001-002 . Editoriale - Associazione Nazionale Magistrati

Transcript

001-002 . Editoriale - Associazione Nazionale Magistrati
L
M
CONSIDERAZIONI MINIME
SULLA GIUSTIZIA CIVILE
TRA PROBLEMI
DELL’ORGANIZZAZIONE
E RIFORME PROCESSUALI (*)
R
itengo di dover iniziare questo mio intervento leggendo un
verbale di mancato
(rectius, omesso) pignoramento di un Ufficiale Giudiziario di Verona, che
mi è stato trasmesso nei giorni
scorsi da un avvocato: «Si restituisce l’atto inevaso, significando
che non è stato possibile procedere esecutivamente per grave
carenza di personale: su 16 Ufficiali Giudiziari addetti alle esecuzioni previsti dalla pianta organica, ne prestano servizio – di fatto
– solo 5, di cui uno in part time al
50%. // A tali ufficiali giudiziari
superstiti, inoltre, è stato affidato
il compito di seguire le esecuzioni anche nel territorio circoscrizionale del Tribunale di Legnago,
ove non è in servizio nessuno dei
4 uff. giud. previsti. // Abbiamo
informato della gravità della questione tutti gli uffici gerarchicamente superiori ed abbiamo chiesto al sig. Ministro ed al sig. Presidente della Corte una rapida soluzione del problema ma, sinora,
senza alcun riscontro. // Siamo
consapevoli che lo stato di dissesto penalizza soprattutto i sigg.
Avvocati ed, in genere, gli utenti
della Giustizia. Siamo altrettanto
consapevoli, però, che il nostro
impegno, in questo momento, è
altissimo. // Confidiamo, perciò,
nella Sua comprensione e, se possibile, in un Suo intervento presso
tutti coloro che potrebbero risolvere il problema. // (omissis) //
Veramente rammaricati per la situazione creatisi e per il disagio
che la stessa sta causandoLe, restiamo a disposizione per eventuali ed ulteriori chiarimenti.».
La denuncia di questa situazione
fa, come si suol dire, pendant con
una serie di disfunzioni esistenti
nel tribunale di Milano, presso cui
esercito la mia professione.
In merito a queste disfunzioni sono state fatte dall’associazione forense a cui sono iscritto (Nuova
Professione Avvocato) alcune denunce (al Ministro, ai responsabili degli uffici, ecc.), l’ultima in data 31 marzo 2003, rimasta senza
riscontro.
Sintetizzo il contenuto della lettera. Si diceva che è inaccettabile
che in un Tribunale come quello
di Milano una richiesta di decreto ingiuntivo non possa essere
soddisfatta in meno di 45 giorni;
che, successivamente, per l’apposizione della formula esecutiva ai sensi dell’art. 647 c.p.c. siano necessari circa 6/7 mesi (1);
(*) Lo scritto riproduce l’intervento dell’A. al convegno nazionale dell’A.N.M. sul tema
“Processo ed organizzazione” (Roma, 12-13 dicembre 2003).
(1) Fortunatamente, dopo Corte cost. 6 dicembre 2002, n. 522, in Corriere Giuridico
2003, 3, 310 con mia nota, non è più necessario, per poter disporre del titolo esecutivo,
il previo pagamento dell’imposta di registro, che comportava ulteriori ritardi.
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che nei procedimenti di espropriazione immobiliare tra il deposito della documentazione
ipo-catastale, nei termini perentori di cui all’art. 567 c.p.c. novellato, e la fissazione dell’udienza ex art. 569 c.p.c. passino non
meno di 18-20 mesi, ma molto
spesso anche tre anni.
itornando al procedimento monitorio, sono in grado di documentare che a fronte
dell’emissione del decreto da parte del
giudice in una certa data, il timbro di deposito in cancelleria è
stato apposto anche tre mesi dopo (nello specifico: 3 giugno
2003-8 settembre 2003) e, al di
fuori del periodo feriale, comunque in periodo variabile tra i 30
ed i 60 giorni. Non sto parlando
di casi eccezionali: ed è ovvio
che la verifica può effettuarsi soltanto laddove il magistrato abbia
avuto cura di apporre la data in
cui ha sottoscritto il provvedimento, non lasciando che essa
sia determinata esclusivamente
dal timbro del deposito apposto
dalla cancelleria.
