001-002 . Editoriale - Associazione Nazionale Magistrati
Transcript
001-002 . Editoriale - Associazione Nazionale Magistrati
L M CONSIDERAZIONI MINIME SULLA GIUSTIZIA CIVILE TRA PROBLEMI DELL’ORGANIZZAZIONE E RIFORME PROCESSUALI (*) R itengo di dover iniziare questo mio intervento leggendo un verbale di mancato (rectius, omesso) pignoramento di un Ufficiale Giudiziario di Verona, che mi è stato trasmesso nei giorni scorsi da un avvocato: «Si restituisce l’atto inevaso, significando che non è stato possibile procedere esecutivamente per grave carenza di personale: su 16 Ufficiali Giudiziari addetti alle esecuzioni previsti dalla pianta organica, ne prestano servizio – di fatto – solo 5, di cui uno in part time al 50%. // A tali ufficiali giudiziari superstiti, inoltre, è stato affidato il compito di seguire le esecuzioni anche nel territorio circoscrizionale del Tribunale di Legnago, ove non è in servizio nessuno dei 4 uff. giud. previsti. // Abbiamo informato della gravità della questione tutti gli uffici gerarchicamente superiori ed abbiamo chiesto al sig. Ministro ed al sig. Presidente della Corte una rapida soluzione del problema ma, sinora, senza alcun riscontro. // Siamo consapevoli che lo stato di dissesto penalizza soprattutto i sigg. Avvocati ed, in genere, gli utenti della Giustizia. Siamo altrettanto consapevoli, però, che il nostro impegno, in questo momento, è altissimo. // Confidiamo, perciò, nella Sua comprensione e, se possibile, in un Suo intervento presso tutti coloro che potrebbero risolvere il problema. // (omissis) // Veramente rammaricati per la situazione creatisi e per il disagio che la stessa sta causandoLe, restiamo a disposizione per eventuali ed ulteriori chiarimenti.». La denuncia di questa situazione fa, come si suol dire, pendant con una serie di disfunzioni esistenti nel tribunale di Milano, presso cui esercito la mia professione. In merito a queste disfunzioni sono state fatte dall’associazione forense a cui sono iscritto (Nuova Professione Avvocato) alcune denunce (al Ministro, ai responsabili degli uffici, ecc.), l’ultima in data 31 marzo 2003, rimasta senza riscontro. Sintetizzo il contenuto della lettera. Si diceva che è inaccettabile che in un Tribunale come quello di Milano una richiesta di decreto ingiuntivo non possa essere soddisfatta in meno di 45 giorni; che, successivamente, per l’apposizione della formula esecutiva ai sensi dell’art. 647 c.p.c. siano necessari circa 6/7 mesi (1); (*) Lo scritto riproduce l’intervento dell’A. al convegno nazionale dell’A.N.M. sul tema “Processo ed organizzazione” (Roma, 12-13 dicembre 2003). (1) Fortunatamente, dopo Corte cost. 6 dicembre 2002, n. 522, in Corriere Giuridico 2003, 3, 310 con mia nota, non è più necessario, per poter disporre del titolo esecutivo, il previo pagamento dell’imposta di registro, che comportava ulteriori ritardi. 14 che nei procedimenti di espropriazione immobiliare tra il deposito della documentazione ipo-catastale, nei termini perentori di cui all’art. 567 c.p.c. novellato, e la fissazione dell’udienza ex art. 569 c.p.c. passino non meno di 18-20 mesi, ma molto spesso anche tre anni. itornando al procedimento monitorio, sono in grado di documentare che a fronte dell’emissione del decreto da parte del giudice in una certa data, il timbro di deposito in cancelleria è stato apposto anche tre mesi dopo (nello specifico: 3 giugno 2003-8 settembre 2003) e, al di fuori del periodo feriale, comunque in periodo variabile tra i 30 ed i 60 giorni. Non sto parlando di casi eccezionali: ed è ovvio che la verifica può effettuarsi soltanto laddove il magistrato abbia avuto cura di apporre la data in cui ha sottoscritto il provvedimento, non lasciando che essa sia determinata esclusivamente dal timbro del deposito apposto dalla cancelleria. Poiché escludo che i magistrati si tengano in un cassetto un provvedimento dopo averlo sottoscritto, penso che ogni