Dante e la matematica (per lo scientifico)

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Dante e la matematica (per lo scientifico)
Bruno D'Amore
DANTE E LA MATEMATICA
(c) 2011 Giunti Editore S.p.A.
È un Dante inedito e romanzato quello che colorisce le pagine di questo volume
di Bruno D'Amore. Un Dante curioso e in qualche misura civettuolo, che, assieme
al suo amico Guido (Cavalcanti) è il protagonista dei divertenti e fantasiosi
episodi che si propongono di svelarci l'origine di alcune celebri terzine.
A Martha,
che lo ha reso possibile
Prefazione
di Umberto Bottazzini
La Commedia di Dante è intessuta di conoscenze scientifiche, di aritmetica e
di geometria, di astronomia e di logica. Anche se gli studenti alle prese con l'opera
del divino Poeta raramente se ne accorgono. Per chi legge l'opera di Dante con le
lenti della scienza, il Paradiso si rivela come il racconto di un viaggio in un
universo tolemaico fatto di sfere concentriche crescenti fino a raggiungere la sfera
che rappresenta il cielo del Primo Mobile oltre il quale stanno le nove sfere del
cielo Empireo. Il sacro e il trascendente trovano sostegno nelle sfere armillari
dell'astronomia del tempo. Ma la matematica si affaccia attraverso tutta la
Commedia e offre a Dante materia di allusioni e riferimenti espliciti, di metafore e
similitudini in terzine che ricordiamo a memoria dai banchi di scuola: "Qual è 'l
geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel
principio ond'elli indige", "O cara piota mia che sì t'insusi, che, come veggion le
terrene menti non capere in trïangol due ottusi", "Quando si parte il gioco de la
zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara" e così
via. Nelle appendici, D'Amore discute alcune delle occorrenze della matematica e
della logica nei versi di Dante e ricorda le numerose figure di matematici che
Dante menziona esplicitamente o ai quali fa riferimento in maniera più allusiva.
Per quanto interessanti, le appendici costituiscono tuttavia l'aspetto accademico e,
per così dire, più prevedibile di questo volume. Molto più sorprendenti e godibili
sono invece le storie che costituiscono il libro vero e proprio. Con la libertà
propria della finzione narrativa, D'Amore ci invita a seguire Dante per le strade e
nelle osterie di Firenze, nei suoi incontri con amici e maestri. Un Dante curioso di
sapere, che cerca di familiarizzarsi con le "figure degli Indi", i calcoli con le cifre
arabe che si apprendono nelle scuole come quella di Paolo dell'Abaco, che a
Campo dei Fiori a Roma si ricorda della storiella persiana sul moltiplicarsi dei
chicchi di riso sulla scacchiera ("che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla"), che in una
disputa filosofica a Firenze trova occasione per riflettere sull'infinità dei numeri.
Un Dante che risolve antichi ma sempre attuali indovinelli di lupi, capre e cavoli e
problemi di calcolo delle probabilità che si presentano nel lancio di tre dadi del
"gioco della zara", cui assiste nelle strade di Bologna. Che con Guido Cavalcanti
discute di logica modale, a Siena segue una lezione di ottica di Pietro Ispano e
nella odiata Pisa, "vituperio delle genti", va sulle tracce lasciate da Fibonacci, il
più grande matematico del Medioevo. Il Medioevo che fa da sfondo alle pagine di
D'Amore è un'epoca ricca di umori vitali e il lettore si lascia catturare dalla
finzione, dimentico che i racconti trovino pretesto nelle terzine della Commedia.
O conferme nella biografia di Dante. Ma il gioco della finzione si svolge in un
felice equilibrio tra realtà storica e immaginazione. Se consente a D'Amore una
grande libertà di movimento nello spazio e nel tempo narrativo, restituisce al
lettore un'immagine viva e credibile della matematica del tempo di Dante,
un'epoca in cui le poche vestigia lasciate dall'eredità classica si incontrano con i
nuovi algoritmi portati dalla cultura matematica degli infedeli.
Prefazione
di Emilio Pasquini
Sorprendente l'impianto di questo libro. Giudicandolo dalle appendici (ove
ritroviamo pagine in buona misura già note), siamo indotti ad apprezzare quella
chiarezza affabile e didascalica che ha fatto di Bruno D'Amore uno tra i più fedeli
seguaci di un superamento della frattura fra le cosiddette due culture. Vi si
affrontano, infatti, luoghi topici di Dante, per valenza geometrica e matematica,
con acute osservazioni sugli incunaboli danteschi della logica formale: specie
quando la logica matematica collabora con l'insiemistica nel delucidare il
sillogismo del "nero cherubino" di Inferno XXVII; o la geometria serve a capire
meglio certi luoghi del Paradiso, come i retroscena della quadratura del cerchio
nel XXXIII canto. Sono argomenti che si riflettono puntuali in alcuni fra i capitoli
precedenti: Angoli e triangoli, Piramide eccetera.
Ma altri titoli sconcertano non poco, specie in bocca ad un valente matematico:
La taverna, A casa di Paolo, Asini che volano e via dicendo. Se poi si continua a
leggere, si viene invasi dallo stupore. Davvero, era difficile immaginare un simile
brio narrativo nel collega non letterato: il gusto per le descrizioni d'ambiente e la
vivacità dialogica di tanti bozzetti fanno quasi dimenticare lo scopo finale, che è
invece quello di chiarire ardui problemi scientifici legati al testo dantesco.
Sulla scena è Dante, coi suoi amici e i suoi maestri, in vari luoghi d'Italia. Egli
parla un suo pastoso toscano, si mescola alla gente, rivela estri e umori di uomo a
tutto tondo: curioso di ogni cosa, amante del vino e della buona tavola, ammirato
dagli uomini, concupito dalle donne (ineffabile l'incontro fra lui bambino e la
coetanea Bea, proprio Beatrice; qui, stranamente, D'Amore non approfitta del
numero 9). Ora dunque, grazie al figlio Iacopo, Dante impara da Paolo dell'Abaco
la "magìa della scrittura posizionale dei numeri" e degli algoritmi; ma già da
scolaretto, in classe con Guido Cavalcanti (nel cosiddetto "quadrivio"), aveva
dovuto compitare le tabelline. Ora è protagonista, con Guido, di un'avventura
notturna a Pietole, che dal salvataggio di due ragazze alluvionate ascende fino
all'armonia di Pitagora. Sempre in viaggio col compagno prediletto, incontra il
geometra Eraldo da Todi e si addentra nei misteri dei triangoli; a Bologna scopre i
segreti dei dadi e della scacchiera: il che lo porta, in una bettola di Campo di Fiori
a Roma, dove vede giocare a scacchi e ripensa alla nota storiella persiana di Sissa
Nassir, a coniare la similitudine paradisiaca per suggerire il numero infinito degli
angeli ("più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla"). D'Amore immagina poi che a
Pisa egli metta le mani sui manoscritti di Leonardo Fibonacci; che a Siena
intuisca le leggi dell'ottica ascoltando una lezione di Pietro Ispano; che, infine,
stimolato da Lauretta, figlia minore di Guido Novello da Polenta, elabori a
Ravenna, verso per verso, il penultimo paragone ("Qual è 'l geomètra che tutto
s'affige...") e la chiusa del Paradiso.