Poiché escludo che i magistrati si
tengano in un cassetto un provvedimento dopo averlo sottoscritto,
penso che ogni commento sulle
disfunzioni della cancelleria sia
superfluo.
Indubbiamente a Milano si risente fortemente in questo settore
della situazione che già c’era in
Pretura prima dell’entrata in vigore della legge sul giudice unico.
R
Comunque, pensate lo stato d’animo del creditore che dopo aver
atteso tutto questo tempo (minimo una decina di mesi a conti fatti (2)) per la formazione di un titolo esecutivo – con buona pace
dei tempi previsti dalle direttive
comunitarie – si vede poi negata
anche l’esecuzione, come abbiamo visto poco fa essere avvenuto
in quel di Verona!
Sono solo alcuni casi di disfunzioni: ma potrei continuare, ad
esempio dicendo che le comunicazioni di cancelleria relative ai
depositi di sentenza sono in gravissimo ritardo: a tutt’oggi non ho
ricevuto avvisi di depositi di sentenza che, a seguito di ricerche in
cancelleria, ho verificato essere
avvenuti il 1° ottobre 2003.
E questa situazione si trascina da
mesi e riguarda qualsiasi comunicazione.
Ancora: quando il giudice dell’esecuzione scioglie una riserva,
noi avvocati non siamo in grado
di reperire il fascicolo in cancelleria per circa un mese e mezzo.
I termini contemplati dall’art. 168
bis c.p.c. sono di fatto disapplicati e non raramente il fascicolo
d’ufficio è reperibile secondo
quel che dovrebbe essere la normalità (cioè, nella cancelleria del
giudice, senza dover affrontare
ricerche onerose e, direi, polverose) solo nell’imminenza della
scadenza del termine dei venti
giorni precedenti la prima udienza fissata dall’attore, se non dopo, talché, se il G.I. non ha provveduto ai sensi dell’ultimo com-
(2) Ed infatti: 45 giorni di tempo per avere il decreto (ma in taluni casi i giorni sono molti, ma molti di più, come si è visto), a
cui si aggiungono i termini per la notificazione (diciamo, per comodità, 5 giorni), i termini per l’opposizione (40 giorni), i termini per l’apposizione della formula (6-7 mesi).
(3) Mi è capitato qualche anno fa di volermi costituire, per proporre riconvenzionale e contestuale istanza di provvedimento
cautelare, ben prima dei venti giorni precedenti la prima udienza (come ho detto, dovevo discutere un provvedimento d’urgenza) e circa una quindicina di giorni dopo la scadenza del
termine per l’attore per iscrivere la causa a ruolo. Mi fu richiesto dal cancelliere, al fine di portare la causa al Presidente del
ma del predetto art. 168 bis c.p.c.
al differimento della prima
udienza (con slittamento che,
peraltro, talvolta va ben al di là
dei 45 giorni previsti dalla norma: il che costituisce un altro
problema), si rischia di pregiudicare riconvenzionali (3) e chiamate di terzo.
La risposta che si suol dare a fronte delle contestazioni che vengono
mosse è sempre la stessa: la causa
è nella carenza di personale.
on ho motivo per dubitarne. Ma, in ogni
caso, delle due l’una:
o effettivamente la
causa è questa, ed allora occorrerà che il
Governo si attivi e subito, senza
ulteriori indugi, che sono intollerabili in un Paese europeo; o la
causa è nell’incapacità dei singoli
dirigenti, che andranno allora rimossi.
Da anni, ogni volta che mi occupo di questi temi, ricordo che,
come ho appena detto, siamo un
Paese europeo, siamo una potenza industriale (forse un po’ in declino…). Non è possibile tollerare questa situazione, poiché essa
pregiudica l’economia, con buona pace di tutti i discorsi (sui
quali ho dei forti dubbi - ma qui
non rileva) sulla logica ottimale
dei mercati. Per dirla col professor Normand dell’Università di
Reims: «Non si può avere una vera concorrenza sul mercato interno [europeo - n.d.r.] se i soggetti
economici non sono in una situazione di parità almeno approssi-
N
Tribunale per la designazione del giudice istruttore, un’«istanza
di immediata iscrizione a ruolo» (ovviamente in bollo!). È superfluo ogni commento! Devo, tuttavia, dare atto che dopo che
denunciai il fatto in occasione di un convegno [mi riferisco al
convegno Giustizia e riforme - quale politica per il personale,
quali strutture nella Giustizia che cambia - Milano 18 maggio
1998. Il testo della mia relazione, col titolo Brevi note sul rapporto tra giustizia e burocrazia (e circa il primato del pubblico sul privato), è pubblicato in La rivista del Consiglio (dell’Ordine degli Avvocati di Milano), fasc. n. 3 del 1998, pagg. 89
e segg.] a cui partecipò anche il direttore generale del Ministero della Giustizia dell’epoca (maggio 1998) non si sono più avute richieste simili.
