Scheda - Eddyburg

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Scheda - Eddyburg
VOCI SULLA CITTà
Edoardo Salzano
Memorie di un urbanista
L’Italia che ho vissuto
© 2010 Corte del Fontego editore
Dorsoduro 3416/a - 30123 Venezia
[email protected]
ISBN 978-88-95124-06-3
www.cortedelfontego.it
Redazione: Matilde Galli, Pippi Lanzich
ai miei figli e ai nipoti,
speranza per il futuro
Indice
Ouverture Prologo
La lunga infanzia
xiii
xv
Nonno Armando - Napoli dalla mia finestra - La casa del Corso - I coloni e Vicienzo
Ucciero - La famiglia Salzano di Casoria - Villa Diaz - Le mie educatrici - Giochi Il monumento a nonno Armando - Selva di Val Gardena - Accanto alla guerra Sfollati a Roccaraso - Cade il fascismo, arrivano le SS - Miseria e nobiltà - Via
Rasella dall’Hotel Imperiale - L’arrivo degli alleati - Ritorno a Napoli - I boy scout Luigi Cosenza - Villa Pavoncelli - La politica? Non c’era - Un’estate a Colle Isarco L’università, il cinema e Benedetto Croce - Mammà e papà entrano in crisi
Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto
1
capitolo primo
3
A Roma
1. Nuove amicizie, nuove scoperte - 2. San Pietro in Vincoli - 3. Alberto
e la politica - 4. Federico Gorio e la civilità urbanistica - 5. Barbara e
l’impegno sociale - 6. Pubblicista
capitolo secondo
Un nuovo mondo si apre
17
1. Franco Rodano - 2. In quegli anni, nel mondo e in Italia - 3. La rivista
«il Dibattito politico» - 4. Emergono i temi della ricerca - 5. Bisogno, consumo, produzione, lavoro - 6. Le trasfomazioni nella società e nel territorio
- 7. Comunista
capitolo terzo
Lavorare non stanca troppo
35
1. La laurea, e dopo - 2. Lavori e lavoretti - 3. Il piano urbanistico provinciale di Teramo e il piano regolatore generale di Giulianova - 4. Il Centro
studi della Gescal - 5. Il Ministero dei lavori pubblici - 6. L’Italia alle soglie degli anni Sessanta - 7. Da Fiorentino Sullo alla frana di Agrigento
capitolo quarto
Nel centro dell’urbanistica italiana
47
1. Al Ministero di Porta Pia - 2. «Salvate gli uomini prima dei mufloni» 3. Dal crollo di Agrigento al decreto sugli standard urbanistici - 4. Gli
standard urbanistici - 5. Le sentenze della Corte costituzionale - 6. Amministrare l’urbanistica - 7. «La Rivista Trimestrale» - 8. Che cos’è la città? 9. Urbanistica e società opulenta
capitolo quinto
Esperienze di vita pubblica
63
1. Consigliere comunale a Roma - 2. Il lavoro sull’attuazione del piano
regolatore generale di Roma del 1962 - 3. La battaglia per Capocotta 4. Le borgate abusive - 5. Il Sessantotto - 6. Verso l’autunno caldo - 7. Lo
sciopero generale del 1969
capitolo sesto
79
Organizzazione della cultura
1. Nascita e crisi dell’Inu - 2. La ricostruzione - 3. Da che parte sta l’Inu? 4. «Urbanistica informazioni»
capitolo settimo
85
La fase gloriosa della sinistra
1. Il compromesso storico - 2. Le elezioni del 1975-76 - 3. Venezia rossa 4. Venezia e il degrado - 5. Il festival nazionale dell’Unità - 6. Dieci anni
nel bunker - 7. Verso un nuovo piano regolatore - 8. Il piano comprensoriale - 9. Cambiano le alleanze - 10. La politica della casa
capitolo ottavo
107
Venezia forma urbis
1. Le basi per il nuovo piano della città storica - 2. La nuova cartografia
e il fotopiano della città storica - 3. Forma urbis - 4. Interruzioni, ripresa
e prima conclusione - 5. La proposta dell’articolazione dei piani in due
componenti
capitolo nono
115
Verso il buio: Tangentopoli e Mani pulite
1. Gli anni della svolta - 2. Si affaccia l’urbanistica contrattata. - 3. Intanto, sull’abusivismo - 4. Il Pci alla testa del movimento degli abusivisti 5. La legge Galasso - 6. L’Inu: la fase del consolidamento - 7. Complicità
oggettive - 8. Il tentativo del confronto aperto - 9. La sconfitta: usciamo
dall’Inu - 10. L’associazione Polis - 11. La città sostenibile
capitolo decimo
137
Attese, tentativi, speranze, delusioni
1. Dodici parchi per il Veneto - 2. La minaccia dell’Expo 2000 a Venezia 3. Il MoSE - 4. Rendiamo vivibili le città imparando dai campi 5. Ritorno all’università - 6. La riforma del tre+due - 7. Le parole - 8. Il Pci
nella bufera - 9. Nel Pds veneziano - 10. Città storica di Venezia: il piano
distrutto
capitolo undicesimo
161
Il mestiere dell’urbanista
1. Un pensionato, libero di pensare - 2. «Micromega» e l’altra Italia possibile
- 3. Chi è l’urbanista - 4. L’urbanistica neoliberista
capitolo dodicesimo
171
Il mondo di eddyburg
1. Come nasce eddyburg - 2. Tanti cerchi - 3. La Scuola di eddyburg - 4. Sul
terreno della società - 5. L’ideologia di eddyburg
capitolo tredicesimo
179
Chi difende il paesaggio
1. L’avventura della Sardegna - 2. La pianificazione del paesaggio tra
top down e bottom up - 3. Il paesaggio percepito - 4. La sorpresa di Foggia
capitolo quattordicesimo
193
Urbanizzazione a go go
1. La mistificazione dei “diritti edificatori” - 2. La legge Lupi e il consumo di suolo - 3. Pubblico e privato nella costruzione della città 4. La perequazione urbanistica - 5. La città vivibile: per chi, e come? 6. La città come bene comune - 7. Lo spazio pubblico della città
capitolo quindicesimo
Scomparsa la politica?
213
1. Dove siamo: il “pensiero unico” - 2. La politica dei partiti non c’è più 3. La fine del Pci - 4. Qualcosa si muove sul territorio: i movimenti... 5. Il sestante e le solide scarpe - 6. Urbanista oggi
Indice dei nomi di persona
235
Ouverture
So come comincia la vecchiaia.
Tende a scomparire la forza sessuale (ma non il desiderio). Diventa faticoso salire gradini e pendii, senti dolore nei muscoli delle cosce, sebbene continui a camminare bene in piano. Se vai in salita ti manca presto il
fiato, anche se da molti anni hai smesso di fumare. Ci metti del tempo a
ricordarti che l’università di cui Dereck Drummond è decano si chiama
McGill, e che il democristiano di nome Mariano, che hai visto ogni settimana per quindici anni e con cui ti soffermi a chiacchierare in Frezzeria, di cognome fa Baldo. E quando non fai una cosa che ti piacerebbe
fare non pensi che la farai più avanti nel tempo, ma che non la farai più.
Ecco come è cominciata la vecchiaia per me.
Ormai sono in pensione, ma lavoro come prima. Mi piace il mio
lavoro: mettere insieme le cose con le parole dette e le parole scritte;
raccontare e scrivere per gli amministratori e per i ragazzi, parlando e
proponendo a proposito di città, territorio, ambiente, pianificazione.
Facendo quel mestiere che ho cominciato, quasi per caso, molti anni fa.
Ho imparato a conservare più tempo per me: a correre meno da una
città all’altra, da un impegno a un altro, da una riunione a un’intervista,
da una relazione a un articolo. Più tempo anche per i ricordi. Perché
con la vecchiaia i ricordi ritornano. E diventano importanti: non più
aneddoti che racconti per far sorridere gli amici ma ragioni di vita, possibili chiavi per comprendere te stesso. Per comprendere ciò che sei, e
ciò che avresti potuto essere se le cose fossero andate in un altro modo.
Per lasciare qualcosa di te ai figli e ai nipoti, e far conoscere a quelli
che verranno l’Italia che hai vissuto.
XIII
Ho iniziato a raccogliere i miei ricordi una decina di anni fa.
Riguardavano la famiglia e i miei primi vent’anni. Quando avviai il sito
web eddyburg li misi in rete, insieme ad altri miei scritti.
Più di un lettore mi incoraggiò a proseguire. Marina Zanazzo mi
propose di pubblicarli nelle sue raffinate edizioni. Decisi di andare
avanti e di raccontare anche i decenni successivi. Raccolsi e ordinai
un po’ di materiale ma ben presto fui travolto da altri impegni, in
particolare proprio dalla gestione di eddyburg. Ripresi in mano il
testo solo un paio d’anni fa. Ma, sollecitato anche dagli amici cui
feci leggere la prima stesura (in particolare Maria Pia Guermandi e
Vezio De Lucia, vicedirettori di eddyburg), abbandonai presto l’idea di
proseguire sulla strada di un’autobiografia “privata”. Volevo raccontare
invece gli eventi interessanti – relativi soprattutto all’ultimo mezzo
secolo – cui avevo partecipato o cui avevo assistito da vicino, come
urbanista, amministratore pubblico, docente universitario. Mi sembrava
un contributo più utile, soprattutto in una fase in cui si tende a
cancellare la memoria storica, e si impedisce ai giovani di avvalersi degli
insegnamenti che germinano dalla consapevolezza del passato.
Decisi di inserire comunque in questo libro, ormai diventato un’altra
cosa il racconto dei miei primi ricordi: con qualche sforbiciata rispetto
a quello pubblicato in eddyburg, e distinto anche graficamente dal testo,
esso costituisce il Prologo.
Nei capitoli del libro racconto invece l’Italia che ho vissuto attraverso l’occhio dell’urbanista quale ero diventato, che aveva imparato
che urbanistica non è solamente tecnica ma un mestiere che impone di
occuparsi dei tre aspetti racchiusi nella parola città: urbs, la città come
ambiente fisico della vita dell’uomo; civitas, la società che in quell’ambiente vive; polis, l’attività di governo mediante cui la società organizza il
proprio spazio.
Varie stesure si sono succedute in questi mesi, continuamente
sottoposte ad aggiustamenti e integrazioni che devo in gran parte
agli amici che mi hanno letto: oltre i citati Maria Pia e Vezio, Piero
Bevilacqua, Mauro Baioni, Ilaria Boniburini. Sono grato a tutti, anche
se non ho seguito sempre i loro consigli. Ringrazio infine Marina
Zanazzo che ha riletto il testo con cura e intelligenza critica rare, e Lidia
Fersuoch che lo ha corretto.
Nota
L’indirizzo completo del sito web di Edoardo Salzano, indicato nel testo e in nota come
eddyburg, è http://eddyburg.it. Per raggiungere i testi citati, basta digitarne il titolo nella
finestrina cerca, posta nella barra superiore di ogni pagina.
Prologo
La lunga infanzia
Nonno Armando
Non sarei nato se, nel 1884, a Caserta, il tenente del genio artiglieria Armando
Diaz avesse preso dal mazzo di chemin de fer una carta più bassa. Mio nonno
era allora ufficiale di prima nomina. La sera, quando era libero, andava al circolo
degli ufficiali, dove giocava volentieri. Quella volta era stato particolarmente sfortunato. A dispetto del suo carattere solitamente rigoroso si era lasciato prendere la mano. Un rapido conto gli aveva fatto scoprire con terrore che perdeva molto di più di
quanto avrebbe potuto pagare col suo stipendio. Di farsi prestare i soldi, neanche a
parlarne. Prese una decisione difficile: – Gioco un’ultima mano: se perdo, mi brucio
le cervella, se vinco, non tocco più una carta –. Vinse, per fortuna, e visse. Quarantasei anni più tardi, nacqui io. A Napoli, in casa.
La casa era molto bella. Una specie di villa urbana, di forma molto allungata;
occupava tutto il lotto tra corso Vittorio Emanuele (la lunga strada panoramica a
mezza costa che attraversa Napoli da Mergellina al Museo) e via Torquato Tasso
(che si arrampica verso la collina del Vomero). Due piani, più un vasto scantinato;
un cortiletto a un estremo, un giardinetto con una grande palma all’incrocio tra
le due strade; entrambi racchiusi da un’alta cancellata nera. Lì abitavano i miei
nonni Salzano, mia zia Giannina, i miei genitori: Mauro Salzano e Anna Diaz.
Si erano sposati nel 1929, un anno dopo la morte di Armando. Sontuosi entrambi,
i funerali e le nozze. Soprattutto il funerale, a Roma. Mio nonno, oltre a vincere la
grande guerra (così ero stato abituato a pensare, e c’era del vero), era stato ministro
della Guerra nel primo gabinetto Mussolini, con l’ammiraglio Thaon de Revel
(un altro “vincitore”) alla Marina militare. E poi, era “cugino del re”, in quanto
maresciallo d’Italia e insignito del Gran Collare dell’Annunziata, la più alta onorificenza del Regno. Il trasporto funebre era un affusto di cannone (lo stesso sul quale
era stato trasportato il Milite ignoto), trainato da otto cavalli neri. Dalla abitazione
XV
XV
prologo
romana di via Giambattista Vico (su piazzale Flaminio), il corteo lo condusse
prima alla vicina chiesa di Santa Maria del Popolo, dove si svolse la cerimonia funebre, poi all’Altare della Patria in Piazza Venezia, dove si alternarono a vegliarlo
i grandi decorati di tutte le armi, infine a Santa Maria degli Angeli dove, in una
monumentale tomba in marmo di Verona scavata nel pavimento della chiesa e contornata da una balaustra di ferro, fu infine tumulato il suo corpo imbalsamato.
Era molto popolare mio nonno. Lo è ancora, non foss’altro che per il Bollettino della Vittoria, con il quale annunciò la disfatta generale dell’armata austriaca
sul fronte orientale, il 4 novembre 1918. Il Bollettino (che mi toccò imparare a
memoria) è esposto ancora oggi, inciso su marmo o bronzo, in moltissimi municipi
grandi e piccoli, in tutte le caserme e nelle numerose scuole che portano il suo nome.
Era popolare allora non solo perché aveva vinto la guerra, ma anche perché il suo
carattere aveva fatto di lui un capo amato dai soldati tanto quanto invece Cadorna,
che l’aveva preceduto nel Comando supremo, era odiato.
A differenza di Cadorna, rigido e severo ufficiale di chiusa – e forse un po’ ottusa – obbedienza piemontese, il giovane generale Diaz curava con molta attenzione
il “fattore umano”. Forse anche perché era napoletano, di antica prosapia spagnola
(i suoi avi erano sbarcati nella capitale del Sud nel xvii secolo con Carlo iii di Borbone), abituato a temperare la severità dell’ufficiale con la bonomia tradizionale dei
governanti meridionali.
A Cadorna, noto per la severità con la quale aveva comandato la fucilazione dei
soldati in fuga durante la disfatta di Caporetto, era subentrato il napoletano Diaz
che raccomandava ai soldati (mi raccontava nonna Sara) di acquattarsi durante i
bombardamenti nelle buche delle granate perché il calcolo delle probabilità le suggeriva
come luogo più sicuro. All’attenzione del morale dei soldati, come alla capacità di lavoro collegiale e alla illuministica razionalità con la quale affrontava i problemi si deve, secondo gli storici, il suo successo di ribaltare in un anno la sconfitta di Caporetto.
Insomma, dopo la guerra era popolare: lo era di per sè, e lo era perché alla Real
Casa (come più tardi al Fascio) conveniva utilizzare la sua immagine come elemento
di coesione sociale e come lustro dell’unità nazionale, in quel periodo attraversata
dalle tensioni del “sovversivismo”. Dopo la firma del trattato di Versailles, Diaz fu
“utilizzato” anche per consolidare il prestigio del Regno all’estero: fece viaggi ufficiali
in numerosi paesi stranieri, dai quali riportò cimeli che, anni dopo, colpivano la mia
fantasia di bambino: uno splendido costume di cuoio da capo pellirosse con un lungo
copricapo di piume di avvoltoio, indossato in una fotografia in cui scambiava il calumet della pace con un capo autentico, della tribù dei Crows.
Non lo conobbi: era morto da due anni quando nacqui. Me ne parlava mia nonna, Sara De Rosa, napoletana anch’essa. È lei che mi raccontò della scommessa al
gioco («da allora non mi ha aiutato neppure a raccogliere le carte del solitario», mi
diceva), e di qualche altro aneddoto della loro vita. La prima scintilla del loro amore
scoccò forse a Portici, nel “miglio d’oro” alle pendici del Vesuvio, dove la famiglia
XVI
prologo
di nonna Sara andava in villeggiatura. Un giorno, alzatosi dopo il pranzo nel corso
del quale Sara aveva dovuto contenersi (non era bene che le signorine di buona famiglia mostrassero troppo appetito), Armando, che era uscito in giardino a fumare
il sigaro, la scorse dalla finestra mentre mangiava gustosamente un peperone ripieno.
«Buon appetito, donna Sara», pare le abbia detto scherzosamente.
Certo è che tra i due c’era una grande intesa. Memorabili in famiglia erano le
lettere che si scambiavano quando lui era al fronte, l’intelligenza con la quale Sara
lo consigliava e aiutava nei rapporti politici e in quelli di corte. Non ricordo che mi
abbiano parlato molto di questo, però. Forse perché ero bambino (nonna Sara morì
quando avevo sedici anni). O forse perché, essendo bambino, ricordavo solo le storielle che mi interessavano. Come quella, che mi dava molto gusto, della “pesca a corte”.
Quando si mangiava alla tavola del re (Vittorio Emanuele iii), appena il sovrano
aveva terminato il suo pasto nessuna forchetta, coltello, cucchiaio, bicchiere poteva
agitarsi: tutti dovevano concludere, e posare il tovagliolo. Sara Diaz De Rosa stava
mangiando una bella pesca, continuò a sbucciarla (con forchetta e coltello, naturalmente). Fulminata dagli occhi dei presenti, arrossì, fece cadere le posate nel piatto.
Il re l’apostrofò sorridendo: «Continui pure, donna Sara, sarebbe un peccato lasciare
una pesca così bella».
Mia madre era molto legata ai suoi genitori, come del resto i suoi fratelli Marcello
e Irene. Ci teneva a ricordare che quando Armando fu colpito dall’infarto che lo
condusse rapidamente alla morte fu lei a correre alla ricerca del sacerdote che gli diede
l’estrema unzione. E mia nonna ricordò quell’evento regalando alla figlia una fotografia di Armando Diaz, a mezzo busto e in grande uniforme, racchiusa in una vistosa
cornice d’ebano e tartaruga, attraversata da una scritta vergata a mano dalla sua
larga grafia: “Ad Anna che nel momento supremo procurò a Lui l’aiuto divino”.
Napoli dalla mia finestra
Quella fotografia era sempre in evidenza, nella camera da letto di Anna, in tutte le
case che abbiamo abitato. Bella era la camera della mamma, nella casa di Napoli.
Occupava uno dei due angoli della casa volti verso il mare: l’altra, all’estremo opposto, era la camera dei nonni. Grande, luminosa, sia per il damasco giallo alle pareti,
sia per le tre ampie finestre sul golfo. La mia camera era quella accanto, e guardava
sullo stesso panorama.
Un panorama splendido, così lo ricordo. E vedere Napoli oggi, confrontata
con quella della memoria, è cosa che ogni volta mi fa soffrire. Intendiamoci, ancor
oggi esso è bellissimo. L’ampio specchio di mare, concluso a occidente dalla penisola
sorrentina e dall’isola di Capri (entrambe azzurrine nelle ore più calde della lunga stagione del sole e dell’azzurro; verdebrune di campagna, solcate dalle stradine
e disseminate dai bianchi granelli delle case lontane nelle ore in cui la visibilità
XVII
prologo
è maggiore; grigie e confuse con le galoppanti nuvole nei giorni delle tempeste d’inverno),
sovrastato dalla mole bonaria del Vesuvio (che ricordo con il pennacchio di fumo e, la
notte, rosseggiante alla bocca per la lava eruttante), solcato dalle vele, dalle barche
dei pescatori, dalle navi. La superficie delle acque cangiante nelle stagioni e nelle ore,
scintillante e screziata di sole nelle numerose belle giornate, oppure cupa e agitata nel
grigiore delle nuvole trascinate dal vento, oppure ancora pesante e immobile come una
coltre azzurra sotto l’afa del solleone. Questo c’era allora, e c’è ancora. Forse un po’
più torbido, per l’inquinamento dell’aria offuscata e avvelenata dallo smog urbano.
Quello che non c’è più è la verdeggiante collina di Posillipo, protesa sul mare,
allora appena punteggiata dalle sagome di qualche villa e della Tomba di Schilizzi
(il mausoleo virgiliano: una buffa costruzione grigia sormontata da una cupola).
Quello che non c’è più è la campagna scoscesa di Villanova, la costa che collega
Posillipo alla collina del Vomero, alle spalle della nostra casa. Alle rare costruzioni
che nulla toglievano al carattere agreste di quelle parti della città (la grande villa
Patrizi, la chiesetta di Sant’Antonio sopra Mergellina, gli sparsi e radi casolari,
le ville signorili di Posillipo), alla campagna coltivata di vigne e ortaggi, si sono
sovrapposte le orribili costruzioni realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta dagli
improvvidi distruttori del più bel paesaggio del mondo: pseudoville, condomini, palazzine, viali e vialetti, muri di sostegno e muri di suddivisione dominicale. Una
squallida periferia progettata e realizzata con la medesima cultura rapace e cretina
che ha costruito le periferie delle tristi città di pianura: lì, seppellendo sotto palazzi e
casette le risaie abbandonate e i terreni divenuti incolti “in attesa di valorizzazione
edilizia”; qui, dove la natura aveva sorriso per secoli, sommergendo ogni cosa sotto
un succedersi di lottizzazioni di cui soltanto i nomi ricordano, con triste ironia, ciò
che c’era prima: Parco Làmaro, Parco Comola, Parco Ottieri, si chiamano ancora
quegli insediamenti parassiti.
“Le mani sulla città” hanno distrutto per sempre il paesaggio della mia infanzia:
lo hanno sepolto sotto una «repellente crosta di cemento e asfalto», per adoperare le
parole di Antonio Cederna. Della sua bellezza rimane in me, fortissimo, solo il
ricordo e, naturalmente, il rimpianto.
La casa del Corso
La casa del Corso era grande. Dal cortile posto a un capo del lotto si saliva una
dozzina di gradini, e si entrava in un ampio androne coperto a botte. Varcata una
porta sorvegliata dal cameriere, si accedeva a un grandissimo atrio che occupava un
quarto dell’intera superficie della casa. In fondo, una grande scala a tenaglia con
ringhiera di ferro battuto dorato e bronzeo portava al piano superiore. Il soffitto,
sorretto da quattro grandi colonne scure, era tappezzato di blu. In fondo alla sala,
al di là dello scalone, un bagno di marmo bianco e lo studio del nonno. L’atrio e lo
XVIII
prologo
studio occupavano quasi tutta la parete verso monte; quella verso il mare era una
fuga di saloni: la sala da pranzo, con l’immenso tavolo finto Rinascimento e grandi
quadri con nature morte di fiori e frutta; il fumoir, con il classico caminetto finto
e morbide poltrone in pelle; il “salottino veneziano” verde e oro; in fondo, il salone
da ballo Luigi xiv, bianco e oro. Accanto alla sala da pranzo, il “riposto” con il
grande armadio delle stoviglie e il montacarichi collegato alla cucina.
Non sempre noi bambini (dopo di me, cadenzate di due anni, erano nate le mie
sorelline Litta e Germana) mangiavamo in sala da pranzo, e raramente frequentavamo i saloni: salvo che a Natale, quando l’albero, circondato dai regali, troneggiava
nel salone da ballo; oppure quando i genitori chiamavano qualcuno di noi a salutare
gli ospiti, facendoci esibire nella canzone patriottica di turno. I luoghi a noi riservati
erano al piano di sopra. A un estremo della casa c’erano le stanze dei miei genitori:
la grande camera da letto di damasco giallo, la stanza da toilette (con gli armadi a
muro in stile veneziano, la toilette della mamma, il sofà per le sedute di bellezza),
il grande bagno, lo studio di mio padre. Al capo opposto, l’appartamento dei nonni
e di zia Giannina. Al centro, in corrispondenza del vano della scala e del ballatoio
che la fiancheggiava, le nostre stanze. Sul lato a monte della casa, il guardaroba, il
nostro bagno, un cucinino.
Ma ciò che soprattutto mi affascinava era lo scantinato dove c’erano le cucine.
Una piccola scala, a fianco di quella principale, conduceva nel vasto dominio condiviso da nonna Carmela, dal cuoco Luigi Massaro e da Nannina, protetta e confidente
della nonna. Mitico era don Luigi. Ogni volta che uscivo gli lanciavo uno sguardo
e un saluto dalle finestre inferriate a filo di marciapiede. Piccolo di statura, asciutto,
grigio di capelli, sovrastato dall’alto cappello immacolato, Luigi regnava, aiutato da
uno sguattero, nella grande cucina: sull’immenso tavolo di marmo tagliava, batteva,
impastava, scorticava, sventrava, disossava, farciva; nell’acquaio di marmo lavava le
verdure, i pesci, le carni; finalmente, sui numerosi fuochi del lungo piano di cottura,
alimentato dalla brace sempre rosseggiante, governava sulle pentole scoperchiando,
mescolando, agitando, assaggiando, aggiungendo sapori e odori, spostando dal fuoco
più vivo (là dove il piano di ghisa della cucina si apriva sulla brace) ai luoghi più
lontani. Un maestoso mortaio di marmo, appoggiato al suo trespolo di legno massiccio, subiva i colpi del pesante pestello sbattuto dallo sguattero per preparare le scorte
di pangrattato, oppure per pestare la carne di pollo con la quale, mischiata con una
densa béchamel, venivano preparate a bagnomaria le chinelle di pollo, la mia pietanza preferita.
Era un cuoco d’alto lignaggio, don Luigi. Era stato chef sui transatlantici, e
dalle lontane terre oltre oceano aveva riportato un pappagallo di nome Loreto. Non
abitava con noi. La sua casa, che divideva con la moglie e con Loreto, era sul
Corso, più avanti, verso la fermata della ferrovia cumana. Ma spesso, prima di
tornare a casa, si fermava nel cortile a fumare una sigaretta con il cameriere o con
l’autista. Allora poteva essere interpellato, e declamava massime piene di saggezza.
XIX
prologo
– Don Luigi, come finisce la guerra, chi vincerà? – gli chiesi in un’estate del luglio
1941. – Signuri’, tra i vinti non ci saranno i vincitori –. La Sibilla cumana non
avrebbe potuto essere più abile.
I coloni e Vicienzo Ucciero
La cucina era alimentata dalle cantine, altro luogo essenziale dello scantinato. Occupavano la parte verso monte, sbarrate da pesanti cancelli, che nonna Carmela
chiudeva con un gigantesco mazzo di chiavi sempre pendente dalla cintura. Non so
bene cosa vi fosse riposto: ricordo solo le forme, grandi e piccole, di rossa, trasparente
e tremolante cotognata, che profumava nei primi mesi dell’inverno, i formaggi, le bottiglie nelle rastrelliere, i mucchi di patate, i grandi barattoli dalla bocca tappata con
la carta oleata e lo spago.
E ricordo come le cantine venivano approvvigionate: due volte all’anno arrivavano, sui barrocci o a piedi col carretto (o con il mulo), i contadini che conducevano a
colonìa parziaria le numerose proprietà del nonno: piccoli appezzamenti di fertile orto o frutteto nei paesi confinanti (Afragola, Casoria, Giugliano, Qualiano, Vico di
Pantano), per l’uso dei quali i coloni pagavano un canone (l’estaglio) corrisposto parte in moneta e parte in natura. Varcata la porta di servizio le coppie di contadini si
dividevano: l’uomo andava su, nello studio, dove don Achille Di Santo, ragioniere
e contabile di nonno Eduardo, riempiva di minuta grafia un grande registro annotando la quantità di banconote rossicce che i coloni estraevano da logori portafogli e
dai penetrali della biancheria, e i prodotti affluiti nelle cantine. Qui nonna Carmela
e Nannina ricevevano le donne, e contavano e sistemavano le galline, i capponi e i
tacchini collocandoli in una grande stia, i conigli (che venivano subito trasferiti alle
competenze di don Luigi), i sacchi di fagioli, di grano e granturco, le pannocchie, le
cassette di pomodori, melanzane, peperoni, carote, sedani, cavolfiori, trecce d’aglio,
cotogne, mele annurche e renette.
Un personaggio importante era Vicienzo Ucciero, mezzadro di Vico di
Pantano (l’odierna Villa Literno). A Vico di Pantano c’era la più grande delle
nostre proprietà: due o trecento ettari di palude, tra il Volturno e il lago Patria.
Luogo di grandi battute di caccia (ricordo le fotografie in cui massicci signori baffuti, con lunghi schioppi, esibivano colline di uccelli e sorreggevano ghirlande di
anatre e altri pennuti), e di bufale. Vicienzo era il bufalaro. Sempre con la febbre
terzana, amministrava bufale, mucche e qualche moggio (tre moggi sono un ettaro)
di campagna coltivata a fagioli e ortaggi. Aveva anche una grande fossa circolare
nella quale si buttava il mangiare per i conigli, carote e altre prelibatezze: quando
poi era necessario, si abbassavano le piccole saracinesche che chiudevano le gallerie
d’accesso, e si prelevava dalla fossa il coniglio da cucinare, o la coppia da dare alla
Signora (mia nonna).
XX
prologo
Non tutte le derrate venivano conservate a lungo. Una parte si trasformava in
conserve, altre venivano consumate (subito o previa frollatura), oppure veleggiavano
verso altri lidi. Avevano diritto a due capponi o a una dozzina di polli, a mezzo
sacco di fagioli o a un paio di conigli, a un tacchino o a un canestro di mozzarelle di
bufala tutte le persone che durante l’anno avevano collaborato con la Casa: i medici
e il pediatra Franzì, il dentista D’Ambrosio e le sarte Buonanno, la maestra privata Martini e la manicure della mamma, l’infermiera che veniva a fare le iniezioni e
la signora Crisafo che m’insegnava il francese, le sorelle La Morte che venivano tutte
le settimane a rammendare e sistemare i vestiti, e la stiratrice. Quantità più sostanziose di prodotti venivano consegnate alle Piccole suore dei poveri, ai beneficati del
parroco della chiesa dell’Arco Mirelli, alle Dame di San Vincenzo dei Paoli.
La famiglia Salzano di Casoria
Era una famiglia benefica, ed era una famiglia ricca. Come lo era diventata? Il luogo d’origine dei Salzano era Casoria, un grosso borgo agricolo, dagli anni Cinquanta inglobato nella periferia di Napoli, subito al di là dell’aeroporto di Capodichino
(una parte del quale fu costruito su terreni Salzano, indennizzati dopo decenni di
vertenze). Famiglia di origine contadina fino a inizio Ottocento, era diventata poi
di mercanti o artigiani, secondo i racconti di zia Giannina produttori e mercanti di
vino. Borghesia laboriosa di campagna, ma già aperta a interessi urbani: i fratelli
Eduardo e Mattia, i prodotti migliori di una covata di sette tra fratelli e sorelle,
furono mandati alla celebrata scuola napoletana dei Padri Barnabiti. Abitavano
in un dignitoso palazzo, costruito da un Mauro Salzano attorno alla prima metà
dell’800 nella strada principale.
Senza abbandonare le radici paesane (il palazzo rimase di loro proprietà
fin dopo la seconda guerra mondiale) all’inizio del nuovo secolo si trasferirono a
Napoli, in un palazzo costruito da un Salzano (Mauro o Eduardo) in via San
Domenico Soriano, vicino a piazza Dante. Mio padre e sua sorella Sisina, rispettivamente del 1902 e 1903, nacquero a Casoria; zia Giannina fu la prima a
nascere a Napoli, nel 1907.
L’artefice della fortuna di famiglia fu, all’inizio del secolo, il mitico zio Mattia,
fratello di Eduardo: ingegnere, abile imprenditore, in società con tale Gaetanino
D’Aniello (di una benestante famiglia di Villaricca, altro borgo della campagna
napoletana) mise su un’impresa di costruzioni specializzata in lavori di bonifiche e di
grandi infrastrutture, nel Napoletano e nel Foggiano. Mattia morì di febbre spagnola
nel 1918. Da allora, dell’impresa di famiglia dovette occuparsi Eduardo, mio nonno.
Mio nonno però non era tagliato per gli affari. Laureato in medicina, esercitava
la professione di chirurgo all’Ospedale dei Pellegrini (una qualificata istituzione di
beneficenza della nobiltà napoletana), dove divenne assistente del famoso chirurgo
XXI
prologo
Caccioppoli, fratello del grande matematico Renato. Ma la chirurgia era un’attività
sociale e benefica: il reddito, e la principale occupazione, erano le terre e l’impresa.
In vacanza, Eduardo portava la famiglia a Capri, isola frequentata dalla famiglia Salzano fin da prima della guerra ’14-’18. Alloggiavano all’Hotel Quisisana.
La famiglia Diaz invece – anche Armando era innamoratissimo di Capri – affittava sull’isola una villa. Fu a Capri che le due famiglie si conobbero: le bambine
Giannina, Sisina, Irene e Anna esploravano le campagne e le marine dell’isola,
allora frequentata solo da pochi turisti, come Turgeniev e Gorki, e dai soci dei circoli
nautici che si spingevano fin lì nelle gite con il cutter. Più raramente, i Salzano villeggiavano in montagna, soprattutto a Cortina d’Ampezzo, dove diventarono amici
di Alberto Pincherle, poi noto come Moravia. Le leggende familiari lo raccontano in
flirt con zia Giannina.
Non ricordo molto di nonno Salzano. La sua presenza gioviale e vociante, il suo
affetto ruvido ed espansivo, i suoi munifici regali e il suo spiccato accento napoletano
(dal quale la mamma mi teneva lontano, per evitare che inflessioni poco eleganti
inquinassero il mio eloquio in formazione) mi accompagnarono solo fino ai cinque
anni. Nel 1935 un colpo apoplettico lo portò via all’improvviso.
Non ricordo i suoi funerali: forse i bambini non vi erano ammessi. Furono
certo grandiosi. Dovette accompagnarlo una vastissima corte di persone dei ceti più
diversi, legate al suo ricordo (e ai suoi redditi) dalla sua trasbordante generosità.
La sua morte concluse una fase della vita della famiglia e ne aprì un’altra, posta
sotto un diverso segno: non il corno ridondante dell’abbondanza e del fasto, del lusso
e della generosità scialona, ma la bilancia della parsimonia, la severità dignitosa di
un benessere difeso con accortezza e, quando le vicende della Storia lo richiesero, con
sacrifici e rinunzie.
Fino alla morte di nonno Eduardo, suo figlio Mauro – mio padre – non aveva
mai lavorato. Il nonno l’aveva tenuto lontano dagli affari. Laureato in giurisprudenza, Maurino aveva ottenuto la libera docenza grazie ad alcuni studi, pubblicati
dall’editore Loffredo, sul “negozio giuridico” e sulla “pubblica amministrazione.”
Il suo ruolo nella vita mondana si era consolidato con il matrimonio con Anna Diaz,
figlia del duca della Vittoria e legata alla famiglia reale. Fascista come lo erano rapidamente diventati quelli della sua generazione e della sua classe, apparteneva a quella cerchia di persone che, senza esercitare direttamente potere, né politico né economico, contribuiva però a formare l’immagine, la prima fascia del consenso, l’opinione,
la cultura, le parole del regime. A formare una certa fronda, anche. L’aristocrazia
napoletana gravitava infatti attorno alla corte di Umberto di Savoia e di Maria José,
vicina all’ala intellettuale dei Ciano e dei Bottai.
Il confine tra mondanità e impegno sociale era labile, seppure esisteva. Non so
se contassero di più per Mauro la sua carica di presidente dell’Opera nazionale balilla di Napoli oppure il suo carisma di spadaccino, di velista, di dirigente di mitici
circoli nautici, di ballerino nelle feste che, con la mamma, organizzava nella casa
XXII
prologo
del Corso o a villa Diaz. Mammà era sempre al centro: spiritosa, brillante, elegante,
era davvero “molto chic”. Aveva dei bellissimi capelli castani con sfumature rosse,
che ravvivava con l’henné. Amica fin da bambina dei Salzano, ne temeva, come ho
detto, il dialetto e non amava che, quando andavo a salutare nonna Carmela, lei mi
prendesse nel letto.
Formavano una coppia molto bella, i miei genitori e avevano moltissimi amici:
Gino e Didina Santasilia (che abitavano in uno splendido palazzo in piazza dei
Martiri), la baronne Anna Ricciardi, Gigione (che mi cantava “O capitan, c’è un
uomo in mezzo al mare”), i più anziani Marcello Orilia (arbiter elegantiarum:
ordinava le camicie a dozzine a Londra, dove andava ogni anno per rinnovare il
guardaroba), Ettore Ricciardi, i baroni di feudi calabresi Baracco e Compagna, e
tanti altri che costituivano la crema dell’aristocrazia napoletana. Il salotto di casa
del Corso era molto frequentato, ma le feste più belle venivano organizzate d’estate,
a villa Diaz, sul Vomero.
Villa Diaz
Un grande edificio bianco, immerso nel verde di un grande giardino che, limitato da
una lunga balaustra bianca, si apriva sul golfo di Napoli. Questa era la villa che
la città di Napoli aveva donato al “generalissimo” per le sue vacanze, dopo averne
decretato il trionfo. (Per il vero, avevano deciso di regalargli una villa a Posillipo, ma
lui ne aveva preferito una al Vomero). Era alle spalle della casa del Corso, a soli
cento metri a monte; probabilmente faceva parte in origine del complesso neoclassico
della grande e famosa villa Floridiana.
Quando, d’estate, ci trasferivamo lassù (con i genitori, le sorelline, le governanti),
scendevo, appena grandicello, attraverso gli orti, i sentieri, le scalette e in dieci minuti
ero al Corso. Ricordo ancora il sapore dei pomodori colti al volo: un sapore scomparso, mai più ritrovato, cancellato dall’omologazione delle colture artificiosamente
allontanate dalla natura, dalla stagione e dal sito, tramite il massiccio impiego della
chimica e dei teli di plastica.
Grandi feste si svolgevano a villa Diaz, d’estate, coronate da un finale di fuochi
d’artificio. Ricordo le signore che, accompagnate dalla mamma, venivano a vederci
nei nostri lettini, prima che ci addormentassimo. Erano feste alle quali partecipavano il principe ereditario Umberto di Savoia e Maria José, la sua alta moglie dagli
occhi cerulei.
Per me villa Diaz significava soprattutto il grande giardino e i giochi estivi.
Pochi erano i miei amici, rare le loro visite. Ma mi divertivo molto a giocare con la
terra dei vialetti e l’acqua che facevo colare dai rubinetti per l’irrigazione, costruendo
col fango argini e canali. Mi arrampicavo sui lecci dai tronchi rugosi, su cui costruivo rifugi segreti in attesa della merenda o della passeggiata.
XXIII
prologo
E mi divertivo – ma ero più piccolo – con il capitano Gamboni Mazzitelli.
Così si chiamava l’inquilino dell’ultimo piano della villa, affittuario di zia Irene,
sorella di mia madre (a quest’ultima era toccato il piano di mezzo, a zio Marcello,
il terzo dei figli Diaz, il piano rialzato e lo scantinato). Capitano di lungo corso in
pensione, molto vecchio (aveva probabilmente l’età che ho adesso io), era abilissimo
con gli attrezzi di falegname. Mi aveva costruito una daga e uno scudo, accuratamente verniciati, e altri armi per guerreggiare. Ricordo che una volta, mentre duellavamo,
si ferì a una mano e perse (così mi sembrò) molto sangue.
Quando nonno Eduardo morì (nel 1935) mio padre scoprì che tutto era andato
a rotoli. La crisi del 1929 aveva picchiato duro, e nonno Eduardo aveva cercato di
nascondere e di aggiustare la realtà: l’indebitamento era molto consistente. Papà e
nonna Carmela chiesero consigli autorevoli. Fu consultato anche Raffaele Mattioli,
il famoso banchiere e mecenate, fondatore della Banca Commerciale, ma anche dei
Classici della letteratura italiana delle edizioni Ricciardi. Mattioli consigliò di dichiarara fallimento, per tentare di salvare qualcosa. Maurino non volle. Gli sarebbe
sembrato di tradire la memoria del padre, di svergognarlo dopo morto. S’incaponì.
Fece ogni sforzo per tacitare i debitori, vendendo quello che poteva e riprendendo l’attività dell’impresa. In poche settimane i suoi capelli, da neri quali erano, diventarono
grigi. Non aveva ancora quarant’anni.
Le mie educatrici
Ero un bambino molto “perbene”: si occuparono di me una bambinaia di Olevano
Romano – balia Nunziata – quando ero piccolo; una governante tedesca – schwester Maria Simon – dopo i cinque anni; una signora ginevrina, madame Crisafo
(sposata a un cuoco italiano) mi veniva a prendere il mercoledì pomeriggio e mi portava a spasso insegnandomi il francese. Frère Jaques e i libri di Madame de Ségur,
i libri della Scala d’oro, Struwelpeter (così si chiamava in tedesco Pierino il porcospino), le favole di Grimm, Perrault e La Fontaine e le canzoncine dei bambini
tedeschi (mi commuoveva soprattutto Roselein rot, un leed di Schiller e Schubert)
sono stati i primi alimenti della mia cultura letteraria plurilingue.
La mamma era vicina (dormivo nella stanza accanto alla sua), ma lontanissima.
La mattina potevamo andare a salutarla, nel suo grande letto di damasco giallo, solo
quando eravamo chiamati dal suo campanello. La sera, veniva lei a salutarci di ritorno dai salotti che con papà frequentava. Buono e dolce era il suo profumo odoroso di
mughetto, Arpége di Lanvin; gradevole e pungente l’odore dello smalto con cui curava le unghie, sdraiata sul canapè della toilette. La severità di schwester Maria era
un prolungamento della sua, ma in lei c’era una morbida dolcezza, concessa con prudenza e ironia. Con troppa parsimonia rispetto al mio bisogno, come capii più tardi.
Papà era più distante; probabilmente, anche più occupato. Era accanto alla
XXIV
prologo
mamma, ma in secondo piano. Mi sarebbe piaciuto seguirlo quando faceva (non
so in che modo) il comandante dei Balilla: ragazzi appena più grandi di me, che
raramente intravedevo. Mi sarebbe piaciuto salire a bordo della sua favolosa barca a
vela, la Silphea ii, un cutter col fasciame di mogano di cui potevo solo ammirare il
modellino (fu venduta dopo la crisi).
Ma fino ai cinque anni ero troppo piccolo per queste cose. E, dopo di allora, la
crisi doveva aver cambiato le abitudini: benché noi bambini non ce ne fossimo accorti,
la vita era diventata più seria, meno giocosa.
Dalle parole di balia Nunziata cominciai a conoscere l’Amore: compariva nelle
canzonette che canterellava quando mi accompagnava ai giardini (“Parlami d’amore,
Mariù, tutta la mia vita sei tu...”), nelle chiacchiere con le altre bambinaie, negli
scherzi che faceva con noi. Non avevo ancora cinque anni quando mi innamorai
di Giovanna Pignatelli, che ne aveva tre, andava ancora in carrozzina e aveva dei
lunghi boccoli biondi.
Avevo sette, otto anni quando, un pomeriggio d’estate, mentre scendevo la lunga
gradinata che dal Vomero conduce al corso Vittorio Emanuele, ebbi una improvvisa
illuminazione: pensai che l’Amore era il pensiero centrale di tutti, uomini e donne.
Perché mi balenò così intensamente questo pensiero? Non riesco a ricordare. Ma
ricordo che mi colpì con l’evidenza di un profumo intenso e indiscutibile: ebbi la sensazione di aver raggiunto una verità che fino ad allora non avevo colto.
Giochi
Giocavo molto da solo: credo che capitasse spesso ai bambini “perbene”, che non
fossero forniti di una banda di fratelli. Le sorelline erano piccole ed erano femmine:
due buone ragioni per condurre vite completamente diverse. Ricordo, da piccolissimo,
un gioco amato, una grande cucina per bambini, con le provviste vere – lenticchie,
pastina – portate da don Luigi, forse premio di consolazione dopo qualche malattia.
Ricordo una sciabola di latta e un cappello da bersagliere sotto l’albero di Natale del
1934 e una bellissima bicicletta rossa, dono di zio Marcello, alla Pasqua dell’anno
successivo. Ricordo infine una macchinetta che, mossa da uno stantuffo premuto dal
pollice, emetteva tutte le scintille che una pietra focaia può produrre, e riusciva a illuminare gli angoli bui della stanza.
Era simpatico Marcello Diaz, duca della Vittoria per eredità; un avventuroso,
un pilota, volontario nella guerra d’Abissinia, dove il suo aereo fu abbattuto, e nella
guerra di Spagna (su una carta geografica io registravo, con bandierine patriottiche,
le città conquistate dalle camicie nere). Si era fatto dare una concessione in Somalia,
a Derna, dove coltivava banane. Arrivava sempre pieno di regali generosi e strani.
Era quello che mi trattava più da grande, sia pure sfottendomi bonariamente.
La domenica, zia Giannina mi portava a catechismo, dalle suore del Sacro
XXV
prologo
Cuore, in piazza Amedeo. Tornando a casa mi comprava il «Corriere dei Piccoli»,
che leggevo avidamente. Erano buffe le suore, avvoltolate nei veli neri, con le dita
fredde che sporgevano dai mezzi guanti. Era buono il caffellatte nelle grandi scodelle
bianche, e il pane e cioccolata che ci davano dopo la comunione.
I primi anni ho studiato a casa. Ogni mattina veniva la signora Martini: una
volta alla settimana controllava e correggeva i compiti, firmando le pagine con la matita rossa o con quella blu. Al colore della firma corrispondeva l’entità del premio
che mi dava il nonno: due lire per la firma rossa, cinque lire per la firma blu.
Quando avevo finito di studiare mi era permesso di andare ai giardinetti, al di
là della strada. Erano giardinetti privati, per gli ospiti dei due vicini alberghi, il
Britannique e il Parker.
Il giardinetto del Parker fu in definitiva il mio primo esperimento di socializzazione; guardie e ladri, nasconderella, e cerimonie rituali di impiccagione e squartamento delle bambole delle bambine erano i giochi consueti. A rivedere oggi quel
giardinetto (poco più di un’aiuola, qualche albero e radi cespugli) sembra incredibile
che per noi potesse essere un’arena così vasta.
Quello che c’era fuori di casa e del suo cortiletto, del giardinetto del Parker, delle
passeggiate controllate e protette dalla balia, dalla schwester o da madame Crisafo,
era sconosciuto e rischioso. Anche affascinante, a volte: peccato che i bambini come
me non potessero attaccarsi al paraurti posteriore dei tram sferraglianti, e neppure
far arrabbiare il conducente mettendo i fulminanti tra ruota e rotaia oppure, addirittura, staccando il trolley e provocando l’arresto del tram. Neppure il carruoccio era permesso: quel carretto costruito con un rozzo pianale di legno, quattro cuscinetti a sfera come ruote (le due davanti montate su un asse incernierato al pianale
e comandato da una funicella a mo’ di timone), con il quale i monelli si lanciavano
in spericolate corse lungo le discese, tra i carri e le automobili.
D’estate, ci portavano al mare. Ricordo il viaggio verso Lucrino, una grande
spiaggia pulitissima e deserta, subito al di là della collina di Cuma. Percorrevamo
a piedi un pezzo del corso, fermandoci alla drogheria Stinca a comprare le caramelle,
e raggiungevamo, subito dopo la casa di Luigi Massaro, la stazione della Ferrovia
cumana. Era divertente guardare dal finestrino il paesaggio prima urbano poi, dopo
Pozzuoli, aperto sulla baia. Come tutti i bambini, raccoglievamo conchiglie, facevamo i castelli di sabbia, prendevamo il bagno nelle ore stabilite e ci facevamo asciugare
con grandi lenzuoli di spugna. Più tardi, su quella spiaggia fecero arrivare la grande
cloaca che portava i liquami delle fogne napoletane.
Qualche volta andavamo a villa Pavoncelli, a Posillipo: un luogo dove sarei
tornato spesso da adulto. Era una villa di amici. Una serie di scalette e corridoi
umidi ci portava giù, alla spiaggetta contenuta tra il muro di sostegno della villa e
una breve scogliera, nei cui anfratti, mormoravano, si celavano grandi ranci felloni
(i granchi pori). Lì, schwester Maria mi insegnava a nuotare, con teutonica regolarità. Indossava un costume olimpionico nero. Al polso conservava l’orologio. All’ora
XXVI
prologo
stabilita scendevamo in acqua, nuotavamo con lente bracciate per un numero esatto
di minuti, poi tornavamo indietro.
Noi bambini stavamo in un angolo della spiaggia. Altrove, sulla sabbia e sulla
scogliera, chiacchieravano e giocavano i grandi, salutavano festosi gli amici che arrivavano a nuoto provenienti dalla barca a vela giunta dal Circolo, si cimentavano in
grandi gare di palla a nuoto, nelle quali, come al solito, mia madre eccelleva.
Altre volte, ormai più grandicello, mammà mi portava a villa D’Avalos. Lì non
c’era spiaggia: una banchina di cemento, e scogli. Meno bambini, più giovanotti e
ragazze. I D’Avalos erano una famiglia colta, grandi appassionati di musica. Francesco, mio coetaneo, diventò più tardi un famoso direttore d’orchestra e compositore.
Ammiravo molto questo ragazzo che sapeva riconoscere autori e stili diversi, valutare
cantanti, parlare di opere e di sinfonie con i grandi.
Dalla terza elementare cominciai a frequentare una scuola. Si trattava del Pontano, la celebre scuola privata dei Gesuiti dalla facciata adorna dei busti degli allievi
divenuti famosi, alla quale tornai più tardi, dopo la guerra, per il liceo. Due classi le
feci alla Ravaschieri, una scuola pubblica.
Non ho conservato molto di quelle esperienze. Frequentavo solo bambini come
me, con i quali mi vedevo fuori, ma seguendo complicati rituali: non ci s’incontrava
mai casualmente, bisognava che ci fosse un invito trasmesso dall’alto, dalle governanti o, addirittura, dai genitori.
Per la prima media andai all’Umberto i, una scuola grande e affollata. Non
feci grandi amicizie. Ricordo il contadino che, fuori dal cancello della scuola, vendeva
fichi d’India con l’affollato gioco della appizzata: bisognava appizzare un fico con
un coltellino spuntato, lasciato cadere dall’alto nella cesta. Costava un soldo l’appizzata “semplice”, quattro soldi quella “continuata”: con la “continuata”, praticata dai più esperti, potevi portar via tutti i fichi che riuscivi a centrare, fino al primo
errore. Non ho mai giocato neppure la “semplice”.
Il monumento a nonno Armando
Prolungando verso il mare la linea ideale che congiunge villa Diaz, al Vomero, con
casa Salzano, al Corso, si tocca un terzo punto in via Caracciolo. Lì c’è il monumento ad Armando Diaz: una statua equestre posta su di un alto parallelepipedo
di marmo bianco, su cui è scolpito in grandi caratteri il Bollettino della Vittoria, firmato “Armando Diaz, Duca della Vittoria”. Mi portarono con nonna a vedere la
fonderia, verso Poggioreale, nella quale si stava realizzando la grande statua: fuoco,
fumo e odor di ferro fuso riempiono ancora le narici della mia memoria.
L’inaugurazione fu una grande cerimonia. In una fotografia rivedo nonna Sara
e mammà, con tailleur e cappellini con la veletta nera, zia Giannina con velo nero in
lutto di nonno Eduardo, e me stesso (avevo sei anni), con eleganti pantaloncini dalla
XXVII
prologo
piega ben stirata, camicia col collo tondo, gilet grigio e giacchetta sul braccio: doveva
far caldo, quella mattina, in via Caracciolo. Signori in orbace e fez e militari in alta
uniforme ci circondavano, e i balilla formavano il picchetto d’onore.
Anche a me fu imposta l’uniforme, più tardi. La divisa di figlio della lupa la
misi solo per casa. Ma quando frequentai le medie, all’Umberto i, era obbligatorio
indossare il sabato la divisa di balilla e andare alle adunate. Ricordo la scomodità
delle doppie calze (i calzettoni lunghi, grigioverdi, senza piede e con la stringa sotto,
e i calzini neri arrotolati, che scendevano sempre nelle scarpe) e della larga fascia
elastica che sostituiva la cintura (e lasciava sfuggire sempre l’orlo dei pantaloni), la
noia delle lunghe attese delle esercitazioni nei piazzali assolati e polverosi. Fui anche,
per un certo periodo, “marinaretto”, ma la cosa non era molto diversa, solo la divisa
era più realistica e rinviava a un mestiere vero.
Selva di Val Gardena
Meta di vacanze era anche Selva di Val Gardena. Ricordo l’aria pulita, lo scroscio
dei torrentelli, l’intenso profumo delle assi di abete sopra le quali giocavamo, le belle
passeggiate sulle vicine montagne, le fragole e le stelle alpine che raccoglievamo. Mammà era bravissima, la chiamavamo “occhio di lince”, scorgeva fragoline saporitissime
dove vedevamo solo distese di foglie, e stelle alpine lontane decine di metri.
Andavamo in treno, e dovevamo essere una bella comitiva: mammà, la sua cameriera, noi tre, la bambinaia. Una volta il nostro treno fu fermato in una stazione
sulla linea del Brennero: passava il treno speciale con il quale Mussolini andava a
Monaco per incontrare Hitler. A Monaco fu stipulato il patto con il quale gli anglofrancesi lasciavano mano libera a Hitler di rivolgere le sue truppe verso l’Oriente
bolscevico. Eravamo alla vigilia della seconda guerra mondiale: una guerra nella
quale non ci sarebbe stato nessun nonno Armando a renderci vittoriosi.
Accanto alla guerra
Avevamo le serrande avvolgibili di legno, nella casa del Corso. Il sole entrava a strisce, faceva strani disegni sulle pareti e i mobili. Una porta filtrante la luce, da fuori
a dentro. Da dentro a fuori filtrava i miei sguardi, il mio cercare il mondo. Anche
comunicare con il mondo, nella mia fantasia. Come nel giugno del 1940, quando
sentimmo alla radio che l’Italia era entrata in guerra. Il discorso del duce, dal balcone di piazza Venezia, le parole bellicose ed entusiasmanti, le ovazioni del popolo.
Mi sentivo riempito anch’io di sacro furore. Ritagliai in piccole striscioline un foglio
di carta, su ciascuna scrissi “viva la guerra”, le ripiegai e mi accingevo a gettarle per
strada, tra le stecche della persiana, per comunicare al mondo la mia partecipazione.
XXVIII
prologo
Mi sorprese zia Giannina, mi fulminò con lo sguardo gelido e mi spiegò che non si
inneggia mai alla guerra. Nelle sue parole si esprimeva la cultura cattolica.
Nonostante la sostanziale partecipazione al fascismo della mia famiglia, nonostante gli ascendenti militari, la guerra non entusiasmò nessuno. Certo, le vicende sui
diversi fronti erano seguite giorno per giorno: si ascoltava religiosamente il quotidiano
bollettino di guerra alla radio, all’una. Un’atmosfera di attesa, di sospensione, più
che di tifo. Forse la famiglia aveva già cominciato la revisione critica del fascismo.
Un episodio che dovette aiutare, in questa direzione, fu certamente la partenza di
Maria Simon. La mia schwester era ebrea. Quando il Führer venne in Italia, nel
1938, papà fu avvertito dalla questura che, se non avessimo provveduto ad allontanare schwester Maria, essa sarebbe stata messa in camera di sicurezza insieme
a tutti gli altri ebrei stranieri. Non serviva che Maria avesse un genitore ariano,
che fosse cristiana protestante. La soluzione infine concordata fu di mandarla per
qualche giorno a Foggia, dove papà aveva una casa. Qualcosa mi turbò, di questo
episodio, più di quanto mi entusiasmassero le scenografie di cartapesta, le gigantesche
bandiere, i fasci e le svastiche eretti lungo il percorso che Hitler e Mussolini avrebbero compiuto salutando, dall’automobile scoperta, la folla inneggiante.
All’inizio della guerra papà fu richiamato alle armi. Non aveva fatto il servizio
militare, così cominciò dalla gavetta, soldato semplice. Stava alla caserma di fanteria
al Corso, verso Mergellina. Sul muro verso la strada c’era una grande scritta: “Fu il
Fante il seme e la Vittoria il fiore”. Dopo l’addestramento, da sottotenente e poi tenente, andò in Grecia e in Jugoslavia: ricordo una cartolina di saluti da Mostar, con
l’immagine del famoso ponte (cinquant’anni dopo distrutto dalla guerra dei serbi).
Cominciarono i bombardamenti. Prima sporadicamente, poi tutte le notti. Era
diventato un rito: andando a letto ci si preparava sulla sedia il maglione, le calze, il
cappotto che avremmo indossato appena suonata la sirena d’allarme. Nei primi tempi, si scendeva in una stanza appositamente allestita in cantina. Travi di legno puntellavano pareti e soffitto, e sacchi di sabbia avrebbero dovuto riparare dalle schegge.
Tutti i vetri di casa erano accuratamente protetti con larghe strisce di carta gommata,
per impedire che gli spostamenti d’aria delle esplosioni li frantumassero, minacciando
l’incolumità dei passanti.
La nonna, Nannina e zia Giannina recitavano il rosario, gli uomini, negli intervalli tra un bombardamento e l’altro, andavano in strada per fumare una sigaretta e
guardare le sventagliate dei riflettori, i fuochi degli incendi provocati dalle bombe cadute, le ultime raffiche dell’antiaerea. Ma dopo un po’ di tempo, si capì che, se una bomba fosse caduta sulla nostra casa, il rifugio non avrebbe costituito riparo sufficiente.
Al di là di via Tasso c’erano (e ci sono ancora) gli alberghi Britannique e
Parker, appartenenti alla stessa famiglia. Attraverso le cucine e i magazzini, dai
due alberghi si raggiungevano immense caverne scavate nella montagna di tufo che
si alzava verso il Vomero. In quelle caverne erano stati organizzati dei giganteschi
rifugi, ben più sicuri della nostra fragile cantina. Furono presi i necessari accordi.
XXIX
prologo
Diventammo frequentatori abituali del rifugio del Britannique. Là c’erano bambini,
si poteva girare e giocare. Quando si prevedeva che i bombardamenti durassero a lungo la nonna e noi bambini dormivamo in albergo, pronti a scendere al primo allarme.
La mattina dopo i bombardamenti, la città era piena di novità. Non erano novità i fari oscurati delle automobili, né i piccoli bunker costruiti all’entrata dei rifugi:
queste erano diventate immagini abituali, come le grandi strisce di carta incollate
sulle lastre delle vetrine e sulle finestre. La vera novità erano le schegge: le tracce che
avevano lasciato i bombardamenti della notte, e di cui noi ragazzi facevamo incetta
ogni mattina per arricchire le nostre collezioni. Schegge piccole e grandi, d’alluminio,
di rame e di leghe sconosciute, proiettili dell’antiaerea e spolette dei razzi traccianti,
pezzi dalla cui curvatura si poteva comprendere se provenivano dall’esplosione di
una bomba grossa o di una di pochi chilogrammi.
Privilegiati nella raccolta di schegge erano gli scugnizzi, che si svegliavano presto
la mattina e avevano la strada come loro residenza abituale, e i bambini che, come
me, disponevano di una grande terrazza privata, luogo di raccolta riservato. Era
una strana emozione uscire la mattina e trovare questi strani pezzi di metallo, dalle
forme foggiate dall’esplosione.
Era forse il primo anno di guerra quando andammo in vacanza a Fiuggi. Forse
perché era un luogo più vicino a casa e più distante dagli insicuri confini, rispetto
alla consueta Val Gardena.
Tornammo a Napoli. La guerra non accennava a concludersi. Si continuava ad
andare a scuola, a raccogliere le schegge, a passare le notti al rifugio del Britannique. L’anno dopo andammo in villeggiatura a Sorrento. Di lì, la notte, si vedevano
i bombardamenti in lontananza: sembravano fuochi d’artificio, accompagnati da un
cupo rombo. La guerra era diventata la cornice permanente della nostra vita.
Sfollati a Roccaraso
Quando i bombardamenti si fecero più intensi, un certo numero di famiglie, compresa
la nostra, prese la difficile decisione di “sfollare”: si radunarono armi e bagagli e ci si
trasferì a Roccaraso, un paesino dell’Abruzzo dove qualche volta avevamo trascorso le
vacanze di Natale. I marchesi Santasilia con i loro bambini, il barone Enzo Strongoli
e la bella moglie, i principi D’Avalos, i nostri cugini marchesi Carignani: tutti ci trasferimmo tra le montagne. Ogni cosa i miei portarono con sè: bauli e bauli contenenti
tutta la biancheria personale e di casa, i vestiti e le pellicce, i gioielli e le scarpe, le casse
contenenti i 150 chili d’argenteria di famiglia, i libri e i ricordi preziosi, come una copia del «Bollettino della vittoria» vergata dalla mano di nonno Armando.
Tutto si cercò di salvare dai bombardamenti: gli oggetti ci seguirono in Abruzzo,
i mobili, i quadri e i tappeti furono depositati in una villa di amici a Ottaviano
(un paesone tra Napoli e Nola).
XXX
prologo
La nostra vita cambiò radicalmente. Non in peggio. Alloggiavamo in un appartamento costruito sulla rocca che dominava il paese (e che gli dava il nome: rocca di raso,
si poteva pensare, e i prati erbosi che circondavano il paese giustificavano il toponimo;
solo più tardi lo lessi come una premonizione: rocca rasata, come la storia volle).
Sotto di noi abitavano i Santasilia. Una grande stufa Becchi di terracotta riscaldava confortevolmente la casa. Si giocava più di quanto si studiasse; lo studio, del
resto, era affidato prevalentemente alla buona volontà del parroco, il quale disponeva
anche d’una bibliotechina circolare alla quale attingevamo i libri di Fantomas e polizieschi per ragazzi. Fino ad allora le mie letture si erano limitate alla traduzione per
bambini delle grandi storie della letteratura romantica nella collana della Scala d’Oro
e all’amato Emilio Salgari (Jules Verne, di cui ricordo una splendida edizione di
Le pays des fourrures, illustrata con incisioni d’autore, mi piaceva molto meno).
Nel paio d’anni che trascorremmo a Roccaraso le mie amicizie cambiarono.
Nel primo periodo passavo le giornate soprattutto con i bambini del paese, i roccolani.
La cosa che più mi entusiasmava erano le “gite” in montagna. Si partiva la mattina
presto, con una pentola o una padella trafugata in casa, una mezza bottiglia d’olio,
un pacco di pasta. Per strada si scavava in un campo qualche patata. Arrivati sulle
brulle montagne a pochi chilometri dal paese completavamo la costruzione di una
“casola”, iniziata magari durante la gita precedente: un ricovero rozzamente tirato
su con muri a secco, e coperto da rami di pino. Si cucinava, si mangiava, i più abili
davano la caccia agli scoiattoli con le fionde (fatte con una forcella di legno e due strisce di camera d’aria legate da una toppa di pelle), o addirittura con le frombole, nelle
quali il sasso, adagiato nella sede di corda e pelle, veniva scagliato dalla forza della
rotazione del braccio. In questo, come negli altri giochi d’abilità e di forza, non solo
non eccellevo ma neppure mi cimentavo volentieri. E invidiavo la capacità dei miei
amici paesani di giocare a ‘mmazza e piuze, con un bastone lungo che percuoteva,
lanciandolo lontano con mira precisa, un bastoncello più corto, rastremato alle due
estremità, dopo averlo sollevato da terra con un appropriato colpo su una delle punte.
Invidiavo la loro bravura nel precipitarsi giù sui campi di neve, avendo ai piedi due
tavole di legno grezzamente foggiate, o due doghe di botte, e scendere più veloci degli
sciatori di città calzati con sci di marca accuratamente trattati con la sciolina.
Naturalmente anch’io sciavo, ma senza fare grandi prodezze. All’apice della
mia carriera di sciatore arrivai a fare dei buoni spazzaneve e qualche assaggio di
“christiania”. Naturalmente i miei genitori erano bravissimi, specialmente mammà.
Con una slitta trainata da cavalli salivamo alla Piana dell’Aremogna: noi bambini
facevamo campetti e i grandi lunghe passeggiate di fondo, ai piedi le pelli di foca
(che qualche volta anch’io adoperai, con notevole fatica e impaccio). Altre gite le facevamo in primavera e in autunno: a un certo punto veniva stesa una grande tovaglia,
sulla quale comparivano grandi frittate di maccheroni.
Una meta tipica delle gite erano le pendici del Monte Tocco, dove prima delle
feste di Natale si andava a raccogliere il vischio abbarbicato alle vecchie querce.
XXXI
prologo
A volte raggiungevamo Pietransieri, un paesino poverissimo, dove la vita scorreva
cento anni più antica che a Roccaraso, stazione turistica distante pochi chilometri.
Pastori, contadini e taglialegna erano i mestieri degli uomini di questo paese, dove
ancora si vuotavano i pitali per strada, all’ora serale annunciata dal banditore.
Cade il fascismo, arrivano le SS
Nel luglio del ‘43 cadde il fascismo. Mussolini fu chiamato da Vittorio Emanuele
III, arrestato e portato via con un’ambulanza, verso il domicilio coatto dell’Albergo
Campo Imperatore, sul Gran Sasso. In tutto il Paese furono abbattuti i simboli
della dittatura: i fasci, gli emblemi del Duce. All’inizio, anche a Roccaraso fu una
gran festa. Tutti quelli che avevano ascoltato Radio Londra clandestinamente, con le
radioline a galena, uscirono allo scoperto trionfanti, prendendo in mano la situazione. Si discuteva di politica. Espressioni inusitate (come Partito d’Azione, socialisti e
comunisti, Comitato di liberazione nazionale) entrarono nel nostro linguaggio.
Nel frattempo, sulle montagne e sugli altipiani era cominciata un’azione clandestina che si sviluppò in modo consistente dopo l’8 settembre e il tentativo dell’Italia
di uscire dalla guerra. Essa consisteva soprattutto nel fornire soccorso ai prigionieri
inglesi e americani evasi dai campi di concentramento e ai paracadutisti smarriti, ai
primi partigiani che nelle boscaglie dell’Abruzzo s’erano arroccati. Ci fu, probabilmente, anche qualche colpo di mano contro i militi fascisti o le scarse truppe tedesche.
Cominciarono le rappresaglie. Come imparammo più tardi, Pietransieri, colpevole
d’aver dato asilo a prigionieri e partigiani, fu distrutta, la popolazione trucidata.
A Roccaraso, i giovani e gli uomini adulti erano fuggiti suoi monti. Ogni tanto,
pattuglie tedesche guidate da qualche fascista immarcescibile facevano rapidi rastrellamenti.
Ma una volta l’azione avvenne in grande stile. La ricordo ancora con precisione.
Ci eravamo appena seduti a tavola. Ci attendeva una gustosa minestra di pasta e
fagioli, con le cotiche di maiale. Con noi erano i Santasilia. Papà e Gino Santasilia,
dopo un periodo di permanenza alla macchia, erano tornati: entrambi avevano assolto gli obblighi militari, credevano d’essere al sicuro. Arrivarono in paese due camion
tedeschi: ne scesero di corsa pattuglie di SS, brandendo mitra minacciosi, con i cinturoni guarniti di bombe a mano. Una pattuglia salì correndo le nostre scale, irruppe
in casa. Eravamo tutti atterriti. Mia madre andò incontro alle SS e, parlando in tedesco, chiese loro con apparente tranquillità se potevano attendere che consumassimo
il pranzo e che papà facesse la valigia. Questo atteggiamento fugò in noi ogni paura.
La valigia fu pronta, gli uomini vennero scortati fuori, sulla piazza. I camion li
portarono via, in direzione di Rivisondoli, Sulmona, Roma, il Nord. Il giorno dopo
apprendemmo che in realtà non li avevano portati lontano: si erano fermati proprio
a Rivisondoli. Le SS li avevano affidati alla milizia territoriale tedesca, a un corpo
XXXII
prologo
del Genio. Erano prigionieri in una scuola, dormivano per terra su mucchi di paglia.
Dovevano scavare trincee.
Trascorsi pochi giorni, alcuni di loro cominciarono ad avanzare ragioni e pretesti
per essere esonerati da quella corvée. Il primo fu mio zio Franz Carignani: aveva
l’ernia. Con lui tornò a casa Enzo Strongoli. Successivamente, a mio padre fu riconosciuto un vizio cardiaco. Come manovali non valevano un granché.
Il cibo a casa non mancava. Mammà aveva barattato un paio di stivali da cavallo con mezzo maiale. Fu grande festa e gran lavoro quando fu macellato, quando
le carni e le frattaglie furono trasformate in salsicce, lardo, prosciutto, sugna colata
nelle vesciche e nei barattoli. C’erano poi sempre le patate, i fagioli, certi mastelli di
marmellata di paese.
Ma alla fine fummo nuovamente “sfollati”: non deportati, come accadeva, in
quegli anni, in tanti altri luoghi, ma allontanati forzosamente, cacciati da Roccaraso
che doveva essere rasa al suolo. Erano infatti di nuovo tornate le SS. Questa volta il
messaggio era diverso. Tutti gli abitanti di Roccaraso avevano due giorni per lasciare
il paese. Avrebbero potuto portare una valigia a testa. Autobus e camion requisiti
dai tedeschi li avrebbero condotti via, non si sapeva dove.
L’evento fu traumatico. In due giorni bisognava decidere e agire. Si dette priorità
alla sussistenza: non sapendo dove i tedeschi ci avrebbero trascinati, fu deciso di riempire le valigie di cibarie. Tutto il resto, in un’accorta operazione notturna, fu nascosto. Gli uomini avevano scoperto, sotto la cantina della Rocca, scavata nella roccia,
una cavità, raggiungibile dalla cantina attraverso una botola. Lì furono nascoste le
ricchezze nostre, e delle famiglie amiche; nonché una parte consistente del tesoro della
chiesa. Nel nascondiglio fu poi scavata un’ulteriore buca, dove furono deposti i gioielli: ma all’ultimo momento mammà ci ripensò e non volle abbandonarli. Li dissimulò
invece all’interno di grandi gomitoli di lana di pecora, con i quali lavorava a maglia.
La buca dei gioielli e il fondo della cantina furono cementati, i pavimenti rifatti e
sporcati con polvere di carbone.
Gli autobus targati Roma requisiti dai tedeschi vennero puntuali a prelevarci.
Passammo con le nostre valigie in mano tra le file di militari con i mitra puntati,
fummo caricati sui camion e partimmo, per destinazione ignota. Del viaggio non ricordo nulla. Ci scaricarono a Sulmona, e ci fecero accampare in una scuola. Quanto
tempo saremmo rimasti lì? Nessuno poteva immaginarlo.
Nonna Sara stava a Roma. Come vedova di un ex ministro della Guerra
aveva ancora dei privilegi, e delle conoscenze. Riuscì a ottenere che un’automobile del
Ministero, con autista, venisse a prelevarci a Sulmona. Un viaggio di molte ore, con
le nostre valige piene di carne di porco, ci riportò a Roma. Tutti, eccetto papà: lui e
Gino Santasilia erano rimasti a Sulmona, a trenta chilometri dai nostri beni sepolti,
pronti a tornare alla Rocca e recuperarli quando la tempesta fosse passata.
XXXIII
prologo
Miseria e nobiltà
Arrivammo a Roma che doveva essere trascorsa almeno una settimana dall’esodo
forzato da Roccaraso. Faceva già caldo, e i resti del mezzo maiale barattato con un
paio di stivali erano marciti.
Ci sistemammo a casa di nonna Sara, il portone al numero 1 di via Giambattista Vico, affacciata su piazzale Flaminio. La nonna aveva ricavato un appartamentino tutto per noi. Il bagno era separato dalla stanza da stiro da una tramezza
vetrata. Ero nella vasca quando, pochi mesi dopo il nostro arrivo a Roma, arrivò
papà, con sei o sette sacchi di stracci: tutto ciò che rimaneva del nostro patrimonio
domestico, dei corredi di nozze e dei regali accumulati. Scoppiò irrefrenabile il pianto
della mamma.
Poi papà ci raccontò. I tedeschi avevano raso al suolo Roccaraso per fare terra
bruciata all’avanzata delle truppe alleate. Ma prima avevano cercato i tesori, che
certamente le famiglie abbienti avevano dovuto lasciare. Sette giorni di ricerche e
di sondaggi. Poi, alla fine, forse aiutati dalla spiata di qualche roccolano, avevano
scoperto le cantine murate. Tutto avevano portato via, compreso l’autografo del «Bollettino della vittoria». Erano rimasti solo stracci, accuratamente raccolti e portati a
casa da papà.
Eravamo diventati quasi poveri. E ancora non sapevamo che nella villa di Ottaviano, dove erano stati ricoverati i nostri mobili, i quadri, i tappeti, si erano accampate le truppe marocchine che risalivano lo Stivale con gli alleati. Faceva freddo, non
c’era di meglio per riscaldarsi che bruciare quel legname stagionato. Così finirono le
suppellettili della casa del Corso. Così finirono i nostri beni.
A Roma ripresi studi regolari: prima al collegio San Giuseppe Demerode, in
Piazza di Spagna, poi al ginnasio liceo Tasso, di grande fama. Al Demerode, tra
gli studenti interni c’era un ragazzo che si chiamava Zamboni: era un ragazzo ebreo,
il cui nome, forse Zabban, era stato camuffato per nasconderlo ai fascisti. Lo sapevamo tutti. Lo sapeva anche un ragazzino fascista che, per questo, veniva rincorso e
svillaneggiato durante le ore di ricreazione. Non fece mai la spia.
Nutrirci era diventato difficile, e anche vestirci. Due persone si rivelarono preziose, agli estremi nella gerarchia sociale: il cardinale Maglione di Casoria e Maria
Ruocco di Venafro.
Il cardinale Maglione era segretario di Stato in Vaticano. Molto influente, era,
tra l’altro, l’uomo che aveva imbastito e concluso i Patti Lateranensi, che avevano assicurato la convivenza – e nella sostanza l’alleanza – tra fascismo e Vaticano. Era
un uomo potente e nato a Casoria. Mio padre lo conosceva bene, il cardinale era un
vecchio amico di famiglia. Per suo tramite fu concesso a papà di andare talvolta ad
approvvigionarsi allo spaccio del Vaticano. Bellissimi tagli di stoffa, zucchero, torroncini di fichi secchi, sigarette, qualche tavoletta di cioccolata: erano il dono che, di
tanto in tanto, arrivava grazie all’intercessione del cardinale Maglione.
XXXIV
prologo
Maria Ruocco era la moglie, sfiancata dalla fatica e dai parti, di un manovale
di Venafro che aveva lavorato con papà quando l’impresa aveva vinto un appalto
di strade e ponti in quella zona. Era arrivata a Roma con i figli, il marito sperduto
in qualche fronte della guerra. Mia madre la ritrovò mentre era accampata in una
scuola dove si raccoglievano gli sfollati poveri, che le buone signore per bene assistevano.
Maria non sapeva dove andare. Fu sistemata con i suoi figli (uno dei quali lattante)
nella casa di via Vico, nello scantinato. Ogni tanto, Maria si recava in campagna, dai
contadini, a scambiare merci cittadine (o soldi) con olio, farina, a volte carne, uova: era
la “borsa nera”. Una parte di queste merci preziose arrivavano a noi, ci aiutavano a
vivere. Ancora più prezioso diventò l’aiuto di Maria quando arrivarono gli americani,
e la borsa nera impazzò.
La casa di nonna Sara era una miniera di oggetti e di ricordi. Mi sedevo spesso
alla scrivania a calatoia che era stata di nonno Armando: nei cassettini c’erano ancora
i suoi pennini, fermagli, francobolli, monetine, piccoli blocchetti riempiti di appunti.
In una grande vetrina c’erano i trofei di guerra: le medaglie, le fotografie con il capo
Crow, i regali di Clemenceau e di Wilson, il Collare dell’Annunziata e così via. In
basso, in una cassa foderata di velluto rosso, c’era la sciabola di maresciallo d’Italia.
Ciò che mi piaceva di più, e che mi teneva avvinto per ore, erano i libri di zia Irene,
la sorella di mamma, che, sposata con l’ingegner Pierino Parisi, aveva lasciato lì parte
della sua adolescenza. Entrai in un mondo nuovo, Via col Vento, La saga dei
Forsyte, Cronin, Dos Passos, Steinbeck, Maurois: cominciai a conoscere la realtà
del mondo attraverso i romanzi. Cominciò in quel periodo anche il mio amore per la
poesia, e il romanticismo. Tra i libri di zia Irene avevo scoperto una serie di minuscoli
libriccini, rivestiti di stoffe provenzali. Facevano parte di quella serie I Fleurs du mal,
che leggevo per far colpo su Maria Stella, la ragazzina che avevo conosciuto a Roccaraso e di cui mi ero innamorato.
Via Rasella dall’Hotel Imperiale
Nonna Carmela e zia Giannina, con i miei cugini Carignani, anche loro sfollati
a Roma, soggiornavano all’Hotel Imperiale, nell’ultimo tratto di via Veneto verso
piazza Barberini. Spesso andavo lì per giocare con Luigi. L’albergo era frequentato
da ufficiali tedeschi. Un giorno sentimmo un gran botto. Ci affacciammo alla finestra.
I tedeschi andavano di corsa verso piazza Barberini, alcuni seguiti da cani lupi; motociclette con sidecar arrivavano e ripartivano. Tutto quel chiasso ci stupì. Più tardi apprendemmo che a via Rasella, una traversa di piazza Barberini, i partigiani avevano
fatto esplodere una bomba al passaggio d’un plotone di soldati nazisti.
Dopo uno o due giorni la tragedia esplose in molte famiglie: si sparse subito la
voce della rappresaglia. Per ogni tedesco ucciso i nazisti avevano ammazzato dieci
prigionieri prelevati in fretta e furia, più qualcuno per aggiungere peso alla punizione.
XXXV
prologo
Anche i miei genitori avevano amici a Regina Coeli o nella tremenda prigione di Via
Tasso. Mia madre era andata qualche volta in quest’ultima prigione, camera di tortura delle SS (come si seppe più tardi), a cercare notizie di Filippo di Montezemolo, suo
amico, ufficiale monarchico antifascista, arrestato e torturato. Uno di quelli che furono
trucidati all’indomani dell’attentato.
L’arrivo degli alleati
Era giugno. L’aria era tiepida, le finestre aperte. Quelle della casa della nonna – al
primo piano – davano su piazzale Flaminio. C’era attesa. Da tempo si diceva che gli
alleati, bloccati a Nettuno da mesi, sarebbero entrati a Roma: - stasera; - no, domani;
- fra una settimana al massimo.
Sentimmo colonne di camion tedeschi andare verso la Flaminia, attraversando il
piazzale oppure provenendo dal lungotevere. Poi, un lungo silenzio.
Si cominciò a veder arrivare dal viale del Muro Torto una fila di soldati diversi,
con gli elmetti a padella rovesciata: inglesi o australiani. Alcune camionette con la
stella bianca (americani) arrivavano da Piazza del Popolo, quando un camion tedesco
scese all’impazzata da Villa Borghese. Un ritardatario. Scoppi, raffiche: una scaramuccia proprio sotto casa. Ci fecero buttare per terra, dietro il davanzale.
La mattina dopo, gli alleati entrarono a Roma e la liberarono. Tripudio. Ricordo
la folla in piazza del Popolo che assaliva le jeep e i camion con la stella bianca cerchiata, abbracciava i soldati in uniforme cachi che buttavano sigarette e razioni di guerra.
La carestia era finita. Gli alleati portavano ogni ben di Dio. Festeggiammo la
fine della fame con delle confezioni incerate, di cartone verdognolo, nelle quali c’erano
scatolette di ham and eggs, minestre in polvere, tavolette di cioccolata, pacchettini di
sigarette: era la quotidiana razione di guerra, di cui i soldati, giunti nella grande città,
si liberavano senza rimpianto. Poi arrivarono altre quantità. La minestra di piselli
secchi in polvere diventò il cibo più diffuso: la pea soup divenne un sapore familiare,
interessante all’inizio (era insolito e sfamava), insopportabile dopo alcuni mesi.
Nel linguaggio corrente entrò la politica. C’era stata la breve stagione tra la caduta del fascismo e l’8 settembre 1943; poi l’occupazione tedesca l’aveva rigettata nella
clandestinità, e la preoccupazione dominante era la sopravvivenza. L’unica abitudine
“politica” era l’ascolto clandestino di Radio Londra, che trasmetteva strani messaggi in
cifra, comprensibili solo ai militanti della lotta antifascista, e dava notizie sui fronti di
guerra: a noi, ovviamente, interessava la lenta risalita dal sud dell’esercito alleato.
Dopo l’arrivo delle truppe alleate scoprii che la politica era vicina: mio cugino Alberto Carignani (il fratello maggiore di Luigi) era nella Resistenza (liberale o azionista, non ricordo). I miei genitori erano vicini a esponenti della clandestinità antifascista
monarchica. Ma papà si scoprì presto socialdemocratico: cominciò a frequentare le riunioni, le assemblee, i comizi. Peppino Galasso mi raccontò molti anni dopo (quando
XXXVI
prologo
lo conobbi come sottosegretario per i Beni culturali) che mio padre era stato il primo ad
avvicinarlo alla politica, portandolo al Teatro Eliseo a una manifestazione alla quale
partecipavano Togliatti e Nenni, Ruini e De Gasperi.
Ma per noi ragazzi la politica restava una cosa estranea. Non ne capivamo nulla.
Non coglievamo il fermento che agitava la capitale, in quei mesi che separavano il
giugno del 1944 (la liberazione di Roma, a opera dell’armata alleata) dall’aprile del
1945 (la liberazione, a opera dei partigiani del Comitato di liberazione italiana).
A Roma, del resto, la mia famiglia ci rimase ancora per poco: appena fu possibile tornammo a Napoli, dove erano la nostra casa, i nostri averi residui, l’impresa di papà.
Ritorno a Napoli
Per tornare a Napoli fu necessario aspettare il turno per salire su un camion. Le strade erano interrotte, le ferrovie non funzionavano. Non so come, mediante quali canali,
i miei genitori riuscirono a organizzare quel viaggio. Era un camion scoperto, sul quale erano ammassate le masserizie di alcune famiglie e, sopra, i passeggeri. Del viaggio
non ricordo granché. Ricordo però l’arrivo a Napoli. La strada era un canyon tra due
pareti di macerie, alte quasi quanto lo erano state le case demolite dai bombardamenti.
La nostra casa al Corso era occupata dagli alleati. Andammo ad abitare in un
palazzo nobile all’inizio di via Chiaia, dove c’era – e c’è ancora – la famosa pasticceria Caflisch, di ottocentesca origine svizzera, come di origine olandese o belga erano le
altre famose ditte di cioccolata e dolci di Van Bol & Feste e Gay & Odin. Era un
appartamento di proprietà di amici, molto bello e grande, al primo piano. Aveva un
solo inconveniente: una stanza era stata attraversata da una bomba fortunatamente
inesplosa, che però con il peso aveva sfondato tetto e pavimento: si poteva attraversare
la stanza solo sullo stretto spazio addossato alle pareti.
Ma la casa godeva di una amplissima terrazza a livello, aperta su via Chiaia,
proprio sul centro elegante della città.
La casa del Corso fu venduta, per dieci milioni. E si scoprì che l’impresa di papà
di fatto non esisteva più: la guerra aveva travolto tutto. Rimanevano le terre, che poco
a poco furono vendute.