Fantasia e invenzione si sposano a elementi storici, senza rispettare
pedantescamente l'esatta cronologia degli eventi: Dante, per esempio, non poteva
essere a Firenze con Gemma Donati a concepire un certo paragone della terza
cantica; ed è difficile che Cavalcanti lo accompagnasse a Bologna a studiare
dialettica. Ma quanto è amabile questo Dante in pantofole, che arriva alle verità
più radiose frequentando scienziati o corteggiando le belle donne (a volte anche le
brutte)... Sulle sottostorie del quotidiano, grazie all'amico D'Amore, sormonta
l'icona della Matematica come Sole, secondo la bella definizione del Convivio.
1
Un grosso cavolo
- E ora vediamo! Questo è davvero difficile. Chi lo indovina riceverà un
grande premio. Siete pronti?
Un coro di "Sì!" riempì l'aria.
I bambini erano elettrizzati; era difficile tenerli fermi, seduti sulle panche o
nell'erba. Erano tutti vestiti a festa, l'aria spandeva un gradevole profumo di mille
fiori, maggio era iniziato da un po' e il venticello tipico delle Cascine era già
tiepido.
La grande festa annuale di primavera stava riuscendo a meraviglia.
- Pronti, allora. Siamo sul bordo d'un fiume talmente largo che per
attraversarlo ci vuole una barca a remi. Ma la barca ha solo due posti, uno per il
rematore e uno per un passeggero. Arriva un contadino che deve andare dall'altra
parte e reca con sé un feroce lupo, una pecora mansueta ma affamata e un grosso
cavolo appetitoso. Può trasportare le sue cose una alla volta perché solo lui può
remare. Avete mai visto una pecora remare? Beeeh, Beeeh - e il giullare belava e
faceva l'atto di remare.
Risate allegre e convinte dei bambini.
- Allora, come fa? Pensateci bene e rispondete.
Ma prima ancora che terminasse, già c'era una mano alzata; sapete com'è,
conoscete quei bambini che manco ascoltano la domanda e già si vogliono
mettere in evidenza; ne avete o ne avevate in classe con voi?
- Bene, qui c'è già un candidato; dicci, allora, come fa?
- Mette in barca il cavolo sotto, la pecora sopra...
- Ma ti ho detto che può portare le cose una alla volta - lo interruppe subito il
giullare che fungeva da intrattenitore, come si fa oggi negli alberghi di lusso per
lasciar liberi i genitori per un po'.
- Ah, ma io credevo, pensavo, se lui...
- C'è qualcun altro?
Una bambina, questa volta:
- Non può portare lupo e pecora insieme?
- No, ti ho detto solo uno alla volta.
- Io, io lo so - urlava un bimbetto in piedi a mano alzata.
- Forza, dillo tu, allora.
- Carica il lupo e s'avvia, remando; quando arriva dall'altra parte...
- La pecora s'è bell'e mangiato il cavolo - e tutti si misero a ridere, avvilendo
oltre ogni dire il povero bambino.
- Una bambina, questa volta: tu - disse il giullare.
- Mette in barca il cavolo e lo porta di là e poi...
- E poi il lupo si mangia la pecora approfittando della sua assenza - e giù tutti a
ridere e la bambina rossa in volto, mortificata.
- Ma allora è impossibile - sbottò uno, e un coro di "Impossibile,
impossibile..." si sparse immediatamente fra tutti i bambini.
- Ma no, se ci pensate bene una soluzione c'è; possibile che nessuno la
indovini? Ah ecco una mano alzata; dì tu, bambino.
- Ecco: lascia lupo e cavolo, ché ai lupi i cavoli non piacciono per nulla,
neppure a merenda - e molti risero. - Porta dunque di là la pecora. Poi ritorna e
prende il lupo e lo porta di là, poi ritorna...
- E mentre lui ritorna, il lupo si mangia la pecora - disse ancora il giullare.
Tutti risero così sguaiatamente che il bambino si offese e scappò via in lacrime
facendosi burlare da tutti.
- Allora, raddoppio il premio! Un altro bambino, dì.
- Aveva ragione lui, almeno per l'inizio. Lascia lupo e cavolo e porta di là la
pecora. Ritorna indietro e porta il lupo. Nel tornare ancora indietro, però, si
riporta la pecora con sé. Poi porta di là il cavolo, così da una parte ci sono lui,
cavolo e lupo e dall'altra la pecora. A questo punto può lasciare lupo e cavolo e
tornare a riprendersi la pecora, e così il trasporto è fatto.
Il giullare gli fece festa, con tanti elogi; molti dei presenti non avevano capito
un bel nulla, ma al sentire il giullare complimentarsi, si complimentarono pure
loro.
Dante ricevette il doppio premio, ma gli fu assai più gradito il complimento di
una bambina di poco più piccola di lui, graziosa e civettuola, con un visetto
d'angelo, tutta vestita d'azzurro e bianco, che gli si avvicinò:
- Bravo, sei stato bravo. Ma me lo puoi rispiegare? Non sono certa d'aver
compreso bene.
Con infinita pazienza e con molta tenerezza, ché era conquistato da quello
sguardo tanto dolce e penetrante, Dante le spiegò di nuovo tutto, ma lei mostrava
di non capire ancora:
- L'unica cosa che mi venne in mente, mentre il giullare parlava e ci chiedeva,
è che quel cavolo doveva essere grande assai per occupare il posto di un uomo. Io,
cavoli così non ne ho mai visti.
- Va bene, ma è un gioco, devi fingere, nei giochi, si sa...
- Sì, è vero, come ti chiami?
- Dante mi chiamo. E tu?
- Mi chiamo Beatrice, ma tutti mi chiamano Bea.
Gli anni passano veloci, si sa, e Dante si ritrovò non tanto giovane studente di
dialettica a Bologna; tra compagni si facevano giochi d'astuzia e un tal Lapo,
originario di un paese vicino a Lugo, suggerì lo stesso indovinello, una volta che
erano tutti in compagnia di uno dei maestri.
L'ambiente era allegro nella grande taverna delle Quattro Campane, che ancora
esiste vicino al conservatorio di musica: un'unica grande stanza interrotta solo da
colonne, calda, umida e piena di fumo di legna.
Alla domanda di Lapo, tanti risero e molti provarono a rispondere. Tanto
allegra era la combriccola, che al gioco e ai lazzi partecipavano, graditissime,
anche le tante giovani e avvenenti cameriere che servivano ai tavoli e la cui
prontezza di riflessi doveva essere notevole per evitare manatine e pizzicotti degli
studenti allegri e ridanciani.
- Io, io lo so - disse uno.
- Dai, allora - fece Lapo.
- Il contadino porta di là il cavolo e poi...
- E poi quando torna non trova più la pecora.
- E perché?
- Perché il lupo se l'è... divorata! - urlò Lapo, facendo la parte del lupo che
inseguiva a fauci spalancate una cameriera che fuggiva fingendosi pecorella
intimorita.
Tutti risero a crepapelle.
Insomma, ognuno volle dire la sua, studenti e cameriere, e una volta perfino
l'oste, che si dava arie da intellettuale perché una volta aveva conosciuto il rettore.
Ma nessuno colpì nel segno.
Dante taceva, sentendosi un poco a disagio: lui la storia la sapeva già, quindi
non era giusto intervenire; d'altra parte nessuno risolveva l'enigma, e poi lui se
l'era risolto da sé, mica gli avevano dato la soluzione... dunque ruppe gli indugi e
disse:
- Io, Lapo, io.