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mativa rispetto agli oneri che gravano su di essi. Ciò che vale per
gli oneri fiscali e sociali non è
meno valido per gli oneri giudiziali. Coloro che devono sopportare il peso di un sistema giudiziario più pesante, più lento, più
oneroso di altri sono doppiamente penalizzati nella competizione
intra-comunitaria. Lo sono, innanzi tutto, per il carico che rappresentano questi costi giudiziari
tra le loro spese generali. Rischiano di essere danneggiati nella
competizione internazionale a
causa della pubblicità negativa
che su di loro riflette la reputazione del processo nel loro paese
e le complicazioni senza fine che
esso permette quando sorge una
controversia tra le parti» (4) [il
corsivo è mio].
Aggiungo che le conseguenze
non sono soltanto queste: la sfiducia nell’amministrazione della
giustizia ha un’altra conseguenza,
ancor più devastante sulla vita sociale; il bisogno di giustizia non
ammette vuoti e laddove un vuoto si verifica viene riempito. E se
lo Stato abdica, lo sappiamo, vi
sono altre autorità – non legittime
– che sono pronte a «surrogarlo».
Né, visto i tempi che viviamo,
sarà il caso di esaltare le misure
alternative.
Non esaltiamo gli arbitrati: non
sono alla portata di tutti (5) … e
comunque, poi, vi è sempre la
necessità che qualcuno ne assicuri l’autorità sul piano esecutivo.
Come dire? … Verona docet!
Non confidiamo tanto nei tentativi obbligatori di conciliazione: sono uno dei possibili strumenti di
intervento, non costituiscono la
soluzione, a prescindere dal fatto
che culturalmente non hanno fatto ancora presa.
• • •
on entro nel merito
dei tempi di scioglimento di riserva.
Non ho i dati relativi
ai carichi di ruolo per
verificare se si giustifichino, in alcuni casi, ritardi di
mesi. Intendiamoci: non è che qui
ci si dolga del mancato rispetto
del termine di cinque giorni previsto dall’art. 186 c.p.c., che in
certi casi sarebbe umanamente
impossibile rispettare; tuttavia –
con tutta la comprensione possibile – riesce difficile giustificare
scioglimenti di riserva a distanza
di sei mesi su meno di una decina
di capitoli di prova, già discussi in
udienza e con una riserva assunta
per dichiarato scrupolo. Certamente, se una riserva ha questi
tempi, è difficile poi che i tempi
del processo siano contenuti nell’ambito di un triennio. Il problema è che certi ritardi finiscono
per avere una cassa di risonanza
maggiore rispetto ai casi di ordinario, buon andamento
Analogo discorso si può porre
purtroppo in relazione ai tempi di
pubblicazione delle sentenze, anche se qui, in concreto possono
intervenire nuovamente fattori di
inefficienze delle cancellerie. Ricordo sempre – ma è un fatto
molto risalente – il caso di un giudice che aveva scritto la sentenza
negli otto giorni successivi alla discussione collegiale, ma la minuta giacque in cancelleria nove
mesi (una gestazione …) perché
non c’era nessuno che la potesse
battere a macchina.
Il nuovo rito introdotto dalla leg-
N
(4) NORMAND J., Il ravvicinamento delle procedure civili in Europa, in Riv. dir. proc. 1998, 682 e segg.
(5) Cfr. sul punto le acute osservazioni e le forti perplessità
manifestate da VERDE G., Sul monopolio dello Stato in tema di
giurisdizione, in Riv. dir. proc. 2003, 371 e segg., spec. 382 e
segg.