Le ragazze si incontravano ai “balletti”: festicciole domestiche, dove si bevevano
aranciate e si suonavano i dischi sul fonografo a manovella; cominciavano appena ad
apparire i giradischi elettrici, e i primi dischi a 33 giri, i V-Disc dell’esercito Usa.
Attraverso i dischi cominciai a imparare l’inglese: Frank Sinatra fu un maestro
molto migliore di quella signora (non ne ricordo il nome) presso cui andavo una volta
alla settimana a leggere Oscar Wilde, The importance of being Ernest.
Lo sport che praticavo (un poco) era il tennis. In via Caracciolo era stato riaperto,
con aiuti degli alleati, la nuova sede del circolo del tennis, uno dei luoghi di ritrovo
dell’aristocrazia napoletana.
XXXVII
prologo
Un’estate andammo a Capri. Era la prima volta che mettevo piede su quest’isola,
che ogni giorno per dieci anni – quando abitavamo in corso Vittorio Emanuele – avevo visto dalla finestra della mia stanza, a chiudere la visuale del golfo. Eravamo in un
piccolo albergo vicino alla strada Krupp.
Pochi ricordi mi rimasero impressi, ma tutti intensi. Un concerto per pianoforte
in una villa a Tragara, una grande terrazza a strapiombo sul mare, con i faraglioni
immersi in una intensa luce lunare. Fu lì forse che conobbi Perla Cacciaguerra, una
ragazza poco più grande di me, poetessa. Mi insegnò ad amare Rabindranath Tagore.
Un ingegnere che incontravamo nel ristorante dell’albergo sapeva tutto d’ogni cosa: non
c’era evento, piccolo o grande, che non sapesse spiegare. Forse è allora che sognai di
diventare ingegnere.
I boy scout
Prima del fascismo c’erano a Napoli i boy scout. Lo era stato mio padre. Dopo la
guerra un gruppo di amici decise di ricostituire l’antica organizzazione. Ci portavano
in giro due amici di mio padre, l’ingegnere Luigi Cosenza e il signor Cavallo, un simpatico e distinto commerciante di tessuti.
Eravamo un gruppo molto disordinato: una compagine del tutto diversa rispetto a
quella che poi i boy scout divennero: irreggimentati e tirati a lustro. Vestivamo divise
raccogliticce: pochi fortunati avevano l’uniforme e il cappello del padre, gli altri si arrangiavano con ciò che trovavano. Con grande impegno trasformammo in cappelli con
la tesa, tipici del boy scout, i feltri verdi di avanguardista sottratti ai padri o ai fratelli
maggiori: scoprimmo che bastava bagnarli e stirarli con un ferro caldo contro una pignatta, per dargli forma.
La nostra pattuglia (gli Scoiattoli) era comunque la più organizzata. Ci eravamo
dotati di fazzoletti da collo bordeaux, “nastrini omerali”, fischietti col cordoncino,
bastoni regolamentari e temperini robusti. La domenica facevamo gite ai Camaldoli
accompagnati da Luigi Cosenza. In quegli anni, appena superate due file di isolati
uscendo da Piazza Sannazzaro (al Vomero) si era in aperta campagna. Ai pochi
casolari abitati da famiglie contadine seguivano rapidamente boschi di castagni, come
quello che avvolgeva l’Eremo nel quale ci accampavamo.
A volte pernottavamo nelle tende montate alla meglio. All’inizio erano vecchie
coperte prese a casa, legate con funicelle e spaghi; poi alcuni ufficiali tra gli alleati,
che vedevano di buon occhio la sostituzione dei balilla fascisti con la democratica
istituzione scoutistica, ci regalarono qualche avanzo della guerra. La notte facevamo
rigorosi turni di guardia. I due di turno vigilavano accanto a un fuoco di bivacco, accuratamente alimentato. Più dei vagabondi, temevamo i lupi che – si diceva – erano
scappati durante la guerra dallo zoo della Mostra d’Oltremare, ai piedi della collina
dei Camaldoli.
XXXVIII
prologo
Luigi Cosenza
Luigi Cosenza era un personaggio davvero singolare. Qualche anno più tardi conobbi la sua storia. Generoso e irruento quando ci organizzava e accompagnava (ricordo un suo corpo a corpo con due giovinastri che ci minacciavano, nelle campagne tra
il Vomero e i Camaldoli), lo era anche nella vita. Comunista, era stato amico di
Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del Pci italiano, ingegnere come lui. Negli anni
del fascismo aveva abbracciato la scuola razionalista, e costruito alcune pregevoli
architetture a Napoli, assieme al famoso Rudofsky. Era una delle figure eminenti
dell’ala intellettuale del Pci a Napoli.
Cosenza era ingegnere, come ho detto, portato alla pratica più che alla teoria.
Dicono che quando fu incarcerato a Poggioreale (capeggiava una grande dimostrazione,
repressa dalla polizia, contro la visita in Italia di Ike Eisenhower, preludio all’ingresso nella nato) convinse il direttore del carcere che le condizioni erano intollerabili e
ottenne l’incarico di studiare il progetto per un carcere moderno e razionale.
Non progettò il carcere, alla fine, ma la nuova sede della facoltà d’ingegneria, a
Fuorigrotta, e la bella sede della Olivetti a Pozzuoli1. Abitava in una casa con una
splendida terrazza, a Mergellina. Sulla terrazza scorrazzavano i suoi animali. Aveva avuto anche un leoncino, che tenne anche quando crebbe. Si racconta che una volta
chiese agli ingegneri della Olivetti, con cui doveva andare a vedere il cantiere a Pozzuoli, – Vi dispiace se passiamo un momento alla Mostra d’Oltremare, così porto Leo a
giocare con i suoi amici? –. Pensando che si trattasse di un cane gli ingegneri risposero
– Senz’altro, la macchina è grande –. Si spaventarono molto quando scoprirono che
Leo era un leone.
Villa Pavoncelli
A quei tempi Napoli era anche, per i suoi abitanti, una stazione balneare. D’estate
gli scugnizzi si tuffavano in mare dalle scogliere prospicienti via Caracciolo (ma a
noi, ragazzi per bene, era proibito andarci: si diceva già che non fosse igienico, perché
vi scaricavano le fognature della città). Uno stabilimento molto frequentato era però
il Sea Garden a Mergellina, proprio dove dalla strada litoranea si “stacca” la collina di Posillipo. Noi andavamo a mare più su, a Posillipo, dove grandi e intricate
ville occupano il costone verdeggiante tra la strada e il mare.
1 È lo stabilimento nel quale Ottiero Ottieri ambientò la sua appassionata descrizione della
condizione operaia nella fabbrica fordista del capitalismo avanzato, O. Ottieri, Donnarumma
all’assalto, Milano, Bompiani, 1959.
XXXIX
prologo
Palazzo Donn’Anna (che, secondo la leggenda, aveva ospitato Giovanna d’Angiò) non aveva spiaggia: per scendere a mare si attraversavano i suoi diruti saloni
dove i tufi delle rocce e quello dei muri si sfaldavano mescolandosi.
Le ville che frequentavamo di più erano oltre: villa Pavoncelli, villa Carunchio,
villa D’Avalos. La prima soprattutto, abitata da famiglie dell’aristocrazia napoletana molto legate alla mia: i Del Balzo di Presenzano e i Pavoncelli.
Da via Posillipo si scendeva per una scaletta, vigilata dal portiere. Si attraversavano corridoi umidi, a volte aperti sul mare, terrazze, ballatoi, scalette e atri,
finché si giungeva a una spiaggetta protetta da una breve scogliera. Prima dell’ultima rampa un umido locale scavato nella roccia era usato come spogliatoio. Sulla
spiaggetta si apriva un’ampia grotta, ricovero di innumerevoli scafi.
Miei amici erano soprattutto i Pavoncelli. Famiglia di nobiltà recente (si diceva,
con una certa sufficienza, che erano diventati conti con l’unità d’Italia), la loro
ricchezza veniva dalle terre in Puglia, a Cerignola, il paese del grande sindacalista
contadino Giuseppe Di Vittorio, che contribuì significativamente a portare nella
democrazia repubblicana i mezzadri e i braccianti del Sud. Avevano un’azienda
molto ben condotta che produceva, tra l’altro, ottimi vini. Molti anni più tardi
conobbi una singolare storia che aveva legato il sindacalista Di Vittorio al proprietario terriero Giuseppe Pavoncelli, nonno del mio amico. Nel 1920 Giuseppe
Di Vittorio era un povero bracciante e già un attivo sindacalista nel suo paese. Per
Natale il conte Pavoncelli gli inviò un pacco dono davvero allettante: pane, formaggio, taralli, olio. «Quella, per la mia famiglia – raccontò molti anni dopo la
figlia Baldina – era l’epoca della povertà assoluta». Il giovane sindacalista rifiutò
il regalo e su un paio di fogli di carta intestata della cooperativa La Falce spiegò le
ragioni di quel rifiuto. «Io, lei ... siamo convinti della nostra personale onestà, ma
per la mia situazione politica non basta l’intima coscienza della propria onestà.
È necessaria, e lei lo intende, anche l’onestà esteriore. (...) Si che io, a preventiva
tutela della mia dignità politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli che stimo
moltissimo come galantuomo, come studioso e come laborioso, sono costretto a non
accettare il regalo, il cui solo pensiero mi è di pieno gradimento».2 Altri tempi, altri
uomini, altri mondi, non distanti da quelli che in quel tempo frequentavo ma da
me ancora sconosciuti.
La politica? Non c’era
Non ero comunista allora. Di politica si parlava poco, e meno ancora vi si pensava. Se avessi dovuto definirmi, avrei detto che ero socialdemocratico: una sinistra
2
L. Parise, Baldina Di Vittorio: mi ha insegnato l’onestà, «la Repubblica», ed. Bari, 29 set. 2007.
XL
prologo
sentimentale e “perbene”. È per il partito di Saragat che votai infatti, al mio primo
esercizio di democrazia.
Della politica mi arrivavano solo echi lontane, attraverso le poche persone del
nostro ambiente che partecipavano anche a quel mondo. La dimensione politica di
Luigi Cosenza o di Renato Caccioppoli, oppure di Leopoldo Rubinacci (il sottosegretario democristiano, zio e protettore del mio amico Renato Ruggiero), la compresi
molto più tardi.
Una volta, tra il ‘46 e il ‘48, intuii che esisteva un’altra realtà sconosciuta e potente, fonte per me di timore e soggezione: fu a Napoli, dall’alto del ponte di Chiaia
che vidi passare, giù in strada, un grande e compatto corteo di operai delle fabbriche
di Fuorigrotta: una folla silenziosa, muta, dai volti chiusi più dei pugni, colorata del
blu delle tute. Una realtà che incuteva, insieme, paura e rispetto.
Un’estate a Colle Isarco
Dopo la licenza liceale, nel 1948, andammo in villeggiatura a Colle Isarco. Ricordo
quella vacanza per la conoscenza, fugace, di un gruppo di emiliani di cui faceva
parte una ragazza che mi piaceva molto, e per la frequentazione di un singolare
personaggio: Chinchino Compagna.
Chinchino era il rampollo d’una famiglia di nobili calabresi, ricchissimi e
(a quanto si diceva) altrettanto rozzi: vera nobiltà borbonica. La loro ricchezza era
prodotta dai cafoni dei latifondi calabresi. Non si era trasformata né in cultura né
in lusso. Si diceva (horresco dicens!) che alla loro tavola si mangiasse il formaggio con le mani.
Forse oggi definiremmo il Chinchino degli anni Quaranta un giovane teppista.
Era certamente ignorante e maleducato: famoso rimase il sonoro pernacchio col quale
salutò il presidente dell’elegante circolo del tennis, alla festa per la sua inaugurazione.
Quando lo conobbi era in una fase di profonda trasformazione. Frequentando casa
Croce (forse ve lo condusse mio padre), aveva scoperto l’esistenza dei libri. Leggere
gli aveva cambiato la testa, in pochi mesi. Ricordo le signore amiche di mia madre,
tutte rigorosamente monarchiche, commentare scandalizzate: – Capisci, è diventato
repubblicano perché ha letto duecento libri! –, meravigliandosi del fatto che si potesse
cancellare una fede salda come quella monarchica, semplicemente perché si era fatto
l’esercizio frivolo e un po’ stravagante della lettura!
A Colle Isarco, dove era con la giovane ed esile moglie Licia, partecipava saltuariamente alle nostre gite: la sua attività preferita era la lettura, fin dalla mattina
presto. Le cameriere che facevano le pulizie nei saloni dell’albergo lo trovavano già a
leggere all’alba.
Chinchino alimentò la mia passione per la poesia regalandomi un libro di cui gli
fui allora molto grato, il primo volume di una bella rivista di poesia (la testata era,
XLI
prologo
appunto, «Poesia», diretta da Enrico Falqui). Con una bella dedica, “Un modesto
ricordo, un sincero augurio, una certa speranza di sicuri successi in una vita serena,
rischiarata da caldi affetti, il mio compreso”.
Lo persi di vista. Per meglio dire, lo seguii a distanza: era diventato un uomo
pubblico. Con i soldi dei cafoni calabresi fondò una rivista, «Nord e Sud», che riuniva gli intellettuali meridionali e meridionalisti di area repubblicana e socialdemocratica. Lo ritrovai molti anni dopo, bravo ministro per i Lavori pubblici. Morì a
Capri sulla spiaggia, per un infarto, sotto il palazzo di Tiberio.
L’università, il cinema e Benedetto Croce
All’università, in quegli anni, non mi impegnavo molto. Mi ero iscritto a ingegneria
senza una vera ragione. Gli argomenti che mi convinsero erano due: al liceo andavo
bene in matematica, mio padre aveva (ancora per poco) un’impresa di costruzioni.
Se avessi potuto seguire le mie inclinazioni, avrei scelto un mestiere più “poetico”.
Ma carmina non dant panem.
Dell’università di quegli anni ricordo la mesta cerimonia della “matricola”, consistente in una grande abbuffata di paste offerte agli amici; le aule sovraffollate e i
professori inavvicinabili nell’immenso palazzo tra il Rettifilo e via Mezzocannone.
Non ricordo come diedi gli esami, meno ancora come mi preparai nelle difficili materie del biennio. I miei interessi erano altrove.
Conobbi Carlo Frezza, con lui condividevo la passione per il cinema. A quei
tempi si frequentava un circolo del cinema in via Martucci, dove finalmente vedemmo film diversi da quelli dell’infanzia (che erano Capitano Blood o Stanlio e
Ollio), e dalle “americanate”, tipo Bellezze al bagno, che si proiettavano dal
dopoguerra al cinema Della Palme o al cinema Corona. De Sica ed Eisenstein,
Pudovkin e Rossellini, Autant–Lara e Dreyer erano le nostre scoperte e i nostri
entusiasmi.
Carlo apparteneva a una famiglia della piccola borghesia intellettuale: notai e
avvocati. Fu lui a introdurmi nella politica universitaria. Mi ero appena iscritto a
ingegneria, quando mi chiese di partecipare a una lista diversa da quelle legate ai
partiti, dal titolo goliardico, e un po’ qualunquista, “Bacco Tabacco e Venere”. La
lista aveva un programma culturale impegnativo: Carlo avrebbe dovuto dirigere il
Centro universitario teatrale nel cui ambito io avrei dovuto mettere su una nuova
“sezione cinema”. Accettai. La lista ottenne una rappresentanza nel parlamentino
universitario. Con grande fatica organizzai la proiezione di un bellissimo film, che
a Napoli nessuno aveva ancora visto, Breve incontro, di David Lean, con Trevor Howard e Celia Johnson: due eccezionali attori drammatici. Fu un grandissimo
successo; la sala del cinema Santa Lucia, che avevamo affittato per l’occasione, era
gremita, il pubblico attento e silenzioso.
XLII
prologo
Ricordo le lunghe serate, con Carlo, a discutere di cinema, di arte, di poesia.
Il tema in voga, nel mondo che frequentava i circoli del cinema, era “lo specifico
filmico”: se ne discuteva sulle riviste che leggevamo («Bianco e Nero», «Cinema»,
«Cinéma d’Aujourd’hui»), se ne dibatteva in sala alla fine delle proiezioni. Dopo il
cinema accompagnavo Carlo fino al suo portone, poi lui riaccompagnava me, poi io
ancora lui e così via.
In quei mesi uscì un articolo di Benedetto Croce, in cui il filosofo sosteneva che
il cinema è prosa e non poesia. Eravamo allora entrambi crociani: in quegli anni, a
Napoli, o si era crociani o si era comunisti: non c’erano alternative per i giovani
intellettuali. La presa di posizione ci turbò moltissimo: non eravamo affatto d’accordo con il Maestro, per noi il cinema era poesia con sei maiuscole, sebbene non
fosse ancora chiaro se lo “specifico filmico” risiedesse nel montaggio (come era nostra
opinione), o altrove.
Mammà e papà entrano in crisi
Negli ultimi anni napoletani la famiglia abitava in via Monte di Dio 18, nel bel
palazzo della baronessa Barracco, amica dei miei genitori. Una casa molto grande,
che girava attorno a un cortile adorno di piante. Vecchi e solidi arredi. Ricordo il
nostro bagno, con vasca e lavandini di marmo massiccio, ornati di zampe di leone e
dotati di una consunta rubinetteria inglese di ottone brunito dal tempo. Una fuga di
stanze: per raggiungere la mia dovevo attraversare quelle di rappresentanza, dove a
volte incontravo gli amici dei miei genitori, ascoltavo brevemente i loro discorsi.
La musica era sempre molto presente. Si frequentava il San Carlo, ma soprattutto i concerti del conservatorio di San Pietro a Maiella. Fu lì che conquistai l’autografo di Rubinstein, ed è lì che i miei genitori conobbero il maestro Franco Caracciolo,
che frequentava la nostra casa e a volte suonava per noi.
I confini tra mondanità e cultura erano praticamente inesistenti: si scivolava
dall’una all’altra con grande leggerezza. Si discuteva dell’immortalità dell’anima
e del paradiso, e la battuta più convincente era del marchese Agostino Patrizi: «Pe
‘mme ‘o Paraviso è quel posto che, se quando sei vivo ti piacevano le sfogliatelle, mangi tutto il giorno sfogliatelle». Una visione un po’ maomettana. Ma questo lo penso
adesso: allora l’immagine, e la prospettiva mi colpirono.
L’apparente serenità della vita familiare nascondeva una crisi tra i miei genitori.
A un certo punto essa esplose: si separarono con una decisione di cui noi figli non
comprendemmo le ragioni. Mia madre con le sorelline si trasferì a Roma, mio padre
rimase a Napoli in un appartamentino ammobiliato in via Carducci, per badare
agli affari (quali, non so, visto che l’impresa si era dissolta e le terre via via vendute).
Rimasi con lui, per finire il biennio all’università. Poi, mi trasferii anch’io a Roma
e cominciò una nuova vita.
XLIII
1. La casa del Corso.
XLIV
2. Zio Marcello, nonno Armando e nonna Sara.
3. Nonno Armando Diaz.
XLV
4. Con nonno Eduardo Salzano, 1932.
5. 1933.
XLVI
6. Con le mie sorelline Germana e Litta, Natale 1936.
7. Con Chinchino Compagna e un amico, 1949.
XLVII
8. Con mia madre Anna Diaz e un’amica, 1949.
9. Mio padre Mauro con mia figlia Maria, 1962.
XLVIII
Memorie di un urbanista
L’Italia che ho vissuto
Capitolo primo
A Roma
1. Nuove amicizie, nuove scoperte
All’inizio degli anni Cinquanta la mia famiglia si trasferì da Napoli a Roma. Gradualmente: prima mammà e le sorelle, poi io, infine mio padre.
Mi mancava un solo esame per concludere il biennio d’ingegneria, e
si decise che quell’esame (meccanica razionale) lo avrei fatto a Roma.
Abitavamo in viale Bruno Buozzi, ai Parioli: un quartiere elegante ma
brutto, con palazzine tra lo squallido e il mediocre pretenzioso. Qualche
raro pezzo di “architettura moderna”.
Accanto alla nostra palazzina si trovava la bizzarra Casa del girasole
dell’architetto Luigi Moretti, che ebbe una certa notorietà.
Avevo già amici a Roma. Incontrati nei salotti che talvolta frequentavo e raggiungevo anche da Napoli. Altri ne conobbi: nel tempo, un
nucleo compatto. Ragazzi della buona borghesia, studenti universitari o
laureati di fresco, di buona cultura e buoni sentimenti. C’incontravamo
la sera in piazza Ungheria, alla Latteria Lotti. Le chiacchiere che facevamo non erano da vitelloni. Si discuteva di libri e di film, di poesia e di
musica. E, naturalmente, delle vicende universitarie. Ma anche di amori
e di politica. Il clima era quello di una sinistra moderata, con oscillazioni
tra una sinistra liberale e una timida presenza comunista.
La domenica si andava al mare. Quasi sempre a Fregene, la spiaggia
a una ventina di chilometri da Roma. Una bella spiaggia, con alle spalle
una pineta. Quest’ultima era stata investita, negli anni Trenta, da una
lottizzazione di ville molto signorili, costruite e abitate – nel decennio
prima della guerra – dalle famiglie ricche della Roma della borghesia
fascista (più tardi cedute a esponenti del mondo dello spettacolo). Negli
anni, l’insediamento si era non solo ampliato (era nata Fregene Sud),
3
capitolo primo
ma erano cambiati le dimensioni dei lotti, la qualità delle case, il ceto
sociale degli abitanti.
Barbara, la ragazza che amavo, invitava spesso i nostri amici in una
bellissima villa di proprietà della sua famiglia: una delle prime a essere
costruite, su un lotto grande il doppio di quelli standard. Il padre di
Barbara, Andrea Busiri Vici, architetto, aveva costruito una dimora in
stile “mediterraneo”, pubblicata su riviste e libri di architettura. Sul
grande prato antistante la casa si intrecciavano chiacchiere e amori.
La spiaggia era vicina: un lungo arenile, alla cui estremità nord c’era
il “villaggio dei pescatori”. Nei primi anni in cui frequentavo Fregene,
era un vero villaggio di semplici capanne, alcune di paglia, abitato da famiglie di poveri pescatori. Mano a mano, negli anni, le capanne furono
comprate da romani e trasformate in villette con qualche pretesa di lusso: inizialmente una sola fila frontemare, tra i relitti di duna e il Tirreno,
poi via via si infittirono, occupando abusivamente una seconda e una
terza fila.
Fregene era allora un luogo bellissimo, la spiaggia deserta, la pineta
piena di uccelli e piccoli mammiferi, i relitti di dune costellati dalle piante pioniere (tra cui profumati gigli), le palline di alghe feltrite trascinate
dalla brezza.
Il mio amico più stretto era Peppe Loy. Sardo – il padre era un avvocato antifascista – si era trasferito al seguito della famiglia a Roma ma
manteneva solide radici affettive nell’isola. Aveva un fratello, Nanni, e
una sorella, Luisa, entrambi più grandi di lui. Nanni era regista cinematografico, anch’egli molto simpatico: divenne famoso con le spiritosissime gag della candid camera ma il suo film più bello rimane quello
dedicato alle Quattro giornate di Napoli. Raccontava in modo molto efficace la lotta popolare che aveva condotto alla liberazione della mia città
dai nazifascisti prima dell’arrivo degli alleati: le truppe tedesche si erano
arrese ai partigiani a condizione di lasciare incolumi la città. Dopo l’8
settembre vi erano stati episodi sporadici di attacco ai soldati nazisti da
parte di piccoli gruppi di patrioti: qualche scaramuccia, che aveva provocato una feroce repressione e la proclamazione dello stato d’assedio.
L’evacuazione delle abitazioni di tutta la fascia costiera, per una profondità di 300 metri, aveva provocato l’esodo forzato di oltre duecentomila persone con il timore della distruzione di gran parte della città.
Il 27 settembre 1944 era scoppiata una vera e propria battaglia: alcune
centinaia di abitanti (molti ex militari e marinai che si erano rifiutati di
consegnarsi ai fascisti) erano scesi in strada, assalendo perfino i carri armati con armi improvvisate. Dopo tre giorni di combattimento, i tedeschi si erano arresi e avevano lasciato la città. Un film del 1952, ancora
4
a roma
sull’onda di quel neorealismo che ci ha dato immagini e storie indimenticabili dell’Italia di quegli anni.
Immagini e storie attraverso le quali sono entrati nei cuori e nelle
teste di una intera generazione i principi fondanti la Repubblica. Film
come Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini avevano fatto comprendere quanto la passione civile, basata sulla dignità dell’uomo, potesse condurre all’eroismo persone appartenenti a mondi e ideologie
diversi: anzi, nel pensiero corrente percepiti addirittura come opposti,
come il militante comunista e il prete romano. Paisà (1946), anch’esso di
Rossellini, aveva tracciato quadri successivi delle tante Italie attraversate
dalla linea della guerra e della Resistenza: dalla Sicilia a Napoli e a Roma,
dall’Umbria a Firenze, fino alla conclusione, con immagini e silenzi da
tragedia greca, nei morbidi paesaggi del Delta del Po. E ancora Sciuscià
(1946) e Ladri di biciclette (1948), di Vittorio De Sica, rendevano consapevoli, con la forza della poesia, del disagio e della sofferenza degli strati
sociali più colpiti dal fascismo, dalla guerra e dalle diseguaglianze.
Quei film furono come delle finestre che mi si aprirono, in quegli
anni, su una storia che si era svolta accanto alla mia vita, ma di cui
avevo ricevuto solo esili segnali, filtrati dal pensiero allora corrente nel
mondo “perbene” a cui appartenevo.
2. San Pietro in Vincoli
Dato l’ultimo esame del biennio di ingegneria, mi iscrissi al triennio conclusivo che durò ben più di tre anni. La sede era l’ex convento a San Pietro in Vincoli, prospiciente il parco di Colle Oppio, sovrastante il Colosseo. Avevo scelto la sezione “civile edile”, senza troppa consapevolezza.
All’inizio, gli studi furono abbastanza pesanti: c’erano gli esami che
non appartenevano al filone edilizio architettonico, ma al funzionamento delle macchine e alle loro tecnologie; erano del tutto estranei ai miei
interessi e per di più erano gestiti da professori molto esigenti e severi.
Le lezioni che si svolgevano all’Istituto di architettura (uno dei molti che componevano il politecnico) invece mi aprirono il cuore. Nel
mondo arido e funzionale degli ingegneri1, sentir parlare dell’estetica di
Benedetto Croce e delle poesie di Leopardi e Garcia Lorca era per me
un balsamo.
1 Ha descritto mirabilmente la figura tipica dell’ingegnere R. Musil, L’uomo senza qualità,
Einaudi, Torino, 1957, p. 41-42.
5
capitolo primo
Del resto, la sede di San Pietro in Vincoli aveva sottili legami con la
poesia. Un verso di Leonardo Sinisgalli, poeta che amavo, raccontava
delle rondini che sfrecciavano attraverso i finestroni dell’aula di disegno,
all’ultimo piano: Sinisgalli aveva studiato ingegneria proprio nelle aule
che io stesso frequentavo.
Cominciai a indirizzare parte dei miei pensieri, e delle mie parole,
alla politica. Soprattutto con alcuni (pochi) dei nuovi amici che scoprivo all’università. Il primo fu Bruno Morandi, detto Dado. Dado era
figlio d’un famoso ingegnere che progettava – inventava – strutture di
cemento armato, tra i primi in Italia ad applicare tecnologie molto avanzate, come quelle delle travi precompresse. Dado condivideva solo in
parte gli interessi del padre. Ciò che ci univa era la politica. Scoprimmo
di avere gli stessi sentimenti e le stesse emozioni, e maturammo insieme
le prime convinzioni.
I valori che per noi erano divenuti centrali erano quelli della Resistenza. Ne leggevamo nei libri che raccontavano la sua storia come
quello di Roberto Battaglia2 e come le Lettere dei condannati a morte della
Resistenza italiana3. In quelle lettere, scritte pochi minuti prima della
fucilazione o dell’impiccagione, scoprivamo la realtà di un’Italia nella
quale l’antifascismo, oltre a essere un sentimento, si prolungava anche
in azioni in cui si rischiava la vita per la costruzione di una società più
giusta. Ci rivelavano un aspetto dell’eroismo molto diverso da quello
cui ci aveva abituato il patriottismo savoiardo e fascista, di cui la nostra
infanzia era stata nutrita: un eroismo votato all’affermazione di valori
quali l’uguaglianza, la libertà del corpo e della mente.
Le mie letture mi fecero comprendere la portata di un episodio cui
avevo assistito da vicino4, a Roma, mentre giocavo con mio cugino
Luigi all’Hotel Imperiale in via Veneto, il 23 marzo 1944. Un piccolo
commando di partigiani aveva organizzato un attentato colpendo, con
una bomba nascosta in un carretto della spazzatura e con un successivo
attacco con pistole e bombe a mano, un reparto di soldati tedeschi che
percorrevano la centrale via Rasella. Trentadue soldati erano stati uccisi.
Immediatamente il comandante nazista diede ordine di raccogliere un
gruppo formato da dieci persone per ogni tedesco ucciso e di liquidarlo per rappresaglia. In realtà, di uomini ne furono presi 335: militari e
partigiani, ebrei, antifascisti, ma anche civili che con la Resistenza non
2
3
R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953.
Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945), a cura
di P. Malvezzi e G. Pirelli, Torino, Einaudi, 1961.
4 In Prologo, Via Rasella dall’Hotel Imperiale.
6
a roma
c’entravano. Tradotti in una cava di pozzolana sulla via Ardeatina furono trucidati con le mitragliatrici, finiti con il revolver; la cava fu sepolta
da un’esplosione di mine. Né quel giorno né il giorno dopo se ne seppe
nulla: i giornali, che pubblicavano solo le notizie consentite dai fascisti, tacquero. Due giorni dopo, un crudele comunicato, pubblicato sul
«Messaggero», diede dei fatti questa versione:
Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno
eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna
tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa
imboscata 32 uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e
parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di
questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente
la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato
dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quell’ordine è già stato eseguito5.
Dopo la Liberazione, il Comune bandì un concorso nazionale per il
monumento in memoria dell’eccidio delle Fosse ardeatine, che condusse alla costruzione del più bell’episodio di architettura civile dell’Italia
del secolo scorso, e forse uno dei più belli in assoluto. Lo disegnò un
gruppo di giovani architetti e scultori6. Accanto alla roccia tufacea della
cava, un grande parallelepipedo di calcestruzzo, come una gigantesca
lastra, copre le 365 tombe, staccato da terra da una feritoia continua;
accanto, un gigantesco gruppo scultoreo rappresenta tre uomini legati;
un cancello molto elaborato segna l’ingresso al complesso, da cui si
accede alla cava ripristinata, dove gli ostaggi furono raccolti e trucidati.
Molti anni dopo, quando si cominciarono a mettere in dubbio gli
ideali della Resistenza e, con essi, i metodi della lotta partigiana, si tentò
di gettare fango su quell’episodio, definendolo un atto criminale dei comunisti (quasi riecheggiando le parole dell’ukase nazista). Ma la giustizia
riabilitò l’operato del gruppo di patrioti riconoscendone la natura di
legittimo atto di guerra7.
Parlavamo molto del comunismo, ma contemporaneamente ci divertivamo alla lettura del giornale satirico anticomunista di Giovanni Guareschi, il «Candido». Non ci piaceva quello che sentivamo definire come il
5
6
«Il Messaggero», 25 set. 1944.
Gli architetti erano Nello Aprile, Aldo Cardelli, Cino Calcaprina, Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini; gli scultori Francesco Coccia e Mirko Basaldella.
7 Corte di cassazione, sezione iii civile, sentenza 6 ago. 2007, n. 17.172.
7
capitolo primo
totalitarismo del comunismo, ma ancora meno quello fascista. Scavalcammo un crinale decisivo: dopo una lunga riflessione comune, convenimmo
che se si fosse dovuto scegliere tra i due totalitarismi, a quello di destra
avremmo preferito quello comunista. A differenza di molti nostri coetanei, nella scelta tra Stalin e Hitler non avevamo dubbi. Era un buon inizio.
3. Alberto e la politica
Un altro amico col quale dividevo emozioni e scoperte era Alberto
Durante. Anche con lui si discuteva molto di politica. Era socialista,
ogni giorno comprava l’«Avanti». Io ero ancora oscillante: propendevo
verso una sinistra forse più vicina al Pci che ai socialisti. Ma bisogna
dire che allora (eravamo negli anni Cinquanta) i socialisti erano molto
diversi da quelli che abbiamo conosciuto dagli anni di Craxi in poi. Con
Alberto cominciai a leggere i primi libri sul movimento operaio.
Il nostro preferito era un libro di Edouard Dolleans, La storia del
movimento operaio. L’impostazione di Dolleans era più vicina a Proudhon
che a Marx, meno scientifico e più sentimentale. Forse questo dava
una particolare concretezza alla sua descrizione dello sfruttamento nel
sistema capitalistico, dei tentativi dei proletari di migliorare la loro condizione d’esistenza, delle sanguinose repressioni attraverso le quali si
erano via via affermati i loro fondamentali diritti, di organizzazione e di
sciopero. In assenza di questi diritti, la loro condizione era di servi.
I proletari – cominciai a capire, ma poi fu la lettura di Marx a chiarirmi più precisamente le idee – disponevano di una sola forza per
combattere con armi quasi pari il padrone: la possibilità di gestire collettivamente la loro unica ricchezza, la forza lavoro. Solo questo potevano opporre al proprietario dei mezzi di produzione, del “capitale”. Per
farlo, dovevano necessariamente essere solidali, pronti al sacrificio dello
sciopero. Quest’ultimo rischiava, se prolungato, di minacciare le stesse
condizioni di sussistenza delle famiglie proletarie. A sua volta, quindi,
pretendeva una solidarietà più ampia: quella degli altri operai, delle fabbriche nelle quali i compagni continuavano a percepire il salario.
Ad Alberto e a me interessava anche la cultura architettonica. Leggevamo con attenzione le riviste specializzate, partecipavamo a incontri
organizzati da studenti della facoltà di architettura, culturalmente più
vivaci dei nostri colleghi politecnici. L’essere informati su ciò che avveniva fuori dallo stretto ambito dominato dal regolo calcolatore e dalla
tavola dei logaritmi ci diede momenti di gratificazione. Così fu quando
l’Istituto organizzò un viaggio nei paesi scandinavi, la cui produzione
8
a roma
urbanistica e architettonica era allora molto studiata dagli architetti
italiani. In quel momento storico – a differenza di adesso – essere architetti comportava un forte impegno civile. Il messaggio della Resistenza,
la volontà di impiegare ogni strumento per costruire una società più
giusta erano molto sentiti. Non era ammissibile praticare un’edilizia
(e a maggior ragione un’architettura) che non fosse connessa a una visione della città e momento della sua costruzione. Da questo punto di
vista, i paesi scandinavi ci sembravano un modello esemplare.
Nel corso del viaggio, Alberto ed io, a differenza degli altri colleghi
e degli stessi professori, sapevamo che cosa c’era da vedere e perché in
Danimarca e in Svezia; per gli altri l’interesse massimo era rappresentato dalle fantasticherie sulla facilità di rapporti sessuali con le donne
scandinave. Vedemmo Copenhagen, Malmö, Götebörg, e Stoccolma,
naturalmente, con i suoi nuovi quartieri; infine, dopo un lungo tragitto
in pullman attraverso verdissime foreste, Oslo. Avevamo preparato un
piccolo dossier con gli articoli delle riviste, soprattutto «Urbanistica» di
Giovanni Astengo. Era l’unica documentazione seria disponibile, e così
fummo il riferimento per quei pochi tra noi che volevano conoscere le
città visitate dal punto di vista dei nostri interessi di studio.
La Scandinavia ci piacque moltissimo, la Svezia soprattutto, della
quale visitammo parecchio. Ammiravamo il modo in cui gli scandinavi
consideravano la natura: disegnavano i loro quartieri in modo che questa fosse sempre presente, ma rispettandone i segni; consideravano elementi del disegno gli alberi, i massi affioranti dal terreno. Ammiravamo
l’attenzione alle esigenze della vita domestica degli abitanti, l’intelligenza
con la quale provvedevano ai servizi collettivi, che potevano far risparmiare tempo e soldi alle famiglie: le lavatrici di caseggiato, gli stenditoi
comuni, gli angoli per i picnic, e i giochi per i bambini e i ragazzi; su su,
fino ai complessi scolastici perfettamente integrati alle aree residenziali,
alle case per anziani, alle attrezzature sanitarie, ai musei. Ammiravamo
la diffusione di quello che più tardi si chiamerà welfare urbano, le condizioni di equità nelle quali viveva (così almeno ci sembrava) la maggioranza della popolazione.
Allora non ci domandavamo chi pagasse tutto questo: se gli abitanti
di qualche lontana regione nell’Africa o nell’Asia, che pagavano il benessere dei paesi colonialisti come il Belgio e l’Olanda, il Regno Unito e
la Francia, oppure i traffici consentiti dalla posizione di neutralità della
Svezia in molte guerre. Intanto, come giovani urbanisti (o ingegneri e
architetti) ci sembrava che ci fosse moltissimo da imparare per fare meglio il nostro futuro mestiere. E ci stupiva che loro, invece, delle nostre
architetture invidiassero la fantasia e gli svolazzi.
9
capitolo primo
Eravamo ancora studenti quando affrontammo le prime esperienze
professionali. Un signore milanese ci commissionò l’arredamento di un
appartamentino vicino alla stazione Termini. Progettammo due piccole
sedi di un’agenzia di viaggi. Questa esperienza mi fece conoscere alcuni
falegnami molto simpatici, che mi insegnarono ad apprezzare il legno e
mi regalarono dei campionari che conservai a lungo.
Ma lasciammo presto l’arredamento. Il grosso del nostro lavoro
diventò il calcolo delle strutture di cemento armato. I miei colleghi
erano in contatto con un paio di piccole imprese di costruzione, che ci
commissionavano i calcoli delle semplici gabbie di calcestruzzo delle
palazzine e dei villini che costruivano. La tecnica di calcolo era molto
semplice, se nasceva qualche problema, Mimì Del Vecchio, uno del nostro gruppo, era sempre in grado di risolverlo.
Una volta ci capitò un’occasione importante. Il mio amico Peppe
Loy era entrato nell’impresa di costruzioni del suocero (una grossa
azienda, con grandi lavori in tutta Italia). Si trattava di partecipare all’appalto-concorso per gli edifici della Fiera del mare di Genova. L’architetto era un progettista qualificato e serio, a noi affidarono i calcoli delle
strutture. Lavorammo bene. L’impresa si aggiudicò i due lotti più grandi. Uno di questi era costituito da un certo numero di padiglioni molto
vasti, quadrati, ciascuno con un lato di circa quaranta metri. Secondo
il progetto, ogni quadrato era coperto da una grande cupola; quattro
robuste passerelle collegavano i quattro gruppi di pilastri agli angoli
delle cupole. Per queste lunghe passerelle impiegammo travi in cemento
armato precompresso, calcolate e disegnate da Mimì.
Un giorno ci telefonarono allarmati. Tirando i primi cavi si erano
staccati alcuni pezzi di calcestruzzo in corrispondenza degli ancoraggi.
Saltammo sul primo treno. Arrivati a Genova angosciati alle sei del mattino, ci precipitammo in cantiere, andammo al banco del ferraiolo, dove
si preparavano i cavi, e in particolare gli ancoraggi nelle testate delle travi. Mimì si accorse subito che non li avevano realizzati secondo i nostri
disegni: l’errore era dell’impresa, non di noi progettisti. Respirammo.
4. Federico Gorio e la civiltà urbanistica
Non sapevo che cosa fosse l’urbanistica finché non incontrai Federico
Gorio. Federico era assistente dell’unico professore di urbanistica, Cesare Valle, autorevole funzionario del Ministero dei lavori pubblici (presidente della sezione urbanistica del Consiglio superiore dei lavori pubblici,
“il supremo organo tecnico consultivo dello Stato”, del quale anni più
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a roma
tardi divenni membro). Di frequente, le lezioni le teneva lo stesso Gorio,
ed era ancora lui che, sempre presente in istituto, seguiva noi studenti.
L’urbanistica mi piacque subito. Mi piaceva il forte intreccio tra dimensione tecnica e professionale e quella sociale e politica, testimoniato
dalle esperienze alle quali Gorio aveva partecipato e di cui ci raccontava.
Tornato dal campo di concentramento in India dove era stato rinchiuso dagli inglesi dopo la sconfitta italiana in Africa, Gorio era stato assunto
dall’Usis, un servizio di informazioni culturali degli Usa, con sede a Roma. Lì aveva partecipato a progetti che ci appassionavano molto: si era
occupato di edilizia abitativa pubblica, nell’ambito di un progetto pilota
messo a punto per affrontare la questione della povertà nel Mezzogiorno,
in particolare il risanamento sociale ed edilizio dei Sassi di Matera.
Nel dopoguerra infatti, l’Italia e il mondo avevano scoperto, dopo
la parentesi fascista, la “questione del Mezzogiorno”: cioè il fortissimo
divario tra le regioni meridionali e quelle centrali e settentrionali, che
faceva parlare d’un vero dualismo. A questo si intrecciava la “questione agraria”, che aveva nel Mezzogiorno sue caratteristiche peculiari. Il
nodo di entrambe le questioni era nel modo in cui si era formato, nel
corso dei secoli, l’assetto economico e sociale dell’una e dell’altra parte
d’Italia. Nel Sud non c’era stata accumulazione capitalistica, cioè reinvestimento della ricchezza prodotta nello stesso processo produttivo. Non
era diventata egemone una classe borghese, legata all’attività imprenditoriale, ma dominatrice era rimasta la classe dei proprietari fondiari:
a differenza della prima, i “signori” non reinvestivano in imprese economiche, ma potevano limitarsi a consumare, nel lusso e nello spreco,
i redditi che estraevano dallo sfruttamento dei contadini. Questi ultimi
costituivano il grosso delle classi lavoratrici, erano legati per la loro sussistenza alle terre che la rapacità del signore consentiva loro di coltivare.
La formazione dell’unità d’Italia non aveva appianato questa sostanziale differenza: il cemento dell’unificazione era stato costituito dall’alleanza tra la borghesia del Nord con le classi dominanti del Sud, legate alla rendita e non al profitto, allo sfruttamento delle risorse esistenti (e del
lavoro servile), non alla formazione di nuove vie per produrre ricchezza.
La stessa costituzione del regno unitario era stata vissuta dalle popolazioni del Sud come una conquista da parte dei “piemontesi”: il brigantaggio ne fu la conseguenza, la repressione il prezzo. Si erano formate
estese sacche di miseria profonda. Questa realtà, sopravvissuta fino agli
anni del dopoguerra, fu messa in luce da una bellissimo libro, Cristo s’è
fermato a Eboli, di Carlo Levi: uno scrittore che, in quanto sospettato di
attività antifasciste, era stato confinato in un paesino della Lucania dove
aveva appreso, vivendole, le condizioni del Mezzogiorno.
11
capitolo primo
La Lucania, Matera, i Sassi furono l’epicentro di quelle “questioni”.
I Sassi erano due grandi contigui valloni scoscesi, a forma di anfiteatro,
scavati dalla natura ai margini di altopiano delle Murge, entrambi (il Sasso Caveoso e il Sasso Baresano) sede di preistorici insediamenti rupestri.
Le grotte, completate da povere strutture edilizie in superficie aggrappate ai costoni, erano state per secoli le abitazioni di famiglie contadine. A
partire dal Settecento la città si era espansa sull’altopiano, ma i Sassi erano rimasti immutati fino ai nostri giorni. I contadini vivevano nei Sassi
e lavoravano in campagna, nelle lontane terre del latifondo: si lavorava
“da stelle a stelle”, si lasciava l’abitazione prima dell’alba, la si ritrovava
dopo il tramonto. Uomini e animali vivevano insieme, in condizioni
igieniche spaventose. Un indice parla per tutti: la mortalità infantile era,
nel 1948, di 436 morti su 1000 nati vivi. Si aprì un dibattito:
Da una parte una sorta di “nostalgia regressiva” per un
ritorno a forme sociali precapitalistiche, con la mitizzazione
della “filosofia della miseria”, dell’“etica grandiosa del fato dei
contadini”. Dall’altra, la denuncia dei Sassi come “vergogna
nazionale”, sede di inaudita miseria. E, infine, il valore formale,
storico-ambientale-paesaggistico dei Sassi e delle chiese rupestri
scavate sui fianchi del burrone8.
Una missione finanziata dagli Usa condusse una serie di indagini.
Si definì un programma, che prevedeva la realizzazione di alcuni borghi
agricoli nella pianura e l’assegnazione ai contadini dei terreni espropriati
ai latifondisti.
In questo quadro, Gorio partecipò alla progettazione del borgo La
Martella.
Mi piaceva moltissimo lo sforzo di riprendere, in termini attuali,
elementi della tradizione abitativa, quali la prossimità della stalla all’abitazione; l’aggregazione per nuclei, ciascuno caratterizzato dalla presenza
di un forno comune; l’asciutta modestia dei materiali e delle forme; la
cura negli elementi di arredo; l’articolazione dei nuclei sulle gibbosità
del territorio e l’aggregazione dell’insieme attorno al nucleo dei servizi9.
Come spesso succede in Italia (adesso accade molto di peggio), al
buon programma e all’ottimo progetto urbanistico ed edilizio non
corrispose la politica. Il nucleo dei servizi non fu completato, i terreni
8 V. De Lucia, Se questa è una città. La condizione urbana nell’Italia contemporanea, Roma, Donzelli, 2006, p. 10.
9 Al progetto parteciparono anche Ludovico Quaroni, Michele Valori, Pietro Maria Lugli,
architetti, e l’ingegner Mario Agati.
12
a roma
del latifondo non furono espropriati e concessi ai contadini. All’opposizione della Dc, che vedeva nel progetto sociale una impronta bolscevica
(«volete fare un colkoz», dicevano), si aggiungeva la diffidenza comunista
nei confronti di un progetto di matrice sociologica americana.
Gorio aveva promosso e curato l’edizione originale del Manuale
dell’architetto (1946): un manuale, redatto sulla base di materiali del bravissimo architetto Mario Ridolfi, che insegnava ad architetti, ingegneri e
geometri a costruire correttamente.
Costruire correttamente: questo poteva essere il motto di Gorio. Per lui,
l’architettura non aveva senso se non a tre condizioni: di essere concepita avendo la maggiore consapevolezza possibile del sito, della sua storia,
della società che lo frequentava; di definire il progetto con la massima
accuratezza tecnica, tenendo conto delle tecnologie impiegabili, del
livello di qualificazione delle maestranze, della necessità di tutte le parti
di funzionare nel tempo, con la massima attenzione alle parti dell’edificio che diventano elementi della città; infine, di progettare l’edificio con
la consapevolezza che si trattava di aggiungere un mattone a un edificio
collettivo, la città.
Lavorai con Gorio all’università, poi partecipando con lui a qualche
concorso di progettazione urbanistica, poi ancora al Centro studi della
Gescal, nel quale mi chiamò a collaborare.
5. Barbara e l’impegno sociale
In questo racconto della mia vita ho scelto di lasciare sullo sfondo gli
aspetti più privati. Tuttavia il motore di molte scelte di vita è costituito
spesso da rapporti con altre persone: rapporti di amicizia, di discepolato
e di fraternità, e rapporti d’amore. Così fu il mio amore per Barbara, poi
divenuta mia moglie e madre dei miei primi cinque figli: a esso è legato
il mio avvicinamento a quegli impegni che oggi chiameremmo solidaristici, attività di matrice culturale cattolica volte a intervenire in pratiche
di assistenza sociale. Andavamo nelle zone più povere ed emarginate
della città, portando alimenti, vestiti, medicine.
Fu un’esperienza importante, per più ragioni. Conobbi la miseria
delle borgate di Roma, sentii l’odore di quegli insediamenti poverissimi, abitati da un’umanità dolente formata da immigrati delle campagne
dell’Abruzzo, del Lazio, delle Marche e della Campania, cacciati dalla
crisi dell’agricoltura e attirati dalla grande domanda di manovalanza
per l’edilizia. Era l’umanità descritta da Pasolini, dove ai muratori si
mescolavano, nei luoghi e nelle vite, i piccoli malviventi del borseggio,
13
capitolo primo
della ricettazione, della truffa. Le case delle borgate erano tuguri di latta
e cartone, le esigenze degli abitanti (quelle almeno cui noi potevamo in
qualche modo rispondere) del tutto elementari.
Sradicati dalle loro campagne, allontanati dai loro mestieri e dalle
loro piccole comunità, approdavano ai margini – in tutti i sensi – di
una metropoli che costruivano a vantaggio della speculazione. Furono
un’esperienza e un’emozione analoghe a quelle dell’incontro con il corteo degli operai in sciopero, a Napoli, sotto il ponte di Chiaia, ma molto
diverse per i soggetti che scoprivo. Due strati sociali, entrambi vittime
del sistema capitalistico. Ma della classe operaia si percepiva la centralità,
espressa nel rigoroso e determinato silenzio del loro disciplinato corteo;
del sottoproletariato delle borgate si afferrava subito invece – a partire
dall’odore – la condizione di emarginazione, sull’orlo che separa la civiltà e il benessere dall’annientamento.
Nelle riunioni che organizzavamo per ragionare e discutere, conobbi un approccio diverso ai temi della politica. Le chiacchiere con gli
amici di piazza Ungheria, i lunghi colloqui con i colleghi dell’università
vertevano più sulla meccanica della politica, sugli avvenimenti esterni,
che sulle sue matrici ideali. Nel gruppo di cattolici di sinistra che con
Barbara frequentavo10, invece, si ragionava e si studiava per comprendere meglio i contenuti della politica come attività morale del governo degli
uomini. Il tema sotteso era il rapporto tra cattolicesimo (e più in generale la dimensione religiosa) e il movimento operaio (e in particolare il
comunismo). Le esperienze dei preti operai, la letteratura francese del
“personalismo” (Maritain e Mounier), le pubblicazioni in Italia dell’olivettiano “movimento di comunità” erano i fili conduttori. Guardavamo
al comunismo come a un pericolo e, al tempo stesso, come a una speranza. Per dei giovani della tranquilla borghesia, come noi eravamo, che
la domenica andavano a messa e nelle cui famiglie si leggevano giornali
intrisi di anticomunismo, era difficile farci i conti.
Una scoperta fu la rivista «Esprit»: ricchissima di saggi, essa era
espressione di un gruppo, fondato dal filosofo Emmanuel Mounier, criticamente vicino ai comunisti, molto impegnato in una riflessione che
da un lato si riallacciava al pensiero cattolico più audace (Teilhard du
Chardin) e a quello della tradizione riletta in chiave anticapitalista (Charles Peguy), dall’altro militava nell’azione politica impegnandosi su temi
come la Resistenza antifascista prima, la lotta contro il colonialismo e le
segregazioni poi.
10
Ricordo tra loro Piero Scoppola, Fabio Fiorentino, Rocco Capòpardo, Donatella Pedace.
14
a roma
6. Pubblicista
Nell’ambito di questo ultimo gruppo di amici iniziai, per così dire,
l’esperienza di pubblicista.
Nel 1953 era uscita una rivista, «Nuova generazione», espressione
di un gruppo di giovani che si collocavano all’estrema sinistra nella Dc:
scrissi una lettera alla redazione, che venne pubblicata, in cui indicavo
quelli che a mio avviso erano i limiti e le ambiguità della loro posizione11. Seppi poi che la lettera era stata considerata come una critica di
parte comunista.
Successivamente, con Fabio Fiorentino ne scrissi un’altra in replica
a un articolo di Paolo Spriano apparso sul settimanale culturale del Pci,
«il Contemporaneo», nel quale si sollevavano riserve sulle posizioni dei
francesi cui noi invece eravamo vicini: Spriano li definiva «profeti disarmati», cioè inefficaci12. Noi, naturalmente, li difendevamo. Il direttore
Carlo Salinari ci cercò e volle incontrarci, probabilmente per capire chi
eravamo. Pubblicò la nostra lettera con grande evidenza: apertura in
prima pagina13. Nel numero successivo pubblicò una replica di Valentino Gerratana14.
La terza esperienza fu più impegnativa, fu anzi all’origine di una
svolta decisiva nella mia vita. La redazione di «Esprit» aveva avviato
la preparazione di un numero speciale sull’Italia. Nella politica italiana
qualcosa stava cambiando. Sul tema della pace si profilava un avvicinamento tra mondo cattolico e partito comunista. Nella Dc personalità
di un certo peso e gruppi di giovani cominciavano a guardare fuori dal
loro partito, verso sinistra. Ebbe un effetto dirompente il voto del
parlamento sulla costituzione della Comunità europea di difesa, vista a
11 E. Salzano, La volontà di comprensione non copra equivoci interessi, «Terza generazione», 2
[1954].
12 P. Spriano, La campana di Olivetti, «Il Contemporaneo», 4 (17 apr. 1954). La sintesi dell’articolo contenuta nel sommario era: «Il movimento di Comunità recluta tutti i suoi quadri tra
gli intellettuali liberali, liberalsocialisti, socialdemocratici. Su ciascuno di essi cala silenziosa la
campana di vetro della Olivetti & C.».
13 F. Fiorentino, E. Salzano, Cattolici e comunisti, «Il Contemporaneo», 11 (5 giu. 1954). La
lettera fu presentata nel seguente modo: «Con la pubblicazione di questa lettera dei cattolici
Edoardo Salzano e Fabio Fiorentino intendiamo offrire un nuovo contributo al dibattito dei
rapporti tra mondo comunista e mondo cattolico. Intendiamo sviluppare e approfondire questa indispensabile ricerca».
14 V. Gerratana, La critica dei miscredenti, «Il Contemporaneo», 12 (12 giu. 1954). In sintesi,
l’articolo sosteneva: «Per porre su nuove basi il dibattito tra due forze decisive della coscienza
contemporanea occorre superare il pregiudizio idealista che ha isolato le correnti più avanzate
della cultura cattolica».
15
sinistra come un’arma per la guerra contro l’Unione sovietica. Si accentuava intanto l’attenzione del Pci nei confronti di ciò che si muoveva
nell’area cattolica.
Il numero speciale di «Esprit» fu intitolato, significativamente,
L’Italie bouge, l’Italia si muove. Fu preparato da un vasto lavoro di
consultazione di intellettuali italiani, invitati a rispondere a un ampio
questionario. Anche noi (grazie ai contatti che Fabio aveva preso con la
rivista) incontrammo il suo direttore, al Caffè Ruschena sul lungotevere.
In seguito a quel colloquio scrissi un lungo pezzo, in risposta alle domande del questionario. Lo spedii: ne furono pubblicati numerosi passaggi, soprattutto sul rapporto tra comunisti e mondo cattolico15
15
L’Italie bouge, I Enquête, «Esprit», xxiiime année, 9, sep.-oct. 1955, p. 1396-1446, passim.
16
Capitolo secondo
Un nuovo mondo si apre
1. Franco Rodano
Mentre ragionavamo sulla nostra collaborazione alla rivista francese,
Fabio mi disse: – Bisogna che conosciamo Franco Rodano, gli chiediamo di rispondere al questionario –.
Prendemmo appuntamento e andammo da lui. Fu un incontro che
cambiò molto delle mie convinzioni, della mia conoscenza, delle mie
azioni.
Abitava in una bellissima villa silenziosa, in via di Porta Latina, immersa in un ampio giardino con alberi secolari e piante di rose. Sapevo
poco allora di Franco Rodano. Sapevo che, durante la Resistenza, aveva fondato il Movimento dei cattolici comunisti. Dopo l’inizio della
guerra fredda aveva ricevuto dal Vaticano un decreto di interdetto (dai
sacramenti), era entrato con i suoi nel Partito comunista, aveva un ruolo rilevante come pensatore.
Ci ricevette in una grande stanza, dalle spesse mura e dalle ampie
finestre sul giardino, un cesto colmo di petali di rose, moltissimi libri
alle pareti, una piccola scrivania con oggetti accuratamente sistemati.
Parlò soprattutto Fabio: gli illustrò il progetto del numero di «Esprit»
sull’Italia e gli chiese di collaborare rispondendo al questionario.
Rodano fu estremamente critico. Fece domande su alcuni nodi
della politica. Coinvolgevano soprattutto il discrimine tra una posizione riformista (correggere gli errori del sistema vigente) e quella
rivoluzionaria (proporsi di costruire una società interamente nuova).
A questo discrimine corrispondeva la decisione a favore di quale dei due
blocchi schierarsi, se quello egemonizzato dell’Urss o quello Atlantico.
17
capitolo secondo
Le posizioni intermedie, le “terze forze”, non avevano, secondo lui,
senso: esprimevano solo incertezze e timidezze intellettuali o morali.
E ancora, secondo Rodano, la posizione di «Esprit», le domande del
questionario, nonostante la nobiltà delle intenzioni, erano decisamente
collocate su una posizione che a lui sembrava errata e pericolosa. Fabio
via via si rivelava sempre più “riformista”. Io parlavo poco, ero pieno
di perplessità e di dubbi. Le argomentazioni di Rodano mi colpivano
molto, e così il modo in cui intrecciava considerazioni sulla storia e sulla filosofia, sui grandi princìpi e movimenti dello spirito e sulle vicende
politiche e sociali più vicine. Mi faceva vedere le cose sotto un’angolazione e una prospettiva che forse avevo intuito, ma mai avevo lette così
chiaramente.
Ci accomiatammo, tornammo a casa. Fabio deluso, io molto pensoso. Fu dopo questo colloquio che completai le mie risposte al questionario di «Esprit». Le inviai anche a Rodano, accompagnandole con un
biglietto di ringraziamento per l’incontro.
Dopo qualche tempo mi telefonò, mi chiese di andarlo a trovare.
Mi disse che stava lavorando a una nuova rivista politica, e mi chiese di
collaborare.
Frequentai a lungo Franco Rodano. Poco alla volta imparai la sua
storia, conobbi gli eventi ai quali aveva partecipato da protagonista;
alcuni, quelli che caddero nei periodi in cui lavoravo con lui, in tempo
reale; altri, i più, attraverso brevi racconti suoi o dei suoi più vecchi
amici; infine, con la lettura dei due volumi che sua moglie Marisa dedicò alla loro vita in comune16 e che mi hanno fatto comprendere la
complessità, la ricchezza, la verità della sua vita e del suo ruolo nella
Storia.
La casa in cui ci incontravamo, la villa tra via di Porta Latina e via
San Sebastiano, era stato il luogo nel quale si erano riuniti in clandestinità, durante l’occupazione nazista, i massimi dirigenti del Pci e degli
altri partiti antifascisti per discutere la ricostruzione della vita politica
in Italia, le tattiche per la Resistenza e le strategie per il dopoguerra.
Seppi più tardi della vita errabonda e clandestina che i miei amici
avevano patito a Roma, negli anni bui dell’occupazione nazista della
capitale, tra soffitte di conventi e alloggi di amici fidati, con pacchi di
manifestini e qualche revolver e bomba a mano; seppi dei rischi, degli
eroismi, dei martìri, prezzo che il gruppo cui appartenevano Franco e
Marisa pagò per fedeltà ai princìpi e costanza nell’attività politica.
16 M.
Rodano, Del mutar dei tempi, 2 vol., Roma, Memori, 2008.
18
un nuovo mondo si apre
Seppi più tardi che nella loro abitazione c’erano stati i primi contatti tra tre personaggi che furono un riferimento costante per Franco,
negli anni in cui lo frequentai: Palmiro Togliatti, il leader indiscusso
del Partito comunista italiano; don Giuseppe De Luca, uomo di grande cultura e religiosità, emissario di quegli ambienti del Vaticano che
portarono al papato di Giovanni xxiii; Raffaele Mattioli, il grande
banchiere e intellettuale, coinventore dell’Iri e fondatore della Banca
commerciale, che aveva protetto durante la Resistenza uomini come
Ugo La Malfa e Giorgio Amendola, e creato con l’editore napoletano
Ricciardi la più grande e rigorosa antologia della letteratura italiana
(era stato anche l’amico che, una ventina di anni prima, aveva consigliato a mio padre di dichiarare fallimento, dopo la crisi dell’impresa
di mio nonno Eduardo).
Frequentando Franco e Marisa vissi, quasi in presa diretta, episodi
significativi della vita politica italiana. Alla costruzione di alcuni contribuii personalmente, a partire dai lavori che facemmo insieme: quelli in
particolare che avevano a che fare con la rendita urbana e con il ruolo
degli spazi pubblici nella città e nella società. (Ma su quest’ultimo argomento tornerò con ampiezza più avanti, perché costituisce un filone
importante della mia attività, lo stesso intorno al quale sto lavorando
anche adesso, mentre scrivo queste pagine).
2. In quegli anni, nel mondo e in Italia
Verso la metà degli anni Cinquanta qualche spiraglio di novità sembrava aprirsi, nell’Italia e nel mondo, qualche incrinatura nella rigida contrapposizione tra i due blocchi. Il mondo era spaccato tra due realtà
statuali, politiche, economiche, ideologiche, facenti capo l’una all’Urss
(Unione delle repubbliche socialiste sovietiche), l’altra agli U sa .
La guerra contro la Germania di Hitler e i suoi alleati italiani e giapponesi era stata vinta dall’alleanza tra Gran Bretagna, Russia e Usa. Ma già
all’indomani della seconda guerra mondiale, nel marzo 1946, Winston
Churchill, premier del Regno Unito, aveva pronunciato a Fulton, nel
Missouri, quel discorso nel quale per la prima volta si adoperava il termine “cortina di ferro”17. Un anno dopo, nel marzo 1947, il presidente
17 In un’intervista, il leader dell’Urss Iosif Stalin commentò quel discorso: «Lo giudico un
atto pericoloso, diretto a seminare i germi della discordia tra gli stati alleati e a rendere difficile
la loro collaborazione», «Pravda», 13 mar. 1946.
19
capitolo secondo
degli Usa lanciava quella che sarebbe stata definita, dal suo nome, la
“dottrina Truman”: la politica di contenimento dell’espansione del comunismo nel mondo, attraverso la costituzione di un blocco militare
(il Patto atlantico) e il sostegno economico agli stati europei ove i partiti comunisti minacciavano di prendere il potere (il Piano Marshall).
La replica dell’Urss era stata immediata: un blocco militare e una più
viva ingerenza negli “stati satelliti”, gravitanti nell’orbita di Mosca.
Il rischio implicito nella rottura dell’alleanza antinazista era la
guerra: una terza, devastante guerra mondiale, questa volta dotata fin
dall’inizio del nuovo armamento nucleare sperimentato dagli Usa a
Nagasaki e Hiroshima e rapidamente adottato anche dall’Urss.
Perciò, in quegli anni, era sorta una forte aspirazione pacifista.
E perciò, in quegli stessi anni, si era manifestato un interesse di nazioni e stati non direttamente coinvolti nell’orbita dell’una o dell’altra
delle due potenze maggiori a consolidare una propria autonomia. Iniziative comuni delle diplomazie dei due blocchi contrapposti per tentare le vie della pace (prima tappa, il disarmo atomico), e altre dei paesi del “Terzo mondo” (così si cominciò a definire i paesi non allineati)
trovarono sbocchi significativi proprio verso la metà del decennio.
Nel 1955 ebbe luogo a Ginevra un primo incontro tra i massimi
esponenti degli Stati dell’alleanza anti nazista (Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia). Lo stesso anno, in Indonesia, nacque il “Terzo mondo”. Per la prima volta si riunirono nella Conferenza di Bandung i
paesi che non si riconoscevano né nel mondo dominato dall’economia
di mercato né in quello governato da una rigida economia statalizzata:
stati e movimenti di liberazione nazionale di paesi dell’Asia, dell’Africa
e dell’Europa (la Jugoslavia di Tito) che volevano essere autonomi rispetto ai due blocchi.
Anche in Italia qualcosa stava cambiando, soprattutto nel mondo cattolico. La collaborazione con i comunisti era una componente essenziale per chiunque volesse operare sia, nel mondo del
lavoro, a sostegno alle classi lavoratrici sia, nel campo delle grandi
questioni mondiali, per sconfiggere la prospettiva di guerra sterminatrice. Ma l’orientamento del Vaticano (era papa Eugenio Pacelli, Pio xii ) era violentemente anticomunista. Ecco quindi le
numerose condanne di ogni iniziativa che, dal clero o dalle organizzazioni sociali cattoliche, violasse la pregiudiziale anticomunista. Furono gli anni nei quali furono pesantemente sconfessati
personaggi come don Primo Mazzolari, un parroco che diffondeva un pensiero di forte impegno sociale, e don Lorenzo Milani,
autore della splendida iniziativa di formazione descritta nel libro
20
un nuovo mondo si apre
Esperienze pastorali18, e soprattutto di Lettere a una professoressa19, un libro
che animò parte rilevante del Sessantotto.
Nella Dc, l’opposizione alla linea dominante si espresse in modo
esplicito in occasione del dibattito parlamentare sull’adesione dell’Italia
all’Unione europea occidentale: un dispositivo militare che avrebbe consentito il riarmo della Germania occidentale, ostacolato la riunificazione
delle due parti nelle quali era stata divisa la nazione tedesca e costituito
una palese iniziativa di contrasto con l’Urss, nel momento stesso in cui
si tentava di avviare iniziative di distensione e di collaborazione verso il
disarmo atomico e la pace.
È in questo quadro che nacque l’iniziativa politica e giornalistica alla
quale Franco Rodano mi invitò a collaborare, avviando un mutamento
profondo nella mia vita.
3. La rivista «il Dibattito politico»
Stava nascendo una nuova rivista, «il Dibattito politico». Due deputati democristiani avevano votato contro l’adesione dell’Italia al Trattato militare
europeo ed erano stati radiati dal loro partito. Si trattava di Mario Melloni
e Ugo Bartesaghi. Il primo era stato partecipe della Resistenza a Milano;
giornalista (aveva diretto «il Popolo», quotidiano della Dc), cattolico di sinistra vicino alle posizioni della rivista «Esprit», fervido antifascista e convinto avversario delle ingiustizie sociali, uomo spiritosissimo ed elegante,
avrebbe scritto sulla nuova rivista gustosissimi corsivi firmandosi emme.
Proseguì più tardi, firmandosi Fortebraccio sull’«Unità». Completamente
diverso come cultura e atteggiamento era l’altro compagno d’avventura,
Bartesaghi: sindaco di Lecco, austero e rigorosissimo, già accusato nel suo
partito di filocomunismo per essere andato con i pescatori del lago di Como a soccorrere la gente del Delta nell’alluvione del Polesine.
Contemporaneamente, un gruppo di giovani democristiani, esponenti di punta delle organizzazioni giovanili della Dc (Giuseppe Chiarante, Lucio Magri, Ugo Baduel, Umberto Zappulli), da tempo orientati
su posizioni di sinistra vicine a quelle del Pci, avevano abbandonato il
loro partito. A casa di Franco e Marisa Rodano, che già frequentavano,
incontrarono il gruppo (Vittorio Tranquilli, Filippo Sacconi, Tonino
Tatò, Giobatta Chiesa, Franco Rinaldini, Ennio Parrelli, Erasmo Valente)
18
19
L. Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957.
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.
21
capitolo secondo
che aveva attraversato con Franco la storia dell’opposizione al fascismo
e della Resistenza, l’esperienza del Movimento dei cattolici comunisti
prima, della Sinistra cristiana poi, lo scioglimento di quest’ultima e
l’ingresso nel Pci, e infine la vicenda culturale della rivista «Lo Spettatore italiano»: una rivista mensile, edita da Laterza, la cui redazione era
formata da Elena Croce e altri dell’area culturale crociana, che si occupavano prevalentemente della parte letteraria, e da alcuni del gruppo di
Rodano, che curavano la parte politica.
L’obiettivo del «Dibattito politico» era dar voce alle posizioni che
favorivano il dialogo tra il mondo cattolico e quello comunista. Il tema
immediato era la pace e la sconfitta del terrore atomico; la prospettiva
era l’incontro tra due realtà culturali in diverso modo interessate al superamento del sistema capitalistico-borghese. Dietro c’erano i colloqui
che, proprio a casa Rodano, si svolgevano tra altissimi esponenti del Pci
e del Vaticano. Ma questo lo seppi dopo.
Del rapporto stretto che legava il gruppo del «Dibattito politico» e il
Pci lo seppi invece subito, quando Franco mi chiese di portare a casa di
Palmiro Togliatti, nel quartiere di Montesacro, una copia appena stampata
della rivista. Un po’ emozionato presi la mia Vespa e lasciai la rivista alla
persona che venne ad aprirmi il cancello della piccola villa oltre l’Aniene.
Naturalmente accettai la proposta di collaborazione: avrei scritto solo
su ciò che conoscevo, architettura e urbanistica. I primi pezzi li firmai
Cpr (Cooperativa progettisti romani): era il nome che avevamo dato al
nostro sodalizio professionale con Alberto Durante e gli altri. Mi ero
consultato con loro, era la prima volta che a uno di noi veniva fatta una
proposta simile. Decidemmo che si poteva accettare, ma che la collaborazione doveva essere espressione di un impegno collettivo. Ma già dopo
poche settimane, constatato il disinteresse dei miei colleghi, firmavo col
mio nome e cognome. Ero uno dei pochi che firmava “in chiaro”, insieme ai due direttori, Melloni e Bartesaghi, e a qualcuno dei giovani ex
Dc. In particolare, restavano coperti da pseudonimo Rodano (Michele C.
Di Pietro), Tranquilli (Valerio Trevi), Tatò (Vindice Vernari), Sacconi (Leonardo Castelli), la new entry Giuliana Gioggi (Giuliano Scolastici): in pratica
gli iscritti al Pci (credo anche per evitare che qualcuno in quel partito li
accusasse di costituire una fazione organizzata). Le firme esplicite erano
quindi solo quelle di ex democristiani, cui si aggiungevano quelle di due
“laici” sconosciuti: io e il mio amico Rocco Cacòpardo.
Rocco, detto Chicco, apparteneva a quel gruppo di giovani intellettuali cattolici di sinistra che frequentavo. Aveva un’intelligenza molto
viva, una cultura ricca e giocata su tonalità diverse dalle mie. Aveva
ascendenze francesi che s’erano intrecciate ad avi siciliani. Il padre era
22
un nuovo mondo si apre
funzionario d’una organizzazione internazionale che aveva base a Montreal, in Canada, dove anche Chicco aveva vissuto. Aveva uno sguardo
più cosmopolita degli altri. Il suo punto di riferimento culturale era un
gesuita canadese, padre Lonergan, di cui decantava le posizioni molto
avanzate. Anche per lui il collegamento politico culturale più vivo erano
gli intellettuali francesi cui faceva capo «Esprit», ma conosceva bene Sartre e la filosofia esistenzialista.
Era molto incuriosito dal mio mondo di architetti e urbanisti. Abitava in un bell’appartamento dei genitori, in piazza Bologna. Ci propose
di trasferire a casa sua il nostro piccolo studio (fino ad allora avevamo
utilizzato una stanzetta a casa di Mimì) e ci aiutò a costruire un sofisticato arredamento.
Come me, ammirava molto le tesi, le iniziative e la letteratura di
Comunità, un movimento molto vivace, che faceva capo all’industriale
Adriano Olivetti, e che coniugava gli interessi per la sociologia e la filosofia a quelli per l’urbanistica, l’architettura, il design.
Adriano Olivetti era promotore e finanziatore di ottime esperienze.
Per molti anni finanziò l’Istituto nazionale di urbanistica e la sua rivista
«Urbanistica». Pubblicava a sua volta una bella rivista, «Comunità», che
si occupava di tutte le questioni che gli stavano a cuore e che avevano
sullo sfondo il progetto di una società nuova. C’era in lui una forte carica
utopistica, una grande capacità organizzativa, un’attenzione estrema per
la cultura in tutte le sue espressioni. La modernissima Fabbrica Olivetti
di Ivrea, oltre a produrre le bellissime macchine da scrivere e a essere
sorretta da una rete di servizi sociali di straordinario livello, era la fucina
di un ampio gruppo di intellettuali.
Per un anno circa scrissi solo articoli in materia di urbanistica e architettura: pezzi brevi, raramente occupavano una pagina intera. Tutti
gli articoli – soprattutto quelli più impegnativi – erano il prodotto di una
discussione con Franco Rodano, di cui sempre più mi conquistava la
capacità di intrecciare ogni argomento con le sue radici culturali, storiche,
filosofiche, politiche, vicine e remote. Ogni discussione era una lezione.
Mi sentii sempre più legato alla rivista, e piano piano cominciai a occuparmi anche d’altro: cominciai a scrivere su altri argomenti, e a partecipare alle normali attività di redazione. Scrivevo brevi note di politica
italiana e internazionale, e di economia, e mi ero assunto il compito di
illustrare i pastoni sulla politica internazionale composti da Sacconi, con
qualche vignetta satirica ripresa dalla stampa estera. Aiutavo a correggere le bozze, avevo rapporti con l’affascinante mondo della tipografia
(si adoperava ancora la linotype e si costruivano le pagine con pacchi di
righe di piombo fuso).
23
capitolo secondo
Quando il settimanale diventò mensile proposi addirittura la nuova
copertina, che venne accettata. Un po’ mutuata dal modello anglosassone dell’«Economist», aveva però la testata composta dai caratteri stencil,
quelli stampigliati sulle casse o sulle tavole dei concorsi di architettura
con le mascherine traforate: li avevo visti in una pubblicazione di Le
Corbusier che mi era piaciuta molto.
Cominciò allora la mia passione per il lavoro di redazione, che mi
condusse a molti tentativi editoriali: qualcuno effimero, qualcuno di lunga durata. Ma di questo parleremo più avanti.
Ciò che più mi piaceva era scrivere. Più degli articoli impegnativi mi
divertivano brevi corsivi, dalle 20 alle 60 righe, che occuparono nel tempo una specifica rubrica, «Il rosso e il nero», su temi prevalentemente
suggeriti da Franco.
I giovani ex democristiani confluiti nel «Dibattito politico» avevano
provenienze e abitudini provinciali: Beppe Chiarante e Lucio Magri venivano da Bergamo e da Ferrara, Ugo Baduel da Perugia. La loro cultura
politica era sterminata, ma vivevano in un mondo dal quale ogni altra
dimensione era estranea: in particolare quella un po’ godereccia e spensierata dei figli della buona borghesia romana.
Abitavano in un appartamento subaffittato da una certa signora Scarponi, vicino alla città universitaria: un paio di stanze ingombre di pile di
giornali e di calzini sporchi. Con Rocco decisi di estrarli dal loro mondo
e di introdurli in un altro, più arioso: almeno la domenica nelle buone
stagioni, che a Roma erano molte e lunghe. Prendemmo l’abitudine di
passarli a prendere con la Cinquecento di Rocco (io seguivo in Vespa)
e di portarli a Fregene, nella villa dei genitori di Barbara, la Busiriana.
Là conobbero altre persone. Trascorrevano ore a discutere di un problema politico che stavano affrontando o di un articolo che stavano scrivendo, passeggiando su e giù per il prato; ma poi chiacchieravano del più e
del meno, facevano amicizia, si innamoravano.
4. Emergono i temi della ricerca
Sul «Dibattito politico» scrissi un articolo impegnativo20, capostipite di
una linea di ricerca che si sarebbe sviluppata considerevolmente negli
anni successivi. Fu in occasione del processo che vide contrapposti il
20 E. Salzano, L’arretratezza economica del personale economico frena il dinamismo della Sgi, «il
Dibattito politico», 77 (16 dic. 1956).
24
un nuovo mondo si apre
settimanale «l’Espresso» e la Società generale immobiliare, protagonista
delle peggiori speculazioni urbanistiche nella Roma papalina e democristiana. Il processo era stato provocato da una serie di articoli dal titolo
«Capitale corrotta=nazione infetta. Cicicov in Campidoglio», in cui il
giornalista Manlio Cancogni descriveva analiticamente e denunciava i
legami tra potere economico (la grande società immobiliare) e potere
politico (il personale della Dc che dominava in Campidoglio).
A quella vicenda ebbi modo di partecipare, in un ruolo del tutto
marginale, col mio amico Alberto Durante. Nella sua denuncia e nella
sua successiva difesa, «l’Espresso» era affiancato da una pattuglia di urbanisti (tra cui Gorio, Vittorini, Vincenzo Di Gioia, Cesare Valle) il cui
tramite con la rivista era costituito da Antonio Cederna.
Per difendere Cancogni e il suo giornale si voleva quantificare esattamente il maggior valore ottenuto dall’immobiliare con una variante ad
hoc operata dal Comune di Roma per l’area di proprietà della società sul
colle di Monte Mario. Bisognava misurare alcune superfici sulle tavole
del prg. Esisteva un solo planimetro (strumento tecnico per misurare
le aree su una mappa) disponibile, lo avrebbe prestato l’architetto Ludovico Quaroni. Alberto ed io andammo nello studio di Quaroni in via
Frattina, misurammo le aree, calcolammo il maggior volume edificabile
ottenuto con il passaggio da una destinazione edilizia a un’altra.
Il processo si concluse in appello con la condanna del giornalista per
calunnia.
Nell’articolo sul «Dibattito politico» affrontavo la questione da un
punto di vista più generale. La tesi che sostenni, e che mi sembra ancora valida, è che la responsabilità maggiore era quella del potere politico,
del suo asservimento alla struttura economica, e dell’intreccio perverso
tra rendita urbana e profitto capitalistico. Oggi, mezzo secolo più tardi,
sostengo (e non sono il solo) la stessa tesi nei confronti dell’asservimento della politica all’economia neoliberista: in modo, ahimè, molto
più generalizzato di quanto allora fosse.
Sviluppai il ragionamento in una serie di articoli, all’inizio del 1957,
dai titoli lunghi e significativi, affrontando i temi che poi rimarranno al
centro della mia attenzione. Nell’articolo intitolato La proprietà privata
del suolo urbano impedisce l’ordinato progresso della città e la sua organica espansione urbanistica affrontavo la questione della proprietà del suolo urbano, riprendendo largamente l’allora celebre testo di Hans Bernoulli21.
21 Oggi ripubblicato, in edizione integrale: H. Bernoulli, La città e il suolo urbano, Venezia,
Corte del Fontego, 2006.
25
capitolo secondo
In I progetti di legge sulle aree fabbricabili, non intaccando l’assetto proprietario,
rinunciano ad ogni soluzione completa proseguivo il ragionamento sul terreno
legislativo22: si stavano discutendo in parlamento alcune proposte in
materia di acquisizione di aree per l’edilizia economica e popolare e di
prelievo fiscale degli incrementi di rendita derivanti dalle scelte dei piani
regolatori, i primi cenni di quei tentativi di più ampia riforma urbanistica che si manifesteranno qualche anno più tardi.
5. Bisogno, consumo, produzione, lavoro
Nello stesso anno affrontai un tema che a partire da allora divenne
centrale sia nella riflessione del gruppo di Franco Rodano sia nel mio
specifico lavoro di urbanista: la questione dell’organizzazione del
consumo. A Franco si era riavvicinato il grande economista Claudio
Napoleoni – uno dei pochissimi che abbia studiato il capitalismo e
la critica marxiana nel tentativo di guardare oltre – e spesso i miei
contributi erano discussi anche con lui. Alla scuola dei miei maestri
(e grazie anche alle mie letture), avevo compreso la differenza tra il carattere specifico delle grandi funzioni dell’economia (consumo, produzione, lavoro) in relazione alla crescita delle facoltà proprie dell’uomo, e il
ruolo che esse avevano assunto nel sistema capitalistico borghese. La
posizione che i miei amici avevano formulato, e che fu alla base della
mia ricerca successiva, ha la sua premessa in una valutazione del bisogno. Riprendo alcune formulazioni da un testo che Claudio Napoleoni
scrisse per le scuole medie superiori:
I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici è una circostanza
che risulta immediatamente evidente a una considerazione anche superficiale, della realtà umana, così come essa si presenta in
ogni momento dato. (…) Ma dovrebbe pure risultare chiaro che
i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni
dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila
anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari di un sovrano,
potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile
lavoratore. (…) Questo sviluppo dei bisogni si presenta come
22 I due articoli sono in «il Dibattito politico», rispettivamente 78 (1° gen. 1957) e 79
(16 gen. 1957).
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un nuovo mondo si apre
illimitato, giacché è il fatto stesso che certi bisogni siano stati
soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni.23
E se l’uomo è riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più
immediati, più elementari, quelli cioè che dipendono dalla sua vita animale, i bisogni della sussistenza, ecco allora che vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come
quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare
sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi
affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai
suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano
e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni
volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare
l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti
i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale
quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più.
Il consumo è l’attività economica finalizzata alla soddisfazione del
bisogno, la produzione ha a sua volta nel consumo la sua finalità. Lo strumento mediante il quale l’uomo produce è il lavoro, altra dimensione
essenziale del processo economico. Seguendo anche qui la definizione
di Napoleoni, il lavoro
è, per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale
l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso
che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine.
I fini che l’uomo può proporsi sono potenzialmente infiniti, ma
l’uomo, come essere finito, li può perseguire e raggiungere solo
in un processo, passando da ogni determinato ordine di fini ad
altri ordini superiori, e intanto questo processo è pienamente
umano in quanto ogni suo momento è una tappa per il passaggio ai momenti successivi, e mai un punto di arrivo definitivo.
Corrispondentemente il lavoro, in condizioni naturali, realizza
la sua natura di strumento universale solo passando sistematicamente attraverso una successione di determinazioni particolari,
senza mai fissarsi in alcuna, ma anzi stando in ciascuna solo per
conseguire fini che, una volta raggiunti, lo metteranno in grado
di acquisire una maggiore efficacia come strumento e quindi
di servire per fini superiori. In questo processo naturale di
23 Questa e la citazione seguente sono in C. Napoleoni, Elementi di economia politica, Firenze,
La Nuova Italia, 1980III, p. 4 e seguenti.
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capitolo secondo
sviluppo, c’è dunque un rapporto di azione reciproca tra i fini e
il lavoro: è il raggiungimento del fine che arricchisce il lavoro, ed
è il lavoro arricchito che consente fini più alti24.
Questo «processo naturale di sviluppo» dell’uomo è interrotto dallo
sfruttamento:
Con lo sfruttamento, infatti, il lavoro perde la sua natura di
strumento universale, in quanto viene rinchiuso entro una cerchia definita e invalicabile di bisogni, quella dei bisogni della vita
fisica. Quando quella parte della capacità lavorativa di un uomo
che resta ancora disponibile dopo che egli ha soddisfatto i propri
bisogni di sussistenza, e che potrebbe perciò essere ordinata alla
soddisfazione di bisogni superiori, viene viceversa piegata verso
la produzione occorrente per soddisfare i bisogni di sussistenza di
un altro uomo, allora il lavoro rimane fissato entro una categoria
determinata di bisogni, il rapporto di interazione tra lavoro e fini
è spezzato, il processo stesso dello sviluppo umano (almeno come
sviluppo interessante la generalità degli uomini) risulta interrotto.
Una precisa visione dell’uomo era quindi il presupposto filosofico
della lettura che Rodano e Napoleoni elaboravano sulla società e sulla
sua storia. Da questa base partimmo per affrontare l’analisi della città,
nel tentativo di individuare le ragioni della sua crisi e le possibili vie di
un suo rinnovamento. Ma per giungere a questo risultato, e percorrere
lo spazio che separa la riflessione critica sulla natura economico-sociale
del mondo attuale dai lineamenti di una adeguata politica urbanistica
fu necessario un ulteriore passaggio. Riflettendovi oggi, a quasi mezzo
secolo di distanza, esso fu possibile grazie anche all’apporto di Marisa
Rodano e alle sue esperienze nella politica e nella società.