- Oh, il nobile fiorentino - e fece l'atto di inchinarsi. - Dai, spara allora.
Dante spiegò tutto per filo e per segno e tutti gli applaudirono, anche le
cameriere e il maestro, contenti, dandogli manate sulle spalle.
Un coro di "Bene, Bravo!" continuò per un po'. L'oste gli offrì da bere e il
bicchiere omaggio gli venne portato dalla più avvenente delle cameriere, quella
che faceva perdere la testa a tutti, Anna, detta Nina. Nina si avvicinò a Dante, gli
diede il bicchiere direttamente in mano e lo baciò, tra le urla, gli schiamazzi e le
grida d'invidia dei presenti: "A me, anche a me, avevo indovinato anch'io...".
Dante, assai compiaciuto, fece l'atto di alzare il bicchiere brindando a tutti,
bevve d'un fiato e si sedette. S'accorse allora di essere andato a finire accanto al
maestro e si alzò, scusandosi, facendo cenno di cedere il posto.
Era consuetudine, infatti, che i posti accanto al maestro fossero riservati agli
studenti più anziani e Dante era invece da poco arrivato.
Ma il maestro lo fermò:
- No, no, state qui, non vi preoccupate. Oggi meritate gli onori di noi tutti.
- Oh grazie - fece Dante.
- Siete molto acuto, complimenti.
Ma Dante era troppo sincero:
- In verità, maestro, avevo già risolto questo quesito quando ero giovincello,
durante una festa all'aperto a Firenze, e quindi lo conoscevo già.
- Si vedeva, la vostra sicurezza era tanta.
- Sì, ma quella volta l'avevo risolto da solo.
- Lo credo, lo credo, non vi risentite, vi prego.
- No, scusate maestro, credevo...
- Va bene così. Anch'io lo conoscevo.
- E avete taciuto.
- Sì, il gioco mi sembrava riservato agli studenti, non credete?
- Partecipavano tutti - fece Dante, indicando cameriere e oste.
Il maestro tacque. Tutt'attorno proseguivano frizzi e canti e rumori, cameriere
che fingevano di fuggire e studenti che cercavano, sul serio, di agguantarle.
Dopo un po' il maestro riprese, dandogli improvvisamente del tu:
- Ti interesserà sapere qual è la fonte di questo gioco e di tanti altri che
sviluppano l'ingegno?
- Oh, sì, eccome - disse, sincero, Dante.
- Orbene, c'è un'opera manoscritta dell'800 circa, scritta alla corte di Carlo il
Grande, imperatore, redatta da un mago famoso, Alcuino di York, che Carlo
chiamò a sé per addestrare i giovani. Quest'opera è una vera miniera di giochi e si
chiama Quaestiones ad acuendos juvenes. Tra i tanti giochi e indovinelli c'è pure
questo.
- Ah, come gradirei vedere questo testo per conoscere gli altri giochi.
Nel frattempo, Nina era passata a ritirare il bicchiere vuoto con il quale Dante
stava ancora giocherellando tenendoselo in mano; si fermò deliberatamente un
istante di più, quello che servì a carezzargli le dita nell'atto di prendergli il
bicchiere e strofinare un braccio con il suo. Dante, imbarazzato dalla presenza del
maestro, fece conto di nulla. Il maestro, pure.
- Purtroppo quest'opera è nota, citata da più d'un autore, ma se n'è perduta
traccia. Un'opera interessante, sottile e notevole, eppure...
- Eppure?
- Eppure copiata, copiata di sana pianta.
- O che mi dite - fece Dante. - E come, da chi?
- Una volta s'usava molto e ancora oggi s'usa e temo che si proseguirà in
futuro. Si prende un libro che si sa essere raro e lo si copia. Si cambia qualche
cosa qua e là, e via. In questo caso Alcuino ha solo cambiato l'ordine dei problemi
e se n'è addirittura scordato qualcuno per la strada.
Risero entrambi.
- E si può sapere da chi l'ha ricopiato?
- Sì, certo, da un'illustre fonte. Da un libro di un grande, del Venerabile Beda,
che visse cent'anni e più prima di lui, sempre a York.
- Beda, Beda l'enciclopedista? Lui? Proprio lui?
- Sì, colui. Ma perché tanta sorpresa?
- Gli è che lo credevo vecchio e saggio e poco incline a simili facezie.
- Scrivere di questi giochi non è facezia, è rara prova di capacità e di
intelligenza.
- Sono del tutto d'accordo, maestro.
- Ma ora va, Dante; pare che ci sia qualcuno che mi sta odiando perché ti
trattengo, che fa di tutto perché tu t'accosti a lei, che fa di tutto per fartelo capire,
come ha fatto poc'anzi colle mani e col braccio e con lo sguardo.
E indicò col mento a sinistra. Dante si voltò e vide, da lontano, in un angolo
della sala, Nina, che se lo mangiava con gli occhi e che lo stava invitando, in cuor
suo, a farsi da parte con lei. Questa volta sì, Dante arrossì e guardò il maestro:
- Vai, dunque, o debbo pensar male di te. Credi che io, al posto tuo, rimanderei
d'un solo istante questo incontro, maestro o non maestro?
Sorrisero entrambi, e Dante s'alzò e, nel congedarsi, strinse riconoscente con la
mano l'avambraccio del maestro.
S'avvicinò a Nina ed insieme si allontanarono furtivi, lei avanti, lui dietro di
pochi passi; solo qualcuno se ne accorse ed invidiò molto Dante.
Quando furono in un corridoio appartato, quello che portava alle camere di
residenza di oste e cameriere, Nina gli prese le mani, accostò la propria bocca alla
guancia di lui e lo baciò; poi gli disse sussurrando vicino all'orecchio:
- Sai, mi hai preceduto d'un istante, stavo per dare io la soluzione. Solo un
istante, un istante solo, e ti avrei battuto. Dunque, per la tua villania, ti meriti
questo - e gli diede un tal morso all'orecchio, che Dante urlò sincerante dal dolore
e si ritrasse d'un balzo, prendendosi l'orecchio con una mano.
Come se nulla fosse, lei continuò:
- Non credi che ci sia una strada più breve, una soluzione meno complicata?
- Non so, sinceramente non so - disse Dante, massaggiandosi l'orecchio. - Non
ci ho pensato.
- Sono certa di sì; quella tua è corretta, ma mi sembra esagerata. Deve esserci
una strategia più breve.
- Devo pensarci su - e ancora si massaggiava.
- Bene, io ho finito il turno e quella, la terza a destra, è la mia stanza; ci sto
chiusa dentro a chiave; ma se trovi una soluzione più breve, non esitare: vieni a
dirmela.
E si allontanò, senza mai voltarsi, lasciando Dante come un baccalà,
muovendo le anche in modo esagerato; aprì la porta, entrò e fece in modo che
Dante sentisse la chiave girare una, due, tre volte nella toppa, per fargli capire
l'impenetrabilità di quell'alcova, senza il permesso di lei.
Dante pensò a lungo, quella sera, ad una strategia più breve.
Ancora gli anni passano, oh dio, come passano rapidi. Una notte, a corte a
Treviso, si giocava agli indovinelli; ce n'erano di belli e di brutti.
Ora, non c'è nulla di peggio che un indovinello raccontato o proposto male. La
persona che lo propone ha sempre poi l'arroganza di darti una soluzione che non
corrisponde alla richiesta ed è tanto imbecille che neppure se ne rende conto, e si
sente più intelligente di voi. E non capisce neppure perché voi vi arrabbiate tanto.
