L`Altra Musica - Euterpe Venezia

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L`Altra Musica - Euterpe Venezia
44 — l’altra musica
Il flauto magico
dei Jethro Tull
La band di Ian Anderson
in concerto a Padova
L
l’altra musica
a stor ia del la musica rock
di Tommaso Gastaldi
Piazzola sul Brenta (Pd)
è zeppa di muAnfiteatro Camerini
sicisti leggendari, che
16 luglio, ore 20.30
attraverso innovazioni tecniche e compositive hanno valorizzato nel corso degli anni l’utilizzo di questo o quello strumento. Se
nella maggior parte dei casi si tratta di chitarristi, bassisti, tastieristi e batteristi, c’è però un unico caso in cui
un flautista entra di diritto nell’olimpo della storia della musica. Ian Anderson è stato il primo e unico musicista a introdurre l’uso del flauto traverso nelle composizioni di musica rock. Un innovatore, così come lo era stato l’agronomo inglese del XVIII secolo Jethro Tull, inventore della seminatrice meccanica e teorizzatore della moderna agricoltura, dal quale prese
il nome il gruppo che Anderson
fondò nel 1967. I Jethro Tull
rappresentano un caso unico, una band che in quanto
a longevità è seconda solo
ai Rolling Stones e che
da più di quarant’anni
offre musica di ottima qualità, godendo
anche di un profondo legame con il proprio pubblico, che
ancora oggi accorre instancabile e fedele ai loro concerti.
Ventuno dischi da
studio, senza contare i live e le raccolte, e un numero impressionante di copie vendute che si aggira attorno ai sessanta mi-
lioni. Sono passati indenni attraverso le molteplici metamorfosi della discografia e della musica rock, riuscendo a creare
uno stile unico che negli anni ha continuato a seguire
il flauto magico di Ander-
son nell’esplorazione di molti generi musicali, dal blues al
folk, fino al progressive e all’hard-rock. Quando il gruppo ha mosso i primi passi in Inghilterra era molto diffuso
il british blues ed è proprio partendo da queste influenze
che nasce il primo loro disco, This Was del 1968, nel quale spicca «Song for Jeffrey», prima di molte canzoni dedicate all’amico Jeffrey Hammond. L’anno successivo è la
volta di Stand Up, in cui troviamo uno dei brani di maggior successo del gruppo, «Boureé», che altro non è che
una rivisitazione in chiave jazz di una suite per liuto di
J.S. Bach. Dopo Benefit, del 1970, arriva quello che è considerato il loro lavoro migliore, Aqualung. Un riff di chitarra tagliente e oscuro è il biglietto da visita per il pezzo
che dà il titolo all’album e che rimarrà la canzone di maggior riferimento per i Jethro Tull. Un album crudo come
l’immagine del barbone in copertina o le invettive contro
la chiesa anglicana nel testo di «My god». Thick as a Brick è
l’altra pietra miliare del gruppo, un concept album sviluppato attraverso un’unica suite composta da due sole lunghe
tracce (divisione all’epoca forzata dalle due facciate dei
vinili). Siamo in piena epoca progressive, nella quale il rock
vuole elevarsi, creare forme più lunghe e complesse della
semplice forma canzone, ispirandosi anche a elementi di
musica classica. Il cammino continua e i Jethro Tull questa volta decidono di abbracciare il folk: tre album, Songs
from the wood, Heavy Horses e Storm Watch per un ritorno alle origini della cultura rurale inglese e a una maggiore attenzione ai problemi ambientali. Negli anni ottanta anche Anderson rimane affascinato dal suono delle tastiere
elettroniche che coltiva in album come A e The Broadsword
and The Beast del 1982. Ancora un cambio di rotta, questa
volta verso un sound più metal, con il disco Crest of a Knave, che a sorpresa varrà al gruppo il premio come miglior
band heavy metal nel 1989. Se negli anni successivi ci sarà
un breve ritorno alle sonorità blues e jazz degli inizi della
loro carriera, la discografia più recente è invece composta
da riedizioni di album precedenti come This Was, nel quarantesimo anniversario dalla pubblicazione, o Aqualung
Live, e da pubblicazioni rimasterizzate di concerti come
quello al Madison Square Garden del 1978.
Assieme a Martin Barre, chitarrista
della band dal 1969, Ian Anderson,
passato per alcuni problemi di
salute, non è più il folletto che
incantava il pubblico suonando su un piede solo ma continua a portare instancabile in giro per il mondo i
suoi Jethro Tull, senza aver
mai perso quel magnetismo, quel carisma e quella
inesauribile voglia di suonare solo per il piacere di
creare ottima musica. ◼
Ian Anderson
(www.j-tull.com).
Piazza San Marco
abbraccia Aznavour
C
harles Aznavour vivrà una serata da protagonista a Venezia il 16 luglio, quando salirà sul palco appositamente allestito in piazza San Marco per un concerto celebrativo di una lunghissima carriera.
Chiediamo a Giò Alajmo – firma storica del Gazzettino – come vede questo legame tra Venezia e
Aznavour.
Fra Charles Aznavour e Venezia c’è un legame indissolubile rappresentato da quella canzone molto malinconica e molto romantica che fu
«Com’è triste Venezia», racconto di un amore finito e
con esso la magia della città da
cartolina.
Aznavour ha avuto un vero e proprio periodo di gloria in Italia in
passato, lo ricordi?
Aznavour è stata forse la voce francese più famosa in Italia negli anni sessanta e settanta, quando ancora la cultura
anglosassone non era penetrata del tutto sulla scia della beatlemania e di Hollywood. Era
ancora l’epoca delle versioni in
lingua, con le canzoni francesi tradotte in italiano che assumevano un fascino esotico per
l’accento un po’ nasale e l’erre
moscia.
Eppure poteva non essere affatto francese...
Poteva nascere americano, Aznavour. Strano destino il
suo. La madre ebbe le doglie a Parigi, in attesa del visto
per gli Usa. Era il 1924. Così l’armeno Shahnour Vaghinagh Aznavourian, nipote del cuoco dello zar Nicola II,
si ritrovò francese e forse fu la sua fortuna.
Una carriera cominciata presto no?
Cresciuto nel ristorante di famiglia meta di artisti, a nove anni Charles calcava già i palcoscenici teatrali facendosi chiamare Aznavour. A ventidue Edith Piaf se lo portò in tour in America. A trentadue cantava all’Olympia
sulla scia del successo di «Sur ma vie» mentre in Usa il
rock’n’roll era agli albori e ci si chiedeva chi diavolo fosse
quel tal Elvis Presley. I critici non lo consideravano una
gran voce, ma il pubblico adorava il suo carisma e la capacità di comunicare emozioni, scrivendo e interpretando
canzoni mai banali, spesso velate di malinconia e sconfitta e talvolta coraggiose nell’affrontare temi scomodi.