Il lavoro teorico si intrecciava infatti strettamente con quello pratico
di Marisa, fortemente impegnata nel movimento per l’emancipazione
della donna. Il suo apporto è stato fondamentale per rendere la questione del consumo un elemento centrale del ragionamento sulla società
e sulla città, che mi condusse alla ricerca sull’urbanistica nella società
attuale, sulla quale tornerò più avanti. Per comprenderla è necessario
tener presente che la condizione delle donne era profondamente cambiata nel quadro delle trasformazioni che avevano caratterizzato l’Italia
dopo la guerra e la sconfitta del fascismo. Ricordiamo i tratti essenziali
di questo mutamento.
24 Questa e la citazione seguente sono in C. Napoleoni, Sfruttamento, alienazione, capitalismo,
«La Rivista trimestrale», 7-8 (1963), p. 402.
28
un nuovo mondo si apre
6. Le trasformazioni nella società e nel territorio
Il fascismo e il secondo conflitto mondiale avevano lasciato all’Italia
una pesante eredità: le distruzioni di una guerra che aveva attraversato
l’intero Paese, soggiornandovi a lungo; un’economia chiusa, “autarchica” e tendenzialmente autosufficiente, largamente basata su un’agricoltura spesso praticata in forme arcaiche e improduttive. Il modo in cui le
forze dominanti, che facevano capo sostanzialmente alla Dc di Alcide
De Gasperi e al partito liberale di Luigi Einaudi, affrontarono l’adeguamento dell’economia alle condizioni di un mercato aperto provocarono
tumultuose trasformazioni nella società e nel territorio.
Sul versante della ricostruzione, anziché adoperare gli strumenti della pianificazione, si era lasciata briglia sciolta all’attività edilizia privata.
Ognuno costruì dove volle, dove più accessibili e ben serviti dalle strade
erano i terreni e dove più forte era la domanda di case provocata dalle
distruzioni, dalla scarsità del patrimonio edilizio (nel 1931, data dell’ultimo censimento generale prebellico, 41,6 milioni di abitanti vivevano
in 31,7 milioni di stanze) e dalle migrazioni interne. La forte espansione
dell’attività edilizia svolgeva anche un altro ruolo, facilitava il passaggio
della mano d’opera dall’agricoltura all’industria: per un contadino era
più facile imparare il mestiere di manovale o di muratore che quello di
operaio nella catena di montaggio.
Sul versante dell’economia, l’ingresso dell’Italia nel mercato internazionale aveva rapidamente reso insostenibili le condizioni di gran
parte dell’agricoltura e favorito invece l’espansione della produzione
industriale.
La conseguenza fu che milioni di italiani furono indotti a spostarsi
dalla campagna alla città, dalle attività agricole al lavoro nelle fabbriche
e negli uffici, dai piccoli centri alle città dove l’industria (Milano, Torino,
Genova) o le attività terziarie (Roma) richiamavano occupazione.
Dal 1951 al 1971 quasi 20 milioni di abitanti cambiarono residenza.
I governi che gestirono la ricostruzione e il successivo periodo di
crescita economica (dopo la breve parentesi di quelli con la presenza
della sinistra) non governarono né l’uno né l’altro fenomeno: si limitarono a stimolare la spontaneità dell’imprenditoria.
Le città in cui le migrazioni portavano nuovi abitanti crescevano
a dismisura senza regole se non quella della valorizzazione dei terreni
dei proprietari più potenti. Estese periferie prive di servizi dilagarono a
macchia d’olio. Le scelte di politica industriale, dominate dai maggiori
gruppi capitalistici del Nord, privilegiavano la produzione di beni di
consumo durevole; l’enorme espansione della produzione di automobili,
29
capitolo secondo
favorita dalla costruzione delle infrastrutture stradali, impediva di investire nel trasporto collettivo, ponendo una delle più pesanti ipoteche
sulla vivibilità delle città e sul loro funzionamento, e sul consumo di
energia e di tempo.
Accanto alle trasformazioni dell’assetto sociale e territoriale, avvennero trasformazioni altrettanto significative nel campo dei poteri.
La democrazia che si ricostituì dopo la Liberazione era una democrazia di massa. Il quadro politico era dominato da partiti con una forte
base popolare: se i partiti comunista e socialista esprimevano soprattutto la classe operaia e larghi strati del bracciantato e, nelle regioni centrali,
della mezzadria, il substrato cattolico della Democrazia cristiana, e la
sua stessa storia, ne facevano l’interprete, oltre che delle forze economiche dominanti, anche di porzioni consistenti del mondo contadino,
dell’artigianato e della piccola imprenditoria.
E dal 1946 il suffragio universale era stato realizzato nella sua pienezza, estendendo il voto alle donne.
In questo quadro anche la condizione delle donne era mutata. Già
la donna era assoggettata, senza possibilità di scelta, alle mille mansioni
del lavoro casalingo. A tutto ciò si aggiungeva adesso il lavoro nelle fabbriche e negli uffici.
Nel marzo 1958, dopo le consuete riunioni con Franco (e gli interventi di Marisa) scrissi un articolo che fu intitolato Gestione domestica e
organizzazione del consumo25. La sua rilettura, a distanza di molti anni, mi
ha riportato alla memoria cose rilevanti per comprendere l’evoluzione
di un interesse che mi ha seguito negli anni.
Analizzavamo in primo luogo il modo in cui in Italia si svolge il
consumo.
Esso – scrivevo – è legato strettamente alla vita familiare, e subisce
l’ordinamento rigidamente privatistico di questa. Una sola persona, priva di ogni oggettiva qualificazione tecnica, presiede alle innumerevoli
incombenze della gestione domestica. La spesa, la scelta delle merci, la
formulazione del bilancio e la suddivisione delle sue voci, la preparazione dei cibi, la pulizia della casa, delle stoviglie, la cura degli indumenti e la
loro sostituzione, la sorveglianza dei minori anche ben oltre le necessità
della partecipazione della donna all’equilibrio della vita familiare: questi
sono solo alcuni dei compiti materiali svolti, ogni giorno, dalla casalinga.
25 E. Salzano, Gestione domestica e organizzazione del consumo, «il Dibattito politico», 107
(16 mar. 1958).
30
un nuovo mondo si apre
Questa attività, mentre da un lato è assolutamente empirica e non
specializzata, dall’altro avviene in forma del tutto gratuita. È quindi
completamente priva di ogni metro economico, di ogni ordine
previsto, di ogni tecnica razionale, di ogni necessaria disciplina:
il servaggio delle casalinghe – costrette a una fatica di cui nessuna remunerazione è possibile – viene così a coprire la reale
e gravissima dispendiosità con il quale il servizio domestico
viene gestito.
Organizzare in forme sociali il consumo consente quindi di raggiungere una molteplicità di obiettivi: liberare la donna dall’obbligo
del lavoro casalingo, risparmiare risorse e rendere possibile l’impiego
socialmente utile di ingenti masse di forza lavoro, consentire ai lavoratori di ottenere, a parità di salario, maggiori e migliori consumi.
L’articolo si concludeva con una nota di pessimismo, che il mezzo
secolo trascorso pienamente conferma:
Ma può una società come la nostra, fondata su una struttura economica torpida e anarchica, nata per l’iniziativa prematuramente senile di una borghesia impotente, diretta da
un personale politico incapace e arruffone permettere simili
prospettive, utilizzare siffatti tesori nascosti? C’è, in altri termini, nel nostro sistema sociale, l’esigenza di liberare le grandi
riserve esistenti di forza lavoro? Tutto ci risponde certamente
di no. Nel quadro degli attuali equilibri politici, l’organizzazione del consumo – ove per avventura, a semplice titolo di
ipotesi, potesse in qualche misura realizzarsi – coinciderebbe
fatalmente con l’estromissione brutale delle braccia superflue
da attività nelle quali, bene o male, riescono oggi a sopravvivere. Per risolvere questo come altri decisivi problemi italiani il
privatismo conservatore è insufficiente, i costi da esso pretesi
insopportabili.
Molti ragionamenti insomma si collegavano al tema dell’organizzazione sociale del consumo e lo nutrivano: l’emancipazione delle
donne, il ruolo subalterno del consumo, l’indebolimento della vita
collettiva, sempre più cancellata dal prevalere di teorie e pratiche individualistiche.
Sul terreno del mio mestiere e della comprensione dei suoi fondamenti, questa linea di ricerca si sviluppò negli anni successivi, in occasione del lavoro sugli standard urbanistici e soprattutto in occasione
di una serie di saggi che scrissi, nel 1964 e nel 1965, sulla «Rivista trimestrale», che succedette al «Dibattito politico», e che raccolsi poi nel
libro Urbanistica e società opulenta. Ma su questo tornerò più avanti.
31
capitolo secondo
7. Comunista
Prima di narrare delle ricadute urbanistiche del mio incontro con il
gruppo di Franco Rodano, vorrei far cenno alle ricadute che questo ebbe sulle mie convinzioni politiche.
Lavorare con persone più colte di me e più vicine alla Storia (a quella già trascorsa e a quella che via via si tesseva nella politica) mi fece
comprendere moltissime cose del mondo che mi circondava. Compresi,
tra l’altro, le ragioni per le quali l’insegnamento di Machiavelli, ripreso
da Gramsci, aveva reso autonoma la politica da ogni altra dimensione
del sapere e del vivere, dalla religione come dalla morale.
Compresi la rilevanza del fatto che la catena del sistema capitalisticoborghese, capovolgendo le previsioni di Marx, fosse stata spezzata nel
punto più basso del suo sviluppo: nella Russia semiasiatica degli zar
anziché negli evoluti stati capitalistici dell’Europa occidentale. Compresi come, grazie a questa provvidenziale rottura e alla faticosissima
costruzione di uno Stato (quello sovietico) che aveva reso collettiva la
proprietà dei mezzi della produzione capitalistica, era stato possibile
sconfiggere il nazismo prodotto dalle viscere del sistema borghese.
Compresi perché nella sua stessa nascita erano implicite le ragioni per
cui il comunismo sovietico era incapace di svilupparsi oltre le forme,
intrise di pesanti eredità autocratiche, nell’ambito delle quali aveva storicamente dovuto vivere. Compresi che rivoluzione non significa necessariamente presa del potere con la violenza da parte di una minoranza,
ma piuttosto instaurazione di un regime sociale radicalmente diverso da
quello vigente, basato sull’alienazione del lavoro e sullo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo; quel regime dal cui ventre sempre fecondo nascono inevitabilmente fascismi e guerre.
E compresi le ragioni per le quali il compimento della rivoluzione
mondiale, al di là dei traguardi, ahimè precari, raggiunti in Urss, poteva
avvenire solo a opera dei comunismi occidentali, nutriti di culture e
abitudini più aperte alle forme colloquiali della democrazia e del pluralismo culturale.
Ero insomma maturo per diventare comunista: comunista italiano,
perché coglievo tutta la diversità della cultura politica del “partito di
Gramsci e Togliatti” rispetto a quella del comunismo sovietico e degli
altri comunismi settari dell’Occidente europeo, e insieme la solidarietà
con l’Unione sovietica come baluardo statuale contro il prevalere del
dominio capitalistico-borghese nel mondo. Erano, tra l’altro, gli anni
del tentativo dei paesi ex coloniali di associarsi per costituire un blocco
di potere autonomo rispetto ai due imperi (la Conferenza di Bandung)
32
un nuovo mondo si apre
che fu troppo presto dissolto dal prevalere dell’egemonia statunitense
sui mercati mondiali.
Quando si manifestarono le prime crepe nell’impero sovietico – nei
paesi occidentali a esso annessi in seguito alla conclusione della seconda
guerra mondiale –, ciò che mi colpì dai primi resoconti giornalistici fu il
riemergere delle vecchie famiglie feudali e dei poteri reazionari sconfitti
dal blocco antifascista, e la puntigliosa narrazione del modo in cui i cittadini inferociti massacravano i comunisti. Leggevo con commozione,
assieme a mia sorella Germana, i paginoni del «Messaggero» e la descrizione dei comunisti infilzati sulle punte dei cancelli di Budapest. E mi
domandavo: ma perché mai non interviene l’Armata rossa per porre
termine a questo macello?
Così, mentre molti intellettuali abbandonavano il Pci, io sentii di essere ormai diventato comunista. Ma mi iscrissi molti anni dopo.
33
34
Capitolo terzo
Lavorare non stanca troppo
1. La laurea, e dopo
Gli interessi che si erano annodati attorno alla mia partecipazione al
«Dibattito politico» avevano rallentato la conclusione degli studi universitari. È solo nel 1957 che mi laureai. Nell’anno successivo mi sposai e
cominciò una vita nuova. Bisognava lavorare per mantenersi. La laurea
era stata davvero deludente. La tesi (il titolo era Sistemazione urbanistica
dei Campi Flegrei) non valeva granché – l’avevo sostanzialmente preparata qualche tempo prima con un collega – ma fu abbastanza scoraggiante illustrarla davanti a due professori (gli altri esaminavano altre tesi) che
chiacchieravano tra loro. Vedendoli intenti a raccontarsi i fatti loro mi
interrompevo; – continui, continui! –, dicevano, continuando a parlare
d’altro. La cosa finì comunque con un buon voto.
Continuai a frequentare la facoltà a San Pietro in Vincoli come volontario, a titolo gratuito. La mattina andavo lì prestissimo per preparare le diapositive per la lezione del professore Valle, titolare della cattedra
di urbanistica. Avevo cominciato a fare quel lavoro ancora da studente.
All’ombra e con il sostegno di Federico Gorio avevo avviato la formazione di un piccolo centro di documentazione. Con qualche collega
più giovane di me26, preparavo le diapositive da proiettare e redigevo
le schede relative. Senza preparazione specifica, armati di molta buona
volontà, ci improvvisammo documentaristi.
Avevo invece già maturato qualche esperienza nella redazione di
riviste, quando fondammo la «Rassegna dell’istituto di architettura e
urbanistica»: un titolo lungo per una rivista abbastanza smilza, stampata
26
Erano Umberto De Martino, Giulio Tamburini, Paolo Jacobelli, Pino Imbesi.
35
capitolo terzo
dall’università e alimentata dagli articoli dei docenti dell’istituto. Furono
quelli, per tutti noi, i primi momenti di una carriera universitaria che
proseguimmo, fino ai livelli più alti.
Allora, il passaggio obbligato per aspirare a diventare professori
era ancora l’esame di libera docenza. Era una prova per titoli e lezione.
Mi cimentai sul tema dell’edilizia economica e popolare (che mi fu assegnato ventiquattro ore prima della prova). Ero preparato sull’argomento, cucinai una buona lezione, superai l’esame Uno dei membri della
commissione mi invitò a illustrare lo stesso argomento al suo corso, alla
facoltà d’ingegneria di Cagliari. Fu il mio primo volo in aereo. Ma era
ormai il 1967. Molte cose erano successe prima.
2. Lavori e lavoretti
Il lavoro all’università era gratis. Anche, ovviamente, quello di pubblicista. Mi impegnai quindi anche nel lavoro professionale: inizialmente,
con i miei vecchi compagni della Cooperativa progettisti romani, continuai con lavoretti di piccoli progetti edilizi e calcoli di cemento armato.
Avevamo preso in affitto dei locali in via Baccina, dietro il muro della
Suburra: un ultimo piano assolato, abitato da un simpatico geco.
Per arrotondare, appena sposato, grazie a un parente di mia moglie
ebbi un incarico d’insegnamento in un istituto tecnico per periti agrari.
Insegnavo topografia. Una materia che non mi piaceva e di cui non sapevo niente. Preparavo le lezioni sull’autobus che mi portava alla scuola, che
era appena fuori Roma: per fortuna il tragitto era lungo. L’esperienza invece fu breve, e presto mi dedicai più ampiamente al lavoro professionale.
Dalla sede di via Baccina, con una formazione di colleghi leggermente diversa mi spostai in un nuovo studio in via dei Leutari, tra
piazza Pasquino e Campo de’ fiori. Lì facemmo qualche bel lavoro di
progettazione urbanistica assieme al nostro maestro Gorio.
Successivamente, con Giulio Tamburini e qualche altro collega
(Mario Manieri Elia, Italo Insolera, Giorgio Ciucci, Giusa Marcialis)
aprimmo uno studio in via del Tempio, nel Ghetto. Si aggregarono alcuni neolaureati (Massimo D’Alessandro e Maurizio Morandi).
Ci furono presto articolazioni e scissioni, dovuti a interessi diversi e
ad altre occasioni di lavoro. Giulio e io costituimmo la sezione urbanistica dello studio di via del Tempio, e dopo qualche tempo (con Giorgio
Ciucci, Giusa Marcialis, Umberto De Martino) ci spostammo in un appartamento nel quartiere Prati, in via Montezebio: costituimmo la Stass
(Studi Associati), con una bella targa d’ottone lucente sulla porta.
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lavorare non stanca troppo
3. Il piano urbanistico provinciale di Teramo e il piano regolatore generale di Giulianova
Due interessanti esperienze professionali le feci in Abruzzo, per la Provincia di Teramo e per il Comune di Giulianova. All’inizio degli anni
Sessanta si stava progettando l’autostrada adriatica. Il nostro gruppo
di via del Tempio era nettamente contrario al tracciato. Già due pesanti
infrastrutture – la ferrovia e la strada statale – rendevano difficile l’agibilità della costa e ne degradavano il paesaggio; aggiungerne una terza
significava comprometterli definitivamente. Insolera e Manieri Elia
parteciparono a un convegno promosso da Italia Nostra, a Giulianova.
I loro interventi piacquero a molti; tra gli altri, al presidente della Provincia di Teramo, Emilio Mattucci.
Mattucci era un democristiano intelligente. Aveva compreso che per
“evitare guai” il territorio va pianificato: bisogna comprenderne le caratteristiche, deciderne a priori l’organizzazione complessiva valutando
opportunità e rischi delle trasformazioni. Benché nessuna legge attribuisse alla Provincia un ruolo di pianificazione del territorio, ci incaricò di
redigere uno studio, cui convenimmo di dare il nome di Piano urbanistico
provinciale. Inventammo una nostra forma di pianificazione di coordinamento territoriale, cercando di appoggiare le scelte che proponevamo,
da un lato, a una lettura (abbastanza empirica) del territorio, dall’altro, a
uno studio economico sociale affidato ad amici economisti un po’ praticoni.
Qualche anno dopo, sulla base di quel lavoro, il Comune di Giulianova (un popoloso centro sulla costa in provincia di Teramo) ci chiese
di redigere il piano regolatore comunale. Ci lavorammo soprattutto
Giulio Tamburini e io.
Fu un bel lavoro. Instaurammo un ottimo rapporto con l’amministrazione comunale. Il nostro principale referente era il bravissimo
assessore all’urbanistica, il geometra Giuseppe Bianchetto, insegnante
di materie tecniche nella scuola media, eletto come indipendente nelle
file del Pci. Il sindaco, socialista, Romolo Trifoni, era una brava persona,
ma si occupava prevalentemente e bonariamente delle piccole richieste
dei suoi elettori (divenne più tardi un appassionato ecologista). Un personaggio simpatico era il segretario della sezione locale del Pci, Tonino
Franchi, in bilico tra la demagogia del politico furbo e la spinta morale
verso la corretta amministrazione. Mi colpì quando ci raccontò del
modo in cui raccoglieva i fondi per il partito: gli iscritti agricoltori, che
erano la maggioranza, regalavano al partito una determinata quantità di
grano, che lui stesso, nel periodo della mietitura, andava a falciare.
37
capitolo terzo
Ci furono affiancati alcuni giovani professionisti locali: nel loro ufficio
si svolgeva parte del lavoro, che completavamo nel nostro studio romano,
dove avevamo assoldato due studenti capaci e motivati: Pietro Garau e
Francesco Strobbe. Il primo diventò, molti anni più tardi, direttore della
struttura dell’Onu dedicata all’habitat, a Nairobi. Strobbe, invece, fu protagonista di una iniziativa della quale sono ancora oggi molto orgoglioso.
Senza fatica, avevo convinto l’assessore Bianchetto della necessità di
costituire un piccolo ufficio per la gestione del piano. Il Comune prese
quindi la decisione di inserire il ruolo di un tecnico nella pianta organica
e bandì il relativo concorso. Inducemmo Francesco Strobbe, che si era
appena laureato a partecipare. Vinse il concorso, si trasferì e si ammogliò
a Giulianova, e divenne il feroce e fedele custode del piano.
Molti anni più tardi, gli amministratori di Giulianova mi invitarono
a un convegno che aveva come tema l’urbanistica: volevano capire se
fosse necessario aggiornare il piano.
Affacciatomi alla balaustra del belvedere della piazza alta (il centro
antico era in collina, ma tutta l’espansione novecentesca si era sviluppata sulla stretta pianura costiera) fui piacevolmente colpito di vedere il disegno del nostro piano esattamente espresso sul terreno: l’area destinata
ad “attrezzature pubbliche e verde” trasferita dal retino cartaceo alla
realtà, e così le zone d’espansione, le strade e ciascuna delle previsioni
del piano regolatore generale.
Collaborai con l’amministrazione di Giulianova a redigere una variante del piano, che non ne mutava la struttura ma consentiva alcuni completamenti e definiva un nuovo assetto per una zona industriale dismessa,
collocata in un punto strategico. La variante fu approvata nel 1990.
Mentre scrivo queste pagine (quasi altri vent’anni sono passati), a
Giulianova si è formata una attiva associazione dal bel nome, “Il cittadino governante”, che difende gli spazi pubblici dai tentativi di privatizzazione e i paesaggi agricoli dall’invasione del cemento. Sono guidati
da un ex sindaco, Franco Arboretti, che aveva compreso l’utilità della
buona pianificazione urbanistica, e che si era dimesso dal suo partito
(Ds) quando questo l’aveva dimenticato. L’associazione mi ha invitato
recentemente a presentare il mio libro Ma dove vivi? 27. Mi ha commosso
scoprire che nelle battaglie civili la loro bandiera era il vecchio piano regolatore, di cui difendevano con passione e consapevolezza le scelte: mi
indicavano il parco previsto dal prg e malauguratamente trasformato in
un gruppo di palazzine con una variante ad hoc, il complesso di spazi
27
E. Salzano, Ma dove vivi? La città raccontata, Venezia, Corte del Fontego, 2007.
38
lavorare non stanca troppo
ed edifici pubblici la cui privatizzazione era stata impedita da una loro
iniziativa e dalla mobilitazione che erano riusciti a suscitare, il quartiere
di edilizia economica popolare criticato dai vincenti di oggi «perché non
è conveniente dare le case sul mare ai poveri», scelta che loro continuavano a difendere.
4. Il Centro studi della Gescal
All’inizio degli anni Sessanta si erano conclusi i due programmi settennali di edilizia residenziale pubblica ed era stato sciolto l’ente che li
aveva amministrati, il cosidetto ina-casa. Un ente che aveva svolto un
ruolo importante nella formazione di una moderna cultura urbanistica ed edilizia, grazie al lavoro del responsabile dell’ufficio architettura,
Adalberto Libera, e del Centro studi, Federico Gorio.
In sostituzione dell’ina-casa fu costituito un nuovo ente pubblico, la
Gestione case per lavoratori (Gescal), responsabile di un nuovo programma. Federico Gorio fu incaricato di costituirne il Centro studi.
L’ina-casa aveva lavorato molto bene nella manualistica tecnica e
nell’applicazione in Italia di metodi e strumenti sperimentati nei decenni precedenti dalle socialdemocrazie europee. Con il Centro studi della
Gescal si voleva proseguire e sviluppare quella esperienza. Gorio mi
chiamò, mi disse che pensava di articolare il lavoro del Centro studi in
quattro ricerche, voleva affidarmi quella dedicata agli standard urbanistici. Si trattava di un lavoro a tempo pieno, con pochissime risorse a
disposizione.
Accettai con entusiasmo. Ma era la prima volta che sentivo parlare di
standard urbanistici (espressione su cui tornerò più volte). A casa consultai la Britannica, che avevamo appena comprato: scoprii che il concetto
era molto vicino ai ragionamenti sul consumo comune e sulla sua organizzazione sociale che avevo sviluppato sul «Dibattito politico» e sulla «Rivista
trimestrale».
Affrontai il tema sulla base della poca letteratura disponibile; ma in
realtà mi affidai al ragionamento e alla pratica più che alla ricerca sistematica delle fonti.
Il punto di partenza fu costituito dall’ottimo lavoro di Mario Ghio e
Vittoria Calzolari, Verde per la città28, dai pochi cenni dedicati all’argomento
28 M. Ghio, V. Calzolari, Verde per la città. Funzioni, dimensionamento, costo, attuazione di parchi
urbani, aree sportive, campi da gioco, biblioteche e altri servizi per il tempo libero, Roma, De Luca, 1961.
39
capitolo terzo
nel Manuale dell’architetto, dal prg di Roma del 1962 e dalle istruzioni della Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna.
La ricerca si concluse con una piccola pubblicazione ciclostilata, dal
titolo giustamente dimesso «Primo contributo alla ricerca sugli standard
urbanistici», di cui curai anche la grafica e l’impostazione redazionale:
avevo progettato e curavo io infatti la piccola collana nella quale comparvero i diversi contributi del Centro studi, in qualche modo la sua
pubblicazione ufficiale. Ci tenni molto a indicare, in ciascun fascicolo,
i nomi di tutte le persone che a vario titolo avevano collaborato, anche
materialmente, alla sua realizzazione.
Nel corso della ricerca avvenne che la Gescal e l’InArch (una nuova associazione culturale per la promozione dell’architettura, fondata da
Bruno Zevi) organizzassero, nel 1964, un convegno sull’edilizia residenziale pubblica. Gorio mi chiese di preparare una comunicazione sugli
standard urbanistici. Il convegno era patrocinato anche dai diversi enti
interessati alla questione: dai sindacati dei lavoratori alle organizzazioni
di categoria. Mi diedi da fare per coinvolgere esponenti rappresentativi
di gruppi che potevano esprimere utili punti di vista sull’argomento.
Il titolo che proposi per il documento che avremmo preparato
fu centrato sulla necessità di individuare gli standard urbanistici in
funzione delle esigenze del consumo collettivo. Dovevano essere costruiti come uno strumento per superare, mediante un’organizzazione
comune, le modalità dei consumi di beni e servizi ancora largamente
gestite in forme individualistiche: dall’assistenza sanitaria, al primo apprendimento e alla custodia dei bambini, dall’approvvigionamento alla
ricreazione e allo sport, alla mobilità, abbandonata all’impero dell’automobile. Coinvolsi rappresentanti dell’Unione donne italiane, della
cooperazione di abitazione (in quegli anni si avviarono esperienze di
cooperative a proprietà indivisa caratterizzate da una forte presenza di
attrezzature collettive), dell’Unione sport popolari, dell’Associazione
ricreativa e culturale italiana, dei sindacati dei lavoratori. Udi, Coop,
Uisp, Arci, Cgil e Cisl furono le sigle che sottoscrissero il nostro documento.
La presentazione del documento, nella grande sala di palazzo Taverna a Roma, fu per me un angoscioso fallimento. Quando venne il mio
turno, mi presentai sul palco con il breve testo che avevo concordato
con gli altri. Bruno Zevi, che presiedeva, mi diede la parola brontolando ad alta voce: «Che cos’è questa storia di presentarsi con il pezzo di
carta da leggere! Se uno ha una idea la può esporre stando su un piede
solo!». Arrivai al termine del mio discorsetto con moltissimo imbarazzo:
era solo la seconda volta che parlavo in pubblico.
40
lavorare non stanca troppo
5. Il Ministero dei lavori pubblici
Conclusa l’esperienza della Gescal, nel 1967 ne iniziai un’altra, più lunga e più ricca, in un
luogo che in quegli anni aveva un grandissimo rilievo culturale e
politico: la piccola enclave urbanistica del poderoso Ministero dei lavori
pubblici, situata nella storica sede subito fuori Porta Pia, all’inizio di via
Nomentana. Marcello Vittorini mi chiamò a collaborare al Servizio studi e programmazione.
In Italia l’urbanistica era in forte ritardo rispetto ad altri paesi europei. Ciò derivava certamente dal provincialismo culturale determinato
dal regime fascista, ma anche dal modo in cui in Italia avveniva la
formazione degli urbanisti. Negli anni Venti si era sviluppato un dibattito circa l’introduzione in Italia di questa disciplina. Si era aperto il
confronto tra due modelli: l’uno, sostenuto da Silvio Ardy e da Cesare
Chiodi, proponeva la formazione di un tecnico fortemente orientato alla gestione amministrativa e alla tecnica delle reti infrastrutturali
(oltre che informato sugli aspetti edilizi, giuridici, storici, sanitari); l’altro
vedeva l’urbanistica come una costola dell’architettura, fortemente centrata sull’attività edilizia. Quest’ultima fu la tesi che prevalse, anche per
il ruolo che il suo promotore, l’architetto Alberto Calza Bini, svolgeva
nelle strutture del regime fascista.
Come scrive un attento studioso di storia dell’urbanistica – Fabrizio
Bottini – quella di Calza Bini è da considerarsi
una proposta organica della piattaforma culturale e organizzativa, che determinerà la nascita della figura dell’urbanista (ormai
si chiama così) in Italia. Palesi sono le differenze con l’impostazione di Ardy e Chiodi. Per Calza Bini l’urbanistica è «il midollo
spinale delle applicazioni di edilizia cittadina». E la nuova figura
professionale è ben diversa da quella dell’«eletto funzionario
comunale» che l’Ardy proponeva a Torino: è un “architetto-urbanista”, un professionista solidamente legato ai diversi interessi
(amministrativi, ma anche finanziari, imprenditoriali, proprietari)
la cui sinergia caratterizzava il regime corporativo fascista. Una
concezione, quindi, omogenea sia al regime, sia ad alcune modalità italiane di produzione e funzionamento della città, ciò che
indubbiamente giovò al suo successo e durata nel tempo29.
29
F. Bottini, La corporazione degli urbanisti, in eddyburg, 2004.
41
capitolo terzo
Di fatto, benché la pianificazione urbanistica fosse allora riconosciuta come una competenza del potere pubblico e delle istituzioni e
la stessa legge urbanistica del 1942 attribuisse un ruolo rilevantissimo
allo Stato, non esisteva una struttura tecnico amministrativa capace di
esercitarla. Si cominciò a formarla negli anni Sessanta, e di essa faceva
parte il piccolo ufficio (Servizio studi e programmazione) cui ero stato
invitato a collaborare.
Per comprendere l’interesse del lavoro cui ero stato chiamato a collaborare conviene ricordare che cosa succedeva in quegli anni e quale era,
allora, il ruolo dell’urbanistica.
6. L’Italia alle soglie degli anni Sessanta
Alla fine degli anni Cinquanta l’Italia era profondamente cambiata. Agli
anni della ricostruzione erano seguiti quelli del boom economico. L’abbandono del protezionismo era stato un banco di prova per il risveglio
dell’industria manifatturiera italiana.
I poli produttivi accrebbero fortemente il loro ruolo, grazie a un’intelligente politica industriale dell’apparato statale (Iri ed Eni), che forniva alle industrie acciaio a buon mercato e trovava fonti convenienti
all’approvvigionamento energetico, facendo leva su presenze di know
how industriale e di mano d’opera qualificata a tutti i livelli, e soprattutto
grazie alla scelta di investire sui settori “facili” dei beni di consumo durevoli e all’appoggio che a tale scelta fornivano la politica finanziaria e
quella delle opere pubbliche.
L’Italia completava la sua trasformazione: da prevalentemente agricola a prevalentemente industriale. I movimenti migratori si orientavano
verso il “triangolo industriale”: l’area geografica delle tre grandi città del
Nordovest, Milano, Torino e Genova, dove era concentrata l’industria.
Il reddito medio aumentava e aumentava la disponibilità ad acquistare i
beni di consumo durevoli che l’industria sfornava in grande quantità a
prezzi sempre più convenienti.
L’industria cresceva, i profitti e l’accumulazione30 rafforzavano i luoghi forti dello sviluppo: ma il territorio e le città ne pagavano duramente il prezzo, e specialmente le popolazioni delle aree da cui lo sviluppo
30 Nel linguaggio dell’economia l’accumulazione è il reinvestimento di quote di profitto nel
processo produttivo: l’acquisto di nuove macchine e di nuova forza lavoro, l’innovazione tecnologica, l’introduzione di nuovi processi ecc.
42
lavorare non stanca troppo
succhiava risorse, con la fuga della forza lavoro dal Mezzogiorno, dalle
aree interne e collinari dell’Italia centromeridionale e con l’indirizzarsi
degli investimenti nelle aree già sviluppate. La scelta di privilegiare l’automobile rispetto ai trasporti collettivi rendeva più grave la congestione
delle città. Gli squilibri territoriali cominciavano a essere vissuti come
un peso per lo sviluppo degli stessi settori avanzati dell’economia. La
spontaneità lasciata alle forze imprenditoriali, stimolata e promossa dalle stesse politiche governative, mostrava i suoi limiti.
Nel frattempo, mutamenti rilevanti si manifestavano nel quadro politico.
Nel 1953 fu sconfitta la “legge truffa”, con la quale l’alleanza imperniata sulla Dc avrebbe avuto la garanzia di assicurarsi la maggioranza
assoluta nel parlamento anche se avesse conseguito la sola maggioranza
relativa. Di conseguenza erano iniziati processi di mutamento degli
orientamenti interni dei gruppi che componevano il partito di maggioranza. Dopo varie oscillazioni, e un pesante tentativo di svolta a destra
nel 1960, cominciò ad affacciarsi la proposta politica di una “apertura a
sinistra” che condusse, all’inizio degli anni Sessanta, prima alla formazione di maggioranze comunali di centro-sinistra (basate sull’alleanza
della Dc con il Psi), e poi al primo governo nazionale di centro-sinistra
nel 1962. Di esso facevano parte la Dc, il Psi, Psdi e il Pri.
Un peso rilevante sul mutamento degli orientamenti della Dc lo
ebbe la fine del papato di Pio xii e l’irruzione sulla scena di papa
Giovanni xxiii.
Scrive lo storico Paul Ginsborg:
L’integralismo di Pio xii fu sostituito da una diversa concezione della Chiesa, piuttosto legata al suo ruolo pastorale e spirituale che non alla sua vocazione politica anticomunista. Si aprì
così lo spazio per un dialogo fra cattolici e marxisti e, in campo
politico, democristiani e socialisti poterono finalmente trovarsi
faccia a faccia per trattare31.
Degli argomenti della trattativa fecero parte la programmazione economica, l’istituzione delle Regioni (previste dalla Costituzione ma mai
attuate per il timore delle forze conservatrici che si manifestasse una
prevalenza comunista in Emilia Romagna, Liguria, Toscana e Umbria),
la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma della scuola media
e la riforma urbanistica.
Quest’ultima non andò in porto.
31 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica, 1943-1988, Torino, Einaudi,
1989I.
43
capitolo terzo
7. Da Fiorentino Sullo alla frana di Agrigento
Di riforma urbanistica si era cominciato a parlare alla fine degli anni Cinquanta. L’Istituto nazionale di urbanistica (Inu) aveva proposto un «Codice dell’urbanistica», formulato sulla base delle migliori esperienze dell’Europa socialdemocratica. Membri dell’istituto avevano poi collaborato col
ministro dei Lavori pubblici, il democristiano Fiorentino Sullo, autore
della proposta radicale che giunse alle soglie dell’approvazione. Il centro
della sua proposta consisteva nell’obbligo per i Comuni di espropriare
preventivamente tutte le aree di cui il piano regolatore prevedeva l’urbanizzazione (zone d’espansione). In esse il Comune avrebbe poi realizzato
le opere di urbanizzazione (strade e altri impianti, verde, scuole e servizi)
e le avrebbe assegnate agli utilizzatori per un numero determinato di anni
(si prevedeva novantanove). La proprietà delle aree sarebbe rimasta al
Comune, il quale avrebbe concesso ai privati solo il diritto di superficie:
la possibilità cioè di realizzare gli edifici previsti dal piano urbanistico e di
utilizzarli a loro piacimento fino alla scadenza della concessione.
Era il modo per bloccare sul nascere la speculazione urbanistica e
realizzare, secondo progetti urbanistici ragionevoli, la grande espansione urbana che infatti si verificò impetuosa negli anni successivi. Ma la
stampa di destra scatenò una violentissima campagna, distorcendo profondamente il contenuto della proposta. Il giornale romano «il Tempo»
aprì l’offensiva con questo titolo Otto milioni di capifamiglia decisi a difendere
le loro case32: l’esproprio generalizzato delle zone agricole in cui era prevista l’espansione della città veniva fatto passare per l’esproprio di tutte le
costruzioni esistenti!
La Dc si spaventò. Le elezioni erano alle porte. Il disegno di legge
fu ritirato, e a Sullo non si permise neppure di rispondere pubblicamente, svelando la menzogna degli attacchi33. La distruzione del territorio
proseguì.
Ma il territorio, a volte, si ribella: tre anni dopo la sconfitta di Sullo,
il crollo di alcuni palazzi ad Agrigento e, pochi mesi più tardi, le alluvioni che minacciarono di distruggere Firenze e Venezia riproposero con
forza il problema.
32
33
Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, p. 368.
Se la sua proposta organica di riforma urbanistica era stata scandalosamente bocciata, il
ministro Sullo era riuscito a far approvare una legge che costituiva un’applicazione parziale del
metodo proposto: era la legge 167 del 1962, che consentiva di espropriare le aree necessarie
per realizzare l’edilizia economica e popolare. Una legge che si rivelò decisiva per impostare
una coerente politica della casa nel corso degli anni Settanta.
44
lavorare non stanca troppo
Nel crollo di Agrigento non ci furono vittime perché sinistri scricchiolii avevano preannunciato il disastro, ma il rischio fu grande e
l’evento riempì per molti giorni le prime pagine dei giornali. Parlamento
e governo reagirono. Si convenne che non c’era tempo di elaborare
una vera legge di riforma urbanistica: si approvò così in pochi mesi una
“legge ponte”, che introduceva alcuni elementi di razionalità nel sistema di pianificazione vigente. Si generalizzò a tutti i Comuni l’obbligo
di formare il piano regolatore generale; si disciplinarono il contenuto
tecnico e quello amministrativo e patrimoniale dei piani di lottizzazione;
si dispose che in tutti i piani urbanistici dovessero essere vincolate adeguate quantità di aree per i servizi collettivi e il verde: erano i cosiddetti
standard urbanistici, per i quali fu demandata a un’apposita commissione parlamentare la determinazione delle quantità.
45
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Capitolo quarto
Nel centro dell’urbanistica italiana
1. Al Ministero di Porta Pia
Dopo i drammatici eventi del 1966, il ministro dei Lavori pubblici, il socialista Giacomo Mancini, aveva deciso di costituire due nuove strutture: l’una nell’ambito della funzione consultiva, dove si formò la vi sezione
urbanistica del Consiglio superiore dei lavori pubblici, l’altra nell’ambito della funzione operativa, con la Direzione generale all’urbanistica.
Quest’ultima fu affidata a Michele Martuscelli. Funzionario pubblico, di
nascita e formazione meridionale (era nato a Muro Lucano), erede della
migliore tradizione dello statalismo meridionalistico, Martuscelli era un
vero grand commis d’état come in Italia ce ne sono pochi. Ispido e generoso, ferratissimo nei versanti amministrativo e giuridico, curioso e attento
alle altre culture di cui si impadroniva con grande facilità.
Attorno alla Direzione dell’urbanistica gravitavano rilevanti personaggi della cultura urbanistica di quegli anni: Giovanni Astengo, Fabrizio Giovenale, Luigi Piccinato, Antonio Cederna, Federico Gorio, Marcello Vittorini, Piero Moroni, Alberto Lacava. Il loro ambiente politico
era il nascente centrosinistra. La maggior parte di essi militava nella
sinistra del Psi, che faceva capo a Riccardo Lombardi. Ottimi erano i
loro rapporti con i comunisti, buoni e a volte ottimi anche quelli con
componenti significative della Dc.
Nell’ambito della Direzione dell’urbanistica era stato istituito il Servizio studi e programmazione, affidato inizialmente a Fabrizio Giovenale: un vero, generoso apostolo dell’urbanistica sociale. Disponeva solo
della collaborazione di due giovani funzionari: un amministrativo, Carmelo Grasso, e un architetto, Vezio De Lucia. L’anno successivo l’ufficio fu affidato a un attivissimo ingegnere, Marcello Vittorini, che avevo
47
capitolo quarto
conosciuto a San Pietro in Vincoli mentre era assistente del professore
di architettura tecnica.
Marcello aveva avuto le risorse per rafforzare il Centro studi. Mi
chiese di far parte di un gruppo di giovani tecnici, assunti a contratto,
tra i quali ricordo Gianluigi Nigro, Giusa Marcialis, Massimo Perna, Daria Ripa di Meana, Rinaldo Sebasti, Giulio Tamburini.
Assunsi l’impegno molto seriamente. Occupavo il mio posto di lavoro nella stessa stanza del giovane architetto Vezio De Lucia, del quale
divenni presto (e rimasi sempre) inseparabile amico.
Vezio veniva, come me, da Napoli. Mi aveva molto colpito la sua
storia, la ragione per la quale era lì, al Ministero. Dopo la laurea aveva
lavorato in una grande azienda immobiliare, la Beni Stabili. Guadagnava bene, aveva l’ufficio in un luogo prestigioso, la Galleria Colonna, a
Roma. Si occupava di interventi consistenti, e trattava con architetti di
fama e con amministrazioni private e pubbliche. Nei suoi ricordi scrive:
Ci misi un po’ a capire che le attività di cui mi occupavo
erano nient’altro che speculazione edilizia in grande stile. Disponevo allora di un pensiero politico scadente, quello proprio della
piccolissima borghesia meridionale, e venivo da una formazione
universitaria certamente inadeguata. Ci avevano insegnato che
l’architetto deve far propri gli interessi del committente quali
che siano, e che a quegli interessi possono essere piegati regole
e comportamenti. Ma quegli insegnamenti non ressero a lungo.
A mano a mano che aumentavano i miei compiti, e la mia retribuzione, aumentava anche il disagio nel vedermi impiegato in
cose che cominciavano a ripugnarmi34.
Il crollo ad Agrigento nell’estate del 1966, gli eventi che gli seguirono, lo convinsero che si poteva fare l’urbanista in un altro modo. Partecipò a un concorso, vinse, entrò nel Servizio studi e programmazione
del Ministero, dove lo conobbi. Nella piccola stanza che condividevamo,
con uno stipendio pari a un quarto di quello di prima.
Il lavoro era stressante ma entusiasmante. L’urbanistica e la programmazione economica erano al centro dell’attenzione politica. Dopo
la sconfitta del tentativo di riforma urbanistica di Fiorentino Sullo, il
crollo di Agrigento e l’appassionato dibattito parlamentare che ne era
seguito avevano prodotto un vero colpo di frusta sull’opinione pubblica. Politica e cultura erano combattive e lottavano su diversi fronti per
34 Traggo la citazione dalle “memorie” di Vezio De Lucia, in corso di stampa presso l’editore Diabasis.
48
nel centro dell’urbanistica italiana
un efficace e moderno governo del territorio, non più infeudato ai poteri forti della rendita fondiaria urbana. Tra la cultura urbanistica, validamente rappresentata in quegli anni dall’Istituto nazionale di urbanistica,
e la politica del parlamento e dei partiti, il ruolo della pattuglia urbanistica del Ministero dei lavori pubblici era spesso di cerniera.
In concreto, l’ufficio svolgeva molte mansioni: collaborava all’istruttoria per l’approvazione dei prg comunali da parte del Consiglio superiore dei lavori pubblici, predisponeva proposte di legge nelle diverse
materie di competenza del Ministero, definiva programmi e progetti
speciali relativi a determinate situazioni o problemi (dai provvedimenti
per Venezia e Firenze dopo l’alluvione del 1966 a quelli per le ricostruzioni dopo i terremoti), redigeva circolari interpretative delle leggi, collaborava con altri ministeri e uffici pubblici, e ne contestava le proposte
quando le giudicava lesive degli interessi pubblici territoriali.
Nei momenti più rilevanti, la pattuglia di testa della galassia urbanistica del Ministero (Martuscelli, Vittorini, Di Gioia, presidente della vi
sezione del Consiglio superiore) aveva contatti diretti con parlamentari,
sia dei partiti governativi (soprattutto con quelli della sinistra socialista),
sia con alcuni del Pci. Una vera collaborazione si stabilì quando furono
presentate e discusse le leggi più importanti di quegli anni: la “legge
ponte” urbanistica del 1967 e il successivo decreto sugli standard urbanistici, le leggi per la casa dell’inizio degli anni Settanta.
Diversi erano gli stili di Martuscelli, di Di Gioia e di Vittorini.
Il primo adoperava con abilità e fermezza gli strumenti della burocrazia.
Di Gioia aveva la felpata morbidezza dei diplomatici.
Marcello Vittorini era un carro armato, un corsaro; lavorava così:
si impadroniva di una pratica, magari curiosando sulla scrivania del
ministro, o esaminando l’ordine del giorno delle commissioni e comitati di cui il Ministero era parte, oppure perché ne veniva informato da
qualche funzionario. A seconda del tempo a disposizione (generalmente
brevissimo, un paio di giorni o poche ore) costituiva un piccolo gruppo
di lavoro, dettava la scaletta di una relazione o un promemoria o un appunto, distribuiva il lavoro, lo verificava, lo completava e lo inseriva nel
fascicolo ufficiale. Poi lo consegnava al ministro, o lo illustrava lui stesso
là dove si discuteva (e magari si decideva).
Ricordo un paio di occasioni. Il ministro doveva dare il parere al
Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica)
sull’installazione di un deposito petrolifero. «È uno scandalo – ci diceva
Marcello –. L’Italia sta diventando un gigantesco deposito di prodotti
pericolosi e inquinanti nelle zone costiere più belle». In pochissimi
giorni, mobilitando i più diligenti e assidui del suo ufficio (Vezio c’era
49
capitolo quarto
sempre) produceva una documentata relazione: l’unica, oltre a quella dei
proponenti, che veniva presentata alla riunione dove si sarebbe deciso.
In un’altra occasione, il ministro in carica, il democristiano Natali,
abruzzese come lui e suo amico personale, gli chiese di preparare un
appunto per il discorso che avrebbe tenuto al convegno nazionale della
Dc. Marcello chiamò Vezio e me, ci propose la scaletta del discorso, ci
sedemmo alla sua scrivania dalla sera alla mattina dopo, e ciascuno ne
compose un pezzo. Facemmo recitare al ministro un discorso nel quale,
oltre a una serie di cose molto audaci e ragionevoli in materia di opere
pubbliche e loro impatto territoriale, sosteneva la necessità di una riforma urbanistica che comprendesse (riprendendola dalla proposta di Fiorentino Sullo, bocciata pochi anni prima e ripresentata da parlamentari
comunisti) l’esproprio generalizzato dei terreni di nuova edificazione o
ristrutturazione urbanistica. «L’Unità», che allora era l’organo ufficiale
del Pci, illustrò con stupito compiacimento la proposta dell’autorevole
ministro democristiano.
2. «Salvate gli uomini prima dei mufloni»
Marcello non ci faceva lavorare solo al Ministero. Lui era presente
ovunque. Durante un convegno a Cagliari un gruppo di giovani entusiasti lo avevano invitato a una loro iniziativa a Orgosolo. L’argomento era
il Parco del Gennargentu, progetto sostenuto dal Ministero. All’ultimo
momento, a causa di un impegno imprevisto, chiese a me e a Vezio
di sostituirlo. Partimmo. A Orgosolo fummo accolti da un gruppetto
di persone. Erano giovani, la maggior parte barbaricini, uno senese.
Avevano fondato un piccolo centro culturale, finanziato dall’editore
Giangiacomo Feltrinelli (allora non lo sapevamo, ma stava progettando
delle azioni di protesta incendiaria in Sardegna). Il loro obiettivo era la
promozione dello sviluppo culturale di quel povero paese di pastori, a
partire dalla scuola elementare. Uno di loro, il senese, era maestro.
Ricordo una suggestiva cena. Un grande spiedo sul fuoco vivo del
focolare, i ragazzi che ci raccontavano le loro attività. Circolava un
fiasco di vino rosso. Un’immagine degna dei racconti di Omero, una
struggente e vivissima immersione in un mondo pastorale, primitivo e
intriso di antica cultura. Dormimmo in quella stessa casa, ma al piano
superiore faceva freddo, le lenzuola erano gelate, tardammo a prendere
sonno.
La mattina dopo, il convegno. Ci avevano illustrato la loro tesi. Sembrava che la necessità di istituire nel Gennargentu un parco nazionale
50
nel centro dell’urbanistica italiana
fosse motivata essenzialmente dall’esigenza di tutela di un particolare
ambiente, nel quale sopravviveva una specie di grande ovino dalle lunghe corna ritorte, il muflone, una volta diffuso nelle grandi isole mediterranee, ora minacciato di estinzione. Ma il Gennargentu era anche la
sede di un’antichissima società pastorale, legata al territorio da un’economia povera ma vitale. Lì, secondo i nostri amici, il problema primario non era salvare i mufloni e la natura, già abbastanza protetti dalle
usanze locali. L’istituzione di un Parco, per di più gestito dai poteri del
Continente, era sentita come l’imposizione di regole estranee: una colonizzazione, la formazione di una riserva indiana. L’impegno culturale e
politico doveva essere volto a salvare gli uomini, a liberarli dalla povertà
e dall’ignoranza. Più che con parole avevano illustrato la loro tesi con
bellissimi manifesti allestiti da loro stessi, con i mezzi di fortuna di cui
disponevano. Efficacissimi.
Il convegno era nella sala del cinema: un capannone disadorno, di
cemento armato e pietra. Su lunghe panche di legno sedevano decine di
pastori dall’aria severa e attenta, tutti con la coppola. Con Vezio scambiammo poche parole. Decidemmo di modificare radicalmente il taglio
del nostro intervento. Avrei parlato io, che ero il più libero da obblighi
ministeriali. Del resto, in quegli anni ero già consigliere comunale a Roma, eletto come indipendente nelle liste del Pci.
Iniziai il mio intervento con queste parole: «Compagni e amici, non
vi parlo a nome del Ministero dei lavori pubblici, ma vi porto il saluto
della Roma democratica e popolare…». Non ricordo le parole successive, ma il tono era quello giusto.
Allora non lo compresi, ma ero caduto su una contraddizione che è
ancora aperta. Mediante quali passaggi, quali trasformazioni della coscienza collettiva e individuale, quale maturazione di nuove abitudini e
regole, una civiltà che ha vissuto per millenni estraendo risorse da una
natura che sembrava inesauribile, può sopravvivere in un mondo che si
scopre essere “finito”, limitato, vicino all’esaurimento?
3. Dal crollo di Agrigento al decreto sugli standard urbanistici
Tra i lavori più importanti della Direzione generale di Martuscelli – non
facevo ancora parte del gruppo – ci fu l’inchiesta sui crolli di Agrigento e la gestione delle conseguenze positive dello scandalo sollevato
dall’evento. A Martuscelli fu affidata un’inchiesta sulle cause. Fu formata un’agguerrita commissione – coordinata da Giovanni Astengo
– che esaminò con scrupolosa attenzione i fatti e le loro cause. L’analisi
51
capitolo quarto
metteva in piena luce le gravi responsabilità politiche e le pesanti violazioni della legalità urbanistica all’origine dei crolli.
La relazione con la quale la commissione rendeva noti al ministro
e al parlamento i risultati dell’indagine, e in particolare la lettera con la
quale Astengo e Martuscelli la introducevano, costituiscono uno dei testi più limpidi e una delle denunce più aspre del malcostume politico e
urbanistico largamente diffuso in quegli anni. Ecco le conclusioni sulla
situazione della “città dei templi”:
Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e
delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa
pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta,
intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione
compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale,
di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città
di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben
difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l’aspetto sociale, civile e umano. La città dei “tolli”
non è più l’Agrigento di un tempo. Il volto urbano, sfigurato,
potrà forse in parte essere ricuperato con generose piantagioni
di verde, cui affidare la cicatrizzazione delle ferite e la ricucitura
dei tessuti, ma difficilmente, e certo con costi assai elevati, potrà
assumere l’aspetto decoroso di una città umana: le ferite inferte,
anche curate, resteranno a lungo. Ma ancora più delicato si prospetta il problema dei rapporti umani, che, con l’accertamento e
la punizione di colpe, esige che sia posto fine alle sofferenze della
popolazione agrigentina, a lungo vessata dall’arbitrio35.
Non solo ad Agrigento è così:
Ma la commissione, nel rimettere gli atti, sente il dovere di
segnalare all’attenzione del signor ministro, dei parlamentari e di
tutti i responsabili delle amministrazioni pubbliche e degli enti
locali, la gravità della situazione urbanistico-edilizia del Paese,
che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite. E non può,
nel concludere, non auspicare che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto – deciso e irreversibile
– al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico.
Quel lavoro, svolto prima del mio ingresso al Ministero, rappresenta
bene il clima politico ed etico nel quale mi immersi.
35 [G. Astengo, M. Martuscelli], [Lettera di trasmissione al ministro], in Agrigento. Relazione
della commissione di indagine, «Urbanistica», 48 (dic. 1966), p. 31.
52
nel centro dell’urbanistica italiana
4. Gli standard urbanistici
Il primo rilevante impegno al quale collaborai fu il decreto con il quale, in attuazione alla “legge ponte” del 196736, si stabilivano le quantità
e le tipologie degli standard urbanistici. L’elaborazione e la discussione del decreto avvennero sostanzialmente nell’ambito della Direzione
generale e del Consiglio superiore: oltre a numerosi funzionari tecnici
dei ministeri facevano parte del consesso alcuni esperti esterni, tra cui
Luigi Piccinato e Antonio Cederna.
Nella lunga elaborazione tecnica, Mario Ghio presentava complessi documenti e griglie di parametri da assumere per la determinazione
delle quantità e delle qualità degli spazi da vincolare. Forse Mario era
l’uomo che in Italia aveva studiato in modo più approfondito le questioni tecniche connesse alla progettazione degli spazi pubblici. Ghio
costruiva e presentava complessi sistemi di calcolo e progettazione,
ma le ragioni dell’amministrazione spinsero a fortissime semplificazioni37.
Nella discussione ebbe un peso rilevante l’esperienza della Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna. Era una struttura di coordinamento volontario dei comuni di sinistra della regione, che da tempo
aveva proposto e ottenuto in essi standard molto evoluti. I criteri di
redazione dei piani che la Consulta suggeriva diventavano regola comunemente accettata e praticata dai comuni. Tra l’altro, definivano
un limite all’espansione dei piani: era suggerito di calcolare rigorosamente il fabbisogno, e comunque di non superare la soglia del 10% di
nuovi alloggi. Eppure eravamo nella fase dell’espansione edilizia. Gli
standard di spazi pubblici che i criteri raccomandavano erano al livello
di quelli praticati nei paesi delle socialdemocrazie europee.
E sullo sfondo sociale c’era la campagna che l’Unione donne italiane (Udi) aveva lanciato agli inizi degli anni Sessanta, sulla base delle
esigenze e motivazioni cui mi ero riferito nell’articolo sulla gestione
domestica e l’organizzazione del consumo del 1954. L’Udi aveva lanciato una vasta campagna per l’istituzione di servizi che alleggerissero
le lavoratrici (e le donne in generale) dal peso della gestione domestica; tra le attività svolte su questo tema: una legge d’iniziativa popolare,
36 Legge 6 ago. 1967, n. 765, «Modifiche e integrazioni alla legge urbanistica 17 ago. 1942,
n. 1150». Fu definita “legge ponte” perché avrebbe dovuto costituire un momento di passaggio alla legge di riforma complessiva dell’urbanistica, che non è mai stata fatta.
37 Il decreto è descritto nelle “memorie” di De Lucia, in corso di stampa (vedi nota 34).
53
capitolo quarto
sulla quale si raccolsero oltre 50.000 firme, e un convegno per la previsione dei servizi sociali nella pianificazione urbanistica38.
Al di là delle motivazioni sociali, al di là della tecnica e delle buone
pratiche, la discussione andava al sodo: quali fossero i minimi di spazi
pubblici da riservare nei piani. I due poli del confronto erano rappresentati da una parte dai parlamentari del Pci, rappresentati in quella sede da
Alberto Todros, un ingegnere piemontese, urbanista e amministratore
comunale, sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen,
e dall’altra parte dagli esponenti delle imprese di costruzione, rappresentati da Carlo Odorisio, un imprenditore che più tardi seppe lavorare
concretamente per un ruolo moderno del settore, orientando l’attività
delle aziende alla formazione di profitto industriale anziché all’appropriazione della rendita fondiaria. Allora lo scontro si concluse sulla cifra
di 18 metri quadrati per abitante di “spazi pubblici e di uso pubblico”:
meno di quanto si praticasse nei comuni evoluti delle amministrazioni
di sinistra, ma molto più di quanto si prevedesse nella pianificazione
della maggior parte dei comuni nelle altre regioni.
5. Le sentenze della Corte costituzionale
Eravamo tra aprile e l’inizio di maggio 1968. Franco Rodano mi disse
che Luciano Barca, un deputato del Pci, aveva saputo che una sentenza
della Corte costituzionale dichiarava illegittime alcune norme della legge
urbanistica: precisamente, quelle che consentivano di vincolare le aree
per gli spazi pubblici. Ma il 18 maggio erano state indette le elezioni politiche, quindi avevano deciso di rendere nota la sentenza solo successivamente. Infatti la sentenza 55 del 1968, datata 9 maggio, fu depositata
in cancelleria solo il 30, a elezioni avvenute.
La sentenza dichiarava illegittime le norme della legge urbanistica
allora vigente (quella del 1942) che consentivano di vincolare, nei piani
regolatori, le aree necessarie per servizi e altre utilità pubbliche, senza
prevedere un’indennità per il proprietario finché l’area non fosse effettivamente espropriata. Prima ancora di entrare nel merito ci si chiedeva:
come mai quella sentenza interveniva ventisei anni dopo la norma, e a
dodici anni dall’entrata in funzione della Corte? Semplice la risposta:
38 Il titolo del convegno era «Obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un
nuovo assetto urbanistico». Si svolse a Roma, il 21 e 22 mar. 1964. Tre delle quattro relazioni
di base furono svolte da altrettanti urbanisti: Giovanni Astengo, Edoardo Detti e Alberto
Todros.
54
nel centro dell’urbanistica italiana
prima della “legge ponte” i vincoli per gli spazi pubblici coprivano
un’estensione minima del territorio; dopo la legge e il conseguente decreto sugli standard, l’incidenza minacciava di diventare molto più consistente (per la proprietà fondiaria).
Grande fu lo scandalo. Urbanisti, amministratori comunali, parlamentari dei partiti di sinistra protestarono con forza: quella sentenza significava la morte per l’urbanistica, impediva di adeguare l’Italia ai livelli
di civiltà urbanistica degli altri paesi europei. Un animato convegno fu
indetto dall’Inu in un teatro romano, l’Eliseo.
Intervenni anch’io in quell’assemblea, sostenendo una tesi controcorrente. La lettura della sentenza e di un’altra emanata contemporaneamente (la n. 56, dello stesso giorno), e soprattutto un’intervista rilasciata
dal presidente della Corte costituzionale, Aldo Sandulli39, mi avevano
infatti convinto di due cose: dal punto di vista dell’equità tra i proprietari di aree, la sentenza era inoppugnabile; la sua attenta lettura, congiuntamente con l’altra, suggeriva al legislatore la via d’uscita percorribile.
In poche parole la situazione era questa. Il piano regolatore generale
tratta differentemente due categorie di proprietari. Ad alcuni vincola
l’area a tempo indeterminato, con la prospettiva dell’esproprio: ma
dell’esproprio non è certa la data, né è certo se l’area verrà effettivamente espropriata, e quindi indennizzata. Ad altri, invece, valorizza il
terreno, rendendolo edificabile. Le sentenze, mentre dichiaravano incostituzionale questa sperequazione, aprivano la strada a una soluzione
accennando a una questione poi chiarita e resa del tutto esplicita nell’intervista di Sandulli. Egli sosteneva che, sebbene il quadro legislativo
vigente stabilisse che la facoltà di edificare era un attributo dell’area che
“apparteneva” al suo proprietario, con una legge ordinaria il parlamento avrebbe tranquillamente potuto modificare questa “appartenenza”,
stabilendo che alla proprietà non “apparteneva” la facoltà edificatoria.
Quest’ultima avrebbe potuto dalla legge essere attribuita al potere pubblico, il quale in questo caso poteva concederla agli utilizzatori a determinate condizioni.
Si trattava, come si diceva tecnicamente, di separare lo ius edificandi
dal diritto di proprietà e di stabilire che il primo appartiene alla collettività. Bastava che il parlamento lo volesse e lo stabilisse: così si sarebbe
costituita una condizione di parità di diritti tra i proprietari “penalizzati”
e quelli “premiati” dalle scelte del piano.
39 E. Capocelatro, Intervista con il presidente della Corte costituzionale, «L’astrolabio»
(27 lug. 1968), ora in «Urbanistica», 53, p. 101-102.
55
capitolo quarto
Naturalmente da quell’affermazione si sarebbero dovute trarre tutte le conseguenze. Per rendere equivalenti le condizioni dei proprietari
si sarebbe dovuto sottrarre a quelli non espropriati il maggior valore
derivante dall’urbanizzazione: si sarebbe dovuto, in altri termini, acquisire al pubblico l’aumento della rendita immobiliare derivato dagli
investimenti e dalle decisioni della collettività.
Ma il parlamento non scelse la strada suggerita dalla Corte. Tentò
di farlo qualche anno dopo, nel 1977, ma in modo del tutto insufficiente, con la legge del ministro Pietro Bucalossi. Nell’immediato, si
stabilì che le previsioni dei piani di tipo espropriativo valevano solo
per un determinato numero di anni. A tutt’oggi, il nodo non è ancora
sciolto, anche se una importante distinzione tra i diversi tipi di vincolo intervenne successivamente, dopo la legge che estese la protezione
del paesaggio (legge Galasso). Ne parleremo più avanti.
La mia tesi provocò qualche interesse. Ricordo che Giuseppe
Samonà, uno dei più autorevoli urbanisti e accademici del tempo,
inviò un suo assistente a chiamarmi perché sedessi con loro al ristorante: pensava, come mi disse poi, che io fossi un giurista. Il mio
intervento, poi trasformato in un articolo, fu pubblicato nella rivista
«Città e società»40.
6. Amministrare l’urbanistica
Nell’ottobre 1971 era stata approvata la “legge per la casa”41, risultato
delle lotte degli anni ’68-’69, delle quali racconterò nel prossimo capitolo. Essa riformava in modo soddisfacente l’intervento pubblico nel
settore. Avevo curato un istant book che illustrava la legge, per facilitarne l’impiego da parte di Regioni e Comuni: a una mia ampia prefazione in cui illustravo la legge nella sua formazione e nei suoi numerosi
aspetti, facevano seguito un’appendice legislativa e alcuni commenti ai
singoli articoli, che rendevano il testo ancora più operativo.
Mi avevano chiesto di scriverlo rapidamente i compagni della Lega
per le autonomie e i poteri locali, una organizzazione costituita dai
40 E. Salzano, Intervento all’assemblea dell’Inu del 10 luglio, «Città e società», 6 (nov.-dic. 1968),
p. 61.
41 Legge 22 ott. 1971, n. 865, «Programmi e coordinamento dell’edilizia pubblica; norme
sulla espropriazione per pubblica utilità, modifiche e integrazioni alle leggi 17 ago. 1942 n.
1150, 18 apr. 1962 n. 167, 29 set. 1964 n. 847; e autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata».
56
nel centro dell’urbanistica italiana
partiti di sinistra, che cominciava a svolgere un’attività editoriale di
servizio ai propri iscritti.
Per comporre quel libro impiegai i giorni di vacanza che, con alcuni
amici e le rispettive famiglie, trascorsi in Abruzzo, sui monti della Laga,
nei giorni del “ponte” di inizio novembre42.
Sulla base di quell’esperienza, Stelvio Minelli, responsabile editoriale
della Lega, mi chiese di avviare una collana di testi di urbanistica per
spiegare la pianificazione agli amministratori.
Ne ragionai con Vezio, con il quale mi consultavo sistematicamente.
Avevamo letto da poco il libro di Giuseppe Campos Venuti, Amministrare l’urbanistica43, dal quale avevamo imparato molte cose, in particolare
sulla rendita. Decidemmo di intitolare la collana come il libro. Il primo volume fu proposto proprio da un’allieva di Campos Venuti, Valeria Erba, con cui stabilimmo una solida e duratura amicizia.
Nella prefazione illustravo le ragioni della collana:
Sono certamente aumentati, rispetto a dieci o venti anni
fa, gli strumenti di cui dispone l’amministratore democratico
per gestire le trasformazioni del territorio nell’interesse della
collettività. È questo certamente un risultato, e non dei minori,
del processo di crescita della democrazia e di rafforzamento del
potere delle classi popolari, che è in atto nel nostro paese dalla
Resistenza a oggi e che prosegue, con la forza delle ondate di
fondo, al di là delle ricorrenti stagioni dell’involuzione conservatrice o del tentativo reazionario44.
Ma quel processo, dopo il fallimento del tentativo di Sullo, era avvenuto in modo non lineare, non univoco, non compiutamente organico.
Bisognava quindi riconoscere che:
Grandi problemi restano ancora aperti anche sul terreno
dell’urbanistica: da quello fondamentale del regime di proprietà
delle aree e dei fabbricati, tuttora pesantemente condizionato
dall’individualismo proprietario e dal libero gioco della speculazione grande e piccola; a quello delle scelte generali sull’assetto
del territorio, ancor oggi prodotte dal sovrapporsi delle decisioni aziendali delle imprese private e pubbliche e delle aziende
di Stato, che nessun tentativo di programmazione è riuscito a
42 Casa, urbanistica e poteri locali. Come gestire la nuova legge per la casa verso la riforma urbanistica.
Il testo coordinato delle leggi urbanistiche. La legge per la casa con note di Alberto Todros, a cura di E. Salzano,
Roma, Edizioni della Lega per le autonomie e i poteri locali, 1971.
43 G. Campos Venuti, Amministrare l’urbanistica, Torino, Einaudi, 1967.
44 V. Erba, L’attuazione dei piani urbanistici, Roma, Edizioni delle autonomie, 1987V, p. 9.
57
capitolo quarto
imbrigliare; a quello, infine, della destinazione delle risorse nazionali, largamente indirizzate ad alimentare i parassitismi delle
posizioni di rendita e gli sprechi dei consumi individualistici, e
concesse invece con avarizia alla soddisfazione di quei bisogni
sociali (la casa, la scuola, i servizi collettivi, il verde pubblico)
che dovrebbero essere la materia stessa dei piani urbanistici e
della loro attuazione.
La cassetta degli attrezzi cui le amministrazioni potevano ricorrere
si era insomma molto ampliata, ma era anche molto confusa e priva di
solide basi di potere. Bisognava aiutare i Comuni a comprendere come
adoperare nel modo migliore quegli strumenti.
Lo facemmo con libri di carattere manualistico (come il primo, e
quelli successivi sugli standard urbanistici, sul fabbisogno abitativo, sul
controllo edilizio, sul piano urbanistico comunale, sul recupero del patrimonio edilizio, sulle zone agricole e sulle aree industriali, sulla valutazione d’impatto ambientale), con l’illustrazione di esempi significativi o
di casi studio (come quelli dedicati a Roma, Milano, Venezia, al Parco di
Rimigliano, alla ricostruzione post terremoto in Campania), oppure, più
raramente, con volumi dedicati alla discussione d’argomenti d’attualità
(come quello sul programma pluriennale d’attuazione e sugli effetti delle sentenze costituzionali).
La collana ebbe un ampio successo, significativo per quella piccola
casa editrice. Andarono a ruba soprattutto i libri più utili nell’immediato
per l’amministrazione concreta dell’urbanistica, come quelli di Valeria
Erba e quello di Luigi Falco sugli standard urbanistici.
I primi otto titoli vedevano, nella quarta di copertina, solo me come
direttore. Dal nono, la direzione fu allargata a Vezio De Lucia e Roberto Mostacci, fondatore e direttore d’un istituto di ricerca sull’edilizia.
Via via che aumentavano i miei impegni a Venezia, dove mi ero trasferito nel 1975, la cura della collana pesava sempre di più sulle spalle di Vezio. Uscirono in tutto venticinque volumi, l’ultimo nel 1985, anno che
significò una svolta in molti campi.
7. «La Rivista Trimestrale»
L’esperienza della rivista «il Dibattito politico» era terminata nel 1957:
i giovani e i meno giovani provenienti dall’esperienza democristiana si
erano iscritti al Pci e vi avevano acquistato ruoli di crescente rilievo.
Chi, come Mario Melloni e Ugo Baduel, nella stampa, chi nella direzione del Pci, come Lucio Magri e Giuseppe Chiarante. Ma l’attenzione
58
nel centro dell’urbanistica italiana
di Franco Rodano, di Claudio Napoleoni e dei loro più stretti collaboratori si era spostata soprattutto su una riflessione più profonda attorno
alle radici filosofiche, economiche e politiche delle trasformazioni in
atto nella società. Il lavoro da fare per promuovere «la fuoriuscita dal
sistema capitalistico-borghese» comportava una riflessione che andasse
molto al di là della contingenza politica.
Rodano e Napoleoni fondarono un nuovo periodico, «La Rivista
Trimestrale», edita dal torinese Paolo Boringhieri e sostenuta da un vecchio amico di Franco, Raffaele Mattioli. Cominciai con loro una nuova
avventura intellettuale. Dopo aver scritto sulla rivista su temi legati alla
politica agraria (con cui avevo acquisito una certa dimestichezza negli
anni del «Dibattito politico»), iniziammo una riflessione a tutto campo
sulla città e sull’urbanistica. Fu un lavoro molto faticoso, ma che mi apriva
orizzonti nuovi.
Si svolgeva così. Andavo a casa di Franco: ragionavamo per un
intero pomeriggio, qualche volta trattenendomi a cena. A volte vi partecipava anche Claudio, e spesso Marisa. Nei giorni successivi scrivevo;
poi tornavo da Franco, discutevamo quello che avevo scritto e andavamo avanti. Le cadenze degli incontri erano grosso modo quindicinali.
Battevo a macchina gli scalettoni e i testi via via prodotti, con una bella
Olivetti Lettera 22, in più copie veline per poterle leggere insieme.
Questo lavoro produsse tre saggi, intitolati rispettivamente Castello, villaggio, borgo, città; La città del capitalismo; Ambiguità della città opulenta,
pubblicati tra il 1964 e il 196545. Essi costituivano sostanzialmente un
tentativo di comprendere l’essenza della città al di là delle definizioni
meramente descrittive e quantitative, cogliendo la natura delle interazioni tra le caratteristiche fisiche e funzionali, la struttura economica,
l’assetto della società e dei poteri.
8. Che cos’è la città?
Ricordo che l’avvio fu molto faticoso. Ci interessava individuare la differenza tra la città e le altre forme dell’insediamento umano che la storia
aveva conosciuto. La trovammo nella relazione che si era manifestata,
tra uomo e territorio, nei tre modelli di economia e società che si erano
storicamente realizzati: quello dell’autoconsumo, in cui la produzione è
45 Uscirono rispettivamente sui numeri 10 (1964), 11-12 (1964) e 13-14 (1965) della «Rivista
trimestrale».
59
capitolo quarto
finalizzata all’esigenza primaria del mantenimento e alla riproduzione
del produttore (quindi alla sussistenza dell’uomo e della sua famiglia);
quello signorile, in cui si manifesta un’eccedenza della produzione rispetto alle esigenze primarie dell’uomo, il cosidetto sovrappiù, ma di questo
si impadronisce con la forza un uomo più potente degli altri (il signore);
quello infine della borghesia, in cui il produttore difende il proprio sovrappiù dal signore e lo reinveste nel processo produttivo.
Le tre forme presentano rilevanti differenze. Nell’economia dell’autoconsumo l’uomo è libero e il suo lavoro è finalizzato al proprio consumo. Nell’economia signorile il lavoratore è servo, non ha alcun diritto
salvo quello della sussistenza e della riproduzione, e la finalità della sua
attività produttiva (della formazione del sovrappiù) è il libero consumo
del signore. In quella capitalistica il lavoratore è reso libero affinché
possa vendere la propria forza lavoro al capitalista, e la produzione non
è finalizzata al consumo di un individuo, ma a un insieme di bisogni che
comprendono quello dei lavoratori (tendenzialmente ridotto dal sistema
economico ai bisogni primari della sussistenza e riproduzione, ma che
il contropotere del lavoratore nella lotta di classe tende ad accrescere),
quello dell’allargamento del processo produttivo (obiettivo perseguito
da ciascun capitalista, il quale sopravvive solo grazie al potere che riesce
a conquistare nella giungla della concorrenza), e quella infine del soddisfacimento di nuovi bisogni collettivi: quelli connessi alla difesa del sovrappiù prodotto, alla gestione di funzioni sociali (la giustizia, il governo,
l’istruzione, la salute, la celebrazione dei valori comuni e così via).
La chiave di volta della nostra interpretazione fu espressa in una
frase lungamente cesellata, nella quale la matrice della città veniva individuata nella forma del consumo: ci si riallacciava in sostanza alla
questione trattata nell’articolo del 1958, di cui ho già riferito, sull’organizzazione del consumo46. Affermavamo che la città è «il luogo in cui
l’attività produttiva si svolge obbedendo a una caratteristica determinata: quella, cioè, di non essere rapportata immediatamente, fisicamente,
ed esclusivamente, come al suo unico fine, al consumo individuale di un
consumatore determinato».
Nel percorso del modello insediativo alternativo a quello signorile
individuavamo diverse tappe. Quando il sovrappiù rimane nelle mani
del produttore si passa, secondo la nostra analisi, dal villaggio al borgo,
alla città. Il villaggio corrispondeva alla forma economica dell’autoconsumo e del primo apparire del sovrappiù. Il borgo nasceva quando
46 Salzano,
Gestione domestica e organizzazione del consumo.
60
nel centro dell’urbanistica italiana
l’accrescersi del sovrappiù ne rafforzava il ruolo, e l’esigenza della sua
difesa (rispetto al signore) e dello scambio (con gli altri produttori).
La città – sostenevamo – si è formata dalla crisalide del borgo, quando
la formazione del sovrappiù e le nuove esigenze sociali (tra cui la necessità politica di opporsi al signore e al suo “castello”) sollecitarono a investire in una serie di luoghi significativi: i luoghi – appunto – finalizzati
al “consumo comune”, al soddisfacimento di bisogni legati a funzioni e
attività che non erano riferite alle necessità di una singola famiglia, ma
alla società nel suo complesso.
Da questa iniziale riflessione si dipanava l’esame delle trasformazioni
della città (come urbs, polis e civitas), del ruolo che sul suo destino (sulla
sua affermazione come forma tendenzialmente universale del rapporto
tra società e ambiente, e sulla sua crisi) hanno influito l’affermazione
e lo sviluppo del sistema capitalistico, nelle sue manifestazioni sette
ottocentesche dell’industrialesimo come in quelle in atto della “società
opulenta”. Cercavamo infine di delineare le possibilità e le condizioni di
una sua uscita dalla crisi47.
9. Urbanistica e società opulenta
I tre saggi suscitarono interesse nel mondo degli urbanisti. Aldo Rossi,
un intelligente architetto e urbanista milanese, dopo aver letto il primo
saggio, mi chiese di pubblicare, una volta conclusa la ricerca, l’intero
lavoro in una nuova collana che stava preparando per l’editore Marsilio,
che già ospitava rilevanti collane di testi urbanistici. Accettai. Conclusi i
tre articoli, li riordinai in un unico testo, arricchendo e approfondendo
alcuni aspetti. Lo spedii ad Aldo Rossi.
Il primo libro della nuova collana uscì con l’annuncio della prossima
pubblicazione del mio. Ma il testo della presentazione, che non era stato
concordato con me, non mi piacque affatto: appiattiva il libro – così almeno mi parve allora – con qualche frase a effetto. Protestai, litigammo,
il libro non uscì.
Ne parlai allora con Italo Insolera: propose di segnalarlo all’editore Einaudi, con cui era in buoni rapporti, aveva appena pubblicato
con lui il bellissimo suo libro sulla storia urbanistica di Roma capitale,
47 I temi di questo paragrafo sono stati sviluppati più ampiamente in E. Salzano, Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma, Bari-Roma, Laterza, 20074, p. 25-34. 61
Roma moderna48. I redattori di Einaudi lo lessero, mi chiesero di andare
a Torino per discuterne. Presi il treno. Scesi all’albergo Roma (dove
Cesare Pavese si era suicidato pochi anni prima). Tutto ok – mi dissero –
le mandiamo il contratto, lei ce lo rispedirà firmato e intanto partiamo.
Mesi di silenzio. Italo si informò. Seppe che, all’ultimo momento,
Giulio Einaudi aveva chiesto un parere al suo vecchio amico Bruno
Zevi. Sembra che l’autorevole storico dell’architettura avesse sentenziato: «Questo libro non deve essere pubblicato né ora né mai».
Continuando nei suoi tentativi, Italo lo fece avere all’editore Vito
Laterza, tramite il suo maestro Leonardo Benevolo. Laterza lo scorse,
gli sembrò interessante e ben scritto. Se lo portò in vacanza alle Tremiti,
lo lesse con attenzione, mi scrisse una lunga lettera nella quale mi muoveva precisissime osservazioni di merito e mi proponeva alcuni ragionevoli cambiamenti, la maggior parte dei quali accettai.
Il libro uscì nel 1969, con una bella copertina verde e blu, in una
collana nuova. Ebbe molto successo, soprattutto nel mondo dei giovani
architetti sessantottini.
48
I. Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Torino, Einaudi, 1971II.
62
Capitolo quinto
Esperienze di vita pubblica
1. Consigliere comunale a Roma
Come giovane urbanista avevo aiutato alcune sezioni del Pci romano in
qualche analisi della situazione locale. Era nota la mia adesione al gruppo di Franco Rodano. Fu per queste ragioni che la federazione romana
del Pci decise di chiedermi di partecipare alle elezioni amministrative
del 1966 come indipendente, e di essere eletto per occuparmi della politica urbanistica, affiancando gli altri autorevoli compagni che già se ne
interessavano: Aldo Natoli, Piero Della Seta, Antonio Gigliotti49.
Il segretario della federazione, Renzo Trivelli, mi chiese un incontro. Venne nello studio di via del Tempio. La sua richiesta mi era stata
anticipata dal mio antico compagno di studi Dado Morandi, attivo militante comunista nelle periferie romane. La mia candidatura era emersa
nelle riunioni del comitato federale, e aveva via via acquistato credibilità.
Dado era orgoglioso di comunicarmelo per primo. Accettai. Iniziò una
storia che, con diverse forme e in diverse città, sarebbe proseguita per
quasi trent’anni.
49 A quei tempi le liste elettorali venivano formate, nell’ambito del Pci, con un attento “dosaggio” di esponenti delle diverse realtà sociali di cui si voleva guadagnare il consenso: le liste
dovevano essere rappresentative dell’insediamento sociale del partito. All’interno delle liste si
sceglieva poi un certo numero di candidati su cui l’organizzazione del partito concentrava le
preferenze, per fare in modo che i gruppi eletti fossero da un lato rapprentativi delle più forti
realtà sociali, ma dall’altro fossero costituiti di esperti dei vari settori d’azione dell’amministrazione, locale o nazionale, su cui ci si doveva impegnare. La formazione delle liste e la decisione,
al loro interno, di quelli su cui dirigere i voti era quindi una discussione complessa, che coinvolgeva le diverse istanze del partito, da quelle di base a quelle di direzione.
63
capitolo quinto
Poiché ero sconosciuto ai compagni delle sezioni, che avrebbero
dovuto votare per me in obbedienza alle indicazioni del partito, mi fu
chiesto di preparare un volantino con una mia piccola biografia e una
dichiarazione. La propaganda individuale era consentita unicamente ai
candidati indipendenti: in quei tempi la personalizzazione della partecipazione alla competizione elettorale, che oggi è una causa del degrado della politica, era considerata colpa grave, per la quale si rischiava
l’espulsione.
Per farmi conoscere, ed essere sicuri della mia elezione, non bastò
il volantino. Mi fecero partecipare a comizi elettorali con membri autorevolissimi del Pci. Il primo fu nella popolare sezione di Torpignattara:
in una grande sala gremita, dopo un discorso di Giancarlo Pajetta, tra i
più amati dirigenti nazionali del partito, pronunciai un breve intervento.
Ne seguì uno all’aperto, in piazza dei Navigatori, con Giorgio Amendola, dirigente storico del Pci dagli anni del fascismo. Lo ricordo come un
comizio un po’ freddino. Pieno d’entusiasmo e di pathos invece quello
successivo, nel popoloso quartiere di Centocelle, con Pietro Ingrao,
adorato dalla base romana del partito. A conclusione della manifestazione, Ingrao fu strappato dal palco e portato in trionfo dai giovani
comunisti.
Dopo l’ultimo comizio andai a cena in un ristorante di Campo
de’fiori, con tutto il gruppo dirigente del partito. Uscendo di lì e avviandoci verso la sede del Pci mi trovai accanto a Luigi Longo, segretario
nazionale del partito. Era un vecchio dirigente, formatosi attraverso
l’esilio, la guerra di Spagna, la clandestinità della Resistenza e la guerra
partigiana in Italia. Molte cose che non appartenevano alla sua esperienza gli sfuggivano. «Non riesco a capire come mai a voi architetti
piacciano tanto queste case e questi quartieri degradati e vecchi; è così
più bello dove abito io!». La sua abitazione era nel grande, moderno e
un po’ squallido palazzo di una cooperativa di deputati, lungo la via che
porta all’Eur.
Fui eletto. Cominciò il duro lavoro di consigliere comunale di un’opposizione che contava. Le riunioni della commissione urbanistica, della
quale facevo parte con Natoli e Della Seta, avvenivano due o tre volte
alla settimana, quelle del consiglio comunale una o due. E poi c’erano le
riunioni del partito, quelle del gruppo consiliare, il lavoro con le sezioni.
In quegli anni cominciai anche a collaborare, come urbanista, al lavoro
del piccolo ufficio della direzione nazionale del Pci, in via delle Botteghe Oscure, che di quegli argomenti si occupava. Mi iscrissi al Pci solo
nel 1971, al termine del mandato amministrativo: ero stato eletto come
“indipendente” e tale volevo restare, per rispetto dei miei elettori.
64
esperienze di vita pubblica
2. Il lavoro sull’attuazione del piano regolatore generale di Roma del 1962
Il grosso del lavoro di consigliere comunale si svolgeva nella commissione. Noi eravamo certamente i più agguerriti e presenti. Il confronto
era tra Piero Della Seta e me da un lato, e l’assessore all’urbanistica democristiano, che per molti anni fu Maria Muu Cautela e il funzionario,
l’ingegnere Piero Samperi, abile strumento tecnico della politica democristiana, dall’altro.
Nel 1962 era stato adottato un nuovo prg, dopo un lunghissimo
dibattito e diversi progetti e atti amministrativi50. C’erano, nel piano,
alcune idee positive. La scelta fondamentale, che caratterizzava la sua
struttura, così come era stato concepito dai cinque consulenti incaricati51, era quella di combattere lo sviluppo della città in tutte le direzioni
(“a macchia d’olio”), determinato dal gioco esclusivo della rendita fondiaria, causa principale della congestione dell’area centrale e in particolare dei quartieri più antichi. L’intenzione era di privilegiare lo sviluppo a
est, verso i Castelli romani, promuovendolo con un deciso spostamento
dal centro di tutte le attività direzionali, sia pubbliche sia private. La previsione più forte fu quindi il nuovo Sistema direzionale orientale (Sdo):
una struttura costituita da tre grandi nuclei di uffici, attività commerciali
e residenze, collegati tra loro e al resto della viabilità urbana e metropolitana da un “asse attrezzato”: un grande asse infrastrutturale costituito
da arterie stradali e vettori su rotaia.