Questo capitò quando un ospite di S. (non dirò di dove per timore d'offendere
un intero paese) chiese a tutti silenzio per proporre un indovinello:
- È bellissimo e difficile. Dunque, c'è un pastore che deve trasportare in barca
tre animali. Ma la barca è piccola e lui ne può trasportare solo uno alla volta.
Come fa? - e giù a ridere, come fanno quelli che preannunciano una barzelletta
divertente e iniziano a ridere prima ancora di raccontarla.
Dante trasalì: "Che razza di idiozia è questa?" pensò dentro di sé.
Già una nobildonna di Montebelluna aveva chiesto la parola e disse:
- Li porta di là, uno alla volta.
"È la risposta corretta alla domanda idiota che è stata fatta" pensò Dante "ma
sono certo che non l'accetterà perché ci ha in mente qualche cosa d'altro", e
infatti:
- No, no, non è così - commentò l'ospite di S., tutto soddisfatto.
E ognuno disse la sua, mentre Dante si mangiava il fegato e non sapeva se
intervenire o no. In questi casi, la voglia spontanea è quella di offendere il fesso,
mandarlo al diavolo e spiegare al posto suo. Ma quello era un importante ospite di
Gherardo.
Quando molti ebbero provato e a ciascuno l'ospite di S. ebbe detto che no, che
la risposta non era quella, finalmente qualcuno lo apostrofò spazientito:
- Beh, allora, per cortesia, datecela voi la riposta.
E il signore di S. iniziò:
- Dunque, adesso non mi ricordo bene; credo che, ma non mi ricordo più,
credo che bisogna riportare indietro uno degli animali...
Dante non riuscì più a trattenersi, ma misurò, con molta nobiltà, le parole:
- Se posso, eccellenza, vorrei raccontare io una storia e proporre un indovinello
che molto s'avvicina al vostro.
E Dante propose, questa volta in modo corretto, l'indovinello.
Molti tentarono di dare risposta, mentre il signore di S. cercava di dire a tutti
che era proprio quello, come l'aveva detto lui, e tutti lo evitavano e, dietro le
spalle, lo deridevano, Gherardo compreso.
Nessuno riusciva a dare la risposta, neppure il Signore, che cominciava a
spazientirsi.
- Allora, serve proprio un aiuto? - disse Dante.
- Gli è che ogni volta che il pastore s'allontana, qualcuno si mangia qualche
cosa - disse una signora elegante, con una inattesa voce tonante.
- Non è proprio così - disse Dante. - Pensate, pensate sempre che i lupi non
mangiano i cavoli. Pensate solo a questo, ma sempre.
- Oh, allora io avrei, forse, trovato un modo.
La voce era gradevolissima; Dante si voltò e fu abbagliato dalla grazia e
dall'eleganza composta nei modi, più che nelle vesti, della signora di mezza età
che aveva appena parlato. Le si avvicinò e non riusciva a staccarle gli occhi di
dosso:
- Bene, allora, signora, diteci - e parteggiava per lei in cuor suo.
- Dunque, mi pare che si debba portare di là la pecora, così che il lupo non
faccia danni, e questo è il primo viaggio di andata. Poi il pastore torna indietro, ed
è il suo primo viaggio di ritorno, da solo. A quel punto carica il cavolo e lo porta
di là, nel suo secondo viaggio di andata. Ora, da una parte c'è il lupo e dall'altra
pecora, cavolo e pastore. Il pastore deve ritornare a prendere il lupo, e sarebbe il
secondo viaggio di ritorno, ma non può abbandonare pecora e cavolo; dunque,
questo secondo viaggio di ritorno lo farà accompagnandosi alla pecora. Ora, nel
terzo viaggio di andata, porta seco il lupo che può abbandonare di là e torna
ancora una volta a prendere la pecora. - Fiera, batteva le mani e saltellava
cercando il consenso di Dante, con una grazia di bambina.
- Non è forse così?
Tutti guardarono Dante, perché nessuno aveva capito davvero, e aspettavano il
suo consenso per applaudire.
Dante fece l'atto di abbracciarla, ma solo le si inchinò, dicendo a tutti:
- Ecco, signori, un raro esempio di grazia e di intelligenza a un tempo.
Complimenti, signora.
E tutti applaudirono, si complimentarono, le si avvicinarono; mentre il signore
di S. prese a parte Dante e gli disse:
- Era come dicevo io, no? Bisognava riportare indietro un animale, no?
Dante lo guardò con disprezzo, non disse alcunché, e ritornò dalla dama per
complimentarsi.
- Oh, i vostri complimenti, signor mio, sono il miglior premio.
Decisero tutti di ballare un po', e Dante chiese e ottenne dalla dama il
permesso di essere il suo unico cavaliere per l'intera serata.
2
Tabelline
- Tre via uno tre, tre via due sei, tre via tre nove... - diceva a voce alta, quasi
salmodiando, anzi proprio salmodiando, il vecchio maestro, vestito un po' logoro,
barba sfatta a chiazze bianche, capelli che sembravano un cespuglio di more tirato
con violenza verso il basso.
- Tre via sei diciotto, tre via sette ventuno, tre via otto ventiquattro contemporaneamente dicevano tutti in coro, con un'attenzione estrema e una
concentrazione totale, gli allievi di ogni età, da nove dieci a vent'anni, vestiti chi
in maniera sommaria chi con una certa eleganza.
Guai a sbagliare, guai anche solo ad uscire dal coro: un istante di ritardo o uno
di anticipo erano considerati come un errore imperdonabile. La punizione?
Studente che mi leggi oggi, nel terzo millennio, non ci vorrai credere. C'erano qua
e là, sparsi per la stanza, che di aula proprio non si poteva parlare, dei giovanotti
bastardi e ignoranti che avevano solo il compito di segnalare al maestro qualsiasi
genere di scorrettezza. Lo studente sorpreso nella disattenzione, nell'errore,
nell'uscita dal coro veniva immediatamente segnalato; la "lezione" s'interrompeva
all'istante e il povero malcapitato, altro che nota o "Fa' venire i tuoi genitori",
veniva giustiziato lì per lì. Il minimo che gli poteva capitare era una bella serie di
robuste sferzate sulle dita delle mani tese, palme in basso, con una bacchetta di
legno durissima che ogni maestro portava sempre con sé, parte fondamentale del
corredo didattico, più dei libri; le sferzate erano tali da poter anche fratturare le
dita. E guai a dirlo a casa, perché allora il padre, altro che difesa del povero
studente, te le avrebbe date in soprannumero di santa ragione (e, a quei tempi,
quando il babbo menava, menava duro, per lasciare il segno e mostrare a tutti il
senso evidente della indiscussa patria potestà). Ma se la scorrettezza era grave,
come dire "sette via otto quarantotto", come viene spontaneo per la rima, allora
erano guai seri: potevi essere sottoposto all'immediato abbassamento dei pantaloni
(se ne avevi, perché erano ancora poco diffusi) o all'innalzamento della gonna o
della palandrana (molto più usuali anche tra i giovani maschi) e colpito di fronte a
tutti nel sedere nudo, con vergate che facevano immediatamente sanguinare. E sai
la cosa più incredibile? Che i tuoi compagni, altro che solidarietà, come fanno i
pusillanimi per il proprio scampato pericolo, avrebbero riso a crepapelle, nel
vedere dapprima il tuo sedere rosa mostrato a tutti e poi nel sentire le tue urla di
dolore e vedere il sangue colare. Ecco perché l'attenzione era estrema e la
concentrazione somma. È chiaro ora a ciascun lettore il perché?