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ge 353 del 1990 ha portato indubbiamente ad una riduzione dei
tempi processuali. Tuttavia solo
tra qualche anno potremo davvero fare delle verifiche sulla tenuta
di questi tempi. Non dimentichiamo, infatti, che le cause di vecchio rito sono state assegnate ai
G.O.A. e, quindi, l’arretrato, cumulatosi al 30 aprile 1995, non è
venuto a pesare sull’organico effettivo dei giudici togati se non
per un periodo limitato.
Certo è che nelle Corti d’appello
– ove non vi è stato per lo smaltimento dell’arretrato cumulatosi
per le cause di vecchio rito l’ausilio di magistrati onorari – la situazione che viene segnalata è particolarmente grave. Noi abbiamo a
Milano la fissazione di prime
udienze, per cause che vengono
svolte col rito locatizio, a distanza
di oltre un anno e mezzo dal deposito del ricorso. Nelle cause di
rito ordinario, invece, è l’udienza
di precisazione delle conclusioni
che viene fissata a tale distanza di
tempo.
Mi consta che presso altre Corti
d’appello la situazione sia ancor
più grave.
Né ci si può confortare di questa
situazione assumendo che nel
frattempo vi è un titolo esecutivo
formatosi in primo grado.
A parte il fatto che, come è noto,
l’orientamento dominante in dottrina ed in giurisprudenza è nel
senso che le sentenze costitutive
e di mero accertamento non sono
provvisoriamente esecutive neppure quanto ai capi condannatori
connessi (6), va da sé che non è
affatto detto che chi è soccombente in primo grado lo sia a ragion veduta (l’errore giudiziario è
(6) Cfr. sul punto in giurisprudenza Cass. 12 luglio 2000, n.
9236, in Corriere Giuridico 2000, 12, 1599 con nota parzialmente critica di CONSOLO C., Una non condivisibile conseguenza (la
non esecutorietà del capo sulle spese) di una premessa fondata
(la non esecutorietà delle statuizioni di accertamento). In dottrina vedi TARZIA G., Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano 2002, 252.
una realtà!), mentre l’interpretazione del disposto dell’art. 283
c.p.c. appare ispirato davvero a
criteri eccessivamente ristretti (7).
• • •
ono quasi 22 anni che
esercito la professione di
avvocato e sono sempre
più persuaso che potremo ritoccare quanto vogliamo le norme processuali, ma i problemi sono altri.
In altri termini: non metto in dubbio che nelle pieghe della legge si
possano trovare dei cavilli per ritardare il processo.
Oggi, tuttavia, il giudice ha molti
più strumenti di ieri per impedire
i rinvii a vuoto e manovre defatigatorie.
Non nego, peraltro, che si possa
intervenire ancora, ad esempio,
sulle norme relative alla fase di
prima comparizione (ed in tal
senso mi sembra condivisibile
quanto previsto dal disegno di
legge in discussione al Senato),
su quelle che regolano con una
certa rigidità il rapporto di strumentalità tra processo cautelare e
processo di merito (ed anche in
tal senso mi sembra condivisibile
la ratio sottesa alla riforma dell’art. 669-octies c.p.c., prevista dal
predetto disegno di legge - qualche dubbio l’ho sul tenore letterale della norma (8)).
Le perplessità nascono dal fatto
S
che immancabilmente quando si
hanno strumenti legislativi a disposizione, pare che molti operatori del diritto, avvocati e magistrati, facciano a gara per limitarne la portata.
È il caso dell’ordinanza ex art.
186-quater c.p.c..
Un amico magistrato, mi riferisco
a Carlo Verardi, mi disse una volta che magistrati ed avvocati facevano a gara per impedirne l’operatività. Ed io condivido questa
affermazione. Non solo, o, se si
vuole, non tanto per il fatto che
essa sia ritenuta inapplicabile alle
azioni costitutive (9) (soluzione
che non condivido, come non la
condivido per l’ordinanza ex art.
186-ter (10)), quanto per il fatto
che si rinvengono massime che
ne escludono l’applicabilità nelle
ipotesi di responsabilità aquiliana
(11), mentre vengono segnalati
tempi di fissazione della discussione dell’istanza che ben poco
hanno a che vedere con la natura
di provvedimento anticipatorio.