Una carriera lunghissima la sua, e a Venezia avrà anche ospiti d’eccezione.
A ottantasei anni, Aznavour può ben permettersi di regalarsi un omaggio di carriera cantando nel salotto d’Europa. Con lui, a parte l’orchestra d’archi della Fenice diretta da Eric Wilm, saranno tre artisti italiani che in qualche modo gli devono qualcosa, Massimo Ranieri, Patty
Pravo e Franco Battiato. Sono solo alcuni dei tanti che
hanno inciso o renterpretato le sue canzoni. Ranieri in
particolare ha ricordato di recente di aver avuto proprio
Aznavour come modello per la sua carriera giocata tra
musica e teatro.
Ma cosa possiamo dire di Aznavour cantante?
Charles Aznavour è stato un gigante della canzone. È
stato un attore popolare. È stato forse il personaggio di
spettacolo la cui carriera più si può avvicinare a quella
di Frank Sinatra, altro inimitabile gigante. Il fatto di poter cantare in sei lingue lo ha reso popolarissimo in ogni
parte del mondo. E l’aver scritto o interpretato più di
mille canzoni, la maggior parte d’amore, ne fa uno degli interpreti e autori più prolifici di
sempre. Ma quel che non ha
fatto la musica ha fatto il cinema. Sono più i film nel suo carniere che non i dischi, e se la
maggior parte delle pellicole
lo vede protagonista di copioni popolari e non particolarmente raffinati, non mancano
lavori di alta qualità che portano la firma di Truffaut, Cocteau, Chabrol.
Anche come attore ha comiciato
presto...
Il suo primo ruolo è del ’36,
ma è anche nel primo film della nouvelle vague francese, La fossa dei disperati, in cui interpreta un pazzo nel ’58, ben prima
di Basaglia e del Nido del cucùlo.
Come mai questa popolarità?
La sua faccia segnata, gli occhi tristi, il naso pronunciato,
la statura non rimarchevole, ne
fanno un personaggio che può
stare al passo dei divi americani, una specie di Spencer
Tracy europeo. Lavora con tanti, per tutta la sua vita. In
circa sessanta film, fra cui Morire d’amore presentato a Venezia nel ’71. Il ruolo forse più importante è però il più
recente: nel 2002 interpreta un regista armeno in Ararat
di Egoyan, facendosi carico in prima persona di rievocare la tragedia dimenticata del popolo armeno, il genocidio perpetrato dai turchi nel 1915. Di questa eredità storica Aznavour si farà interprete non dimenticando le sue
radici, accettando qualche anno fa di essere ambasciatore dell’Unesco in Armenia.
Un artista scontroso, malinconico, riservato o disponibile?
Da cantante la sua fama è stata pari alla sua disponibilità. In Italia ha partecipato a un Festivalbar, a tre Festival di Sanremo in varia veste. A innamorarsi delle sue
canzoni – anche grazie alle splendide traduzioni di Calabrese – sono stati in tanti e in epoche diverse, da Modugno con la classica «La mamma» a Mina, da Ornella Vanoni a Mia Martini alla Zanicchi, da Enrico Ruggeri a Battiato, da Massimo Ranieri a Renato Zero che
si sono entrambi riconosciuti nell’«Istrione». Attraverso le sue canzoni sono passati sessant’anni di storia e
cultura francese, ma anche un po’ della nostra. (l.m.) ◼
Charles Aznavour ed Edith Piaf (da: http://monsieuraznavour.free.fr).
l’altra musica
l’altra musica — 45
46 — dossier licei musicali
Paco de Lucía,
artista universale
Alla Fenice
per il Venezia Jazz Festival
dossier licei musicali
I
di José María Velázquez-Gaztelu
stato di allerta, in sintonia con ciò che potremmo chiamare ispirazione, trae origine l’unicità della sua espressione artistica, che divide la storia della chitarra flamenca in due periodi significativi, entrambi nettamente definiti: prima e dopo Paco de Lucía. «Esistono fattori – sentimenti, ricordi, ecc. – che ti spingono a comporre?» gli
chiesi nel 1994 in un’altra intervista. «Nel processo compositivo, come disse qualcuno (Thomas Alva Edison, ndt.),
c’è il dieci per cento di ispirazione e il novanta di sudorazione. Bisogna lavorare, rinchiudersi con la chitarra per
ore e ore fino a quando arrivi ciò che chiamiamo ispirazione», fu la sua risposta.
Paco è attorniato dalla grazia della costruzione musicale, da quella qualità innata che è l’inventiva, la quale lo
eleva alla condizione di illuminato. Ma in questo caso si
tratta di un illuminato razionale, che anche ricevendo gli
impulsi di scoperte spontanee e straordinarie, dispone
comunque coscientemente di essi e li ordina fino a dar loro la forma che richiede la sua personale necessità artistica. Se da un lato il potenziale creativo di Paco de Lucía ha
modificato la rotta della chitarra flamenca, innalzandola a un’altra dimensione e
dotandola di un ricchissimo e inesauribile universo melodico, dall’altro lato ha rivoluzionato il concetto stesso di esecuzione,
ma con una naturalezza
tale che il suo virtuosismo
non sembra nemmeno intenzionale: la velocità delle sue picchiate vertiginose sui tasti, il dominio assoluto del manico della tastiera in tutta la sua estensione, la pulizia cristallina del tremulo, l’esattezza nel fraseggio, l’accordatura perfetta, gli accordi inediti e sorprendenti e
gli arpeggi originali hanno permesso alla chitarra
flamenca, nelle sue mani,
di accedere ad ambiti fino
a ora impensabili, e hanno
accelerato il suo sviluppo
attraverso un fertile processo evolutivo.
Con la Medaglia d’Oro
delle Belle Arti, il Premio
Príncipe de Asturias per
le Arti, le lauree honoris
causa all’Università di Cadice e al Berklee College
of Music dell’Università di Boston, per citare soltanto alcune delle sue onorificenze, Paco de Lucía è uno dei grandi musicisti del nostro tempo, un artista universale che ha
creato un nuovo linguaggio per la chitarra flamenca. ◼
l flamenco possiede una sua peculiarità, che fa sì
che il chitarrista possa essere allo stesso tempo compositore e interprete. Dall’epoca lontana dei maestri
nati nel secolo XIX, come Paco el de Lucena, Patiño,
Paco el Barbero o anche Ramón Montoya, la tradizione
ha trasformato i chitarristi flamenchi in musicisti totali,
in grado di manifestare il proprio impulso creativo e allo stesso tempo eseguirlo. Naturalmente questa particolarità ha delle ripercussioni non solo nei risultati finali –
nei quali si coglie l’intensità delle sonorità, l’originalità di
ciascun brano e la speciale enfasi di ogni passaggio
– ma anche nello sviluppo
di opere di per sé aperte
(cioè mai imprigionate in
strutture definitive) e per
questo suscettibili di approdare al terreno dell’improvvisazione. Questa caratteristica di libertà musicale, anche se all’interno
di schemi stabiliti, conferisce infatti al chitarrista flamenco, se le circostanze lo
richiedono, la prerogativa
di improvvisare.