Altro elemento positivo del piano era la tutela delle aree verdi della città, in particolare dei grandi parchi esistenti (villa Ada, villa Chigi,
villa Doria Pamphili, Castel Fusano, Castel Porziano) e il comprensorio
dell’Appia Antica52.
Ma il piano si segnalava anche per due contributi importanti di carattere generale, l’introduzione di due criteri che solo successivamente furono
resi norma generale nella legislazione nazionale (per essere prima o poi
disattesi): gli standard urbanistici, che furono resi obbligatori per tutti i
Comuni, come abbiamo visto, con la “legge ponte” del 1967 e il decreto
del 1968; e l’attuazione programmata nel tempo del piano, introdotta
come norma generale con la “legge Bucalossi” del 1977, che prescrisse
la formazione del “programma pluriennale d’attuazione”. Con questo
50 Insolera, Roma moderna, p. 251-282.
51 Erano Luigi Piccinato, Michele Valori, Lucio Passarelli, Mario Fiorentino, Piero Maria Lugli.
52 Questo fu introdotto d’ufficio con il decreto d’approvazione del piano dal ministro
Giacomo Mancini, in considerazione dei “preminenti interessi dello Stato” che ne chiedevano
la tutela.
65
capitolo quinto
strumento si stabiliva che le diverse previsioni del prg, in particolare la
realizzazione di nuove zone d’espansione, di nuove infrastrutture, di
nuove attrezzature pubbliche, non avvenissero casualmente nel tempo,
rispettando cioè il solo disegno spaziale del piano, ma secondo un preciso
programma, valido non a tempo indeterminato come le previsioni del prg,
ma per un periodo breve (3-4 anni), e stabilendo quali erano gli interventi
da attuarsi nel prossimo periodo, talché la realizzazione di infrastrutture,
servizi ed edilizia avvenisse contemporaneamente.
Gli elementi negativi del piano erano soprattutto tre. Innanzitutto
l’eccessiva dimensione delle previsioni edilizie, dovuta in particolare
all’inserimento di numerosissime zone d’espansione: grandissime aree,
ciascuna destinata ad accogliere edilizia per migliaia, e a volte decine
di migliaia di abitanti. In secondo luogo, l’insufficienza regolativa delle
norme previste per la parte già costruita della città, dove erano consentiti pesanti interventi di sostituzione che avrebbero accresciuto ulteriormente la congestione delle zone centrali. Infine, l’assoluta mancanza
di volontà politica di rendere davvero concreti gli elementi positivi del
piano, a partire dalla sua attuazione programmata nel tempo e dalla realizzazione dello Sdo.
Una prima fase del lavoro che svolgemmo in commissione consiliare consistette nell’esame delle numerosissime osservazioni al prg e
alla stesura delle relative controdeduzioni, con le modifiche conseguenti
a quelle accolte. Prima di prendere in considerazione le osservazioni
discutemmo i criteri sulla base dei quali le avremmo esaminate e avremmo deciso, e preparammo una serie di formule per le varie tipologie di
accettazione o di rigetto delle proposte presentate. Senza grande fatica
riuscimmo a ottenere l’inserimento di una formula che ci permetteva di
escludere sistematicamente molte delle osservazioni palesemente volte
solo a privilegiare interessi privati. La formula era, grosso modo, la seguente: «L’osservazione appare volta alla tutela d’un interesse privato in
contrasto con gli indirizzi del piano».
Mentre scrivo, devo osservare che in questi anni la prassi, che si vuole
rafforzare con leggi di “riforma”, è esattamente quella opposta: si tende a
privilegiare gli interessi immobiliari privati sugli interessi pubblici53.
53 Il disegno di legge dell’onorevole Lupi, presentato nella xiv legislatura e ripresentato
nella successiva, prevede esplicitamente che la pianificazione avvenga «mediante l’adozione di
atti negoziali in luogo di atti autoritativi»: in parole povere, mediante la contrattazione con gli
interessi immobiliari anziché mediante autonome scelte del potere pubblico. E gli interessi dei
proprietari sono privilegiati, nelle proposte legislative e nella prassi di quasi tutte le istituzioni,
nei confronti di quelli dei cittadini. Vedi capitolo 14, paragrafo 2 e seg.
66
esperienze di vita pubblica
Conclusa questa parte del lavoro e approvato definitivamente il
piano, si passò alla fase dell’attuazione. Per un primo periodo il nostro
gruppo si oppose recisamente a prendere in esame l’attuazione dei
grandi comprensori d’espansione privati: sembravano invece essere
l’unica previsione alla quale la giunta democristiana tenesse. Dal punto
di vista dei concreti interessi, erano la polpa del piano, e la parte più
facile da attuare. Il nostro peso politico era notevole: benché fossimo
all’opposizione, riuscivamo a incidere sulle scelte. O, almeno, a far sì
che non passassero quelle a cui eravamo più nettamente contrari, esercitando forme di ostruzionismo e appellandoci all’opinione pubblica.
Poi, a un certo punto, l’opposizione del Pci si ammorbidì. Non ne
compresi subito il perché. Allora seguivo poco le vicende politiche
della federazione romana e della direzione nazionale: del resto, non ero
iscritto al partito ed ero eletto come indipendente. Il leader del gruppo
consiliare non era più Aldo Natoli, che era su posizioni molto rigorose.
Erano gli anni nei quali maturava la formazione del gruppo del «manifesto», che condusse poi alla radiazione dei suoi promotori dal Pci; a quel
gruppo Natoli era molto vicino. Ma era l’insieme dell’atteggiamento del
Pci che stava cambiando. L’urbanistica, almeno a Roma, non era più argomento centrale: le sue scelte potevano essere adoperate come merce
di scambio per ottenere altri vantaggi, vantaggi politici devo aggiungere
e sottolineare, non di mero potere o, peggio, di gratificazione personale,
come avviene adesso.
Così, in cambio d’un atteggiamento della Dc più vicino alle posizioni della sinistra sui grandi temi simbolici (come l’approvazione unanime da parte del consiglio di un ordine del giorno contro la guerra del
Vietnam), assumemmo un atteggiamento più disponibile sulla politica
urbanistica. Fino ad allora avevamo impedito che i piani di lottizzazione convenzionata delle grandi zone d’espansione fossero presentati in
commissione per l’esame: adesso accettammo di entrare nel merito in
commissione, e poi in consiglio per la decisione. Avremmo espresso la
nostra posizione, argomentatamente, per ciascuno dei piani, poi si sarebbe passati ai voti.
3. La battaglia per Capocotta
All’inizio degli anni Settanta, gran parte della nostra attività in Campidoglio fu dunque dedicata all’esame dei vari progetti attuativi del prg. Votammo a favore pochissime volte, contro quasi sempre, ma il risultato
fu scarso: la giunta aveva la forza dei numeri. Compresi lì la differenza
67
capitolo quinto
tra le varie forme di fare opposizione. Anche se si è in minoranza si
possono bloccare le scelte della maggioranza. Poche cose dividono
quegli anni da quelli presenti, ma sono fondamentali. In primo luogo, i
consigli (cioè gli organismi larghi delle istituzioni elettive, quelli rappresentativi di tutte le posizioni politiche) contavano molto più di oggi. Poi
c’era in tutti il rispetto per la legalità: c’erano tra noi alcuni bravissimi
consiglieri che studiavano, prima delle riunioni, tutte le deliberazioni su
cui avremmo votato, e scoprivano ogni imperfezione che le rendesse suscettibili di critica sotto l’aspetto giuridico e amministrativo. Infine c’era
una maggiore attenzione, da parte di tutti, al merito delle cose; e così si
riusciva a convincere anche l’avversario politico.
La democrazia rappresentativa funzionava molto meglio di adesso.
Allora i consigli dei diversi livelli di governo, come il parlamento nazionale, erano davvero “lo specchio del paese”: in essi avevano rappresentanza e voce, e partecipavano alle decisioni almeno con l’espressione
forte della loro argomentata opinione, i rappresentanti di tutte le posizioni politiche e culturali che avevano sufficiente seguito. Le grandi decisioni – nell’ambito del Comune, come degli altri livelli di governo – le
assumeva il consiglio, non la giunta o il sindaco. I diritti d’informazione,
di argomentazione, di proposta erano riconosciuti a tutti. A partire dagli
anni Novanta, le cose sono radicalmente cambiate. Prima con il passaggio dal voto proporzionale a quello uninominale, che ha ridotto la rappresentatività; poi con il trasferimento di poteri dai consigli alle giunte
(espressione della maggioranza) e da queste al sindaco. Oggi i consigli
non decidono più nulla: si limitano a ratificare le decisioni già prese. La
scelta compiuta dalle forze politiche maggiori, in modo completamente
bipartisan, è stata quella di privilegiare la governabilità sulla democrazia, il
decisionismo sulla partecipazione.
Il Consiglio contava ancora, e in esso i comunisti, quando la giunta
ci presentò per l’esame una lottizzazione minore, denominata “Marina
reale”: si trattava di una zona d’espansione sul litorale, che avrebbe reso
possibile la costruzione di cinquemila ville. Nessuno di noi conosceva
l’area, ma la cosa ci insospettì. Della Seta e io chiedemmo di fare un
sopralluogo. Una richiesta abbastanza inconsueta per quei tempi; in
genere, l’organizzazione capillare del partito ci consentiva di avere, attraverso le sezioni, informazioni precise delle varie realtà, ma per quella
zona non avevamo raccolto nessuna informazione.
Un pullmino ci portò sul posto; c’erano anche l’assessore e altri
membri della commissione. Arrivammo, dalla campagna romana, in
una grandissima pineta: alti pini marittimi ombreggiavano un verde
prato. Camminando in direzione del mare, ci addentrammo in una
68
esperienze di vita pubblica
selva più intricata: si trattava di uno splendido bosco mediterraneo, il
terreno disseminato di ciclamini e grandissime ghiande cascate dalle
querce. Una foresta meravigliosa, che terminava sul mare con una serie
di dune intatte. Tornando in città, decidemmo con Piero che quella
lottizzazione non si sarebbe fatta. Buttai giù frettolosamente un breve
comunicato. Lo spedii a qualche decina di indirizzi, principalmente alla
stampa. La cosa colpì. Il giorno dopo «il Messaggero» pubblicò un ampio servizio. L’opinione pubblica si mosse. Il ministro dei Lavori pubblici, Giacomo Mancini, intervenne. L’operazione fu bloccata, il bosco
di Capocotta fu salvo.
Eppure, gli interessi della proprietà erano potenti. Vi erano tre gruppi di proprietari: gli eredi della famiglia Savoia (sì, proprio la ex famiglia
reale), un gruppo di costruttori romani e il potente sindacato dei lavoratori israeliani, l’Histadrut. Una giovane, bella ed elegante emissaria
di quest’ultimo (rappresentato da uno studio svizzero) mi chiese un
appuntamento; la incontrai, mi fece balenare proposte maliziose che,
ovviamente, lasciai cadere. Fu la prima e unica volta, in tutta la mia carriera di amministratore, che subii un tentativo di corruzione.
4. Le borgate abusive
Non solo di piani si nutriva il lavoro del consigliere comunale comunista in Campidoglio. Si trattava anche di aiutare i compagni delle sezioni
a comprendere e a intervenire sulle situazioni delle realtà locali in cui
operavano e di cui rappresentavano gli interessi. Ebbi l’occasione di conoscere moltissimi compagni di grande valore; il disinteresse personale,
la disponibilità a farsi carico degli altri, la volontà di comprendere e di
far comprendere, di imparare e di insegnare: queste erano le caratteristiche comuni a tanti giovani architetti o studenti, o semplici militanti di
base, che conobbi allora.
Con Piercamillo Beccaria mi interessai della situazione del quartiere
di Primavalle, sottoposto a un progetto di trasformazione che noi volevamo riqualificare nell’interesse dei cittadini. In seguito, Beccaria vinse
un concorso e andò a lavorare come urbanista nel Comune di Modena, dove divenne consigliere comunale, assessore, e poi bravissimo
sindaco54. Con Vittorio Caporioni e un gruppo di giovani studenti di
54 Piero Beccaria diede anche un altissimo insegnamento di vita. Colpito dal cancro, scrisse
una lettera ai cittadini nella quale li informava della sua malattia e annunciava che avrebbe
69
capitolo quinto
architettura lavorammo per spiegare ai cittadini del popoloso quartiere
di San Lorenzo i “misteri” dell’urbanistica. Con Giuliano Prasca indirizzammo verso la conquista di spazi pubblici le numerose compagini e
associazioni di sportivi che lui, dirigente dell’Uisp (Unione italiana spor
popolare), allenava per la ricreazione e mobilitava per la civiltà (mi fece
un complimento tra i più belli che abbia mai ricevuto: «Salzano mi ha
insegnato a dare del tu al territorio»).
Un problema che si ripresentava spesso, e nel quale il Pci era fortemente impegnato, era quello delle borgate abusive. Erano insediamenti
spontanei, nati nell’agro romano: ammassi di casupole in foratini, lamiere e materiali raccogliticci, e tuguri ricavati sotto gli archi delle rovine degli acquedotti romani. Prima della guerra ospitavano una parte
degli abitanti cacciati dal centro storico dalle demolizioni del periodo
fascista55; nel dopoguerra, le famiglie povere che la crisi dell’agricoltura
aveva cacciato dai paeselli d’origine e il gigantesco boom dell’edilizia
aveva richiamato nella capitale, ancor prima che il parlamento, nel
1960, abrogasse le leggi fasciste contro l’urbanesimo, che avevano reso
praticamente impossibile spostarsi dalla campagna alla città in cerca di
un lavoro.
Via via le borgate si erano trasformate. Negli anni Cinquanta e Sessanta erano sorte su lottizzazioni abusive di terreni: un proprietario fondiario faceva disegnare una mappa che suddivideva il suo terreno in lotti di poche centinaia di mq; tramite abili intermediari vendeva i lotti agli
immigrati; questi, in prevalenza muratori o manovali, con la solidarietà
degli amici mettevano su in fretta e furia una casetta. Si costituivano
così insediamenti di qualche consistenza, ma lontani dalla città, privi di
acqua, elettricità, fognature e, naturalmente, servizi collettivi. Una massa di piccoli slums accerchiava la capitale, che intanto si estendeva con i
palazzoni nei quartieri legali.
Il prg del 1962 aveva del tutto trascurato le periferie. Scrive Insolera:
Non si parla invero delle borgate: se le cerchiamo sui grafici del piano constatiamo che per la maggior parte di esse è
prescritta la conservazione dei volumi attuali, né sono previste
intorno ad esse sufficienti aree per l’insediamento di quei servizi
di cui le borgate sono notoriamente prive. Non è dato vedere
nel “progetto di piano” una politica della periferia, intesa come
rottura della tradizionale indifferenza dei piani regolatori romani
continuato a fare il sindaco finché ne avesse avuto la forza. Rendeva pubblica la sua condizione
per testimoniare che la malattia non è una vergogna da tenere nascosta.
55 A. Cederna, Mussolini urbanista, Venezia, Corte del Fontego, 2006.
70
esperienze di vita pubblica
verso quelle zone della città dove, nelle baracche, nelle borgate,
negli alveari di cemento armato, si accumulano da cento anni
energie umiliate e frustrate, vane speranze di uomini a cui non è
stato dato di partecipare all’evoluzione di quella civile comunità
di persone che dovrebbe essere una città56.
Il popolo delle borgate protestava. Il lottizzatore abusivo era scomparso, restavano ormai le famiglie dei disperati costruttori della città
illegale. Il Pci raccoglieva ed esprimeva la protesta, la trasformava in
richiesta di condizioni civili di cittadinanza. Mano a mano si riuscì a
ottenere che venissero realizzate le fogne e l’acquedotto, che fossero
servite da un autobus, che le più popolose venissero dotate di qualche
essenziale attrezzatura pubblica.
Ma questo percorso di doveroso riconoscimento di diritti di cittadinanza finiva per consolidare l’abusivismo. Nuovi insediamenti abusivi
nascevano, quelli esistenti mutavano le loro caratteristiche: da tuguri a
casette, da casette a ville e villette, addirittura piccoli condomini. Negli
anni in cui ero consigliere comunale il fenomeno era in una fase avanzata di transizione. Ne eravamo consapevoli, cercavamo senza riuscirci
di risolvere la contraddizione tra riconoscimento di diritti elementari e
corretta gestione del territorio.
5. Il Sessantotto
Quando scoppiò quel grande evento che fu il Sessantotto non ero del
tutto impreparato. Attraverso il gruppo del «Dibattito politico» avevo
conosciuto e condiviso la critica alla società opulenta di J. K. Galbraith57.
Ricordo un articolo che scrissi nel 1959, una sorta di recensione al libro.
Il titolo era L’inutile opulenza58.
Nell’articolo concordavo con l’analisi di Gailbraith, ma ritenevo,
d’accordo col gruppo, che la soluzione non potesse essere quella da lui
proposta, «di estendere il campo d’azione dello Stato nell’economia, al
fine di riequilibrare la bilancia sociale e di dare più largo respiro alla produzione di ‘merci utili’: scuole, ospedali, servizi pubblici in genere e così
via». Noi sostenevamo che «all’interno di una concezione dell’economia
che a sè stessa subordina ogni altro valore, ogni altra attività, ogni altra
56 Insolera, Roma moderna, p. 268.
57 J. K. Galbraith, La società opulenta, Milano, Edizioni di Comunità, 1965.
58 E. Salzano, L’inutile opulenza, «il Dibattito politico», 133-34 (10 mag. 1959),
71
p. 25.
capitolo quinto
dimensione dell’umano operare», si dovesse porre il problema «sul piano del superamento di una civiltà, di una cultura, di un sistema sociale
basati sul secco prevalere della dimensione economica, e quindi sulla
priorità assoluta dei valori quantitativi e materiali».
Vivevamo ormai nel pieno della società opulenta, i cui connotati
«La Rivista trimestrale» aveva ampiamente indagato; io stesso avevo già
pubblicato il saggio Ambiguità della città opulenta59. E consideravamo i
grandi moti degli studenti come l’espressione del malcontento dei “figli
dell’opulenza”, che non trovando sbocchi politici distruggevano tutti i
costrutti dei loro genitori.
Mentre io militavo “diligentemente” nel Pci e in consiglio comunale, alcuni miei amici e conoscenti occupavano facoltà universitarie e
si prendevano a botte con la polizia. Non eravamo in due mondi del
tutto diversi, ma certo facevamo fatica a capirci. A me irritava particolarmente l’atteggiamento aggressivo nei confronti del partito nel quale
militavo e dei suoi aderenti, il rifiuto del confronto pacato. Ricordo che
una volta gli studenti che occupavano la facoltà di architettura di Roma
chiesero al Pci di mandare un suo esponente a illustrare la “politica
della casa” del Pci. Andammo in due, Bruno Roscani e io: ci fu molto
difficile parlare di cose concrete, venivamo continuamente interrotti e
insultati come «riformisti», «servi dei padroni» e così via60. Gli studenti
di architettura erano dotati, in quella fase, di grande energia creativa.
Avevano affrescato con fiori, alberi e uccelli i locali della facoltà, alcuni
si erano incatenati in cima a un campanile (a Sant’Ivo alla Sapienza) per
protestare pubblicamente, altri chiedevano colloqui col professore: nel
suo studio, poi, restavano seduti silenziosi a guardarlo, gettando a terra,
uno per uno, i fogli bianchi di una risma di carta, per significare che la
cultura non aveva niente da dire.
I rapporti tra la sinistra “ufficiale” e gli studenti del Sessantotto non
furono mai facili, sebbene migliorarono nettamente quando il segretario
nazionale del Pci, Luigi Longo, aprì con loro un dialogo e, sulle riviste
del partito, cominciò una riflessione sul significato di quel movimento.
Anche nel nostro gruppo non ricordo entusiasmi nei confronti del movimento sessantottino. Secondo molti, il Sessantotto ha rappresentato
anche un forte spostamento dell’attenzione sociale dal pubblico al privato, dal common all’individual. Comunque, a quel movimento mi sentivo
59
60
Vedi p. 59.
Solo molto più tardi seppi che il leader degli studenti che affollavano quell’incontro era
Antonello Sotgia, che oggi collabora con eddyburg con articoli sulle iniziative romane sulla
questione delle abitazioni.
72
esperienze di vita pubblica
estraneo, sebbene probabilmente il clima generale che il Sessantotto
aveva provocato nei rapporti personali contribuì a modifiche sostanziali
nella mia vita privata.
Riflettendoci a posteriori mi sembra che di quel generale sommovimento occorra valutare due aspetti, che David Harvey pone chiaramente in luce. Lo studioso statunitense sottolinea come «gli sconvolgimenti
politici avvenuti in tutto il mondo nel 1968» fossero «fortemente segnati
dal desiderio di maggiori libertà personali»; ciò era certamente vero per
gli studenti:
Chiedevano libertà dalle costrizioni esercitate dalle famiglie,
dalle strutture educative, aziendali, burocratiche e dallo Stato.
Ma il movimento del ’68 aveva anche come obiettivo politico
primario la giustizia sociale. I valori della libertà individuale e
della giustizia sociale non sono, però, necessariamente compatibili. Il perseguimento della giustizia sociale presuppone solidarietà sociali e una propensione a sublimare le esigenze, i bisogni
e i desideri individuali nell’ambito di una lotta più generale, per
esempio per l’uguaglianza sociale o la giustizia ambientale. Nel
movimento del ’68 gli obiettivi che riguardavano la giustizia
sociale e quelli relativi alla libertà individuale si fondevano con
qualche difficoltà. L’attrito divenne più che mai evidente nella
tensione che caratterizzò i rapporti tra la sinistra tradizionale
(organizzazioni dei lavoratori e partiti politici) a favore delle solidarietà sociali e il movimento studentesco desideroso di libertà
individuali61.
In effetti, il movimento del ’68, mentre da un lato, infrangendo i tabù dell’autoritarismo e del controllo sociale, liberava le energie derivanti
dalla piena esplicazione dei diritti individuali, dava spazio all’affermazione delle differenze (a cominciare da quelle di genere) e promuoveva la
piena espressione delle pulsioni personali, dall’altro vedeva smarrire
il senso della dimensione sociale, essenziale per l’equilibrio stesso della
persona. In Italia, probabilmente, questo ripiegamento sull’«individualismo neoreomantico»62 incise meno che altrove, anche perché incontrò
rapidamente un altro movimento, rappresentato dal mondo del lavoro e
dalle sue organizzazioni economiche e politiche.
61
62
D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Milano, Il Saggiatore, 2007, p. 53.
La storia dell’individualismo, a partire dal 1968, evidenzia questa tendenza; o, per dirla
con Luc Boltanski, «il capitalismo moderno ha integrato con successo la “critica creativa” del
movimento del ’68, trasformando il suo idealismo in un individualismo neoromantico espresso principalmente attraverso il mondo delle merci», in P. Ginsborg, Il tempo di cambiare. Politica
e potere della vita quotidiana, Torino, Einaudi, 2004, p. 83.
73
capitolo quinto
In Italia, quegli anni ebbero un carattere abbastanza diverso dal
Sessantotto nelle altre regioni del mondo. Come scrive quarant’anni più
tardi Alberto Asor Rosa, «solo in Italia – solo in Italia, in tutto il mondo
– movimento studentesco e movimento operaio crebbero solidalmente,
tendendosi la mano». E prosegue:
Dov’altro mai, e quando mai, è accaduta una cosa del genere? Il deprezzamento del 1968-69 fa parte integrante del clima
degradato di questi nostri giorni, si dimentica che questo è stato
un punto alto della storia d’Italia, un momento europeo e internazionale, come in Italia ne capitano pochi. Cambiò il modo
di considerare la politica. Si fece politica di massa anche fuori
dei partiti. Le donne conquistarono un posto che prima non
avevano. Partiti e sindacati furono costretti a prenderne atto, a
registrare i loro obiettivi e le loro metodologie organizzative.
Insomma, l’Italia diventò più libera rispetto al proprio passato.
E gli intellettuali, piccoli e grandi (che altro sono gli studenti se
non intellettuali in formazione?), vi recitarono una parte non
certo minore, e sicuramente positiva63.
6. Verso l’autunno caldo
In Italia il movimento degli studenti incontrò, e contribuì a preparare
e a sostenere, l’altro grande evento di quegli anni. Tra la primavera del
1968 e l’autunno del 1969 si aprì infatti in Italia una grande vertenza
sindacale. Due filoni di problemi la animarono. Da una parte le rivendicazioni in qualche modo tradizionali, legate al rinnovo dei contratti e
alle condizioni di lavoro nelle fabbriche. Il primo episodio rilevante fu
lo sciopero degli operai del lanificio Marzotto a Valdagno, nel Vicentino.
Una vertenza molto aspra che, a partire dall’aprile 1968, vide l’occupazione della fabbrica, l’abbattimento della statua del suo fondatore
(che campeggiava nella piazza principale del paese, quasi a simboleggiare il ruolo servile della città rispetto al padrone della fabbrica), la repressione, in quel caso incruenta, della polizia, il coinvolgimento solidale di
tutta la cittadina, compreso il Comune a prevalenza democristiana64.
Dall’altra parte, la protesta sindacale era nutrita da altri temi: quelli
legati alle condizioni di vita nella città e nel territorio. Per la prima volta
63 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Roma-Bari,
Laterza, 2009, p. 63.
64 La statua nella polvere: 1968. Le lotte alla Marzotto, a cura di O. Mancini, Roma, Ediesse,
2008.
74
esperienze di vita pubblica
le rivendicazioni dei lavoratori e della loro organizzazione non riguardavano solo le questioni dei salari e dei contratti nelle fabbriche o le
condizioni di lavoro nelle campagne, ma affrontavano i temi della città:
il problema dei trasporti, della casa, dei servizi sociali furono al centro
di una vertenza che sfociò in un grande sciopero generale nazionale.
Ed era una rivendicazione unitaria, nel senso che vedeva la partecipazione convinta delle tre grandi centrali nelle quali il movimento sindacale si
era scisso negli anni della guerra fredda: la Cgil, orientata a sinistra, la
Cisl, vicina al partito cattolico, la Uil, di ispirazione laica.
La storia era cominciata a Torino, nella primavera del 1969.
Vi avevo dedicato un ampio articolo su una piccola rivista di cui Vezio,
alcuni amici napoletani e io avevamo avviato, molto artigianalmente, la
pubblicazione. La rivista si chiamava «Polis»; ne uscirono due numeri65.
La vicenda che raccontavo era la seguente.
Nel marzo 1969 la Fiat aveva pubblicato un bando per assumere
negli stabilimenti di Torino quindicimila nuovi addetti, reclutandoli nel
Mezzogiorno: il loro trasferimento assieme alle famiglie avrebbe significato almeno sessantamila nuovi immigrati a Torino. Le organizzazioni
sindacali rilevarono subito che i programmi di espansione degli impianti
e dell’occupazione della Fiat avrebbero ulteriormente aggravato l’emarginazione delle regioni meridionali e gli squilibri territoriali.
Sia la stampa locale e nazionale sia i parlamentari della sinistra criticarono l’iniziativa della Fiat, sottolineando l’insufficienza grave della
programmazione economica. Noi condividevamo queste critiche, ma
alzavamo il tiro e ci riferivamo al modello di sviluppo: se non si critica
e supera questo modello di sviluppo, «chi potrà mai ragionevolmente
impedire alla Fiat di ampliare i suoi impianti a Torino, finché la Fiat
produrrà per la motorizzazione privata? Che senso avrebbe produrre
a Cosenza o a Trapani o a Nuoro automobili, se il mercato è essenzialmente nel triangolo industriale e nei “poli” maggiori?»66.
Nell’area torinese si manifestava una decisa opposizione all’iniziativa
della Fiat, soprattutto nei confronti di ogni indiscriminato aumento
della popolazione che avrebbe fatto saltare le già precarie strutture
residenziali, e quel po’ di attrezzature sociali funzionanti nei comuni
della “cintura”. La protesta sfociava nello sciopero generale provinciale
del 3 luglio 1969 «contro il carocasa e per un massiccio e tempestivo
65 La redazione di «Polis»: Giuseppe Basile, Alessandro Dal Piaz, Edoardo Delgado, Vezio
De Lucia, Raffaele Molino, Antonio Oliva, Edoardo Salzano (responsabile), Lucio Scandizzo.
Grafico: Gianni Gennaro.
66 E. Salzano, I quindicimila della Fiat: un episodio della programmazione, «Polis», 1 (ago. 1969).
75
capitolo quinto
intervento dello Stato nell’edilizia». I fatti di Torino, gli altri scioperi
generali in numerose province nei mesi successivi, le proteste degli abitanti delle baracche e negli altri insediamenti impropri, il ripetersi delle
occupazioni di alloggi (e, dall’altra parte, l’esistenza di numerosi alloggi
con canoni d’affitto bloccati ai valori di prima della guerra) ponevano in
primo piano la necessità di una nuova politica della casa.
7. Lo sciopero generale del 1969
L’autunno del 1969 fu probabilmente il momento più alto dello scontro
sui problemi del territorio e della sua organizzazione: si trattava di affermare il diritto alla città come elemento essenziale di una società riformata.
Quei temi non erano agitati solo da èlite intellettuali e dalle componenti
più radicali della sinistra (allora espresse dall’ala della sinistra del Psi che
faceva capo a Riccardo Lombardi). Era l’insieme dei sindacati dei lavoratori che scendeva in campo, con l’appoggio del maggior partito della
sinistra, il Pci, che si avviava a essere quello col più ampio consenso
elettorale.
Ricordo, poche settimane prima dello sciopero nazionale, un convegno del Pci dedicato proprio a questi temi. Il titolo era «Il diritto
alla casa e a una città per gli uomini». La relazione introduttiva fu di
Alarico Carrassi, responsabile del settore presso la direzione del partito;
comunicazioni furono svolte dai parlamentari Alberto Todros, Franco
Busetto, dall’assessore bolognese Armando Sarti, dal giurista Salvatore
D’Albergo, dall’urbanista milanese Alessandro Tutino, dal sindacalista
Bruno Roscani, da me e da molti altri. Il titolo del mio intervento era
«Dalla rivendicazione per la casa alla lotta per un nuovo assetto della residenza»; mi proponevo di intrecciare attorno al tema principale, la casa,
quello degli spazi pubblici e delle attrezzature, e gli altri elementi della
complessiva questione urbana. Non mi rendevo conto pienamente che
era proprio nell’intreccio tra questi due elementi, la casa e gli spazi pubblici, che si stava delineando uno dei percorsi di quello che Henri Lefebvre
aveva già definito diritto alla città67.
Le conclusioni del convegno furono tratte da Pietro Ingrao.
La discussione fu pienamente di merito, sulle questioni in sé, senza accademismi né politicismi. Ricordo Ingrao che, attentissimo, prendeva
67 H. Lefebvre, Il diritto alla città, Padova, Marsilio, 1970I (ed. orig.: Le droit à la ville, Paris,
Edition Anthropos, 1968).
76
esperienze di vita pubblica
diligentemente appunti su un grande quaderno formato protocollo e
poi, nelle conclusioni – che diventavano la linea politica del Pci – inseriva in un quadro organico ciascuna delle valutazioni e proposte che erano emerse. Oltre alla sostanza, ammirai il metodo di lavoro, che a quei
tempi era comune ai dirigenti politici, almeno nella sinistra68.
Da quel momento cominciò uno scontro politico di inusitata asprezza e, contemporaneamente, un percorso di innovazioni legislative che,
sebbene non raggiunse gli obiettivi di una vera riforma dell’urbanistica
a partire dalla questione dei suoli urbani, definì un quadro di strumenti
di grande positività.
Come ha scritto Paul Ginsborg, in quegli anni «le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana
erano ben più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centrosinistra.
La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento
operaio»69.
Molti anni dopo, nel concludere la mia relazione a un convegno organizzato assieme alle Camere del lavoro della Cgil, sostenevo di nutrire un sogno, «che il movimento dei lavoratori riprendesse nelle sue mani
la vertenza per una città più giusta e perciò più bella, per un territorio
tutelato nelle sue qualità e sottratto ai rischi, che incontrasse le altre componenti della società che si battono per gli stessi obiettivi»70.
68 Il convegno si tenne a Roma, al Teatro centrale, e si svolse il 30 e il 31 ott. 1969. Esistono
gli atti, ciclostilati; ne farò presto la scansione per metterli a disposizione in eddyburg.
69 Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, p. 445
70 E. Salzano, La città come bene comune, in E. Salzano, Città e lavoro, Roma, Ediesse,
2009, p. 30.
77
Capitolo sesto
Organizzazione della cultura
1. Nascita e crisi dell’Inu
Il movimento studentesco del ’68 aveva travolto l’Inu, il prestigioso
Istituto di alta cultura urbanistica, promotore dell’introduzione in Italia
dei principi e delle pratiche della buona urbanistica europea. Il ruolo
dell’Inu era stato rilevante già nell’Italia degli anni fascisti (l’istituto era
nato nel 1930, come me), poi nell’Italia democratica, attivo soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta, quando si era
avviata – con il centro-sinistra di Aldo Moro, Ugo La Malfa e Pietro
Nenni – la fase riformatrice della società italiana. Delle grandi riforme
di struttura (nazionalizzazione dell’energia elettrica, riforma agraria,
riforma della scuola media, istituzione delle Regioni, programmazione economica) faceva parte organicamente la riforma dell’urbanistica.
E l’Inu lavorava alacremente, sia per diffondere la buona urbanistica nei
Comuni e nelle università, sia per mutare il quadro legislativo.
Con il declino dello spirito riformatore del centro-sinistra e, soprattutto, sotto la spinta contestatrice del movimento studentesco, la carica
innovativa e critica dell’Inu si era stemperata. Ciò apparve evidente al
rituale congresso, che si tenne a Napoli, nel 1969, nel grande teatro della Mostra d’Oltremare. Sul palco, accanto ai dirigenti dell’Inu sedevano
sindaco, prefetto, vescovo: tutta l’autorità costituita, in una città che non
era certamente all’avanguardia della politica progressista.
Con un ingresso teatrale di grande efficacia, gli studenti della facoltà di architettura interruppero il congresso. Cominciarono dal fondo
della sala ad affiggere alle pareti manifesti irridenti e provocatori; poi
si avvicinarono e mano a mano li appesero ai tendaggi dietro il palco e allo stesso tavolo della presidenza. Mentre i volponi del potere
79
capitolo sesto
sgusciavano via dietro le quinte, gli studenti conclusero la performance
con un grande lancio di rotoli di carta igienica, sciorinati a mo’ di carnevalizie stelle filanti.
Qualcuno aveva chiamato la polizia. La Celere, con gli scudi e le visiere dei caschi abbassate, irruppe dal fondo della sala. Uno dei dirigenti
dell’Inu, l’irruento Giuseppe Campos Venuti, saltò sul palco, afferrò il
microfono dalle mani di Bruno Zevi, segretario generale dell’Inu e urlò,
rivolto ai poliziotti, «Questi sono i nostri figli, non intervenite, non li
toccate!». La polizia si allontanò, le acque si placarono, la sala si svuotò.
Ma l’Inu era in rotta.
2. La ricostruzione
Gorio mi aveva portato a Napoli per il congresso. Con lui, dopo il colpo di scena degli studenti, andai nella hall dell’Hotel Excelsior, dove i
membri del gruppo dirigente dell’Inu si erano riuniti. C’erano Edoardo
Detti, Bruno Zevi, Giuseppe Samonà, Giuseppe Campos Venuti, Luigi
Piccinato, Cesare Valle, Mario Fiorentino. C’era anche un simpatico
giornalista dell’«Unità», un giovane alto e riccioluto, giunto per fare
diligentemente la cronaca del congresso degli urbanisti (allora si usava
così): era Diego Novelli, che poi diventò amatissimo sindaco di Torino.
L’atmosfera era di disperazione. Sembrava che l’Inu fosse finito. In realtà era morto il vecchio Inu, ormai legato al potere, e si erano gettate
le basi di un nuovo Inu.
L’attività riprese in sordina. Nel 1969 ad Arezzo, nel 1970 a Bologna
e l’anno successivo a Roma si riunirono i soci dell’istituto. A Bologna
l’assemblea elesse presidente Edoardo Detti, urbanista fiorentino, assessore nella giunta di Giorgio La Pira. Attorno a lui si strinse un gruppetto di soci che avviò la ricostruzione dell’Inu: tra i vecchi leader, solo
Luigi Piccinato, Vincenzo Cabianca e Alessandro Tutino affiancarono il
nuovo presidente. Nei convegni di Bologna e Roma, ricorda Franco Girardi, tema comune era la politica della casa e del territorio: «Confluivano in questo tema le due grosse questioni, che si andavano dibattendo
nella sfera politica: il diritto alla casa, postulato dalla sinistra, e la riforma
del regime immobiliare, imposta dalla sentenza della Corte costituzionale».
Sulla seconda questione, una relazione di Alessandro Tutino chiariva
quali ne erano i termini e illuminava sui concreti interessi economici
che stavano dietro: «Questi interessi, di antica data, incrostati sulla cosiddetta rendita parassitaria, andavano preparando la rivincita dopo gli
anni delle riforme di centro-sinistra e delle sottili [sic] distinzioni tra
80
organizzazione della cultura
rendita e profitto. Con questa materia dura avrebbe dovuto confrontarsi
l’azione dell’Inu negli anni seguenti»71.
Dopo anni caratterizzati da un impegno prevalentemente nella cultura tecnica e nella collaborazione con le istituzioni, l’istituto decide di
privilegiare ciò che avviene nella società. Gli interlocutori principali non
sono più le autorità accademiche o governative. Essi vengono scelti nelle “forze di base” e nei poteri locali, i comitati di quartiere, i Comuni, le
neonate Regioni, i sindacati dei lavoratori e le associazioni più combattive che lottano per la casa, i servizi, il verde. Se le ragioni dell’urbanistica
vogliono affermarsi, esse devono diventare patrimonio delle parti più
attive e combattive della società: soltanto così si potranno compiere
progressi anche sul terreno delle istituzioni.
Parallelamente, l’Inu aumentò lo sforzo culturale per comprendere
meglio le regole che di fatto determinano i processi di trasformazione urbana e territoriale. La critica alla speculazione fondiaria ed edilizia diventò
più ferma, ma soprattutto più precisa. Si pose attenzione particolare agli
esiti sociali delle operazioni e delle politiche urbanistiche. Si scoprirono e
si indagarono le leggi dello «sfruttamento capitalistico del territorio».
Nell’assemblea dei soci del 1970, a Bologna, in rappresentanza del
Ministero dei lavori pubblici (“ente associato”) partecipò anche Vezio
De Lucia. Vezio era del tutto sconosciuto, giovane com’era ed estraneo
(come è rimasto) agli ambienti accademici, dai quali proveniva la grande
maggioranza dei membri. Fece un intervento che piacque molto, l’assemblea dei soci lo elesse nel nuovo Consiglio direttivo nazionale.
3. Da che parte sta l’Inu?
Con Vezio dividevamo la stanza al Ministero. Un giorno, reduce da una
riunione del direttivo dell’Inu, mi raccontò un fatto. La sezione campana dell’istituto aveva rinnovato l’incarico di presidente a un signore, tale
avvocato D’Angelo, il quale aveva difeso, in una causa civile, un gruppo
di immobiliaristi napoletani contro il Comune! Questo signore era noto
per la sua compiacenza nei confronti degli interessi della speculazione:
che un dirigente dell’Inu, impegnato in un profondo rinnovamento culturale e morale, difendesse l’ala estrema della speculazione urbanistica
sembrava davvero intollerabile.
71 F. Girardi, Storia dell’Inu. Settant’anni di urbanistica italiana. 1930-2000, Roma, Ediesse,
2008, p. 71.
81
capitolo sesto
«Tu che hai credito all’Unità – mi disse Vezio – perché non fai un
articolo che denunci lo scandalo e la contraddizione?». Telefonai al
giornale, con il quale collaboravo abbastanza spesso; scrissi un breve e
tagliente articolo, dal titolo Da che parte sta l’Inu? Fu tempestivamente
pubblicato, al piede della terza pagina72.
L’articolo ebbe due effetti: nella sezione di Napoli si aprì una crisi, al
termine della quale la presidenza della sezione fu cambiata. Il secondo:
nella successiva riunione del direttivo dell’Inu il presidente Detti chiese
se qualcuno conoscesse questo Salzano. Vezio disse che ero suo amico,
che lavoravo con lui al Ministero. «Perché non gli chiedi se ci aiuta occupandosi del servizio stampa?». Vezio me lo raccontò. Accettai. Feci
una chiacchierata con il direttivo. Cominciai un lavoro divertente, che
diventò parte importante della mia giornata e della mia vita.
L’Inu aveva già una rivista, «Urbanistica», che aveva portato l’urbanistica del mondo in Italia. Diretta con grande sapienza da Giovanni
Astengo, per molti anni era stata finanziata da Adriano Olivetti. Ma in
quegli anni la rivista era in crisi. Olivetti non c’era più, Astengo continuava a fare bellissimi numeri che uscivano a grande distanza di tempo,
indebitandosi personalmente fino al collo. Al nuovo Inu serviva uno
strumento di comunicazione più diretto. Decidemmo di tentare un’iniziativa con le “forze di base”.
Ripresi i contatti con le strutture con cui avevo organizzato, quasi
dieci anni prima, l’intervento al convegno InArch-Gescal, e con le
quali avevo avuto rapporti grazie al mio lavoro di consigliere comunale
e di esperto della direzione del Pci. Preparai e discussi documenti e
promemoria. L’unico che mi seguì con costanza e intelligenza fu Bruno
Roscani, del Centro studi della Cgil. Proposi al direttivo dell’Inu di
muoverci da soli, di fare una rivistina fatta in casa, modesta, per raccogliere informazioni e informare a nostra volta. L’informazione doveva
essere la missione dell’agile strumento, per il quale infatti proposi la
testata «Urbanistica informazioni». Il mio piccolo progetto editoriale fu
approvato. Partimmo.
4. «Urbanistica informazioni»
Nell’editoriale del primo numero (gennaio 1972) sintetizzavo in quattro
punti il carattere del nuovo Inu, di cui la rivista voleva essere strumento:
72 E. Salzano,
Da che parte sta l’Inu?, «l’Unità», 17 mar. 1971.
82
organizzazione della cultura
In primo luogo, il rifiuto di un collegamento con le forze
dirigenti del Paese che si riduca alla ricerca di accordi ai vertici
governativi e ministeriali, e l’impegno invece a porsi come strumento di stimolo e di servizio nei confronti delle classi lavoratrici, delle forze popolari, delle organizzazioni che le esprimono e
le rappresentano, delle istanze sociali di base. In secondo luogo,
il rifiuto di ogni collegamento – che non sia quello della critica
e dello scontro aperto – con le forze, i gruppi e le persone che
tendono a utilizzare il territorio come luogo sul quale operare,
in forme vecchie o nuove, per lo sfruttamento sull’uomo, per
l’appropriazione individualistica o aziendalistica, o per la dilapidazione, delle risorse della collettività. In terzo luogo, il superamento della tradizionale concezione “liberal-professionistica”
del ruolo dell’urbanista, e quindi la sollecitazione e il sostegno
al formarsi di strutture tecniche pubbliche e democraticamente
controllate per la gestione del territorio, a livello dei comuni, dei
comprensori, delle regioni e degli organi centrali dello Stato. In
quarto luogo, infine, l’impegno all’approfondimento dell’analisi
scientifica dei fenomeni che si manifestano sul territorio, delle
forze che li determinano, delle alternative proponibili73.
Inizialmente la rivista (il “bollettino”, continuava a chiamarlo Detti)
era stampata a Torino, nella stessa tipografia dove si stampava «Urbanistica». L’artigianalità era massima. Io stesso feci il progetto grafico, ispirandomi al sobrio «Economist». Con Vezio preparavo l’impaginazione
incollando le bozze dei pezzi, che in grandissima parte scrivevamo noi
stessi. Giulio Tamburini, Valeria Erba, Sandro Dal Piaz, Laura Falconi
Ferrari, Felicia Bottino, Giusa Marcialis, Luigi Falco, Antonino Trupiano erano, nella fase iniziale, i collaboratori più assidui. Gli articoli non
erano firmati se non dalle iniziali dell’autore: minuscole e tra parentesi.
Volevamo evitare ogni personalizzazione; contava la testata, non i singoli collaboratori. Non v’era personale retribuito. Le spese (poche) erano direttamente a carico dell’istituto, i cui soci erano duecento: la rivista
serviva anche per far conoscere l’Inu, accrescerne la base associativa.
La rivista era semplice, povera, severa; ma tentava di non essere, né
apparire, sciatta. Tutto era affidato alla ricchezza informativa, al contenuto, alla scrittura (tagliavamo e correggevamo senza pietà, a volte
riscrivendo da capo).
Non ricordo la tiratura, che era comunque tra le due e le tremila
copie, né il costo. La contabilità dell’Inu, e conseguentemente quella
della rivista, era tenuta alla buona. Neppure c’erano archivi organizzati.
73
In «Urbanistica informazioni», 1° (gen. 1972).
83
A quei tempi, e per molti anni ancora, erano lussi che non ci potevamo
permettere: ci rimettevamo del nostro, a volte non solo il tempo.
Se penso a quel periodo, mi sembra che la rivista mi occupasse a
tempo pieno. Ricordo giornate intere trascorse in “redazione”, nella sede dell’Inu di piazza Santa Caterina da Siena. (Al piano di sopra abitava
un giornalista vero, Eugenio Scalfari). In realtà continuavo a lavorare al
Ministero, a svolgere il mio ruolo di consigliere comunale, a dare il mio
apporto al lavoro della direzione del Pci nel settore. Nella mia vita è
sempre stato così: c’era un’attività che assorbiva il cento per cento dei
miei interessi (o almeno così mi sembra a distanza di tempo), sebbene
in realtà il tempo fosse condiviso con altri impegni.
Un ruolo sempre più decentrato occupava la mia famiglia. I miei
genitori erano morti, entrambi dello stesso male, a un anno di distanza
l’uno dall’altro. Così le mie due sorelle. Con Barbara le cose andavano
male, verso la rottura. Nel frattempo maturavano eventi che mi sospingevano verso altri orizzonti.
Già da un paio d’anni, l’attività universitaria (Giovanni Astengo mi
aveva dato un incarico d’insegnamento nel nuovo corso di laurea in urbanistica dell’Istituto universitario di architettura) mi portava a Venezia
ogni due settimane. Mi venne proposto, nel quadro del nuovo clima politico, un rilevante impegno amministrativo in quella città, che accettai.
Si concluse così, bruscamente, il mio periodo romano, e si manifestò un’altra svolta traumatica. Abbandonai famiglia, ministero, consiglio
comunale e mi trasferii nella città lagunare. Cominciò un’altra storia, un
altro amore, un altro impegno civile. Unico elemento di continuità, oltre l’affetto per le persone che avevo lasciato a Roma, il lavoro per l’Inu
e la sua rivista.
Il nuovo impegno politico e amministrativo ebbe un peso rilevantissimo nella mia vita. È necessario inquadrarlo nei mutamenti che avvennero nell’Italia di quegli anni.
84
Capitolo settimo
La fase gloriosa della sinistra
1. Il compromesso storico
All’inizio degli anni Settanta, l’alleanza di centro-sinistra dava pesanti segni di crisi, data la limitatezza dei risultati raggiunti e le ricorrenti tensioni verso soluzioni conservatrici da parte della Dc. Dopo il 1969, in soli
due anni si succedevano cinque governi, sostenuti dai partiti centristi e
dal Psi, oppure dalla sola Dc. Nel 1972 una sterzata a destra: nel governo Andreotti c’erano i liberali, non c’erano i socialisti.
Proseguivano intanto a destra le attività delittuose ed eversive iniziate con le bombe esplose alla fine del 1969; si coniò l’espressione
“strategia della tensione”, per indicare un’azione sistematicamente volta
a impedire che la spinta progressista, democratica e antifascista, avviata
negli anni Sessanta, facesse passi ulteriori.
Parallelamente, non si placava nel Paese l’effervescenza sociale
prodotta dal Sessantotto operaio e da quello studentesco. Da quel
movimento era nata la spinta (e la speranza) di una trasformazione
integrale e immediata della società: la critica, a volte un po’ infantile, al
capitalismo sembrava potersi tradurre subito nell’azione rivoluzionaria.
La proposta dei partiti di sinistra non sembrava credibile. Spuntavano
numerose formazioni politiche fuori dell’arena parlamentare. Nasceva il
“terrorismo rosso”: nel 1970 si costituivano le Brigate Rosse. In questo
quadro esplosero i fatti cileni.
Il libro di David Harvey, Breve storia del neoliberismo, che ho già chiamato in causa, racconta la storia e i misfatti del neoliberalismo mondiale. La copertina è illustrata con i ritratti di quattro personaggi: oltre a
Reagan, Deng Xiaoping e Margaret Thatcher, campeggia quella di
Augusto Pinochet, il generale che aveva preso il potere in Cile con la
85
capitolo settimo
violenza. Dietro la distruzione della democrazia e del progresso sociale
del Cile c’erano palesemente gli interessi economici, politici e istituzionali degli Usa. Il colpo di stato che abbatté (e uccise) il premier socialista Salvator Allende, e interruppe l’esperienza di governo da lui guidata,
fu il primo episodio che fece comprendere il carattere violentemente
antidemocratico del percorso avviato dai poteri globali.
Gli avvenimenti cileni fornirono l’occasione a Enrico Berlinguer,
leader del Pci, per rilanciare una riflessione e una proposta che ponevano prospettive del tutto nuove alla politica italiana. Egli sosteneva che
l’espandersi della democrazia e l’affermarsi delle forze progressiste provocavano reazioni via via più feroci. Le riforme serie, le riforme che incidono sulla struttura economico-sociale dei paesi minacciano interessi
cospicui. Per batterli non basta la maggioranza assoluta dei voti: occorre uno schieramento molto più vasto che, per la sua stessa dimensione,
possa resistere alle reazioni dei “poteri forti”. Dove trovare in Italia le
basi per un simile schieramento?
Scriveva Berlinguer: se l’obiettivo «è una trasformazione progressiva
– che in Italia si può realizzare nell’ambito della Costituzione antifascista
– dell’intera struttura economica e sociale, dei valori e delle idee guida
della nazione, del sistema di potere e del blocco di forze sociali in cui
esso si esprime» questo è possibile solo con l’alleanza strategica «della
prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze
popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di
ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento
democratico»74.
Come costruire questa alleanza? Due percorsi erano possibili, anzi,
due modi d’intendere e di praticare quella proposta: «puntare, prioritariamente, su quei movimenti che, all’interno del mondo cattolico, esprimevano una domanda di un più sostanziale rinnovamento, domanda
che era frutto sia della svolta conciliare sia della nuova stagione sociale
e culturale aperta col ’68 e che investiva anche la base cattolica», oppure
dare alla ricerca di un nuovo rapporto col mondo cattolico un significato meramente politicistico75. È quest’ultima la scelta che il gruppo
dirigente del Pci fece. L’obiettivo “rivoluzionario”, teso alla costruzione
di una società nuova e di una nuova economia, basata sul superamento
74 Berlinguer commentò il colpo di stato del generale Pinochet in un saggio, pubblicato sulla
rivista settimanale del Pci, «Rinascita», il 28 set., il 5 e il 12 ott. 1973. È pubblicato anche in
eddyburg, nella cartella «Enrico Berlinguer».
75 G. Chiarante, Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico
(1958-1975), Roma, Carocci, 2007, p. 184.
86
la fase gloriosa della sinistra
dell’alienazione del lavoro, venne abbandonato a favore di una pratica
“riformistica”, nella quale le riforme cessavano di essere passi graduali
verso l’obiettivo finendo per essere fine a se stesse, e soprattutto correzioni parziali dei danni provocati dal sistema capitalistico-borghese,
finalizzate quindi alla sua sopravvivenza.
2. Le elezioni del 1975-76
Da molti anni, spostamenti infinitesimali di voti da un partito all’altro
caratterizzavano le elezioni italiane. Le elezioni amministrative del 15
giugno 1975 (cui fece seguito, l’anno successivo, una nuova tornata elettorale) mutarono drasticamente il quadro. Un vento di rinnovamento e
di speranza era scaturito dalle vicende degli anni precedenti. In quelle
elezioni (le prime nelle quali votarono anche i diciottenni) l’affluenza
elettorale fu la più alta: raggiunse il 92,8%, mentre l’insieme delle schede
bianche, nulle e delle astensioni toccò il minimo storico, il 10,9 %.
Sul risultato elettorale influì certamente un evento che commosse
strati vastissimi della popolazione: la sconfitta Usa a Saigon. La potenza
militare più grande del mondo dovette arrendersi ai nord vietnamiti;
la feroce guerra contro il regime socialista nel Vietnam, ingaggiata nel
1965 dagli Usa (successori della Francia, antica potenza colonialista),
aveva visto il gigante industriale sconfitto da un popolo di contadini,
sostenuto dall’Urss e da una vasta solidarietà internazionale.
Un movimento contro la guerra in Vietnam si era via via costituito
in tutto il mondo, a partire proprio dagli Usa: nell’ottobre 1965 l’organizzazione studentesca statunitense «Comitato di coordinamento nazionale per la fine della guerra in Vietnam» inscenò la prima manifestazione pubblica negli Usa. Il movimento divampò poi nei campus universitari e nelle città. La protesta contro la guerra in Vietnam fu la miccia
che innescò quel Sessantotto che sarebbe esploso in tutto il mondo.
In Italia migliaia di manifestazioni chiedevano nei loro slogan la fine
della guerra in Vietnam. Documenti contro la guerra in Vietnam venivano approvati in tutti i consigli comunali e provinciali dove le sinistre
erano maggioranza, oppure trovavano il consenso della Dc. Accordi
con gli avversari politici nei consigli comunali per ottenere l’approvazione all’unanimità di documenti per la pace in Vietnam erano stati a volte
il prezzo che il Pci aveva pagato per cedere su qualche altro terreno.
Il dato elettorale più significativo delle elezioni amministrative fu la
crescita del Pci, che passò dal 27,9 % delle precedenti elezioni regionali
al 33,4 %, guadagnando 5,5 punti in percentuale, mentre anche il Psi
87
capitolo settimo
cresceva dell’1,6 % e la Dc perdeva il 2,5 %. Giunte regionali di sinistra
si formarono, oltre che in Emilia Romagna, Liguria e Umbria, tradizionalmente “rosse”, anche in Piemonte e nel Lazio. Giunte comunali di
sinistra si costituirono in tutte le maggiori città (Milano, Torino, Genova, Venezia, Napoli, Perugia, Cagliari, Ancona, l’anno successivo Roma),
e in moltissime altre città. Le sinistre conquistarono il 45 % delle province. Inoltre, il clima tra Pci e Dc era mutato, e in molti consigli i due
partiti assumevano un atteggiamento benevolo nei confronti di maggioranze cui non partecipavano.
La vittoria della sinistra in Italia ebbe grande risonanza anche
all’estero. Anch’io ne fui coinvolto: ero appena stato eletto assessore
all’urbanistica a Venezia, quando la segreteria nazionale del partito mi
inviò a Londra su invito del partito comunista dell’Uk, per illustrare la
nuova situazione in Italia. A me fu chiesto di raccontare agli studenti
della Communist University of London che cosa era successo in Italia nelle
amministrazioni locali. Partecipai al “rito” della fotografia con i massimi
dirigenti del partito nella loro sede; fui portato a pranzo in un ristorante,
naturalmente italiano; tenni l’intervento nella sede del potente sindacato
degli studenti. Ogni anno gli studenti di sinistra vi organizzavano una
sorta di scuola estiva. Erano molto simpatici e svegli: più vicini ai nostri comunisti di sinistra che ai loro compagni dell’establishment, vecchi
operai stalinisti. Cenammo in un simpatico ristorante cinese a Soho;
la mattina dopo, prima della partenza, mi condussero alla tomba di Karl
Marx, all’Highgate Cemetery.
3. Venezia rossa
Tra le città conquistate c’era Venezia. La città lagunare era stata spesso
anticipatrice di processi politici e amministrativi di carattere più generale. Era stata la prima in Italia a introdurre il decentramento amministrativo e la formazione dei consigli di quartiere (1964); più tardi, era stata
la prima a costituire una maggioranza di centro-sinistra (1970).
La conquista, nel 1975, della maggioranza degli elettori da parte di
una coalizione di sinistra era stata preceduta da un avvenimento nel cui
ambito era maturata la formazione della nuova alleanza. In qualche modo vi fui coinvolto. Nel 1974, la maggioranza nel consiglio comunale era
formata da Dc, Psi e Pri. I socialisti, seguendo la tendenza che si stava
manifestando in tutta Italia, avevano deciso di cambiare schieramento,
e si erano alleati con il Pci. Per costruire un accordo di sinistra essi
posero la condizione che il nuovo alleato condividesse uno strumento
88
la fase gloriosa della sinistra
urbanistico al quale assegnavano grande importanza, e i diversi aspetti
dell’applicazione della “legge speciale” per Venezia.
Il nodo era costituito da un complicato intreccio tra la legge speciale76, emanata nel 1973 per sanare i danni della città e del suo territorio
emersi clamorosamente dopo l’alluvione del 1966, e gli strumenti di
pianificazione in via di predisposizione. La legge subordinava l’erogazione delle provvidenze e dei meccanismi da essa previsti all’esistenza,
nella città, di piani particolareggiati77, naturalmente estesi all’intera città
storica. Il Comune aveva in avanzata fase di completamento una serie
di piani che si chiamavano formalmente “particolareggiati”, ma che tali
non erano. Ciò era possibile grazie alla sopravvivenza, a Venezia, delle
norme di una vecchia legge, emanata per accelerare la ricostruzione
dopo la guerra, che consentiva che fosse chiamato “piano particolareggiato” uno strumento urbanistico avente un contenuto molto meno
dettagliato di quello previsto dal piano particolareggiato ordinario.
C’era quindi una contraddizione tra l’esigenza di garantire l’immediata entrata in vigore della legge speciale, che avrebbe consentito
di interrompere il degrado fisico e sociale della città e del territorio
lagunare, e quella di assicurare che gli interventi non fossero distruttivi
delle caratteristiche architettoniche e urbanistiche della città storica. La
prima esigenza era prevalente nelle valutazioni degli amministratori
locali (con l’eccezione di quelli del Pri, che a Venezia hanno sempre
assunto un atteggiamento di rigorosa difesa delle qualità storiche e ambientali), mentre la seconda prevaleva nei rappresentanti delle istituzioni
statali, che esercitavano su Venezia un’attenta vigilanza.
76 Legge 16 apr. 1973, n. 171, «Interventi per la salvaguardia di Venezia». La legge prevedeva
sia finanziamenti (per l’edilizia monumentale e per quella minore, per le residenze temporanee
per le famiglie la cui unità edilizia era in corso di restauro, per il riequilibrio della Laguna e
la riduzione delle “acque alte”, per le attività produttive), sia un sistema di regole (indirizzi) e
strumenti innovativi; tra gli altri, la formazione di un “piano comprensoriale” di tutto il territorio nel quale ricadevano il bacino lagunare e i centri urbani aventi gravitazioni quotidiane con
Venezia, una speciale struttura tecnico imprenditoriale per le attività di restauro (Edilvenezia),
una commissione di salvaguardia per vigilare sulla qualità degli interventi e la loro coerenza
con gli indirizzi stabiliti dal parlamento. Tutte queste strutture erano governate da complessi
sistemi di equilibrio tra i diversi poteri istituzionali concorrenti: lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune di Venezia e i “comuni minori”. Tra gli interventi, la legge prescriveva la
cessazione degli emungimenti di acqua dal sottosuolo (che era uno dei fenomeni che avevano
provocato l’eccezionale “acqua alta” del 1966) e quella dei traffici petroliferi (causa dell’aumento della sezione dei canali di accesso alla Laguna e fonte di potenziali gravissimi rischi.
L’emungimento di acqua fu bloccato, il traffico petrolifero continua ancora oggi.
77 Dal 1968 era prescritto che gli interventi nei centri storici fossero subordinati alla formazione di strumenti di pianificazione aventi un dettaglio sufficiente a evitare manomissioni
dell’impianto urbano e dell’edilizia storici.
89
capitolo settimo
Da qualche tempo frequentavo Venezia, poiché Giovanni Astengo,
fondatore del corso di laurea in urbanistica, mi aveva assegnato un incarico d’insegnamento universitario. Conobbi colleghi, iscritti al Pci, che
mi coinvolsero nelle discussioni e nella ricerca di una soluzione soddisfacente. La trovammo: introducemmo un ulteriore livello di pianificazione, a sua volta attuativo di quegli anomali “piani particolareggiati”
che stavamo per adottare, emendando le norme. Li definimmo “piani di
coordinamento”: essi avevano con gli anomali “piani particolareggiati”
veneziani lo stesso rapporto che i normali piani particolareggiati avevano con il normale piano regolatore generale. Essi avrebbero fornito le
garanzie tecniche adeguate a un intervento su tessuti urbani così delicati
e ricchi di qualità.
I partiti della vecchia e della nuova alleanza (Dc, Psi e Pci) condivisero quella soluzione e concordarono altre modifiche ai piani che i comunisti richiedevano, come la destinazione di tutti gli edifici inutilizzati
alla costituzione di “case parcheggio” per gli abitanti che avrebbero dovuto abbandonare le loro case nel corso delle operazioni di risanamento
degli edifici degradati. I piani particolareggiati furono adottati dal consiglio comunale alla vigilia delle elezioni.
4. Venezia e il degrado
Prima di questi eventi, nell’estate del 1973 si era svolto a Venezia un
avvenimento memorabile, che mi fece innamorare della città: il festival
nazionale dell’Unità. La scelta di Venezia era stata motivata dall’esigenza di affrontare il problema sociale, culturale e politico della condizione
dei centri storici in Italia: nella città lagunare il contrasto tra qualità del
centro storico e degrado urbano era particolarmente accentuato.
Venezia era da tempo una città in pessime condizioni dal punto di
vista sociale e del patrimonio edilizio. Non era un problema recente.
Già alla fine dell’Ottocento, nei periodi in cui la città era stata governata
da forze laiche e progressiste, era stata studiata la condizione dell’habitat e si erano discussi, e in parte attuati, provvedimenti amministrativi. Agli inizi del Novecento un’indagine sanitaria aveva rivelato una
situazione drammatica, «percentuali ingenti della popolazione abitano,
pagando alti fitti, in alloggi inabitabili, antigienici, in condizioni di
sovraffollamento»78. Il problema era stato affrontato con la costruzione
78
Negli anni 1908-09 il dottor Raffaele Vivante, ufficiale sanitario del Comune, svolse
90
la fase gloriosa della sinistra
di numerosi alloggi di edilizia pubblica e la costituzione dell’Istituto delle case popolari. Non fu sufficiente a risolverlo. Nel 1931, una successiva indagine censì la presenza di 131.000 abitanti veneziani in poco più
di 28.000 alloggi, di cui il 12% era al piano terra spesso invaso dall’acqua
alta; 50.000 persone vivevano in condizioni di sovraffollamento.
Nel dopoguerra risiedevano a Venezia: 178.000 abitanti nella città
storica, 38.000 nelle altre isole della Laguna, 83.000 in Terraferma. L’affollamento e le condizioni igieniche erano peggiorate rispetto ai primi
anni del secolo. Si osservi che «la potenzialità abitativa della città storica,
a un livello accettabile di standard residenziale (e trascurando le dinamiche modificative di tali valutazioni), è vicina alla cifra di circa 100.000
unità»79. Nel 1955 risiedono nella città storica 167.000 abitanti, 11.000
meno del decennio precedente. Dieci anni dopo sono ridotti di ulteriori
43.000. Nel 1975 gli abitanti sono 104.000: 74.000 meno dell’immediato
dopoguerra.
Se peraltro i fattori oggettivi della fuoriuscita di abitanti
dalla città storica vanno individuati nelle condizioni di sovraffollamento e di coabitazione e nel livello accentuato e diffuso
di degrado del patrimonio edilizio presenti – anche se in misure
decrescenti – per tutto l’arco degli anni ’50 e ’60, i modi concreti
in cui tale fuoriuscita si è realizzata sono stati condizionati dalle
pressioni del mercato immobiliare e dalle politiche poste in essere dalle forze dominanti a livello centrale e locale.
L’esodo aveva interessato soprattutto i nuclei familiari di età e reddito medi, in grado di accedere all’offerta di abitazioni, prevalentemente
nuove e in affitto, in Terraferma, ma non di acquistare e riqualificare
abitazioni della città storica. I flussi in uscita sono stati maggiori da
quanto appaia dal semplice saldo: si calcola infatti che, dal 1952 al 1972,
sono usciti 130.000 abitanti e ne sono entrati 70.000. All’esodo aveva
quindi corrisposto un sensibile mutamento della composizione della
popolazione.
L’alluvione del 1966 aveva messo allo scoperto i problemi della città.
Quelli della Laguna in primo luogo. Era esplosa la denuncia delle condizioni di degrado, inquinamento, abbandono dell’accorta gestione delle
regole della natura e dell’idraulica sistematicamente applicate dalla Repubblica Serenissima, e del tutto abbandonate e contraddette dall’anno
un’Indagine sul problema delle abitazioni a Venezia. Vedi L. Scano, Venezia: terra e acqua, Venezia,
Corte del Fontego, 2009, p. 43.
79 Questa e la citazione seguente in Scano, Venezia: terra e acqua, p. 64.
91
capitolo settimo
della sua caduta (1797), e soprattutto negli anni della costituzione dello
Stato unitario e dello sviluppo del sistema capitalistico-borghese80. Ma
nell’ottica delle forze di sinistra, compreso il Pci, la Laguna e, in generale, l’ambiente, non occupavano un posto di rilevo. I problemi più sentiti
erano quelli immediati delle condizioni di vita degli abitanti, del lavoro
e dell’occupazione, della condizione operaia. Soprattutto in vista di questi temi fu promosso il festival. Affrontarli nell’ambito di un’iniziativa
fortemente caratterizzata da attività culturali significava dare maggiore
evidenza alle proposte del Pci sulla questione dei centri storici, e in particolare su Venezia.
5. Il festival nazionale dell’Unità
Su richiesta della federazione di Venezia la direzione del Pci decise di
realizzare a Venezia il festival nazionale dell’Unità. Normalmente questa
manifestazione si svolgeva in un luogo aperto della periferia di una città
(un parco o uno stadio o un piazzale) che veniva trasformato e invaso
dalle mille strutture destinate a ospitare incontri, conferenze, dibattiti,
ristoranti d’ogni tipo. Tutto realizzato con il lavoro volontario dei comunisti e delle loro famiglie e delle organizzazioni del partito. Decine di
migliaia di persone accorrevano, partecipavano ai dibattiti, mangiavano
e bevevano, imparavano e si divertivano. Il giornale dei comunisti integrava così il suo bilancio.
Gli organizzatori della festa a Venezia fecero una scommessa. Rompendo radicalmente con la tradizione, decisero di utilizzare gli spazi
aperti del centro storico, i campi, e di coinvolgere tutta la città nell’evento. I compagni veneziani, con l’aiuto della direzione nazionale e di alcune federazioni di altre città, organizzarono un evento irripetibile.
Ognuna delle sezioni della città aveva la responsabilità di una delle
sei parti in cui era stata articolata la città per l’occasione. In ciascuna si
individuarono alcuni campi dove sistemare i diversi spazi per i dibattiti,
le rappresentazioni teatrali, i concerti e le danze, i ristoranti, i servizi
igienici e gli altri servizi. Un gruppo di architetti veneziani si occupò
dell’organizzazione e della logistica e progettò un modello di padiglione modulare, smontabile in brevissimo tempo. Altri progettarono
80 Anche per questo aspetto si veda il citato libro di Scano, nonché, per gli eventi più recenti,
il volume di F. Mancuso, Venezia è una città. Come è stata costruita e come vive, Venezia, Corte del
Fontego, 2009.
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la fase gloriosa della sinistra
le cucine, ingegnosamente realizzando l’attrezzatura con elementi poveri facilmente reperibili. Il rosso, l’azzurro e il giallo furono i colori che
caratterizzarono i padiglioni, montati in una ventina di campi in poche
ore. Venezia era completamente trasformata.
Il clou culturale della festa fu una serie di rappresentazioni del Berliner Ensemble, la prestigiosa compagnia teatrale fondata da Bertold Brecht,
che per tre giorni replicò in campo dell’Angelo Raffaele, tra gli applausi
di migliaia di partecipanti. Il massimo della partecipazione fu raggiunto
l’ultimo giorno, per il comizio di Enrico Berlinguer cui affluirono, secondo «l’Unità» del giorno dopo, 200.000 persone. Un popolo quantitativamente paragonabile a quello richiamato dai Pink Floyd in Piazza San
Marco nel 1989, che devastò la città. La differenza fu nell’aver scelto,
per il comizio, il più vasto spazio aperto veneziano, il parco di Sant’Elena, alla periferia orientale della città, e nell’aver organizzato, per tutta la
durata della festa, e in particolare durante l’ultimo giorno, un’efficiente
servizio di trasporti, motonavi, vaporetti e altre imbarcazioni.
6. Dieci anni nel bunker
Gianni Pellicani era l’intelligente e abile dirigente del Pci veneziano.
Consigliere comunale, aveva seguito l’iter della legge speciale, aveva
tessuto con maestria l’intesa con Dc e Psi per i piani particolareggiati
ed era destinato a diventare il leader della nuova giunta se nelle elezioni
del 1975 le sinistre avessero ottenuto la maggioranza. Il mio contributo
alla soluzione dell’intricata vicenda dei piani particolareggiati lo indusse
a chiedere di presentarmi alle elezioni con la prospettiva di diventare
assessore all’urbanistica. Accettai. Nella mia decisione giocò anche una
punta di vigliaccheria: temevo di dover diventare assessore a Roma se
le sinistre avessero anche lì vinto le elezioni (che si sarebbero tenute
l’anno successivo), e mi sentivo inadeguato a gestire una situazione così
complessa come quella della capitale. Mi trasferii a Venezia, dove mi
illudevo di trovare una situazione più semplice. A posteriori devo dire
che conoscevo poco quella realtà.
Vincemmo le elezioni. Entrai in giunta. Pellicani non divenne sindaco, poiché l’attribuzione delle varie città conquistate all’uno o all’altro
dei due partiti alleati si giocò a Roma, tra le direzioni. Sindaco di Venezia fu designato il socialista Mario Rigo, Gianni Pellicani fu vicesindaco.
Nei fatti, grazie alle sue capacità, alla squadra di collaboratori che aveva
formato, e anche alla buona collaborazione con Mario Rigo, il governo
reale della giunta lo esercitò lui. Più che col sindaco, l’intesa doveva
93
capitolo settimo
essere raggiunta con il leader indiscusso e potentissimo dei socialisti
veneziani, Gianni De Michelis. L’esperienza di quella maggioranza durò
per due legislature: dal 1975 al 1985. Dieci anni nei quali rimasi chiuso
nel “bunker” dell’assessorato, con qualche fuga, anche consistente, nella
politica urbanistica della direzione del Pci e nelle attività dell’Inu.
Parlo di “bunker” perché vivevo di fatto tutto il giorno dentro l’assessorato, dove mi ero attrezzato anche per fare la siesta dopo pranzo,
e perché avevo pochissimi rapporti con l’esterno, prevalentemente mediati da Gianni Pellicani, sia con il partito, sia con gli alleati. Non uscii
neppure per raggiungere Cristina in ospedale quando nacque Giulia, la
mia sesta figlia.
Era una condizione in gran parte obbligata. A quei tempi gli assessori erano, di fatto, anche dirigenti dell’ufficio loro affidato. Il mio era
molto grande e composito, formatosi in seguito a varie stratificazioni. Il
personale era eterogeneo, diverso per formazione culturale, capacità di
lavoro, motivazioni. La dirigenza non era all’altezza delle nostre aspettative. Queste, peraltro, erano abbastanza confuse. Il programma di legislatura che mi ero impegnato a seguire fedelmente (così si usava allora)
si rivelò molto difficilmente praticabile. Il suo centro era l’attuazione
dei “piani particolareggiati” atipici adottati all’inizio del 1975. Si trattava,
in primo luogo, di compiere il percorso dall’adozione all’approvazione,
quindi di esaminare le centinaia di osservazioni presentate e controdedurre a ciascuna (decidere cioè in che modo se ne sarebbe tenuto conto,
modificando o meno i piani adottati).
Nel compiere questa prima parte del lavoro un ruolo importante lo
svolse la commissione consiliare, che si riuniva un paio di volte alla settimana e con cui esaminavamo attentamente le osservazioni, cercando,
attraverso di esse, di introdurre nel piano le correzioni possibili. Molto
efficace fu la collaborazione di Gigi Scano e del presidente della commissione, il democristiano Gianni Rivi. Con entrambi si raggiungevano
(in quelle e in molte altre occasioni) ragionevoli soluzioni concordate.
Solo che poi, alla resa dei conti, cioè al momento del voto in consiglio
comunale, Gigi generalmente votava a favore delle soluzioni cui eravamo approdati, mentre Rivi votava contro, facendomi canzonare da Pellicani, al quale avevo preannunciato il voto favorevole dell’opposizione.
La tappa successiva fu la formazione dei “piani di coordinamento”,
cioè i veri piani di dettaglio. Si trattava, come ho accennato, di piani non
previsti dalla legislazione vigente, che furono introdotti dalle norme dei
piani particolareggiati adottati. Parallelamente, si doveva completare
la pianificazione delle aree non coperte da quei piani (gli insediamenti
lagunari di Murano, Burano, Lido, Pellestrina, Sant’Erasmo). Infine, bi-
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la fase gloriosa della sinistra
sognava attuare i piani predisposti per la terraferma mestrina, in attesa
che il piano comprensoriale dell’intera area gravitante sulla Laguna, prescritto dalla legge speciale del 1971, venisse formato.
Ha descritto gli eventi di quella fase, con un’impostazione giustamente critica, Gigi Scano, nel suo prezioso Venezia: terra e acqua. Luigi
Scano, per gli amici Gigi, seguì sempre con grandissima attenzione e
partecipazione tutte le vicende dell’urbanistica veneziana, dall’alluvione
del 1966 fino al 2007, anno della sua morte prematura. La sua amicizia
è certamente uno dei beni più preziosi che ho ricevuto nel periodo veneziano della mia vita.
Senza il contributo di Gigi e di Edgarda Feletti (uno degli architetti
dell’assessorato, eccezionale per intelligenza, cultura, determinazione,
nel tempo divenuta dirigente del settore “centro storico”) centrare la
strategia per affrontare le questioni urbanistiche veneziane avrebbe
comportato tempi ben più lunghi di quelli occorsi.
Solo verso la fine del primo mandato amministrativo cominciai a
comprendere l’impraticabilità del farraginoso meccanismo della pianificazione veneziana. Lo raccontai in un lungo articolo sulla rivista
«Casabella» con il titolo significativo Produzione di piani a mezzo di piani81.
Nel secondo mandato imboccammo la strada giusta e avviammo la
pianificazione della città storica in modo culturalmente soddisfacente,
anche sulla base di alcune esperienze fatte nel primo quinquennio. Ma
politicamente il secondo fu un disastro: a partire dal 1980 si avviò quella svolta radicale della politica italiana, che vide prima in Bettino Craxi,
poi in Silvio Berlusconi i suoi protagonisti.
7. Verso un nuovo piano regolatore
Imparai che cos’è l’analisi tipologica dell’edilizia storica. Molto mi insegnò
Edgarda, che mi indusse a leggere testi di studiosi che avevo snobbato,
come Saverio Muratori, Paolo Maretto, e soprattutto Gianfranco Caniggia. Scoprii che Gigi, pur essendosi nutrito di studi giuridici e politologici, li conosceva bene e scoprii che molti applicavano il loro metodo in
modo superficiale.
L’analisi tipologica parte dal presupposto che l’edilizia, prima dell’irruzione del cemento armato e della rottura con le tradizioni costruttive
del passato, non era costituita da edifici (unità edilizie) progettati e costruiti
81
E. Salzano, Produzione di piani a mezzo di piani, «Casabella», 436 (1978).
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a capriccio. Esistevano in ogni area geografica e culturale un numero limitato di modelli (tipi edilizi), le cui caratteristiche erano la combinazione
delle esigenze umane (abitare, lavorare, conservare, celebrare ecc.) con le
tipologie e le tecnologie dei materiali adoperati e delle loro caratteristiche,
con i modi dell’approvvigionamento, con la natura e stabilità dei terreni,
con le regole (fossero o meno disegnate su mappe o scritte in codici, o
semplicemente tramandate dall’uso) che definivano il rapporto delle costruzioni con il contesto (gli spazi liberi, le strade, i lotti vicini, ecc.).
Ogni tipo edilizio era definito da specifici elementi urbanistici (il rapporto con il lotto e gli altri spazi, le modalità di aggregazione delle unità
edilizie ecc.), strutturali (le murature portanti, i solai, i collegamenti verticali, le coperture, le modalità di accrescimento ecc.), funzionali (gli usi cui
erano originariamente adibiti i diversi spazi e le loro relazioni).
L’obiettivo culturale che si voleva raggiungere con il risanamento
della città storica (e in generale con l’intervento sull’edilizia storica) era
quello di conservare le caratteristiche urbanistiche e strutturali originarie, e assicurare che le nuove funzioni assegnate a ciascun tipo, pur
necessariamente diverse da quelle originarie, avessero con esse coerenza
e non fossero tali da richiedere modifiche della sua struttura. Poiché le
utilizzazioni compatibili con ogni tipo edilizio assegnate dal piano non
erano univocamente determinate, ma offrivano una gamma di alternative, restava un’ampia possibilità di calibrare le destinazioni d’uso in relazione alle scelte politiche e sociali82.
Edgarda iniziò a sperimentare l’analisi tipologica dell’edilizia storica
veneziana, e soprattutto a guidare in questo senso piccoli gruppi di tecnici
dell’assessorato: comprendemmo che redigere i numerosi piani di coordinamento in tempi accettabili sarebbe stata un’impresa impossibile. Decidemmo allora di cambiare orientamento ai nostri programmi e di affrontare la possibilità di un piano regolatore della città storica del tutto nuovo,
basato su un’analisi tipologica a tappeto. Era ciò che, fin dall’inizio i
repubblicani di Gigi Scano avrebbero voluto. Ma nel quinquennio ’75-’80
questo era impedito dagli accordi politici che non si potevano rinnegare.
Il primo quinquennio, comunque, non era stato inutile. Era servito, “in
negativo”, a verificare l’impossibilità di attuare quei piani particolareggiati
82 Per esempio, una struttura conventuale è caratterizzata dall’associazione di alcuni grandi
spazi edificati e coperti (la chiesa, le cappelle, la mensa ecc.) e da piccoli elementi seriali tra loro
aggregati (le celle), spesso disposti attorno a spazi aperti (i chiostri). Una struttura del genere
può essere utilmente impiegata oggi per una ricettività collettiva (alberghi, foresterie ecc.), o
per un ospedale, o un museo, o per un’aggregazione di piccole strutture artigianali ecc. Nel
passato sono state spesso utilizzate come caserme o come carceri.
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la fase gloriosa della sinistra
e i meccanismi da essi previsti. Era servito anche ad avviare una serie
di iniziative di risanamento e di riqualificazione urbana, con molti interventi di recupero e alcuni qualificati interventi di completamento
urbano. Ed era servito soprattutto a sperimentare un nuovo metodo di
pianificazione.
Cogliemmo le diverse occasioni di pianificazione estese agli ambiti
limitati che i programmi comunali indicavano (specialmente i primi
sette piani di coordinamento e il piano particolareggiato di Burano) per
elaborare via via nuovi criteri. E utilizzammo i progetti edilizi che l’amministrazione redigeva o seguiva o controllava per verificare l’impatto
delle norme nel concreto degli interventi. Fu un lavoro molto faticoso e,
nel breve periodo, poco gratificante, ma molto utile, perché ci permise
di comprendere che cosa precisamente andava analizzato e come, per
poter costruire regole che consentissero agli operatori di intervenire in
modo diffuso sullo stock edilizio.
8. Il piano comprensoriale
La mia attenzione era rivolta soprattutto alla città storica: era qui
che volevamo sperimentare nuovi metodi di pianificazione, per poi
estenderli all’intero territorio comunale. Del resto, per la Terraferma
c’era una strumentazione urbanistica abbastanza aggiornata e decente
(l’ultimo atto era stata una variante del prg che aveva aumentato le aree
destinate al verde e ai servizi, adeguandole al decreto sugli standard, e
risolto alcuni problemi di viabilità) e comunque, prima di aggiornare il
prg, si aspettava l’inquadramento che il piano comprensoriale avrebbe dovuto fornire.
Quest’ultimo era un istituto decisivo previsto dalla legge speciale
del 1973. Le esigenze che erano alla base della politica locale, nazionale e internazionale per Venezia erano orientate, come ho accennato,
al raggiungimento di due obiettivi. Il primo era la salvaguardia fisica
dell’immenso patrimonio costituito dagli insediamenti storici (principale ma non unico la città di Venezia) e dalla Laguna (un ambiente
assolutamente unico al mondo, garantito nel suo equilibrio da un’azione millenaria di saggia collaborazione tra uomo e natura83). Il secondo obiettivo era la vitalità economica e sociale della città e del suo
83 Sulla Laguna di Venezia, oltre ai testi di Scano e Mancuso, vedi anche il ricco materiale
contenuto in eddyburg, nella cartella «Venezia e la laguna».
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capitolo settimo
territorio, che ruotava attorno a tre grandi questioni: la zona industriale di Porto Marghera, il più grande polo chimico italiano, che aveva
attirato gran parte dell’occupazione dall’agricoltura dei paesi del Veneto centrale e provocato gravi fenomeni di inquinamento e di degrado
idraulico nella Laguna; la portualità, che era stata l’elemento di vitalità
e di grandezza della Repubblica ed era tra le ragioni e le risorse principali della città; il turismo, che cominciava ad apparire come rischioso
per la sua invasività e per il contributo che forniva all’espulsione delle
residenze e delle attività quotidiane.
Dei due obiettivi il primo, quello della salvaguardia, stava più a cuore
a livello internazionale e nazionale, il secondo a quello locale. Al piano
comprensoriale era affidato il compito di trovare un adeguato equilibrio tra salvaguardia e vitalità. Entrambi infatti richiedevano, per essere
raggiunti, che la pianificazione si estendesse a un ambito territoriale più
ampio del solo comune capoluogo. Parte della Laguna ricade infatti nei
confini amministrativi di altri comuni; inoltre, anche le gravitazioni quotidiane degli spostamenti casa/lavoro e casa/servizi formano un bacino
che comprende un numero elevato di comuni. L’area alla quale il piano
comprensoriale si estendeva ne comprendeva in definitiva sedici.
Gianni Pellicani chiese a Vezio De Lucia, che tra l’altro aveva collaborato alla redazione della legge speciale e al documento «Indirizzi
governativi»84 cui il piano comprensoriale doveva adeguarsi, di guidare
la redazione del piano assumendo la carica di segretario generale. Vezio
accettò e così, ottenuto il consenso degli altri poteri locali coinvolti (soprattutto dei repubblicani e dei socialisti, che costituivano la maggioranza del consiglio di comprensorio) iniziò la sua avventura veneziana.
In tempi molto rapidi Vezio costituì un autorevole comitato scientifico, commissionò una serie di ricerche sugli aspetti nodali della questione, portò il piano al suo completamento. Il contenuto essenziale del
piano è ampiamente descritto nel libro di Gigi Scano, collaboratore fondamentale anche di De Lucia, sia nella stesura dell’apparato normativo
sia nella gestione del difficile percorso politico85.
Dal punto di vista dei contenuti, il piano affrontava efficacemente i
temi: la salvaguardia su gran parte della Laguna, secondo regimi di tutela differenziati; una soluzione del problema della mobilità e degli accessi
a Venezia, una ragionevole localizzazione delle nuove residenze.