A proposito di tempi per la pronuncia di provvedimenti a contenuto anticipatorio, subito dopo
l’entrata in vigore del nuovo rito
si pose un problema in relazione
alla provvisoria esecuzione del
decreto ingiuntivo.
È noto che alcuni giudici ritenevano di poter disporre subito sull’istanza di sospensione della
(7) Cfr. sul punto cfr. App. Milano, 18 dicembre 1996, in Questione Giustizia 1997, 1, 236 con nota di RORDORF R. Sul fumus
boni iuris per la sospensione della sentenza di primo grado v.
CONSOLO C., Commentario alla riforma del processo civile, Art.
283, Milano 1996, 275 e segg. per il quale «colui che chiede l’inibitoria (...) dovrà certamente dimostrare la pesantezza delle
ripercussioni sulla sua sfera patrimoniale che si avrebbero in
caso di adempimento coattivo del debito (...). Tuttavia una inibitoria, anche solo parziale (...) non potrà essere concessa se il
giudice di appello, dalla lettura dell’atto di citazione anche alla luce della comparsa di risposta dell’appellato, non trarrà la
consapevolezza che la sentenza esecutiva rischia effettivamente di dover venire riformata almeno in parte ... » (p. 277). E
conclude: «se il danno fattuale è assai notevole il fumus boni
iuris dell’appello può bastare; se invece il danno è rilevante
ma contenuto la inibitoria postulerà una elevata probabilità
che la decisione appellata possa venire riformata». Sul punto
mi permetto di richiamare altresì le considerazioni che ho svolto nel mio La nozione di irreparabilità nella tutela d’urgenza
provvisoria esecuzione ai sensi
dell’art. 649 c.p.c., mentre assumevano di non poter discutere
prima dell’udienza di cui all’art.
183 c.p.c. l’istanza ex art. 648
c.p.c., sull’evidente presupposto
che pagare ciò che non si deve è
più grave che non ricevere ciò
che si ha diritto di ricevere.
Penso che in realtà le due fattispecie siano il rovescio della stessa medaglia e perciò ogni distinzione sul piano del trattamento
processuale sia errato. Né vale dire che occorre aspettare che l’opponente possa formulare ulteriori
eccezioni con la memoria difensiva che può depositare venti giorni prima dell’udienza di cui all’art.
183 c.p.c., contenente eccezioni
processuali e di merito non rilevabili d’ufficio: poiché sarebbe
come dire che nel vecchio rito
non si sarebbe potuto discutere
l’istanza di provvisoria esecuzione prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni, atteso
che eccezioni potevano essere
dedotte fino a tale udienza (12).
Siamo in presenza di una misura
sommaria, fondata su una predeterminazione di un periculum
connesso col ritardo effettuata a
monte dal legislatore: non vi è
spazio per tollerare ritardi nella
discussione, se non in via eccezionale.
Mutatis mutandis ciò non può
del diritto di credito, in Riv. Dir. Proc. 1998, 216 e segg., spec.
247 e segg.
(8) Mi permetto di richiamare sul punto il mio Progetti di riforma
al codice di rito e tutela sommaria: pro memoria per il legislatore,
in Corriere Giuridico 2002, 4, 546 e segg., spec. 549 e segg.
(9) Cfr. per tutte Trib. Bari, 17 giugno 1996, in Giur. It. 1998,
951 e contra Trib. Roma, 2 giugno 1997, ibid.
(10) Mi permetto di richiamare in proposito la mia monografia
L’ordinanza di ingiunzione nel processo civile, Padova 2003, 71
e segg.
(11) Cfr. Trib. Milano, 26 marzo 1996 e Trib. Monza, 20 settembre 1995, in Resp. civ. prev. 1996, 739.
(12) Sul punto mi permetto di rinviare al mio Prima udienza di
comparizione ex art. 180 c.p.c. novellato e provvisoria esecuzione del decreto opposto, in Giur. It. 1996, I, 2, 170. Conf.
CHIARLONI S., Giudice e parti nella fase introduttiva del processo
civile di cognizione, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1999, 401.
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non valere anche per l’ordinanza
di ingiunzione ex art. 186-ter
c.p.c., che costituisce l’omologo
dell’ordinanza ex art. 648 c.p.c.
nel processo ordinario di cognizione (13).