commento sulle disfunzioni della cancelleria sia superfluo. Indubbiamente a Milano si risente fortemente in questo settore della situazione che già c’era in Pretura prima dell’entrata in vigore della legge sul giudice unico. R Comunque, pensate lo stato d’animo del creditore che dopo aver atteso tutto questo tempo (minimo una decina di mesi a conti fatti (2)) per la formazione di un titolo esecutivo – con buona pace dei tempi previsti dalle direttive comunitarie – si vede poi negata anche l’esecuzione, come abbiamo visto poco fa essere avvenuto in quel di Verona! Sono solo alcuni casi di disfunzioni: ma potrei continuare, ad esempio dicendo che le comunicazioni di cancelleria relative ai depositi di sentenza sono in gravissimo ritardo: a tutt’oggi non ho ricevuto avvisi di depositi di sentenza che, a seguito di ricerche in cancelleria, ho verificato essere avvenuti il 1° ottobre 2003. E questa situazione si trascina da mesi e riguarda qualsiasi comunicazione. Ancora: quando il giudice dell’esecuzione scioglie una riserva, noi avvocati non siamo in grado di reperire il fascicolo in cancelleria per circa un mese e mezzo. I termini contemplati dall’art. 168 bis c.p.c. sono di fatto disapplicati e non raramente il fascicolo d’ufficio è reperibile secondo quel che dovrebbe essere la normalità (cioè, nella cancelleria del giudice, senza dover affrontare ricerche onerose e, direi, polverose) solo nell’imminenza della scadenza del termine dei venti giorni precedenti la prima udienza fissata dall’attore, se non dopo, talché, se il G.I. non ha provveduto ai sensi dell’ultimo com- (2) Ed infatti: 45 giorni di tempo per avere il decreto (ma in taluni casi i giorni sono molti, ma molti di più, come si è visto), a cui si aggiungono i termini per la notificazione (diciamo, per comodità, 5 giorni), i termini per l’opposizione (40 giorni), i termini per l’apposizione della formula (6-7 mesi). (3) Mi è capitato qualche anno fa di volermi costituire, per proporre riconvenzionale e contestuale istanza di provvedimento cautelare, ben prima dei venti giorni precedenti la prima udienza (come ho detto, dovevo discutere un provvedimento d’urgenza) e circa una quindicina di giorni dopo la scadenza del termine per l’attore per iscrivere la causa a ruolo. Mi fu richiesto dal cancelliere, al fine di portare la causa al Presidente del ma del predetto art. 168 bis c.p.c. al differimento della prima udienza (con slittamento che, peraltro, talvolta va ben al di là dei 45 giorni previsti dalla norma: il che costituisce un altro problema), si rischia di pregiudicare riconvenzionali (3) e chiamate di terzo. La risposta che si suol dare a fronte delle contestazioni che vengono mosse è sempre la stessa: la causa è nella carenza di personale. on ho motivo per dubitarne. Ma, in ogni caso, delle due l’una: o effettivamente la causa è questa, ed allora occorrerà che il Governo si attivi e subito, senza ulteriori indugi, che sono intollerabili in un Paese europeo; o la causa è nell’incapacità dei singoli dirigenti, che andranno allora rimossi. Da anni, ogni volta che mi occupo di questi temi, ricordo che, come ho appena detto, siamo un Paese europeo, siamo una potenza industriale (forse un po’ in declino…). Non è possibile tollerare questa situazione, poiché essa pregiudica l’economia, con buona pace di tutti i discorsi (sui quali ho dei forti dubbi - ma qui non rileva) sulla logica ottimale dei mercati. Per dirla col professor Normand dell’Università di Reims: «Non si può avere una vera concorrenza sul mercato interno [europeo - n.d.r.] se i soggetti economici non sono in una situazione di parità almeno approssi- N Tribunale per la designazione del giudice istruttore, un’«istanza di immediata iscrizione a ruolo» (ovviamente in bollo!). È superfluo ogni commento! Devo, tuttavia, dare atto che dopo che denunciai il fatto in occasione di un convegno [mi riferisco al convegno Giustizia e riforme - quale politica per il personale, quali strutture nella Giustizia che cambia - Milano 18 maggio 1998. Il testo della mia relazione, col titolo Brevi note sul rapporto tra giustizia e burocrazia (e circa il primato del pubblico sul privato), è pubblicato in La rivista del Consiglio (dell’Ordine degli Avvocati di Milano), fasc. n. 3 del 1998, pagg. 89 e segg.] a cui partecipò anche il direttore generale del Ministero della Giustizia dell’epoca (maggio 1998) non si sono più avute richieste simili. 