Nell’inverno del 1973,
durante il montaggio di
un documentario per la
televisione, feci a Paco de
Lucía la seguente domanda: «Parlando di tecnica
e improvvisazione, quale credi sia la relazione tra
questi due concetti?» E
lui mi rispose: «Penso che
l’improvvisazione possa realizzarsi soltanto se si
possiede un grande dominio tecnico. L’improvvisazione per me è l’espressione dell’artista secondo
il suo stato d’animo, ma se
questi ha dei problemi con le dita, essa non può esistere...». In quel periodo aveva ventisei anni e già allora dimostrava di avere il dono della creatività, che in lui sorge
in modo compulsivo, come un’inesauribile sorgente che
irriga la sua opera con raffiche abbaglianti.
È difficile essere posseduto da questo potere, che secondo Paco non nasce per caso, ma è invece il prodotto di un continuo lavoro, della perseveranza e del contatto prolungato
Venezia – Teatro La Fenice
con lo strumento. Da questo permanente
29 luglio, ore 21.00
Traduzione di Eva Rico
Al centro, Paco De Lucía.
l’altra musica — 47
Venticinque anni
in musica
per Suzanne Vega
University, Suzanne comincia a esibirsi in piccoli locali e nel 1984 ottiene il primo contratto discografico, che,
l’anno successivo, la porta alla pubblicazione del suo album d’esordio, Suzanne Vega, disco introspettivo che ottiene un buon successo di pubblico e critica.
Solitude Standing, del 1987, è il disco che contiene due tra
i suoi singoli forse più conosciuti e amati: «Tom’s Diner»,
la cui bellissima versione originale a cappella è stata in
seguito reinterpretata e remixata da numearà l’xi edizione di «Tra Ville e Giarrosi artisti – molte di queste versioni sono
dini», itinerario di danza e musica
nelle ville e corti del Polesine, a ospi- Rovigo – Chiostro Olivetano state pubblicate nella raccolta Tom’s Album,
tra esse anche una dei R.E.M. pubblicata
tare una delle due date italiane del Close up
4 luglio, ore 20.30
sotto uno pseudonimo – e «Luka», pezzo
Tour di Suzanne Vega. Il 4 luglio, infatti,
scritto dal punto di vista di un bambino
la cantautrice americana sarà a Rovigo per
che subisce violenze domestiche, argomento piuttosto inbrindare ai suoi venticinque anni di carriera e presentare
solito per un successo pop. E nel 1988 anche la nostrana
un nuovo album antologico, Suzanne Vega Close up Vol.1:
Paola Turci incide una cover italiana di «Luka» con il titoLove Songs, uscito in Italia lo scorso 15 giugno.
lo «Mi chiamo Luka»: contenuto nell’album Ragazza sola,
Fattasi conoscere all’inizio degli anni ottanta suonanragazza blu, il
do canzoni folk nei bar del Greenwich Village, la
brano perVega in questo suo nuovo album, il primo di quatde però ogni
tro, rilegge le proprie canzoni in chiave acustica.
r ifer i menA Rovigo la cantautrice presenterà uno spettacolo
to a violenze
che alla vocazione folk mescolerà suoni più elettrisessuali.
ci e innovativi.
A portaNata l’11 luglio del 1959 a Santa Monica, in Calire un camfornia, all’età di un anno la piccola Suzanne si trabiamento
sferisce con la madre e il padre adottivo a New
di rotta nelYork, dove cresce nei quartieri socialmente «difficilo stile delli», quelli di Spanish Harlem e dell’Upper West Sila Vega è
de. All’età di nove anni comincia a scrivere poesie
il terzo ale a quattordici dà vita alla sua prima canzone. Alla
bum, Days of
New York High School of PerforOpen Hand.
ming Arts (la scuola in cui
È il 1990, e
è ambientato il film
la musica di
e musical SaranSuzanne dino famosi) studia
v ie ne più
danza modersperimentana. Ma la mule. Due anni
sica rimane il
dopo, nel ’92, esce nei negozi 99.9Fº («ninety-nine point
suo primo e grannein Fahrenheit degrees»), che consiste in una miscela
de amore. Studeneclettica di musica folk, dance e industriale, con canzoni
tessa alla Columbia
brevi e stile minimale.
Il quinto album è del ’96. Si tratta di Nine Objects of Desire,
con una musica che varia da uno stile semplice ed essenziale a una produzione industriale come quella del disco
precedente, e che contiene il brano «Caramel», incluso
nel film di Michael Lehmann Un uomo in prestito (The Truth
About Cats and Dogs, 1996), e «Woman On The Tier», usato da David Robbins, che ne curava le musiche, nel film
diretto da Tim Robbins nel ’95 Dead Man Walking.
Nel settembre del 2001 viene dato alle stampe Songs in
Red and Grey, disco che prende spunto dal divorzio della Vega da suo marito, il produttore discografico Mitchell
Froom, a cui seguono Retrospective – The Best of Suzanne Vega e Beauty & Crime.
Oltre a Rovigo, la Vega il 6 luglio aprirà l’Arezzo Festival. Due date esclusive da non perdere. (i.p.) ◼
A sinistra: Suzanne Vega (wikimedia.org).
Sopra: la copertina del suo ultimo album.
l’altra musica
S
48 — l’altra musica
La grande musica
in Piazza San Marco
profondo riesca a infondere molta comunicativa e a tratti fascinosa spettacolarità, al punto da guadagnarsi, Norah e Pat, la stima di audience eterogenee, dai puristi ai fricchettoni, dagli amanti dell’hard-bop ai fan del tranquillo mainstream.