- Quattro via uno quattro, quattro via due otto - diceva il vecchio maestro, che
nel frattempo era passato al quattro e che, si sapeva, stava per andarsene; quella
era la sua ultima lezione e quel giorno stesso, dopo il desinare, dicevano i più,
sarebbe arrivato il maestro nuovo, che nessuno ancora conosceva. Era giovane, si
diceva, e questo era un male: giovane significa maggior vigore e forza, significa
dunque più dita spezzate della mano e più sangue dalle natiche.
- Quattro via sei ventiquattro, quattro via sette ventotto - dicevano in coro i
giovani di diverse età, perfettamente all'unisono, mentre i vigilanti, stizziti per
non trovare clienti alla tortura, cercavano con puntigliosa attenzione di regalare a
questa nostra storia e alle cronache dell'epoca fratture e sangue.
La cosa proseguiva, lenta e solenne, e poteva durare una mattina intera, ma noi
abbrevieremo la storia giungendo subito alla fine:
- Venti via diciannove trecentottanta, venti via venti quattrocento terminarono, all'unisono, vecchio maestro e giovani allievi, con grande
soddisfazione di tutti ed un profondo respiro di sollievo.
- Sedetevi - disse il maestro, perché la salmodia delle tabelline andava detta in
piedi per maggior concentrazione.
- Io vi lascio questo monito, che fu anche dei vecchi saggi, i grandi della storia
e dell'intelletto. L'insegnamento di Pitagora, che voi avete, devo riconoscere, così
abilmente ripetuto or ora, è il fondamento dell'arismetrica tutta e ciascuno di voi
lo deve salmodiare almeno tre volte al giorno, congiuntamente alle preci, al
mattino, al mezzodì, e alla sera, al momento di coricarsi. Sapere a memoria le
tabelline vi salverà da fastidiosi calcoli all'abaco, vi dirà rapidamente quali
risultati sono importanti e decisivi. Non dimenticatelo. Abbiamo studiato i
numeri, così come i dotti Greci ci hanno tramandato e Pitagora di Samo in prima
linea. Poi le operazioni: la somma o addizione, la sottrazione o differenza o resto
che è la sua inversa; la moltiplicazione o prodotto, cinque via sei che fa trenta; la
divisione che è la sua inversa, e che può essere di contenenza o di ripartizione.
Un'operazione alla quale pure abbiamo fatto menzione, ma che solo i più abili di
voi hanno colto, è la potenza, inventata dal grande Archimede di Siracusa: due
alla potenza seconda è quattro; tre alla potenza seconda è nove; tre alla potenza
terza è ventisette. Avendo studiato la divisione e i divisori, sapete ora che cosa
sono i numeri primi, gloria dell'intelletto di Euclide di Alessandria. I numeri primi
sono due, tre, cinque, sette, undici, vi ricordate?
Le domande che, di quando in quando, il vecchio maestro faceva, alito
pestifero, unghie delle mani nere, calzari stinti dai quali spuntavano piedi che
nessuno poteva neppur guardare per non avere immediati conati di vomito, eppure
uomo con una sua certa qual dignità, le domande, dicevo, erano pura retorica.
Guai a rispondere, guai a fiatare se non era il maestro a indicarti con la punta del
bastone, direttamente, a metà tra l'indicazione e la minaccia. L'allievo non poteva
neppure respirare; doveva stare compostamente seduto sulla panca, non c'erano
banchi: schiena ritta, braccia conserte sul davanti e mani che dovevano afferrare i
gomiti per evitare che le dita libere facessero chissà che gesti indecorosi.
- Dunque, per chi di voi ha appreso, e saranno pochi, lo so, la lezione è stata
grande e, in futuro, fruttifera. Per gli altri, poveretti - e fece come un gesto di
compassione - tempo perso per me e per loro. Ma la matematica, come diceva
anche il Sommo Maestro di color che sanno, si sa, è intelligibile solo a pochi
spiriti eletti [chissà dove aveva trovato questa dotta citazione, che io ho cercato
vanamente in tutto Aristotele]. Gli altri, oh, gli altri potranno ritornare agli sforzi
dei loro antenati, certo zotici e villici, a rimuovere la terra con il nuovo strumento
che tanti miracoli sta facendo, l'aratro a punta piegata, che ora, pensate, viene
trascinato dai buoi. Io ho fatto il possibile, più del possibile, e il mio animo è in
pace; i miracoli li possono fare solo Dio ed i suoi santi.
E, con fare teatrale, testa eretta e busto dritto, uscì dalla stanza.
Ora tutti si immagineranno, in base ai nostri attuali simpatici modelli
comportamentali, studenti scapestrati urlanti montare sulle panche, gettarsi
addosso l'un l'altro o chissà che, canti, schiamazzi, urla... approfittando
dell'assenza del maestro. Ma neppure per sogno: quei giannizzeri dei cercatori di
candidati alla tortura mica se ne erano andati. Essi non erano dotazione
dell'insegnante, ma della scuola e quindi se ne restavano lì. Sì, dirà il mio lettore,
ma in caso di scorrettezza, chi avrebbe inflitto la punizione? Oh, ma la risposta è
multipla e semplice: o il responsabile della scuola (direttore o preside, diremmo
noi oggi), o il prossimo insegnante, o loro stessi. E perché gli studenti non si
sollevavano e non li menavano? Sì, questo era possibile, e le cronache dicono che
a volte accadde che studenti esasperati dalle angherie continue si ribellassero. Ma
tanto, alla fine, era sempre peggio per loro...
Oh, ma zitti, zitti, torniamo nella stanza, perché era arrivato il nuovo maestro,
inaspettatamente, molto prima del previsto.
Gli studenti erano ancora in perfetto silenzio, allineati, le schiene diritte
eccetera, insomma, come ho detto poc'anzi.
In queste circostanze, entrò un giovane elegante, volto perfettamente rasato,
capelli castano chiaro lunghi raccolti a coda, pulito, senza verga (senza verga!),
con un libro in mano. Indossava una palandrana che sembrava di velluto, non
aveva guanti, aveva ai piedi delle scarpe di panno pesante (molto di moda a quei
tempi) il cui colore ben si legava a quello del corpetto che s'intravedeva sotto la
palandrana e che sbucava dagli omeri per trasformarsi in maniche lunghe che
accompagnavano il braccio fino ai polsi.
Gli studenti lo guardarono ammirati e sbalorditi; mai in una scuola si era visto
un personaggio simile, più vicino nell'aspetto a un nobile di corte che a un
maestro. Sembrava ben nutrito, sveglio, molto sicuro di sé.
Vide gli studenti, almeno 60 o 70 o forse più, tutti silenti e composti, e 5-6
ragazzotti male in arnese in piedi, con in mano canne che servivano ufficialmente
per indicare al maestro i depravati che sbagliavano ma, di fatto, per stuzzicare,
indurre all'errore, alla disattenzione, alla reazione, e dunque al conseguente
castigo.
- Voi chi siete, che fate costì in piedi? - chiese proprio agli aguzzini.
- Noi siamo i tutori, maestro, al vostro servizio - rispose uno di loro, il più
infingardo.