15 mativa rispetto agli oneri che gravano su di essi. Ciò che vale per gli oneri fiscali e sociali non è meno valido per gli oneri giudiziali. Coloro che devono sopportare il peso di un sistema giudiziario più pesante, più lento, più oneroso di altri sono doppiamente penalizzati nella competizione intra-comunitaria. Lo sono, innanzi tutto, per il carico che rappresentano questi costi giudiziari tra le loro spese generali. Rischiano di essere danneggiati nella competizione internazionale a causa della pubblicità negativa che su di loro riflette la reputazione del processo nel loro paese e le complicazioni senza fine che esso permette quando sorge una controversia tra le parti» (4) [il corsivo è mio]. Aggiungo che le conseguenze non sono soltanto queste: la sfiducia nell’amministrazione della giustizia ha un’altra conseguenza, ancor più devastante sulla vita sociale; il bisogno di giustizia non ammette vuoti e laddove un vuoto si verifica viene riempito. E se lo Stato abdica, lo sappiamo, vi sono altre autorità – non legittime – che sono pronte a «surrogarlo». Né, visto i tempi che viviamo, sarà il caso di esaltare le misure alternative. Non esaltiamo gli arbitrati: non sono alla portata di tutti (5) … e comunque, poi, vi è sempre la necessità che qualcuno ne assicuri l’autorità sul piano esecutivo. Come dire? … Verona docet! Non confidiamo tanto nei tentativi obbligatori di conciliazione: sono uno dei possibili strumenti di intervento, non costituiscono la soluzione, a prescindere dal fatto che culturalmente non hanno fatto ancora presa. • • • on entro nel merito dei tempi di scioglimento di riserva. Non ho i dati relativi ai carichi di ruolo per verificare se si giustifichino, in alcuni casi, ritardi di mesi. Intendiamoci: non è che qui ci si dolga del mancato rispetto del termine di cinque giorni previsto dall’art. 186 c.p.c., che in certi casi sarebbe umanamente impossibile rispettare; tuttavia – con tutta la comprensione possibile – riesce difficile giustificare scioglimenti di riserva a distanza di sei mesi su meno di una decina di capitoli di prova, già discussi in udienza e con una riserva assunta per dichiarato scrupolo. Certamente, se una riserva ha questi tempi, è difficile poi che i tempi del processo siano contenuti nell’ambito di un triennio. Il problema è che certi ritardi finiscono per avere una cassa di risonanza maggiore rispetto ai casi di ordinario, buon andamento Analogo discorso si può porre purtroppo in relazione ai tempi di pubblicazione delle sentenze, anche se qui, in concreto possono intervenire nuovamente fattori di inefficienze delle cancellerie. Ricordo sempre – ma è un fatto molto risalente – il caso di un giudice che aveva scritto la sentenza negli otto giorni successivi alla discussione collegiale, ma la minuta giacque in cancelleria nove mesi (una gestazione …) perché non c’era nessuno che la potesse battere a macchina. Il nuovo rito introdotto dalla leg- N (4) NORMAND J., Il ravvicinamento delle procedure civili in Europa, in Riv. dir. proc. 1998, 682 e segg. (5) Cfr. sul punto le acute osservazioni e le forti perplessità manifestate da VERDE G., Sul monopolio dello Stato in tema di giurisdizione, in Riv. dir. proc. 2003, 371 e segg., spec. 382 e segg. 16 ge 353 del 1990 ha portato indubbiamente ad una riduzione dei tempi processuali. Tuttavia solo tra qualche anno potremo davvero fare delle verifiche sulla tenuta di questi