Presi individualmente ecco quindi che la ventinovenne,
graziosissima Norah potrebbe rientrare nel novero delle
folksinger o cantautrici statunitensi, con quel tocco in più
di accesa musicalità che, ad esempio, nelle giovani colleghe inglesi, da Joss Stone a Amy Winehouse, è condito di
di Guido Michelone
blues o di soul: la Jones invece preferisce una canzone venata di uno swing delicato, mentre sul pianche quest ’anno il Festival di
no armonico viene subito da pensare al reVenezia sul jazz punta su grossi noVenezia
cupero degli stilemi bianchi country & wemi, su jazz star in tutto e per tutto,
Piazza San Marco
stern. In effetti, se non fosse per l’imprinin quanto a successo e notorietà, figure paPat Metheny Group
ting fornito di solito da un gruppo acustico
ragonabili ai divi del pop o del rock: oltre
23 luglio, ore 20.30
paragonabile al classico jazz quartet, i braa Paco De Lucia (cfr. p. 46), la nuova edini della Jones guardano alle tradizioni canzione lancia soprattutto Norah Jones e Pat
Norah Jones
24 luglio, ore 20.30
tautorali delle Joni Mitchell o delle Laura
Metheny, che proprio al pop e al rock venNyro, che negli anni settanta rinnovano la
gono spesso associati, sia pur con diverse
white song nordamericana; tuttavia c’è in Norah un modo
motivazioni. Cantante la prima, chitarrista il secondo, oldi porsi che attiene pure, nel timbro vocale, alle balladeutre la fama massiccia, la Jones e Metheny hanno in comuses di scuola jazzy, con l’eredità quasi naturale del lirismo
ne una versatilità artistica raffinata, che porta entrammalinconico da romantica crooner; l’interpretazione piabi a relazionare gli elementi del jazz (melodia, timbrica,
na, controllata, talvolta sofferta, per la Jones è tutto: non
improvvisazione) con altre musiche, soprattutto odierne
a caso, all’uopo, si serve di un repertorio straordinario
e giovanili. Già di per sé il jazz è musica di contaminain cui alterna le proprie melodie a evergreen, cozioni, assimilazione, ibridazioni, ma nei casi di Nover e standard. La novità, rispetto ad album
rah e Pat il loro approccio di stile pop-jazz o
e tournée precedenti, sarà ascoltarla a
rock-jazz può ritenersi una variabile fusion
Venezia solo voce e chitarra (lei che
al quadrato o, culturalmente, all’ennedi solito suona il pianoforte), agsima potenza.
giungendo così atmosfere anTutto questo riguarda anzitutto il
cora più raccolte e intimiste.
denominatore comune di musiciTutt’altra musica per Pat
sti seri e preparati, che però reMetheny, 55 anni, ormai
stano lontani per anagrafe, ruoincanutito capellone: mulo, forma mentis e bagaglio intelsica strumentale per chilettuale. Presi singolarmente
tarre e band più o meno
Norah Jones e Pat Metheny riallargate, con un lavoro
velano insomma le tante strade
sul jazz assai più speriche, ora, sta percorrendo il jazz
mentalista e multidiscidella postmodernità, un jazz
plinare, senza però diche smette con gli invecchiati
sattendere i gusti meno
avanguardismi, le futili virtuoesigenti e più afsità, le pacchiane gigionerie, per
fini al crossover
guardarsi attorno, dentro, in netodierno; già i
to controluce e forse con autorevole sincerità. Ciò non toglie che
tale status
Pat Metheny e Norah Jones
al Venezia Jazz Festival
l’altra musica
A
l’altra musica — 49
Il clarinetto
di Lucio Dalla
per Fortuny
L’iniziativa
della Venice Foundation
copre le spese di restauro
U
simo diversi elementi del post-bop, della musica black,
della canzone yankee e persino delle suggestioni brasilere e ispano-americane. Dagli anni settanta dei fortunati esordi, in parallelo ai mostri sacri John McLaughlin,
Carlos Santana, Joe Pass, Lee Ritenour, fino alle conferme attuali, il suono del Group sostanzialmente non cambia, magari si avvicina ai trend correnti, benché in parallelo Metheny voglia e riesca di frequente a cimentarsi con
linguaggi sonori ardimentosi, dal free al solo, dal guitar jazz
trio classico a un’orchestra meccanica autodiretta. I fan di
Pat non sempre amano tali escursioni, preferendo il tipico «fusionista» con le tirate chitarristiche dai toni sognanti, in mezzo ai ritmi commisti a loro volta ai già citati virtuosismi romanticheggianti.
E sotto quest’ultime prospettive sia Norah Jones
sia Pat Metheny hanno un altro bel segno condiviso: quello di non deludere mai le loro platee, offrendo show carichi di sentimento, arte, professionalità. ◼
Sopra: Pat Metheny in concerto (foto di Manfred Schweda,
www.thisfabtrek.com). A fronte: Norah Jones (norahjones.com).
di Manuela Pivato
na serata tutta lunare con il clarinetto di Lucio Dalla e un menù a tema per aiutare i tesori di
Palazzo Fortuny. Dopo le dorature del soffitto
della Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, Venice Foundation si è presa a cuore le sorti del modellino
del Teatro delle Feste, dei disegni preparatori per i tessili e dei dipinti dell’atelier conservati del museo di campo San Beneto, e l’ha fatto con una cena specialissima, il
26 giugno scorso, nel giardino di Ca’ Rezzonico. Trecento ospiti che hanno accolto l’invito di Franca Coin, presidente della Fondazione, ad «adottare» un pezzettino del
Fortuny per coprire le spese del restauro, e che in cambio hanno ricevuto una festa ispirata alla luna. Prima una
mostra con i pastelli di Giorgio Tonelli, poi le fotografie
e le poesie di Marco Alemanno, quindi le note di plenilunio di Lucio Dalla, infine la cena celestiale.
La nuova «avventura», come la chiama Franca Coin, riguarda i disegni per i tessili, i dipinti dell’atelier e, soprattutto, il grande modello del Teatro delle Feste, un vero e
proprio teatro in miniatura ideato da Mariano Fortuny
nel 1912 insieme a Gabriele D’Annunzio e Lucien Hesse. Il teatro avrebbe dovuto sorgere a Parigi e consisteva in una scena e una sala coperta da
una gigantesca cupola in
tela, dando cosi l’impressione di trovarsi
all’aperto. Un
gioiellino che
rimase limitato al modello in miniatura del Fortuny,
incredibilmente rifinito
anche nell’apparato tecnico, e che ora il
restauro vuole
rendere nuovamente funzionante. ◼
Mariano Fortuny y Madrazo,
Autoritratto (1947, tempera su
cartone, Venezia, Palazzo Fortuny)
e Lucio Dalla.
l’altra musica
primi album del Pat Metheny Group, proprio in quanto incisi con la bavarese ECM (celebre per un’avanguardia sobria, fruibile, cesellata, da Keith Jarrett a Jan Garbarek), mettevano in luce un compositore, un bandleader e
soprattutto virtuoso allo strumento sia elettrico sia acustico, in grado di accogliere nel proprio sound originalis-
50 — l’altra musica
Patti Smith,
rock senza età
re da quasi quindici anni, al basso, la figlia Jesse Smith al
pianoforte e Mike Campbell alla chitarra.