84 La legge 171 del 1973 prevedeva che il piano comprensoriale fosse formato sulla base di
un documento di indirizzi redatto da una apposita commissione di rappresentanti dei ministeri
e degli enti locali. La regia era del Ministero dei lavori pubblici.
85 Scano, Venezia; terra e acqua, p. 296-319.
98
la fase gloriosa della sinistra
Il piano, iniziato alla fine del 1977 e tecnicamente completato nel
1980, non fu mai approvato. La ragione sostanziale, oltre il disaccordo tra le forze politiche sui contenuti, sta nella struttura istituzionale
dell’autorità che doveva redigerlo. Il consiglio di comprensorio era
formato infatti dai rappresentanti dei Comuni coinvolti, della Provincia
e della Regione: una composizione ibrida, in cui ciascun membro esprimeva gli interessi dell’amministrazione che rappresentava. Per di più,
alla Regione, che pur era uno dei membri istituzionali del consiglio, era
assegnato il compito di approvare il piano alla fine del suo iter.
Il piano fu adottato dal consiglio di comprensorio nel 1980. Fu pubblicato e vennero formulate osservazioni da parte degli enti pubblici: di
particolare peso quelle provenienti dal Comune di Venezia, basate su
approfondimenti soprattutto sulla questione della Laguna86. Apportate
le correzioni e integrazioni conseguenti alle osservazioni accolte, il piano era all’ordine del giorno per l’approvazione definitiva al consiglio di
comprensorio nel 1983. Ma nel frattempo erano decaduti i rappresentanti della Regione. Questa, a maggioranza democristiana, non provvide
a rinominarli e così, nel generale disinteresse, il piano fu definitivamente
insabbiato.
9. Cambiano le alleanze
I primi anni Ottanta sono quelli dell’ascesa al potere, nel Psi, di Bettino
Craxi. Le persone che, nella Storia, determinano i grandi mutamenti negli assetti del potere esprimono più efficacemente il mutato spirito dei
tempi, così come questo viene formato dall’ideologia prevalente. Craxi
fu uno di questi. Espresse la fase di una “modernizzazione” che faceva
strame dei princìpi, dei metodi, delle priorità del passato. Scrive Paul
Ginsborg:
Negli anni ’50 e ’60, attratti dalle luci splendenti del consumismo e dalla possibilità di avanzamento individuale, i ceti
medi erano diventati gli stabili fautori di un moderato e democratico status quo. È possibile suggerire che negli anni ’80 questo
86 Un contributo rilevante all’approfondimento delle scelte del piano comprensoriale fu costituito da uno studio del Comune di Venezia, «Ripristino, conservazione e uso dell’ecosistema
lagunare veneziano», che è la base delle successive valutazioni critiche al progetto MoSE e alla
gestione delle trasformazioni nella Laguna operate dal Consorzio Venezia Nuova (associazione di imprese cui il governo ha affidato gli studi, le sperimentazioni, i progetti e l’esecuzione
delle opere necessarie alla salvaguardia della Laguna).
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capitolo settimo
consenso, insediatosi dapprima tra i ceti medi, si sia generalizzato alla società intera. In altre parole, i valori tradizionali della
famiglia si sono sposati a quelli della democrazia parlamentare e
del consumismo capitalista. Questi valori, con poche eccezioni,
sono divenuti dominanti in ogni settore della società. La grande
trasformazione dell’Italia, allora, è stata quella di adattarsi al
modello di modernità che era emerso per la prima volta all’epoca del “miracolo economico”; un modello dalle forti influenze
americane, intensamente contestato tra il 1968 e il 1973, ma che
sembra aver trovato negli anni ’80 la sua età dell’oro. In una recente intervista il vicepresidente del Consiglio, il socialista Gianni De Michelis, ha parlato del 1968 come del “crepuscolo degli
dei”, dell’ultimo grande momento collettivo della storia italiana,
della fine di ogni sogno di nuova era87.
In quegli anni la politica della “solidarietà nazionale” (che potremmo definire come la fase della riduzione a tattica della strategia88 del
“compromesso storico”), basata sull’alleanza tra Dc, Psi e Pci si stava
concludendo, insieme all’emergenza del terrorismo che, almeno in parte,
l’aveva motivata. L’assassinio di Aldo Moro, il mutamento degli equilibri
interni nella Dc, la grinta con la quale Craxi proponeva il suo disegno,
tutto ciò concorreva a trasformare completamente il quadro politico
italiano. Un Pci che non rinnegava le sue matrici culturali e che, con
Enrico Berlinguer, rifiutava quella “modernizzazione”, era un ingombro
del progetto politico Dc-Psi.
Il leader del Pci era molto lontano dall’ideologia di cui il socialista era
portatore. Basta rileggere le parole di Berlinguer sul tema dell’austerità:
Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle
condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti
all’Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l’Occidente, e
soprattutto per il nostro Paese, due conseguenze fondamentali:
aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e
di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di
cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che
87 Ginsborg,
88 Il termine
Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, p. 575.
strategia è spesso adoperato in modo fortemente improprio. È un termine
che nasce dal linguaggio militare, opposto a tattica: la strategia è finalizzata al lungo periodo,
all’intera condotta della guerra, la sua missione è raggiungere il fine ultimo; la tattica è limitata
al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di
quell’evento più vasto che è il campo della strategia. La strategia ha allora a che fare in primo
luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro, ha a che fare
con la storia, non con la cronaca.
100
la fase gloriosa della sinistra
sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella
artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di
sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse,
di dissesto finanziario89.
Il nesso tra le politiche globali e la critica del modello di sviluppo
del capitalismo nella sua fase attuale era chiarissimo: altrettanto chiara
era la necessità di respingerlo da parte di chi, come Craxi, voleva invece
galoppare in sella al capitalismo esistente e vedeva il Sud del mondo
come un insieme di potenziali mercati cui imporre le proprie mercanzie
materiali e ideologiche.
L’ampiezza della distanza tra i due personaggi si comprese pienamente nell’intervista sulla “questione morale” che Berlinguer rilasciò a
Eugenio Scalfari:
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a
partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di
previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali,
gli ospedali, le università, la Rai tv, alcuni grandi giornali. (…)
E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse
istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito
o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi
e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene
data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata,
un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari
fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche
quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti90.
Craxi vinse. Consolidò la sua alleanza con la Dc e tolse credibilità
alle ipotesi di governi di sinistra. Il Pci oscillò tra proposte politiche
contraddittorie, e, al suo interno, si indebolì la linea di Berlinguer; la
sua rivendicazione di moralità nella politica condusse molti, nel suo
stesso partito, ad accusarlo di moralismo. Tutto questo avvenne in Italia,
nel corso degli anni Ottanta. A Venezia ne avevamo visto i segni fin
dall’inizio dell’alleanza con il Psi. Il merito (se tale vogliamo chiamarlo)
fu di Gianni De Michelis, divenuto, da giovane esponente della sinistra
arrabbiata del Psi, uno dei più attivi luogotenenti di Bettino Craxi.
89 Dal discorso di Enrico Berlinguer al Teatro Eliseo di Roma, 1977, in eddyburg, cartella
«L’austerità come leva di sviluppo».
90 E. Scalfari, I partiti sono diventati macchine di potere, intervista a Enrico Berlinguer,
«la Repubblica», 28 lug. 1981. Anche in eddyburg.
101
capitolo settimo
Uomo di grande intelligenza e di grande prepotenza, vero padre padrone della sua compagine veneziana, velocissimo lettore di qualunque
tipo di testo, conoscitore profondo della situazione economica, sociale,
culturale, politica e urbanistica della sua città, De Michelis esercitava
una larga egemonia che andava al di là del suo stesso partito. Alcune
delle intuizioni più felici sull’assetto del territorio veneziano hanno la
sua firma, come il sistema di accesso alla città storica via acqua a partire
dai terminal in Terraferma (1971), e gran parte dell’impostazione della
politica di risanamento della città storica, che avevo trovato, giungendo
a Venezia, nel 1975. Ma anche alcune delle pratiche più devastanti, come la preferenza per le “grandi opere” rispetto alla ordinaria amministrazione, la tendenza alla mercificazione della città, la promozione del
sistema tangentizio, di cui giustificava l’esistenza in nome dell’autonomia della politica e del ruolo d’interesse generale che essa (e soprattutto
quella del suo partito) esercitava.
Non ebbi mai prove o testimonianze sulle tangenti percepite da
esponenti socialisti, tali da poterle portare alla magistratura, ma è certo
che a Venezia l’uso di quella prassi era voce corrente in tutti gli ambienti.
Pellicani, suo alleato e antagonista, raccontava spesso un suo colloquio
con De Michelis. Quest’ultimo si lamentava, - Ma possibile che tutti
se la prendano con noi, e voi, nessuno vi accusa di prendere i soldi?
- È vero, rispose Pellicani, ma vedi, se a Venezia qualcuno racconta “ho
visto De Michelis che prendeva un assegno da un americano cui aveva
venduto Palazzo ducale”, la gente dice “A che punto sono arrivati questi socialisti!”. Se invece qualcuno giura di aver visto Titta Gianquinto
(ex sindaco comunista di Venezia, amatissimo dai veneziani) uscire dal
Casinò con una mazzetta di bigliettoni in bocca la gente dice “Ma guarda il povero Titta, hanno tentato di soffocarlo!”.
Tangenti o non tangenti, la pressione dei socialisti nella gestione
dell’urbanistica era volta a realizzare al più presto grandi opere e interventi cui tenevano molto. In ognuna delle frequentissime riunioni di verifica (convocate nel tardo pomeriggio, iniziavano la sera e proseguivano
spesso fino al mattino) sapevamo che ci avrebbero chiesto ragione di un
elenco così formulato: Area Saffa, Area Trevisan, Stucky, Tronchetto; si
trattava degli interventi più rilevanti, ristrutturazioni urbanistiche o nuove edificazioni. La nostra preoccupazione era realizzare gli interventi
previsti nel modo più corretto possibile, da ogni punto di vista, correggendo ciò che non ci sembrava coerente con la strategia che avevamo
definito; la cosa ci riusciva particolarmente difficile quando dovevamo
contrattare l’attuazione con la proprietà, come nel caso dello Stucky e
dell’isola di Tronchetto. In particolare, poi, la mia preoccupazione era
102
la fase gloriosa della sinistra
di costituire un quadro di conoscenze e di decisioni che garantisse che
ogni singola scelta fosse il tassello di un mosaico finalizzato ad assicurare i risultati culturali e sociali che ci eravamo proposti. Riuscimmo ad
anticipare l’applicazione dei princìpi della pianificazione della città storica che avevamo cominciato a costruire, ma il nuovo piano fu approvato
solo anni dopo.
10. La politica della casa
All’inizio degli anni Sessanta, la questione della residenza era gravissima.
Degrado, esodo, assenza di case offerte in affitto a prezzi ragionevoli,
pressione del turismo. Centinaia di famiglie abitavano nei piani terra
sistematicamente allagati dalle acque alte. Il sovraffollamento dei decenni precedenti aveva indotto ad abitare locali originariamente adibiti a
magazzini. I pozzi artesiani scavati per alimentare le industrie di Porto
Marghera avevano ridotto notevolmente la falda acquifera sottostante
agli strati di argilla compressa (il caranto) su cui poggia la città, determinando un abbassamento del suolo.
Il problema della casa era diventato drammatico. Me ne accorsi
pienamente quando, nel 1979, si manifestò un’acqua alta eccezionale:
raggiunse l’altezza di 166 cm sul medio mare, di poco inferiore ai 194
cm raggiunti nell’anno terribile 196691. A partire da quell’evento, la sala
del consiglio comunale fu continuamente assediata da molte decine di
persone che protestavano per le loro condizioni. Per un breve periodo
(mi sembrò lunghissimo, ma furono solo sei mesi) fui l’assessore incaricato del problema. Grazie soprattutto all’abilità e all’impegno di Gianni
Pellicani, in pochissimi anni riuscimmo a risolvere il problema, e a sistemare in alloggi al riparo dall’acqua alta tutte le famiglie che ne avevano
bisogno. Impresa che divenne tanto più difficile quando si aggiunse la
necessità di trovare alloggio alle famiglie colpite dagli sfratti.
Seguimmo tutte le strade possibili, cominciando dalle case sfitte
e da quelle destinate a case parcheggio dal piano. Intervenimmo con
l’esproprio, ma prevalentemente con l’acquisizione bonaria, assumendo
l’indennità d’esproprio come valore di riferimento. Naturalmente ricorremmo anche (ma la cosa richiese complesse trattative) alla disponibilità
91 È utile ricordare che l’altezza delle acque alte è riferita al livello medio del mare. Il punto
più basso di Venezia, Piazza San Marco, è di circa +60 cm. Il livello di riferimento per le pavimentazioni stradali che assumemmo nel nuovo piano del centro storico, e nelle anticipazioni,
fu di +130 cm.
103
capitolo settimo
del patrimonio dello Iacp e degli istituti di assistenza pubblici, che a
Venezia avevano beni consistenti. E avviammo anche programmi di edificazione di case nuove, nelle aree a ciò destinate dai piani vigenti.
Erano gli anni in cui, in tutta Italia, la cultura urbanistica aveva maturato la convinzione che la fortissima produzione edilizia che aveva contrassegnato i decenni precedenti dovesse finire. La fase dell’espansione
delle città era terminata, e si doveva affrontare con energia il tema del
recupero del patrimonio edilizio esistente. Del resto, la giustificazione
sociale della necessità della costruzione di nuove abitazioni era diventata
un alibi: più case si costruiscono, più ne sono necessarie, dimostravano
tutte le statistiche disponibili. Si era costituito un enorme patrimonio
abitativo che non era disponibile né nei luoghi in cui serviva né per i
ceti che ne avevano bisogno, mentre esisteva un gigantesco patrimonio
sottoutilizzato e degradato.
Ciò era vero soprattutto nei centri storici e nei quartieri più antichi
delle città. Era lì che si doveva intervenire prioritariamente. Questa tesi,
assunta a livello nazionale dai partiti di sinistra, era particolarmente sentita a Venezia dall’intero schieramento politico. Oltretutto, si temeva che
investire nella nuova edificazione avrebbe distratto risorse e impegno al
risanamento dell’edilizia storica, che era assolutamente prioritario.
La necessità di una forte regia pubblica nella politica della casa era
stata provocata da un particolare episodio. Una grande società immobiliare romana, la Beni Stabili, aveva realizzato un cospicuo intervento
edilizio alla Giudecca. Ne era nato un quartiere di lusso, completamente
recintato, contro il quale si era levato il fiero malcontento dei giudecchini e dei veneziani in generale. Da allora si era deciso, con un accordo
unanime, dai comunisti fino ai liberali di destra, che ogni nuova costruzione residenziale sarebbe stata destinata ai cittadini veneziani con
rigorosi vincoli di permanenza. Questo accordo rimase attivo fino alla
fine del secolo scorso, e fu violato nella pratica dalle giunte successive, a
partire dalla prima giunta Cacciari.
Tra la fine degli anni Settanta e il quinquennio successivo, con i
finanziamenti della legge speciale del 1973 e con quelli forniti da alcune leggi nazionali, si progettarono e realizzarono nuovi complessi di
edilizia residenziale, i principali nell’area degli ex cantieri Trevisan alla
Giudecca e nell’area abbandonata da una fabbrica di fiammiferi (la Saffa) a Cannaregio. Questi programmi si affiancavano ad alcuni rilevanti
interventi di riconversione funzionale e utilizzazione per la residenza
di alcuni complessi edilizi industriali (come la ex birreria Dreher e gli
ex magazzini della Repubblica alla Giudecca) e a un vasto programma
di risanamento e restauro dell’edilizia residenziale storica. L’insieme di
104
la fase gloriosa della sinistra
questi interventi permise di risolvere nel giro di pochi anni due emergenze, determinate dagli sfratti per finita locazione e dal fatto che molti
veneziani vivevano ancora nei piani terra, soggetti ad allagamento.
Due grandi questioni rimasero aperte: l’avvio di una iniziativa per offrire edilizia a canoni ragionevoli alle famiglie che non disponevano dei
requisiti necessari per concorrere all’assegnazione di edilizia pubblica, e
l’utilizzazione del grande complesso degli ex Mulini Stucky.
Per lo Stucky le destinazioni previste dai piani rendevano necessaria
un’iniziativa concordata con la proprietà. Si prevedeva – tenendo conto
anche delle caratteristiche strutturali degli edifici – la realizzazione di
un centro congressi, di un albergo, di un luogo ove sistemare i numerosi archivi comunali, ancora oggi collocati in spazi meglio utilizzabili
per altre funzioni urbane (a questo scopo si prevedeva di utilizzare
i giganteschi silos di cereali), e infine di edilizia residenziale. Ciò che
si chiedeva alla proprietà era la cessione gratuita dei silos, a titolo di
oneri di urbanizzazione e costruzione, e il rigoroso convenzionamento
dell’edilizia residenziale per i veneziani. La proprietà non accettò queste
condizioni e il complesso rimase abbandonato finché l’amministrazione,
all’inizio di questo secolo, accettò le pretese della proprietà. Adesso lo
Stucky è una esclusiva enclave di lusso. I silos, le cui facciate erano del
tutto prive di aperture, sono stati distrutti da un incendio che ha lasciato “miracolosamente” indenni gli edifici adiacenti92. Dopo l’incendio,
improvvisamente saltano fuori i disegni “originali” di Ernest Wullekopf
che prevedevano le finestre sulle facciate: su questa base anche quella
parte del complesso è stata trasformata in albergo. Lucrosamente: per
la proprietà, s’intende.
92 «È stato un incendio doloso per il pm di Venezia, Michele Maturi, quello che ha semidistrutto il mulino Stucky sull’isola della Giudecca nella città lagunare. Il pubblico ministero ha infatti
parlato di una “mano umana” e ipotizzato “il gesto di un folle o l’imprudenza di un barbone
o, più probabilmente, l’iniziativa dolosa di qualcuno”. Al momento non ci sono gli elementi per
confermare questa pista, ma la strada sembra essere quella giusta. Il mulino Stucky, importante
esempio di architettura industriale ottocentesca, era in fase di restauro e pronto a essere trasformato in un grande albergo e centro congressi» (da «Edilportale», 18 apr. 2003).
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Capitolo ottavo
Venezia forma urbis
1. Le basi per il nuovo piano della città storica
Le elezioni del 1980 videro, a Venezia, vincere di nuovo le liste di sinistra. Questa volta c’era anche il Pri. Con Gigi Scano avevo concordato
un percorso che ci avrebbe consentito di sostituire quegli anomali e inadeguati “piani particolareggiati”, adottati nel 1975, con una pianificazione del tutto nuova, che Edgarda Feletti e l’ufficio avevano cominciato
ad approntare, con la costante e discreta consulenza di Gigi e il mio pieno impegno. All’inizio del 1981 avevo presentato in giunta un corposo
documento d’indirizzi, «Programma di lavoro 1981-1985»93.
La giunta non approvò mai formalmente il mio programma di lavoro. Non credo che fosse un documento troppo complesso: in quegli anni il personale politico era capace di entrare nel merito delle questioni di
governo. Influì certamente il fatto che in quel periodo la pianificazione
urbanistica e la logica della programmazione non godevano più di molto credito, in Italia e anche a Venezia. Si preferiva rincorrere l’emergenza, praticare la deroga, godere dei vantaggi della discrezionalità.
Nel programma, sottolineavo la necessità di lavorare secondo due
contemporanee direttrici: avviare la formazione di un sistema di pianificazione completamente nuovo, basato su quello che definivo «bilancio
sociale tra offerta di spazi e domanda di spazi», fondato su un complesso di conoscenze rigorosamente raccolte e sistematicamente aggiornate,
e contemporaneamente affrontare, con specifici atti di pianificazione,
una serie di esigenze relative a diversi aspetti e luoghi del complesso
93 I punti principali sono ampiamente raccontati nel xv capitolo del libro di Luigi Scano,
Venezia: terra e acqua, p. 324-328.
107
capitolo ottavo
territorio comunale94. Per il nuovo piano ci proponevamo di costruire
la base materiale di conoscenze e, naturalmente, il modello di pianificazione, che nel successivo mandato amministrativo (’85-’90) si sarebbe
completato. Gli strumenti fondamentali erano tre:
- il montaggio critico dei mappini catastali di tutte le unità immobiliari
della città storica, per ricostruire i piani tipo delle diverse unità edilizie
e avere così una base su cui, integrando con altri elementi di conoscenza e l’esame de visu, individuare la categoria tipologica d’appartenenza di ciascuna unità;
- la costruzione di un sistema informativo territorializzato, capace
di costituire l’insieme delle basi conoscitive per la costruzione e la
gestione del piano, e in primo luogo per la formazione di una nuova
cartografia;
- l’inserimento nel sistema informativo dei dati disaggregati del censimento del 1981, per accompagnare i dati fisici con le necessarie
informazioni disaggregate dei dati sociali ed economici.
Con grandi sforzi per convincere le persone interessate, con l’invenzione di passaggi amministrativi bizzarri, con molta pazienza e determinazione riuscimmo a stabilire un accordo con il catasto, che permise
all’ufficio di eseguire la fotocopiatura di tutte le piccole mappe, in scala
1:50 o 1:100, delle 40.000 unità immobiliari, e di ridisegnarle unificandole per costruire (integrandole con le mappe di edifici pubblici o restaurati di recente che contemporaneamente si acquisirono) una mappa
in scala 1:200, poi ridotta a 1:500, dell’intera città storica. Naturalmente
veniva continuamente consultata la cartografia storica, soprattutto la
mappa del De’ Barbari, i catasti napoleonico e austro-italiano, il Combatti95. Quando arrivò l’atteso fotopiano a colori della città storica, in
scala 1:500, che nel frattempo avevamo commissionato, potemmo mettere a punto la classificazione tipologica.
94 L’ambito amministrativo del Comune di Venezia è costituito da differenti tipi di elementi
territoriali: la città storica di Venezia, a sua volta formata da 118 isole congiunte da oltre 400
ponti, e dalla Giudecca; gli insediamenti storici minori delle isole di Murano, quasi un quartiere di Venezia, e Burano, un paesone nella parte più interna della Laguna; le isole del Lido
e di Pellestrina, e gli insediamenti nella penisola del Cavallino, che formano il cordone che
separa la Laguna dall’Adriatico; le isole minori, ove nei secoli passati furono ubicati lazzaretti
e conventi, poi fortificazioni e ospedali; la Terraferma, in origine costituita dal centro urbano
di Mestre, cui negli anni Venti del Novecento furono aggregati amministrativamente una serie
di altri piccoli centri.
95 Venezia, Biblioteca Museo Correr, Jacopo de’ Barbari, Pianta prospettica di Venezia, 1500;
Venezia, Archivio di Stato, Censo stabile, Catasto napoleonico, Catasto austriaco, Catasto austro-italiano,
1807-1852; Bernardo e Gaetano Combatti, Nuova planimetria della città di Venezia divisa in
venti tavole ecc., Venezia, 1847-1855.
108
venezia forma urbis
2. La nuova cartografia e il fotopiano della città storica
La nuova cartografia, come base per il sistema informativo territorializzato, fu il secondo grande tassello per la costruzione del nuovo
piano. Fu un lavoro nel quale ci impegnammo molto. Il nostro programma prevedeva la realizzazione di un fotopiano a colori degli insediamenti storici del comune e di una cartografia geometrica. Feletti
trovò, non senza fatica, l’esperto cui chiedere di studiare la soluzione
tecnica migliore. La scelta cadde sull’eccellente Mario Fondelli, professore di fotogrammetria a Firenze, che aveva maturato numerose
esperienze con l’Istituto geografico militare (Igm) e altre strutture.
Fondelli ci guidò magistralmente nella gara d’appalto e in tutte le successive vicende.
Indicemmo due gare d’appalto: una per il fotopiano a colori, l’altra
per la cartografia geometrica. Dopo varie vicissitudini, per quest’ultima scegliemmo la soluzione informatica (si era allora ai primi passi
nel settore), più coerente con il nostro progetto di sistema informativo territorializzato. Ci fu qualche contrasto, nella commissione giudicatrice che ci seguiva anche tecnicamente, con i fautori della cartografia tradizionale, manuale: la resa era certamente più bella, ma a noi
interessava il sistema e la sua adattabilità. Fummo fortunati anche nella selezione delle ditte. Le due migliori (una per ciascuna cartografia)
avevano già lavorato in collaborazione tra loro: esperienza che tornò
molto utile. Grande fu la passione che Licinio Ferretti, il proprietario
della società prescelta per il fotopiano, la Compagnia generale Ripreseaeree (Cgr), infuse nel lavoro. Collaborare a una eccezionale esperienza quale fu la realizzazione del fotopiano di Venezia (esperienza
pioniera, trattandosi del primo realizzato in Italia per un’area di quelle
dimensioni) fu per lui un’occasione di grande soddisfazione. Un giorno – avevamo già aggiudicato la gara, ma ancora non c’era né deliberazione né impegno di spesa – mi telefonò: – Assessore, sono giornate troppo belle per non approfittarne, non c’è un’ombra di nebbia –.
Era il 20 maggio. Il giorno dopo volò, a suo rischio.
Non era stato facile ottenere le autorizzazioni necessarie per effettuare le riprese aeree. Lo avevo compreso partecipando alla seconda
conferenza nazionale di cartografia e aerofotogrammetria, indetta
dal «Centro interregionale di coordinamento e documentazione per i
problemi inerenti alle informazioni territoriali». Fondelli mi chiese di
preparare una delle relazioni di base, sull’impiego della cartografia a
grande scala. Là compresi come l’arcaismo militare ostacolasse Comuni, Province e Regioni che volessero restituire l’esatta natura dei loro
109
capitolo ottavo
territori. Per sbloccare la stampa del nostro fotopiano dovetti chiedere
al parlamentarista Andrea Manzella, che avevo conosciuto in un lavoro
di collaudo per il Comune di Napoli, di intervenire presso il ministro
della Difesa Spadolini, di cui era stato capo di gabinetto affinché a
sua volta intervenisse sull’Igm. Dovemmo poi organizzare una visita
in pompa magna al comandante dell’Igm a Firenze: persona squisita e
intelligente, comprese che non si potevano oscurare, spacciandoli per
presunti bersagli militari, luoghi come l’Arsenale e l’ospedale Santi Giovanni e Paolo, deturpando un “gioiello” quale era il fotopiano della città
storica di Venezia.
3. Forma urbis
Un’altra iniziativa a proposito del fotopiano dovemmo avviarla, e faticosamente condurla a termine, quando ci rendemmo conto della sua
bellezza. Per contratto, ne dovevamo ricevere tre copie: una per lavoro,
una per il pubblico e una per l’archivio. Ma quando vedemmo le tavole, comprendemmo che non potevano rimanere nascoste. Scrissi una
lunga lettera, che inviammo a una ventina di editori proponendo loro
l’utilizzazione commerciale del fotopiano alla condizione che, come
primo prodotto, stampassero e mettessero in commercio un’edizione
perfettamente uguale all’originale; la grandezza delle tavole (ogni foglio
era di 50 x 50 cm) e la perfezione del segno e dei colori rendeva il lavoro particolarmente delicato. Avevamo allegato dei campioni, ma l’unico
editore che si presentò fu Marsilio. Emanuela Bassetti, amministratore
delegato, venne a vedere le tavole. Ne rimase impressionata. Cominciò
da parte sua un lungo lavoro di ricerca degli sponsor che consentissero
di assorbire una parte delle spese e, parallelamente, il lavoro di assicurare una resa grafica identica all’originale. Anche in questa impresa fu di
grande aiuto Mario Fondelli.
La tenace ricerca di Edgarda e degli altri della perfezione era motivata anche dalla consapevolezza della grande tradizione cartografica veneziana. Uno dei tanti segni della grandezza e lungimiranza dei reggitori
della Serenissima Repubblica è riconoscibile in questo testo:
Quando si deve decidere qualcosa circa le città e i castelli e
le province che, per grazia di Dio, sono sottoposti al nostro governo, non c’è nessuno nella nostra amministrazione che sappia
dare informazioni precise sui siti nei quali essi si trovano, sulla
loro latitudine e longitudine, sui confini e sui domini limitrofi e
così via; e se a qualcuno si chiedono informazioni queste sono
110
venezia forma urbis
spesso diverse a seconda dell’interlocutore, perché ciascuno risponde come crede. Si provveda perciò perché nella nostra cancelleria e nella sede del nostro Consiglio dei dieci vi sia, veridicamente disegnata, l’immagine di tutte le nostre città, terre, castelli,
province e luoghi, talché chiunque voglia decidere e provvedere
in merito ad essi ne abbia davanti agli occhi reale e precisa cognizione, e non debba affidarsi all’opinione di chicchessia.
È il testo di una deliberazione del 27 febbraio 1460, presa da Pietro
Mocenigo, Bernardo Giustinian e Marco Donato, i tre capi del Consiglio
di dieci96. Non ci sono parole più efficaci per esprimere quanto la cartografia sia un essenziale strumento di conoscenza, quindi di governo.
Il montaggio di tutte le tavole del fotopiano componeva un grande
pannello di 7 x 10 m. Lo esponemmo per qualche mese sulla parete
dello scalone dell’Ala napoleonica del Museo Correr. Il regista della Rai
Giulio Macchi, cui il governo aveva dato l’incarico di progettare il contenuto del padiglione italiano all’esposizione internazionale di Tsukuba,
in Giappone, nel 1985, scelse due oggetti per sintetizzare il meglio della
produzione nazionale: la Ferrari testarossa, e il fotopiano di Venezia.
Dopo l’edizione integrale e fedelissima (confezionata in una grande custodia rigida cui demmo il titolo Venezia Forma Urbis), il fotopiano e la
cartografia numerica furono l’oggetto di un volume, in cui le tavole erano ridotte alla scala 1:1000, un quarto dell’originale. Il titolo in italiano
era Atlante di Venezia, e fu poi tradotto e pubblicato in Gran Bretagna,
negli Usa e in Francia.
Non potemmo ottenere nei tempi necessari i dati del censimento
del 1981, che costituivano la terza componente del nostro programma.
Li sostituimmo con un lavoro empirico e un ampio ricorso alle analisi
dirette da parte dell’ufficio. Portammo a termine il lavoro programmato, con molta fatica. Più dell’abbandono da parte di Gianni Pellicani
(fu chiamato a lavorare alla direzione nazionale del Pci), ci danneggiò
l’incertezza politica. L’alleanza Pci-Psi era ormai logora, i socialisti si
preparavano a mutare di spalla al loro fucile, e a riprendere l’accordo
con la Dc senza gli ingombranti comunisti. Comunque, come ci eravamo proposti, avevamo costruito le basi del piano: quelle materiali e
quelle concettuali. Dopo una sospensione potemmo continuare e concludere il lavoro.
96
G. B. Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1868.
111
capitolo ottavo
4. Interruzioni, ripresa e prima conclusione
L’esito politico delle elezioni del 1985 fu cattivo. Il Psi costituì una giunta con la Dc: sindaco il socialista Nereo Laroni. Poi crisi della maggioranza, ricostituzione, nuovo sindaco il democristiano Costante Degan.
Il lavoro di costruzione del piano fu ufficialmente interrotto; continuò
sottotraccia il completamento delle sue basi materiali. Nel 1987 si costituì una giunta in cui era sindaco il repubblicano Antonio Casellati e
assessore all’urbanistica il verde Stefano Boato. Con loro il lavoro del
piano proseguì e giunse alla conclusione. Gigi partecipava al lavoro come consulente, io in modo informale: con Casellati e Boato eravamo in
ottimi rapporti e in piena condivisione culturale. Concludemmo la redazione del piano e l’assessore lo trasmise alla giunta.
Nell’aprile 1990, con Edgarda e Gigi presentai il nuovo piano allo
Iuav. Dopo aver ricordato l’anomalia degli strumenti di pianificazione
che avevamo gestito nel quinquennio ’75-’80, illustrai sinteticamente il
piano riferendomi a due aspetti: il rapporto tra piano e spazio, e il rapporto tra piano e tempo.
Per la parte del territorio in cui si prescrive la conservazione del disegno urbano preesistente, il piano classifica tutte le unità elementari di
spazio in funzione operativa. In particolare, le “unità edilizie” (e cioè gli
edifici caratterizzati da unità di volume e di prospetto) sono classificate
in una quarantina di classi sulla base di un’analisi delle tipologie strutturali97. Per ogni classe, sono definite sia le regole delle trasformazioni
fisiche consentite o prescritte (quali elementi strutturali e funzionali
devono essere conservati o ripristinati, e come; quali possono essere
modificati, e come, o eliminati), sia la gamma delle utilizzazioni compatibili. Per questa parte, il piano è interamente attuabile mediante semplice concessione o autorizzazione edilizia, sulla base di singoli progetti
edilizi. Il che, per un piano regolatore generale di un centro storico che
comprende 13.000 unità edilizie, non è davvero poco.
Fanno eccezione all’intervento diretto solo quelle parti del centro
storico (si tratta di 50 ambiti) nelle quali sono ritenute necessarie, e
quindi sono prescritte o ammesse, trasformazioni consistenti o dell’assetto fisico, o dell’assetto funzionale, o dell’uno e dell’altro insieme. Per
questi ambiti il piano prevedeva la formazione di piani particolareggiati
e prescriveva per ciascuno di essi quantità, utilizzazioni e direttive per
l’organizzazione fisica e morfologica.
97 Per
il metodo dell’analisi tipologica dell’edilizia storica, vedi capitolo 7, paragrafo 7.
112
venezia forma urbis
Per quanto riguarda il rapporto tra il piano e il tempo, il piano era
organizzato come la somma di due parti: una parte fissa, e quindi valida
a tempo indeterminato, e una parte invece valida per un arco temporale
breve (per esempio, cinque anni, corrispondenti alla durata del mandato
amministrativo).
In realtà, nella pianificazione una serie di indicazione e prescrizioni
sono fisse, valgono sempre, costituiscono delle invarianti rispetto a tutte le modifiche della realtà immaginabili, altre invece hanno una validità
legata a previsioni, a esigenze, a impostazioni politiche, a programmi
che hanno una limitata validità nel tempo. Questa differenza vale in particolare, e soprattutto, per le cosiddette “destinazioni d’uso”, cioè per le
funzioni, gli usi cui possono essere adibite le diverse unità di spazio.
Per tutta la parte della città storica dove non avevamo ritenuto necessaria una trasformazione urbanistica (quindi con l’esclusione dei 50
ambiti di cui sopra), ma per la quale l’obiettivo era la conservazione,
avevamo distinto due aspetti. Innanzitutto, in una prima serie di elaborati,
il piano definisce le regole valide a tempo indeterminato, che specificano, per ciascuna categoria di “unità edilizie”, le “trasformazioni fisiche
ammissibili” e le “utilizzazioni compatibili” con l’esigenza di conservare
le particolari caratteristiche di quel tipo. Questa parte del piano stabilisce insomma quali sono le regole da rispettare per non stravolgere, ma
anzi utilizzare al meglio le unità edilizie appartenenti a ciascuna categoria. Per quanto riguarda le utilizzazioni si tratta normalmente di una rosa ampia, che nella normativa abbiamo dettagliato per evitare genericità
e discrezionalità. Questo ventaglio di “utilizzazioni compatibili” è valido,
come ho detto, a tempo indeterminato, e apre molte possibilità.
Con una seconda serie di elaborati, il piano stabilisce – non una volta
per tutte ma per un quinquennio – quali sono le utilizzazioni (le “destinazioni d’uso”) che sono obbligatoriamente prescritte.
Ogni quinquennio insomma, tenendo conto delle condizioni sociali,
delle possibilità economiche, degli indirizzi politici, delle disponibilità
degli operatori, il consiglio comunale (mentre verifica e aggiorna la parte “fissa” del piano), rielabora integralmente la parte “programmatica”
del piano: stabilisce di nuovo quali sono, nell’ambito della gamma ampia di utilizzazioni compatibili con i vari tipi edilizi, le destinazioni d’uso
che devono, o possono, essere attivate nel periodo successivo. E stabilisce anche quali sono gli ambiti per i quali si procederà alla formazione
dei piani particolareggiati, e approva quelli nel frattempo redatti.
Il piano era pronto per l’adozione. Ma subentrarono le elezioni
amministrative. Si formò una maggioranza centrista, questa volta il sindaco era il democristiano Ugo Bergamo e l’assessore all’urbanistica il
113
socialista Vittorio Salvagno. Quest’ultimo apprezzò e condivise il lavoro
fatto, consentì che venisse aggiornato e portò il piano all’adozione, che
avvenne nel 1992. Poi cominciò un’altra storia.
5. La proposta dell’articolazione dei piani in due componenti
Se la mia base era a Venezia, anche negli anni in cui ero assessore non
avevo abbandonato le mie attività a livello nazionale. Continuavo a essere
consultato dalla direzione nazionale del Pci sulle questioni urbanistiche,
ed ero impegnato nell’Inu, sia come direttore della rivista «Urbanistica
informazioni» sia, a partire dal 1983, come presidente nazionale. Inoltre,
concluso il mio impegno di assessore avevo ripreso a collaborare con Regioni, Province e Comuni alla formazione di piani o di testi normativi.
Sia all’Inu che nella pratica professionale, sempre in stretta collaborazione con Gigi Scano, avevo proseguito la riflessione e la sperimentazione
dell’articolazione della pianificazione in due componenti. Una prima
componente, che definivamo strutturale e strategica, conteneva essenzialmente tutte le indicazioni, prescrittive o direttive, concernenti le tutele
dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio, e quelle che delineavano le grandi scelte strategiche. L’altra componente, che definivamo
programmatica e operativa, definiva tutte le decisioni che concernevano scelte
di breve o di medio periodo, comunque conformi a quelle definite nella
componente strutturale.
Nella nostra proposta la componente strutturale della pianificazione,
coinvolgendo interessi di diversi livelli di governo, doveva prevedere una
procedura di formazione più complessa e più rigida. La seconda, esaurendo essenzialmente la propria portata nell’ambito di decisioni che non
incidevano su interessi ampi, poteva essere di esclusiva competenza dei
Comuni.
Precisammo questo modello di pianificazione in molte occasioni: nei
prg di Carpi, Imola, Duino Aurisina; nei progetti di legge urbanistica cui
Gigi e io collaborammo per l’Emilia Romagna e per il Lazio; in una proposta di legge urbanistica nazionale che Gigi elaborò in sede Inu e in un
più maturo progetto che presentammo a un convegno che organizzammo
a Venezia nel sessantesimo anniversario della legge urbanistica del 194298.
98 L. Scano, Le ragioni e i contenuti di una proposta di legge, in Cinquant’anni dopo la legge urbanistica
italiana. 1942-1992, a cura di E. Salzano, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 137-153. E. Salzano,
Sull’articolazione dei piani urbanistici in due componenti, «Notiziario dell’Archivio Osvaldo Piacentini», 11-12 (apr. 2008), II.
114
Capitolo nono
Verso il buio: Tangentopoli e Mani pulite
1. Gli anni della svolta
Nel 1992 scoppia lo scandalo che viene battezzato “Tangentopoli”: si
scopre una città (polis) che vive sulle tangenti raccolte dal personale politico di governo sugli affari derivanti da decisioni pubbliche99. I fatti
che sono alla base dello scandalo, e della successiva benemerita azione
della magistratura (la campagna di pulizia giudiziaria che fu chiamata
“Mani pulite”) erano già da tempo all’attenzione di molti di noi. Così,
con Piero Della Seta decisi di scrivere in poche settimane un libro a
quattro mani su Tangentopoli. Tentammo di ricostruire il cambiamento
profondo, nella società e nella politica, che aveva prodotto quel terribile
fenomeno. Nella nostra analisi Tangentopoli non era semplicemente
un moltiplicarsi di “normali” episodi di corruzione, ma la corruzione
divenuta sistema ordinario di governo: la sua liceità veniva teorizzata e
riconosciuta dai suoi promotori, e aveva permeato l’intero sistema delle
decisioni pubbliche in cui fossero coinvolti come protagonisti i membri
di quel mondo.
Individuammo nella metà degli anni Ottanta il momento principale
della svolta. In effetti, erano stati gli anni di un cambiamento profondo
in Italia, perfettamente correlato alla più ampia trasformazione a livello
internazionale. Nel 1983 era nato il governo Craxi, il quale mantenne
99 Da allora, con un processo di corruzione del linguaggio tipico dell’ignoranza dei mass
media, si è attribuito il suffisso poli a ciascuno dei numerosi altri scandali esplosi: calciopoli, ospedalopoli, sanitopoli, parentopoli, affittopoli, ecc.
115
capitolo nono
il suo ruolo fino all’aprile del 1987. Negli stessi anni i poteri di Ronald
Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. In Italia, un decreto del governo Craxi (14 febbraio 1984)
aveva aperto l’attacco alla scala mobile: a quel meccanismo cioè, conquistato nel 1975 a favore di tutti i lavoratori, che legava le variazioni del
salario a quelle del potere d’acquisto. Il Pci promosse, nel 1985, un referendum per difenderlo, ma raggiunse solo il 46% dei consensi100. Nello
stesso anno si svolsero in Italia le elezioni amministrative: caddero quasi
tutte le maggioranze di sinistra che erano al governo nelle grandi città.
Sono gli anni del trionfo della visione craxiana della società: nuovi
valori divengono vincenti nel pensiero comune.
Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista
della “modernità”, di celebrazione del made in Italy, di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai
inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi
della scala mondiale. A Tokio, il 4 maggio 1986, Craxi riesce a
ottenere l’ammissione dell’Italia in quello che era allora il Club
dei Cinque, organismo di concertazione della politica economica formato dalle maggiori potenze industriali del pianeta101.
Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure,
osserva Paul Ginsborg:
crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la
stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che
consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva
la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti102.
La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali si affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato. Tangentopoli
non avrebbe potuto dilagare, e non sarebbe stato così difficile combatterla, se non avesse trovato nel clima sociale l’humus in cui svilupparsi.
100 A favore dell’abrogazione del decreto Craxi il Pci, il Psiup e i Verdi; contro l’abrogazione
il Psi, la Dc, il Pri, il Psdi e i liberali. Si scoprirà più tardi che la campagna referendaria era
stata pagata da Craxi con i soldi delle tangenti. Pochi anni dopo, la scala mobile verrà del tutto
abrogata.
101 P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco. Come, negli incredibili anni ’80, nacque e si diffuse
Tangentopoli, Roma, Editori riuniti, 1993I, p. 26.
102 P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato. 1980-1996, Torino,
Einaudi, 2007II, p. 57.
116
verso il buio: tangentopoli e mani pulite
Vissi questo clima nelle esperienze di quegli anni. Non solo al Comune
di Venezia, ma anche nella mia collaborazione alla direzione nazionale
del Pci e al mio lavoro nell’Inu.
2. Si affaccia l’urbanistica contrattata
Il nuovo tema che si affacciava nei dibattiti sull’urbanistica era quello
dell’«urbanistica contrattata». Il primo episodio rilevante fu una polemica sull’«Unità», nell’estate del 1982, tra due assessori, entrambi comunisti, entrambi eletti in due grandi città: Maurizio Mottini, a Milano e
Raffaele Radicioni, a Torino.
Mottini partiva dalla considerazione che «era emersa negli anni
più recenti una critica diffusa, talvolta una insofferenza, nei confronti
del concetto stesso di piano come strumento del potere pubblico per
affrontare e risolvere problemi di interesse generale»; osservava correttamente come questo atteggiamento critico fosse un sintomo della
più generale tendenza «al riflusso nel ‘privato’, alla riscoperta dei valori
e dei problemi dell’individuo», e come fosse collegato al fatto che «sul
versante politico e ideologico si assisteva al rilancio di un neoliberismo,
che non di rado si tingeva dei colori di una volontà di rivincita dei valori
della conservazione o meglio della restaurazione»103.
Indubbiamente, le prime avvisaglie dei tentativi di “liberare” le decisioni sul territorio dai vincoli di regole dettate dall’interesse comune
avevano radici nel più vasto processo di riflusso verso l’individualismo
e il privatismo, nelle nuove ideologie che si affermavano e nella ripresa
di potere degli interessi economici di nuovo dominanti. Mottini individuava però anche a sinistra segnali che andavano nella stessa direzione:
è significativo, afferma, che «nell’ambito stesso della cultura di sinistra il
tema delle libertà individuali, come presupposto di una società dinamica, venga additato come via d’uscita ai fenomeni di sclerosi delle forme
realizzate partendo da una lettura consolidata e ortodossa della lezione
marxista».
Da queste premesse, Mottini partiva per esprimere una critica
all’urbanistica: «Il piano urbanistico, come normativa che regola il
comportamento dei soggetti che decidono, ha prodotto troppo spesso
disegni mai realizzati o realizzati in piccola parte»; «ciò che è in crisi –
aggiungeva – non è il concetto di piano urbanistico, ma il concetto di
103
M. Mottini, Urbanista, cambia piano, «l’Unità», 18 ago. 1982.
117
capitolo nono
gestione pubblica del piano urbanistico». La ricetta che proponeva era
di sostituire la gestione pubblica col governo pubblico, dove governare significa «utilizzare i meccanismi di mercato, indirizzandoli con una serie di
incentivi e disincentivi alla soluzione dei problemi di interesse generale.
Alla politica del vincolo occorre sostituire la politica dell’uso pubblico
dell’interesse privato»104.
Pianificazione territoriale e programmazione concertata tra pubblico
e privato divengono momenti di un solo discorso, «non più un prius definito e immobile cui seguirà una sia pur complessa gestione di attuazione». In altre parole, il piano non è autonomo rispetto agli interessi economici, non delinea a priori le scelte necessarie per risolvere i problemi
dal punto di vista dell’interesse collettivo, ma è un insieme di scelte che
si concertano (contrattano) con gli interessi economici.
Stupisce nel ragionamento di Mottini il fatto che trascuri completamente di domandarsi quali siano gli “interessi economici” con i quali il
pubblico dovrebbe “contrattare” il destino della città. Sembra ignorare
che questi interessi non sono quelli legati al salario e al profitto, al lavoro e all’impresa, all’attività economica volta alla produzione di ricchezza
da immettere sul mercato, ma semplicemente quelli, parassitari da ogni
punto di vista, della rendita immobiliare.
Il contrasto all’appropriazione privata della rendita immobiliare è
invece al centro dell’intervento critico dell’altro assessore all’urbanistica,
Raffaele Radicioni105. Dopo un’ampia illustrazione dei difetti costituzionali rilevati nella legislazione urbanistica e dei tentativi fallimentari
dei parlamenti di sanarli compiutamente (dalle sentenze costituzionali
del 1968 alla proposta governativa di riconoscere pienamente la rendita
immobiliare a valori di mercato106), afferma che riconoscere, in caso
d’esproprio o di vincolo, il valore di mercato dei suoli significherebbe
optare «definitivamente a favore del potere di edificare congiunto inscindibilmente con il diritto di proprietà e per questa via [riconsegnare] alla proprietà privata, attraverso una leva economica irrefrenabile
(il valore dei suoli), il potere e il diritto di decidere come, quanto, in
che modo, trasformare la città». «Ma ciò che più preoccupa – prosegue l’assessore torinese – è constatare la distrazione con la quale negli
ultimi anni questa vicenda viene seguita dalle forze riformatrici, fra cui
determinante è il ruolo esercitato dal nostro partito». L’argomento «non
104
105
106
Ibidem.
R. Radicioni, Anche per l’urbanista il ’68 è lontano, «l’Unità», 3 set. 1982.
Proposta del ministro Franco Nicolazzi del mag. 1962.
118
verso il buio: tangentopoli e mani pulite
è stato oggetto di agitazione, e scarsi sforzi sono stati compiuti per
suscitare sia il confronto politico che l’approfondimento culturale, assolutamente necessari nel momento in cui leggi troppo sommarie o affrettate rivelano di non reggere al vaglio della Corte costituzionale».
Per altro non passa occasione che nel nostro partito autorevoli e valenti compagni ci ricordino giustamente come ritardi e
sconfitte, registrati dal movimento riformatore sui temi della casa, del governo della città sarebbero imputabili in ampia misura
ad una frattura manifestatasi in alcuni periodi fra idee di riforme
illuministe, patrimonio di intellettuali, ed esigenze, aspirazioni,
di larghe masse popolari. Bene, io mi domando se dalla vicenda
che ho richiamato si debba concludere che il tema del controllo
sulla acquisizione della rendita (che penso costituisca uno degli
strumenti principali del governo della città, se non il principale)
sia da considerare ideologico o comunque fuori dalle possibilità
di unità fra esigenze popolari per la casa, per la città, per l’equilibrio del territorio e gli orientamenti, le denunce, le esperienze di
intellettuali ed amministratori107.
C’è una sola strada per uscire dalla crisi della città, conclude Radicioni, «rilanciare nel Paese, fra le masse popolari, nei luoghi di cultura,
negli enti locali e ovviamente in parlamento una convinta battaglia con
al centro il nodo della acquisizione alla collettività della rendita, come
strumento fondamentale per il governo delle città». Ma le orecchie del
Pci erano aperte ad altre musiche. Lo comprendemmo molto presto.
3. Intanto, sull’abusivismo
All’inizio del 1984 il parlamento inizia la discussione della conversione
in legge di un decreto del governo che, nel dichiarato intento di raggranellare un po’ di entrate, condona a pagamento l’abusivismo edilizio. Si
apre un lungo dibattito, in cui emerge con chiarezza che il Pci (la cui
politica del territorio è guidata dal nuovo responsabile del “settore infrastrutture”, casa e trasporti, Lucio Libertini) è favorevole al condono,
motivando il fenomeno del mancato rispetto delle regole urbanistiche
con la loro rigidezza, astrattezza, incuranza delle esigenze della gente.
Le vicende parlamentari sono attentamente seguite dall’Inu e dalla
sua rivista. Gli organi dell’istituto esprimono sistematicamente le loro
107
Radicioni, Anche per l’urbanista il ’68 è lontano.
119
capitolo nono
critiche. Un articolo di Luigi Scano su «Urbanistica informazioni»108
critica in particolare un emendamento, proposto da Franco Bassanini e
altri deputati indipendenti di sinistra e pienamente appoggiato dal Pci,
che prende pretesto dal condono per liberalizzare, rispetto alle previsioni dei piani urbanistici, i cambiamenti di destinazioni d’uso e allargare il
campo del silenzio assenso.
La tesi del gruppo dirigente dell’Inu era che, se le regole dell’azione
pubblica non vanno bene, allora si cambiano con altre regole, non si
cancellano. Lo ribadivo nell’editoriale del numero 75 di «Urbanistica
informazioni»:
Il problema non è quello della deregulation, ma è quello delle
nuove regole da costruire. Il problema non è quello di smantellare gli strumenti attraverso i quali oggi si attua il governo
pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali, ma è quello
di rinnovarli, di adeguarli alle nuove esigenze, ai nuovi problemi,
alle nuove possibilità tecniche.
Iniziai un carteggio (ero allora presidente nazionale dell’Inu) con
Lucio Libertini e altri esponenti della direzione del Pci, che proseguì
per qualche anno. La critica principale che gli urbanisti, pienamente
rappresentati allora dall’Inu, facevano alla legge e all’atteggiamento del
Pci era di avere completamente invertito il processo logico che si sarebbe dovuto seguire. Secondo noi si sarebbe prima dovuto rafforzare le
norme capaci di arrestare l’abusivismo, poi provvedere a redigere piani
urbanistici volti a recuperare gli insediamenti abusivi conferendo loro
la necessaria dignità umana, e solo più tardi provvedere al condono delle
diverse situazioni soggettive, senza però accrescere l’iniquità tra chi aveva costruito abusivamente e chi, pur avendo la stessa necessità, aveva rispettato la legge. La legge, secondo il percorso tollerato dal Pci, partiva
invece dalla coda: ciò che interessava era il condono, per ragioni di cassa
(il governo) o per ragioni di demagogia (Libertini).
Lo scontro raggiunse livelli acuti, sia dentro sia fuori il Pci. Libertini
scriveva che «si è manifestata nell’opinione pubblica, anche di sinistra, una
reazione di rigetto verso la pianificazione urbanistica, identificata in forme
perverse di oppressione burocratica»109; noi rivendicammo la necessità di
fondare in Italia una «nuova cultura della pianificazione» e di affrontare
con coerenza l’insieme delle questioni del governo del territorio.
108 L. Scano, L’emendamento Bassanini. Deregulation ovvero sregolatezza, «Urbanistica informazioni», 73-74 (1984).
109 L. Libertini, Nicolazzi non passerà, «Urbanistica informazioni», 75 (1984).
120
verso il buio: tangentopoli e mani pulite
Le elezioni amministrative segnano un notevole arretramento del
Pci. In una lettera al segretario generale del partito, Alessandro Natta, e
ai capigruppo della Camera (Giorgio Napolitano) e del Senato (Gerardo
Chiaromonte) quaranta urbanisti esprimono le loro critiche110:
Dobbiamo dire innanzitutto che – come urbanisti – fin dalle
prime battute dello scontro elettorale ci ha preoccupati la debolezza delle posizioni, e della propaganda, del Partito sui temi
della qualità urbana e dell’ambiente. E i risultati hanno non solo
confermato, ma accentuato le nostre preoccupazioni. Infatti,
sebbene nella propaganda elettorale abbiano giocato un peso
rilevante i temi della politica nazionale, ci sembra indubbio che
un ruolo non marginale abbiano svolto i temi dell’assetto territoriale e urbano. E allora non si può non sottolineare che siamo
stati sconfitti anche per i colpi (severi, nel giudizio dell’elettorato) di una determinata propaganda delle forze politiche avversarie e concorrenti: a destra, dove la Dc ha impostato la sua
campagna elettorale, sia pure con toni da crociata, sul tema della
inefficienza delle giunte rosse; e a sinistra, dove i Verdi hanno
esplicitamente dichiarato che il voto per le loro liste sarebbe stato l’espressione di una critica all’insufficienza, all’ambiguità e ai
ritardi dei partiti di sinistra (ma in primo luogo del Pci) sui temi
dell’ambiente.
Chiedevamo «una riflessione profonda, e un dibattito aperto e impietoso» poiché eravamo stati colpiti proprio «sul punto su cui avremmo potuto essere più forti: sui temi che ci hanno storicamente visto
come protagonisti, e per i quali Regioni e Comuni amministrati da noi
sono stati proposti e riconosciuti come modelli, all’Italia e all’estero».
A nostro parere, avevamo perso perché non vi era stata
un’adeguata direzione nazionale, o quanto meno un efficace
coordinamento, del partito sulle questioni urbanistiche e territoriali. Di queste ci si è occupati a pezzi, a spezzoni, a settori,
dimenticando, o ignorando, che ciò che è essenziale è una visione unitaria dei problemi del territorio, che un governo pubblico
110 La lettera fu firmata da Luigi Airaldi, Carlo Alberto Barbieri, Massimo Bilò, Piero Beccaria, Giuseppe Boatti, Felicia Bottino, Vittoria Calzolari Ghio, Giuseppe Campos Venuti, Massimo Carmassi, Pier Luigi Cervellati, Elena Camerlingo, Filippo Ciccone, Alessandro Dal Piaz,
Maria Franca De Forgellinis, Sandro Del Fattore, Piero Della Seta, Vezio De Lucia, Giorgio
De Rosa, Valeria Erba, Stefano Garano, Mario Ghio, Ugo Girardi, Tommaso Giuralongo,
Francesco Malfatti, Laura Mancuso, Giorgio Morpurgo, Carlo Melograni, Roberto Matulli,
Federico Oliva, Stefano Pompei, Giuseppe Pulli, Raffaele Radicioni, Anna Renzini, Amerigo
Restucci, Ezio Righi, Edoardo Salzano, Stefano Stanghellini, Giancarlo Storto, Lino Tirelli,
Alberto Todros.
121
capitolo nono
delle trasformazioni urbane e territoriali ha il suo metodo e strumento irrinunciabile nella pianificazione urbanistica e territoriale,
e che infine consolidare nel Paese una cultura e una prassi della
pianificazione esige uno sforzo determinato, tenace, continuo,
di lunga durata.
Alla lettera non ricevemmo risposta da parte dei destinatari; ci rispose invece, su loro mandato, Libertini, dichiarando che il Pci voleva
superare il “giacobinismo illuminista”, colpevole del distacco tra movimento riformatore e masse popolari. La risposta ai quaranta urbanisti
era stata preceduta da una lettera dello stesso Libertini a tutti i segretari
regionali e provinciali e alla Commissione casa e infrastrutture del Pci,
in cui, difendendo il comportamento del partito sull’abusivismo, respingeva le critiche delle «associazioni che difendono l’ambiente e il territorio» attribuendole «ai legami intensi che tutte queste associazioni hanno
con i partiti di governo».111
4. Il Pci alla testa del movimento degli abusivisti
Un ulteriore picco del dissenso si ebbe quando, il 17 febbraio 1987, il
Pci appoggiò platealmente una manifestazione di piccoli costruttori
abusivi accompagnati da numerosi sindaci: 40.000 persone erano venute a Roma, in larghissima prevalenza dal Mezzogiorno, guidate da Paolo
Monello, sindaco comunista del comune di Vittoria (Ragusa), per chiedere un’ampia estensione dell’abusivismo e l’abolizione della tassa per il
condono.
Case abusive, tasse esose. Rabbia e protesta dal Sud, era il titolo sparato in
apertura della prima pagina dell’«Unità» su cinque colonne. Nelle pagine interne altri articoli commentavano la manifestazione e raccontavano
del fruttuoso incontro dei sindaci leader del movimento con un’autorevole delegazione di senatori comunisti. Il giorno dopo continuano le
cronache del movimento degli abusivisti, e un corsivo di Emanuele Macaluso giustifica gli abusi commessi: «Si vuole che chi doveva finalmente
costruire una casa (…) avrebbe dovuto farlo con i bolli. E dove erano i
bolli? E chi li metteva questi bolli? E in quali aree fabbricabili si sarebbe
potuto costruire?»112.
111
112
Lettera del 24 giu. 1985, firmata Lucio Libertini (Archivio Edoardo Salzano).
E. Macaluso, Dove stanno i veri eroi dello scempio edilizio, «l’Unità», 19 feb. 1986.
122
verso il buio: tangentopoli e mani pulite
Naturalmente la polemica divampò. Su «Urbanistica informazioni»
raccogliemmo gli articoli fortemente critici di Antonio Cederna («la
Repubblica», 19 febbraio), Giovanni Russo e Cesare De Seta («Corriere
della sera», 19 febbraio), Filippo Ciccone ed Enrico Testa («il manifesto», 20 febbraio), Fabrizio Giovenale («Paese sera», 22 febbraio),
Vezio De Lucia («l’Unità», 23 febbraio), Giulio Di Donato («Avanti!»,
6 marzo), Edoardo Salzano («Rinascita», 24 febbraio), Pierluigi Cervellati («La Nazione», 28 febbraio), Carlo Melograni («l’Unità», 6 marzo).
Le posizioni del Pci erano difese da Emanuele Macaluso («l’Unità», 20
febbraio) e Lucio Libertini («la Repubblica», 21 febbraio), mentre Guido Alborghetti, parlamentare del Pci, aveva preso le distanze dal movimento degli abusivi pur tentando di mediare tra le opposte posizioni
(«Rinascita», 24 febbraio).
Nei mesi successivi, ulteriori tentativi furono compiuti dagli urbanisti vicini all’Inu per convincere i dirigenti del Pci a mutare registro.
La risposta del partito venne sempre da Libertini, e non cambiò di tono.
Finalmente, il 22 ottobre 1988 diedi le dimissioni dalla Commissione
casa, infrastrutture e trasporti. La mia battaglia proseguiva all’interno
dell’Inu, dove le cose non andavano bene. La svolta era arrivata anche lì.
5. La legge Galasso
Gli anni Ottanta hanno, nel loro complesso, un segno negativo. Sono
gli anni nei quali è maturato, e ha cominciato a realizzarsi, il disastro
nel quale viviamo. Ma in quel decennio ci sono state anche azioni di
segno opposto; e il positivo non va mai dimenticato perché è a esso che
bisogna riallacciarsi più tardi, quando si può riprendere il cammino. Nel
mio ricordo, al positivo di quegli anni appartiene soprattutto il risultato
di un’iniziativa legislativa di un vecchio amico di mio padre, Giuseppe
Galasso113. Lo storico napoletano era diventato sottosegretario al Ministero dei beni culturali. Aveva avviato, con un decreto, poi giudicato
illegittimo dal tribunale amministrativo, il procedimento parlamentare
per la formazione di una legge per la tutela del paesaggio che superava
decisamente la vecchia impostazione delle leggi di tutela del 1939.
La legge fu approvata nel 1985. Gli elementi essenziali, particolarmente positivi, erano tre.
113
Vedi Salzano, Fondamenti di urbanistica, p. 220 e seg.
123
capitolo nono
Erano riconosciuti come beni paesaggistici d’interesse nazionale, da
tutelare ope legis, intere e ampie “categorie di beni”, che costituiscono la
grande orditura del paesaggio italiano: i monti e le coste, i corsi d’acqua
e i vulcani, i boschi e i ghiacciai. ecc. In tal modo si rispettava il criterio
stabilito dalla Corte costituzionale, in relazione ai vincoli sul territorio.
La Corte, infatti, con una sentenza del 1968, contemporanea a quella
che aveva invalidato i vincoli urbanistici, aveva stabilito un principio
molto importante114: in linea generale, non si possono vincolare con un
atto amministrativo determinate proprietà senza che vi sia un indennizzo sicuro nel tempo e definito in relazione al valore del bene che viene
riconosciuto al proprietario secondo la legislazione vigente; ma il legislatore può dichiarare che tutti i beni appartenenti a determinate “categorie a confine certo” possono, per ragioni d’interesse generale, essere
soggetti a particolari limitazioni alla proprietà, senza che in questo caso
sia necessario indennizzare il proprietario; la successiva individuazione
sul territorio dei beni appartenenti a quelle categorie non è un atto
discrezionale, ma semplicemente la traduzione di quel criterio a una
specifica fattispecie.
La seconda novità rilevante era costituita da una soluzione soddisfacente della questione della tutela: lo definimmo come il passaggio dal
vincolo alla pianificazione. Fino ad allora la tutela si esercitava mediante
l’apposizione di un vincolo su un determinato bene: un vincolo diretto,
che cioè impediva di modificarlo, o un vincolo procedimentale, che sottoponeva ogni progetto di trasformazione di quel bene a una procedura
di esame da parte delle soprintendenze.
Da allora, secondo la legge e le successive interpretazioni della giurisprudenza, la tutela doveva manifestarsi attraverso un atto di pianificazione. Ciò significava che in ogni piano territoriale o urbanistico, a
partire da quelli di livello regionale (e poi in quelli di livello provinciale
o comunale) si dovevano individuare i beni appartenenti alle “categorie”
definite dalla legislazione nazionale che erano individuabili a quella scala, attribuendo a ciascun bene non un vincolo generico, ma le regole da
rispettare in ogni progetto di conservazione o trasformazione. In modo
del tutto analogo a quanto avevamo elaborato per il nostro piano della
città storica di Venezia.
La legge consentiva infine (terzo elemento positivo di novità) di risolvere correttamente il rapporto tra pianificazione specialistica, cioè riferita a uno solo degli aspetti del territorio, e la pianificazione territoriale
114
Vedi capitolo 4, paragrafo 5.
124
verso il buio: tangentopoli e mani pulite
e urbanistica, che dovrebbe regolarne tutti gli aspetti. Si trattava del
superamento di un lascito della legislazione prebellica, nella quale non
si era riusciti a comporre in un unico disegno la questione della tutela
del paesaggio, obiettivo della legge Bottai del 1939115, e della pianificazione urbanistica, regolata dalla legge urbanistica del 1942116. La legge
Galasso dava mandato alle Regioni, che oramai erano state costituite
e avevano competenza propria in materia di legislazione urbanistica e
competenza delegata dallo Stato in materia di beni culturali e paesaggio,
di proseguire nella tutela avviata con l’individuazione per legge delle
“categorie di beni”, adoperando a propria scelta due possibili strumenti:
un piano esclusivamente dedicato alla tutela del paesaggio, oppure uno
strumento, o una serie di strumenti a diverse scale, della pianificazione
ordinaria cui attribuire contenuti e validità di tutela paesaggistica117.
L’applicazione regionale della legge fu molto deludente. Dopo una
prima strettissima serie di piani redatti in attuazione e conformità della
legge (dall’Emilia Romagna e dalla Liguria), e alcuni altri piani per molti
aspetti discutibili, l’attuazione della legge praticamente si fermò, né il
Ministero dei beni culturali aveva le forze, o la volontà di ricorrere al
potere sostitutivo previsto dalla legge. Seguivo, all’epoca, la formazione
del piano paesistico dell’Emilia Romagna, gestito dall’assessore Felicia
Bottino. In quella sede si fece una scelta secondo me molto feconda.
Ragioni di tempo spingevano a redigere un piano limitato agli aspetti
paesaggistici. Si formulò però la scelta di considerare il piano paesaggistico come la prima tappa di un percorso che sarebbe proseguito con
il piano territoriale regionale. Questa scelta ci condusse a teorizzare
una precisa scelta culturale: considerare l’individuazione delle qualità,
naturali e storiche, del territorio e la definizione delle regole per la loro
conservazione o ricostituzione come la fase preliminare e prioritaria
d’ogni processo di pianificazione, sia nell’ambito dello stesso piano sia
nella successione di piani. Era sostanzialmente lo stesso metodo che
avevamo elaborato e sperimentato a Venezia, con Gigi Scano ed Edgarda Feletti, per la pianificazione della città storica.
115 Legge 29 giu. 1939, n. 1497, «Protezione delle bellezze naturali».
116 Legge 17 ago. 1942, n. 1150, «Legge urbanistica».
117 Legge 8 ago. 1985, n. 431, «Disposizioni urgenti per la tutela delle
zone di particolare
interesse ambientale». Sull’argomento vedi Salzano, Fondamenti di urbanistica, capitolo ix.
125
capitolo nono
6. L’Inu: la fase del consolidamento
Nel 1984 ero stato eletto presidente nazionale dell’Inu. L’istituto era
stato ricostituito e si era formato un gruppo dirigente abbastanza affiatato e coeso, ma percorso da tensioni. Ero stato eletto anche perché
si pensava che fossi capace di mediare. Proseguimmo nello sforzo di
consolidare l’Inu e ampliarne le basi. In realtà, la platea potenziale era
molto larga. Lo sforzo fatto soprattutto da Astengo di far diventare
l’urbanistica una disciplina importante per la società e le istituzioni
aveva avuto negli anni Settanta il successo meritato. Erano ormai molti
gli urbanisti che lavoravano nei Comuni, nelle Province, nelle neonate
Regioni.
Anche l’Inu e le sue riviste avevano svolto egregiamente il loro ruolo.
Le nostre sezioni erano presenti dappertutto; ricordo i numerosi viaggi
fatti con la bravissima segretaria Daniela Betti, per ricostituire sezioni
scomparse e formarne di nuove. La nostra presenza critica nei confronti delle istituzioni era continua: a livello nazionale soprattutto nei confronti del parlamento e dei partiti, e a livello locale, mano a mano che le
sezioni si consolidavano, con le istituzioni regionali e comunali.
Se «Urbanistica», la rivista tradizionale dell’Inu, versava sempre in
gravissime difficoltà economiche (che, nei momenti più difficili, richiesero l’impegno straordinario del nostro tesoriere Marco Romano),
«Urbanistica informazioni», la testata che dirigevo, diventava sempre più
diffusa e ricca. Dopo Vezio De Lucia, uno dei rifondatori dell’Inu, attivo segretario generale e diuturno collaboratore della rivista, la responsabilità di «Urbanistica informazioni» ricadde sempre più largamente sulle
spalle di Filippo Ciccone. A rivedere oggi le annate della rivista, essa si
rivela come un poderoso archivio di tutto ciò che, attinente al governo
delle città e del territorio, accadde in quegli anni.
7. Complicità oggettive
Ci eravamo accorti abbastanza presto del cambiamento del clima culturale, prima che politico. Franco Nicolazzi, ministro dei Lavori pubblici dal 1979 al 1987, era stato l’iniziatore e il costante tessitore della
deregulation urbanistica; le forme più perverse del condono edilizio erano
partite, come abbiamo visto, da sue iniziative. Ma noi addebitavamo
una responsabilità non trascurabile anche ad alcuni vizi della cultura
urbanistica. Scrissi un editoriale che provocò discussioni e polemiche. Sostenevo che se Nicolazzi aveva potuto trovare credito non era
126
verso il buio: tangentopoli e mani pulite
dovuto solo alle “manovre dell’avversario” o al qualunquismo imperante ma derivava anche dall’esistenza di complicità oggettive «nel campo
di quanti sono legati, professionalmente, culturalmente o politicamente,
al tema della riforma urbanistica».
Esistono, insomma, assenze, silenzi, cedimenti immotivati, fuorvianti fughe in avanti, comportamenti di riflusso nel
professional-privato, di ripiegamento sul quotidiano, di perdita
di rigore, che da tempo hanno frantumato, e quasi dissolto, il
fronte di quanti potevano e potrebbero battersi, ciascuno con i
propri specifici strumenti, per un avanzamento del processo di
riforma urbanistica. Oggi, nel 1982, alcuni sorridono degli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare dell’Inu anni ’50, dei metodi “ingegneristici” di un Astengo o delle empiriche capacità di
interpretazione e ridisegno di organismi urbani di un Piccinato,
delle battaglie di un Detti per la salvaguardia delle colline fiorentine o di un Insolera per disvelare le malefatte dei reggitori della
Roma di Cioccetti e Petrucci, delle aspre denunce di un Cederna
e delle tenaci elaborazioni di un Ghio per dare verde alla città e
servizi ai cittadini o di un Cervellati per restituire alla civiltà un
centro storico. E altri, ugualmente, sorridono delle generose intemperanze e approssimazioni dell’Inu post sessantottesco, del
tumultuoso ingresso del problema della casa nei contenuti della
gestione urbanistica, della scoperta dell’insufficienza di una politica solo “quantitativa” per la fuoriuscita dalla crisi abitativa, del
defatigante impegno nell’elaborazione e nella critica propositiva
delle piattaforme legislative. Sono motivati quei sorrisi? Quanto
meno, non sono sufficienti e proprio per ciò, stimolano a capir
meglio118.
Non mi arroccavo nella difesa del modo tradizionale di fare urbanistica. Proseguivo infatti affermando che il patrimonio di elaborazioni e
iniziative dell’urbanistica italiana doveva essere assunto criticamente: «in
ogni momento, come ogni analogo patrimonio ideale e politico, pretende d’essere superato».
Superato, però, non liquidato. Da più d’un segno, ci sembra
invece di sentir aria di liquidazione. È un caso se l’impegno
degli urbanisti, di molti urbanisti, abbandona la ricerca e la
sperimentazione delle regole e dei metodi generali per il controllo e il governo delle trasformazioni urbane e territoriali, ed
118 E. Salzano, Complicità oggettive, «Urbanistica informazioni», 60 (1981). Ppa: programma
pluriennale di attuazione; peep: piano per l’edilizia economica e popolare; pip: piano per gli
insediamenti produttivi.
127
capitolo nono
enfatizza invece il momento del progetto, dell’intervento singolare, dell’opera unica e conclusa? se l’urbanistica tende a
rientrare nel ventre di una delle sue matrici, l’Architettura? (…)
È un caso se uno strumento decisivo per il governo del territorio, preconizzato e proposto dagli urbanisti old style dal 1959,
tentato a Roma agli albori del centrosinistra e in Lombardia
nella fase nascente del regionalismo (parliamo del ppa), viene
lasciato cadere come un ingombrante ferrovecchio appena può
cominciarne una generalizzata sperimentazione? se la stessa
problematica dei peep e dei pip viene considerata obsoleta, o
meramente strumentale rispetto alle nuove frontiere della grande progettazione post modernista?
Come si vede, sono questioni che ancora oggi hanno validità. Segno
del fatto che allora era cominciato un processo molto lungo, che si è aggravato negli anni e che oggi sta raggiungendo approdi nefasti.
8. Il tentativo del confronto aperto
L’Inu si rafforzava, il suo credito nella società restava alto, ma le tensioni interne non si scioglievano. Maturai una convinzione. Avevamo lavorato fino ad allora nell’ipotesi che l’Inu formasse nel suo insieme un
gruppo compatto di persone, legato da una forte comunanza d’interessi
e di motivazioni. Questo forse era vero quando gli urbanisti erano pochi ed esprimevano un’omogeneità culturale e politica. Ma non era più
così: l’Inu non era più un “partito”, era diventato un “parlamento”, un
luogo nel quale molte posizioni convivevano. Lo sforzo che bisognava
fare (e che mi accinsi a fare) era quello di far emergere i diversi punti di
vista nella loro autenticità, in modo che fosse possibile confrontarsi sulla base di una sufficiente chiarezza.
Proposi di organizzare la nostra prossima assise sociale nella forma
di un congresso a tesi. Avremmo dovuto individuare una serie di temi
in relazione ai quali far emergere le diverse posizioni.
Tra i tre gruppi di temi che proposi, assunse un’importanza notevole
quello del rapporto pubblico-privato. Nel documento che presentai lo
enunciai così:
Da un lato, si dovranno affrontare le questioni in qualche
modo tradizionali, ma sempre rinnovate nel modo di porsi:
a partire da quella del regime degli immobili (…), a quelle
dell’urbanistica contrattata, degli interventi in concessione, dei
canali finanziari ordinari e straordinari. Da un altro lato, c’è
da affrontare un complesso di questioni che ruotano attorno
128
verso il buio: tangentopoli e mani pulite
al rapporto tra etica, politica e cultura. Non si tratta di affrontare tanto né solo la pratica della lottizzazione partitica, ma di
impegnarsi in una riflessione collettiva (e nell’affermazione di
alcuni principi) relativa al più nobile e complessivo problema del
rapporto tra momento politico-istituzionale e momento tecnicoculturale nella formazione degli atti della pianificazione119.
Il consiglio direttivo (costituito da due rappresentanti per ogni sezione
regionale più alcuni membri eletti direttamente dal congresso) concordò.
Cominciò un lungo lavoro di seminari, spesso allargati ad altri membri
dell’istituto. Alcuni proposero mediazioni, senza comprendere che il
tentativo era invece mettere in luce le differenze, talché i soci potessero,
in occasione dell’assemblea, scegliere tra posizioni chiaramente espresse.
Ciò fu certamente un ostacolo al raggiungimento del mio obiettivo.
Ma in una delle riunioni allargate del consiglio direttivo (si svolgeva
a Venezia, nella sala della Fondazione Levi) emerse il punto reale del
conflitto. Si discuteva una mia tesi in cui sostenevo che, mentre sul
principio della titolarità pubblica della pianificazione territoriale e urbana tutti, in teoria, si dichiarano d’accordo, esso di fatto «è pesantemente
contraddetto nella prassi corrente, a opera sia dei maggiori gruppi del
potere economico, sia di parti e spezzoni dello stesso potere pubblico».
Affermavo che
si contraddice il principio della titolarità pubblica della pianificazione quando si delega, o si propone di delegare, ad aggregazioni di interessi economici privati la formulazione di scelte che
incidono sull’organizzazione territoriale e urbana, riducendo il
ruolo dell’ente pubblico elettivo alla mera copertura formale
mediante atti di pianificazione redatti e adottati ex post di scelte
compiute da altri poteri.
Oltre alle affermazioni generali, la proposta di tesi enunciava casi
concreti, che erano ormai a conoscenza di tutti: il caso di Firenze, «dove
il piano per l’urbanizzazione della piana a nord ovest della città è stato
redatto in funzione degli interessi delle società già proprietarie (Fiat) o
divenute proprietarie (Fondiaria) delle aree coinvolte»; quello di Napoli,
«dove grandi interessi economici raggruppati sotto la sigla del ‘Regno
del possibile’ propongono al Comune di delegare a una società per
azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione
del recupero di quasi 70.000 alloggi nel centro storico»; quello di Roma,
119 E. Salzano, Consiglio direttivo nazionale dell’Inu. Proposte per la formazione delle tesi per il xix
congresso, 1989, dattiloscritto (Archivio Edoardo Salzano).
129
capitolo nono
dove «l’Italstat, sulla base del possesso di una parte consistente delle
aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale, si
è proposta come capofila di un pool di imprese che vorrebbe pianificare,
progettare e realizzare un sistema strategico per la trasformazione della
città»; quello di Milano, «dove la subordinazione agli interessi dei proprietari di aree è divenuta, a partire dagli inizi degli anni ’80, prassi corrente, attraverso un intenso processo di sostituzione funzionale di cui si
rinuncia programmaticamente a verificare gli effetti sul contesto urbano
e metropolitano»; quelli, infine «in numerose altre città italiane, dove la
prassi della cosiddetta ‘urbanistica contrattata’ nasconde la sostanziale
abdicazione del potere pubblico elettivo di fronte a nuovi intrecci di interessi economici, dove sono presenti, insieme, il capitale privato, pubblico e cooperativo, interessi industriali, finanziari, assicurativi e fondiari,
complessi multinazionali e aziende locali»120.
Il consiglio direttivo, a larga maggioranza, respinse la mia tesi, sostenendo che su quegli argomenti bisognava studiare e approfondire.
Meno di due anni dopo esplose lo scandalo di Tangentopoli: l’indagine
dei giudici milanesi, Mani pulite, squadernò la perversione dell’intreccio
tra poteri pubblici e poteri privati che era dietro lo scandalo e svelò i reali obiettivi dell’urbanistica contrattata. Tra i casi incriminati apparvero
proprio quelli che il nostro gruppo, ormai diventato minoranza, voleva
che l’Inu denunciasse.
9. La sconfitta: usciamo dall’Inu
Nel 1990, si svolse a Milano il xix congresso dell’Inu. Proposi in quella
occasione di attribuire a un valoroso urbanista, Giuseppe Campos Venuti, maestro di molti di noi, un riconoscimento, la carica di presidente
onorario dell’istituto. La proposta fu accolta per acclamazione. Campos
Venuti assunse anche la presidenza del congresso.
Non riuscimmo a ottenere un confronto aperto sulle tesi. Una cronaca onesta del congresso, della successiva assemblea dei soci e dell’esito l’ha scritta Franco Girardi, per molti anni partecipe delle vicende
dell’Inu come proboviro:
La chiarezza che mancò al congresso, sui temi di fondo della
dottrina urbanistica, e sugli indirizzi culturali e politici dell’Istituto,
120 [E. Salzano], Istituto nazionale di urbanistica, 19° Congresso. Proposta di tesi sul rapporto
pubblico-privato, giu. 1990, dattiloscritto (Archivio Edoardo Salzano).
130
verso il buio: tangentopoli e mani pulite
si ritrovò invece nell’assemblea, tenuta nelle ultime due giornate; ma, ahimè, su questioni di ben più basso tono. Liquidata
già in sede congressuale la discussione sulle tesi, l’attenzione e
il lavoro dell’assemblea furono consumati nella composizione
del nuovo Cdn [Consiglio direttivo nazionale], che si sarebbe
formato sulla base dei candidati proposti da quello uscente ed
eletti dall’assemblea, in aggiunta a quelli designati dalle sezioni
regionali. La questione elettorale diventava, purtroppo, quella
centrale. (…) Questioni di schieramenti e di potere, come si è
visto, non erano mancate prima di allora all’interno dell’Istituto. E avevano accompagnato, e inquinato, il dibattito sui temi
e sui problemi culturali e politici. Ora, però, queste questioni
si manifestavano in assenza, quasi assoluta, di temi di più alta
consistenza, sui quali il congresso non era riuscito, o non aveva voluto esprimersi, contrariamente a quanto ci si poteva e
doveva attendere. Si chiudeva, così, in tono minore, e forse si
dovrebbe dire ambiguo, un lungo periodo della vicenda Inu, di
oltre vent’anni, pieno di difficoltà interne ed esterne, ma comunque ricco di impegno alto, e di spunti critici, aperti su nuove e più avanzate prospettive. Il calo di tonalità, che in tal modo
si veniva determinando, avrebbe condizionato pesantemente le
vicende successive dell’Istituto121.
Praticamente tutto il gruppo cui appartenevo fu spazzato via dal
nuovo consiglio direttivo. Questo stentò a trovare un accordo sulla
gestione dell’istituto e si trascinò da una crisi all’altra finché, nel 1992,
Campos Venuti divenne anche presidente ordinario. Tra i primi atti, con
un blitz che ancora mi turba, sciolse la redazione di «Urbanistica informazioni». Per conto mio, avevo rimesso il mandato accompagnandolo
con una proposta, lungamente meditata, sull’assetto da dare alle attività
di comunicazione dell’Inu. Né le mie dimissioni né le proposte furono
messe in discussione e fui, semplicemente, licenziato.
Con un lungo editoriale in «Urbanistica informazioni» esposi un
bilancio dell’attività ventennale della rivista che avevo fondato e diretto
ed espressi quelle che, a mio parere, erano le ragioni del mutamento di
prospettive. Informavo i lettori che la rottura era stata precipitosa:
Senza che gli organi dell’Inu potessero discutere il progetto
editoriale e dargli corpo, il consiglio direttivo ha deciso, a maggioranza, di annullare «tutti gli incarichi di direzione e redazionali, centrali e regionali». Perché questo è avvenuto? Credo che
la ragione sia, in qualche misura, legata alla stessa storia della
121 Girardi,
Storia dell’Inu, p. 114-115.
131
capitolo nono
rivista. Alla storia della rivista, e alla storia dell’Inu. Più precisamente, al fatto che nell’Inu ha prevalso una posizione culturale
che, per semplicità, definirò “di destra”. Una posizione che non
sopportava il fatto che su questa rivista ci si fosse sempre nettamente, recisamente schierati contro alcune cose, e a favore di
altre. Contro l’urbanistica contrattata, contro il riconoscimento
e il consolidamento dell’appartenenza privata dell’edificabilità,
contro la decadenza degli istituti del potere pubblico e la sostituzione a essi di tecnostrutture private, piccole o grandi. E a favore di un regime degli immobili basato sul primato degli interessi
collettivi, a favore d’una visione dell’urbanista come figura che
esplica una funzione d’interesse pubblico, a favore d’una pianificazione che affermi la priorità della coerenza sulla flessibilità,
del piano sul progetto, del duraturo sull’effimero122.
Campos Venuti replicò al mio editoriale con una nota, che compare
sullo stesso numero della rivista, nella quale acclamava i meriti della rivista e miei, ma respingeva con fermezza «l’accusa di aver fatto una scelta
di destra nell’assumere la presidenza dell’Inu». Per la verità, la scelta
non era del nuovo presidente, ma delle cose; l’Inu si limitava a seguire il
mainstream, iniziando un nuovo percorso che lo avrebbe portato alla fine
a trovare coincidenze con le proposte urbanistiche della compagine di
Silvio Berlusconi.
Passarono pochi anni, e l’Inu giunse al punto di esprimere una valutazione positiva sulla più nefanda delle proposte legislative per la riforma dell’urbanistica che l’Italia abbia conosciuto: la cosidetta “legge Lupi”, dal nome del suo presentatore, l’onorevole Maurizio Lupi di Forza
Italia. Nell’editoriale n. 65 del mio sito123, del 12 febbraio 2005, in una
lettera aperta ai soci dell’istituto denunciavo «l’atteggiamento sostanzialmente favorevole dell’Inu nei confronti dell’impostazione di fondo
della legge per il governo del territorio, approdata il 7 febbraio all’aula
di Montecitorio», atteggiamento che era stato «determinante nell’ostacolare la minoranza nella sua opposizione». E proseguivo:
Così mi è stato testimoniato da autorevoli parlamentari dei
Ds, ed era del resto evidente dalla lettura degli atti sia di fonte
parlamentare che di fonte Inu. L’Istituto nazionale di urbanistica, di cui mi onoravo di essere stato presidente per dieci anni, si
è macchiato in tal modo di una colpa a mio parere molto grave. Ha avallato una legge che cancella oltre 60 anni di faticosa
122 E. Salzano, Vent’anni di Urbanistica informazioni. Commiato, «Urbanistica informazioni»,
125-126 (1992).