• • •
o detto prima che ritengo che la soluzione dei problemi della
giustizia non è questione di riforme di
norme processuali o,
se si vuole, non lo è tanto (interventi andrebbero fatti in punto
determinazione delle aree di
competenza e, magari, per sgravare la Suprema Corte di cause
dal carattere «bagatellare»; dubito
fortemente, invece, sulla necessità ed opportunità di riforme radicali).
Prima di concludere, peraltro, mi
preme dire che sicuramente non
è questione di imbrigliare le facoltà interpretative del giudice,
come taluno sta inopinatamente
sostenendo.
Noi viviamo in un’epoca di repentini mutamenti nel sociale. È
assolutamente un’utopia – e neppure positiva – pensare che essi
non si riflettano sull’interpretazione delle leggi. Come se poi le
stesse leggi non mutassero e i
mutamenti che intervengono in
un ramo dell’ordinamento non
siano suscettibili di esercitare un
riflesso anche al di fuori del singolo settore in cui sono intervenuti.
Né possiamo dimenticare che il
nostro Paese ha una collocazione
internazionale e che le norme in-
H
ternazionali hanno una loro valenza nel nostro ordinamento giuridico, talché se si fa una legge
senza tener conto di queste norme, non ce la si può prendere
con chi questa nuova legge interpreta collocandola in un ambito
più vasto.
Insomma, quando sento disquisire sui problemi dei limiti dell’interpretazione, mi viene sempre in
mente una precisazione di Francesco Antolisei, secondo cui non
può «accogliersi l’antica massima
in claris non fit interpretatio, sia
perché ciò che appare chiaro ad
una persona, può non esser tale
per un’altra, sia perché in ogni caso l’interprete non deve arrestarsi
al risultato che si desume immediatamente dalle parole, vale a dire il significato apparente, ma deve cercare il senso più intimo e
profondo della disposizione e
l’effettiva portata di essa» (14).
Non è raro che si censuri l’interpretazione delle leggi. Anche Cesare Beccaria lo faceva (15): ma,
al di là del fatto che Beccaria
scriveva nel 1764, in un’epoca in
cui la chiarezza delle leggi – a
quanto ci dicono gli storici – lasciava molto, ma molto a desiderare (molto più di quanto non lo
lasci a desiderare oggi (16)), è
certo che il relativo passo è stato
segnalato come indice di ingenuità (17).
Ho accennato poc’anzi ai mutamenti sociali. E a tale proposito
vorrei fare una riflessione, che nasce dai miei studi sul provvedimento d’urgenza. Se guardiamo a
questo istituto con l’occhio dello
(13) Mi permetto ancora di richiamare il mio L’ordinanza di ingiunzione, cit., 194 e segg.
(14) ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale - parte generale,
Milano 1975, 59.
(15) BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, al § IV.
(16) Cfr. PROTO PISANI A., Appunti sull’arretrato, in Foro it.
1995, V, 286. V. anche CAPPONI B., Il tentativo di conciliazione
obbligatorio in funzione deflattiva del contenzioso infortunistico, in Doc. Giust. 1996, 7, 1492.
(17) Cfr. JEMOLO A.C. nel saggio introduttivo al testo del Beccaria per i tipi della Bibl. Univ. Rizzoli, Milano 1981, 9 e segg.,
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storico, partendo proprio da
quanto su di esso si dice nella Relazione ministeriale, non possiamo non considerare che esso nasce con finalità conservative e che
per lungo tempo come tale fu
considerato (18). A partire dagli
anni Settanta la portata della norma è stata ampliata, anche sotto
le forti pressioni di quel fenomeno che è definito la giurisdizionalizzazione dei conflitti sociali ed
oggi l’orientamento dominante in
dottrina e in giurisprudenza ammette che il provvedimento d’urgenza, non soltanto non è limitato alla sola tutela dei diritti assoluti, ma può avere un contenuto
totalmente anticipatorio del provvedimento finale (19).
ertamente, come in
ogni fenomeno evolutivo, si è passati attraverso un lungo travaglio, in cui non sono
mancati provvedimenti abnormi e soluzioni inaccettabili, che hanno sollecitato l’introduzione di sistemi di controllo, di
cui oggi è espressione l’art. 669terdecies c.p.c.. Ma – vivaddio –
se si fosse impedita ogni forma di
interpretazione oggi il nostro ordinamento sarebbe di gran lunga
meno al passo dei tempi di quanto, forse, in una certa misura, non
lo sia.