- Oh, grazie, allora, ma io non ho bisogno di voi; andate pure.
- Ma maestro, ma come, no, insomma, è il nostro dovere, il nostro lavoro,
abbiamo sempre, sì insomma - non sapeva che dire.
- Andate, andate e celermente, altrimenti... - e fece l'atto di alzare la mano per
colpire. - Andate dal vostro superiore a dire che il nuovo maestro d'abaco non
necessita di queste forme arcaiche di protezione, che so fare da me.
Immaginatevi la scena: gli studenti increduli, felici, rossi in volto dalla gioia;
gli aguzzini che se ne andavano, quasi minacciando maestro e studenti, ma con la
coda tra le gambe.
Gli studenti erano ancora rigidi, ma le dita di alcuni di essi si muovevano e
molte mani mollarono la presa del gomito e si richiusero a pugno, beh, quasi,
perché il medio era in molte mani sollevato a dire non so che, ma certo qualche
cosa di offensivo.
Si seppe poi, dalle cronache, che il nuovo maestro era stato pregato e ripregato
di prender posto in quella scuola, anche perché la sua presenza, un nobile a far da
maestro in una scuola pubblica fissa, avrebbe portato contributi in danaro freschi
da parte di varie corporazioni; e che lui aveva alfine acconsentito a insegnare lì, a
patto di avere carta bianca e libertà su tutto, cosa che gli era stata subito
accordata.
- E insomma, che fate lì così imbalsamati? Mi sembrate pezzi di stoccafisso disse, rivolgendosi agli studenti.
- Stoccafisso - disse sottovoce Dante a Guido, senza neppure voltarsi, quasi da
ventriloquo. - Che sia di Livorno? O di Pisa?
- Tu, laggiù - oh dio, il nuovo maestro l'aveva già visto - che stai dicendo al tuo
compagno? - e, visto che Dante non parlava, il maestro di nuovo:
- Su allora, parla, te lo ordino.
- Nulla, signor Maestro, commentavo il vostro riferimento allo stoccafisso e mi
chiedevo se siete di Livorno o di Pisa. Vi prego, non ho fatto nulla di male.
Dante non era uno studente modello, nel senso che aveva il debole di non
riuscire a star zitto e quando aveva un commento da fare, lo faceva. Di solito era
tanto abile che nessuno lo sorprendeva, eppure aveva preso talvolta vergate sulle
dita (sì, lettore, non illuderti, solo sulle dita). Ma questo nuovo maestro lo aveva
subito colto sul fatto o, come dicono spesso gli studenti, "beccato", nel senso di
scoperto. Dante era già pronto a "beccarsi", questa volta nel senso semantico di
prendersi, ricevere, vergate sulle dita.
- Ah, bene, signor mio; dunque voi siete un curiosone - disse invece
allegramente il maestro.
Nessun cenno alle vergate...
Qualche allievo iniziava a smettere la posizione delle braccia conserte e
lentamente metteva le mani più comode, ma sempre con fare circospetto. Molti
rilassavano la schiena, molti si guardavo attorno incuriositi, come a cercare
conforto dai vicini: osiamo o non osiamo?
- Allora - disse il maestro a Dante - sappiate che sono di San Miniato, dunque
più vicino a Pisa che a Firenze; ma ho studiato fuori, in giro per l'Italia prima, poi
per l'Europa. Sono stato chiamato qua, ed ho accettato, per insegnarvi
l'arismetrica. Ma mi dicono che il vostro precedente maestro era di grande valore
e che dunque voi siete tutti già molto esperti, nevvero?
La simpatia per quest'uomo era già alle stelle, ma pur sempre un maestro era,
capace di chissà quali torture; dunque, forti delle precedenti esperienze
"didattiche", nessuno fiatò.
- Ma che diavolo succede? - chiese e si chiese il maestro.
- Vi faccio una domanda e nessuno fiata? Orsù, dunque, tu - indicando Dante che avevi prima la lingua sì lunga, parla a nome di tutti, via.
- Gli è, signor Maestro, che mille volte ci hanno detto e mille volte spiegato
che non si deve mai parlare a un Maestro, a meno che lui non ti chiami
espressamente, non ti indichi, insomma non cerchi proprio di te in persona. E così
noi...
- Ah, capisco. Bene, e allora adesso le regole le cambiamo. Non so che cosa
farete con gli altri maestri del quadrivio, ma per quanto riguarda me, potete e anzi
dovete parlare. Se vi faccio una domanda, qualcuno di voi risponda. Così sia. Va
bene?
Increduli, ancora un po' impauriti, però non codardi, qualcuno cominciò a
sperare e disse di sì, accettando questa nuova situazione.
- Oh, bene, così deve essere. E allora, parliamo ordunque di arismetrica. So
che avete studiato molto, ma non so che cosa. Il vecchio maestro, andandosene
inviperito, non ha voluto parlarmi. Dunque, per esempio, questa mattina che cosa
avete ripetuto come ultima cosa?
- Pitagora - disse più d'uno.
- Le tabelline di Pitagora - dissero altri.
Ma molti ancora tacevano, incerti e con poca fiducia in questa improvvisa
apertura democratica, diremmo noi oggi.
- Ah, bene - fece il maestro - dunque, vediamo. Tu - indicando un giovane in
prima fila - quanto fa sei via tre?
Un "Oh" di meraviglia si levò; molti cominciarono ad agitarsi, molti
parlottarono tra loro.
- Che succede, oh che succede? - chiese il maestro a tutti.
- Gli è che così non vale, non è mai stato fatto. E come lo sappiamo?
- Come "come"? Non sapete le tabelline?
- No, Maestro, perdonate l'ardire, ma noi le sappiamo, eccome, le tabelline.
- Bene, allora tu dimmi: quanto fa sei via tre?
- Va bene, Maestro - e salmodiò:
- Sei via uno sei, sei via due dodici, sei via...
- Ma come - l'interruppe il maestro - ogni volta dovete ripetere questa litania
daccapo? Non sapete rispondere a colpo? Sei via tre fa diciotto. Non lo sapete fare
a colpo? Senza pensare?
Gli studenti si guardavano l'un l'altro, come da sempre è tipico per loro.
Quando si rompe quel che loro credono essere un contratto didattico e una
clausola stabile nel tempo e ritenuta immutabile viene d'improvviso cambiata,
oppure un accordo preso viene ritenuto modificato unilateralmente dal docente, si
interrogano l'un l'altro, annuendo, come a dire: "Ma non è così? Certo che è così.
Ma non è possibile, non era questo, è sempre stato quest'altro. E chi l'ha mai
fatto? Ma non era da studiare. Era per oggi? No, era per domani. Ma questo
argomento ancora non è mai stato affrontato. Ma come 'sbagliato', l'ha detto lei a
lezione", eccetera eccetera.
- Ah, allora è così. Bene dunque; a partire da oggi, le tabelline di Pitagora le
dovete sapere come dico io. Io vi chiedo, d'improvviso: quanto fa sette via quattro
e chiunque, dico, chiunque di voi deve sapermi dire ventotto, al volo, senza
pensarci un istante. Così deve essere, questo vuol dire sapere le tabelline.
Molti furono i commenti e molte le recriminazioni, ma nessuna aperta; quel
maestro la sapeva lunga ma ancora nessuno l'aveva visto in azione sulle punizioni.
Chissà che sottigliezze aveva o avrebbe inventato, per punirli.