123 Di eddyburg, sito web che curo quotidianamente dal 2003, parlerò diffusamente oltre.
132
verso il buio: tangentopoli e mani pulite
affermazione di un’urbanistica moderna ed europea, quindi
basata sul ruolo delle amministrazioni pubbliche, sulla prevalenza degli interessi generali, e via via sulla stretta connessione
tra pianificazione del territorio e tutela del paesaggio, sul riconoscimento dei diritti ai servizi e al verde di tutti i cittadini
della Repubblica. Princìpi che l’Inu ha per decenni promosso,
proponendo strumenti adeguati a renderli concreti e ottenendo
consistenti successi.
10. L’associazione Polis
Dopo l’estromissione del nostro gruppo dagli organi dirigenti dell’Inu
cercammo un altro strumento per essere presenti nel dibattito sulla
politica urbanistica. Decidemmo di fondare un’associazione culturale,
che battezzammo Polis. La costituimmo formalmente124 nel marzo
1992. Segretario e factotum fu Gigi Scano, che promosse l’organizzazione di molte iniziative. Svolgemmo numerosi seminari interni, nei
quali discutemmo e mettemmo a punto un disegno di legge urbanistica nazionale, molto ampio e completo, dovuto prevalentemente alla
competenza di Gigi. Lo illustrammo, nell’ottobre dello stesso anno, in
un convegno organizzato a Venezia, in collaborazione con la Fondazione EuroNordEst, costituita dal parlamentare europeo (e veneziano)
Cesare De Piccoli; con la sezione “ambiente” della direzione del partito dei Democratici di sinistra; e con il gruppo parlamentare di sinistra
di Strasburgo. La prima giornata fu dedicata a una riflessione sulla
legge urbanistica del 1942, di cui celebravamo il sessantesimo anniversario; il centro della seconda fu sostanzialmente costituito dalla presentazione della proposta di legge di Polis125.
Nel 1993, più o meno con gli stessi partner, organizzammo un convegno dal titolo «Alternative alla crisi urbana», articolato in due giornate
dedicate l’una a otto città di cui si esaminava «lo stato delle cose e dei piani, gli interessi e le forze in campo, le tendenze, le proposte alternative»;
124 Membri fondatori furono Roberto Badas, Silvano Bassetti, Paolo Berdini, Felicia Bottino,
Teresa Cannarozzo, Antonio Casellati, Antonio Cederna, Filippo Ciccone, Vezio De Lucia,
Antonio Iannello, Edoardo Salzano, Luigi Scano, Walter Tocci, Mariarosa Vittadini.
125 Il convegno «1942-1992. Cinquant’anni dopo la legge urbanistica italiana» si svolse a
Venezia nei giorni 8 e 9 ott. 1992. Nella prima giornata le relazioni furono svolte da Vezio
De Lucia, Giulio Ernesti, Nicola Tranfaglia, Gianni Lanzinger, Giuseppe Campos Venuti,
Maurizio Marcelloni, Marco Venturi; nella seconda da Edoardo Salzano, Fulvia Bandoli, Luigi
Scano, Franco Bassanini, Chicco Testa, Roberto Barzanti. Era previsto l’intervento conclusivo
di Achille Occhetto, che non potè raggiungerci e inviò un messaggio.
133
capitolo nono
l’altra alle «tendenze ed esperienze delle politiche urbane in Germania,
Francia e Spagna»126.
Un altro convegno lo organizzammo a Follonica, nel febbraio 2000,
dal titolo «Il clamore del silenzio. Il riconoscimento dell’identità del
territorio nella pianificazione per lo sviluppo autocentrato e sostenibile».
E un’altro ancora a Eboli, nell’ottobre dello stesso anno, dal titolo «Crisi
della pianificazione o crisi dei pubblici poteri?», con una magistrale relazione di Gigi, «Il governo pubblico del territorio e la qualità sociale»127,
che esprimeva il pensiero comune a molti di noi.
Grazie a Polis e al lavoro di Gigi riuscimmo in molte occasioni a
intervenire nei dibattiti sulla politica urbanistica, esponendo un punto
di vista che era sempre più diverso dal coro, sia nel lavoro di critica e
di proposta sulle leggi nazionali e regionali, sia nella formulazione di
osservazioni agli strumenti urbanistici, sia infine nelle polemiche sulla
stampa quotidiana.
11. La città sostenibile
Prima ancora di costituire Polis, il nostro gruppo aveva organizzato (nel
1991) con la stessa Fondazione EuroNordEst un altro convegno. L’occasione era stata costituita dall’approvazione, da parte del parlamento
europeo, del Libro verde per l’ambiente urbano, proposto dal commissario
per l’ambiente della Commissione economica europea (la struttura che
successivamente divenne l’Unione europea), all’epoca Carlo Ripa di
Meana. Titolo del convegno fu «Ambiente urbano delle città d’Europa».
Io vi svolsi la relazione introduttiva, dal titolo «La città sostenibile»128.
126 Il convegno si svolse nei giorni 29 e 30 ott. 1993. Le relazioni furono svolte da Luigi Scano (Venezia), Raffaele Radicioni (Torino), Mariarosa Vittadini (Milano), Lino Tirelli (Genova),
Simone Siliani (Firenze), Walter Tocci (Roma), Alessandro Dal Piaz (Napoli); nella seconda
giornata da Cesare De Piccoli, Marco Venturi, Maurizio Marcelloni, Thomas Kraemer Badioni,
Guy Henry, Jesus Gago Davila. Si concluse con una tavola rotonda cui parteciparono, oltre a
me, Vittorio Emiliani, Giuseppe Arnone, Fulvia Bandoli, Franco Bassanini, Sauro Turroni.
127 L. Scano, Relazione al convegno «Crisi della pianificazione o crisi dei pubblici poteri?», Eboli 14
ott. 2000, in eddyburg.
128 Il convegno si svolse nei giorni 4 e 5 ott. 1991, a Venezia, alla Scuola di San Giovanni
evangelista. Oltre al saluto di De Piccoli e alla mia relazione, intervennero Luigi Scano (Mercato, pianificazione urbanistica e progetto politico), Franco Girardi, Gastone Ave, Fortunato Pagano,
Felicia Bottino, Stefano Storchi, Donatella Venti, Claudio Malacrino, Roberto Gambino, Tommaso Giuralongo, Marta Cecchini, Filippo Ciccone, Silvano Bassetti, Luisa De Biasio Calimani,
Francesco Indovina (Il consumo della qualità urbana), Giandomenico Romanelli, Gianni Beltrame
(Una critica al Libro verde), Fabrizio Giovenale (Riflessioni ambientaliste), Andrea Ruffolo, Maria
Rosa Vittadini (Muoversi in città), Guglielmo Zambrini (L’alta velocità e i problemi dell’ambiente),
134
verso il buio: tangentopoli e mani pulite
Affermavo che
la centralità del ruolo delle città (…) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per
il futuro. Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale, e con essi quelli del regresso economico sociale, non è una
certezza. È una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di
questa speranza è legato alla possibilità di raggiungere, mediante
gli strumenti di una pianificazione urbanistica rinnovata, livelli
sufficienti di qualità urbana. Ma questo significa, con ogni evidenza, saper guardare al futuro: sapersi “contentare” di creare
oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo
nel tempo. Significa insomma preferire la gallina domani all’uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare
una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima
garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato
sviluppo che si è scelto, a ciò che può apparire più utile nell’immediato ma che è contraddittorio con l’obiettivo.129
Ma è davvero fondata quella speranza, mi domandavo:
È capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime
e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in
modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato
permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l’attuale prassi del giorno per giorno, dell’affannosa rincorsa dell’emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze)? E noi
urbanisti, che così spesso protestiamo per le sordità, la mediocrità, l’affarismo della politica, in quanta misura esercitiamo la
nostra responsabilità, siamo davvero all’altezza del nostro compito? Una volta gli urbanisti erano accusati – non senza ragioni
– di voler essere dei demiurghi: di voler foggiare la società, attraverso i piani, secondo un loro modello. Credo che oggi la critica
che dobbiamo farci sia di segno opposto: dobbiamo domandarci
se davvero sappiamo riconoscere i limiti della nostra competenza. E dobbiamo poi domandarci se entro questi limiti sappiamo
considerare non negoziabili le nostre certezze tecniche quando
queste sono fondate. Se sappiamo resistere, forti del diritto del
nostro mestiere, quando per ragioni non condivisibili, o non
Franco De Grandis, Alessandro Dal Piaz, Teresa Cannarozzo, Piergiorgio Bellagamba, Roberto Badas, Vittorio Parola, Margherita Pia, Manlio Marchetta, Paola Somma, Giorgio De Rosa,
Giorgio Morpurgo, Carlo Alberto Barbieri, Piero Salvagni, Luigi Colaianni, Vezio De Lucia,
Walter Tocci, Fulvia Bandoli, Sandro Giulianelli, Carlo Ripa di Meana.
129 E. Salzano, La città sostenibile, in La città sostenibile, atti del convegno, a cura di E. Salzano,
Roma, Edizioni delle Autonomie, 1992, p. 20.
135
accettabili, qualcuno ci induce a mettere un depuratore dov’è
sbagliato, o a far correre una strada dove non serve, o a rivestire
d’un retino tecnico una sanatoria che non va concessa.
Concludevo con un’ultima domanda, che ancora oggi resta senza
risposta:
È davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui,
con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai
gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, né elettoralmente né socialmente, perché ancora non esistono? È capace
insomma la democrazia, o può divenir capace, di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno? Dobbiamo sperarlo,
ma soprattutto dobbiamo lavorare perché sia così.
Il convegno ebbe una risonanza molto ampia. Sia perché era la prima volta che in Italia si rendeva pubblico il Libro verde europeo, sia per la
presenza di moltissimi esponenti autorevoli dei mondi della cultura e
della politica. Ma anche perché riuscimmo a pubblicarne tempestivamente gli atti.
136
Capitolo decimo
Attese, tentativi, speranze, delusioni
1. Dodici parchi per il Veneto
Nel 1987 divenni consigliere regionale del Veneto: ero il primo dei
non eletti nelle elezioni del 1985, e subentrai a Gianni Pellicani che si
era dimesso perché chiamato a Roma nella direzione nazionale del Pci.
Il lavoro per la minoranza, in una regione a grande prevalenza democristiana, non era facile. Ci impegnavamo molto nel lavoro di commissione
consiliare, e utilizzavamo le risorse cui potevamo attingere per organizzare iniziative che dessero respiro al mondo delle associazioni e della
cultura che manifestava aspirazioni che condividevamo. Mi impegnai
soprattutto in due iniziative: per l’istituzione di parchi regionali nel Veneto, e per contrastare la proposta di realizzare a Venezia l’Esposizione
universale del 2000.
Vi erano nel Veneto una dozzina di luoghi nei quali, per iniziativa
di associazioni e gruppi ambientalisti, o per consolidate convinzioni, si
riteneva opportuna quella particolare tutela costituita dall’istituzione di
un parco naturale: un’area protetta sia da uno specifico piano, finalizzato all’individuazione delle regole necessarie per garantire la conservazione di quel determinato ecosistema, sia da una “gestione” delle attività
necessarie per la custodia, la manutenzione naturalistica, la ricerca e la
controllata fruizione di quei beni. Era in discussione una legge nazionale, ma nel frattempo molte Regioni, tra cui il Veneto, avevano approvato
degli specifici provvedimenti legislativi.
Individuammo dodici aree, in ciascuna delle quali promuovemmo
la costituzione di un gruppo di lavoro, formato prevalentemente da
137
capitolo decimo
ambientalisti e altri esperti locali130. Definimmo un’impostazione unitaria (nella cui formulazione mi aiutò molto Gigi Scano) e giungemmo
alla redazione di dodici testi legislativi. Le proposte furono illustrate
e discusse in un convegno: alle relazioni dei diversi gruppi di lavoro
si affiancarono una serie di interventi sulle problematiche d’interesse
nazionale131. In poche settimane riuscimmo a dare alle stampe gli atti
completi del convegno132.
Non ricordo quanto le elaborazioni di merito cui eravamo approdati
abbiano poi influito sulle leggi che la maggioranza del consiglio regionale approvò, spesso col nostro voto favorevole. Certo è che l’istituzione
di parchi regionali avvenne nel Veneto solo dopo quella nostra iniziativa.
Dei dodici che avevamo proposto ne furono istituiti negli anni successivi solo cinque: Colli Euganei (1989), Monti Lessini (1990), Sile (1991),
Dolomiti bellunesi (1993) e Delta del Po (1997). Per quest’ultimo noi
avremmo voluto l’istituzione di un parco interregionale, che ci dava
maggiori garanzie di serietà e che era del resto nei progetti nazionali.
Ma si oppose alla nostra volontà (e a quella del Ministero dell’ambiente,
in quegli anni guidato da Giorgio Ruffolo) la decisione della maggioranza democristiana del Veneto di favorire gli interessi dei cacciatori.
I restanti nel nostro elenco sono ancor oggi l’obiettivo di vertenze dei
movimenti ambientalisti e di comitati di cittadini.
2. La minaccia dell’Expo 2000 a Venezia
Il potentissimo ministro dei governi Craxi e protagonista della politica
veneziana, Gianni De Michelis, aveva lanciato con grande enfasi, in preparazione delle elezioni amministrative del 1985, la proposta di presentare la candidatura di Venezia per l’esposizione mondiale del 2000. Molti si opposero subito. Da tempo – sia nel Pci veneziano sia nel consiglio
comunale – avevamo individuato nello sviluppo abnorme e sregolato
del turismo una delle ragioni principali del degrado sociale e fisico di
Venezia. Attirare a Venezia masse di visitatori ci sembrava assolutamente
130 Le aree sulle quali lavorammo erano: Colli Euganei, Sile, Laguna di Venezia e Chioggia,
Valli di Caorle e Bibione, Dolomiti Bellunesi, Altopiano dei Sette Comuni, Monte Pasubio,
Monte Baldo, Monti Lessini, Cansiglio, Piave, Delta del Po.
131 Tra queste ricordo le relazioni di Roberto Gambino, di Paolo Leon e di Alberto Lacava.
132 Dodici parchi nel Veneto per il 1987. Governo democratico e gestione efficiente del patrimonio ambientale, a cura del Comitato Regionale Veneto Pci, Venezia 1986. Il convegno si svolse a Venezia,
nei giorni 26-27 set. 1986.
138
attese, tentativi, speranze, delusioni
da evitare. Non fummo i soli: parti consistenti del mondo della cultura
e della società veneziana compresero l’entità della minaccia.
Molto pesanti furono peraltro gli interessi che De Michelis riuscì
a mobilitare. Avviò una poderosa e ben oliata macchina di conquista
del consenso. Costituì un consorzio per la promozione dell’Expo di
cui facevano parte le maggiori firme dell’industria e della finanza133.
Si assicurò l’appoggio di prestigiosi esponenti della cultura: ricordo tra
gli altri Giuseppe De Rita, il creatore del Censis, e un nutrito gruppo
di architetti veneziani, passati dal Pci al partito di De Michelis. In una
prospettiva più ampia di cambiamento delle alleanze (dieci anni dopo la
svolta del 1975 stava ricostituendo l’alleanza con la Dc), costruì una solida piattaforma d’intesa con i democristiani veneti, fingendo d’allargare
l’impatto dell’Expo all’intera regione. Con procedure discutibili, la candidatura per l’Expo del 2000 approdò al Bureau international des expositions
(Bie), che svolse l’istruttoria preliminare.
Grandi e meno grandi architetti già progettavano alacremente visioni capaci di suggestionare il pubblico. Scriveva Roberto Bianchin sulla
«Repubblica» del 12 febbraio 1989:
Tra i progetti più discussi, quello del magnete che secondo
gli architetti Renzo Piano, Ugo Camerino e Giampaolo Mar,
dovrebbe essere il centro di attrazione dell’Expo, in grado di
calamitare i milioni di persone che arriveranno a Venezia. Dovrebbe sorgere ai bordi della Laguna, vicino all’aeroporto di
Tessera, intorno ad una collina artificiale e ad una finta laguna
ottenuta allagando 700 ettari di campagna. Sarà capace di ospitare 70 mila persone. Calamitati a Tessera, i visitatori verranno
poi portati in battello fino al grande complesso dell’Arsenale,
oggi abbandonato, che verrà recuperato. Gli architetti Carlo
Aymonino e Giorgio Lombardi hanno previsto per loro l’apertura di centri espositivi e di laboratori tecnologici. Per divertirsi
e passare il tempo invece, si galleggerà sulle acque: gli architetti
Emilio Ambasz e Antonio Foscari hanno ipotizzato l’installazione di alcune piattaforme galleggianti sulla Laguna, con sopra
cinema, teatri, musei e ristoranti.
Sembrava che i giochi fossero fatti. Mentre lavoravano i promotori
dell’Expo, lavoravano però anche quanti erano convinti che la proposta
133 Del Consorzio Venezia Expo facevano parte, tra gli altri: Assicurazioni Generali, Banca
cattolica del Veneto, Banca nazionale del lavoro, Cassa di risparmio di Venezia, Benetton,
Bastogi, Ciga, Coca Cola, Consorzio Venezia Nuova, Eni, Fiat, Ferruzzi, Fidia, Fininvest,
Ibm Italia, Intermetro, Luxottica, Montedison, Olivetti, Sip, Zanussi, Semenzato, gli editori
Marsilio e Mondadori.
139
capitolo decimo
sarebbe stata una rovina per Venezia. Qui riuscimmo a svolgere un
ruolo rilevante utilizzando il consiglio regionale. Ottenemmo la costituzione di una commissione speciale e di un ampio e attrezzato
gruppo di lavoro operativo, incaricati di approfondire l’argomento.
Ci demmo molto da fare. Promuovemmo e raccogliemmo studi, opinioni, argomenti. Costituimmo un punto di riferimento per quanti,
come noi, erano contrari alla proposta. Ricordo il ruolo molto attivo
che svolsero Margherita Asso, rigorosa soprintendente ai beni culturali,
Maria Teresa Rubin de Cervin, responsabile dell’ufficio Unesco di Venezia (costituito dopo l’alluvione del 1966), l’ex ambasciatore del Regno Unito a Roma sir Henry Ashley Clarke, da tempo cittadino veneziano e presidente del Venice in Peril Fund, e lo stesso Antonio Casellati,
allora sindaco di Venezia. Ricordo il lavoro positivo e utile che svolse
il docente di Ca’ Foscari Paolo Costa134 il quale, con Jan van der Borg,
esperto di economia turistica, presentò uno studio in cui dimostrava
per tabulas che la città poteva ospitare contemporaneamente non più di
ventimila visitatori, quando le stime dell’Expo facevano prevedere un
afflusso stimato tra i 15 e i 28 milioni di persone, concentrate in poche
settimane.
Il movimento anti Expo divampò in tutta la città e raggiunse l’opinione pubblica internazionale. Tra gli altri, s’impegnarono moltissimo
l’autorevole ministro e “grande vecchio” della finanza italiana, il repubblicano Bruno Visentini, e il parlamentare europeo del Pci Cesare De
Piccoli. Le iniziative fioccarono. Ne ricordo una avviata da 21 fotografi
professionisti veneziani, mobilitati da Graziano Arici: scrissi per loro le
didascalie per una grande mostra fotografica, con cui volevano divulgare nel mondo le ragioni della nostra opposizione.
Si accumularono studi e analisi che consentirono di comprendere
(e far comprendere) in che modo l’Expo avrebbe influito sui problemi
di Venezia. Divenne chiarissimo che gli effetti sarebbero stati dirompenti: non solo sulle “pietre” della città, ma anche sul delicato equilibrio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della
città e la società che le abita. Questo equilibrio era già minacciato da
un turismo di massa non governato, che modifica giorno per giorno
134 Paolo Costa divenne poi rettore di Ca’ Foscari e, alternandosi solidalmente con Massimo
Cacciari, sindaco di Venezia. In questa veste contribuì invece all’affermazione di devastanti
interventi a Venezia quali il MoSE, il progetto della metropolitana sublagunare, lo sviluppo
del marketing commerciale sulla città, nonché, a Vicenza, dove è stato nominato commissario
dal presidente del Consiglio Prodi e confermato da Berlusconi per vincere le resistenze alla
costruzione della base militare Usa Dal Molin.
140
attese, tentativi, speranze, delusioni
l’assetto sociale ed economico della città: influisce sul mercato immobiliare, sulla qualità del commercio, sui prezzi delle merci, sui servizi e
sui modi di fruizione.
Un poderoso aiuto alle nostre ragioni lo diede un evento cittadino:
il concerto dei Pink Floyd. Nell’estate del 1989 il celebre gruppo organizzò a Venezia un grande concerto: da una gigantesca isola galleggiante, che “chiudeva” la meravigliosa scenografia del bacino di San Marco
(Piazza San Marco, Palazzo ducale, la Zecca, Riva degli Schiavoni,
Punta della Dogana, l’isola di San Giorgio), spararono le loro fragorose musiche. L’atteso concerto (si diceva che sarebbe stato l’ultimo del
prestigioso gruppo) attirò a Venezia una folla sterminata: comunque
inferiore a quella che avrebbe attirato l’Expo, secondo le stime ufficiali.
L’effetto sulla città fu devastante. Il giorno dopo un cronista scriveva:
«La Laguna ha vissuto dieci ore almeno nella più totale confusione,
sommersa da un popolo troppo numeroso, da maledizioni nemmeno
tanto velate, da vere e proprie proteste. La cronaca della giornata è
un susseguirsi di immagini apocalittiche, che culminano nella implorazione delle prime ore del pomeriggio: “rinunciate, tornate indietro”».
La colpa non è nel comportamento degli invasori: «Non fanno nulla di
male, i temuti ‘barbari’ del rock, ma sono troppi per una città-cartolina
che sembra soffocare sotto il loro peso». Sono troppi, la città non sopporta queste dimensioni di affollamento. I veneziani lo sanno. I commercianti, ad esempio, avevano proclamato la serrata. Non tutti hanno
chiuso il negozio, una parte ha preferito tener aperto e fare affari.
Ma, prosegue il cronista, «chi ha chiuso non lo ha fatto in silenzio.
grazie giunta, si legge in un cartello; e più avanti: questo redentore ce lo ricorderemo, e ancora: una volta per queste cose cadevano le teste. Rabbia e intolleranza, insomma, che si capiscono solo
se ci si immerge un attimo nella marea umana che naviga al rallentatore
verso Palazzo ducale»135.
Per settimane le diverse autorità cittadine si rimpallarono le responsabilità, per scoprire chi era il più colpevole tra coloro che non avevano
impedito l’evento, rivelatosi drammatico. Per noi era solo una conferma. Come dissi nel mio intervento in consiglio regionale,
non abbiamo avuto bisogno del “sabato nero” dei Pink Floyd
per esprimere la nostra contrarietà all’Expo. Ricordo che furono alcuni di noi, alcuni comunisti, tra i primi a esprimersi pubblicamente contro la proposta dell’Expo a Venezia, non appena
135
R. Giallo, Venezia ‘occupata’ dal popolo rock, «l’Unità», 17 lug. 1989.
141
capitolo decimo
questa venne clamorosamente lanciata da Gianni De Michelis,
nell’intervista al «Gazzettino». L’argomento sintetico e di fondo
che sollevammo allora era lo stesso che solleviamo adesso: una
Esposizione universale non è compatibile con la struttura fisica
e sociale della città storica di Venezia, né come essa è adesso,
e neppure come noi vorremmo che fosse. Se mi è consentito
citarmi, ricorderò che il mio primo commento alla proposta di
De Michelis è stato il richiamo alla metafora dell’elefante nella
cristalleria. I risultati delle ricerche svolte da allora, e la stessa
sciagurata esperienza del sabato 15 luglio, confermano come
questa metafora fosse allora, e sia oggi, del tutto calzante. Così,
l’episodio avvilente del concerto dei Pink Floyd ha costituito
per noi solo una pesante sottolineatura di ciò che già sapevamo,
una conferma di qualcosa che già avevamo in più occasioni
ribadito: Venezia corre il rischio di morire per eccesso, non per
carenza, di flussi di visitatori e d’interessi136.
Nel maggio 1990 gli eurodeputati veneziani Visentini e De Piccoli
ottennero l’adesione della maggioranza del parlamento europeo a una
mozione contraria all’Expo a Venezia. Nel frattempo a Roma si raccoglievano firme di senatori e deputati in calce a due mozioni nelle quali
si chiedeva al governo (allora presieduto da Andreotti) di ritirare formalmente la candidatura dell’Italia all’Expo: sottoscrissero 168 senatori,
tra opposizione e maggioranza, e 347 deputati, più della metà. Il governo non attese di essere messo in minoranza, e prima della discussione
della mozione al Senato dichiarò che avrebbe ritirato la candidatura di
Venezia. Ciò che avvenne.
«L’Unità» mi chiese di dettare l’editoriale in cui si commentava la
notizia. Lo conclusi così:
Ciò che si è finalmente compreso è che realizzare una Expo
nell’area di gravitazione di Venezia avrebbe comportato una poderosa accelerazione dei nefasti processi già in atto. Questa accelerazione è stata scongiurata. Adesso, dopo aver perso cinque
anni a contrastare una proposta sbagliata, si può ricominciare
a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta:
per governare il turismo, anziché per esaltarlo, per difendere le
attività ordinarie della città, per costruire le ragioni, e le occasioni, di uno sviluppo economico e sociale non effimero137.
Nonostante la potenza degli avversari e la spregiudicatezza della
136
137
Intervento al consiglio regionale, dattiloscritto (Archivio Edoardo Salzano).
E. Salzano, Scongiurato il disastro, «l’Unità», 13 giu. 1990, editoriale.
142
attese, tentativi, speranze, delusioni
loro azione, in quegli anni anche dall’opposizione si riusciva a vincere
buone battaglie. Naturalmente, pagando qualche prezzo. Gianni De
Michelis era passato dal Ministero delle partecipazioni statali (che gli
era stato utile per formare un fronte di promotori dell’Expo) a quello
degli Affari esteri. L’ufficio veneziano dell’Unesco fu chiuso e Maria
Teresa Rubin de Cervin punita per l’aiuto, sia pure discretissimo, che
aveva dato agli oppositori dell’Expo.
3. Il MoSE
Ciò che ci era riuscito con l’Expo non ci riuscì con il MoSE (Modulo
sperimentale elettromeccanico), il sistema per la difesa di Venezia dalle
alte maree. Se avevamo potuto sconfiggere i poteri forti che, mobilitati da Gianni De Michelis, avevano promosso quella manifestazione,
non riuscimmo a fare lo stesso quando arrivò in Laguna il possente
Consorzio Venezia Nuova, incaricato dal ministro socialdemocratico
Franco Nicolazzi, con una serie di atti dal 1981 al 1984 di provvedere
quale “concessionario unico”, e per conto dello Stato, agli studi, alle
ricerche, alle sperimentazioni, alla progettazione degli interventi, alla
realizzazione delle opere riguardanti il riequilibrio idrogeologico della
Laguna di Venezia, all’arresto e all’inversione dei processi di degrado
del bacino lagunare, alla difesa degli insediamenti urbani lagunari dalle
“acque alte” eccezionali.
Eravamo contrari a quella concessione (parlo in particolare del Pci
e del Pri, ma in quegli anni le critiche erano condivise dalla grande
maggioranza del consiglio comunale), per molte ragioni.
Due erano quelle principali. In primo luogo – e questo fu il punto
che fin dall’inizio contrastammo – l’inammissibile sottrazione di poteri
alle istituzioni democratiche: ogni scelta di merito, relativamente all’assetto fisico della Laguna, veniva affidato dallo Stato a un consorzio di
imprese private. In secondo luogo – e questo tema divenne via via più
chiaro nel tempo – la scelta di privilegiare, tra tutti gli interventi necessari per il riequilibrio idrogeologico del bacino lagunare, le opere hard
del progetto MoSE.
Raccontare in poche righe questioni così complesse e singolari è impresa impossibile. Mi limiterò a indicare alcuni elementi del problema138.
138 La questione è ampiamente trattata in eddyburg, cartella «Venezia e la Laguna»; ma vedi
anche E. Salzano, La Laguna di Venezia e gli interventi proposti, «Areavasta», 6 (2003).
143
capitolo decimo
Nonostante ciò che pensano molti una laguna non è assimilabile a
un qualsiasi altro specchio d’acqua. È invece un ecosistema particolarmente complesso, dalle caratteristiche morfologiche, vegetazionali e
faunistiche del tutto singolari, in equilibrio instabile, sollecitato da due
forze alternative: i fiumi, che vi portano le acque dolci e i detriti solidi,
e il mare che, con la forza delle maree, irrompe con l’acqua salata e
asporta la terra. Se vincono i fiumi la laguna si trasforma in una palude
e poi in terraferma, se vince il mare diventa una baia.
La Laguna di Venezia è l’unica rimasta tale per oltre un millennio,
grazie all’opera accorta della Repubblica Serenissima. Avevamo imparato molto, soprattutto approfondendo gli studi del piano comprensoriale139. La Laguna di Venezia poteva essere salvata solo se si ripristinava
l’equilibrio idraulico, morfologico ed ecologico compromesso dagli
interventi otto-novecenteschi (l’approfondimento dei canali che immettono l’acqua di mare, il restringimento del bacino acqueo mediante
l’interramento di sue vaste porzioni e l’arginatura di altre parti utilizzate per l’itticultura, l’emungimento dell’acqua dalla falda sotterranea).
Occorreva provvedere con un insieme di opere ispirate alla regola aurea
della Repubblica Serenissima, per cui ogni intervento in Laguna doveva
essere caratterizzato da tre requisiti: gradualità, sperimentalità, reversibilità.
Ben altra cosa era (e malauguratamente è) il progetto MoSE. Consiste infatti sostanzialmente in tre grandi strutture sommerse di calcestruzzo armato, dell’altezza corrispondente a un edificio di nove piani,
collocate ai varchi tra la Laguna e l’Adriatico, nelle quali sono incernierati 78 giganteschi portelloni d’acciaio, altri tra venti e trenta metri,
lunghi circa venti, spessi tra 3,5 e 4,5 metri, che dovrebbero sollevarsi
contrastando le onde marine quando l’altezza della marea superasse un
limite stabilito.
L’affidamento di poteri estesissimi a un consorzio di imprese, prevalentemente del settore delle costruzioni, e la concentrazione di tutti
gli sforzi non sull’impegno difficile del riequilibrio idraulico, morfologico ed ecologico, ma nelle grandi opere cementizie e acciaiose (per di
più in contrasto con i tre requisiti citati, e in particolare con quello della reversibilità): furono queste le maggiori ragioni di critica. Ma contro
il MoSE non si riuscì a costruire un insieme di alleanze (a Venezia, in
Italia, nel mondo) analogo a quello che ci consentì di sconfiggere l’Expo. Così il progetto MoSE è ancora oggi materia di un conflitto nel
quale l’opposizione al progetto è rappresentata quasi esclusivamente
139
Vedi capitolo 7, paragrafo 8.
144
attese, tentativi, speranze, delusioni
dal mondo ambientalista (in prima linea, da decenni, la sezione veneziana di Italia Nostra). Intanto, sempre più forte è diventato (grazie ai
cospicui finanziamenti statali) il potere del Consorzio Venezia Nuova,
sempre più chiara l’inefficacia del MoSE rispetto agli stessi fini dichiarati, sempre più devastanti gli interventi realizzati.
4. Rendiamo vivibili le città imparando dai campi
A volte il sindaco, il socialista Mario Rigo, mi chiedeva di sostituirlo in
qualche occasione “culturale” che aveva a che fare col mio mestiere di
urbanista. Portai il saluto della città a un convegno organizzato a Venezia da un’associazione statunitense, l’International Making Cities Livable
Conferences, creata e gestita da una coppia di cui divenni amico. Henry
Lennard, di origine mitteleuropea, era uno psichiatra che si era innamorato dei problemi della condizione urbana; Suzanne Crawford Lennard,
la moglie, era un architetto inglese. Vivevano da tempo negli Stati uniti
e organizzavano due volte all’anno degli incontri ai quali invitavano
esperti che, a vario titolo, si occupavano di problemi urbani: architetti e
planners, amministratori, filosofi, giornalisti, medici. In genere, una delle
conferences era negli Stati Uniti (e vi assisteva qualche centinaio di persone), e una, a partecipazione più ridotta, in Europa, prevalentemente a
Venezia, città che i Lennard amavano moltissimo.
Non mi limitai a una presenza formale e a un saluto ufficiale. Optai
invece per una chiacchierata sui problemi della città, che li interessò
molto. A mia volta partecipai per tutta la giornata alle loro discussioni.
Da allora mi invitarono sempre – e spesso partecipai – ai loro incontri.
Divenni membro del board, l’organo direttivo (meramente onorario,
visto che decidevano tutto da soli). Il loro lavoro consisteva nell’organizzazione delle conferences, e nella pubblicazione di qualche interessante
libro, collegato ai temi affrontati negli incontri.
Fu grazie a loro che in quegli anni, benché assorbito dai ruoli che
ricoprivo, continuai a occuparmi degli spazi pubblici. Questi, e l’attenzione ai gruppi sociali più deboli, costituivano il centro del loro
interesse. La loro attenzione alla città era fortemente declinata sul versante sociale. Utilizzavano molto la fotografia per commentare e illustrare i temi delle loro relazioni ma si indignavano (soprattutto Henry)
se qualcuno presentava immagini in cui si vedevano solo architetture
senza persone.
Erano entusiasti di quella vera e propria meraviglia che sono i campi
veneziani. A Venezia tornavano spesso, ogni volta che avevano l’occa-
145
capitolo decimo
sione di venire in Europa. Henry sosteneva che trascorrere una giornata
in campo Santa Margherita equivaleva alla frequentazione di un intero
corso di urbanistica. E devo dire che ho imparato sugli spazi pubblici
veneziani più da loro (dalle osservazioni di Henry e dalle splendide
lezioni di Suzanne) che da tutta l’urbanistica studiata e praticata. Ricordavo il loro insegnamento quando, qualche anno dopo la morte di Henry140, inviai al Word Social Forum di Nairobi una relazione141 su La città
come bene comune, nella quale decantavo i campi veneziani.
Raccontavo che «ho la fortuna di abitare in una città in cui gli spazi
pubblici si sono conservati intatti come secoli fa; si sono conservati nelle forme, nelle architetture, e si sono conservati nel rapporto che lega
spazi e persone». Mettevo in evidenza gli aspetti che mi sembravano più
significativi: la varietà e l’armonia delle diverse dimensioni e forme degli
edifici che racchiudono l’articolato spazio aperto; la dimensione degli
spazi, appropriata alla scala dell’uomo e alle opportunità di incontri tra
diversi gruppi di persone; l’integrazione tra funzioni private (le abitazioni che affacciano sul campo) e funzioni comuni (la chiesa, il palazzo
con la scuola o l’ufficio, la bottega e il laboratorio artigiano); l’assenza
di barriere nei rapporti tra le persone (a Venezia non ci sono auto, gli
spostamenti pedonali favoriscono i contatti e le relazioni); la presenza
costante di piccole utilità, come l’acqua che sgorga dalle numerosissime
fontanelle e le “pietre” presso cui sostare o riposarsi (gradini, muretti,
balaustre, sedili, vere da pozzo); l’apertura, lungo i bordi dei campi, di
numerosi piccoli passaggi coperti (i sottoporteghi) attraverso i quali le
persone attraversano il campo, creando libere e innumerevoli direttrici,
non percorrendo vie obbligate e trafficate. E sottolineavo soprattutto
l’animazione sociale dei campi, costituita dalla compresenza di persone
appartenenti a ceti, mestieri, età, condizioni personali diversi.
Osservare la vita in un campo veneziano, diceva Henry, significa
comprendere come nello spazio pubblico si rifletta e viva la società
nelle sue diversità e nei suoi incontri: il bambino con l’adulto, il ricco
col povero, il residente con lo straniero; come si possa stare con gli altri
e contemporaneamente isolarsi leggendo un libro o nutrendo il neonato, come si possa osservare ed essere osservati. Per quanto il concetto
di spazio pubblico si sia molto ampliato nelle mie successive ricerche
140 Henry Lennard morì a Venezia il 23 giu. 2005, durante una conference. Volle che le sue
ceneri fossero disperse nella Laguna.
141 La mia relazione fu presentata al convegno, organizzato a Nairobi il 22 gen. 2007 dall’associazione Zone onlus, sul tema «La città come bene comune. Quale futuro per i quartieri
informali?».
146
attese, tentativi, speranze, delusioni
ed esperienze, credo che il campo veneziano ne esprima le qualità e i
principi: appartenenza pubblica, permeabilità tra spazio privato e spazio
comune, libertà di accesso e di soggiorno, apertura al rapporto di conoscenza e collaborazione con gli altri, simili o diversi che siano, sintesi di
utilità e piacevolezza.
5. Ritorno all’università
Il lungo periodo in consiglio comunale, poi in quello regionale, mi
avevano costretto a essere poco presente all’università; il corso che i
miei colleghi mi assegnavano teneva conto della priorità del mio lavoro politico142. Giunti a termine nel 1990 i mandati elettivi, i colleghi
mi chiesero di impegnarmi in modo più intenso, anche assumendomi
responsabilità di gestione direttiva. Ero docente nel corso di laurea in
pianificazione urbanistica, attivato nel 1971 nell’ambito dell’Istituto universitario di architettura di Venezia (Iuav)143. I colleghi mi proposero il
ruolo di presidente del corso di laurea. Accettai.
Si trattava di un lavoro di gestione più che di carattere scientifico.
Oltre alla routine amministrativa bisognava coordinare i numerosi docenti alla cui assemblea spettava decidere su tutto ciò che riguardava la
didattica. A volte la tensione era alta tra le diverse componenti culturali.
Si erano costituiti due raggruppamenti, l’uno più orientato verso la
progettazione dei piani di livello urbano e territoriale, l’altro verso le
politiche urbane e territoriali. Facevano capo a due dipartimenti, quello
di urbanistica e quello di analisi economica e sociale del territorio (Daest). Benché formalmente io appartenessi al “settore scientifico disciplinare” della progettazione, ero considerato capace di mediare tra le
due posizioni. In realtà, se parte della mia attività era stata fino ad allora
142 Da quando, con la Repubblica post fascista e post liberale, l’elettorato passivo venne
aperto a tutti i cittadini e non riservato ai ricchi possidenti, la legislazione consentì a chi lavorava di mantenere il posto di lavoro e i relativi diritti economici, pur assentandosi per svolgere
prioritariamente gli impegni di eletto. Era la traduzione in termini contemporanei della regola
dell’Atene ai tempi di Pericle, quando «si decise di retribuire con soldi pubblici l’equivalente di
una giornata lavorativa a coloro che si recavano in città per sedere in assemblea o nelle giurie
popolari», N. Urbinati, Lo scettro senza il Re. Partecipazione e rappresentanza nelle democrazie moderne,
Roma, Donzelli, 2009, p. 7.
143 Lo Iuav era un ateneo costituito, a differenza degli altri atenei italiani, da una sola
facoltà, quella di architettura. Nell’ambito dello Iuav era stato istituito un corso di laurea in
urbanistica (poi pianificazione urbanistica e territoriale, poi pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale). Nel 2001 lo Iuav si articolò in più facoltà: architettura, pianificazione,
conservazione, design.
147
capitolo decimo
di tipo professionale, una parte abbastanza consistente era sulla riflessione teorica e sulla pratica politica.
La mediazione non fu facile, sia per le caratteristiche e i caratteri
delle persone (che incidono molto fortemente nella comunità accademica, forse più che altrove), sia per il forte squilibrio tra la sostanziale
compattezza dei docenti afferenti al Daest e la fragilità dell’altro dipartimento. Il primo aveva una sua forte individualità e una storia ricca di
produzione scientifica collegiale di buon livello, mentre nel dipartimento di urbanistica, cui facevano capo anche docenti del corso di laurea in
architettura, la figura prevalente era quella del professionista.
6. La riforma del tre+due
La discussione della riforma denominata nel linguaggio corrente (malauguratamente) tre+due mi impegnò molto. Facemmo numerosissime e
utili riunioni collegiali, sia a Venezia, sia in altre sedi (a Genova, in Calabria, a Roma) tra docenti di tutte le facoltà di architettura. Prima ancora
che la riforma fosse formalizzata, discutemmo sulla base di un documento che ci parve molto interessante e il cui spirito sostanzialmente
condividevamo, redatto da una commissione coordinata dal sociologo
Guido Martinotti.
Della sua proposta mi piacevano molte cose. La concezione dell’apprendimento come attività che prosegue tutta la vita, alternandosi con
fasi di lavoro (il long life learning); l’introduzione dei “crediti formativi”
misurati sull’impegno complessivo degli studenti, anziché limitato al
solo tempo delle lezioni; la calibratura della durata degli studi sulla capacità di apprendimento degli studenti, e non su un tempo misurato sugli
impegni didattici dei docenti. E ancora: la possibilità per gli studenti di
passare facilmente da una università all’altra in relazione ai programmi
di studio; la formazione di strutture per l’orientamento degli studenti in
tutto il ciclo formativo; il monitoraggio dell’efficacia della didattica; la
disponibilità di un numero adeguato di tutores.
In realtà ci rendevamo conto che organizzare secondo i nuovi princìpi l’università italiana significava introdurre molte novità: cambiare le
modalità di lavoro dei docenti, dare agli studenti la possibilità di lavorare comodamente all’università e di abitare nelle sue vicinanze, reclutare
un numero maggiore di personale didattico, formare coordinamenti
efficaci tra le diverse unità didattiche (tra le università e tra le varie
componenti di una stessa università), rendere trasparenti i risultati della
didattica. In un documento discusso nel nostro ateneo scrivevo:
148
attese, tentativi, speranze, delusioni
Il quadro delineato dal documento [di Martinotti] è così
distante dall’attuale assetto (puntualmente, sinteticamente e
impietosamente descritto nel documento stesso) che è lecito
dubitare sull’effettiva applicazione dei proposti indirizzi da
parte della generalità degli atenei italiani. Ciò non dipende solo
dalla distanza tra modello proposto e realtà attuale, ma anche
dal fatto che il documento si occupa solo dell’ordinamento
didattico e non affronta i temi al primo strettamente connessi,
quali quelli del finanziamento statale ai servizi per gli studenti,
dello stato giuridico della docenza, della struttura complessiva
dell’università, della programmazione degli accessi144.
Ma parlamento e governo non provvidero a fornire gli strumenti
normativi e finanziari necessari per affrontare l’insieme dei problemi
che la riforma poneva. Fu invece attuato un’altro aspetto della riforma
che a me, al momento, era sfuggita. Il nuovo ordinamento universitario (come fu realizzato, ma forse già come venne concepito) spingeva
verso una “aziendalizzazione” della formazione universitaria, operata
su due piani. Da una parte, si voleva organizzare l’università secondo un modello aziendale, preoccupato soprattutto di massimizzare i
risultati quantitativi (la stessa scelta delle parole usate nei documenti
della riforma tradiva questa impostazione). Dall’altra parte, si voleva
spingere su una università fortemente modellata sulle esigenze della
domanda di operatori avanzata dalle aziende. Su entrambi i piani si
tendeva insomma a tagliare l’essenziale missione dell’università: sviluppare la capacità critica, creativa, inventiva degli studenti (cioè delle
fasce più acculturate della popolazione, i futuri membri delle sue classi dirigenti), renderli capaci di guardare oltre il presente, oltre i modi
in cui sono oggi organizzati l’economia, il territorio, i rapporti tra gli
uomini, i saperi.
7. Le parole
Per parte nostra, cercammo di applicare al meglio le nuove regole.
Programmammo la didattica secondo i due cicli: un ciclo triennale, finalizzato a fornire le conoscenze ed esperienze necessarie per collaborare alla formazione di atti di pianificazione e, contemporaneamente,
144 E. Salzano, Valutazione sul Rapporto conclusivo del gruppo di lavoro del Murst coordinato da
G. Martinotti, dattiloscritto, 12 mar. 1998, Iuav, Corso di laurea in pianificazione territoriale,
urbanistica e ambientale (Archivio Edoardo Salzano).
149
capitolo decimo
a porre le basi teoriche per un successivo apprendimento; un secondo
ciclo, finalizzato a completare l’apprendimento con quelle capacità e
conoscenze necessarie a svolgere, in piena autonomia, uno dei mestieri dell’urbanista. Sollecitavamo gli studenti a svolgere una concreta
esperienza di lavoro (un tirocinio) tra il primo e il secondo ciclo, e costruimmo una rete di contatti con una serie di uffici, soprattutto pubblici, (Comuni, Province, Regioni e altri analoghi organismi) disposti a
ospitare i nostri studenti per attività utili all’apprendimento.
Modificai anche il mio apporto alla didattica. Prima svolgevo un
corso di «Fondamenti di urbanistica» che occupava una intera annualità. Nel nuovo ordinamento introducemmo un corso, di durata più
limitata, che chiamammo «Glossario». Si trattava di trasmettere agli
studenti, in modo semplice ma rigoroso, il significato di parole che
avrebbero subito cominciato ad adoperare negli altri corsi e laboratori
del triennio, e che avrebbero sviluppato nel ciclo successivo.
Davo molta importanza alle parole, al loro carattere spesso ambiguo, alla pluralità di significati ad esse attribuita, alla loro origine ed
evoluzione, al loro impiego corrente nel nostro campo, agli strumenti
cui servivano o si riferivano.
Il contributo che chiedevo agli studenti era la costruzione, da
parte di ciascuno, di un glossario, nel quale inserire i vocaboli nuovi
incontrati nelle frequentazioni universitarie e nelle letture. Di alcune
parole chiave li stimolavo a cogliere le differenze tra le varie accezioni
e interpretazioni adoperate, per esempio, dai loro docenti. Suggerivo
a chi conosceva bene una lingua straniera di cercare e di annotare le
corrispondenze con le espressioni italiane. Mi sarebbe piaciuto che
adottassero il loro glossario come uno strumento permanente di lavoro, un attrezzo da usare nel tempo. Anche per questo li invitavo a
costruire il glossario con strumenti semplici e facilmente aggiornabili:
per esempio una tabella word o un database excell, anziché un elegante
ma poco funzionale power point. Già, perché nel frattempo svolgevo
anche un piccolo corso per aiutarli ad adoperare gli strumenti digitali
più semplici.
La mia esperienza universitaria a Venezia si concluse con la trasformazione del corso di laurea in facoltà: costituimmo la prima, e
finora unica, facoltà di pianificazione del territorio italiana. Un anno
dopo la sua formazione, raggiunsi i limiti d’età e andai en repos, come
dicono i francesi; in pensione, come si dice da noi.
150
attese, tentativi, speranze, delusioni
8. Il Pci nella bufera
Come tutti i simboli che cambiano la Storia, anche la caduta del Muro
di Berlino, il 9 novembre 1989, fu un episodio che riassunse il passaggio
da un’epoca a un’altra: un passaggio che era già cominciato, e che proseguì negli anni successivi.
Nel 1917 era iniziata una vicenda che voleva tracciare un percorso
nuovo all’umanità: costruire un sistema economico sociale che superasse definitivamente quello capitalistico-borghese. Contraddicendo le
ipotesi che derivavano dall’analisi marxiana, quel processo non iniziò
nel punto più alto dello sviluppo, ma nel più basso: la catena si spezzò
là dove era più debole. Ciò non poteva non determinare le forme del
nuovo assetto e segnare limiti invalicabili al suo stesso sviluppo. Dopo
la prima affermazione di uno Stato non più a egemonia borghese, il
percorso avrebbe dovuto proseguire in altre regioni, incrociarsi con
altre culture e altre storie, mirando a superare non solo il capitalismo
borghese, ma anche quello dello “stato proletario”.
Ciò non era accaduto: il cammino della rivoluzione (cioè della trasformazione radicale dell’assetto economico sociale) si era arrestato ai
confini segnati da quella “cortina di ferro” entro la quale essa era stata
racchiusa. Enrico Berlinguer espresse pubblicamente questo concetto
quando, nel 1981, commentando alla televisione il brusco cambiamento
di regime avvenuto in Polonia, disse che
la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno
di alcune società, che si sono create nell’est europeo, è venuta
esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata
per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione
socialista d’ottobre, il più grande evento. Oggi siamo giunti a un
punto in cui quella fase si chiude, e per ottenere che anche il socialismo che si è realizzato nei paesi dell’est possa conoscere una
nuova era di rinnovamento e di sviluppo democratico, sono necessarie due cose fondamentali: prima di tutto è necessario che
prosegua il processo della distensione (…); inoltre, è necessario
che avanzi un nuovo socialismo nell’ovest dell’Europa, nell’Europa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato
sui valori e sui principi di libertà e di democrazia145.
Prima della caduta del Muro, era iniziato nel Pci un ampio dibattito
sulla necessità di cambiamento. Era divenuto segretario generale Achille
145
La spinta propulsiva non c’è più, in eddyburg.
151
capitolo decimo
Occhetto, il cui arrivo «segnò un vero e proprio ricambio generazionale
ai vertici del Pci»146. Il partito era in piena crisi, lacerato dal contrasto
tra le spinte verso una “modernizzazione” vicina a quella in cui Craxi
era l’alfiere e la resistenza in nome della tradizionale identità. La caduta
del Muro (9 novembre 1989) spinse Occhetto a rompere precipitosamente gli indugi: nella cosidetta “svolta della Bolognina” (dal nome della sezione del partito in cui la annunciò) aprì la strada a una trasformazione profonda, che giunse alla sua conclusione nel congresso di Rimini
(febbraio 1991). Della fine del Pci parlerò in seguito. Qui mi limito ad
annotare che la discussione fu molto aspra, condusse allo scioglimento
del Pci e alla formazione di due nuovi partiti: il Pds (Partito democratico della sinistra), in cui confluì la maggior parte degli iscritti, e il Prc
(Partito di rifondazione comunista).
Condivisi la scelta della maggioranza del Pci. Tra gli altri elementi di
novità mi piaceva il ruolo assegnato da Occhetto alla questione dell’ambiente. Il simbolo del nuovo partito lo esprimeva chiaramente: una
quercia dalla verdissima chioma aveva al suo piede l’icona tradizionale
del Pci, con la falce e il martello emblemi del lavoro operaio e contadino. La frase che lo commentava, tratta dal documento maggioritario
della svolta, era la seguente:
Il nuovo simbolo vuole raffigurare, accanto agli antichi
strumenti del lavoro, che rappresentano la funzione storica del
movimento operaio, la dimensione che assume, nell’impegno
del nuovo partito, il rapporto con la natura e l’obiettivo di
un’umanità pacificata con sé e con l’insieme del mondo naturale.
Il verde che si unisce al rosso vuole trasmettere un messaggio di
vita, di speranza e di lotta per il futuro.
9. Nel Pds veneziano
Anche a Venezia, nel Pci, le spinte al cambiamento erano state forti.
Ero membro del comitato regionale, e fui chiamato in più occasioni a
discutere le nuove scelte. A un certo punto mi fu chiesto di assumere
un ruolo dirigente. Nel giugno del 1992 il segretario della federazione
fu chiamato a Roma, dove era stato eletto deputato. Contemporaneamente accadde un avvenimento che mi lasciò di stucco: due dirigenti
della federazione erano stati accusati di aver ricevuto un finanziamento
146
Ginsborg, L’Italia del tempo presente, p. 298-299.
152
attese, tentativi, speranze, delusioni
personale da una società della Fiat in cambio di favori. L’emozione fu
vivissima. Il gruppo dirigente decise di azzerare le cariche e di proporre
per quelle più rilevanti persone di indiscutibile onestà.
Il nuovo segretario fu Angelo Zennaro: docente al liceo artistico, aveva lavorato molto nelle associazioni della “società civile”147.
Un uomo, insomma, che veniva dal movimento e non dall’apparato.
Per analoghe ragioni chiesero a me di divenire il presidente del comitato
federale148.
Non me ne rendevo conto compiutamente, ma le lotte tra le diverse
correnti erano violentissime: per finanziare le correnti in campagna elettorale (il cui esito avrebbe determinato il peso delle diverse posizioni)
non si aveva esitato a procurarsi risorse in modi illegittimi; l’ombra di
Tangentopoli si allungò fino al partito veneziano, anche se non ci furono mai prove che testimoniassero che, per i contributi ottenuti, si fossero forniti aiuti illegittimi. Ma certo è – come risulta dalle dichiarazioni di
uno degli imputati – che i finanziamenti erano serviti per a campagna
elettorale interna della corrente che faceva capo a D’Alema.
Angelo e io avviammo un buon lavoro. Il nostro obiettivo era favorire al massimo la discussione nel partito, più aspra che vivace, senza
assumere pregiudizialmente posizione per nessuna delle fazioni in
campo. Accanto a questo, ci impegnammo molto a riscrivere le regole
in alcuni settori chiave. Ma invece di discutere le nostre proposte con
il gruppetto di persone che contava (“la cupola”, diceva Angelo), come
forse ci si aspettava, le presentavamo subito agli organismi collegiali che
presiedevamo. Angelo scrisse un documento sulle norme finanziarie
relative alla ricerca di fondi e la loro spesa. Io stesi un regolamento del
funzionamento del comitato federale.
Introdussi tre innovazioni che, per quei tempi, erano piuttosto
audaci. Le riunioni del comitato dovevano essere aperte: il dibattito
doveva essere trasparente, aperto anche ai giornalisti. Tutti dovevano poter partecipare alle riunioni, anche le donne, anche i lavoratori
che si svegliavano presto il mattino: nelle lettere di convocazione era
indicato perciò anche l’orario di conclusione della seduta, e riuscivo
sempre a farlo rispettare. Infine, il nuovo statuto del partito proibiva
di fumare nelle riunioni, e io feci rigorosamente rispettare il divieto,
147 Si usava e si usa ancora questa espressione per esprimere il mondo che nasce dalla società distinguendosi dalle organizzazioni politiche o istituzionali standardizzate; sostanzialmente,
l’insieme delle associazioni poco formalizzate.
148 Gli organi di direzione del partito, dal più largo al più ristretto, erano: il comitato federale,
la direzione, la segreteria, il segretario. Il primo era costituito da un centinaio di membri.
153
capitolo decimo
non solo ammonendo i fumatori renitenti ma anche alzandomi dalla
presidenza e accompagnandoli materialmente fuori dell’aula.
L’operazione più complessa in cui mi cimentai in quella fase fu
la costituzione di una nuova maggioranza nel consiglio comunale di
Venezia, per le elezioni del 1993. Nel 1985 si era dissolta quella che
aveva governato nel decennio precedente (Pci, Psi, Pri). L’alleanza
che i socialisti avevano costruito con la Dc non si era rivelata stabile:
le crisi si erano succedute, le maggioranze si erano alternate, scomposte e ricomposte. I sindaci erano cambiati più volte. Mentre Mario
Rigo, sindaco della “giunta rossa”, era rimasto in carica dal 1975 al
1985, dal 1985 al 1990 si erano alternati Laroni (Psi, Dc, Psdi), Casellati (che conferma gli assessori della giunta precedente), Degan (stessa
giunta), di nuovo Casellati (Pri, Pci, Psi, Psdi, Verdi). Nuove elezioni
nel 1990, sindaco Bergamo (Dc, Psi, Psdi), poi una serie di crisi e di
rimpasti finché, nel 1993, sindaco e giunta si dimisero e, dopo un periodo di commissariamento, si elesse un nuovo consiglio.
Nel frattempo, l’indagine dei magistrati milanesi aveva scoperchiato il pentolone di Tangentopoli e i partiti più direttamente coinvolti
erano entrati in crisi profonda, mentre il Pci, divenuto Pds, benché
travagliato dagli eventi internazionali e con ombre evidenti in alcune
situazioni locali (come a Venezia) aveva retto meglio.
In quella fase riuscimmo a compiere un’operazione che ci sembrò
molto promettente. Partendo dalla definizione di un programma di
governo comune (alla cui stesura lavorammo soprattutto Gigi Scano
e io) riuscimmo a stabilire un accordo molto ampio, che coinvolgeva
tutti i gruppi politici in vario modo collocati su posizioni di centro e
di sinistra, nonché le aggregazioni che emergevano dalla società civile.
Come presidente del comitato federale del Pds, quindi del partito
più rilevante nell’operazione, mi spettò il compito di presentare anche
la proposta dei nomi da indicare all’alleanza come candidato sindaco:
proposi una terna composta da Gianni Pellicani, Cesare De Piccoli e
Massimo Cacciari. Quest’ultimo aveva già preso da qualche anno una
serie di iniziative per riflettere sulla città e formulare proposte per il suo
governo, coinvolgendo soprattutto ambienti della cultura e della politica
(ma anche dell’imprenditoria meno ottusa), che avevano accresciuto
il suo credito di uomo intelligente e aperto. Il suo nome come futuro
sindaco circolava ampiamente anche fuori dal partito. Alcuni di noi avevano qualche perplessità, ma fummo indotti a superarle sia dall’ampio
consenso che sul suo nome si era formato nell’ambito dell’alleanza, sia
dal fatto che le norme allora vigenti impegnavano fortemente sindaco
e giunta a rispettare il programma col quale si presentavano all’elettora-
154
attese, tentativi, speranze, delusioni
to. Ritenevamo che il programma che avevamo stilato, e che l’alleanza
approvò all’unanimità, fosse abbastanza dettagliato e chiaro, e tale da
vincolare alle scelte definite qualsiasi sindaco che l’avesse sottoscritto.
Bastarono pochi mesi per convincerci che avevamo sbagliato.
10. Città storica di Venezia: il piano distrutto
Il nuovo sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, era stato molto incerto
sulla persona da scegliere come responsabile politico dell’urbanistica.
Chiese il mio parere su una rosa di nomi vasta e contraddittoria; ebbi
l’impressione che non avesse le idee molto chiare sulle diverse posizioni
culturali. Scelse un architetto operante a Venezia, Roberto D’Agostino,
molto legato a Leonardo Benevolo (con cui aveva redatto una proposta
urbanistica negli anni della discussione della legge speciale del 1973). Era
iscritto al Pds e apparteneva alla corrente di sinistra. Molto rapidamente,
iniziò una violenta campagna di denigrazione della politica urbanistica
seguita fino ad allora e dei suoi documenti conclusivi. Appoggiato dal sindaco, tuonava contro i «lacci e lacciuoli» del piano per la città storica, criticava la «imbalsamazione della città» che la politica urbanistica degli anni
precedenti (tutti gli anni, compresi quelli delle giunte rosse) aveva provocato. Troppe regole, troppa burocrazia, troppo poco mercato e scarsa attenzione agli investitori. Erano gli slogan dell’epoca, praticati anche dalla
sinistra, che la portarono via via nel baratro delle sconfitte di questi anni.
In effetti, il primo atto che la giunta Cacciari fece approvare al consiglio fu la revoca di una deliberazione della giunta Casellati, nella quale,
in applicazione di una legge nazionale, si ponevano alcuni vincoli alla
trasformazione di esercizi commerciali tradizionali a quelli in contrasto
con le caratteristiche della città storica. Sulla base di quella deliberazione
si era riusciti a impedire l’invasione di Venezia da parte dei fast food, che
subito esplosero dappertutto. Ma era stato solo il primo di una catena
di atti, tutti nella stessa direzione.
Il piano della città storica era stato adottato nel 1992 ed era stato
pubblicato. Era stato presentato un numero modesto di osservazioni,
per ciascuna delle quali erano state formulate le controdeduzioni. Tutto
insomma era pronto per l’approvazione. Ma invece di completare l’iter
del piano, si avviò subito il suo smantellamento. Gigi Scano ne ha raccontato con precisione i vari passaggi in uno scritto del 1997149.
149
L. Scano, Quale piano per la città storica di Venezia?, in Venezia: terra e acqua, p. 381-408.
155
capitolo decimo
I punti sostanziali delle modifiche apportate al piano dalla giunta
Cacciari-D’Agostino consistono nella sostituzione a «un complesso di
regole, certe ed uguali per tutti», stabilite secondo le procedure trasparenti della pianificazione urbanistica, di «un procedimento discrezionale,
nel quale deciderebbero, caso per caso, un organo tecnico ed un organo
politico» legittimati a decidere, «di volta in volta, sui singoli casi concreti,
senza predefiniti criteri di valutazione». Lo spostamento dalle regole alla
decisione discrezionale vale sia per la tutela della struttura fisica degli edifici
(dove il promotore della “liberazione” dalle regole è il proprietario interessato), sia per quella delle utilizzazioni. Il controllo della modifica delle utilizzazioni – decisivo per contrastare la trasformazione della città da
luogo della residenza dei suoi abitanti e delle connesse attività, a luogo
di un turismo e di una speculazione forsennata – era raggiunto, nel piano del 1992, mediante una procedura trasparente, rigorosa ma flessibile:
era il consiglio comunale che, ogni quinquennio, decideva quali, delle
utilizzazioni teoricamente compatibili con le caratteristiche strutturali
degli edifici, potevano essere attivate o meno. E, naturalmente, nel primo quinquennio il piano tutelava la residenza ordinaria e alcune specifiche attività economiche.
Tutto questo è saltato. I documenti del piano sono stati rimaneggiati
e stravolti. La città storica è diventata un fecondo pascolo per tutte le
speculazioni in vario modo legate all’appropriazione vorace di ogni rendita consentita dalla storia della città e dalla qualità che i saggi amministratori del passato avevano saputo creare. Ogni tanto dai governanti si
levano alti lamenti per i danni che il turismo provoca, ma nessuno ha il
coraggio di domandarsi per colpa di chi e di che cosa ciò è avvenuto.
156
10. Con Barbara e nonna Carmela Salzano, 1960.
11. Con Peppe Loy e Tommaso Boccardi, sulla spiaggia di Fregene, 1954.
157
12-15. Alcune delle riviste che mi hanno impegnato.
16. Franco Rodano con la figlia Giulia.
158
17. Con Henry Lennard, alla International Making Cities Livable Conference di Salisburgo,
settembre 2002.
159
18. I miei figli: Mauro, Francesco, Anna, Maria, Giulia e Giovanni, Venezia, 1980.
19. Visita a campo Ruga, nell’area interessata dal primo piano di coordinamento, 1977.
160
Capitolo undicesimo
Il mestiere dell’urbanista
1. Un pensionato, libero di pensare
Nei primi anni del nuovo secolo continuai a insegnare e a lavorare allo
Iuav: ero il rappresentante dello Iuav in Urbandata, la struttura europea
che raggruppava in un unico progetto le strutture pubbliche di documentazione urbanistica150; e per un breve periodo feci il delegato del rettore
per l’informatica. Lavorai, come ho detto, alla trasformazione del corso
di laurea in facoltà: costituimmo la prima, e ancora oggi unica in Italia,
facoltà di pianificazione del territorio, di cui fui preside per un anno.
Mi avvicinavo al momento della pensione, che avvenne senza particolari cerimonie o traumi. Nel frattempo, avevo costruito, inconsapevolmente, le basi di quello che sarebbe diventato il mio principale, se
non addirittura esclusivo, impegno degli anni successivi: il mio sito web,
eddyburg. Di questo parlerò diffusamente più avanti. Esso fu lo sviluppo
dell’esperienza che avevo avviato curando poche pagine del sito ufficiale
dello Iuav nel quale inserivo materiali didattici e di ricerca, nonché altri
documenti interessanti. Avevo cominciato a praticare un modo nuovo
di comunicare, di insegnare e imparare, di lavorare nella società.
Con il pensionamento si completò la mia nuova condizione. Non
ero più assessore, né avevo altri incarichi elettivi. Non avevo più vincoli
o doveri di orario, di presenza, di rappresentanza. Non svolgevo più
funzioni dirigenti in nessuna formazione politica. Non avevo obblighi
150 L’associazione Urbandata è un consorzio fra produttori di informazioni sull’«abitare»
nella Comunità europea. Mira a favorire lo scambio internazionale e la diffusione delle informazioni in materia di urbanistica e pianificazione, architettura ed edilizia.
161
capitolo undicesimo
né remore, non esprimevo né rappresentavo più nulla e nessuno, se
non me stesso. La mia stessa militanza politica si era dissolta. Quando il
Pci, dopo essersi trasformato nel Pds, aveva ulteriormente modificato
composizione e denominazione diventando Ds (1998), non rinnovai la
tessera.
Mi guardavo in giro. Urbandata mi aveva fatto conoscere ambienti
diversi: le riunioni si tenevano, di volta in volta, presso una delle strutture associate: Londra, Parigi, Berlino, Madrid, Budapest. Mi avevano
invitato a Lione, per un mese di incontri e lezioni ospite di una singolare struttura associativa, il Pôle de competences en urbanisme151, poi come
membro del Comité d’orientation d’un importante ente statale di ricerca,
il Certu (Centre d’études sur les reseaux, les transports, l’urbanisme et les bâtiments publics).
Avevo più tempo per impegnarmi nel lavoro professionale, ciò
che avvenne soprattutto a Foggia e in Sardegna. Continuavo a tenere
qualche corso universitario, prima alla facoltà d’ingegneria a Trento e
poi di nuovo allo Iuav, dove fui professore a contratto per un modulo
di “legislazione urbanistica” e uno dal titolo “Il mestiere dell’urbanista”. Quest’ultimo tema mi interessava molto. La libertà dagli incarichi
istituzionali – l’uscita dal bunker – mi spingeva a riflettere sul mestiere
che avevo abbracciato e via via praticato nelle sue diverse applicazioni.
La tesi che condividevo con Vezio da molti anni era che il ruolo dell’urbanista ha uno spiccato carattere pubblico: secondo noi, la figura
dell’urbanista è simile a quella del diplomatico, nel senso che per nessuno dei due è pensabile un lavoro a servizio del privato.
2. «Micromega» e l’altra Italia possibile
Eravamo entrati in una fase difficile per l’urbanistica. Era giunto a
piena maturazione quel mutamento iniziato con la svolta del craxismo
vent’anni prima e, poco più tardi, con l’abbandono da parte della sinistra d’ogni rigore sui temi del territorio. Mi colpì molto un numero
monografico della rivista progressista «Micromega» del 2002, dal titolo
Un’altra Italia è possibile. Una ventina di saggi delineavano un programma
151 Il Pôle è una interessante struttura che raggruppa tutti i soggetti, prevalentemente pubblici ma anche privati, che hanno competenze in relazione alla concezione e attuazione dei
programmi urbanistici di trasformazione, allo studio, alla ricerca e alla formazione nelle materie coinvolte; esso ha come fine lo sviluppo degli scambi, la conduzione di progetti in comune,
l’offerta di una capacità di consulenza interdisciplinare.
162
il mestiere dell’urbanista
alternativo a quello della destra, che da un anno dirigeva il paese col secondo governo Berlusconi. L’urbanistica, la pianificazione del territorio,
le politiche urbane erano del tutto assenti. Scrivemmo una lettera aperta
al direttore della rivista, Paolo Flores d’Arcais, nella quale raccogliemmo l’adesione di 75 urbanisti152. Dichiaravamo di essere «fortemente
preoccupati per un’assenza che francamente ci sembra clamorosa». E
proseguivamo:
Se nei capitoli del programma di Micromega non mancano
(e giustamente) la sanità e la giustizia, l’immigrazione e il lavoro,
l’università e le carceri, l’ambiente e i beni culturali (e altri numerosi temi), manca completamente il territorio. Questo, infatti,
non si riduce all’ambiente (nell’accezione che questo termine ha
assunto negli ultimi decenni, e che è ben rappresentato nel testo
di Ermete Realacci) né ai beni culturali (nonostante l’accezione giustamente ampia che Salvatore Settis attribuisce a questa
espressione). Ragionare e proporre un capitolo del programma
per un’altra Italia che riguardi il territorio e la città significherebbe infatti farsi carico insieme delle ragioni dell’ecologia e di
quelle dell’armatura urbana del nostro territorio, della tutela
della natura e della dotazione delle infrastrutture, della difesa del
paesaggio e del miglioramento delle condizioni di vita nelle città.
Concludevamo scrivendo: «Ci sembra che l’assenza del territorio e
della città, dell’urbanistica, della pianificazione tra i 24 capitoli del programma proposto da Micromega sia un’assenza grave. Sarebbe utile, sulla sua Rivista, aprire una discussione sulle ragioni di questa assenza. Che
non sono certamente né la distrazione né la fretta ma – forse – qualcosa
di più profondo, su cui tutti dovremmo interrogarci». Non ricevemmo
alcuna risposta, nonostante le molte firme “pesanti” tra i firmatari.
Avevamo in mente anche questo episodio quando, alla fine del 2002,
discutendo con alcuni amici urbanisti impegnati nella pianificazione territoriale e urbana, convenimmo sul fatto che, in Italia, il ruolo dell’urbanista pubblico (dell’urbanista che ha scelto come centro della sua attività
il ruolo di funzionario nell’amministrazione pubblica) non è sufficientemente considerato, a differenza di quanto avviene in altri paesi europei.
Ci sembrava che l’urbanista pubblico avesse un ruolo particolarmente
rilevante in un momento – quello attuale – nel quale la funzione di strumento dell’interesse collettivo che caratterizza l’urbanistica viene negata,
o dimenticata, o considerata marginale. Decidemmo di costituire un’as-
152
Dov’è il territorio. Lettera a Paolo Flores d’Arcais, in eddyburg.
163
capitolo undicesimo
sociazione che assumesse questo ruolo come fondativo, e si proponesse
di rappresentare ed esprimere gli interessi culturali e professionali degli
urbanisti impegnati sul fronte, oggi particolarmente difficile, dell’amministrazione pubblica. Marco Guerzoni scrisse un nota, che pubblicai su
eddyburg153. Organizzammo una riunione a Bologna154, dove decidemmo
di avviare l’associazione. Purtroppo gli urbanisti pubblici sono molto
impegnati: nessuno ebbe il tempo di occuparsi seriamente della cosa e
l’iniziativa si impantanò.
3. Chi è l’urbanista
Nel settembre 2005, l’amico e collega Bibo Cecchini, che dallo Iuav era
passato alla nuova facoltà di architettura di Sassari-Alghero, mi invitò a
tenere una lezione sul “mestiere dell’urbanista”155.
Nella mia interpretazione, il mestiere dell’urbanista è nato per rispondere alla necessità di tutelare, nell’organizzazione della città, alcuni
interessi collettivi di cui la logica del mercato era incapace di tenere conto.
Le contraddizioni, e i relativi problemi pratici, si sono spostati nel tempo dalla città ad ambiti più vasti: dalla città al territorio. Agli interessi comuni della funzionalità e della bellezza altri se ne sono aggiunti: anche
la tutela dei valori dei beni storici e culturali, anche l’impiego razionale
e parsimonioso delle risorse naturali e dell’ambiente si rivelarono via via
come beni e interessi non tutelabili dalle leggi dell’economia, e richiedevano quindi un intervento regolatore esterno. Di questo intervento regolatore
si fece carico – sul piano sostanziale della decisione – l’autorità politica:
cioè, nel sistema democratico, il sistema dei poteri rappresentativi eletti
direttamente dalla popolazione.
153
154
M. Guerzoni, Ragionando di utilità pubblica dell’urbanistica, in eddyburg.
La riunione si svolse nell’aprile 2004 a Bologna. C’erano gli urbanisti Piero Cavalcoli,
Mariangiola Gallingani, Marco Guerzoni, Elettra Malossi, Alessandro Delpiano (Provincia di
Bologna), Maurizio Sani (Regione Emilia Romagna), Elena Camerlingo (Comune di Napoli),
Stefano Fatarella (Regione Friuli-Venezia Giulia), Elisa Spilotros (Comune di Pontassieve).
E ricordo adesioni, oltre che di altri bolognesi e napoletani, da Eboli, Foggia, Lecce, Sesto
Fiorentino, Cesena, Lastra a Signa.
155 Intitolai la lezione «Il mestiere dell’urbanista in una società di lupi» (con questo titolo anche in eddyburg). Il riferimento esplicito era al disegno di legge urbanistica presentata dall’onorevole Lupi di Forza Italia, che distruggeva l’urbanistica pubblica in Italia; quello implicito
era il ricordo del tema che, al suo primo anno d’università, aveva svolto il mio allievo e amico
Ivan Blecic, anche lui docente ad Alghero: per descrivere l’urbanistica, partiva dalla condizione
hobbesiana dell’uomo “homini lupus” nella società.
164
il mestiere dell’urbanista
Nacque, e via via si sviluppò, la figura professionale destinata alla
formulazione tecnica degli strumenti per il governo delle trasformazioni
territoriali, l’urbanista, depositario dei saperi e mestieri tecnici necessari
per fornire le basi alle decisioni dell’autorità politica riguardanti il territorio. Il metodo e gli strumenti che egli adopera sono quelli della pianificazione urbanistica, che costituisce – secondo la felice definizione di
Francesco Indovina – il prodotto di «una volontà politica tecnicamente
assistita».
Poiché i saperi e i mestieri dell’urbanista sono un ventaglio molto
ampio, il terreno di lavoro è essenzialmente interdisciplinare. Dai contributi degli esperti nelle altre discipline (storici, giuristi, economisti, sociologi, naturalisti, geologi, ecc.), l’urbanista deve trarre ciò che serve a
sorreggere le decisioni che spettano al politico. Egli è perciò in qualche
modo la cerniera tra le varie competenze e il governo. Non ha autonomia rispetto alle decisioni, poiché queste, in un regime democratico,
spettano a chi rappresenta la collettività, all’eletto (il politico).
Ma il politico può guidarla, indirizzarla, orientarne i comportamenti, oppure può subirne le pulsioni, trasformarsi da timoniere a mosca
cocchiera. Può succedere (ed è quello che accade nei nostri anni) che
il politico assuma come valori da privilegiare non quelli dell’interesse
collettivo e dell’equilibrio tra persona e società, ma quelli dell’individualismo liberato da ogni regola volta a garantire il perseguimento di interessi generali (come quello della giustizia sociale, della libertà per tutti,
dell’espressione di ogni pensiero).
In una simile situazione all’urbanista si aprono due strade: rimanere
fedele ai princìpi propri del suo ruolo sociale, e allora entra in conflitto
con quella politica che si è piegata ai venti dominanti; oppure piegarsi
anche lui. È quello che è largamente accaduto in Italia. Lo testimonia
la svolta dell’Inu negli anni Novanta, che aveva visto la sconfitta delle
nostre posizioni, e che si è consolidata e ampliata. I nostri maestri sono
diventati dei cattivi maestri. Il significato del ruolo pubblico dell’urbanista si è affievolito. Il rapporto tra pubblico e privato, decisivo per le
decisioni sull’uso del suolo, ha visto prevalere nettamente il secondo;
ha modificato la stessa tecnica di pianificazione urbanistica, con l’applicazione di strumenti (come la perequazione urbanistica generalizzata)
che attribuiscono «prioritaria considerazione» non ai valori paesaggistici
e ambientali come noi predicavamo e tentavamo di praticare, ma a quelli immobiliari. Questa fu, grosso modo, la posizione che espressi nella
lezione ad Alghero.
Poco tempo dopo, i colleghi che dirigevano la facoltà di pianificazione del territorio e il corso di laurea triennale, Domenico Patassini
165
capitolo undicesimo
e Luciano Vettoretto, mi chiesero di aprire l’anno accademico con una
lezione sullo stesso tema, di tenere un breve corso sull’argomento e di
promuovere un’iniziativa rivolta agli ex studenti. Feci la lezione, tenni il
corso per un paio d’anni, tentai di recuperare il contatto con i laureati
con una serie di iniziative che ebbero un certo successo. Poi anche questo si spense: i giovani laureati erano troppo impegnati a cercare lavoro
e a mantenersi nella società del “terzo millennio”156. Del resto, di fronte
alle mutazioni in corso nella società e nella politica, l’università rimaneva assente. Il dibattito era debolissimo, rispecchiava più gli interessi
dell’università come azienda (il suo funzionamento interno, il ruolo dei
docenti e le loro carriere, le articolazioni organizzative dal punto di vista
dei poteri più che dei contenuti), ed era molto debole il collegamento
con la società, con le tensioni che la percorrevano, con il degrado che si
manifestava su vari fronti.
4. L’urbanistica neoliberista
Nell’ambito delle facoltà di architettura ebbe un certo successo la tesi
espressa e argomentata da un giovane e intelligente studioso di urbanistica, Stefano Moroni. È l’autore di un libro157, che a mio parere esprime molto chiaramente l’urbanistica dell’ideologia neoliberista. Avevo
criticato un’intervista rilasciata da Moroni a un giornale dell’area berlusconiana. L’avevo pubblicata su eddyburg con una presentazione in cui
affermavo che «la destra berlusconiana sembra aver trovato il teorico di
riferimento per la sua urbanistica neoliberista: un tuffo verso il passato
più lontano, quello antecedente alla rivoluzione liberale».
La lettura del libro ha pienamente confermato quel mio iniziale giudizio: la perfetta coincidenza delle tesi espresse da Moroni con quelle
del neoliberalismo e del liberismo. Ho argomentato la mia critica in
un libro158. Sottolineavo che l’elemento più significativo della proposta
dell’autore è elevare a protagonista della sua costruzione l’individuo: la
tutela della “libertà” dell’individuo deve essere il compito preminente, e
quasi esclusivo, delle istituzioni. Questo “individuo” non è un qualsiasi
156 Anche il materiale su questa esperienza è inserito in eddyburg, cartella «Il mondo di
Ca’ Tron».
157 S. Moroni, La città del liberalismo attivo. Diritto, piano, mercato, Milano, Città Studi, 2007,
p. 200.
158 Discutendo intorno alla città del liberalismo attivo. Con un saggio finale di Stefano Moroni, a cura di
G. De Luca, Firenze, Alinea, 2008, p. 95-99.
166
il mestiere dell’urbanista
cittadino del mondo. Non è neppure un qualsiasi cittadino della città
occidentale, suo esclusivo ambito di riferimento: è il proprietario immobiliare. Quando Moroni esemplifica la sua nozione di «libertà negativa» afferma che essa, «interpretata soprattutto in termini di non impedimento
e non interferenza, […] ricomprende le libertà di esprimersi, associarsi,
detenere proprietà privata, intraprendere, contrattare, ecc.». Delle cinque azioni cui esemplificativamente riferisce la libertà individuale dominano quelle connesse alle attività immobiliari, detenere proprietà privata,
intraprendere, contrattare, mentre sono del tutto assenti altre, forse più
fondamentali, quali lavorare, apprendere, comunicare ecc.159
E quando si impegna a chiarire la distinzione tra il suo liberalismo e
il liberismo, precisa che «il liberalismo non è certo mero liberismo, ma è
anche liberismo»160. Del liberismo, delle «libertà cosiddette economiche»,
gli interessano soprattutto quelle che hanno a che fare con gli interessi
immobiliari: «la libertà di acquisire, detenere e vendere proprietà privata,
la libertà di intrapresa e contratto, ecc.». Queste non sono altro, aggiunge, «che una delle specificazioni dell’idea più generale di libertà negativa
come spazio protetto d’azione; e, tuttavia, ne sono una componente
incancellabile, tanto che, eliminarle, comprometterebbe seriamente il
significato stesso della libertà individuale».
Coerente con questa impostazione è ovviamente l’apologia del mercato. Moroni non intende quest’ultimo come mero strumento adatto, più
di altri, a misurare il costo delle merci e a determinare la configurazione
più efficiente dell’allocazione delle risorse riducibili a merci, ma «come
ordine spontaneo dinamico», condizione indispensabile perché la libertà di ciascuno possa esplicarsi al massimo grado161. Individualismo
(proprietario) e mercato sono le due divinità cui tutto è subordinato.
Al dominio di queste divinità sono ordinate le istituzioni: le regole e lo
Stato. Per la società e per la città bisogna stabilire «poche regole, le più
astratte e generali possibili, che stabiliscano soprattutto che cosa non si
deve fare, affinché non siano lesi i diritti di alcuno», mentre il resto deve
essere «lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e alla benefica, provvidenziale azione del mercato»162.
Compito dello Stato è esclusivamente quello di impedire che alcunché turbi il pieno dispiegamento del mercato. Questo compito
159
160
161
162
Moroni, La città del liberalismo attivo, p. 15-16.
Questa e la citazione seguente in Moroni, La città del liberalismo attivo, p. 26.
Moroni, La città del liberalismo attivo, p. 9.
D. Carafoli, Liberiamo la città dai piani regolatori, intervista a S. Moroni rilasciata al «Giornale», 24 apr. 2007.
167
capitolo undicesimo
comprende anche la possibilità che lo Stato si faccia carico, in qualche
modo, di esigenze nei «limitati casi» in cui il mercato non riesca a soddisfarle. Moroni ammette che
debba essere garantita a tutti i cittadini non solo la libertà negativa, ma, anche, la possibilità di condurre una vita almeno decente. In altri termini – sostiene – a tutti i cittadini va garantita
una giusta condizione di base: questo può avvenire fornendo a
essi buoni e risorse spendibili sul mercato per accedere a beni e
servizi primari (certi buoni potrebbero essere assicurati a tutti,
mentre determinate risorse monetarie aggiuntive solo a chi è in
una situazione di deprivazione grave) e, nei limitati casi in cui il
mercato non è in grado di operare, garantendo direttamente la
disponibilità per tutti di alcuni servizi e infrastrutture163.
A Moroni non viene in mente che certi prezzi possono, nella concretezza delle realtà economiche date, essere viziati da posizioni di monopolio o di oligopolio collusivo. Se c’è qualcuno che non è in grado
di pagare l’affitto di una casa perché la speculazione porta i prezzi al di
sopra della capacità di spesa degli individui allora intervenga lo Stato per
assicurare l’utile allo speculatore.
In che modo si interviene, e chi interviene, per stabilire quale sostegno debbano avere i cittadini non proprietari per accedere al mercato?
Qui l’ideologia di Moroni rivela aspetti inquietanti. È ovviamente lo
Stato che deve definire la «soglia di decenza» di ogni vita. Ma, precisa
l’autore, «l’idea di garantire a tutti una vita decente deve avere di mira
unicamente la lotta alla povertà assoluta, e non la riduzione della disuguaglianza materiale relativa; in altre parole l’obiettivo è di impedire che
ci siano individui che si trovano al di sotto di una determinata soglia
di decenza e non diminuire le differenze contingenti tra individui»164.
Insomma, se si accetta che della «soglia di decenza» faccia parte il tetto
sotto cui ripararsi, ciascuno deve poter godere di un tetto, ma non pretenda di averlo a cento metri o a cento chilometri da dove lavora e dove
stanno gli amici!
L’ideologia che Moroni mostra di condividere dimentica che esiste
anche la libertà del cittadino in quanto tale: in quanto fruitore (non necessariamente proprietario) di un bene pubblico, quale la città (il territorio
urbanizzato) indubbiamente è. Dimentica che ci sono diritti comuni, e
non solo diritti individuali. Dimentica che tra questi diritti c’è anche
163
164
Moroni, La città del liberalismo attivo, p. 17-18.
Ibidem.
168
il mestiere dell’urbanista
quello di poter godere di una città ordinata, funzionale, bella, resa tale
indipendentemente dagli interessi materiali di un gruppo di cittadini
(i proprietari immobiliari). Dimentica che questo diritto deve essere riconosciuto a tutti, quale che sia il patrimonio di cui dispone (e quali che
siano il genere, l’occupazione, il reddito, il colore della pelle, l’orientamento religioso o spirituale, la lingua, l’etnia, l’età, la condizione sociale).
