
al figlio e ora si godeva la pensione in Provenza, veniva qui a mangiare. Ai “soliti posti” e alle abitudini incrollabili Richard non era mai stato affezionato in vita
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sua, ma qui le apprezzava e si sentiva accolto in un sistema che, grazie alla sua immutabilità, emanava un
senso di protezione.
Mentre Alain sceglieva il vino, Richard vide spuntare nello specchio alle sue spalle l’inglese incontrato sulle scale che, appoggiandosi di tanto in tanto
allo schienale di una sedia o a un cliente che gli lanciava occhiate infastidite; l’uomo si dirigeva barcollando di qua e di là verso l’uscita. Anche Alain ne seguì il percorso e Richard lo vide tirare un sospiro di
sollievo quando l’inglese fu fuori dal ristorante.
«Lo conosci?» chiese Richard. Alain annuì con
una smorfia di disprezzo.
«Christopher Burns, un mio autore. Quando cominciano a bere, gli inglesi non la smettono più».
«Cosa scrive?».
«Ho pubblicato soltanto un suo libro, Un amour à
Hong Kong. Da allora gira sempre da queste parti».
«Vende?».
Alain ebbe un’espressione di disappunto.
«Gli hanno rubato la carta di credito nella metropolitana» disse Richard.
«Sì, è quello che dice lui».
«Non gli credi?».
«Ha poca importanza. Qui hanno dei rognons de
veau eccellenti».
«In Francia il cibo è sempre eccellente».
«Fosse vero» disse Alain. «Sta peggiorando molto. I migliori cuochi francesi se ne vanno in America.
Lì guadagnano di più. Il denaro americano infetta tut19
to. L’Europa è finita. Il dibattito intellettuale non esiste più. La politica è dominata da personaggi di second’ordine. Sono anni di grande scialbore. Il potere
dell’America ci ha messi in ginocchio».
«Voi siete sempre stati contro l’America».
«Gli americani si avviano a dominare il mondo.
Lungo il cammino prima o poi inciamperanno, la storia ce lo insegna. Del caos che ne deriverà nessuno è
in grado di farsi un’idea».
Dietro gli occhi di Richard comparve l’immagine
di una strada fangosa, fiancheggiata da un lato dagli
alti muri di una fabbrica o di una prigione, e dall’altro da una discarica interminabile, come se ne vedono nei paesi del Terzo mondo. Era notte. I riflettori illuminavano la scena. Sembrava il set di un film, Mancavano solo gli attori.
Dopo pranzo ripercorse il Boulevard Saint-Michel
diretto all’hotel. Non pioveva più, ma il vento gelido
infuriava e penetrava attraverso i vestiti. I taxi che
gli passavano accanto erano invariabilmente occupati. Quella era l’ora giusta per andarsene a letto con
una ragazza. Pensò a Sacha e alla sua bocca piccola.
In rue Hautefeuille si imbatté in un cinemino dei
vecchi tempi di cui si ricordava ancora. La proiezione pomeridiana era sul punto di iniziare. Comprò
un biglietto ed entrò. Era un film sudamericano su un
bambino che dai vicoli di una grande città partiva alla
ricerca del padre scomparso, che doveva vivere da
qualche parte in campagna, mentre al tempo stesso
questi si metteva in cerca del figlio abbandonato. Nel
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corso di tali tentativi le loro strade si incrociavano
senza che se ne rendessero conto. Era una circostanza molto commovente e Richard dovette asciugarsi
le lacrime un paio di volte.
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