Qualche ora dopo, quando Dante e Guido parlottavano rientrando a casa,
passando sotto gli Uffizi, i commenti erano opposti ed ingenui, come devono
essere i commenti di ragazzini di 10-11 anni.
- Deve essere un tipo, quello, sottile e perfido. Prima ti lisciano, i tipi così, e
poi ti vergano - diceva Guido.
- Io non sono convinto - ribatteva Dante - a me è piaciuto, sembrava sincero. E
poi, se ci pensi davvero, effettivamente se ti chiedono per la strada: 'Quanto fa
otto via nove', per rispondere 'settandue' alla maniera del vecchio maestro ci metti
un giorno.
E si misero a ridere a crepapelle.
D'un tratto, Guido si fermò e afferrò un braccio di Dante, bloccandolo:
- E tu come lo sai?
- Lo so che? Sei grullo?
- Tu come lo sai che otto via nove fa settantadue? Come lo sai?
Dante si corrugò in fronte, come la pelle liscia del volto di un bambino
permette, come a concentrarsi su di un fatto insolito, e poi disse, lui pure stupito:
- Oh bella, non lo so. So che fa settandue, ma non so perché.
Stupito l'uno, ancora più stupito l'altro, o era magia, o aveva ragione il nuovo
maestro.
3
Siena
Il fermento era grande; l'entusiasmo si sarebbe potuto toccare, tanto era vivo e
concreto da cadere sotto la percezione dei sensi.
I bambini scalpitavano, fremevano, stringendo a sé le proprie poche cose. Chi
le teneva raccolte in una sacca, chi in un cestello, chi in un canestro, chi in una
borsa e chi, più semplicemente, in un panno annodato.
Parlavano a voce alta, si chiedevano, si dicevano. I genitori raccomandavano,
sollecitavano, auguravano, ma i bambini li guardavano con un solo occhio e li
ascoltavano con un solo orecchio, ché erano già proiettati verso il viaggio, la
meta, Siena.
Erano stati scelti venti bambini nell'oratorio, quelli più meritevoli, che meglio
sapevano recitare la dottrina, che meglio sapevano rispondere alle domande di
fede, che meglio e più spesso recitavano giaculatorie e rosari, che si erano
comunicati più di sovente. Scelti per una gita nella città con la famosa piazza in
forte pendenza, in occasione di un evento d'eccezione: sua santità Giovanni XXI
avrebbe dato lezione ai giovani sulle sue arti, la teologia e l'ottica, convocandoli
da ogni terra di Toscana, pregando ogni città, ogni fazione, ogni banda di
dimenticare per alcuni giorni le ostilità politiche e d'armi.
Per rappresentare Firenze era stato scelto proprio l'oratorio della Badia e Dante
si era dato subito da fare per mandare a memoria le risposte insulse alle domande
insulse che venivano poste, a pregare in maniera evidente e ostentata ogni giorno,
a comunicarsi tutte le mattine: a tutti i costi non voleva perdere l'occasione di
vedere Siena. Tanto impegno aveva profuso, che risultò addirittura il primo, con
grande soddisfazione di Alaghiero e Bella, papà e mamma. Ora, però, come tutti
gli altri coetanei, friggeva e stordiva, domandava e rispondeva, saltava d'ansia e di
attesa.
Vedere il papa? Oh dio, quanto può interessare a un bambino di nove anni
vedere un papa "vecchio" di oltre mezzo secolo? E ascoltarlo, poi, parlare di
teologia e di ottica... Siena, la leggendaria Siena, affascinava tutti i fiorentini:
vecchi, giovani e bambini; ma pochi vi si potevano recare, a causa delle accese ed
eterne rivalità. Un fiorentino là, senza salvacondotto e senza scorta d'armati, se la
sarebbe vista brutta.
Partirono, dunque, finalmente, ché era oramai l'alba; solo uno mancava
all'appello perché l'ansia del viaggio gli aveva messo la febbre addosso, tanto alta
che s'era deciso di lasciarlo a casa, ed era troppo tardi ora per rimpiazzarlo.
Partirono, dunque, su due piccoli carri scoperti, sperando nel bel tempo di fine
maggio, diciannove bambini tra gli otto e gli undici anni, con sei accompagnatori
adulti, quattro chierici e due uomini di fatica, quelli che conducevano le bestie.
Avevano preparato, e ora li tenevano accuratamente ripiegati, festoni dipinti
con i colori del papa, quelli di Firenze e quelli del loro oratorio, con sopra le solite
scritte di questi casi: "VIVA IL PAPA", "VIVA LA PACE" eccetera.
Il viaggio? Beh, se dovessi descrivervi il viaggio mi servirebbero ben più che
le pagine di questo libro. Schiamazzi, inutili minacce, richiami, lazzi d'ogni tipo.
Ogni due leghe, a un bambino diverso scappa la pipì, "E basta, che così non si
arriva mai", e "Ho mal di pancia" e "Padre, Guido mi dà dei pizzicotti",
"Smettetela tutti e due, basta, se no vi punisco", "Ma è lui, io che c'entro?", "Ho
fame", "Quando arriviamo?"... Siete mai stati a una gita scolastica, ma dalla parte
del povero insegnante che non ricorda più perché ha accettato e che dopo tre
minuti di pullman si sta già pentendo amaramente di non essere a casa sua con
una febbre a 40?
Immaginate un viaggio da Firenze a Siena, lungo una strada sassosa, a bordo
di due carri aperti sobbalzanti, con le ruote cerchiate di ferro, che viaggiano l'uno
di seguito all'altro, in colonna, ad andatura d'uomo, con diciannove scatenati che
mai sono usciti di casa loro e per i quali, nello stesso tempo, ogni cosa è nuova e
ogni cosa assomiglia a qualche cosa d'altro, che s'affannano tutti per dirvelo
contemporaneamente, come se a voi potesse interessare un fico secco, e che, per
farsi sentire, non solo urlano, ma urlano cercando di sovrastare l'urlo del vicino...
Insomma: ho reso l'idea?
Il viaggio, dunque, chiedevate? Immaginatevelo voi.
Fatto sta che arrivarono a notte fonda. Avviliti, tutti, grandi e piccini, mezzi
addormentati, sporchi, sudati, disfatti, giunsero alle porte di Siena; e non li fecero
entrare, perché la città era accessibile solo a partire dall'alba fatta. Dormirono,
dunque, tutt'e 25, stesi come potevano sui carri; che fortuna hanno i cavalli, che
possono dormire all'in piedi, senza dover sopportare addosso i corpi altrui, senza
dover cercare per tutta la notte un pezzo di pavimento di carro sul quale potersi
poggiare per intero. Duro, oh, sì, duro. Ma meglio che sovrastare corpi altrui o
esserne sovrastati. O trovarsi in bocca in piena notte un calzino maleodorante con
dentro un piede lavato chissà quando.
L'alba arrivò e nessuno pensò a lavarsi, a quei tempi non s'usava molto; fecero
vedere alla guardia le credenziali, furono un po' sfottuti in quanto fiorentini - ma
questo era già stato messo in conto - ed entrarono, finalmente, a Siena.
Sia i bambini che gli adulti erano silenziosi e tesissimi. Percorsero le ultime
salite e giunsero nella famosa piazza che avevano udito descrivere tante volte.
Girarono a destra, secondo le indicazioni ricevute, cercando un convento verso il
palazzo dei Signori Buoni, dove avrebbero avuto alloggio presso il cortile e il
colonnato dell'oratorio.