Poiché Moroni non si rivolge al cittadino ma, lo ripeto ancora una
volta, al proprietario immobiliare, ecco che la pianificazione della città e del territorio non gli interessa. Poco importa che essa sia l’unico
strumento capace, ove correttamente impiegato da chi governa, di
raggiungere quegli obiettivi d’interesse comune di cui si è detto. Per il
proprietario immobiliare essa è un intralcio, uno dei “lacci e lacciuoli”
di cui occorre liberarsi. Come la pianificazione, così dal ragionamento
dell’apostolo dell’urbanistica neoliberista sono assenti il potere e la
politica, sono assenti i diversi interessi che oppongono certi gruppi sociali ad altri, certe figure e certi soggetti ad altri: i più forti e i più deboli,
quelli destinati a vincere, quelli destinati a perdere. Tutti sono uguali,
nell’empireo luminoso disegnato da Moroni. Basta far finta che siano
tutti proprietari. Oppure, basta convincerli che gli altri non contano:
non hanno diritti, ma solo la legittima aspettativa a una «soglia di decenza» che un buon Leviatano gli accorderà, forse, se vorrà.
Una buona descrizione, mi sembra, dell’urbanistica omogenea al
neoliberismo. Per combatterla e tener viva la possibilità di costruire di
nuovo un’urbanistica per i cittadini, per continuare il mio lavoro, per
continuare a ragionare soprattutto con i giovani, dovevo impiegare i
nuovi strumenti di cui disponevo, che assorbirono quote crescenti del
mio tempo e delle mie risorse. Primo fra tutti, il web. Nacque così il
sito eddyburg.
169
170
Capitolo dodicesimo
Il mondo di eddyburg
1. Come nasce eddyburg
Lo Iuav gestiva un sito web. Alcuni docenti ne utilizzavano delle pagine per inserire avvisi agli studenti e materiali didattici. Sotto la guida
del responsabile dell’informatica dello Iuav, Ciro Palermo, organizzai
il mio spazio articolandolo in quattro sezioni, tre strettamente legate
all’attività didattica e di ricerca e una, chiamata «Pagine personali», in
cui inserivo articoli e altri documenti che reputavo interessanti, per me
ma anche per gli studenti. Questa ultima sezione si ampliò velocemente,
ed ebbe un certo successo. Divenne a tal punto prevalente sul resto che
Ciro mi suggerì di costruire un sito autonomo per contenerla, gestito da
me: sarebbe stata la parte universitaria quella marginale. Ormai avevo
acquisito una certa abilità nel lavorare al sito, potevo proseguire da solo.
Ne parlai con Bibo Cecchini, prorettore per l’informatica. Ne parlai con
Ivan Blecic, mio allievo, la cui intelligenza e cultura si accompagnano
a una grandissima capacità di adoperare tutte le potenzialità dell’informatica. Ne parlai infine con Pierre Piccotti, che aveva costruito l’eccezionale sistema bibliografico documentario dello Iuav e unificato tutti
i centri bibliografici dell’area veneziana, e mi aveva assistito nei primi
passi di utilizzazione del computer.
Partimmo nell’autunno del 2002. Ivan mi aveva proposto un programma di gestione più semplice, in relazione alle mie necessità, di quello
che fino ad allora avevo adoperato. Alessandra Poggiani, che lavorava
a contratto per lo Iuav, si dedicò con pazienza a costruire con me la
struttura e la grafica del sito. Restava da decidere il nome. Feci un piccolo
sondaggio tra amici e frequentatori. Salzanocity fu una delle prime proposte. Un po’ pesante, però, e ovvia. Il mio nomignolo (Eddy) era abbastanza breve per diventare parte di un titolo non troppo lungo. Eddycity?
171
capitolo dodicesimo
Fabrizio Bottini propose la desinenza burg, che designa la città nelle
lingue di antica matrice sassone, in alternativa a city. Si decise così per
eddyburg, logo che soddisfa sia il carattere personale del sito sia il suo oggetto di principale interesse: la città, come scienza e tecnica della sua organizzazione funzionale e formale, come società che in essa vive e di essa
è padrona, come scienza e pratica del governo, e quindi come politica.
Non è stato facile articolare il contenuto del sito, tra quello che già
c’era (e che raccoglievo dal lontano 2002), e quello che avrei potuto raccogliere negli anni. Sette anni dopo devo dire che la struttura impostata
all’inizio ha retto, e funziona ancora adesso che i documenti archiviati si
avvicinano ai 15.000. Oggi il sito è, al tempo stesso, un quotidiano e un
archivio. La homepage, aggiornata quotidianamente, informa su ciò che
di interessante succede e ha a che fare con le tre facce dell’urbano (urbs,
civitas, polis); l’organizzazione in sezioni e vari livelli di cartelle consente
abbastanza facilmente il recupero dei documenti, non meno del piccolo
motore di ricerca interno.
2. Tanti cerchi
La gestione quotidiana del sito è diventata il mio vero lavoro, al quale
dedico raramente meno di quattro o cinque ore al giorno, e spesso una
dozzina. Iniziato per un bisogno di condividere ciò che mi sembrava
utile, bello o interessante, il sito è diventato il centro di una serie di
cerchi via via più larghi.
Il primo è costituito dalle persone che hanno la capacità, il tempo
e il desiderio di svolgere tutte le mansioni necessarie alla sua gestione:
cercare il materiale da inserire, scaricarlo dalla rete, curarlo redazionalmente, scrivere la breve presentazione, scegliere la cartella giusta in cui
inserirlo, aggiungere gli eventuali link ad altri documenti o redigere la
postilla di commento; inserirlo infine adoperando correttamente il programma di gestione, e fare le opportune verifiche. Esse sono: Maria Pia
Guermandi, archeologa e organizzatrice culturale, diventata esperta di
urbanistica sul campo, e Fabrizio Bottini, eccezionale ricercatore universitario, che collabora a eddyburg fin dall’inizio. Maria Pia ha passioni,
interessi, gusti così vicini ai miei che mi sostituisce interamente nella
direzione quando io non sono disponibile. Fabrizio, cui il sito è debitore di alcune cartelle tra le più interessanti e complete165, affascinato dal-
165
Soprattutto le cartelle «Testi per un glossario» e «Pagine di storia».
172
il mondo di eddyburg
le possibilità della rete e dalla realtà di eddyburg (e dal suo programma di
gestione, eZpublisher), ha costruito un sito tutto suo (Mall) che pubblica
materiali sui problemi della distribuzione commerciale ma anche sulle
questioni della città contemporanea e della cultura urbanistica viste in
un quadro internazionale. I contributi di Maria Pia e di Fabrizio, come
quelli degli altri collaboratori, sono firmati (con iniziali tra parentesi).
Solo la pigrizia tiene Vezio esterno al primo cerchio. Ma mi aiuta
considerevolmente, sia fornendomi indicazioni e suggerimenti, sia
confortandomi ogni volta che ho bisogno di una verifica di merito, che
riguardi la linea del sito oppure questioni di carattere più disciplinare.
In qualche modo Vezio è il primo dei numerosi appartenenti al secondo cerchio, costituito da persone, amici di vecchia data o diventati tali
grazie a eddyburg, che mi inviano materiali da pubblicare, oppure collaborano su mia richiesta a specifici argomenti166.
Un terzo cerchio è costituito dai circa duemila frequentatori di
eddyburg che si sono iscritti per ricevere periodicamente la newsletter.
Un quarto cerchio, il più largo di tutti, lo formano le persone che
frequentano il sito. Ogni giorno i visitatori sono ormai oltre duemila,
calando un po’ il sabato e la domenica. Suppongo che molti siano visitatori casuali, che arrivano a eddyburg perché cercano in un motore di
ricerca “goulash” oppure “outlet”, e sono certamente meno quelli che
utilizzano eddyburg come pagina preferita. Comunque direi che il sito è
diventato, in Italia, il più frequentato tra quelli che si occupano di urbanistica, città, territorio.
3. La Scuola di eddyburg
Eddyburg non ha sponsor né ospita banner a pagamento: è autofinanziato. Questo pone qualche problema, perché molti sono i progetti (dalla
semplice “manutenzione ordinaria” all’edizione internazionale) che
richiederebbero un po’ di soldi. Qualche anno fa uno degli amici propose: perché non organizziamo un piccolo corso estivo, impegnandoci
166 Tra questi voglio ricordare Dusana Valecic e Giorgia Boca, che sanno anche utilizzare
il programma di gestione del sito, Mauro Baioni, Paolo Berdini, Ilaria Boniburini, Giovanni
Caudo, Antonio di Gennaro, Stefano Fatarella, Georg Frisch, Maria Cristina Gibelli, Giuseppe
Palermo, Sandro Roggio, giancarlo Consonni e gli “opinionisti” Paolo Baldeschi, Lodo Meneghetti, Carla Ravaioli e Giorgio Todde che – assieme a Maria Pia e Vezio – hanno il diritto di
inviare articoli con la massima autonomia, sicuri di vederli pubblicati e di restare sulla prima
pagina per un intero mese (gli altri scorrono, via via che la prima pagina si riempie, e slittano
in quelle successive e, naturalmente, nell’archivio ove tutto viene raccolto).
173
capitolo dodicesimo
volontariamente come docenti e destinando i proventi a eddyburg? Ottima idea. Qualcun altro propose: perché non costituiamo un’associazione, per gestire la scuola e altre cose? Ottima idea anche questa. Organizzammo subito l’uno e l’altra. La scuola funzionò, l’associazione no.
Mauro Baioni, mio allievo e amico, si assunse il compito di organizzare
la scuola, e ne divenne il direttore. Nessuno si occupò dell’associazione,
che poco dopo fallì. Morale: le cose funzionano se c’è qualcuno che se
ne occupa con continuità e responsabilità.
La Scuola di eddyburg è un’esperienza che – mi auguro – andrà avanti per molti anni. Nata per finanziare il sito, come dicevo, ha invece
assunto, fin dalle prime edizioni, una finalità diversa: fornire ai partecipanti chiavi di lettura critica delle trasformazioni territoriali e degli
strumenti di pianificazione. Le lezioni e le comunicazioni sono svolte
da docenti universitari e da altri esperti, che condividono le finalità di
eddyburg; molti di loro collaborano al sito; altri ne approfondiscono la
conoscenza partecipando alla Scuola. Aumenta così il numero delle
persone che alimenta eddyburg con suggerimenti, scritti e diffusione
delle idee.
Ogni anno individuiamo un tema e un programma, li divulghiamo
tramite il sito e raccogliamo le adesioni167. Gli iscritti pagano le spese
vive e le quote per l’ospitalità dei docenti. Riuniamo ogni anno 30-40
studenti, in un luogo piacevole ma non distraente, in modo che si possa stare insieme nei quattro giorni del corso. Alterniamo le lezioni con
discussioni e lavori di gruppo. Gli studenti sono eterogenei, in prevalenza giovani laureati, dottorandi e funzionari pubblici, qualche libero
professionista e altre persone interessate alla materia. Alcuni studenti
hanno partecipato a più sessioni della scuola. Con molti dei partecipanti restiamo in contatto; si arricchisce così la “rete” di eddyburg, presente in tutte le regioni d’Italia.
Eddyburg e la sua scuola hanno avuto un ruolo di qualche rilievo nel
dibattito generale sull’urbanistica e il governo del territorio in Italia.
Parlare dei temi trattati in eddyburg e nella sua scuola significa perciò
riprendere gli argomenti principali del dibattito sull’urbanistica e sulla
politica dei nostri anni.
167 Nei primi cinque anni i temi affrontati sono stati: «Il consumo di suolo» (2005), «La costruzione pubblica della città» (2006), «Il paesaggio e i cittadini» (2007), «Che fare per rendere
la città più vivibile» (2008), «Spazi pubblici: declino, difesa, riconquista» (2009).
174
il mondo di eddyburg
4. Sul terreno della società
Eddyburg è diventato un punto di riferimento. Non solo per gli urbanisti e
gli studiosi della città ma anche per le persone e i gruppi che si impegnano a cambiare le cose che non funzionano nel modo di organizzare città
e territorio. La domanda di aiuto, di collaborazione critica, di sostegno
alla formulazione di proposte alternative è forte. Sono molto soddisfatto
di questa crescente richiesta di consigli, di solidarietà, di presenza, sebbene mi sconforti non poterle soddisfare che in minima parte. Del resto,
avevo scritto un libro che si propone di spiegare con parole semplici
la città e l’urbanistica a chi non ne sa nulla, proprio per stimolare una
domanda in questo settore168. Sono convinto che ci sia molta ignoranza
da parte della stragrande maggioranza dei cittadini sulle ragioni che non
rendono soddisfacenti il loro habitat; una ignoranza che potrà essere
superata solo quando la città, le sue regole e gli strumenti a disposizione
per governarla saranno conosciuti fin dalla scuola di base. Il mio libro,
il sito e le attività ad esso collegate lavorano in questa direzione.
Eddyburg è stato coinvolto in varie circostanze e situazioni: con molto interesse ha seguito la formazione della «Rete toscana dei comitati
per la difesa del territorio», e ha partecipato ad alcune riunione per la
costituzione di un’analoga rete lombarda. Assieme all’associazione
«Cantieri sociali-Carta Estnord», animata da Paolo Cacciari, e ad alcune
strutture della Cgil, rappresentate da Oscar Mancini, ha contribuito a
una iniziativa di critica al piano territoriale regionale di coordinamento
(ptrc) del Veneto, coinvolgendo numerose associazioni e comitati, e avviando la costituzione di un’analoga rete anche in Veneto169.
L’appello che su eddyburg Fabrizio Bottini e Maria Cristina Gibelli
avevano lanciato e gestito per la difesa del Parco Milano Sud, minacciato dalle improvvide iniziative regionali, ha avuto un successo straordinario. Grazie a questa esperienza, altre organizzazioni impegnate contro il
consumo di suolo ci avevano cercato perché sostenessimo una iniziativa
interessante, la costituzione di una rete di associazioni e gruppi di cittadinanza attiva per combattere il consumo di territorio. È nato così un
168 Salzano, Ma dove vivi? La città raccontata.
169 L’iniziativa ha avuto come oggetto un piano
della giunta di centrodestra del Veneto,
che abbiamo definito «piano di cementificazione regionale», che prevedeva pesanti ulteriori
manomissioni del territorio, del paesaggio e dell’ambiente regionale. Nella critica, ampiamente
argomentata, siamo riusciti a coinvolgere migliaia di cittadini in decine di riunioni in moltissime città e paesi. Abbiamo raccolto più di 14.000 osservazioni, firmate da altrettanti cittadini,
e coinvolto oltre un centinaio di associazioni, comitati e gruppi.
175
capitolo dodicesimo
movimento, che fa capo a un gruppo di bravissime persone dell’Astigiano e a Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano. Finiguerra, con il suo comune, è diventato famoso perché è il primo, in Italia, che ha formato un piano urbanistico “a crescita zero”, cioè che non
prevede nessuna espansione del paese. Significativo il fatto che il piano
sia stato preceduto da un lavoro con i cittadini sul bilancio comunale,
e che i cittadini abbiano accettato che le nuove attrezzature pubbliche
venissero finanziate sia con intelligenti risparmi dell’amministrazione su
altri fronti, sia con un leggero aumento delle imposte comunali.
Col sostegno di eddyburg, Vezio De Lucia, Georg Frisch, Roberto De
Marco e altri hanno fatto uno splendido lavoro di analisi critica delle
devastazioni al territorio e alla democrazia promosse dal governo Berlusconi e dal suo braccio armato, il commissario Bertolaso. Vezio e Paolo
Berdini sono il riferimento di moltissimi gruppi, comitati e associazioni
che lavorano, a Roma, per la difesa dell’Agro romano e per la critica
agli effetti delle speculazioni immobiliari sulle condizioni di vita degli
abitanti. Antonio di Gennaro è sempre in prima fila ogni volta che, in
Campania, bisogna sventare qualche minaccia di stravolgimento del territorio e di devastazione dei patrimoni che esso contiene.
A Giulianova si era costituita, come ho già raccontato, un’ottima
associazione, “Il cittadino governante”, promossa da un ex sindaco che
voleva difendere gli spazi e gli interessi pubblici a partire dalla difesa del
prg170: naturalmente siamo entrati in contatto con loro e li seguiamo,
come loro seguono eddyburg. Piero Bevilacqua e Paolo Berdini sono stati
tra i primi ospiti delle loro attività culturali. Per conto mio, un’affollata
presentazione del mio Ma dove vivi?, e di un libro curato da Mauro Baioni171, mi ha rivelato che le scelte urbanistiche dei vecchi piani cui avevo
collaborato negli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso erano diventate le bandiere che il Cittadino governante difendeva, contro le pesanti
manomissioni (la svendita della città al migliore offerente) dell’attuale
giunta, ahimè di centrosinistra.
Il nostro lavoro consiste sempre di più nel mettere a disposizione
di chi si batte per una città più giusta, e vuole comprendere come farlo
in modo efficace, ciò che i nostri studi e le nostre esperienze ci hanno
insegnato. Anche noi, portatori di saperi specialistici, impariamo dai
“saperi diffusi sul territorio”, con i quali collaboriamo.
170
171
Vedi capitolo 3, paragrafo 3.
La costruzione della città pubblica, a cura di M. Baioni, Firenze, Alinea, 2008.
176
il mondo di eddyburg
5. L’ideologia di eddyburg
Ideologia è un termine screditato: uno dei tanti di questi anni carichi di
“revisioni” tese a cancellare la memoria del passato. Come ha scritto Alberto Asor Rosa,
se si intende per ‘ideologia’ un credo cieco e catechistico sarebbe stato bene lasciar estinguere quella parola. Ma se l’ideologia è
un sistema di deali e di valori grazie ai quali la politica si è mossa
per diversi decenni in vista di interessi generali e di obiettivi di
largo respiro, allora la sua estinzione non è stata positiva. Quando le grandi ideologie entrano in crisi, la politica si riduce a pura
amministrazione. E quando si riduce a pura amministrazione, la
gestione della macchina prevale sugli obiettivi che la stessa macchina dovrebbe proporsi. Insomma, l’esercizio del potere per il
potere, senza alcuna motivazione ideale172.
Concordo con Asor Rosa, e intendo per ideologia quell’insieme di
credenze condivise da un gruppo e dai suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali173.
Penso che sia opportuno esporne i princìpi, come sono enunciati in un
documento ufficiale del sito:
la consapevolezza del carattere eminentemente comune, collettivo,
pubblico della città (e dell’intero territorio urbanizzato) nel suo
insieme e nelle sue componenti più significative, riassumibile
nell’espressione città come bene comune, e del diritto di tutti gli
abitanti presenti e futuri di goderne l’uso e di condividerne la
responsabilità, riassumibile nell’espressione diritto alla città.
Di conseguenza si sostiene
la prevalenza, nelle questioni attinenti il governo della città e del
territorio, dell’interesse comune e generale su quello individuale,
in un equilibrato rapporto tra dimensione pubblica e dimensione privata della vita di ciascuno”. Un ulteriore principio riguarda
l’applicazione della giustizia sociale al territorio: “la ricerca
dell’equità per tutti gli uomini (indipendentemente dalle condizioni sociali, dal reddito, dal credo religioso, dall’appartenenza
politica, dall’etnia, lingua, cultura) nell’accesso ai beni comuni
territoriali e alla responsabilità del loro governo, con particolare
e prioritaria attenzione per i soggetti più fragili”.
172 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Roma-Bari,
Laterza, 2009, p. 82.
173 T. A. van dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Roma, Carocci, 2004
(tit. orig. Ideology: A Multidisciplinary Approach, London, Sage, 1998).
177
Assieme alle affermazioni positive quelle critiche:
eddyburg promuove «la critica all’appiattimento di ogni dimensione dell’uomo e della società alle pratiche, agli interessi e ai
meccanismi di dominio dell’economia data, che caratterizza il
mainstream dell’attuale processo di globalizzazione e di insostenibile sfruttamento di tutte le risorse, e la rivendicazione della
necessità e possibilità di ricerca di alternative credibili e praticabili» e, ugualmente, «la critica della concezione di uno sviluppo
basato sulla crescente e indefinita produzione di merci, indipendentemente della loro effettiva utilità ai fini del miglioramento
del patrimonio individuale e sociale di cui sopra».
Eddyburg, infine, assume come proprio principio:
la condivisione dell’impegno a contribuire alla crescita della
capacità degli uomini di aumentare il proprio patrimonio, individuale e sociale, di responsabilità, consapevolezza, conoscenza,
sapienza, convivialità, capacità di comunicazione e interazione
con i propri simili.
178
Capitolo tredicesimo
Chi difende il paesaggio?
1. L’avventura della Sardegna
Nonostante il declino generale, ci sono anche in Italia amministrazioni
pubbliche che non hanno dimenticato le loro responsabilità né delegato
i poteri ai portatori di interessi economici, e fanno pulitamente il loro
mestiere. Essi applicano il metodo e gli strumenti della pianificazione
per governare il territorio nell’interesse generale. Con due amministrazioni di questo tipo mi capitò di lavorare: la Regione autonoma Sardegna e la Provincia di Foggia.
In Sardegna era stata approvata una serie di piani territoriali provinciali «con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali»,
validi quindi agli effetti della legge Galasso del 1985. I piani erano stati
poi invalidati dal tribunale amministrativo regionale. Nel giugno 2004
vince le elezioni per il consiglio regionale Renato Soru, imprenditore e
creatore di Tiscali, con una lista che raggruppa le nove formazioni della
sinistra e del centro, fortemente caratterizzata dalla sua personalità e dal
suo programma. In novembre, il presidente Soru fa approvare dal consiglio regionale una legge che assoggetta temporaneamente all’inedificabilità tutte le coste sarde per una profondità di 2000 metri: è un vincolo
di salvaguardia, in attesa di formare un piano paesaggistico ai sensi del
nuovo «Codice dei beni culturali e del paesaggio», entrato in vigore da
qualche mese174.
174 Decreto legislativo 22 gen. 2004, n. 42. Il Codice è il testo legislativo che riassume e
sviluppa tutta la precedente legislazione in materia di beni culturali e di paesaggio. Per quest’ultimo, il Codice riprende la normativa della legge Galasso.
179
capitolo tredicesimo
Immediatamente si alzano vivissime le proteste del mondo legato alle lottizzazioni turistiche già approvate dai Comuni e ora bloccate dalla
legge: si tratta di decine di milioni di metri cubi, previsti in operazioni
in cui sono interessati potentati regionali, nazionali, internazionali, dai
patron della stampa locale a Berlusconi.
Soru non perde tempo. Elabora e fa approvare dalla giunta un documento, «Linee guida per il piano paesaggistico regionale», che delinea
i contenuti e il percorso del piano paesaggistico. Costituisce un ufficio
per la redazione del piano, composto da alcune decine di tecnici trasferiti da altri uffici della Regione e da un pugno di tecnici a contratto. Istituisce un coordinamento tra gli uffici interessati e un comitato scientifico,
del quale mi invita a far parte175. Il comitato viene insediato nell’aprile
2005. Soru illustra, in un breve intervento a braccio, la sue intenzioni.
A differenza di quanto faccio di solito, prendo appunti.
Ecco che cosa ci disse, dopo aver spiegato perché aveva scelto di
redigere il piano all’interno della Regione:
Che cosa vorremmo ottenere con il piano paesaggistico regionale? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio
e le sue risorse, la Sardegna; la “valorizzazione” non ci interessa
affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora
fra cento anni. Vorremmo che pezzi di territorio vergine ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché
è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati
invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che
testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco,
i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi, tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la
flora e la fauna della nostra isola. Siamo interessati a un turismo
che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale176.
Espresso in questi termini lo spirito che lo muoveva, il presidente
proseguì illustrando le altre ragioni, anche di ordine economico, che lo
175 Del comitato scientifico facevano parte alcuni urbanisti (Filippo Ciccone, Enrico Corti,
Roberto Gambino, Vanni Macciocco, Edoardo Salzano, Antonello Sanna), un antropologo
(Giulio Angioni), un archeologo (Raimondo Zucca), un botanico (Ignazio Camarda), un ecologo (Helmar Schenk), un giurista (Paolo Urbani), uno scrittore (Giorgio Todde). L’ufficio era
diretto dall’ingegner Paola Cannas.
176 L’intervento è in eddyburg, con il titolo L’Italia che vorremmo.
180
chi difende il paesaggio?
spingevano alla tutela, e il tipo di turismo al quale era interessato:
Perché vogliamo questo? Intanto perché pensiamo che vada
fatto, ma anche perché pensiamo che sia giusto dal punto di
vista economico. La Sardegna non vuole competere con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come
alle Maldive, ai Carabi come nelle isole del Pacifico), ma vede la
sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre.
Dopo gli interventi dei membri della giunta regionale e di quelli del
comitato scientifico, Soru intervenne nuovamente:
Bisogna che siano chiari i princìpi che sono alla base delle
“linee guida”. Il primo principio è: non tocchiamo nulla di ciò
che è venuto bene. Poi ripuliamo e correggiamo quello che non
va bene. Rendiamoci conto degli effetti degli interventi sbagliati:
abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che
c’erano: abbiamo costruito villaggi fantasmi, e abbiamo reso
fantasmi i villaggi che c’erano. Dobbiamo sapere che facciamo
un investimento per il futuro. Dovremo calcolare gli effetti economici della conservazione e della ripulitura. Oggi si costruisce
importando da fuori componenti ed elementi, il moltiplicatore
dell’attività edilizia si è drasticamente abbassato. Lo aumenteremo di nuovo se sapremo riutilizzare le tecniche tradizionali,
i materiali tradizionali, i saperi tradizionali per conservare e
ripulire. Dobbiamo essere capaci di far comprendere che tipo di
Sardegna abbiamo in mente.
Il comitato si riuniva un paio di volte al mese. Il personale dell’ufficio era molto motivato e capace e, nel frattempo, aveva svolto un importante lavoro di base, utilizzando anche il materiale prodotto dai piani
provinciali. Renato Soru era stato il creatore di Tiscali (il noto provider
informatico): era naturale poter contare su un alto livello di digitalizzazione delle basi informative. Ciononostante, il lavoro non fu facile.
Difficoltà si manifestarono su numerosi aspetti relativi all’applicazione
del «Codice dei beni culturali e del paesaggio» e alla necessità di rispettare il termine di dodici mesi per il primo stralcio del piano, relativo
alle coste. Le questioni che ci occuparono di più erano: la necessità di
concludere il primo stralcio del piano rinviando la pianificazione della
restante parte del territorio, ma prevedere al tempo stesso una struttura del piano che consentisse il suo facile completamento; l’esigenza di
definire una normativa particolarmente stringente per il bene “fascia
costiera”, sovrapposta a quella delle “categorie di beni” e a quella degli
“ambiti di paesaggio” (comprendenti più comuni limitrofi caratterizzati
181
capitolo tredicesimo
da unitarietà di paesaggio); l’intreccio tra i diversi criteri indicati dalla
legislazione, in particolare il rapporto tra la definizione di regole per le
diverse “categorie di beni”, analoghi in ogni parte del territorio, e quelle
relative ai diversi “ambiti di paesaggio” nei quali il territorio andava articolato 177.
Sul rapporto tra “categorie di beni” e “ambiti di paesaggio” è opportuno soffermarsi, poiché si tratta di una questione sottesa al dibattito in
corso tra quanti si occupano di pianificazione del paesaggio.
2. La pianificazione del paesaggio tra top down e bottom up
Per tutelare il paesaggio con la pianificazione si tende solitamente a
seguire due criteri che, come spesso accade in Italia, vengono considerati come alternativi anziché come punti di vista differenti che possono
convivere, integrandosi in un procedimento complesso, che la natura
stessa del territorio richiede. In altri termini potremmo dire che l’uno
prevede un andamento top down delle decisioni, partendo dal generale e
dal tipico, mentre l’altro segue l’andamento opposto, dal locale e dallo
specifico. Il primo si concentra soprattutto nella individuazione di tipi di
elementi territoriali da sottoporre a tutela, l’altro invece cerca di definire
la singolarità dei differenti paesaggi.
La prima tendenza, se così vogliamo chiamarla, ha il suo riferimento
giuridico nelle sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968. Come il lettore
ricorderà178, da quelle sentenze era emersa la legittimità costituzionale
di una procedura di vincolo che avesse quale suo punto di partenza
l’individuazione, da parte del legislatore, di determinate “categorie di
beni a confine certo”, ciascuna dotata di caratteristiche tali da giustificare particolari limitazioni alle trasformazioni e utilizzazioni possibili.
Il compito successivo consisteva nella concreta individuazione sul territorio dei beni appartenenti alle “categorie”, dei caratteri di ciascuna di
esse che dovevano essere conservati, di ciò che eventualmente poteva
essere trasformato e delle regole della trasformazione. Questo era, ed è,
il compito della pianificazione paesaggistica.
177 Questi temi sono sviluppati e chiariti nei materiali sul piano paesaggistico regionale nel
sito della Regione, nonché nel mio documento La filosofia del piano, in eddyburg.
178 Vedi capitolo 4, paragrafo 5.
182
chi difende il paesaggio?
La legge 431 del 1985 (la legge Galasso) era intervenuta in armonia
con questo criterio, e aveva definito un elenco di “categorie di beni” da
tutelare nell’interesse nazionale, perché costitutivi della grande orditura
del paesaggio della Penisola: i monti, le coste, i corsi d’acqua, i boschi,
i ghiacciai, i vulcani, le aree archeologiche ecc. La legge, oltre a elencare
le categorie di beni e porre un vincolo provvisorio su fasce di territorio
geometricamente definite179, stabiliva che la vera tutela intervenisse
mediante la pianificazione, alla quale veniva assegnato il compito di precisare l’individuazione e articolare la tutela in relazione alle caratteristiche
specifiche d’ogni categoria di beni.
La Corte costituzionale aveva riconosciuto la piena legittimità di
quel dispositivo. Non solo. In più occasioni aveva dichiarato necessario che l’individuazione dei beni e la definizione delle regole per la
loro tutela proseguisse sistematicamente: la legge, ha affermato la Corte,
«introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità,
vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell’intero territorio
nazionale»180. Essa non si esaurisce nelle grandi componenti del paesaggio nazionale, ma deve prolungarsi nell’azione assidua di tutte le istituzioni della Repubblica: quindi anche le Regioni, le Province, i Comuni.
Nelle stesse occasioni la corte aveva riconosciuto come, in conformità con l’articolo 9 della Costituzione, le scelte relative alla tutela del
paesaggio avessero assoluta prevalenza rispetto a quelle concernenti
altri interessi, esigenze, motivazioni: esse sono un prius rispetto alle
decisioni di trasformazione. La pianificazione paesaggistica (o la componente paesaggistica della pianificazione territoriale e urbanistica) deve
precedere le componenti che attribuiscono al territorio capacità di “sviluppo urbanistico”, che prevedono cioè la realizzazione di infrastrutture,
urbanizzazioni, edificazioni.
Il «Codice dei beni culturali e del paesaggio» aveva ripreso integralmente la disciplina della legge Galasso, introducendo un ulteriore
elemento: l’individuazione degli ambiti di paesaggio. Questi non sono
precisamente definiti dalla legge, e anzi il loro ruolo si è ridotto nelle
successive versioni del Codice. Nella sostanza essi fanno tuttavia riferimento a quell’altro criterio di analisi e trattamento del paesaggio cui ho
179 Il vincolo provvisorio, consistente nell’obbligo di acquisire il parere delle soprintendenze ai beni culturali per ogni progetto di trasformazione, era stabilito, ad esempio, per una fascia
di 300 metri per le coste marine e lacustri, 150 metri per i corsi d’acqua, per le aree di montagna superiori a una certa quota. Si trattava, come si disse allora, di “sciabolate”, di indicazioni
rozze, in attesa degli approfondimenti della pianificazione paesaggistica.
180 Sentenza costituzionale n. 151 del 1885. Si veda anche la sentenza 327 del 1990.
183
capitolo tredicesimo
sopra accennato: un criterio che pone l’accento sulla specificità di ogni
contesto territoriale, e sullo stretto intreccio tra le varie componenti del
paesaggio e tra queste e la società che li ha prodotti e che li utilizza.
Assumere questo criterio significa avere un atteggiamento più progettuale, più orientato alla definizione di regole che tengano conto delle
concrete esigenze della società che usa i territori, alle declinazioni locali
degli elementi di territorio riconducibili alle diverse “categorie” tipizzate.
Non a caso, il Codice attribuisce al piano paesaggistico, proprio in relazione degli “ambiti di paesaggio”, il compito di individuare «le linee di
sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità con
i valori paesaggistici riconosciuti e tutelati» (articolo 135).
Il criterio degli “ambiti di paesaggio” è riconducibile a un altro tema,
che anima molte discussioni nel mondo dei cultori della pianificazione del paesaggio. È il tema introdotto dalla Convenzione europea del
paesaggio181, la quale, nella definizione stessa di paesaggio, attribuisce
particolare rilevanza alla nozione di territorio «come percepito dalle popolazioni». È un tema delicato, sul quale tornerò tra poco. Per ora mi limiterò ad affermare che in Sardegna eravamo terrorizzati al pensiero di
quale fosse la “percezione del paesaggio” nei comuni le cui amministrazioni, col consenso dei cittadini, avevano devastato le coste della Gallura. Trovammo comunque un corretto equilibrio applicando entrambi
i criteri. Individuammo puntualmente gli elementi del paesaggio che
costituivano “categorie di beni” meritevoli d’essere tutelati per le loro
caratteristiche tipiche, e per ciascuna di esse stabilimmo precise regole
di conservazione e trasformazione. E individuammo, con altrettanta attenzione alle relazioni tra le diverse componenti del paesaggio e la loro
matrice storica, gli “ambiti di paesaggio”, cui attribuimmo un insieme di
prescrizioni, direttive e indirizzi che dovevano guidare le successive fasi
della pianificazione, alle quali procedere in collaborazione tra Regione e
Comuni, naturalmente rispettando le regole dettate dal primo criterio.
Il primo stralcio del piano, quello relativo agli ambiti costieri182, fu
adottato dalla giunta regionale nei tempi stabiliti. Seguirono le fasi della
pubblicazione, delle numerose riunioni con i Comuni per illustrare il
piano e chiarirne gli aspetti più nuovi, e infine delle controdeduzioni.
Il piano fu approvato definitivamente il 6 settembre 2006. Tentativi
dell’opposizione di destra di invalidarne i risultati non ebbero successo,
181 La Convenzione europea sul paesaggio, sottoscritta a Firenze nel 2000, è stata ratificata
dallo Stato italiano con la legge 9 gen. 2006, n. 14.
182 Essi comprendevano circa 140 Comuni, raggruppati in 27 ambiti. Alcune delle norme
erano estese anche alle parti di territorio ricadenti negli ambiti interni.
184
chi difende il paesaggio?
poiché la giustizia amministrativa, cui gli avversari s’erano appellati, diede ragione ai difensori del piano. Il Tar affermò, nella sua sentenza, che
nella regione non si era visto, fino ad allora, uno studio così articolato,
vasto e dettagliato, capace di mettere insieme e correlare una molteplicità di discipline che concorrono alla conoscenza e gestione del territorio,
geografia, storia, archeologia, architettura, demo-antropologia, beni culturali e ambientali etc.183.
Parallelamente alle ultime fasi dell’iter procedurale del primo stralcio
del piano (relativa agli ambiti costieri), proseguiva il lavoro di completamento relativo agli ambiti interni. Ma alla fine, i reiterati tentativi da parte
di alcune componenti della maggioranza di ritardare l’approvazione del
secondo stralcio del piano indussero Soru a dare le dimissioni. Si giunse
allo scioglimento del consiglio e a nuove elezioni. Soru fu sconfitto.
La discussione sulle ragioni della vittoria della destra berlusconiana
è ancora aperta. Una parte di errori li ha certamente fatti il presidente
uscente, il quale si è preoccupato più della sostanza delle decisioni che
del consenso; ma in misura determinante ha influito la pervasiva ideologia dominante nell’età berlusconiana, che ha contaminato – in Sardegna
come nel resto d’Italia – un’estensione più larga di quella elettorale.
3. Il paesaggio percepito
Al paesaggio dedicammo la terza edizione della Scuola di eddyburg
(nel 2007). Guardammo al tema secondo un approccio diverso, non
tanto sugli strumenti, quanto sugli attori. Ci domandammo: chi difende
il paesaggio, a chi spetta la sua difesa?
Il lavoro fu articolato in tre sessioni: la prima dedicata, come di consueto, al «Glossario» (al significato e all’utilizzo di parole chiave della
pianificazione paesaggistica, che nel corso di questi ultimi anni hanno
subìto uno slittamento e talvolta uno svuotamento semantico; la seconda sessione all’illustrazione delle iniziative promosse dalle amministrazioni regionali della Sardegna e della Puglia; la terza infine approfondiva
il tema delle relazioni tra istituzioni, cittadini, associazioni e movimenti
per la tutela del paesaggio.
Il punto sul quale il dibattito mi sembrò particolarmente interessante fu l’interpretazione di quella definizione della Convenzione europea
cui ho accennato: la concezione del paesaggio come ciò che viene percepito
183
Sentenza 11 giu. 2009, n. 979, Tar Regione Sardegna.
185
capitolo tredicesimo
dalle popolazioni locali. È una definizione che, letta nel contesto italiano, è
molto ambigua e tendenzialmente pericolosa. Per un verso, essa pone
l’accento su due verità difficilmente controvertibili: la prima è che il
paesaggio è certamente il risultato della plurisecolare azione del lavoro e della cultura dell’uomo (della società) sulla natura, nel corso della
quale essa è stata foggiata acquisendo le forme che ne determinano la
qualità; la seconda, che una tutela efficace del paesaggio si potrà avere
solo quando le articolazioni della società saranno capaci di far prevalere
l’esigenza della conservazione dei propri paesaggi sulle trasformazioni
finalizzate al soddisfacimento di interessi individuali, prevalentemente
economici.
Ma a fronte di queste verità ve ne sono altrettante di segno opposto.
Nella civiltà contemporanea il rapporto tra l’uomo e la natura si è radicalmente modificato. Da qualche secolo, la società adopera il territorio
e l’ambiente naturale non come qualcosa che ha valore in sé, per le sue
qualità intrinseche, per il patrimonio che costituisce, ma solo per le
risorse che può trarne, estraendo le ricchezze nascoste nelle sue profondità fino al loro esaurimento, cancellando la naturalità con l’edificazione
di manufatti utili all’incremento della ricchezza del proprietario, trascurandone la cura e la manutenzione. La spinta della “valorizzazione economica”, intesa come utilizzazione privatistica dell’enorme differenziale
economico che esiste tra terreno rurale e terreno edificabile, orienta la
“percezione delle popolazioni” verso prospettive radicalmente diverse
da quelle che hanno caratterizzato le civiltà che, in Italia e altrove, hanno costruito e mantenuto nei secoli “bei paesaggi”.
Il mio punto di partenza era l’affermazione dell’interesse generale alla tutela del paesaggio, che vedevo espressa limpidamente nell’articolo 9
della Costituzione. Mi spingeva in questo senso anche la mia esperienza
di amministratore, durante la quale avevo trovato nella Soprintendenza
ai beni culturali e nella Regione sponde cui ricorrere ogni volta che gli
interessi locali spingevano in direzione opposta a quella della tutela di
patrimoni comuni. Mi interessava quindi il punto di vista di chi aveva
un approccio diverso, come Paolo Baldeschi184.
Nel suo intervento, Baldeschi partì dalla constatazione che le politiche sul paesaggio sono sempre più rivolte ai cittadini come attori, come
testimoniano sia la Convenzione europea sul paesaggio, sia «i comitati
184 Paolo Baldeschi opera presso l’università di Firenze, nell’ambito del Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti (Lapei) diretto da Alberto Magnaghi. A Magnaghi e al
Lapei fa capo la più interessante esperienza italiana di progettazione del paesaggio bottom up,
che parte da una lettura diretta del territorio e partecipata con gli abitanti dell’«area di studio».
186
chi difende il paesaggio?
che si mobilitano per difendere il loro paesaggio» (Baldeschi è attivo
anche nella Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio). Sottolineò che la Convenzione europea
è indubbiamente importante da un punto di vista politico perché pone le “popolazioni” al centro della nozione di paesaggio,
ma apre problemi spinosi dal punto di vista della pianificazione.
In particolare occorre rispondere a tre domande: a) come articolare il territorio in “determinate parti”?; b) cosa significa percepire un territorio (o, se si preferisce, un territorio percepito)?;
c) quali popolazioni?185.
Non esiste più un legame biunivoco e quasi esclusivo tra una popolazione e una parte del territorio. Le articolazioni del territorio significative dal punto di vista dei caratteri paesaggistici e ambientali «non hanno alcuna relazione con specifiche società locali», e del resto «lo stesso
concetto di società locale, intesa in senso comunitario, è contraddetto
da stili di vita e comportamenti in cui il territorio viene vissuto come
una rete fatta di relazioni e di nodi, piuttosto che di aree compatte».
Il ragionamento avviato da Baldeschi rinviava a due questioni.
Da un lato, il fatto che l’interesse per un determinato paesaggio (e in
primo luogo la sua percezione) non può essere considerato appannaggio solo della popolazione che lo abita. Si apre qui il tema della interscalarità, del rapporto necessario cioè tra le varie scale e livelli: come spesso
ripeto, ciascuno di noi appartiene a più patrie, al suo paese o città, alla
nazione, all’Europa, al pianeta. Dall’altro lato, troppo spesso si sono
completamente dissolti i legami tra la popolazione di oggi e quella che
ha costruito quel paesaggio; in particolare, la vita sociale e la cultura
dominante fanno oggi prevalere nettamente gli interessi dello sfruttamento economico, generalmente distruttivi del paesaggio, su quelli della
bellezza e della conoscenza, e hanno fatto scomparire la virtù della parsimonia. Come ha scritto Vezio De Lucia, «fra lo sviluppo e il paesaggio
è in corso una guerra mondiale che non finisce mai, e che il paesaggio
continua a perdere. (…) Anche nella più limpida delle circostanze, il paesaggio è quasi sempre costretto alla resa se sono in gioco nuovi posti
di lavoro, incremento del reddito, prospettive turistiche»186. Lo hanno
testimoniato del resto, nelle stesse giornate della scuola, molti interventi: Dario Predonzan descrisse le devastazioni in corso in una regione dal
185 Vedi in eddyburg il testo di Baldeschi, Territorio e paesaggio nella disciplina paesaggistica, nei
materiali sull’edizione 2007 della Scuola.
186 V. De Lucia, A proposito di paesaggio, in eddyburg.
187
capitolo tredicesimo
passato virtuoso come il Friuli Venezia Giulia, Sandro Roggio descrisse
la Sardegna prima di Soru.
Aiuta a maneggiare quella controversa definizione l’interpretazione
che ne dà Alberto Magnaghi in uno scritto presentato alla Scuola187:
la Convenzione europea del paesaggio apre la strada allo sviluppo della coscienza di luogo: dar voce alla percezione sociale del
paesaggio e dei suoi valori da parte delle popolazioni attraverso
processi partecipativi. (...) I processi partecipativi tuttavia devono tener conto del fatto che:
- la designazione di paesaggio come «determinata parte del territorio così come è percepita dalle popolazioni» (Convenzione
europea), è un processo e non un dato, un processo di presa di coscienza che il paesaggio è stato costruito dalle generazioni passate ed è trasformato da quelle presenti anche per quelle future;
- non si dà nei territori locali una identificazione stretta fra popolazioni e luoghi: si dà una molteplicità socio-culturale dei luoghi dell’abitare; “abitanti” significa abitanti “locali” ma anche
nuovi, residenti stabili, ma anche temporanei, ospiti, city users,
presenze multietniche, giovani, anziani, ecc., con percezioni differenziate e a volte conflittuali dei valori del paesaggio.
La pianificazione non può quindi ridursi, prosegue Magnaghi,
alla semplice registrazione di una “percezione” data, ma un processo euristico di decodificazione e ricostruzione di significati,
attraverso l’apprendimento collettivo del paesaggio come bene
comune, facendo interagire saperi esperti e saperi contestuali per
il riconoscimento da parte dei diversi attori dei valori patrimoniali e per innescare patti per la cura e la valorizzazione del patrimonio. Non si dà infatti la gestione di un paesaggio come bene
comune se è il risultato di una somma di azioni individuali dettate da interessi particolari. È necessario un processo partecipativo
che avvii una trasformazione culturale di riconoscimento condiviso dei
beni comuni per agire le trasformazioni del paesaggio e la fruibilità collettiva di beni in via di privatizzazione: il paesaggio agrario,
le coste, gli spazi pubblici delle città, i fiumi, le foreste.
E se la percezione del paesaggio non è il punto di partenza, ma
l’obiettivo di un «processo euristico», di un percorso aperto da costruire
per ipotesi e tentativi modificati e aggiustati, allora è evidente che occorre operare sui versanti sia della consapevolezza di chi vive il paesaggio
187 Il testo è poi ripreso nella relazione generale dello «Schema del piano paesaggistico territoriale della Regione Puglia» adottato dal consiglio regionale nell’ottobre 2009.
188
chi difende il paesaggio?
a distanza più ravvicinata, sia della salvaguardia “dall’alto” della permanenza nel tempo delle componenti essenziali del patrimonio paesaggistico. Del resto, anche le esperienze positive come il piano paesaggistico
regionale della Campania, illustrato da Stefano De Caro e Antonio di
Gennaro, e le iniziative in corso da parte della Regione Puglia, raccontate da Angela Barbanente, confermavano in me la linea d’azione che
stavamo praticando in Sardegna.
È indispensabile procedere in entrambe le direzioni: dall’alto, Stato e
Regioni, perché a essi spetta tutelare gli interessi delle comunità più vaste
e perché costituiscono i poteri – almeno in teoria – meno sensibili agli
interessi più miopi; contemporaneamente, dal basso occorre promuovere
la crescita della consapevolezza, che trasformi le popolazioni in attori responsabili della tutela del territorio, che è “loro” quanto “nostro”.
4. La sorpresa di Foggia
Due ragioni ci avevano spinto a svolgere in Puglia l’edizione 2007 della
Scuola. In quella regione si era costituita una giunta regionale che – come ho accennato – aveva preso molto sul serio la pianificazione del territorio e del paesaggio. L’assessore Barbanente era stata scelta dal presidente della Regione, Nichi Vendola, proprio perché esperta di quel mestiere; a sua volta, Barbanente aveva costituito una buona squadra per la
pianificazione del paesaggio, coordinata da Alberto Magnaghi, e aveva
chiamato a dirigere l’ufficio del piano Piero Cavalcoli, organizzatore
dell’efficientissimo ufficio bolognese che aveva condotto la migliore
operazione di pianificazione provinciale d’Italia. In quella stessa regione,
per la Provincia di Foggia, stavo lavorando da qualche anno per una
pianificazione territoriale largamente orientata alla tutela del paesaggio.
L’esperienza fu interessante, per ragioni diverse da quella della Sardegna. Foggia suscitava echi lontani nella mia memoria. L’impresa della
mia famiglia aveva lavorato a lungo nelle bonifiche del Tavoliere e di
Manfredonia, a partire dai primi decenni del Novecento. Ricordo che
una volta – avevo sei o sette anni – mio padre mi portò con sé a pranzo
nel ristorante del famoso Albergo Cicolella. Più tardi, ero stato a Foggia,
e nella vicina Cerignola, col mio amico Peppe Pavoncelli, della famiglia
di industriali agrari188. Quando il capo di gabinetto del presidente della
188
Vi ho accennato nel Prologo, paragrafo Villa Pavoncelli.
189
capitolo tredicesimo
Provincia (Franco Mercurio, allievo dello storico Piero Bevilacqua) mi
chiese di coordinare il lavoro per il piano, accettai: naturalmente alla
solita condizione, di poter cioè costituire un forte e motivato ufficio
che fosse protagonista della progettazione e della gestione. La mia proposta fu accolta, e così l’elenco di consulenti che avrebbero affiancato
l’ufficio189. Il dirigente dell’ufficio, l’architetto Stefano Biscotti, impiegò
tutta la generosità, l’impegno, la conoscenza degli uffici e la capacità di
rapportarsi con gli assessori per cercare di costituire un ufficio adeguato, e opportunamente attrezzato. Furono assunti con contratti precari
tre giovani laureati che si rivelarono una vera risorsa190. Ma dovettero
passare molti anni prima che Biscotti riuscisse a ottenere per loro una
stabilità di ruolo e un compenso non troppo incongruo rispetto alle
mansioni che avevano imparato a svolgere.
In poco tempo riuscimmo a costruire un sistema informativo territoriale, nel quale furono sistematicamente versati i dati noti o appositamente prodotti: un sistema ovviamente aperto anche ad altri potenziali
utilizzatori. Una buona e utile sinergia si realizzò anche con l’ottimo
ufficio di pianificazione territoriale della Provincia di Bologna.
Consegnammo una bozza di piano nel luglio 2003. Passate le elezioni, la maggioranza non cambiò, la nuova giunta provinciale approvò
la bozza (senza peraltro mai discuterla nel merito) e andammo avanti.
Concludemmo la redazione del piano (con un faticoso lavoro di adeguamento alla nuova legislazione nazionale e regionale che era intervenuta
nel frattempo) nel 2007. Ma il consiglio provinciale giunse alla scadenza
del suo mandato senza approvarlo. Evidentemente, al di là dell’adempimento a un obbligo di legge esso non interessava a nessuno.
Nel 2008 ci furono le elezioni per il rinnovo del consiglio. Vinse
un’alleanza di centrodestra: assessore all’urbanistica un giovane ricercatore universitario di economia, dell’area di Alleanza nazionale, Leonardo
di Gioia. Studiò il piano, lo considerò uno strumento utile per evitare di
rincorrere i progetti e i finanziamenti estemporanei derivanti dalle diverse iniziative amministrative settoriali, ne condivise gli orientamenti e
le scelte. Nel giro di pochi mesi l’iter del piano fu concluso e approvato
189 Collaboravano sistematicamente con me Luigi Scano, per gli aspetti normativi, e Mauro Baioni, soprattutto come trainer dei collaboratori interni e collegamento con l’ufficio.
Gli esperti erano: Antonio di Gennaro, agronomo e appassionato cultore del paesaggio; Saverio Russo, storico; Stefano Ciurnelli, esperto di infrastrutture e trasporti; Gianfranco Viesti,
economista; Luigi Pennetta, geologo. A questi si aggiungevano altri esperti locali per consulenze più specifiche. Più tardi, dopo la scomparsa di Gigi Scano, subentrarono Luca De Lucia
e Maurizio Sani.
190 Erano Giovanna Caratù, Cosma Lovascio, Mirella Vitale.
190
chi difende il paesaggio?
all’unanimità dal consiglio provinciale. Ancora qualche mese e vedemmo il nostro piano provinciale perfettamente composto (e accolto) nel
piano regionale, e potemmo verificare che il piano strategico era costruito come precisa attuazione delle scelte nel piano provinciale191.
Un successo, quindi, per quanti avevano lavorato, ma per chi aveva
alle spalle una storia come la mia, un successo amaro: era stata una
maggioranza di destra a completare con determinazione una vicenda
che la giunta di centrosinistra aveva considerato marginale e sostanzialmente inutile.
E un insegnamento. Le carte si sono rimescolate: quando la sinistra
e il centro abbandonano il buon governo del territorio non è detto che
non ci sia qualcuno, sul fronte opposto, che si impadronisca del buonsenso e dei suoi strumenti.
Foggia e la Sardegna sono state (per ora) le mie ultime esperienze
professionali impegnative. Già da qualche tempo la maggior parte delle
mie energie era indirizzata allo strumento che mi consentiva di allargare, contemporaneamente, la rete della mia attività didattica e quella
delle persone che condividevano i miei interessi, le mie paure e le mie
speranze: il sito web eddyburg. È attorno a eddyburg che si intrecciavano
sempre più strettamente gli eventi della politica urbanistica italiana ed è
con eddyburg che cercavamo di intervenire su di essa.
191 In Italia, molto spesso, i piani strategici non sono meramente tattici (non consistono cioè
in un semplice elenco di opere), ma sono in contraddizione rispetto agli atti di vera e propria
pianificazione comunale, provinciale e regionale.
191
192
Capitolo quattordicesimo
Urbanizzazione a go go
1. La mistificazione dei “diritti edificatori”
All’inizio di questo secolo venne presentato il nuovo prg di Roma, in
gestazione da oltre un decennio. Il gruppo di amici romani, che fa capo
a Vezio De Lucia e a Paolo Berdini, aveva seguito da tempo la politica
urbanistica romana. Questa era stata caratterizzata, a partire dalla metà
degli anni Novanta, dagli accordi definiti volta per volta con gli interessi
immobiliari, assumendo lo slogan del “pianificar facendo”: in sostanza,
adottando la prassi di definire le scelte sull’uso del suolo con singoli atti
slegati da ogni coerenza complessiva. In questo modo, approfittando
delle smagliature introdotte nella legislazione urbanistica per consentire
deroghe alle regole garantiste della pianificazione, era stata autorizzata
l’edificazione di 44 milioni di metri cubi, in aggiunta alle gigantesche
previsioni edificatorie del vecchio piano del 1962 e delle successive varianti192.
I miei amici avevano dedicato un’intera estate ad analizzare il nuovo
piano, adottato dalla giunta e in corso di pubblicazione. I dati emersi
erano impressionanti. In una città nella quale la popolazione tende a decrescere, i volumi aggiuntivi realizzabili previsti dal piano ammontavano
a quasi 67 milioni di metri cubi, mentre i nuovi spazi “urbanizzabili” misuravano quasi 15.000 ettari (una superficie superiore all’intero comune
192 I difensori del nuovo prg sostengono che nel complesso i volumi edilizi del piano non
sono aumentati rispetto a quelli del 1962-65. Essi però computano, tra le cubature pregresse
cui fanno riferimento, anche le vastissime zone destinate dal vecchio piano a servizi pubblici
generali (le zone M1). Quindi ammettono almeno un poderoso trasferimento da edificabilità
pubblica a edificabilità privata.
193
capitolo quattordicesimo
di Napoli), con un incremento del 45%193: un immenso consumo di
suolo, la devastazione delle ampie porzioni residue del mitico Agro romano, celebrato dalla cultura mondiale. E un vistoso regalo agli interessi
immobiliari, che riprendevano saldamente nelle loro mani il bastone del
comando.
Ciò che soprattutto indignava era la formulazione, che Campos Venuti aveva sviluppato e ampiamente propagandato, di una tesi del tutto
infondata: che una volta cioè che un piano urbanistico avesse assegnato l’edificabilità a un’area, questo attributo diventava un titolo che non
poteva esser tolto al proprietario senza indennizzo adeguato. Era stata
coniata l’espressione diritti edificatori, mai adoperata prima nel diritto
italiano. Mi misi a studiare, con i suggerimenti e i testi che mi forniva
Gigi Scano, per comprendere come la giurisprudenza avesse trattato la
questione. Scoprii che le cose erano radicalmente diverse da quanto gli
autori del prg di Roma sostenevano. È giurisprudenza costante che il
Comune possa, con un nuovo piano, modificare ampiamente le previsioni di un piano precedente, non soltanto nel caso di un piano generale
(come il prg) ma anche di un piano di lottizzazione privata per il quale
sia già stata stipulata con i proprietari una convenzione a norma di legge. In quest’ultimo caso, ovviamente, è necessario indennizzare il proprietario per le spese che ha legittimamente sostenuto (e che è in grado
di documentare), relative all’attivazione del piano.
Esposi le mie conclusioni in una relazione, sulla quale concordò,
esprimendo un parere pro veritate, il professor Vincenzo Cerulli Irelli,
esperto di diritto amministrativo. La illustrai in un convegno di Italia
Nostra. Naturalmente le nostre convinzioni furono comunicate al
sindaco Walter Veltroni il quale, dopo qualche cortese ringraziamento,
andò avanti per la sua strada. I miei amici, con l’appoggio delle associazioni ambientaliste (soprattutto Italia Nostra), di decine e decine di comitati cittadini sorti un po’ ovunque nelle periferie romane, e di eddyburg
riuscirono a far divampare un’accesa polemica e una forte reazione popolare. Ma la marcia trionfale del piano non era terminata. Sorgevano
ovunque palazzoni in aree prive di servizi, di spazi pubblici, di efficaci
collegamenti, mentre il problema della casa per chi non aveva reddito
sufficiente per accedere al mercato privato continuava a non essere
193 I dati sono tratti dalla relazione Troppo consumo di suolo nel nuovo prg di Vezio De
Lucia, Alessandro Abbaterusso, Georg J. Frisch e Andrea Giuralongo, presentata alla stampa il
16 set. 2002 e condivisa con l’associazione Polis, Italia Nostra, Comitato per la bellezza,Vas
e Wwf. In eddyburg.
194
urbanizzazione a go go
risolto. Tutto ciò è stato raccontato da Paolo Berdini194 e nell’ottimo
servizio realizzato da Paolo Mondini per il programma Report di Rai3
curato da Milena Gabanelli195.
La presunta impossibilità di cambiare le decisioni del passato aveva
fornito un ulteriore decisivo sostegno a un modo tutto nuovo di pianificare, basato esclusivamente, o quasi, sulla contrattazione con la proprietà privata. In un’occasione pubblica, riferendomi alla molteplicità
di piani “anomali”, derogatori della classica pianificazione urbanistica,
elaborati e messi a punto negli anni di Tangentopoli e approvati a getto
continuo in quelli immediatamente successivi, osservavo che ciò che
accomuna la quasi totalità di questi piani anomali è che
enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come
motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse
generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e
disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le
metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di
pianificazione “anomali” è quello di consentire a qualunque
intervento promosso da attori privati di derogare dalle regole
comuni della pianificazione “ordinaria”. Di derogare cioè dalle
regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al
quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza
(ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini)196.
Su questa linea si era proceduto. Il prg di Roma era un buon passo
avanti in direzione del passato più oscuro.
Era stato preceduto da una iniziativa del Comune di Milano, tesa a
superare in modo ancora più esplicito i principi e il metodo della pianificazione pubblica, mediante l’accordo preliminare con la proprietà
immobiliare, teorizzandolo con chiarezza. Ecco cosa era successo.
Un colto e intelligente urbanista, Luigi Mazza, consulente del Comune
194
195
P. Berdini, Roma tra pianificazione e contrattazione, «Contesti», 2 (2008), p. 79-88.
Il servizio si chiamava «I re di Roma» e fu trasmesso il 25 mag. 2008; è visibile nel sito
di Report.
196 E. Salzano, Il paesaggio, la storia, l’uomo, relazione alla 1° Conferenza nazionale per il
paesaggio, Roma, 14-16 ott. 1999, in eddyburg. Mi riferivo ai «Programmi integrati», ai «Programmi di recupero urbano», ai «Programmi di riqualificazione urbana» (pru), ai «Contratti di
quartiere», agli «Accordi di programma quadro», ai «Contratti di programma», ai «Patti territoriali», ai «Contratti d’area», ai «Programmi straordinari di edilizia residenziale» e ai «Programmi
di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio» (prusst), le cui anticipazioni
erano avvenute negli anni del craxismo ma che erano diventati prevalenti sulla pianificazione
ordinaria a partire dal 1992.
195
capitolo quattordicesimo
di Milano, aveva proposto agli amministratori un modello alternativo
alla pianificazione “tradizionale”, consistente nel decidere le trasformazioni urbane accogliendo le proposte dei promotori immobiliari, inquadrate in un documento “strategico” a maglie larghissime, poco più di un
ideogramma. Il Comune aveva accolto il suggerimento e approvato un
documento, «Costruire la grande Milano», sul quale si aprì subito una
vivace polemica. Io svolsi una relazione sull’argomento in un convegno
dell’associazione Polis tenuto a Salerno (2001); intervenni poi, in giugno
in un seminario presso la facoltà di architettura di Roma Tre, nel corso
del quale Mazza illustrò il suo documento. Lo criticai, sostenendo che
il nuovo modello di pianificazione si proponeva «di rendere il regime
delle trasformazioni urbane certo per il privato, e flessibile per il pubblico,
a vantaggio degli interessi del privato» e che ciò avrebbe provocato una
giungla nella quale solo gli interessi forti sarebbero stati premiati a danno dell’interesse generale. Precisai il mio punto di vista in un ampio articolo sulla rivista «Urbanistica», in contraddittorio con Mazza197. Pochi
intervennero criticamente: l’innovazione milanese incontrava lo spirito
dei tempi, cui l’urbanistica ufficiale era sensibile.
Il coronamento della linea di privatizzazione e mercificazione delle
scelte sulla città e il territorio fu costituito dalla proposta di legge per il
governo del territorio dell’onorevole Maurizio Lupi, di Forza Italia.
2. La legge Lupi e il consumo di suolo
Le antiche proposte e le animate battaglie per la riforma urbanistica erano ormai lontane. Non erano più Fiorentino Sullo e Giacomo Mancini
i protagonisti, non erano più il Pci e il Psi gli interlocutori delle nostre
proposte di legge urbanistica. Il terreno era molto diverso. Si discuteva
ormai sulle proposte di una destra che vent’anni prima era inimmaginabile. Al centro dell’attenzione, all’inizio degli anni 2000, la legge Lupi.
Nomen omen.
La proposta di riforma del governo del territorio del centrodestra
fu presentata da Maurizio Lupi nel 2003. L’esponente di Forza Italia
veniva dalla Lombardia, dove era stato assessore “allo sviluppo del
territorio” a Milano. Era facile comprendere la legge conoscendo il
“modello lombardo”, elegantemente presentato da Luigi Mazza pochi
197
E. Salzano, Il modello flessibile a Milano, «Urbanistica», 118 (2002), p. 140-148.
196
urbanizzazione a go go
anni prima. La criticammo subito, sottolineando i suoi aspetti peggiori:
l’assunzione della contrattazione tra pubblico e interessi immobiliari
come motore della pianificazione, l’introduzione del concetto di “diritti edificatori” nella formulazione che avevamo già contestato, la
tendenziale privatizzazione degli spazi pubblici. Rilevammo più tardi le
forti similitudini tra quella proposta e il progetto presentato dall’onorevole Mantini per il centrosinistra, e la sostanziale adesione dell’Inu a
quella linea culturale198.
Riuscimmo a sollevare una vasta campagna contro la proposta Lupi,
cui aderirono soprattutto Italia Nostra, il Wwf nel campo dell’ambientalismo (Legambiente ebbe una posizione più defilata), parlamentari
nell’area della sinistra (non solo “radicale”) e dei Verdi. Nell’ambito di
questa campagna avevamo raccolto, prima su eddyburg e poi anche in un
libro, una serie di articoli di critica alla legge199. Alcuni amici del sito si
cimentarono nella stesura di un testo legislativo alternativo: una nostra
proposta di legge urbanistica, più snella ed essenziale di quella che a suo
tempo avevamo predisposto nell’ambito dell’Inu e, più tardi, dell’associazione Polis200. La proposta ebbe un notevole successo. Un gruppo
di parlamentari di sinistra la fece propria e la presentò alla Camera dei
deputati, altre forze politiche vi si ispirarono, più o meno largamente,
al momento di formulare le proprie iniziative legislative. La legge Lupi
fu approvata alla Camera dei deputati, ma al Senato la nostra critica,
tradotta in pratiche parlamentari da Sauro Turroni, senatore dei Verdi,
riuscì ad impedirne l’approvazione definitiva.
La polemica contro la legge Lupi si intrecciò strettamente alla preparazione della prima edizione della Scuola di eddyburg, che si svolse
nel 2005. Il programma era dedicato al consumo di suolo: un argomento che ci sembrava assolutamente centrale nell’Italia di quegli anni
(De Lucia ci tornava sopra sistematicamente nei suoi interventi pubblici,
Antonio di Gennaro ne aveva rivelato i pesanti risvolti sull’assetto della
198 Vedi in eddyburg gli editoriali (i cosidetti eddytoriali) 15 (mag. 2003), 20 (lug. 2003) e
36 (gen. 2004).
199 La controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio» (approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005), a cura di M. C. Gibelli, Firenze, Alinea, 2005.
200 L’iniziativa e i contributi maggiori furono di Paolo Berdini, Giancarlo Storto e Giulio
Tamburini. Vi collaborarono Mauro Baioni, Vezio De Lucia, Luca De Lucia, Edoardo Salzano,
Luigi Scano. Il testo fu poi inviato ad alcuni autori di testi critici rispetto alla proposta Lupi,
che avevano espresso convinzioni analoghe alle nostre e di cui cercammo di inserire le proposte di modifica o integrazione (Luisa Calimani, Roberto Camagni, Pierluigi Cervellati, Antonio
di Gennaro, Maria Cristina Gibelli, Francesco Indovina). Il testo è pubblicato in appendice al
volume La controriforma urbanistica.
197
capitolo quattordicesimo
natura e dei paesaggi agrari, Maria Cristina Gibelli, con Roberto Camagni e Paolo Rigamonti, ne aveva dimostrato i pesanti costi), ma era del
tutto trascurato sia dalla pubblicistica corrente sia – cosa ben più grave – dall’urbanistica ufficiale. Era da vent’anni, dai tempi di un ricerca
campionaria diretta da Giovanni Astengo, che nessuno si occupava del
fenomeno. Raccogliemmo in volume le lezioni e i documenti preparatori, da cui emergevano chiaramente sia l’entità e i danni provocati dal
dissennato consumo di suolo, sia l’attenzione che al problema e al suo
controllo si manifestava da tempo in altri paesi dell’Europa e financo
negli Usa (come ci raccontarono Maria Cristina Gibelli e Georg Frisch):
al confronto, l’arretratezza dell’Italia appariva in tutta la sua drammaticità, a partire dalla mancanza di dati nazionali e regionali attendibili
sull’entità e sugli effetti del fenomeno.
Il punto di partenza per ogni ragionamento dovrebbe essere questo:
la terra, il territorio dominato dalla natura, il suolo non urbanizzato,
non coperto da cemento e asfalto, lasciato libero allo svolgimento del
ciclo naturale, è una ricchezza collettiva, un patrimonio. La sua struttura
fisica è una risorsa essenziale, ed essenziali sono le azioni che su di essa
compiono la fauna e la flora, anche nelle forme più semplice. Le esigenze della società possono richiedere che qualche ulteriore porzione di
terreno venga consumata dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quella esigenza non possa essere soddisfatta altrimenti; e
bisogna percepire comunque questa scelta come una perdita, che è stato
necessario subire ma che si vuole risarcire, restituendo alla natura un
frammento del pianeta non più necessario all’urbanizzazione. Il consumo di suolo non giustificato da un reale e dimostrato fabbisogno sociale
è un danno per l’umanità.
A differenza di quanto accadeva fino a pochi anni fa, oggi tutti, a
parole, considerano il consumo di suolo come qualcosa contro cui
combattere: una calamità da frenare, se non arrestare del tutto. La cosa
scandalosa è che nessuno sa quanto realmente lo sprawl (lo sguaiato
espandersi di un’urbanizzazione rada e disordinata sui terreni rurali)
incida in termini quantitativi sul nostro territorio. Vezio De Lucia enuncia spesso un dato, che è grossolano ma esprime l’entità del fenomeno
visto nella sua tendenza recente. Solo un decimo di tutte le aree oggi
urbanizzate lo erano prima della seconda guerra: il novanta per cento
di tutto ciò che oggi è sottratto alla natura, coperto da asfalto, cemento,
mattoni, è stato prodotto negli ultimi settant’anni. E il disastro prosegue, indisturbato e addirittura ignorato nella sua reale consistenza. Ma
i numeri non ci sono: vengono sparati a caso; c’è chi si basa sulle statistiche agrarie dell’Istat, chi invece spara numeri derivati dal satellite del
198
urbanizzazione a go go
programma Corine201. Gli esperti di eddyburg sostengono invece che tutte
le fonti disponibili sono inefficaci al fine di misurare davvero, con una
qualche attendibile certezza, le dimensioni e la dinamica del fenomeno.
Le statistiche dell’Istat misurano la riduzione dei terreni agrari, la quale
però non è dovuta solo all’espansione urbana ma in larga misura anche
all’abbandono colturale, alla progressiva sparizione delle aziende agricole marginali. E il Corine non è in grado di misurare aree urbanizzate
inferiori ai 25 ettari: trascura quindi grandissima parte degli insediamenti più sparpagliati (il vero e proprio sprawl), come i capannoni isolati, le
strade e le altre infrastrutture.
Eppure, il fenomeno ha una dinamica sempre più preoccupante.
Gli ultimi tre rapporti dell’Agenzia europea per l’ambiente, che riguardano il land cover change (consumo di suolo), lo sprawl e l’evoluzione delle
aree costiere, sottolineano come la crescita dei sistemi urbani in Europa
stia avvenendo a un tasso non sostenibile, che comporterebbe il raddoppio delle città nell’arco di poco più di un secolo.
È solo dopo la prima edizione della Scuola di eddyburg che i temi del
consumo di suolo e dello sprawl sono venuti all’attenzione dell’urbanistica ufficiale e della politica, sebbene più nella retorica delle parole che
nei fatti. Gli urbanisti più sensibili al tema e qualche amministrazione
hanno provveduto a proprie rilevazioni; l’Inu e Legambiente hanno
dato vita a un osservatorio, e poco altro è accaduto. Al momento, i dati
disponibili sono parziali, limitati a singole zone, oppure sono desunti
dalle solite fonti insufficienti, oppure ancora derivanti da stime approssimative.
Non c’è oggi proposta legislativa né atto di pianificazione regionale,
provinciale o comunale che non deprechi l’invasione del cemento o lo
“svillettamento” del territorio, ma rarissimi sono quelli che realmente ne
dispongono la fine. Molto ampio è invece nella società il movimento
che spinge a contrastarli. Voglio citare il numero crescente di persone,
comitati, gruppi di cittadini che aderiscono alla rete Stop al consumo di
territorio, nata nel 2007 nell’Astigiano, subito sostenuta da Luca Mercalli, popolare meteorologo, e critico della devastazione del territorio
dai canali televisivi; da Carlo Petrini, l’inventore di Slow Food e di una
sana alimentazione; da Domenico Finiguerra, il sindaco del comune di
Cassinetta di Lugagnano che ha fatto il primo prg “a consumo zero” di
territorio, e naturalmente da eddyburg.
201 Il Corine (Coordination of Information on Environment) è un programma europeo di rilevazione satellitare del territorio.
199
capitolo quattordicesimo
3. Pubblico e privato nella costruzione della città
Sprawl non significa solo devastazione del territorio e riduzione ingiustificata della naturalità; significa anche disgregazione della città.
Il consumo di suolo è un aspetto di una tendenza più generale, che vede
dissolversi i legami sociali che costituiscono la città, anche perché questa viene perdendo via via, sotto la forte pressione ideologica e politica
del neoliberismo straccione all’italiana, il suo carattere comune, collettivo, pubblico. Fu quindi naturale, dopo un’edizione della Scuola dedicata
al «Consumo di suolo», organizzarne un’altra, nel 2006, intitolata alla
«Costruzione della città pubblica».
«Piazze, edifici, strutture di servizio, e la struttura stessa dei centri
urbani sono stati ideati, nel corso della Storia, per favorire l’incontro e
le relazioni sociali degli abitanti», ricordava Mauro Baioni nell’introdurre le lezioni ed enunciare i temi.
Se i beni collettivi non sono presenti oppure non vengono costantemente mantenuti, le città degradano, accentuando le divaricazioni
sociali, favorendo ulteriormente la privatizzazione dei benefici a vantaggio di pochi benestanti e la socializzazione dei costi per il resto della
collettività, incoraggiando le persone a rinchiudersi nel proprio particolare, individuale, familiare o gruppo. Nelle aree urbane destrutturate
chi è svantaggiato resta indietro. I primi a subire le conseguenze sono i
più deboli: non solo i poveri, gli immigrati o gli emarginati, ma anche le
donne, gli anziani e persino i bambini202.
Il nostro intento – nelle edizioni della Scuola come nella redazione
del sito – era quello di accompagnare l’analisi critica del trend generale,
volta prevalentemente alla denuncia, con l’esposizione di strumenti capaci di costruire alternative e applicazioni positive.
Facemmo riferimento ad alcune esperienze di pianificazione (Napoli,
Sesto Fiorentino, Val di Cornia), purtroppo isolate e in controtendenza,
ma soprattutto guardammo oltre i confini, aiutati dallo sguardo europeo
di Maria Cristina Gibelli. Quella edizione si svolse nell’ambiente incantato del Parco archeo-minerario di San Silvestro in Toscana203, particolarmente propizio allo svolgimento di un lavoro di gruppo.
202 M. Baioni, Le ragioni della costruzione della città pubblica, in La costruzione della città pubblica,
a cura di M. Baioni, Firenze, Alinea, 2008, p. 12.
203 È uno dei dodici parchi che fanno parte della società Parchi Val di Cornia spa, a sud della
provincia di Livorno, a prevalente partecipazione dei Comuni; è stata splendidamente gestita
– dalla sua costituzione al 2007 – da Massimo Zucconi. All’esperienza del Parco è dedicato un
capitolo in La costruzione della città pubblica.
200
urbanizzazione a go go
Porre nell’Italia di oggi l’argomento della città pubblica significa in primo luogo interrogarsi sul rapporto tra pubblico e privato, in particolare sul
terreno dell’economia. L’economista urbano Roberto Camagni illustrò
il caso virtuoso di Monaco di Baviera messo a confronto con Milano.
In Germania, il rapporto corretto tra amministrazione pubblica e promotori immobiliari aveva consentito di trasferire dal privato al pubblico
una quota consistente dell’incremento della rendita fondiaria: una situazione ben diversa da quella italiana, dove gli strumenti dell’«urbanistica
contrattata» e della «perequazione urbanistica» (espressione entrata da
poco nel lessico specialistico) avevano avallato la piena soggiacenza degli interessi pubblici a quelli privati.
4. La perequazione urbanistica
Contro la “perequazione urbanistica” avevamo condotto su eddyburg
continue campagne di critica e informazione, nel tentativo, ahimè non
riuscito, di contrastare una pratica pericolosissima. Si trattava di una
battaglia iniziata anni prima, quando, dopo la sconfitta del nostro gruppo all’interno dell’Inu, l’istituto aveva posto la ricerca dell’accordo con
la proprietà immobiliare come lo strumento per raggiungere, finalmente,
l’efficacia della pianificazione. La perequazione era uno dei meccanismi
da adoperare. Di che si trattava?
L’esigenza di una equità nelle scelte della pianificazione del territorio
è da tempo presente. Ma equità tra chi e per che cosa? Nella versione
nobile essa voleva significare «indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani», che fu la formula adoperata da Aldo Moro, leader della
Dc, negli accordi per la formazione del governo nel 1963204. Si approdò
a una perequazione parziale dei valori immobiliari quando, nel 1968,
si decise che negli strumenti urbanistici attuativi, a partire dai piani di
lottizzazione, tutti i proprietari dovessero ripartire tra loro, equamente,
oneri e vantaggi dell’urbanizzazione ed edificazione.
Già allora, si trattava di una sola, particolare “equità”: quella tra i
diversi proprietari di suolo. Nell’ambito di questa, pur parziale, equità si
voleva comunque ridurre al massimo il peso della rendita sul costo della
casa e delle aree necessarie per gli spazi pubblici. Dovettero trascorrere
alcuni anni perché fosse posto un obiettivo di più generale equità: quella tra tutti i cittadini (anzi, tra tutti gli abitanti della città) relativamente
204
De Lucia, Se questa è una città, p. 31.
201
capitolo quattordicesimo
a tutti i bisogni e a tutte le esigenze che la città è chiamata a soddisfare:
ottenere l’accesso a un’abitazione commisurata, per prezzo e localizzazione, alla capacità di spesa e alle convenienze degli abitanti; disporre
delle attrezzature e dei servizi necessari alla vita individuale e sociale;
fruire di una mobilità sul territorio con un impiego di tempo e di risorse ragionevole; godere della salubrità e bellezza dei luoghi. Era l’equità
implicita nella rivendicazione del “diritto alla città”, emersa nelle lotte
sociali e politiche degli anni 1968-69.
Poi, la svolta. Nel corso degli anni Ottanta alcuni nodi oggettivi furono accettati come insolubili. La disciplina del diritto sui suoli urbani
non era stata riformata come la Corte costituzionale avrebbe preteso, e
la situazione normativa era molto pasticciata. Le amministrazioni pubbliche, salvo eccezioni, non erano attrezzate per pianificare con la tempestività che la velocità delle trasformazioni richiedeva. Una “corrente
di pensiero”, che era diventata maggioranza nell’Inu, propose una nuova prassi per raggiungere l’«indifferenza dei proprietari alle previsioni
dei piani» e soprattutto per evitare di espropriare le aree necessarie per
gli spazi pubblici.
Ecco la proposta dell’Inu. Spalmiamo una cubatura (tot metri cubi
di edifici per ogni metro quadro di terreno) su tutta l’area che vogliamo
urbanizzare: volumi teorici ugualmente assegnati alle aree sulle quali sorgeranno quartieri e lottizzazioni, fabbriche, servizi e spazi pubblici urbani
e territoriali. Se ci serve un’area per fare un parco o una scuola consentiamo al proprietario di tenersi stretti i suoi volumi teorici (i suoi “crediti volumetrici”), spostandoli su un altro suolo, e ci facciamo dare gratis l’area
che ci serve per gli usi pubblici. Naturalmente, più estendiamo le aree
urbanizzabili, più aree per servizi riusciamo a ottenere. Dimensioniamo
quindi il piano non sulla base dei fabbisogni effettivi, ma inseguendo le
spinte della proprietà immobiliare: in quel mercato in cui (come gli economisti liberali seri hanno dimostrato) la concorrenza non c’è205.
In una società nella quale la contrattazione con i privati e la considerazione per gli interessi immobiliari sono al primo posto nell’attenzione
degli amministratori, e dove la cultura urbanistica ufficiale propone il
riconoscimento di presunti “diritti edificatori” e la generalizzazione
della pratica della “perequazione urbanistica”, la ricerca di esperienze
positive non è facile. Nell’edizione 2007 della Scuola ne trovammo.
205 La questione è strettamente legata a quella dei cosiddetti “diritti edificatori”, di cui ho
scritto sopra: la bizzarra teoria secondo la quale se un prg ha attribuito una capacità edificatoria a un’area, questo “regalo” non può essere tolto al proprietario senza indennizzo adeguato.
202
urbanizzazione a go go
Giovanni Lanzuise espose l’immane sforzo in corso a Napoli per
costruire una rete di trasporto pubblico su ferro impiegando tutti i
segmenti di ferrovie statali, locali, metropolitane, funicolari esistenti
(ciascuno dei quali gestito da un ente diverso con finalità e prezzi differenti), in stretto collegamento con la pianificazione urbanistica e i suoi
strumenti. Mauro Baioni illustrò una proposta di riorganizzazione di
Sesto Fiorentino attorno a una rete di spazi e percorsi pubblici. Massimo Zucconi raccontò successi e difficoltà nella gestione del sistema di
Parchi della Val di Cornia, esempio di quanto possa essere virtuosa la
gestione della cosa pubblica.
Il ricorso alla perequazione e agli strumenti anomali era avvenuto
in un periodo nel quale le spinte alla valorizzazione immobiliare avevano ripreso vigore come non accadeva da anni e prodotto quella bolla
immobiliare da cui ha avuto origine l’attuale crisi economica mondiale.
Una produzione di ricchezza finanziaria (le “case di carta” di cui ha parlato, alla Scuola, Giovanni Caudo) a cui non hanno corrisposto benefici
tangibili per le persone, né in termini di risposta ai bisogni (le case costano sempre di più), né in termini di vivibilità. Su quest’ultimo tema
organizzammo la quarta edizione (2008) della Scuola di eddyburg.
5. La città vivibile: per chi, e come?
Già dalle parole con le quali Baioni aveva introdotto la seconda edizione
della Scuola si comprende come il nostro interesse fosse rivolto a vedere la città non solo in termini di spazio e sua organizzazione, ma anche
come società che in essa vive: in che modo la società e le persone che la
compongono vivono la città? Come è raggiunto, o come è raggiungibile,
l’obiettivo della vivibilità?
Inquadrando la quarta edizione della Scuola, Mauro Baioni, Ilaria
Boniburini ed io scrivevamo che l’obiettivo era
comprendere perché, nonostante i programmi e i piani concepiti
a partire dagli anni Novanta del secolo scorso abbiano fatto sovente ricorso a parole come ‘riqualificazione’ e ‘qualità urbana’,
‘rigenerazione’ e ‘vivibilità’, gli effetti prodotti non sono corrispondenti agli obiettivi dichiarati.
Come nelle passate edizioni, per comprendere le ragioni che hanno
determinato questo scarto
ci siamo proposti di capire i presupposti e leggere criticamente
i fenomeni in atto, di ragionare su concetti e strumenti troppo
203
capitolo quattordicesimo
frettolosamente abbandonati, di sperimentare percorsi di riflessione e di iniziative controcorrente206.
Il tema stesso ci indusse ad allargare ulteriormente i contributi per
la Scuola a esperti di altre discipline, e a urbanisti che avevano percorso
itinerari culturali diversi dai nostri. Nella prima giornata, coordinata
da Giovanni Caudo, intervennero Elisabetta Forni, sociologa; Fernando Fava, antropologo; Paola Somma, urbanista attenta ai fenomeni di
segregazione ed emarginazione di gruppi sociali nella città; e infine
Giancarlo Paba, esperto di “progettazione partecipata”. La sessione era
stata preparata e preceduta da un lavoro di Ilaria Boniburini di “analisi
del discorso” riferita a un certo numero di parole chiave sull’argomento
vivibilità (sviluppando l’esperienza dei «Glossari» delle precedenti edizioni). I diversi contributi rilevavano tutti l’esistenza di forti disuguaglianze,
segregazioni, iniquità che la condizione urbana sempre più manifesta:
viviamo in una città caratterizzata da recinti (parola su cui si è efficacemente soffermata Paola Somma, e ripresa in numerosi interventi),
determinati dai differenti valori fondiari (dalla diversa incidenza della
rendita) che la pianificazione e le opere pubbliche attribuiscono alle
varie parti della città e che sono rafforzati dalle diverse forme del condizionamento sociale e dalle “politiche della sicurezza”.
E sempre più emergeva la necessità di assumere, nella pianificazione
e nelle politiche urbane, l’obiettivo di una equità reale sia tra le diverse
categorie di cittadini, sia tra questi ultimi e gli abitanti che, come i migranti, non hanno ancora raggiunto il diritto di cittadinanza. Anche a
proposito della vivibilità, emergeva il carattere meramente retorico della
sua proclamazione come obiettivo delle politiche urbane: un obiettivo contraddetto dalle pratiche. Per affiancare, alla riflessione teorica,
la verifica degli effettivi risultati conseguiti, demmo ampio spazio al
resoconto critico delle vicende urbanistiche recenti di alcune importanti città italiane, affidandolo a urbanisti che in quei contesti operano.
I quattro esempi illustrati, pur costituendo un campione assai limitato,
ci hanno consentito di sviluppare un ragionamento articolato: a Torino,
è un piano regolatore sovradimensionato a condizionare negativamente la riqualificazione urbana, innescando politiche di trasformazione
che fanno leva sullo sviluppo immobiliare; a Bologna, le ragioni del
mattone portano dapprima a deformare i contenuti del prg e poi a sostenere i cosiddetti “programmi complessi”, contribuendo al definitivo
206
No Sprawl, a cura di M. C. Gibelli e E. Salzano, Firenze, Alinea, 2006, p. 8.
204
urbanizzazione a go go
smantellamento del piano. A Cosenza, i programmi complessi alimentano la costruzione della città pubblica e svolgono un’indispensabile funzione complementare alla variante generale al prg, per poi esaurirsi non
appena cessano i finanziamenti comunitari. A Napoli, infine, un piano
regolatore, tradizionale nella forma, contiene un disegno strategico di
grande respiro e, alla prova dei fatti, si dimostra uno strumento particolarmente efficace nel governo delle trasformazioni della città, a dispetto
di alcuni luoghi comuni del dibattito urbanistico di questi anni.