tempi. Non dimentichiamo, infatti, che le cause di vecchio rito sono state assegnate ai G.O.A. e, quindi, l’arretrato, cumulatosi al 30 aprile 1995, non è venuto a pesare sull’organico effettivo dei giudici togati se non per un periodo limitato. Certo è che nelle Corti d’appello – ove non vi è stato per lo smaltimento dell’arretrato cumulatosi per le cause di vecchio rito l’ausilio di magistrati onorari – la situazione che viene segnalata è particolarmente grave. Noi abbiamo a Milano la fissazione di prime udienze, per cause che vengono svolte col rito locatizio, a distanza di oltre un anno e mezzo dal deposito del ricorso. Nelle cause di rito ordinario, invece, è l’udienza di precisazione delle conclusioni che viene fissata a tale distanza di tempo. Mi consta che presso altre Corti d’appello la situazione sia ancor più grave. Né ci si può confortare di questa situazione assumendo che nel frattempo vi è un titolo esecutivo formatosi in primo grado. A parte il fatto che, come è noto, l’orientamento dominante in dottrina ed in giurisprudenza è nel senso che le sentenze costitutive e di mero accertamento non sono provvisoriamente esecutive neppure quanto ai capi condannatori connessi (6), va da sé che non è affatto detto che chi è soccombente in primo grado lo sia a ragion veduta (l’errore giudiziario è (6) Cfr. sul punto in giurisprudenza Cass. 12 luglio 2000, n. 9236, in Corriere Giuridico 2000, 12, 1599 con nota parzialmente critica di CONSOLO C., Una non condivisibile conseguenza (la non esecutorietà del capo sulle spese) di una premessa fondata (la non esecutorietà delle statuizioni di accertamento). In dottrina vedi TARZIA G., Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano 2002, 252. una realtà!), mentre l’interpretazione del disposto dell’art. 283 c.p.c. appare ispirato davvero a criteri eccessivamente ristretti (7). • • • ono quasi 22 anni che esercito la professione di avvocato e sono sempre più persuaso che potremo ritoccare quanto vogliamo le norme processuali, ma i problemi sono altri. In altri termini: non metto in dubbio che nelle pieghe della legge si possano trovare dei cavilli per ritardare il processo. Oggi, tuttavia, il giudice ha molti più strumenti di ieri per impedire i rinvii a vuoto e manovre defatigatorie. Non nego, peraltro, che si possa intervenire ancora, ad esempio, sulle norme relative alla fase di prima comparizione (ed in tal senso mi sembra condivisibile quanto previsto dal disegno di legge in discussione al Senato), su quelle che regolano con una certa rigidità il rapporto di strumentalità tra processo cautelare e processo di merito (ed anche in tal senso mi sembra condivisibile la ratio sottesa alla riforma dell’art. 669-octies c.p.c., prevista dal predetto disegno di legge - qualche dubbio l’ho sul tenore letterale della norma (8)). Le perplessità nascono dal fatto S che immancabilmente quando si hanno strumenti legislativi a disposizione, pare che molti operatori del diritto, avvocati e magistrati, facciano a gara per limitarne la portata. È il caso dell’ordinanza ex art. 186-quater c.p.c.. Un amico magistrato, mi riferisco a Carlo Verardi, mi disse una volta che magistrati ed avvocati facevano a gara per impedirne l’operatività. Ed io condivido questa affermazione. Non solo, o, se si vuole, non tanto per il fatto che essa sia ritenuta inapplicabile alle azioni costitutive (9) (soluzione che non condivido, come non la condivido per l’ordinanza ex art. 186-ter (10)), quanto per il fatto che si rinvengono massime che ne escludono l’applicabilità nelle ipotesi di responsabilità aquiliana (11), mentre vengono segnalati tempi di fissazione della discussione dell’istanza che ben poco hanno a che vedere con la natura di provvedimento anticipatorio. A proposito di tempi per la pronuncia di provvedimenti a contenuto anticipatorio, subito dopo l’entrata in vigore del nuovo rito si pose un problema in relazione