L’impedire una interpretazione
«evolutiva» significa scegliere a
monte su chi far ricadere i rischi
dell’inadeguatezza della norma rispetto alle nuove esigenze della
società: ma l’ordinamento giuridico non è una monade chiusa in
C
anche se lo stesso Jemolo è critico verso certe forme di interpretazione, politicamente orientate, che «riescono a far dire alle parole della legge l’opposto di ciò ch’esse esprimono» (op.
cit., 10).
(18) Cfr. TOMMASEO F., voce Provvedimenti d’urgenza, in Enciclopedia del diritto, XXXVII, Milano 1988, 858; ARIETA G., I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., Padova 1985, 56.
(19) Sul punto mi permetto rinviare ai miei studi Tutela d’urgenza tra diritto di difesa, anticipazione del provvedimento ed
irreparabilità del pregiudizio, in Riv. Dir. Proc. 1995, 216 e
segg. e La nozione di irreparabilità, cit., 234.
se stessa e imbrigliare l’interpretazione è una scelta politica di chi
vuol ricondurre, in un modo o in
un altro, la magistratura sotto il
controllo politico.
orrei concludere con
la citazione di un
passo di Giuseppe
Borrè: «Voi non avete
idea – parlo ai più
giovani – di quanto
fosse forte, nei primi anni Cinquanta, quando feci la scelta di
prepararmi per la magistratura,
quello che ho chiamato “conformismo”, e come esso si legasse –
tangibilmente – a una volontà di
conservazione politica. La cultura
giudiziaria dell’epoca era pesantemente dominata dal formalismo
giuridico. L’ordinamento era considerato autoreferenziale, perfetto, capace di autocompletamento
(qualcuno ricorderà, forse, la vecchia e singolare teoria dell’impossibilità logica delle lacune). La
legge ordinaria era avvertita come
unico e definitivo termine di riferimento. E la interpretazione della legge era rappresentata come
operazione meramente ricognitiva, ricerca dell’unico significato
estraibile dal testo normativo. //
V
Parallelamente a ciò, la magistratura rifiutava ogni rapporto con
l’esterno, si chiudeva come una
cittadella fortificata. Non solo era
tenuto fuori il «sociale» (con tutte
le sue contraddizioni, le sue irriducibilità, i suoi conti che non
tornano), ma si temevano anche
momenti di arricchimento del
quadro istituzionale che potessero in qualche modo disturbare il
tradizionale isolamento del corpo
giudiziario. Così fu guardata con
malcelato sfavore la istituzione
della Corte costituzionale. La
composizione mista del CSM fu
fonte di non poche recriminazioni. (…). // Nel noto e provocatorio dilemma di Maranini – “magistrati o funzionari” – la magistratura occupava allora, decisamente, il secondo termine: era burocrazia, funzionariato, non era ancora esercizio dell’autonomia voluta dalla Costituzione. E in questa logica funzionariale si produceva una sorta di rovesciamento
delle fonti, della gerarchia dei valori dell’ordinamento. La legge ordinaria dava il rassicurante appoggio della continuità. La Costituzione costringeva invece ai
confronti, a mettere in discussio-
ne assetti, certezze, regole del
gioco. Proprio per questo fu inventata la categoria delle norme
programmatiche.
Da burocrati in questo senso, da
servi legum in questo senso, non
era lungo il passo a diventare subalterni tout court, momenti di
pura consonanza (non importa
quanto consapevole dal punto di
vista soggettivo) con il sistema
politico ed economico dominante. Le apoliticità dell’apparato giudiziaro in quanto apparato burocratico e la neutralità della tecnica
altro non furono che strumento di
conservazione dei rapporti economici e di continuità del vecchio
Stato» (20).
cco, certamente non è
quella magistratura che
così bene ha inquadrato Borrè che vorremmo. Non è certamente
con un passo indietro
verso tale schema che si risolvono i problemi della giustizia.
E
RICCARDO CONTE
Avvocato
(20) BORRÈ G., Le scelte di Magistratura
Democratica, in Questione Giustizia,
1997, 2, 270.
19