Con questa formazione Patti Smith salirà sul palco di
Piazza San Marco a incantare il suo pubblico, fatto di
ragazzi dai venti ai settant’anni, tre generazioni unite
dall’adorazione verso la poetessa indiscussa del rock, come se non fossero passati oltre trent’anni da quando, a
28 anni, Patti Smith entrò nel mondo della musica prima con reading di poesia e suoni, quindi con singoli di etichette indipendenti, infine con un album prodotto da Jodi Manuela Pivato
hn Cale. Per alcuni anni Patti fu la regina di un rock nuovo e impegnato, conquistando i critici e scalanagrissima , voce dolente , sguardo le classifiche anche con passaggi spericolati.
do febbrile, ha segnato la storia del
Dopo uno strepitoso tour italiano, nel 1979
rock aggiudicandosi il titolo di sacerVenezia
la Smith si ritira dalle scene e sposa il chitarridotessa «maudit». «Maledetta» e impegnata da
Piazza San Marco
sta degli MC5 Fred «Sonic» Smith, a cui è dedisempre e per sempre, quindi anche al fianco di
1 agosto, ore 21.00
cato il brano «Frederick» e dal quale ebbe due
Emergency, l’associazione umanitaria di Gino
figli, Jackson e Jessica. Dieci anni dopo pubStrada a cui Patti Smith dedicherà un concerto
blica un disco gradevole ma che la critica giudica non
speciale in Piazza San Marco il primo agosto. Un concerabbastanza incisivo – Dream of Life – a cui seguirono alto attesissimo che la laguna è riuscita a includere nel cartri anni di silenzio. Gli anni novanta furono molto diftellone degli eventi estivi sotto le stelle dopo lunghe tratficili: Patti perse il fidatative, per la somma gioto pianista Richard Soia dei suoi fans.
hl e Robert MapplethorLa data veneziana è
pe, compagno degli anni
stata inserita nel tour
giovanili, il fratello Tod
We Shall Live Again, doe il marito Fred, morto
po l’incontro folgoranper un attacco di cuore.
te tra la Smith ed EmerIl dolore, però, la spinge
gency l’anno scorso a Fia ritornare a fare musica
renze. Nel corso dell’ote completa l’album che
tavo raduno nazionaprogettava da tempo con
le con i volontari, la canFred con il nome di Gotante di Chicago ha dene Again.
dicato all’associazione di
Negli anni successivi
Strada la sua indimenticontinua a calcare i palcabile «People Have The
coscenici con concerti in
Power» e sono incomintutto il mondo, mentre le
ciati i contatti per realizsue canzoni non cessazare il concerto in Piazza
no di denunciare gli orSan Marco, organizzato
rori e le follie del mondo:
in collaborazione con il
l’invasione cinese del TiCentro Pace di Venezia e
bet, la morte di Ginsberg
International Music.
e Burroughs, il Vietnam,
Sostenitrice di infinite
Madre Teresa e il mito di
battaglie per i diritti soHo Chi Minh, a cui Patciali e ideale ponte tra la
ti dedica il suo album
Beat Generation e gli ardel 2000. Il disco ineditisti contemporanei, Patto più recente è Trampin,
ti Smith, 64 anni, è redudel 2004, con una picce dall’enorme succescola apparizione della
so del suo libro-biografiglia Jessica che, come
fia Just Kids e, con il nuoannunciato, sarà al suo
vo tour europeo, ritorfianco il primo agosto
na a proporre i suoi sucin Piazza San Marco. ◼
cessi e a offrirci un’anticipazione del suo prossimo progetto musicale.
Un tour – We Shall Live
Again – totalmente acustico, con gli storici Lenny Kaye alla chitarra e
Jay Dee Daugherty alle
Patti Smith
percussioni, Tony Sha(elaborazione grafica
nahan, suo collaboratoda wikimedia.org).
A San Marco
un concerto speciale
per Emergency
l’altra musica
M
l’altra musica — 51
Il gruppo di Montepulciano
presenta
i «Mistici dell’Occidente»
D
di John Vignola
andato il rock in Italia, se in classifica o fuori dai riflettori. Oggi…
… grazie al cielo non ci sono più steccati precisi. Se gli
Afterhours vanno a Sanremo a presentare altre band, si
possono giudicare per ciò che fanno, non per il gruppetto di amici di cui fanno parte. È un’evoluzione.
Nel frattempo, i dischi vendono sempre meno, o spariscono del
tutto.
Ci sono nuove forme di consumo musicale: non bisogna essere troppo ortodossi, in questo periodo. L’importante è trattare bene chi viene ai concerti, segue quello
che fai come artista, ti apprezza: è ritornato importante
un rapporto diretto fra musicista e appassionato.
Nella sfera della passione, la ricerca sulle sonorità piene vi ha portato a lavorare con un produttore come Pat McCarthy.
Siamo riusciti a lavorare con uno dei nostri punti di riferimento, almeno per un certo tipo di sound. Ci ha dato molta libertà di manovra e ha permesso alle canzoni di
suonare in maniera diversa dal solito.
L a malavita, I mistici dell’Occidente: quinto
album in quasi dieci anni pieni, per i Baustelle di
Montepulciano. Un gruppo che è riuscito nella
difficile impresa di farsi apprezzare dalla critica più esigente, quella che stigmatizza il cosiddetto pop italiano,
e una mole considerevole di ascoltatori fuori dagli schemi. Oggi, Francesco Bianconi e compagni escono ancora
di più dai cliché: ce lo racconta lui stesso, in prima persona, nell’attesa del suo primo
romanzo, che verrà pubblicato da Mondadori alla fine
dell’anno.
Le vostre nuove canzoni sono meno legate alla melodia di quanto ci
si potesse aspettare: non tentate, insomma, di compiacere chi vi ascolta.
Non abbiamo mai scritto
per compiacenza, semmai per
urgenza. A esser sinceri, tante volte le idee musicali arrivano da suggestioni incontrollate. È pur vero che per I mistici dell’Occidente l’idea di base era
quella di uscire dai binari della
prevedibilità.
Meno pop e più rock?
Se vuoi, sì. Meno sicurezze e
più nostalgia, come ne «Le rane», che fa i conti con un senso di perdita che accompagna
da tempo la mia generazione.
In musica, soprattutto nelle canzoni di chi ha la tua età, il rimpianIn che senso?
to sembra essere una costante ineliminabile.
In Italia i timbri sono tremendamente piatti: un disco
Se diventa uno strumento narrativo, può andare bene,
inglese o americano ha dinamiche più movimentate, che
nel senso che non c’è, almeno da parte mia, la pretesa
siamo riusciti a ottenere. La sostanza, però, è che non vodi una necessaria appartenenza generazionale. Di siculevamo sembrare troppo contemporanei.
ro c’è l’inquietudine rispetto ai tempi moderni, chiamiaDavvero?
moli così.