alla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo. È noto che alcuni giudici ritenevano di poter disporre subito sull’istanza di sospensione della (7) Cfr. sul punto cfr. App. Milano, 18 dicembre 1996, in Questione Giustizia 1997, 1, 236 con nota di RORDORF R. Sul fumus boni iuris per la sospensione della sentenza di primo grado v. CONSOLO C., Commentario alla riforma del processo civile, Art. 283, Milano 1996, 275 e segg. per il quale «colui che chiede l’inibitoria (...) dovrà certamente dimostrare la pesantezza delle ripercussioni sulla sua sfera patrimoniale che si avrebbero in caso di adempimento coattivo del debito (...). Tuttavia una inibitoria, anche solo parziale (...) non potrà essere concessa se il giudice di appello, dalla lettura dell’atto di citazione anche alla luce della comparsa di risposta dell’appellato, non trarrà la consapevolezza che la sentenza esecutiva rischia effettivamente di dover venire riformata almeno in parte ... » (p. 277). E conclude: «se il danno fattuale è assai notevole il fumus boni iuris dell’appello può bastare; se invece il danno è rilevante ma contenuto la inibitoria postulerà una elevata probabilità che la decisione appellata possa venire riformata». Sul punto mi permetto di richiamare altresì le considerazioni che ho svolto nel mio La nozione di irreparabilità nella tutela d’urgenza provvisoria esecuzione ai sensi dell’art. 649 c.p.c., mentre assumevano di non poter discutere prima dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. l’istanza ex art. 648 c.p.c., sull’evidente presupposto che pagare ciò che non si deve è più grave che non ricevere ciò che si ha diritto di ricevere. Penso che in realtà le due fattispecie siano il rovescio della stessa medaglia e perciò ogni distinzione sul piano del trattamento processuale sia errato. Né vale dire che occorre aspettare che l’opponente possa formulare ulteriori eccezioni con la memoria difensiva che può depositare venti giorni prima dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., contenente eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio: poiché sarebbe come dire che nel vecchio rito non si sarebbe potuto discutere l’istanza di provvisoria esecuzione prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni, atteso che eccezioni potevano essere dedotte fino a tale udienza (12). Siamo in presenza di una misura sommaria, fondata su una predeterminazione di un periculum connesso col ritardo effettuata a monte dal legislatore: non vi è spazio per tollerare ritardi nella discussione, se non in via eccezionale. Mutatis mutandis ciò non può del diritto di credito, in Riv. Dir. Proc. 1998, 216 e segg., spec. 247 e segg. (8) Mi permetto di richiamare sul punto il mio Progetti di riforma al codice di rito e tutela sommaria: pro memoria per il legislatore, in Corriere Giuridico 2002, 4, 546 e segg., spec. 549 e segg. (9) Cfr. per tutte Trib. Bari, 17 giugno 1996, in Giur. It. 1998, 951 e contra Trib. Roma, 2 giugno 1997, ibid. (10) Mi permetto di richiamare in proposito la mia monografia L’ordinanza di ingiunzione nel processo civile, Padova 2003, 71 e segg. (11) Cfr. Trib. Milano, 26 marzo 1996 e Trib. Monza, 20 settembre 1995, in Resp. civ. prev. 1996, 739. (12) Sul punto mi permetto di rinviare al mio Prima udienza di comparizione ex art. 180 c.p.c. novellato e provvisoria esecuzione del decreto opposto, in Giur. It. 1996, I, 2, 170. Conf. CHIARLONI S., Giudice e parti nella fase introduttiva del processo civile di cognizione, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1999, 401. 