Alcuni dei casi illustrati (Torino, Bologna, Napoli) avevano suscitato
un particolare interesse tra gli studenti e il desiderio di averne una conoscenza più ampia. Nell’ambito della Scuola, l’illustrazione di casi specifici era solo funzionale per argomentare una determinata tesi; gli studenti
invece avrebbero voluto un approfondimento dei casi, una presentazione più ampia degli esempi sviluppati nel loro contesto. Proponemmo
allora di organizzare una serie di iniziative sotto il titolo «Una città, un
piano», dedicata all’analisi ampia delle pratiche (buone o criticabili che
fossero), a condizione che qualcuno se ne assumesse di volta in volta
l’organizzazione. La prima volta (e unica, per ora) accettò la sfida Roberto Giannì, dirigente del “dipartimento urbanistica” del Comune di
Napoli, che nelle giornate della Scuola aveva illustrato brillantemente
il piano regolatore di Napoli. Con l’aiuto di una volenterosa frequentatrice della scuola, Cinzia Langella, l’incontro napoletano fu organizzato
pochi mesi dopo ed ebbe molto successo. Confermando la tesi che le
cose funzionano quando qualcuno se ne assume pienamente la responsabilità e l’esecuzione. Avemmo l’opportunità di studiare una vicenda
eccezionale: Napoli si rivelò come la città che ha conosciuto negli ultimi
anni sia l’avvio di una stagione di pianificazione di ampio respiro e di
straordinario successo, sia il più desolante abbandono del governo del
territorio. In quella stessa città che da tempo è divenuta «un paradigma
della disfatta di ogni prospettiva urbana», come ha scritto Francesco
Erbani, si sta attuando – tra mille difficoltà – il piano regolatore impostato da Vezio De Lucia e tenacemente proseguito dai suoi collaboratori
di allora207.
207 La storia del gruppo di persone che seguì, con continuità e rigore, gli eventi migliori della
storia urbanistica di Napoli (dal “piano dei servizi” del 1975 a quello delle periferie del 1979,
e poi, sotto la guida di Vezio De Lucia, dalla ricostruzione dopo il terremoto del 1980 al prg
del 2004) è una delle testimonianze più felici delle risorse intellettuali e morali del Mezzogiorno, circondate da cumuli di munnezza e tuttavia sempre vive. La storia è raccontata nel libro di
G. Corona, I ragazzi del piano. Napoli e le ragioni dell’ambientalismo urbano, Roma, Donzelli, 2007.
205
capitolo quattordicesimo
Vezio ha raccontato più volte la storia di quel piano, soprattutto la fase
iniziale dell’impostazione, i primi atti e i loro risultati208. A me colpì
molto la testimonianza del fatto che la pianificazione urbanistica può
incidere sulla rendita immobiliare non solo nel senso di incrementarla,
ma anche nel senso di deprimerla. Questo è quanto successe, ad esempio, a Bagnoli, nelle aree dell’Italsider (Iri). Il piano per Bagnoli aveva
deciso di non consentire l’attesa ristrutturazione dell’area, basata sulla
sua utilizzazione edilizia, ma di destinarla in grandissima prevalenza a
parco pubblico, con una limitatissima cubatura. Di conseguenza, l’Iri
aveva dovuto ridurre il valore dell’area nel proprio bilancio. Ed è accaduto analogamente sulle pendici del Vomero, sotto San Martino, dove le
aree libere in attesa di edificazione sono state destinate a verde agricolo
e a standard urbanistici (come tutte le aree ancora libere nell’amplissimo centro storico): lì sono ricomparse le vigne. È estremamente raro,
in Italia, che un atto di pianificazione urbanistica vada nella direzione di
una riduzione del peso della rendita; eppure, è possibile.
Dopo il primo mandato della giunta Bassolino, il quadro politico
locale mutò decisamente. Non cambiarono né il sindaco né la composizione, ma l’attenzione politica si diresse decisamente verso gli affari.
L’involuzione della guida politica non ha impedito però al piano regolatore e al piano dei trasporti, tra loro integrati, di imprimere significativi orientamenti allo sviluppo della città: l’arresto dell’espansione e la
difesa del verde agricolo, il recupero del centro storico, il reperimento
pieno degli standard urbanistici, la regìa pubblica delle operazioni di
riqualificazione urbana (a Bagnoli, così come nelle periferie a occidente
e a oriente del centro storico), l’accessibilità per mezzo del trasporto
pubblico a tutti gli spazi pubblici – nel centro storico e nella periferia –
vitali e liberati dal degrado. Una grande lezioni di urbanistica, ignorata e
anzi spesso dileggiata dalla cultura accademica.
6. La città come bene comune
Da qualche tempo avevo ripreso la riflessione sul tema degli spazi pubblici e sul loro ruolo nella città. L’avevo collegata ad altri argomenti,
emersi negli stessi anni in cui la questione degli spazi pubblici era divenuta rilevante in Italia: il “diritto alla città” e “la casa come servizio sociale”.
208 V. De Lucia, Napoli, cronache urbanistiche. 1994-1997, Milano, Baldini & Castoldi, 1998I;
ma anche, di De Lucia, le memorie, in corso di stampa (vedi nota 34).
206
urbanizzazione a go go
Sollecitato da pensieri di colleghi di diverso orientamento209 avevo cominciato a ragionare sul concetto di bene comune applicato alla città.
Nella relazione preparata per il World social forum 2007 di Nairobi
avevo tentato di definire il significato dell’espressione città come bene
comune, ragionando sulle tre parole che la compongono. Nel definire
la città, ponevo l’accento sulla connessione tra l’idea stessa di città e gli
spazi comuni. Affermavo che «nell’esperienza europea, la città non è
semplicemente un aggregato di case». La città, proseguivo,
è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e
alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli
ospedali e i mercati, ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative
(le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e
servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di
acqua, energia, gas. La città è la casa di una comunità. Essenziale
perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un
insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità,
reciproca solidarietà, regole condivise210.
Nell’aprile del 2007 si era tenuto a Ferrara il primo Festival della città e del territorio, organizzato da Giuseppe Laterza e Francesco Erbani:
vi feci una lezione sul tema degli spazi pubblici. Con Oscar Mancini,
sindacalista e allievo della Scuola di eddyburg fin dalla prima edizione, e
Ilaria decidemmo di organizzare un’iniziativa all’European Social Forum,
che si sarebbe tenuto di lì a poco a Malmö, in Svezia. Preparammo un
convegno e un workshop, in collaborazione con associazioni e strutture
di altri paesi europei211: il tema, con quel tanto di retorica che viene
209 Mi riferisco in particolare alla definizione di Alberto Magnaghi, territorio come bene comune
(cfr. Il territorio come bene comune, intervento al convegno dell’Anci Toscana «Comuni, comunità e usi civici per lo sviluppo dei territori rurali», Grosseto 15 set. 2006) e al breve testo di
Francesco Indovina Città bella PERCHÈ buona, pubblicato in eddyburg, nella cartella «La città:
quale futuro?».
210 La relazione è stata pubblicata da «Carta», 3 (27 gen. 2007).
211 Il gruppo italiano era costituito dalla Cgil di Vicenza, Venezia e Padova, da eddyburg, da
Lavoro in movimento (associazione internazionale che fa capo al sindacato dei lavoratori),
e da Zone onlus (associazione che si occupa di programmi di cooperazione allo sviluppo e
dei problemi dei paesi dei sud del mondo). Secondo il documento conclusivo del convegno,
“diritto alla città” e “città come bene comune” erano le due espressioni che sintetizzavano gli
obiettivi cui finalizzare il lavoro comune. Gli impegni di lotta più immediati che i partecipanti
assunsero furono: eviction zero (zero sfratti) degli abitanti dalle case, dagli spazi pubblici, dai
quartieri e dalla città; difesa del ruolo del lavoro e dei suoi diritti; contrasto alle iniziative di
privatizzazione degli spazi e dei beni pubblici.
207
capitolo quattordicesimo
impiegata in simili eventi, era «Quale futuro scegliamo: la metropoli
neoliberista o una città comune e solidale?». La mia relazione era appunto su «La città come bene comune»212: sostenni che realizzare nel concreto l’immaginario implicito nell’espressione “città come bene comune”
significava soddisfare il “diritto alla città”. Quel diritto, evocato alla
fine degli anni Sessanta del secolo scorso da Henri Lefebvre, ripreso da
David Harvey e solo recentemente riapparso nelle parole d’ordine e nel
lavoro dei ricercatori, che spetta agli uomini e alle donne non in quanto singoli individui (anche se ciascuno ne è beneficiario) ma in quanto
membri della società: in quanto cittadini, o in quanto abitanti benché
ancora privi del diritto di cittadinanza213. Secondo Lefebvre, il “diritto
alla città” si concreta in due aspetti principali: il diritto a fruire di tutto
ciò che la città può dare; il diritto a partecipare al governo della città,
a esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento,
le azioni di chi è preposto all’amministrazione e i loro risultati. Harvey
aggiunge a questi il diritto di trasformare la città, cioè di esprimere il
proprio dissenso sull’assetto attuale e lottare per uno diverso.
Sostenni che il tema della “città come bene comune” deve essere
proposto come il centro di una concezione giusta e positiva di una
nuova urbanistica e di una nuova coesione sociale, e come obiettivo dei
conflitti urbani. Tentai di definirne il contenuto.
È una città che si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti i
cittadini, a partire dai più deboli, che assicura a tutti un alloggio a un
prezzo commisurato alla capacità di spesa di ciascuno, che garantisce a
tutti l’accessibilità facile e piacevole ai luoghi di lavoro e ai servizi collettivi. È una città nella quale i servizi necessari (l’asilo nido, la scuola,
l’ambulatorio, la biblioteca, gli impianti per lo sport e il verde pubblico,
il mercato comunale e il luogo di culto) sono previsti in quantità e in
localizzazioni adeguate, aperti a tutti i cittadini indipendentemente dal
loro reddito, etnia, cultura, età, condizione sociale, religione, appartenenza politica, e nella quale le piazze sono luogo d’incontro aperto a
tutti i cittadini e ai forestieri, libere dal traffico e vive in tutte le ore del
giorno, sicure per i bambini, gli anziani, i malati, i deboli. Ed è una città
nella quale le scelte di governo sono condivise dai cittadini: essi partecipano alla gestione del potere non solo in occasione dell’elezione ma
in ogni momento significativo delle scelte. In essa perciò devono essere
212 Il testo fu pubblicato in un libriccino di poche pagine dall’editore “Ogni uomo è tutti gli
uomini”, Bologna 2009.
213 H. Lefebvre, Il diritto alla città, Padova, Marsilio, 1970 (tit. orig. Le droit à la ville, Paris,
Anthropos, 1968). D. Harvey, The Right to the City, «New Left Review», 53 (2008).
208
urbanizzazione a go go
garantiti la trasparenza del processo delle decisioni che la riguardano,
e la possibilità dei cittadini di esprimersi e ottenere risposte. Tutto ciò
richiede ai cittadini stessi di imparare a conoscere gli obiettivi, gli strumenti, le procedure, le risorse mediante cui si agisce nella città: quelli
che sanno (i tecnici, i sapienti) devono impegnarsi a fornire le loro conoscenze liberamente.
Realizzare e far funzionare una simile città è l’unico modo per ottenere, in futuro e per tutti, il diritto alla città, nei due aspetti dell’appropriazione del suo uso (valore d’uso e non valore di scambio), e di partecipazione piena al suo governo.
7. Lo spazio pubblico della città
Quando si svolse la quarta edizione della Scuola eravamo da poco tornati da Malmö. Nel concludere la sessione, avevamo proposto, come di
consueto, l’argomento dell’edizione successiva. Ci era sembrato che il
tema degli spazi pubblici costituisse un campo d’azione nel quale la professionalità dell’urbanista potesse dispiegarsi in pieno in rapporto con la
coscienza civile. Raccontai che al forum di Malmö un ragazzo greco aveva
chiesto: – ma come facciamo a riunirci, a discutere, a convincere gli altri
abitanti che così non va, che quelle scelte sono sbagliate, che queste
esigenze non vengono soddisfatte, se non abbiamo spazi pubblici dove
riunirci? –. Mi sembrava la testimonianza di un carenza che avvilisce la
stragrande maggioranza dei nostri insediamenti. Siamo pieni di parcheggi, rotatorie e svincoli, ma mancano le piazze. Ci lamentiamo dei “recinti” che segregano le città dei ricchi, quelle dei benestanti, quelle delle
varie categorie dei poveri, vogliamo la mixitè, ma non ci impegniamo a
sufficienza a progettare gli spazi pubblici (utilizzando magari quelli che
gli stessi abitanti hanno scelto come luoghi in cui stare insieme) come
nodi di una ricomposizione sociale della città. Con questo spirito e
queste intenzioni definimmo il tema sul quale avremmo svolto la quinta
edizione della Scuola: «Spazi pubblici, declino, difesa, riconquista».
Nella preparazione dell’argomento (le bozze del programma che
facevamo girare, la raccolta dei materiali preliminari, gli articoli che
nel frattempo scrivevo) enunciavamo una visione ampia dello spazio
pubblico nella città, ed esprimevamo una posizione preoccupata dei
rischi che esso corre. Nel presentare il programma su eddyburg, sottolineavamo come la lotta per una quantità e qualità adeguata degli
spazi pubblici abbia avuto un momento significativo, in Italia, nella
faticosa conquista degli standard urbanistici: era necessario e possibile
209
capitolo quattordicesimo
estendere la rivendicazione ad altri obiettivi: già nella lotta per gli
standard urbanistici, la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si era
saldata a suo tempo con quella per “la casa come servizio sociale” e a
quella per il “diritto alla città”. Con eddyburg e la Scuola volevamo allargare l’attenzione: dalla conquista e dalla difesa delle attrezzature e dei
servizi di prossimità (asilo e scuola, verde di quartiere e parco urbano,
l’ambulatorio e la biblioteca ecc.) all’intero ventaglio delle esigenze
dell’uomo: la ricreazione psicofisica nei grandi spazi naturali, i monti,
le colline, le coste, il godimento degli immensi patrimoni archeologici,
storici e culturali disseminati sul territorio, le attrezzature e i servizi
utilizzabili solo in una dimensione di area vasta (la scuola superiore e
l’università, l’ospedale e lo sport spettacolo, i servizi di smaltimento dei
rifiuti e quelli per l’approvvigionamento idrico).
Eravamo consapevoli del declino degli spazi pubblici, sia come spazi
fisici sia come luoghi del dibattito, della partecipazione, della decisione. Sapevamo che il rischio che corre lo spazio pubblico della città, e
il suo indebolimento nella vita della società urbana, non nascono oggi.
Da decenni nelle periferie non si realizzano più piazze. Sempre più pesantemente si pretende di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”,
come l’antropologo Marc Augé214 definito i grandi complessi nati per
determinate esigenze e funzioni (gli aeroporti e le stazioni ferroviarie,
gli stadi e i grandi alberghi), e via via trasformati in sedi dedicate alla
vendita di merci. Questi si aggiungono alle grandi cattedrali del commercio (i Mall, le Plaza, i Factory outlet, e le altre forme dei centri commerciali) e costituiscono tendenzialmente i cardini di un’organizzazione
del territorio finalizzata al consumismo.
I “non luoghi”, che vengono spacciati come “nuove piazze”, sono
caratterizzati dai requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una
piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): sono recinzione mentre
la piazza è apertura; sono sicurezza mentre la piazza è avventura; sono
omologazione mentre la piazza è differenza e identità; sono infine distanza
dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità. Cambia la stessa natura
delle persone che li frequentano, clienti anziché cittadini.
I rischi che oggi gli spazi pubblici corrono hanno la loro matrice
ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo. Osserva Richard Sennett:
214
1993.
M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera,
210
urbanizzazione a go go
I traumi del capitalismo ottocentesco spinsero chi ne aveva i
mezzi a tutelarsi in qualche modo dagli sconvolgimenti di un sistema economico incomprensibile (…). La volontà di controllare e modellare la sfera pubblica andò progressivamente scemando, e la gente badò sempre più a difendersene. La famiglia divenne uno di questi ‘scudi’. Nel corso del xix secolo, la famiglia
finì per apparire sempre meno il centro di una sfera particolare,
privata, e sempre più un rifugio idealizzato, un mondo a sé, con
un valore etico superiore rispetto alla sfera pubblica215.
È un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale
ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E ha
la sua matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata
e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei
sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove.
Aiutati dal clima generale determinato, nel mondo nord occidentale,
dal crollo delle Twin Towers e dalla reazione di George W. Bush, i governi hanno cercato di mietere facili consensi e di distrarre dai conflitti
reali utilizzando strumentalmente il sentimento di paura per il diverso:
un sentimento che giace al fondo di ogni essere umano, e che in questi
ultimi anni è stato fomentato con il potere pervasivo dei mass media e
delle politiche securitarie. Queste, giustificate dall’accresciuto sentimento di paura, lo hanno a loro volta enfatizzato: sono diventate in questi
anni il nucleo centrale di pratiche largamente condivise. In vaste regioni
d’Italia, soprattutto in quelle del Nord, considerate più “evolute” e
“moderne”, il sospetto nei confronti del diverso, la paura per la presenza
del povero o dello straniero – addirittura la caccia all’extracomunitario!
– sono diventati atteggiamenti cui tutti i benpensanti si sono assuefatti.
La chiusura di porzioni intere di città con barriere fisse, le iniziative per
l’ulteriore emarginazione di Rom e Sinti, l’impedimento all’uso politico
degli spazi pubblici, addirittura la legittimazione del razzismo: tutto
ciò caratterizza le politiche urbane quasi indipendentemente dal colore
politico dei governi e incide pesantemente sulla città. Prime vittime:
gli spazi pubblici.
Nel riflettere sui temi affrontati nelle ultime edizioni della Scuola
sempre più mi rendevo conto che per ottenere una vivibilità diffusa,
dalla quale i deboli non siano esclusi, per ottenere una città che sia
215 R. Sennett,
Il declino dell’uomo pubblico, Milano, Bruno Mondatori, 2006, p. 23.
211
a un tempo il luogo della libertà (“l’aria della città rende liberi”) e il luogo
dell’equità (per tutti, non solo per i proprietari immobiliari), lo spazio
pubblico della città deve essere anche il luogo del conflitto. Conflitto tra i
diversi interessi in contrasto tra loro, di chi vede e utilizza la città come
strumento per arricchirsi e di chi vuole la città come strumento per
abitare, lavorare, incontrarsi, partecipare al governo. Dall’urbanistica,
insomma, occorre guardare alla politica.
212
Capitolo quindicesimo
Scomparsa la politica?
1. Dove siamo: il “pensiero unico”
Peggiorata e in via di ulteriore peggioramento era dunque la condizione
urbana, che gravava sulla popolazione, soprattutto sulle fasce più deboli.
Il nodo stava, con ogni evidenza, all’interno di quella triade alla quale
continuavo a riferirmi: urbs, civitas, polis. Il guasto stava nella società e
nella politica. Era sul rapporto tra urbanistica e società, tra urbanistica e
politica che occorreva ragionare. Tornavo insomma alla riflessione che
avevo avviato negli anni della «Rivista Trimestrale». Ma quanto erano
cambiate società e politica da allora!
Fu Ilaria, la mia compagna, che mi aiutò a comprendere. Di formazione è architetto, ma la passione per i problemi del Sud del mondo e
la volontà di comprenderli l’hanno spinta a coltivare letture che avevo
trascurato, immerso com’ero nelle mie attività. Condividevo con lei
l’analisi che geografi, sociologi, antropologi avevano fatto sul mondo
di oggi (Harvey, Sennett, Baumann, Sassen, Latouche, Escobar, Sachs);
tornavo ad antiche letture di economisti e politologi che mi avevano
nutrito, ai tempi in cui collaboravo con la «Rivista trimestrale» (Gramsci
e Marx, Rodano e Napoleoni, Galbraith e Packard). Ciò dava spessore
a quanto ogni giorno leggevo sui giornali per aggiornare eddyburg, e integrava quanto imparavo dai docenti che collaboravano con la Scuola di
eddyburg e con il sito.
La svolta italiana degli anni Ottanta, che avevo registrato e studiato
(e vissuto) negli avvenimenti dell’urbanistica italiana e in quelli della politica, era il riflesso di una svolta molto più ampia, che aveva trasformato
213
capitolo quindicesimo
l’intera società nordatlantica216. Erano cambiate le cose, le gerarchie di
potere, le forme stesse del potere. La nazione e lo Stato non registravano più i conflitti tra le classi sociali e le posizioni di equilibrio via via
raggiunte. Erano sempre più subordinate a un potere sovranazionale.
Quest’ultimo non era l’espressione di un accordo tra gli stati nazione
(come nell’Ottocento, con le conferenze internazionali, e nel Novecento con la Società delle Nazioni e l’Onu), ma della consonanza tra i
grandi potentati economici.
I nuovi strumenti di comunicazione, messi a punto con le invenzioni
militari della seconda guerra mondiale, non erano finalizzati a migliorare la comprensione tra gli uomini e la loro crescita spirituale e morale,
ma a due funzioni pressoché esclusive: da un lato, consentire al mondo
della finanza di sfruttare tutte le occasioni di arricchimento; dall’altro,
trasformare l’uomo in consumatore di merci sempre più distanti dal
bisogno reale, ma sempre più necessarie alla produzione, trasformare
insomma il cittadino in cliente. Entrambe le funzioni erano necessarie
per la sopravvivenza di un sistema economico-sociale nato qualche secolo prima, e di cui ci si vergognava di pronunciare il nome: il sistema
capitalistico-borghese. Aveva mutato aspetto e regole ma era sempre
quel sistema, fondato sulla riduzione del bisogno dell’uomo a un set storicamente dato, sull’alienazione del lavoro, sulla riduzione d’ogni valore
a quello di scambio e d’ogni bene a merce, e finalizzato alla massimizzazione del guadagno e del potere dei proprietari e, sempre più decisivamente, dei gestori del capitale.
Per raggiungere i suoi obiettivi, il sistema (la nuova forma del proteiforme sistema, analizzato, in differenti contesti e con differenti obiettivi,
da Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx) aveva dovuto cambiare la
testa delle persone. L’induzione del consumo da parte della produzione
era stata analizzata già negli anni Sessanta, così come le caratteristiche
di un consumo divenuto ormai (nel mondo atlantico) «opulento»217.
Riemergevano gli argomenti, i problemi, le parole su cui avevo cominciato a lavorare quasi mezzo secolo prima. Allora il cambiamento era al
suo inizio, adesso si manifestava in tutte le sue conseguenze.
216 Gigi Scano mi suggerì di preferire questa dizione a quella di occidentale. Occidente è un concetto relativo, essendo a sua volta oriente rispetto a un altro luogo; poteva avere senso quando
l’unico confine rilevante era quello della “cortina di ferro”. Il mondo cui mi riferisco è quello
di cui fanno parte sostanzialmente l’Europa, gli Usa e il Canada.
217 Si vedano Galbraith, La società opulenta; V. Packard, I persuasori occulti, Torino, Einaudi,
1967.
214
scomparsa la politica?
Profondamente mutata era l’ideologia prevalente. Dopo la caduta
del Muro di Berlino e la crisi dei grandi partiti di massa, la parola
ideologia era stata cancellata dall’elenco delle parole neutrali, utilizzabili
senza conferire loro una valenza aprioristicamente positiva o negativa.
Era considerato un bene essersi liberati dell’ideologia. Non ci rendeva
conto che, in realtà, l’ideologia alla quale ci si riferiva era quella della
sinistra; quella che, con differenti accentuazioni, copriva un arco che
andava dalle posizioni comuniste a quelle socialdemocratiche. Per
semplificare, l’ideologia che aveva come riferimento sociale primario
il mondo del lavoro, come assetto dello Stato quello del welfare, come
quadro geopolitico quello internazionale. Si divideva nelle sue due
componenti classiche: la “riformista”, che puntava a un capitalismo
emendato dai suoi vizi più appariscenti, e la “rivoluzionaria”, che riteneva necessaria una critica radicale del sistema economico-sociale
vigente e un suo totale superamento. L’una e l’altra assumevano la
differenza di interessi della classe dei capitalisti e quella dei proletari
come un dato di fatto, che si esprimeva nel continuo confronto tra
l’una e l’altra classe, la cosiddetta “lotta di classe”.
Esistevano, in Italia come nel resto dell’Europa occidentale, altre
ideologie, variamente contrapposte a quella di sinistra. Ma tutte condividevano, negli anni della Resistenza ai nazifascismi e nei successivi,
un insieme di princìpi e di interessi comuni: la libertà d’espressione
e d’azione politica, la tensione verso l’uguaglianza, il primato della
democrazia parlamentare rispetto ad altre forme di governo, la distinzione tra interesse generale e interesse di singole parti della società, la
laicità e autonomia dello Stato rispetto ad altri poteri, la garanzia per
tutti i cittadini della sicurezza del lavoro, di un dignitoso tenore di vita,
dell’istruzione e dell’assistenza sociale e sanitaria218.
Con la “caduta delle ideologie” tutto questo è venuto meno. Dietro
a quella caduta c’è una ideologia dissimulata ma dominante: il neoliberismo. Giorgio Ruffolo la descrive così: «La controffensiva capitalistica
cavalca la riscossa del pensiero neoliberista, “monetarista” (…) che
respinge nettamente l’interferenza dello Stato nel mercato e riporta in auge un idolo che sembrava distrutto: la fede inconcussa nella
218 Questi diritti sono espressi nella Carta dei diritti dell’uomo, approvata nel 1948 dall’Onu
e accolta come base delle legislazioni nel diritto di tutti i paesi democratici. Un’analisi anche
sommaria della traduzione in pratica di quei diritti consentirebbe di misurare l’enorme distanza tra gli impegni assunti e la realtà. Così come misurare l’entità di quella distanza nel tempo ci
aiuterebbe a comprendere quanto siamo caduti in basso.
215
capitolo quindicesimo
sua capacità di autoregolazione»219. E David Harvey: «Il neoliberismo è
in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo
la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno
di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà
privata, liberi mercati e libero scambio»220.
Harvey vede nel «neoliberismo» (neoliberalism) non un nuovo liberalismo (liberalism), ma una teoria economica che ha sostituito l’embedded liberalism, cioè quella forma di organizzazione economico-politica nella quale
esisteva, accanto al mercato, una trama di restrizioni sociali e politiche e
l’utilizzo di politiche fiscali e monetarie keynesiane che limitavano e orientavano la strategia economica e industriale, al fine di raggiungere la piena
occupazione, la crescita economica e il benessere dei cittadini. Per Harvey
il neoliberismo è una teoria di pratiche di politica economica piuttosto
che una completa ideologia politica: più precisamente, è «un progetto di
lotta di classe». La mancanza di una dottrina apertamente dichiarata, di
una ideologia (come erano anche il comunismo e il socialismo) lo rende
più idoneo ad essere accettato e condiviso, perché apparentemente non
schierato, neutrale. Come si direbbe a Napoli, traseticcio 221.
2. La politica dei partiti non c’è più
Il trionfo di quella ideologia, che ha distrutto tutte le altre per presentarsi come il tendenziale “pensiero unico”, ha contribuito a determinare
lo svuotamento della politica quale l’avevamo conosciuta: la politica dei
partiti. La politica è conflitto, gara, competizione. Tale è sempre stata e
sempre sarà, finché gli interessi dei diversi gruppi sociali saranno alternativi nell’uso delle risorse. Ma quando io aderivo al partito lo scontro
politico era competizione tra progetti alternativi di società, riferiti agli
interessi di determinate classi sociali, ciascuna delle quali però mirava
219 G. Ruffolo, Lo specchio del diavolo. La storia dell’economia dal paradiso terrestre all’inferno della
finanza, Torino, Einaudi, 2006, p. 110.
220 Harvey, Breve storia del neoliberismo. In Europa i termini liberalismo e liberismo sono distinti
e collegati. Entrambi si riferiscono a una concezione sostanzialmente conservatrice (di cui il
primo esprime l’ideologia e la dottrina politica, il secondo la teoria e la pratica economiche),
mentre negli Usa una posizione liberal è progressista. Come risulta invece dalla definizione di
Harvey, il neoliberalism esprime un pensiero conservatore: da ciò probabilmente la traduzione
dell’americano neoliberalism nell’italiano neoliberismo.
221 Traseticcio: insinuante, che sa entrare nell’animo e nei fatti altrui senza farsene accorgere.
216
scomparsa la politica?
a soddisfare l’interesse generale: più precisamente, l’interesse di quell’insieme di gruppi sociali che si riteneva rappresentassero meglio l’aspirazione a una società libera e giusta per tutti.
A seconda di chi conquistava il potere, il compromesso che via via si
raggiungeva nell’attività di governo era più vicino all’uno o all’altro progetto di società. L’obiettivo che le formazioni politiche perseguivano
(e che era assunto dagli appartenenti alle diverse formazioni) era di
ampio respiro. Si realizzava con piccole azioni e piccole trasformazioni, passaggi di una costruzione complessiva, che si sarebbe concretata
interamente solo in un futuro lontano. Si lavorava oggi per domani,
e magari per dopodomani.
E, poiché per realizzare il proprio progetto di società era necessario
il consenso, l’azione politica si arricchiva di una forte componente didattica: occorreva spiegarlo, illustrarne le ragioni, le possibilità, le conseguenze. Per conquistare i voti occorreva prima formare le coscienze,
partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma
cercando di farli convergere verso un interesse più ampio: tendenzialmente, verso un interesse generale.
Oggi l’attenzione è tutta schiacciata sul breve periodo, addirittura
sull’immediato, su ciò che si può raggiungere oggi, prima che inizi la prossima campagna elettorale. E poiché ciò che conta è conservare (o conquistare) il potere, ecco che lo sforzo non è rivolto a formare le coscienze e
a costruire il futuro, ma a guadagnare l’egemonia, con una doppia operazione: calibrando, da una parte, la propria proposta politica sul consenso
che si può guadagnare nell’immediato, sugli interessi già presenti oggi e
in grado oggi di essere soddisfatti; dall’altra, impiegando tutte le tecniche
capaci di manipolare la coscienza di strati vasti di popolazione222.
C’è un nesso evidente tra questa mutazione della politica e quella
mutazione culturale cui mi sono diffusamente riferito. Dissolto l’indispensabile equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata
dell’uomo moderno, questo si è completamente ripiegato sull’intimismo. L’individualismo caratterizza sempre di più i pensieri, le emozioni,
i comportamenti dell’uomo di oggi, la sua cultura, mentre si è impoverita progressivamente la vita pubblica. La condivisione di obiettivi collettivi, la ricerca comune della soluzione dei problemi di tutti non sono
più di moda. La solidarietà si è ridotta a pratiche vicine all’elemosina.
222 «Quando la politica non è più lo strumento attraverso cui si dirige un paese in base a
un’idea forte delle sue prospettive future, ma un navigare sulle sue debolezze, lusingandole e
cercando di volgerle a proprio vantaggio, rispecchiandole e accentuandole, un paese va incontro al suo declino»: F. Cassano, Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004, p. 33-34
217
capitolo quindicesimo
I nuovi “valori” sono tutti riconducibili all’affermazione individuale.
Parole (e concetti) come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati
sinonimi di peso, obbligazione, vincolo, impaccio. Il ”mercato”, istituzione inventata dalla storia dello sviluppo economico per determinare il
prezzo delle merci, è diventato perno di una “ideologia” che appiattisce
ogni qualità, ogni differenza, ogni dimensione.
3. La fine del Pci
La scomparsa della politica dei partiti tende a identificarsi, nella mia
memoria e nella mia vita, con la scomparsa del Pci. Più volte mi sono
domandato il perché di quella scomparsa, e perché sia stato così rapido
e quasi naturale per tanti militanti e dirigenti di quel partito approdare a
posizioni radicalmente alternative rispetto a quelle fino ad allora difese.
Un tradimento morale, prima che politico, un cambiamento di costume,
prima che di convinzioni. Forse aderire al Pci (al più forte e prestigioso partito d’opposizione, concretamente candidato alla successione
dell’egemonia democristiana e già prevalente in importanti settori e regioni) era una forma di promozione sociale. Molti, una volta crollato il
Pci, facilmente trasmigrarono dove la promozione sociale era più facile.
Questa può essere una ragione, ma certo vi furono cause più profonde.
Condivido l’analisi di Giuseppe Chiarante, nel terzo dei suoi libri,
limpidi e maneggevoli, dedicati alla storia del Pci, vissuta dall’interno
con passione e con rigore.
Il capitolo cui mi riferisco ha il titolo significativo «L’offensiva del
pensiero unico». E Chiarante individua infatti la matrice del crollo nel cedimento, in settori rilevanti del Pci, alla «grande offensiva ideale e politica
neoconservatrice che negli anni Ottanta – favorita sia dal precipitare della
crisi del sistema comunista in tutto l’Est europeo, sia dal logoramento
e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche
dell’Europa occidentale – si sviluppò con tanto impeto in Europa come
in America, nei paesi dell’Est come in quelli dell’Ovest». La sconfitta della
sinistra che in tal modo maturò è stata «culturale e ideale ancor prima che
politica». Chiarante sottolinea tre questioni che rivelano «come in pochi
anni, anche in un paese come l’Italia, questa offensiva abbia modificato in
modo radicale idee e convinzioni diffuse nell’area dell’opinione democratica, compresa buona parte della sinistra di opposizione»223.
223
G. Chiarante, La fine del Pci. Dall’alternativa democratica di Berlinguer all’ultimo Congresso
218
scomparsa la politica?
La prima riguarda la perdita di fiducia nella programmazione. Scrive
Chiarante:
Raccoglieva crescenti consensi, e trovava ascolto anche
in settori assai estesi della sinistra politica e sindacale, la tesi
che la crisi delle politiche di pianificazione o programmazione
(sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi comunisti dell’Est europeo, sia nelle forme programmatorie delle
politiche keynesiane e delle esperienze dello Stato sociale) non
solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell’impraticabilità
di serie alternative alle regole del liberismo, del privatismo, del
libero mercato.
Il fatto che questa tesi si sia estesa fino all’abbandono delle pratiche di programmazione delle trasformazioni della città e del territorio
(la pianificazione urbanistica), introdotte dalla borghesia liberale prima
ancora dell’affacciarsi del pensiero marxista e delle pratiche dei socialismi, mi sembra una significativa testimonianza della profondità della
crisi culturale e ideale della sinistra. E questa tesi ha comportato anche,
prosegue Chiarante, «il risultato pratico di contribuire a indebolire la
tutela della classe operaia e di modificare a suo svantaggio i rapporti di
forza nella struttura produttiva e sociale».
Il secondo aspetto che si deve sottolineare, se si vuol comprendere
che cosa ha provocato la fine del Pci, e la crisi di tutta la sinistra, è secondo Chiarante, il peso
che ebbe, nel modificare negli anni Ottanta gli orientamenti di
larga parte dell’opinione pubblica, l’insistente campagna sulla
‘crisi’ e anzi sulla ‘morte’ delle ideologie. È quasi inutile ricordare
quanto di ideologico vi fosse e vi sia alla base di una simile tesi.
Ma è un fatto che essa finì con l’essere largamente accettata,
anche a sinistra, non solo come critica dei “partiti ideologici”
(e partiti ideologici per eccellenza erano ovviamente considerati,
in Italia, la Democrazia cristiana e il partito comunista), ma anche e soprattutto come negazione dell’idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell’azione politica.
«Negazione dell’idea stessa di una finalizzazione ideale e morale
dell’azione politica»: non è questo il male che soffriamo e denunciamo
(1979-1991), Roma, Carocci, 2009, p. 101-102. Il libro fa seguito ai due volumi Tra De Gasperi e
Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta, (2006) e Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo
al compromesso storico, (2007), pubblicati con lo stesso editore.
219
capitolo quindicesimo
oggi? Questa è la ragione per cui insisto nel parlare di ideologia, parola quasi impronunciabile oggi, poiché non si sa più che essa significa,
come più volte ho ricordato in questo stesso libro, «quell’insieme di
credenze condivise da un gruppo e dai suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali».
Forse è proprio dalla rinuncia all’ideologia, a un sistema di convinzioni
e di principi coerentemente praticati, che deriva il ridursi del lavoro
dell’esperto (e in particolare dell’urbanista) alla mera applicazione di
tecniche neutrali come strumenti di qualsiasi interesse costituito, dotato
del potere di presentarsi come “committenza”. Se non ho – e non condivido con altri – un insieme di convinzioni e di princìpi, in base a che
cosa decido se privilegiare gli interessi dello speculatore o quelli degli
abitanti del quartiere in cui sono chiamato a operare?
Il terzo aspetto della crisi della sinistra è, nell’analisi di Chiarante, il
fatto che
la critica alla degenerazione del sistema dei partiti abbia subito
nel corso di quel decennio, anche in settori via via più estesi
del gruppo dirigente comunista, un cambiamento di segno:
sino a porre capo non più a una domanda di “rinnovamento
della politica” – così come era stata formulata da Berlinguer
– ma a una proposta di mutamento del solo “sistema politico” (inteso in senso stretto), ossia come cambiamento delle
regole istituzionali o elettorali. Veniva in tal modo spalancata
la strada alla deriva decisionista. In particolare, all’idea che bastasse “sbloccare” il sistema politico per realizzare l’alternanza
e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione,
al malgoverno. E per sbloccare il sistema politico, chi doveva
compiere il primo passo era naturalmente il Pci, mettendo in
discussione se stesso, ponendo fine al “partito diverso”, omogeneizzandosi agli altri partiti. Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del partito comunista
italiano.
La deriva decisionista, la ricerca della governabilità attraverso la “riduzione” della democrazia costituiscono di fatto una difficoltà crescente per chi persegua un governo del territorio del quale i cittadini in quanto
tali siano i responsabili e i primi beneficiari. La decadenza dei consigli
(delle componenti larghe e rappresentative della pluralità delle posizioni
nelle istituzioni della democrazia) e il maggior potere attribuito ai sindaci e ai “governatori”, la trasformazione in aziende di tipo privatistico
degli altri strumenti dell’azione pubblica (come le università e gli ospedali), l’introduzione sempre più larga del “commissario” dotato di pieni
poteri derogatori, rispetto alle regole comuni, per un numero crescente
220
scomparsa la politica?
di settori di decisioni: tutto ciò caratterizza sempre di più il governo
del territorio. Con un largo consenso in entrambi gli schieramenti. Una
prova dei successi dell’«offensiva del pensiero unico».
4. Qualcosa si muove sul territorio: i movimenti…
Da dove partire per ricostruire una politica capace di avviare un cambiamento profondo della società, di salvarla dal baratro di distruzione
di risorse e patrimoni d’ogni genere, e dal crescere di ingiustizie, disagi,
sofferenze che questo sistema non cessa di produrre?
Intanto occorre ricordare che la politica non è solo quella dei partiti,
ma è una dimensione essenziale dell’uomo. Non è un’attività riservata
a pochi, ma significa partecipazione del cittadino al governo della propria polis. Deve essere quindi responsabilità di tutti. Afferma uno dei
ragazzi della Scuola di Barbiana: «Ho imparato che il problema degli
altri è uguale al mio. Uscirne insieme è la politica. Uscirne da soli è
l’avarizia»224.
Se è così, se la politica è la dimensione necessaria d’ogni uomo che
non sia chiuso nel proprio individualismo, se è sull’homo socialis che occorre far leva, allora bisogna partire da quei punti della società di oggi
dove si manifesta, con maggiore o con minore maturità e consapevolezza, l’esigenza di farsi carico di interessi che non sono solo del singolo o
del gruppo ristretto, ma di comunità più larghe: tendenzialmente dell’intera società.
Si tratta di affidarsi oggi a una fiammella molto tenue. È alimentata
da una miriade di episodi che nascono spontaneamente nella società e
rivelano il trasformarsi di insofferenze individuali in tentativi di aggregazioni, associazioni, iniziative comuni di protesta, e talvolta anche di
proposta. Movimenti che affiorano nella società, e che aspirano a un
superamento delle condizioni date.
Gruppi di cittadini che si oppongono alla distruzione o privatizzazione di parti del territorio considerate essenziali, come il verde, l’ambiente,
il paesaggio, gli spazi pubblici, o che rivendicano l’uso di spazi inutilizzati come luoghi da adibire a funzioni d’interesse comune, o che resistono per difendere la propria abitazione dallo sfratto da edifici e quartieri
minacciati dalla speculazione, o che si mobilitano per la difesa di gruppi
sociali minacciati dalle pratiche di segregazione e d’emarginazione
224
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 14.
221
capitolo quindicesimo
e per la rivendicazione dei diritti delle minoranze (etniche, di genere, di
reddito). Si tratta di gruppi di “cittadinanza attiva” che si aggregano
a volte in comitati, a volte in coordinamenti più ampi (come la Rete
toscana dei comitati per la difesa del territorio) o sull’assunzione di un
determinato problema (come il movimento Stop al consumo del territorio, o le numerose associazioni nazionali e internazionali per la difesa
dagli sfratti).
A questi gruppi di “cittadinanza attiva” fa riferimento il libro di un
uomo che ha attraversato molte esperienze, non solo nel campo che più
gli è proprio (la storia della letteratura), ma anche in quello della politica
e della cultura, Alberto Asor Rosa. Egli scrive:
Da qualche anno mi sono impegnato in un nuovo lavoro ambientalista, in difesa del territorio e del paesaggio. Quest’attività
si fonda sulla spontanea associazione dei Comitati di base, che
stanno fuori dal meccanismo politico istituzionale. Dentro queste nuove esperienze circola una gran quantità di energie nuove,
diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso potrebbe dirsi
delle associazioni nel campo dei diritti civili. Naturalmente non
penso che si tratti di esperienze in sé risolutive: penso però che
si tratti di esperienze che si muovono nella direzione giusta.
Il problema è come farle emergere, le nuove forze, sottraendole
agli ingranaggi attualmente mortiferi della politica225.
I movimenti cui si riferisce Asor Rosa (che è anche portavoce della
Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio) crescono di mese
in mese. Sono fragili, discontinui, spesso aggrappati al problema “locale”
da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale debolezza, essi testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose,
e sempre più spesso riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
E tentano a volte di accompagnare la loro critica con la formulazione di
proposte positive (come l’associazione dei Comuni virtuosi), seguendo
in questo le associazioni tradizionali (come Italia Nostra).
Un segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica, latenti nella società, che esprime principi di solidarietà e di consapevolezza del ruolo insostituibile della presenza pubblica, è rappresentato
dall’«Onda» che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutti i
225 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Roma-Bari,
Laterza, 2009, p. 167.
222
scomparsa la politica?
suoi percorsi: dalle primarie alle università, dagli studenti ai docenti al
personale ausiliario, ma soprattutto dal personale di elementari, medie
e superiori. Testimonianza del fatto che – sostiene Asor Rosa – nella
scuola c’è un bastione di resistenza all’ideologia montante.
Anche un insigne costituzionalista, ex presidente della Corte costituzionale, sottolinea il ruolo dei movimenti che scaturiscono dalla società
civile. Scrive Gustavo Zagrebelsky, a proposito della crisi della democrazia e della politica:
Noi non contrasteremo le deviazioni dall’idea costituzionale
di democrazia soltanto denunciandone l’insidia e i pericoli, cioè
parlandone male. In carenza di una sostanza – cioè di istanze
politiche venienti da una società civile non disposta a soggiacere
a un potere che cala dall’alto – perché mai si dovrebbero difendere istituzioni svuotate di significato? Le istituzioni politiche
vitali sono quelle che corrispondono a bisogni sociali vivi. Se
no, risultano un peso e sono destinate a essere messe a margine.
Qui si innesta il compito della società civile, nei numerosissimi
campi d’azione che le sono propri, e delle sue tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre.
La formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è
per loro. La sua difesa è nell’interesse comune. Non c’è differenza, in questo, tra le associazioni che operano per la promozione
della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi
della vita sociale. C’è molto da fare per unire le forze. E c’è
molto da chiedere a partiti politici che vogliano ridefinire i loro
rapporti con la società civile: innanzitutto che ne riconoscano
quell’esistenza che troppo spesso è stata negata con sufficienza,
e poi si pongano, nei suoi confronti, in quella posizione di servizio politico che, secondo la Costituzione, è la loro226.
Un altro bastione di resistenza, e quindi di possibile speranza per il
futuro, è certamente presente nel mondo del lavoro dipendente. La classe operaia (l’abbiamo visto nei precedenti capitoli) ha avuto un ruolo
decisivo nelle trasformazioni della città e della società negli ultimi due
secoli. È in gran parte grazie alle lotte delle organizzazioni sociali e politiche della classe operaia che è nato il welfare urbano: quell’insieme di
politiche, servizi, attrezzature e spazi che determina la vivibilità diffusa
nelle città dove il ruolo di quelle organizzazioni ha inciso di più, arricchendo gli elementi di vita sociale prodotti dalla città antica: alle piazze
e ai mercati, alla cattedrale e al palazzo del governo si sono aggiunti gli
226 G. Zagrebelsky, Democrazia in crisi, società civile, «La Repubblica», 7 nov. 2009, anche
in eddyburg.
223
capitolo quindicesimo
asili e le scuole, le biblioteche e le palestre, i parchi e l’edilizia abitativa
pubblica. Il welfare urbano ha costituito, in qualche modo, il trasferimento all’insieme della società urbana della solidarietà di fabbrica. Oggi
questa solidarietà tende a scomparire: il lavoro è, insieme all’ambiente,
vittima del neoliberalismo227. Ridotta la sua rilevanza sociale, indebolita
la sua consistenza economica (la sua mercede), frantumato nei suoi luoghi e nei suoi tempi dalle pratiche sempre più diffuse di esternalizzazione, di precarizzazione, di trasferimento della produzione in aree dove
i diritti del lavoro sono meno garantiti, il lavoro subisce un ulteriore
passaggio dopo quello dell’alienazione: diventa irrilevante ai fini del valore dell’uomo. Questo infatti interessa sempre meno come lavoratore,
come artefice della produzione, e sempre più come mero consumatore.
È anche per questo che – accanto ai movimenti per la difesa del territorio e per l’ambiente, a quelli per i diritti civili e il carattere pubblico
e libero della scuola, a quello per la liberazione della donna – scendono
di nuovo in campo anche forze legate direttamente al mondo del lavoro. È il caso, in Italia, della rete delle camere del lavoro della Cgil che
hanno aperto vertenze per la “contrattazione sociale territoriale”. Non
è più solo nella fabbrica che avviene lo sfruttamento del lavoro. Esso si
manifesta sempre più ampiamente nell’organizzazione della città e del
territorio: nelle difficoltà sempre maggiori di trovare un’abitazione a
prezzi ragionevoli, un funzionamento decente della mobilità, una rete di
servizi sociali diffusa; e si manifesta nella sempre più diffusa utilizzazione, da parte del capitale, di politiche urbanistiche che consentano di arricchirsi ulteriormente, lucrando sulla rendita e smantellando la fabbrica
per trasformarla in terreno edificabile228.
Ha scritto un dirigente sindacale, da tempo partecipe alle vertenze
per il territorio e l’ambiente, Oscar Mancini:
È necessario un incontro tra il movimento sindacale e
i comitati, le associazioni, i gruppi, spesso nati spontaneamente
227 O. Mancini, Il lavoro e il territorio. Le due vittime del neoliberismo, in Città e lavoro. La città come
diritto e come bene comune, a cura di E. Salzano, O. Mancini, S. Chiloiro, Roma, Ediesse, 2009.
228 Esemplari due casi recenti. A Scandicci (Fi) la proprietà del complesso industriale
Electrolux (ex Zanussi) voleva chiudere l’attività produttiva e ottenere una valorizzazione
edilizia dell’area; la resistenza operaia, appoggiata da un’intelligente decisione urbanistica del
Comune, di non consentire alcuna modifica della destinazione d’uso dell’area e dal sostegno
della Regione, ha consentito di conservare la funzione produttiva, modificando la tipologia del
processo e del prodotto. A Milano, dove era in corso il tentativo di smantellare l’antica fabbrica
Innse (ex Innocenti), la continuità dell’attività produttiva è stata ottenuta grazie alle inedite
forme di lotta e al sostegno dell’opinione pubblica. Vedi l’articolo di M. Baioni, Riconversione
produttiva, valorizzazione immobiliare, in eddyburg.
224
scomparsa la politica?
attorno a un evento, una minaccia, un progetto. Una nuova
coscienza collettiva che nasca da questo incontro non può che
essere fondata sulla consapevolezza dell’impossibilità del mercato di risolvere i problemi derivanti dal carattere intrinsecamente
sociale e collettivo della città e del territorio, in contrasto con il
carattere individualista proprio dell’ideologia che sta alla base
del sistema capitalistico, ovvero dell’attuale sistema economico
sociale229.
Incontro non certo facile: diverse sono infatti le origini delle rivendicazioni dei movimenti ambientalisti e quelle del mondo del lavoro. Queste ultime tendono spesso a vedere nella difesa dell’occupazione in atto,
nelle sue forme determinate, il valore principale cui tutto subordinare.
Le componenti dell’ambientalismo tendono simmetricamente a restar
legati alla loro specifica e localistica vertenza, a vedere l’albero e non
la foresta di cui è parte. Ciò non sfugge a chi propone una prospettiva
“rosso-verde”. Mancini cita in proposito una frase di Asor Rosa:
La cosa, se si entra nel merito, è tutt’altro che semplice: una
classe operaia ecologista ancora non s’è vista ma neanche s’è
visto un militante ecologista capace di «pensare» la questione
sociale contemporanea. E pure sempre più avanza la consapevolezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata
e razionale, delle due prospettive e cioè, per parlarne in termini
politici, dalla sovrapposizione e dall’intreccio del «rosso» e del
«verde»230.
5. Il sestante e le solide scarpe
Frammenti di resistenza e segmenti di un potenziale fronte alternativo a
quello espresso dal pensiero dominante e tradotto in concrete politiche.
Come metterli insieme però? Come ottenere dalla loro unione una forza
che sia più della somma delle parti? Il cammino non è facile, per molte
ragioni. Ogni segmento è figlio di una vicenda che ha radici diverse da
quelle d’ogni altro, ha le sue ragioni (soggetti, obiettivo, controparti)
che sono simili forse a quelle di molti, ma non di tutti. L’autonomia
di ciascuno deve essere rispettata al massimo, ma questo non può impedire che un coordinamento esista, che una rete si costituisca. Ogni
segmento ha risorse scarse, la sua attività è basata sul volontariato e su
229
230
Mancini, Il lavoro è il territorio, p. 48.
A. Asor Rosa, Più del fascismo, «il manifesto», 6 ago. 2008.
225
capitolo quindicesimo
contribuzioni limitate; eppure, se si vuole un’attività di coordinamento
e di servizio utilizzabili per tutti – una rete – occorre rinunciare a una
parte delle risorse di ciascuno. Ciò vale anche per i poteri: se la rete ha
un potere (di rappresentanza, di comunicazione, di distribuzione delle
risorse tra obiettivi alternativi), in che modo i diversi segmenti concorrono alla sua formazione? E i rapporti con i partiti e con le istituzioni,
occorre cercare il confronto e praticare il conflitto, oppure accettare
anche la collaborazione? E a quali condizioni? Problemi aperti.
Il cammino da percorrere per trasformare in una nuova politica ciò
che si muove oggi sul territorio è certamente lungo, a meno di improvvisi e imprevisti mutamenti del quadro della società, quale oggi ci si
presenta: spesso la Storia improvvisa. Del resto i grandi cambiamenti
hanno sempre avuto un percorso lungo e un inizio, per così dire, “dal
basso”. La grande forza che ha cambiato il capitalismo nel corso dei
due secoli che precedono il nostro, il movimento operaio, ha cominciato a costruire i propri strumenti economici e politici a partire dalle
esperienze di lotta di piccoli gruppi di uomini, mossi dalle contraddizioni che vivevano insieme. Certo, la classe operaia ha avuto due possenti
strumenti per diventare potere: la solidarietà di fabbrica e l’analisi marxiana della società. Non so riconoscere strumenti analoghi nel mondo
di oggi. Per il momento.
Se così stanno le cose, allora ci aspetta un lavoro di lunga lena. Dobbiamo attrezzarci per un faticoso viaggio. Non basta avere un paio di
scarpe solide, che aiutino a non perdere il contatto con la terra, con la
società di cui siamo parte e con ciò che in essa si muove verso una società
diversa. Ci serve anche un sestante per orientarci con le stelle. Le radici
del malessere che viviamo sono profonde. Ho tentato di spiegarne le ragioni231, rifacendomi a ciò che appresi negli anni della «Rivista trimestrale».
Occorre liberare il lavoro dalla condizione di alienazione (di ordinamento ad altro da sé) e ricondurlo alla sua funzione di strumento mediante il quale l’uomo conosce il mondo e può contribuire a trasformarlo232. Ciò comporta la formazione di una nuova economia, radicalmente
diversa da quella capitalistica, nelle sue varie incarnazioni tutte basate
sulla riduzione d’ogni cosa (a cominciare dal lavoro) a merce.
231 Vedi capitolo 2, paragrafo cinque.
232 Secondo Marx, la forza lavoro è «l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono
nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni
volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere», K. Marx, Capitale, i, iii, Roma, Edizioni
Rinascita, 1985. Valori d’uso, scrive, non valori di scambio. Non solo merci quindi, ma anche beni,
quali la conoscenza, la comunicazione tra i soggetti, l’espressione artistica, ecc.
226
scomparsa la politica?
Del resto, vanno nella stessa direzione le valutazioni critiche del
sistema capitalistico che nascono dal pensiero ambientalista. Le ha
espresse con grande chiarezza Piero Bevilacqua, tirando le conseguenze
del predominio dell’economia su ogni altra scienza, sapere, dimensione
della vita dell’uomo e della società:
L’apparato di razionalità che ha guidato le società postindustriali non è stato quello della fisica o della biologia o del
pensiero filosofico, ma quello dell’economia. E nella seconda
metà del Novecento la scienza economica si è messa al servizio di una gigantesca opera di saccheggio delle risorse naturali.
E soprattutto ha finito coll’imporre una visione del mondo che
ha separato la realtà sociale dalla biosfera, l’opera dell’uomo
dal mondo vivente, la storia dalla natura. Il pensiero economico contemporaneo, nel suo progetto di crescita illimitata della
produzione di ricchezza, si è di fatto fondato sulla completa
rimozione del mondo fisico. E ha piegato a tale fine tutti gli altri
saperi. A questi ultimi – anche quando essi erano portatori di
una visione sistemica e complessa della realtà naturale – ha lasciato un compito ancillare di mera riparazione delle distruzioni
che esso promuoveva e ispirava233.
La costruzione di un pensiero e di un meccanismo economico capaci di sostituire, superandolo, il capitalismo non è un’operazione semplice. Vaste programme, direbbe Charles De Gaulle. Non so, non sappiamo,
se il capitalismo ha i secoli – e non gli anni o i decenni – contati, come
recita l’accattivante titolo del libro di Giorgio Ruffolo, che conclude
sostenendo
il problema non è di sottrarsi alla tecnica, ma di sottrarre la
tecnica alle leggi del mercato ponendola al servizio della conoscenza. In questo senso l’equilibrio ecologico, l’arresto della crescita economica dell’avere, sterile e autodistruttiva, è la premessa
necessaria di un umanesimo trascendente inteso allo sviluppo
esistenziale della specie umana234.
Ci vorranno secoli, decenni? Nessuno può dirlo, la Storia inventa.
La direzione di marcia comunque deve essere questa: pensare e costruire una nuova società e una nuova economia. Utopia? A chi gli imputava
d’essere utopico Claudio Napoleoni rispondeva che «posti a un livello
233 P. Bevilacqua, L’ambiente e le scienze. Quel che spetta al Novecento, lectio tenuta al Festival delle scienze, Roma 15 gen. 2008, pubblicata in eddyburg col titolo L’economia e il resto del pianeta.
234 G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Torino, Einaudi, 2008, p. 284.
227
capitolo quindicesimo
minore i problemi non hanno risposta»235. Non bisogna abbandonare le
scarpe ma occorre anche afferrare il sestante, e mirare lontano. Fare, e
pensare. Lavorare nel concreto, e studiare.
6. Urbanista oggi
Cosa può e deve fare oggi, in questo quadro, chi pratica il mestiere
dell’urbanista e condivide le riflessioni svolte in questo libro? Questa
è la domanda che mi pongo, congedandomi dal lettore. Non siamo
mestieranti, non siamo “tecnici”, ma intellettuali, nel senso più alto
del termine. Siamo portatori d’un sapere specialistico che dobbiamo
proiettare «su uno sfondo più vasto, ricavandone un senso di carattere
generale», poiché «l’intellettuale è quello specialista che traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale, e usa quest’ultimo
per cambiare le istituzioni, la politica, la società, talvolta l’antropologia
circostante»236.
Come farlo però, oggi? Dobbiamo innanzitutto studiare. Non si
può operare sensatamente nella città se non la si conosce in tutti i suoi
aspetti (urbs, civitas, polis), e non se ne sanno seguire e comprendere le
trasformazioni. Dobbiamo perciò avere l’umiltà e la curiosità di intrecciare il nostro sapere con altri saperi, con le discipline che studiano la
condizione urbana in altri aspetti. La multidisciplinarietà deve tornare
ad essere la nostra bandiera.
Naturalmente dobbiamo comprendere anche come adoperare gli
strumenti del nostro mestiere. Penso che da quanto ho scritto finora
emergano alcune indicazioni che delineano possibili percorsi. Provo a
riassumerle.
La nostra azione di urbanisti deve essere ispirata a principi dai quali
non possiamo deflettere. Ho indicato quelli che gli amici di eddyburg
condividono. Alcuni mi sembrano fondamentali: la titolarità pubblica
delle scelte sul territorio, il carattere sistemico di quest’ultimo e quindi
della sua pianificazione, intesa come sistema di regole certe e valide erga
omnes e di procedure democratiche; la capacità di orientare le scelte al
lungo periodo, che è l’unico conforme alla durata delle trasformazioni
territoriali; la priorità degli interessi dei cittadini in quanto tali: cittadini
235 Cfr. C. Ravaioli, Napoleoni e la “produzione di uomini”, relazione svolta in un seminario sul
pensiero di Claudio Napoleoni organizzato dalla Fondazione della Camera dei deputati, Roma
27 ott. 2009, anche in eddyburg.
236 Asor Rosa, Il grande silenzio, p. 25.
228
scomparsa la politica?
di oggi e di domani) rispetto a quelli della proprietà immobiliare; il
perseguimento dell’equità nell’uso della città da parte dei diversi gruppi sociali, e quindi la ricerca della riduzione delle differenze e la difesa
delle fasce e dei ceti sociali più deboli; la priorità, nella definizione delle
scelte, della tutela delle qualità del territorio e della sua integrità fisica, e
la consapevolezza che ogni sottrazione di terra alla natura deve essere
strettamente commisurata a fabbisogni sociali accertati e condivisi; il carattere pubblico, collettivo, comune dello spazio pubblico della città, nel
senso ampio in cui l’ho definito.
Sulla base di questi princìpi, credo che la pratica dell’urbanista debba
oggi orientarsi verso specifiche direzioni. In primo luogo, salvaguardare
con la pianificazione l’ambiente, il paesaggio, la naturalità. Il consumo
di suolo determina oggi in Italia condizioni preoccupanti e procura
danni più gravi che in ogni altro paese d’Europa, per almeno tre ragioni:
per la fragilità morfologica e idrogeologica del territorio, sul quale la
sregolata disseminazione di casette e infrastrutture provoca conseguenze ben diverse che nelle ampie pianure della Francia e della Germania o
dei paesi dell’Est; per la densità di testimonianze della Storia, presenti in
ogni frammento della Penisola; per l’incuria dei governi che non hanno
fatto nulla per contrastarlo, e neppure per conoscerlo nei suoi dati reali.
In secondo luogo, accentuare, consolidare ed espandere la centralità
spaziale e funzionale degli spazi pubblici affinché possano svolgere appieno il loro ruolo sociale, politico ed economico: come luoghi del consumo comune e del welfare urbano, come luoghi nei quali liberamente
ci si incontra come abitanti della città (cittadini attuali e potenziali) e
non come clienti, come luoghi destinati al dibattito, all’esposizione e al
confronto delle idee e delle proposte: in una parola, della politica.
In terzo luogo, compiere tutte le scelte che consentano di ridurre
le diseguaglianze nell’uso della città e delle sue componenti (abitazione,
servizi, luoghi del lavoro) mediante la buona organizzazione funzionale,
l’efficacia della mobilità collettiva, la previsione di quote di edilizia in
affitto a basso prezzo in tutte le aree di trasformazione urbanistica.
Infine, è utile ricordare che la pianificazione urbanistica agisce sull’economia della città. Incide sulla rendita immobiliare: può incrementarla, e
può ridurla, come è successo a Napoli, col prg di Vezio De Lucia e del
suo gruppo. E può evitare che le fabbriche vengano chiuse per realizzare,
sulle loro aree, più convenienti quartieri residenziali e centri commerciali,
come testimonia l’esperienza della ex Electrolux a Scandicci.
Referenti naturali dell’attività professionale dell’urbanista sono le
istituzioni. Benché siano oggi in gran parte deteriorate dalla pervasività dell’ideologia dominante e dalla crisi della politica, restano il luogo
229
capitolo quindicesimo
della democrazia. Vanno riformate, a partire dal rapporto dialettico
(dal conflitto) con la società, ma comunque esistono, sono guidate da
uomini a volte sensibili alle “buone ragioni” dell’urbanista competente e consapevole del suo ruolo. Non sono però gli unici interlocutori.
Dobbiamo cercarne anche altri, in quelle realtà controcorrente che operano nel territorio e che ho indicato, i movimenti ambientalisti, quelli
dei diritti civili, della scuola, del movimento femminile, del mondo del
lavoro, ecc. Certamente anche altri vanno individuati, in ambiti più vasti, guardando a ciò che sta succedendo nel mondo, in particolare nella
realtà sociale dei paesi del Sud del mondo e nei luoghi della povertà e
dell’emarginazione nei paesi “sviluppati”, e negli ambiti culturali nei
quali l’analisi sociale e la ricerca di nuove strade per la civiltà non si sono inaridite.
Dobbiamo ammettere, con Italo Calvino, che «l’inferno dei viventi
non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, è l’inferno
che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme».
Da esso, la nostra società può uscire in due modi. Il primo «riesce
facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non
vederlo più»; questo modo noi lo rifiutiamo. Non possiamo allora che
scegliere il secondo, con la consapevolezza che «è rischioso ed esige
attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi
e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli
spazio»237.
237
I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 170.
230
20. La pagina di eddyburg con la cartella dedicata a Luigi Scano.
21. Pagina di eddyburg, con una delle cartelle dedicate a Venezia.
231
22. Studenti e docenti della iv edizione della Scuola di eddyburg, Asolo, settembre 2008.
23. Seminario alla Queen Ann University di Belfast, docente Todd Weir, novembre 2007.
232
24. Alla manifestazione contro la base Usa nell’area Dal Molin, con Anna Marson, Alberto
Magnaghi e, dietro, Walter Bonan, Vicenza, febbraio 2008.
25. Con Vezio De Lucia, settembre 2008.
233
234
Indice dei nomi di persona
Il Prologo non è indicizzato
Abbaterusso Alessandro, 194n
Agati Mario, 12n
Airaldi Luigi, 121n
Alborghetti Guido, 123
Allende Salvador, 86
Ambasz Emilio, 139
Amendola Giorgio, 19, 64
Andreotti Giulio, 142
Angioni Giulio, 180n
Aprile Nello, 7n
Arboretti Franco, 38
Ardy Silvio, 41
Arici Graziano, 140
Arnone Giuseppe, 134n
Ashley Clarke Henry, 140
Asor Rosa Alberto, 74 e n, 177 e n, 222, 225
e n, 228n
Asso Margherita, 140
Astengo Giovanni, 9, 47, 51, 52 e n, 54n, 82,
84, 90, 126, 127, 198
Augé Marc, 210 e n
Ave Gastone, 134n
Aymonino Carlo, 139
Badas Roberto, 133n, 135n
Baduel Ugo, 21, 24, 58
Baioni Mauro, xiv, 173n, 174, 176 e n, 190n,
197n, 200 e n, 203, 224n
Baldeschi Paolo, 173n, 186 e n, 187
Baldo Mariano, xiii
Bandoli Fulvia, 133n, 134n, 135n
Barbanente Angela, 189
Barbieri Carlo Alberto, 121n, 135n
Barca Luciano, 54
Bartesaghi Ugo, 21, 22
Barzanti Roberto, 133n
Basaldella Mirko, 7n
Basile Giuseppe, 75n
Bassanini Franco, 120, 133n, 134n
Bassetti Emanuela, 110
Bassetti Silvano, 133n, 134n
Battaglia Roberto, 6 e n
Baumann Zygmunt, 213
Beccaria Piercamillo, 69 e n, 121n
Bellagamba Piergiorgio, 135n
Beltrame Gianni, 134n
Benevolo Leonardo, 62, 155
Berdini Paolo, 133n, 173n, 176, 193, 195, 197n
Bergamo Ugo, 113, 154
Berlinguer Enrico, 86 e n, 93, 100, 101 e n, 151,
220
Berlusconi Silvio, 95, 132, 140n, 180
Bernoulli Hans, 25 e n
Bertolaso Guido, 176
Betti Daniela, 126
Bevilacqua Piero, xiv, 176, 190, 227 e n
Bianchetto Giuseppe, 37, 38
Bianchin Roberto, 139
Bilò Massimo, 121n
Biscotti Stefano, 190
Blecic Ivan, 164n, 171
Boato Stefano, 112
Boatti Giuseppe, 121n
Boca Giorgia, 173n
Boccardi Tommaso, 157f
Boltanski Luc, 73n
Bonan Walter, 233f
Boniburini Ilaria, xiv, 173n, 203, 204, 207, 213
Boringhieri Paolo, 59
Bottini Fabrizio, 41 e n, 172, 173, 175
Bottino Felicia, 83, 121n, 125, 133n, 134n
Brecht Bertold, 93
235
indice dei nomi di persona
Bucalossi Pietro, 56
Busetto Franco, 76
Bush W. George, 211
Busiri Vici Andrea, 4
Busiri Vici Salzano Barbara, 4, 13, 14, 24, 84,
157f
Cabianca Vincenzo, 80
Cacciari Massimo, 140n, 154, 155
Cacciari Paolo, 175
Cacòpardo Rocco (Chicco), 14n, 22-24
Calcaprina Cino, 7n
Calimani De Biasio Luisa, 134n, 197n
Calza Bini Alberto, 41
Calzolari Ghio Vittoria, 39 e n, 121n
Camagni Roberto, 197n, 198, 201
Camarda Ignazio, 180n
Camerino Ugo, 139
Camerlingo Elena, 121n, 164n
Campos Venuti Giuseppe (Bubi), 57 e n, 80,
121n, 130-133n, 194
Cancogni Manlio, 25
Caniggia Gianfranco, 95
Cannarozzo Teresa, 133n, 135n
Cannas Paola, 180n
Capocelatro Ennio, 55n
Caporioni Vittorio, 69
Carafoli Domizia, 167n
Caratù Giovanna, 190n
Cardelli Aldo, 7n
Carignani Luigi, 6
Carmassi Massimo, 121n
Carrassi Alarico, 76
Casellati Antonio, 112, 133n, 140, 154
Cassano Franco, 217n
Caudo Giovanni, 173n, 203, 204
Cavalcoli Piero, 164n, 189
Cecchini Arnaldo (Bibo), 164, 171
Cecchini Marta, 134n
Cederna Antonio, 25, 47, 53, 70n, 123, 127, 133n
Cerulli Irelli Vincenzo, 194
Cervellati Pier Luigi, 121n, 123, 197n
Chiarante Giuseppe, 21, 24, 58, 86n, 218-220
Chiaromonte Gerardo, 121
Chiesa Giobatta, 21
Chiloiro Sergio, 224n
Chiodi Cesare, 41
Churchill Winston, 19
Ciccone Filippo, 121n, 123, 126, 133n, 134n,
180n
Cioccetti Urbano, 127
Ciucci Giorgio, 36
Ciurnelli Stefano, 190n
Cobianchi Cristina, 94
Coccia Francesco, 7n
Colaianni Luigi, 135n
Combatti Bernardo, 108n
Combatti Gaetano, 108n
Compagna Francesco (Chinchino), xlviif
Consonni Giancarlo, 173
Corona Gabriella, 205n
Corti Enrico, 180n
Costa Paolo, 140 e n
Crawford Lennard Suzanne, 145, 146
Craxi Bettino, 8, 95, 99-101, 152
Croce Benedetto, 5
Croce Elena, 22
D’Agostino Roberto, 155
D’Albergo Salvatore, 76
D’Alema Massimo, 153
D’Alessandro Massimo, 36
D’Angelo Guido, 81
Dal Piaz Alessandro, 75n, 83, 121n, 134n,
135n
De Caro Stefano, 189
De Forgellinis Maria Franca, 121n
De Gasperi Alcide, 29
De Gaulle Charles, 227
De Grandis Franco, 135n
De Luca Giuseppe, don, 19
De Lucia Luca, 190n, 197n
De Lucia Vezio, xiv, 12n, 47, 48 e n, 49-51,
53n, 57, 58, 75 e n, 81-83, 98, 121n, 123,
126, 133n, 135n, 162, 166n, 197n, 173 e n,
176, 187 e n, 193, 194n, 197, 198, 201, 205 e
n, 206 e n, 229, 233f
De Marco Roberto, 176
De Martino Umberto, 35n, 36
De Michelis Gianni, 94, 100-102, 138, 139,
142, 143
De Piccoli Cesare, 133, 134n, 139, 140, 142,
154
De Rosa Giorgio, 121n, 135n
De Seta Cesare, 123
De Sica Vittorio, 5
De’ Barbari Iacopo, 108 e n
Degan Costante, 112, 154
Del Fattore Sandro, 121n
Del Vecchio Domenico (Mimì), 10, 23
Delgado Edoardo, 75n
Della Seta Piero, 63-65, 68, 69, 115, 116n,
121n
Delpiano Alessandro, 164n
Deng Xiaoping, 85
Detti Edoardo, 54n, 80, 82, 83, 127
Di Donato Giulio, 123
di Gennaro Antonio, 173n, 176, 189, 190n,
197 e n
di Gioia Leonardo, 190
236
indice dei nomi di persona
Di Gioia Vincenzo, 25, 49
Diaz Armando, xlvf
Diaz Marcello, xlvf
Diaz Salzano Anna, xlviiif
Diaz Sara, xlvf
Dolleans Edouard, 8
Donato Marco, 111
Drummond Dereck, xiii
Durante Alberto, 8, 9, 22, 25
Einaudi Giulio, 61, 62
Einaudi Luigi, 29
Emiliani Vittorio, 134n
Erba Valeria, 57 e n, 58, 83, 121n
Erbani Francesco, 205, 207
Ernesti Giulio, 133n
Escobar Arturo, 213
Falco Luigi, 58, 83
Falconi Ferrari Laura, 83
Fatarella Stefano, 164n, 173n
Fava Fernando, 204
Feletti Edgarda, 95, 107, 109, 110, 112, 125
Feltrinelli Giangiacomo, 50
Ferretti Licinio, 109
Fersuoch Lidia, xiv
Finiguerra Domenico, 176, 199
Fiorentino Fabio, 14n, 15 e n, 16-18
Fiorentino Mario, 7n, 65n, 80
Fiori Simonetta, 74n
Flores D’Arcais Paolo, 163
Fondelli Mario, 109, 110
Forni Elisabetta, 204
Foscari Antonio, 139
Franchi Tonino, 37
Frisch Georg, 173n, 176, 194n, 198
Gabanelli Milena, 195
Gago Davila Jesus, 134n
Galasso Giuseppe, 123
Galbraith J. K., 71 e n, 213, 214n
Gallingani Mariangiola, 164n
Gambino Roberto, 134n, 138n, 180n
Garano Stefano, 121n
Garau Pietro, 38
Garcia Lorca Federico, 5
Gennaro Gianni, 75n
Gerratana Valentino, 15 e n
Ghio Mario, 39 e n, 53, 121n, 127
Giallo R., 141n
Giannì Roberto, 205
Gianquinto Titta, 102
Gibelli Maria Cristina, 173n, 175, 197n, 198,
200, 204n
Gigliotti Antonio, 63
Ginsborg Paul, 43 e n, 44n, 73n, 77 e n, 99,
100, 116 e n, 152n
Gioggi Giuliana, 22
Giovanni xxiii, papa, 19, 43
Giovenale Fabrizio, 47, 123, 134n
Girardi Franco, 80, 81n, 130, 131n, 134n
Girardi Ugo, 121n
Giulianelli Sandro, 135n
Giuralongo Andrea, 194n
Giuralongo Tommaso, 121n, 134n
Giustinian Bernardo, 111
Gorio Federico, 10-13, 25, 35, 36, 39, 47, 80
Gramsci Antonio, 32, 213
Grasso Carmelo, 47
Guareschi Giovanni, 7
Guermandi Maria Pia, xiv, 172, 173 e n
Guerzoni Marco, 164 e n
Harvey David, 73 e n, 85, 208 e n, 213, 216 e n
Henry Guy, 134n
Hilter Adolf, 8, 19
Iannello Antonio, 133n
Imbesi Pino, 35
Indovina Francesco, 134n, 165, 197n, 207n
Ingrao Pietro, 64, 76
Insolera Italo, 36, 37, 61, 62 e n, 65n, 70, 71n,
127
Jacobelli Paolo, 35
Kraemer Badioni Thomas, 134n
La Malfa Ugo, 19, 79
La Pira Giorgio, 80
Lacava Alberto, 47, 138n
Langella Cinzia, 205
Lanzinger Gianni, 133n
Lanzuise Giovanni, 203
Laroni Nereo, 112, 154
Laterza Giuseppe, 207
Laterza Vito, 62
Latouche Serge, 213
Le Corbusier, 24
Lefebvre Henri, 76 e n, 208 e n
Lennard Henry, 145, 146 e n, 159f
Leon Paolo, 138n
Leopardi Giacomo, 5
Levi Carlo, 11
Libera Adalberto, 39
Libertini Lucio, 119, 120 e n, 122 e n, 123
Lombardi Giorgio, 139
Lombardi Riccardo, 47, 76
Lonergan Bernard, 23
Longo Luigi, 64, 72
237
indice dei nomi di persona
Lorenzi Giambattista, 111
Lovascio Cosma, 190n
Loy Nanni, 4
Loy Peppe, 4, 10, 157f
Lugli Pietro Maria, 12n, 65n
Lupi Maurizio, 66n, 132, 164n, 196
Macaluso Emanuele, 122 e n, 123
Macchi Giulio, 111
Macciocco Vanni, 180n
Machiavelli Nicolò, 32
Magnaghi Alberto, 186, 188, 189, 207n, 233f
Magri Lucio, 21, 24, 58
Malacrino Claudio, 134n
Malfatti Francesco, 121n
Malossi Elettra, 164n
Malvezzi Piero, 6n
Mancini Giacomo, 47, 65n, 69, 196
Mancini Oscar, 74n, 175, 207, 224 e n, 225 e n
Mancuso Franco, 92n, 97n, 121n
Manieri Elia Mario, 36, 37
Mantini Pierluigi, 197
Manzella Andrea, 110
Mar Giampaolo, 139
Marcelloni Maurizio, 133n, 134n
Marchetta Manlio, 135n
Marcialis Giuseppina (Giusa), 36, 48, 83
Marco Romano, 126
Maretto Paolo, 95
Maritan Jacques, 14
Marson Anna, 233f
Martinotti Guido, 148, 149
Martuscelli Michele, 47, 49, 51, 52 e n
Marx Karl, 8, 32, 88, 213, 214, 226n
Mattioli Raffaele, 19, 59
Mattucci Emilio, 37
Matulli Roberto, 121n
Maturi Michele, 105
Mazza Luigi, 195, 196
Mazzolari Primo, don, 20
Melloni Mario (Fortebraccio), 21, 22, 58
Melograni Carlo, 121n, 123
Meneghetti Lodo, 173n
Mercalli Luca, 199
Mercurio Franco, 190
Milani Lorenzo, don, 20, 21n
Minelli Stelvio, 57
Mocenigo Pietro, 111
Molino Raffaele, 75n
Mondini Paolo, 195 e n
Monello Paolo, 122
Morandi Bruno (Dado), 6, 63
Morandi Maurizio, 36
Moretti Luigi, 3
Moro Aldo, 79, 100, 201
Moroni Piero, 47
Moroni Stefano, 166 e n, 167 e n, 168 e n, 169
Morpurgo Giorgio, 121n, 135n
Mostacci Roberto, 58
Mottini Maurizio, 117 e n, 118
Mounier Emmanuel, 14
Muratori Saverio, 95
Musil Robert, 5n
Muu Cautela Maria, 65
Napoleoni Claudio, 26, 27 e n, 28 e n, 59, 213,
228 e n
Napolitano Giorgio, 121
Natali Lorenzo, 50
Natoli Aldo, 63, 64, 67
Natta Alessandro, 121
Nenni Pietro, 79
Nicolazzi Franco, 118, 126, 143
Nigro Gianluigi, 48
Novelli Diego, 80
Occhetto Achille, 133n, 152
Odorisio Carlo, 54
Oliva Antonio, 75n
Oliva Federico, 121n
Olivetti Adriano, 23, 82
Paba Giancarlo, 204
Packard Vance, 213, 214n
Pagano Fortunato, 134n
Pajetta Giancarlo, 64
Palermo Ciro, 171
Palermo Giuseppe, 173n
Parola Vittorio, 135n
Parrelli Ennio, 21
Pasolini Pier Paolo, 13
Passarelli Lucio, 65n
Patassini Domenico, 165
Pavese Cesare, 62
Pavoncelli Giuseppe, 189
Pedace Donatella, 14n
Peguy Charles, 14
Pellicani Gianni, 93, 94, 98, 102, 103, 111, 137,
154
Pennetta Luigi, 190n
Perna Massimo, 48
Perugini Giuseppe, 7n
Petrini Carlo, 199
Petrucci Amerigo, 127
Pia Margherita, 135n
Piano Renzo, 139
Piccinato Luigi, 47, 53, 65n, 80, 127
Piccotti Pierre, 171
Pinochet Augusto, 85 e n
Pio xii, papa, 20, 43
238
indice dei nomi di persona
Radicioni Raffaele, 117, 118 e n, 119 e n, 121n,
134n
Ravaioli Carla, 173n, 228n
Reagan Ronald, 85, 116
Realacci Ermete, 163
Renzini Anna, 121n
Restucci Amerigo, 121n
Ricardo David, 214
Ridolfi Mario, 13
Rigamonti Paolo, 198
Righi Ezio, 121n
Rigo Mario, 93, 145, 154
Rinaldini Franco, 21
Ripa di Meana Carlo, 134, 135n
Ripa di Meana Daria, 48
Rivi Gianni, 94
Rodano Franco, 17-19, 21-24, 26, 28, 30, 32,
54, 59, 63, 158f, 213
Rodano Marisa, 18 e n, 19, 28, 59
Roggio Sandro, 173n, 188
Romanelli Giandomenico, 134n
Roscani Bruno, 72, 76
Rossellini Roberto, 5
Rossi Aldo, 61
Rubin de Cervin Maria Teresa, 140, 143
Ruffolo Andrea, 134n
Ruffolo Giorgio, 138, 215, 216n, 227 e n
Russo Giovanni, 123
Russo Saverio, 190n
Salzano Francesco, 160f
Salzano Germana, xlviif, 33
Salzano Giovanni, 160f
Salzano Giulia, 94, 160f
Salzano Maria, xlviiif, 160f
Salzano Mauro, 160f
Salzano Mauro, xlviiif
Samonà Giuseppe, 56, 80
Samperi Piero, 65
Sandulli Aldo, 55
Sani Maurizio, 164n, 190n
Sanna Antonello, 180n
Sarti Armando, 76
Sartre Jean-Paul, 23
Sassen Saskia, 213
Savoia, fam., 69
Scalfari Eugenio, 84, 101 e n
Scandizzo Lucio, 75n
Scano Luigi, 14n, 91n, 92n, 95-97n, 98 e n, 94,
107 e n, 112, 114 e n, 120 e n, 125, 133 e n,
134 e n, 138, 154, 155 e n, 190n, 194, 197n,
214n, 231f
Schenk Helmar, 180n
Sebasti Rinaldo, 48
Sennett Richard, 210, 211n, 213
Settis Salvatore, 163
Siliani Simone, 134n
Sinisgalli Leonardo, 6
Smith Adam, 214
Somma Paola, 135n, 204
Soru Renato, 179-181, 185, 188
Sotgia Antonello, 72n
Spilotros Elisa, 164n
Spriano Paolo, 15 e n
Stalin Iosif, 8, 19n
Stanghellini Stefano, 121n
Storchi Stefano, 134n
Storto Giancarlo, 121n, 197n
Strobbe Francesco, 38
Sullo Fiorentino, 44, 48, 50, 57, 77, 196
Sacconi Filippo, 21, 22
Sachs Wolfgang, 213
Salinari Carlo, 15
Salvagni Piero, 135n
Salvagno Vittorio, 114
Salzano Anna, 160f
Salzano Carmela, 157f
Salzano Carmen (Litta), xlviif
Salzano Edoardo, 15n, 24n, 30n, 38n, 56n, 57n,
60n, 61n, 71n, 75n, 77n, 82 e n, 95n, 114n,
116n, 121n, 123 e n, 125n, 127n, 129n, 130n,
132n, 133n, 135n, 142n, 143n, 149n, 175n,
180n, 195n, 196n, 197n, 204n, 224n
Salzano Eduardo, xlvif, 19
Tamburini Giulio, 35n, 36, 37, 48, 83, 197n
Tatò Tonino, 21, 22
Teilhard du Chardin Pierre, 14
Testa Enrico (Chicco), 123, 133n
Thatcher Margaret, 85, 116
Tirelli Lino, 121n, 134n
Tito Josip Broz, 20
Tocci Walter, 133n, 134n, 135n
Todde Giorgio, 173n, 180n
Todros Alberto, 54 e n, 76, 121n
Togliatti Palmiro, 19, 22, 32
Tranfaglia Nicola, 133n
Tranquilli Vittorio, 21, 22
Trifoni Romolo, 37
Pirelli Giovanni, 6n
Poggiani Alessandra, 171
Pompei Stefano, 121n
Prasca Giuliano, 70
Predonzan Dario, 187
Prodi Romano, 140n
Proudhon Henri, 8
Pulli Giuseppe, 121n
Quaroni Ludovico, 12n, 25
239
Trivelli Renzo, 63
Trupiano Antonino, 83
Turroni Sauro, 134n, 197
Tutino Alessandro, 76, 80
Vettoretto Luciano, 166
Viesti Gianfranco, 190n
Visentini Bruno, 140, 142
Vitale Mirella, 190n
Vittadini Maria Rosa, 133n, 134n
Vittorini Marcello, 25, 41, 47-50
Vivante Raffaele, 90n
Urbani Paolo, 180n
Urbinati Nadia, 147n
Valecic Dusana, 173n
Valente Erasmo, 21
Valle Cesare, 10, 25, 35, 80
Valori Michele, 12n, 65n
van der Borg Jan, 140
van Dijk Teun A., 177n
Veltroni Walter, 194
Vendola Nichi, 189
Venti Donatella, 134n
Venturi Marco, 133n, 134n
Weir Todd, 232f
Zagrebelsky Gustavo, 223 e n
Zambrini Guglielmo, 134n
Zanazzo Marina, xiv
Zappulli Umberto, 21
Zennaro Angelo, 153
Zevi Bruno, 40, 62, 80
Zucca Raimondo, 180n
Zucconi Massimo, 200n, 203
Finito di stampare
nel mese di gennaio 2010
da Cierre Grafica, Sommacampagna (VR)
per Corte del Fontego editore
240