Davvero. I riferimenti più importanti per I mistici… si
I testi sono volutamente sfuggenti: non solo quelli del cd, anche
trovano, grosso modo, fra il 1966 e il 1973…
quelli che hai scritto per Irene Grandi («Bruci la città» del 2007
Stai per esordire con un romanzo, per una grande casa editrice: si
e «La cometa di Halley», brano presentato a Sanremo
tratta di un atto di sfida, rispetto al panorama narrativo di oggi?
2010, ndr.).
Spero di no. Confrontarmi con la scrittura a largo respiNon amo essere riconosciuto, forse, ma penso che il
ro per me è un’avventura, un rischio. Sopratmodo in cui scrivo sia abbastanza chiaro: cantutto, è un’aspirazione che coltivo fin da adotare e mettere in versi le parole non è, comunlescente. ◼
que, dare corpo a un pensiero, a un ragionaPadova
mento. Dovrebbe essere, invece, affidarsi alle
Parcheggio Nord
suggestioni. L’interpretazione è sempre libera.
Stadio Euganeo
Quando avete cominciato, ci si chiedeva dove sarebbe
2 luglio, ore 20.30
Baustelle (foto di Gianluca Moro).
opo
l’altra musica
I Baustelle allo
Sherwood Festival
52 — l’altra musica
L’Heineken
Jammin’ Festival
torna a Venezia
irlandesi, nati nel 1990, propongono fin dai primi anni un
sound pop rock molto particolare. Vengono scoperti da
un’etichetta indipendente, la Xeric Records, che permette ai quattro musicisti di registrare il primo demo. È l’inizio di un grande successo, che li porta a vendere in tutto il
mondo più di cinquanta milioni di dischi. Dopo un silenzio che durava dal 2003, nel 2009 la band annuncia il proprio ritorno con un nuovo tour e brani inediti. È poi la
volta dei gallesi Stereophonics, che rappresenn cast d’ eccezione per l’edizione
tano una delle band più importanti nel panora2010 dell’Heineken Jammin’ Festival,
ma della scena rock alternativa mondiale, e dei
che, dal 3 al 6 luglio, vedrà alternarsi
Mestre
Plan de fuga, gruppo che muove i primi passul palco principale allestito nel Parco di San
Parco San Giuliano
si a Brescia nel 2005, suonando dal vivo i proGiuliano, in riva alla laguna, gli Aerosmith, i
dal 3 al 6 luglio
pri prezzi originali; ed è del 2009 il loro primo
Cranberries, i Massive Attack, i Black Eye Pealbum, In a Minute, tra contaminazioni pop, funk e dark.
as, i Green Day, i 30 Seconds to Mars, i Pearl Jam, Ben
Il 4 luglio sul palco dell’Heineken approdano i Green
Harper, gli Skunk Anansie, i Gossip e molti altri ancora.
Day, considerati la band punk-rock migliore del momento. Il loro merito più grande è forse la capacità di rilanciare in chiave pop la musica punk, rendendola commestibile anche a chi non mastica Ramones, Clash e Sex Pistols.
l’altra musica
U
Tutti gli artisti si esibiranno in un’unica data italiana nella magica cornice del Parco di Mestre, allestito per l’occasione con due palchi, un’area relax e una dedicata allo
sport, numerosi luoghi di ristoro, un campeggio, un cinema e zone di incontro per chi desidera approfondire
l’argomento della musica intesa come professione. Inoltre, grande novità di quest’anno è un enorme ristorante
che serve piatti tipici della cucina veneta, e un servizio di
gommoni che permetterà, a chi lo desidera, di raggiungere Venezia via acqua.
Si comincia dunque il 3 luglio con gli Aerosmith, tra gli
artisti più celebri di tutta la storia del rock, che hanno influenzato gran parte della musica degli anni settanta e ottanta, contribuendo allo sviluppo di diversi generi tra cui
il metal e l’hard rock. La serata procede con i Cranberries:
A seguire, i 30 Seconds to Mars, fondati nel 1998 da Jared Leto (voce e chitarra) e da suo fratello Shannon (batteria). Si tratta di una cult band dalle atmosfere cupe come la notte, voci passionali e sound intenso e corposo. Si
continua con gli Editors, la risposta inglese alle atmosfere dark dei newyorkesi Interpol, con i Rise Against, band
hardcore punk in grado di imporsi in poco tempo sulla
scena mondiale, e con i Bastard Sons of Dioniso, formazione punk rock italiana che raggiunge la notorietà nel
2009 grazie al talent show «X Factor».
Il 5 luglio approdano all’Heineken i Black Eyed Peas,
band formatasi a Los Angeles nel 1998 con ricette a base di breakdancing e rime, e divenuta in breve tempo formazione in grado di raggiungere incassi da record. A seguire i Massive Attack e il loro sound ipnotico che nasce dalla fusione di dub, elettronica e atmosfere dark, i
Cypress Hill, gruppo hip hop statunitense, considerato
tra i pilastri del latin rap e del rap-rock, i N.E.R.D., la cui
pronuncia esatta è «en ii ar dii» e le cui sonorità sono un
po’ rock ma anche hip hop e soul, i Club Dogo, gruppo
l’altra musica — 53
dance. A seguire, la band indie-rock dei Gomez.
A esibirsi durante questa nuova e attesissima edizione
dell’Heineken, anche le trenta band vincitrici del concorso «Contest», selezione curata da Rock Tv, che porta sui
due palchi del San Giuliano i migliori gruppi emergenti
italiani, offrendo loro l’opportunità di farsi conoscere a
livello internazionale.
E se dal 7 al 9 luglio il parco rimarrà chiuso al pubblico
per ragioni di sicurezza (in quanto tutte le strutture del
festival resteranno montate), il 10 riaprirà i cancelli per un
Ben Harper, cantante e polistrumentista, vero e proprio
genio nel mescolare pop, rock, funk, blues, reggae e folk.
Nel 2008 l’idea di fondare i Relentless Seven insieme a Jason Mozersky (chitarra solista), Jesse Ingalls (basso e tastiere) e Jordan Richardson (batteria), con i quali salirà
sul palco del festival veneziano. Sarà quindi la volta degli
Skunk Anansie, uno dei gruppi più viscerali e controversi degli ultimi anni. La serata prosegue con i Gossip, trio
americano formatosi in Arkansas nel 1999 dall’incontro
tra la cantante Beth Ditto, il chitarrista Brace Paine e la
batterista Kathy Mendonca: un cocktail esplosivo ottenuto da un mix di ingredienti tra cui il punk, il funk e la
ultimo appuntamento in musica: l’Electro Venice Festival, una giornata intera dedicata a sedici tra i migliori dj del
mondo, dal duo belga 2Many Djs al tedesco Richie Hawtin, dal brasiliano Gui Boratto allo statunitense Steve
Aoki, agli italiani Bloody Beetrots e Marco Carola. (i.p.) ◼
l’altra musica
metropolitano attivo a Milano fin dagli anni novanta, che
ha fatto dell’hip hop la propria bandiera, e Airys che altro
non è se non Syria «allo specchio», un progetto con cui la
cantante romana si rilancia sul palcoscenico della musica italiana e non solo.