17 non valere anche per l’ordinanza di ingiunzione ex art. 186-ter c.p.c., che costituisce l’omologo dell’ordinanza ex art. 648 c.p.c. nel processo ordinario di cognizione (13). • • • o detto prima che ritengo che la soluzione dei problemi della giustizia non è questione di riforme di norme processuali o, se si vuole, non lo è tanto (interventi andrebbero fatti in punto determinazione delle aree di competenza e, magari, per sgravare la Suprema Corte di cause dal carattere «bagatellare»; dubito fortemente, invece, sulla necessità ed opportunità di riforme radicali). Prima di concludere, peraltro, mi preme dire che sicuramente non è questione di imbrigliare le facoltà interpretative del giudice, come taluno sta inopinatamente sostenendo. Noi viviamo in un’epoca di repentini mutamenti nel sociale. È assolutamente un’utopia – e neppure positiva – pensare che essi non si riflettano sull’interpretazione delle leggi. Come se poi le stesse leggi non mutassero e i mutamenti che intervengono in un ramo dell’ordinamento non siano suscettibili di esercitare un riflesso anche al di fuori del singolo settore in cui sono intervenuti. Né possiamo dimenticare che il nostro Paese ha una collocazione internazionale e che le norme in- H ternazionali hanno una loro valenza nel nostro ordinamento giuridico, talché se si fa una legge senza tener conto di queste norme, non ce la si può prendere con chi questa nuova legge interpreta collocandola in un ambito più vasto. Insomma, quando sento disquisire sui problemi dei limiti dell’interpretazione, mi viene sempre in mente una precisazione di Francesco Antolisei, secondo cui non può «accogliersi l’antica massima in claris non fit interpretatio, sia perché ciò che appare chiaro ad una persona, può non esser tale per un’altra, sia perché in ogni caso l’interprete non deve arrestarsi al risultato che si desume immediatamente dalle parole, vale a dire il significato apparente, ma deve cercare il senso più intimo e profondo della disposizione e l’effettiva portata di essa» (14). Non è raro che si censuri l’interpretazione delle leggi. Anche Cesare Beccaria lo faceva (15): ma, al di là del fatto che Beccaria scriveva nel 1764, in un’epoca in cui la chiarezza delle leggi – a quanto ci dicono gli storici – lasciava molto, ma molto a desiderare (molto più di quanto non lo lasci a desiderare oggi (16)), è certo che il relativo passo è stato segnalato come indice di ingenuità (17). Ho accennato poc’anzi ai mutamenti sociali. E a tale proposito vorrei fare una riflessione, che nasce dai miei studi sul provvedimento d’urgenza. Se guardiamo a questo istituto con l’occhio dello (13) Mi permetto ancora di richiamare il mio L’ordinanza di ingiunzione, cit., 194 e segg. (14) ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale - parte generale, Milano 1975, 59. (15) BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, al § IV. (16) Cfr. PROTO PISANI A., Appunti sull’arretrato, in Foro it. 1995, V, 286. V. anche CAPPONI B., Il tentativo di conciliazione obbligatorio in funzione deflattiva del contenzioso infortunistico, in Doc. Giust. 1996, 7, 1492. (17) Cfr. JEMOLO A.C. nel saggio introduttivo al testo del Beccaria per i tipi della Bibl. Univ. Rizzoli, Milano 1981, 9 e segg., 18 storico, partendo proprio da quanto su di esso si dice nella Relazione ministeriale, non possiamo non considerare che esso nasce con finalità conservative e che per lungo tempo come tale fu considerato (18). A partire dagli anni Settanta la portata della norma è stata ampliata, anche sotto le forti pressioni di quel fenomeno che è definito la giurisdizionalizzazione dei conflitti sociali ed oggi l’orientamento dominante in dottrina e in giurisprudenza ammette che il provvedimento d’urgenza, non soltanto non è limitato alla sola tutela dei diritti assoluti, ma può avere un contenuto totalmente anticipatorio del provvedimento finale (19). ertamente, come in ogni fenomeno evolutivo, si è passati attraverso un lungo travaglio, in cui non sono mancati provvedimenti abnormi e soluzioni inaccettabili, che hanno sollecitato l’introduzione di sistemi di controllo, di cui oggi è espressione l’art. 669terdecies c.p.c.. Ma – vivaddio – se si fosse impedita ogni forma di interpretazione oggi il nostro ordinamento sarebbe di gran lunga meno al passo dei tempi di quanto, forse, in una certa misura, non lo sia. L’impedire una interpretazione «evolutiva» significa scegliere a monte su chi far ricadere i rischi dell’inadeguatezza della norma rispetto alle nuove esigenze della società: ma l’ordinamento giuridico non è una monade chiusa in C anche se lo stesso Jemolo è critico verso certe forme di interpretazione, politicamente orientate, che «riescono a far dire alle parole della legge l’opposto di ciò ch’esse esprimono» (op. cit., 10). (18) Cfr. TOMMASEO F., voce Provvedimenti d’urgenza, in Enciclopedia del diritto, XXXVII, Milano 1988, 858; ARIETA G., I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., Padova 1985, 56. (19) Sul punto mi permetto rinviare ai miei studi Tutela d’urgenza tra diritto di difesa, anticipazione del provvedimento ed irreparabilità del pregiudizio, in Riv. Dir. Proc. 1995, 216 e segg. e La nozione di irreparabilità, cit., 234. se stessa e imbrigliare l’interpretazione è una scelta politica di chi vuol ricondurre, in un modo o in un altro, la magistratura sotto il controllo politico. orrei concludere con la citazione di un passo di Giuseppe Borrè: «Voi non avete idea – parlo ai più giovani – di quanto fosse forte, nei primi anni Cinquanta, quando feci la scelta di prepararmi per la magistratura, quello che ho chiamato “conformismo”, e come esso si legasse – tangibilmente – a una volontà di conservazione politica. La cultura giudiziaria dell’epoca era pesantemente dominata dal formalismo giuridico. L’ordinamento era considerato autoreferenziale, perfetto, capace di autocompletamento (qualcuno ricorderà, forse, la vecchia e singolare teoria dell’impossibilità logica delle lacune). La legge ordinaria era avvertita come unico e definitivo termine di riferimento. E la interpretazione della legge era rappresentata come operazione meramente ricognitiva, ricerca dell’unico significato estraibile dal testo normativo. // V Parallelamente a ciò, la magistratura rifiutava ogni rapporto con l’esterno, si chiudeva come una cittadella fortificata. Non solo era tenuto fuori il «sociale» (con tutte le sue contraddizioni, le sue irriducibilità, i suoi conti che non tornano), ma si temevano anche momenti di arricchimento del quadro istituzionale che potessero in qualche modo disturbare il tradizionale isolamento del corpo giudiziario. Così fu guardata con malcelato sfavore la istituzione della Corte costituzionale. La composizione mista del CSM fu fonte di non poche recriminazioni. (…). // Nel noto e provocatorio dilemma di Maranini – “magistrati o funzionari” – la magistratura occupava allora, decisamente, il secondo termine: era burocrazia, funzionariato, non era ancora esercizio dell’autonomia voluta dalla Costituzione. E in questa logica funzionariale si produceva una sorta di rovesciamento delle fonti, della gerarchia dei valori dell’ordinamento. La legge ordinaria dava il rassicurante appoggio della continuità. La Costituzione costringeva invece ai confronti, a mettere in discussio- ne assetti, certezze, regole del gioco. Proprio per questo fu inventata la categoria delle norme programmatiche. Da burocrati in questo senso, da servi legum in questo senso, non era lungo il passo a diventare subalterni tout court, momenti di pura consonanza (non importa quanto consapevole dal punto di vista soggettivo) con il sistema politico ed economico dominante. Le apoliticità dell’apparato giudiziaro in quanto apparato burocratico e la neutralità della tecnica altro non furono che strumento di conservazione dei rapporti economici e di continuità del vecchio Stato» (20). cco, certamente non è quella magistratura che così bene ha inquadrato Borrè che vorremmo. Non è certamente con un passo indietro verso tale schema che si risolvono i problemi della giustizia. E RICCARDO CONTE Avvocato (20) BORRÈ G., Le scelte di Magistratura Democratica, in Questione Giustizia, 1997, 2, 270. 19