Il 6 luglio aprono i Pearl Jam, gruppo imprescindibile
del movimento grunge insieme a Nirvana, Soundgarden
e Alice in Chains. La loro evoluzione degli ultimi anni li
porta a un rock più morbido in cui si possono ancora riconoscere alcuni tratti dei vecchi dischi. Si prosegue con
A fronte: a sinistra, Green Day (divertimentitalia.com); a destra, Skunk
Anansie (elaborazione grafica da lastfm.it).
Sopra: a sinistra, Cranberries (testigratis.com);
a destra, Black Eye Peas (video-musicali.com).
Sotto, a sinistra Aerosmith (wordpress.com);
a destra, 30 Seconds to Mars (inforo.com).
54 — l’altra musica
Ma sono solo
canzonette?
La vera storia di «Nina»
T
di Gualtiero Bertelli
Gualtiero, anni così non pensavo
proprio che sarebbero arrivati. Nel nostro mestiere ci sono alti e bassi, come tu sai, ma così…
Praticamente ho tirato avanti, da dieci anni a ‘sta parte,
con i diritti di una canzone…». Era un Gino Paoli interdetto, più che preoccupato, quello che mi parlava in quel
mese di dicembre del 1981.
l’altra musica
«
i assicuro,
L’avevo invitato a tenere un concerto a Dolo, all’interno di una rassegna organizzata da Mira, Dolo e Fiesso, il
prologo di quella che sarebbe stata la collaborazione tra
tutti i Comuni della Riviera del Brenta in quella stagione
ricca di creatività culturale. È arrivato con il suo pianista;
un Paoli intimo, ricordava quello dei maglioni neri e degli occhiali scuri degli anni sessanta.
«Ho vissuto – continuava – con la SIAE di “Sapore di
sale”. Meno male che ci hanno fatto i film!»
Erano gli anni in cui Gianni Moranti si era ritirato a studiare il contrabbasso, Dalla scriveva cose bellissime con
i testi del poeta Roversi, ma vendeva poco, e i nomi nuovi erano Guccini, De Gregori, Venditti oppure Area,
PFM, Banco e così via.
Soltanto tre anni dopo Paoli riesplodeva: girava con un’orchestra, luci, suoni, tutto in grande, anche il prezzo, e mentre Dalla, dopo il successo di «Banana Republic», si
preparava a fare il bis con il riesumato Morandi, Canzonieri vari
riponevano le chitarre e l’Italia riprendeva la sua strada
dopo la tormentata stagione
delle canzoni contro. Riflusso??
È di quel periodo l’invenzione di
una frase che di primo acchito non
capivo bene cosa volesse dire in concreto, ma che mi ha aggiustato «ideologica-
mente»: «Il personale è politico», dove per «personale»
non si intendono le maestranze di un’azienda, che ci saremmo ritrovati nel più ovvio pan-sindacalismo, ma le
proprie esigenze personali, i sentimenti, le speranze, gli
obiettivi anche se disgiunti dal sol dell’avvenire. Sembra
poco, sembra ovvio, ma mica tanto, almeno a quei tempi, per quelli come me!
Non ho mai amato molto Milano e men che meno la Milano uggiosa dell’inverno. Ma in quei primi di febbraio
del ‘95 avevo una buonissima ragione per soprassedere
ed essere moderatamente soddisfatto di esserci. Si sposava Emanuele – un mio carissimo amico divenuto poi collega – con Donatella, e per gli amici, circa duecento, aveva affittato il circolo ARCI di Sesto Marelli. Ci arrivai con
tre colleghi di Venezia e subito fummo coinvolti in una
bagarre dal sapore antico. Bicchieri di vino, panini e altro, musica: un gruppo improvvisato di amici che armeggiava attorno ad amplificatori, chitarre, tastiere.
Dopo circa un’ora di chiacchiere e canti a squarciagola,
un chitarrista che aveva appena finito di clonare gli Inti
Illimani mi chiama e mi chiede di cantare «Nina». Aderisco, lo faccio, più o meno silenzio, applausi commossi,
torno dagli amici.
Si avvicina un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni, alto, barbuto, che, in un italiano eccellente, benché seconda o terza lingua, mi chiede: «Sei Gualtiero Bertelli? – e
al mio cenno – L’avrei giurato. Stavo parlando quando
hai incominciato a cantare e mi son detto: ma questa voce? è lui!!!»
Poi, rendendosi conto del mio interdetto stupore, ha
continuato: «Sono di Bratislava, vivo e insegno in Italia e
sono uno scrittore. Mi chiamo Alf Schneditz e ho scritto
racconti e romanzi sia in tedesco che in italiano. Nel 1972
un amico mi ha regalato una cassetta di canzoni italiane
registrate durante dei concerti a Salisburgo. Tra le altre
c’era “Nina”. La melodia e la tua voce mi hanno preso.
Non capivo nulla del testo e a me sembrava una ninnananna e così l’ho cantata, con una lingua che ti lascio immaginare, a mia figlia che era appena nata e che è cresciuta con la tua canzone. Quando poi sono venuto in Italia
mi hanno spiegato cosa diceva il canto e chi la cantava.
Ecco perché poco fa ho riconosciuto subito la tua voce
ed ho provato una grande emozione» e via con ringraziamenti di cui, davvero, non avevo alcun merito.
È incredibile come una canzone, nata così, a volte per
caso, a volte per ispirazione, ma forse sono la stessa cosa, possa determinare l’immagine di una persona,
caratterizzare in modi diversi la sua vita, a volte
determinarne una svolta imprevedibile.
Non avrei mai pensato, quel giorno di
febbraio del 1966, che quel foglio di
quaderno con le righe di quinta che
si stava riempiendo rapidamente di
versi e di strofe sarebbe diventato la «mia» canzone.
Prudentemente appoggiato sul tavolino a tre
zampe del nostro salotto
«all’inglese», nella mia casa di
famiglia alla Giudecca, scrivevo
rapidamente, come sotto dettatura
(e vedevo scorrere davanti ai miei oc-
chi dieci, venti visi come in un film), le parole di «Dopo
sie ani» divenuta poi «Nina ti te ricordi».
La cantai la sera stessa a Luisa Ronchini. «Sì… bella…
però è una canzone d’amore…» Come tutte quelle che
affioravano dalla ricerca e che tanto ci facevano invidiare i bei repertori di monda o di filanda dell’Emilia e della
Lombardia così espliciti, così «di lotta». Possibile che in
questa regione di preti e suore, pensavamo, non ci sia stato il benché minimo rigurgito non dico rivoluzionario,
ma almeno protestatario!
Luisa si consolava con il repertorio anarchico che aveva raccolto da una preziosa registrazione con Armando
Borghi, l’ultimo dei grandi anarchici tra Otto e Novecento, ma restava l’amaro in bocca per non aver anche noi un
bel repertorio battagliero da proporre. Per questo grande
fu la soddisfazione quando emersero «Povere filandine»
da una registrazione di Maddalena Lucco, e «Semo tute impiraresse» mutuata da varie registrazioni incomplete, fino a quella effettuata con Bianca Medici, divenuta
poi l’edizione di riferimento.
Quindi si spiega la disillusione di
Luisa e il mio imbarazzo a eseguire
quella canzone. Piegai il foglietto, lo
riposi in tasca con l’idea di lasciarlo lì
sepolto a lungo.
Dal 4 marzo al 1 aprile a Milano, nel
teatro della Società Umanitaria, si teneva la seconda rassegna organizzata
dal Nuovo Canzoniere Italiano e denominata «L’altra Italia». Presentava
concerti e spettacoli sui temi più diversi. Quell’anno i titoli furono cinque: «La canzone popolare narrativa.
Prova di concerto numero uno» a cura di Roberto Leydi e Franco Coggiola (l’ultimo lavoro
di Leydi con il NCI), «La opposizione. Trenta canzoni
per la resistenza di sempre» a cura di Michele L. Straniero, «Altri vent’anni. La protesta» a cura di Cesare Bermani e Ivan Della Mea, «Piadena, un paese della pianura padana» a cura della Biblioteca popolare di Piadena, e infine «Gorizia. Ricerca di un linguaggio e di dimensioni teatrali» a cura di Paola Boccardo e Tullio Savi con la regia di Virgilio Puecher. Luisa Ronchini, Alberto D’Amico ed io, cioè il Canzoniere Popolare Veneto, prendemmo parte allo spettacolo «Gorizia» mentre io partecipai
anche ad «Altri vent’anni» che ragionava sul dopoguerra
attraverso le canzoni della lotta popolare, in particolare
braccianti e mondine, e dei nuovi autori, e in quel caso oltre a Ivan e a me c’era anche Fausto Amodei.
Dopo una prima parte strutturata ci fu un epilogo libero, dove ognuno poteva eseguire ciò che più lo rappresentava in quel momento. Mentre mi interrogavo sul che
fare Fausto ci sorprese con una canzone d’amore. In un
attimo mi sentii libero di tirare fuori il foglietto che prudentemente mi ero infilato nel taschino della camicia, riporlo sul leggio e intonare con qualche patema «Nina».
L’applauso del pubblico assiepato fu davvero sorprendente, lungo e convinto. Leydi esclamò «Questa è la nuova canzone popolare» (me l’hanno riportato perché io ero
in totale confusione) e Sandra Mantovani mi chiese immediatamente il testo che io non potevo fornirle seduta stante in quanto era scritto a mano in copia unica. Ho
pensato più volte: «E se quella copia l’avessi persa?»
«Nina » si è diffusa con una rapidità incredibile. L’ho incisa un anno dopo in un 45 giri della Linea Rossa, con
mio fratello Tiziano, distribuito in un numero limitatissimo di copie e soltanto nel 1978 ha avuto lo spazio di un
LP, eppure ovunque era già nota e cantata, è finita in varie raccolte di canzoni da eseguire in coro, comprese alcune pubblicazioni dei boys scout, ha avuto un numero
imprecisato di incisioni, prime tra tutte quella di Giovanna Marini e di Maria Monti.
La cosa sorprendente è che ovunque la cantassi, alla terza sillaba scattava l’applauso del pubblico. Anche a Parigi, a Vienna, a Salisburgo. Certo in quel periodo si girava
molto e c’erano ovunque giovani italiani, ma non solo, vista la storia di Alf Schneditz sopra raccontata.
Ho ricevuto decine di testimonianze di incontri propiziati dalle note dolenti di quel valzerone e una signora mi
ha inviato per e-mail la registrazione dell’esecuzione che i
suoi due figli, entrambi attorno ai dieci anni di età, le hanno regalato per il
suo compleanno.
Dopo la ripresa che ne hanno fatto
nel cd Il fischio del vapore Francesco De
Gregori e Giovanna Marini, l’interesse per Nina si è rinvigorito con esecuzioni che spaziano dalla musica antica
alla salsa, non sempre con esiti illuminanti, ma quanto meno curiosi.
Me la son sentita spacciare per autentico canto popolare vecchio di
chissà quanti anni e per molti sono diventato «Quello di Nina». Non mi sono mantenuto con i proventi dei diritti d’autore, questo no, ma d’altra parte nessuno ci ha ancora fatto un film
sopra! Chissà.
Eppure se mi chiedessero qual è la più bella canzone
che ho scritto farei fatica a decidere, ma non penserei a
«Nina»; per i miei canoni musicali e poetici non è «la più
bella».
Ma che cosa vuol dire «la più bella»?
Eppoi sono le canzoni «più belle» quelle che hanno successo? Faccio fatica a crederlo con gli esempi che corrono.
E allora perché Nina sì e altre dieci altrettanto amare,
altrettanto poetiche, altrettanto «vere» invece no?
Sono domande alle quali ancora non so dare risposta.
Mi sfugge l’insieme delle concause che determinano la
dimensione di certi successi, anche perché da «Nel blu dipinto di blu» a «Vamos a la playa» ne corre di strada. Sono riflessioni che lascio volentieri ai sociologi della musica e della canzone.
Quello che però non avrei mai potuto immaginare quarantaquattro anni fa, in un pomeriggio d’inverno, alla vigilia del mio ventiduesimo compleanno è che oggi, all’alba del terzo millennio, dopo aver ascoltato ciò che stava uscendo da quelle righe, un giovane mi avrebbe detto: «Bella quella canzone, sembra fatta ieri. Per noi è ancora tutto vero». ◼
Alla pagina fronte, in alto, da sinistra: Tiziano e Gualtiero Bertelli
cantano «Nina» nel 1967 (Venezia, Ca’ Giustinian);
sotto: copertina del 45 giri «Nina» (1967).
Sopra: copertina del cd del
Dizionario della canzone Italiana
di Enzo Arbore con «Nina».
l’altra musica
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