- Oh, però, badate, pagliericci e null'altro, per terra - avevano già detto. Ma far
penitenza e vedere e ascoltare il papa era tutt'uno. Giunsero, alfine, accolti con
benevolenza ed entusiasmo, da un frate rotondetto che li stava aspettando dalla
sera prima ed era in apprensione. Ricevettero latte e gallette, una per ciascuno, ed
un pagliericcio, cioè un fascio di paglia con una piccola coperta. Il frate li
condusse tutti in una vasta sala vuota, se non fosse stato per quattro colonne, con
ampie aperture su un giardino interno silenzioso nel quale erano coltivati ortaggi.
I diciannove bambini e i due uomini si sistemarono là, ciascuno scegliendo il
posto suo, con litigi e dispetti che potete immaginarvi se siete stati in colonia da
piccoli, o con gli scout.
I quattro chierici furono invece portati un po' più in là, in una stanza più
piccola, ma arredata con quattro sedie di legno e paglia, una per ciascun ospite:
- Mi dispiace, più di così non posso fare; sapete, arrivano migliaia di pellegrini
da tutta la Toscana.
- Oh, padre, ma che dite? Nessuno di noi s'aspettava un'accoglienza così
straordinaria, che dite mai? Vi ringraziamo, nel nome del Signore - e ognuno si
faceva e si rifaceva più volte il segno della croce.
Dormire? Macché dormire. Metteteceli voi diciannove bambini a letto, mentre
già brilla il Sole, eccitati com'erano:
- Dormite, dormite per qualche tempo, riposatevi, poi andremo a zonzo fino al
mezzodì - s'affannavano a dire i chierici agli esagitati bambini che si tiravano
addosso paglia e coperte, ché altro non avevano sottomano (addio letti).
I due uomini s'erano già sdraiati e uno dei due ronfava in modo tale da
scuotere le colonne e più d'un bambino aveva preso a sfotterlo e c'era pure chi
cercava d'infilargli pagliuzze nelle narici o nella bocca aperta. L'altro
sonnecchiava, si rigirava, ma di lì a poco sarebbe crollato.
Decisero, alla fine, di uscire tutti per vedere la città: impossibile contenere quei
diavoli scatenati; e poi, a dire la verità, anche i chierici ne avevano una voglia
matta.
- Dunque, non disperdetevi. Se vi perdete, vi bastoneremo. In ogni caso,
ricordate il vostro alloggio, e per il mezzodì dovrete trovarvi tutti riuniti costì,
proprio costì, per le preghiere e il desinare. Più tardi andrete a sentire l'orazione
del papa, pensate: del papa.
La frase era stata detta all'uscita dell'oratorio; ma prima ancora che il chierico
ne terminasse la prima parte, i bambini erano già tutti partiti correndo a perdifiato,
in salita, verso la magica piazza e nessuno poteva né fermarli, oramai, né
rincorrerli. C'era solo da affidarsi alla pietà celeste.
La pietà celeste funzionò, almeno in quel caso.
Al mezzodì, o poco dopo, tutti erano al posto giusto, attesi con ansia dai
chierici; entrarono nella cappella; pregarono a lungo o, meglio, a lungo
parteciparono alle litanie in coro; si recarono nel cortile della cucina (non era
permesso né entrare nella vasta sala dove i frati mangiavano, né nella cucina
stessa, dove alcuni frati cucinavano per tutti).
Seduti per terra o sugli scalini, ricevettero ciascuno una scodella con della
zuppa, un bel pezzo di pane che sembrava fresco e l'invito a bere alla fonte, "Uno
alla volta, però", che stava dentro la cucina. Neanche a dirlo, avevano una fame
che avrebbero divorato un elefante, anche se nessuno ne aveva mai visto uno, ma
zuppa e pane erano abbondanti e tutti furono soddisfatti (un po' meno i due
uomini di fatica, che chiesero e ottennero, dal frate che scodellava la brodaglia,
una doppia razione).
Com'era nelle usanze dell'epoca, si svolsero i fatti seguenti, in quest'ordine:
ognuno entrava in cucina, beveva alla fonte, lavava la propria scodella e la
riponeva su un colatoio che il frate indicava; poi ognuno aveva il tempo di andare
in uno sgabuzzino riparato da pareti di legno leggero, all'aperto, a fare i suoi
bisogni, che ne sentisse o no l'urgenza, ché poi, fino a sera inoltrata, non ci
sarebbe più stata alcuna opportunità.
La cosa, è ovvio, richiese molto più tempo del previsto, ma alla fine tutti
furono pronti per il grande evento, quello che aveva determinato la gita stessa,
l'incontro con il papa.
Il Duomo era gremito fino all'inverosimile, tanto che, se non si fosse
provveduto a fissare preventivamente gli spazi, riservandoli e assegnandoli
ciascuno a una città o paese, sarebbe stato un caos infernale. I fiorentini ebbero
fortuna perché gli furono destinate due panche verso il centro, un po' a destra. I
quattro chierici si sedettero sulle panche e altri sei bambini ebbero la furbizia di
precipitarsi a sedere, lottando un po'; gli altri dovettero accomodarsi per terra (i
due uomini di fatica non erano stati invitati e forse erano a zonzo per conto loro).
Ci volle un bel po' di tempo per sistemare tutte le molte centinaia di bambini
provenienti da ogni dove; ma la maestà del luogo, la presenza di austeri chierici
anziani dalla lunga barba bianca e, soprattutto, la presenza di chierici giovani con
in mano robuste verghe, la cui funzione non venne detta perché parve subito
esplicita a tutti, fecero sì che vi fosse un relativo silenzio.
Tutti erano, a un certo punto, in ordine, in silenzio, in attesa. Tutto era pronto.
E il papa entrò.
Entrò lento e maestoso, riccamente vestito, mentre un coro di bambini (tutti
maschi, non solo il coro, tutti, tutti i presenti) cantava le lodi del Signore.
Era un'immagine potente, mozzafiato, anche per i più discoli. Una scena che
avrebbe impressionato chiunque, anche il più convinto ateo, anche il più
antipapista, il guelfo più acceso.
Giovanni XXI saliva con maestà i pochi scalini. Altro che vecchio. Aveva un
fisico da atleta, possente ed energico, sprizzava salute da tutti i pori (e morì, duetre anni dopo, quando Dante aveva dodici anni, in modo misterioso, sepolto in
fretta a Orvieto, non unico papa, antico o recente, la cui morte è ancora discussa).
Tutti erano estasiati, in piedi. Non tutti i bambini potevano vedere, specie dal
mezzo duomo in poi, perché avevano davanti a sé adulti o festoni tesi. Ma
chinandosi un po' a destra, un po' a sinistra, rizzandosi sulla punta dei piedi,
riuscivano almeno a intravedere qualche cosa e tanto bastava, nella sua
magnificenza, per ammutolire chiunque.
Dante era sistemato, ovviamente, in posizione centrale e comoda; s'era
conquistato quel privilegio spingendo e calciando i compagni più insistenti, anche
più grandi di lui, e dunque aveva una visione nitida e completa. Inoltre era un
bambino molto sensibile e dunque suggestionabile più d'ogni altro: era rapito,
come in estasi. Aveva di fronte a sé la creatura umana di più alto lignaggio
(pensava allora, indottrinato dai chierici), più d'ogni nobile laico, più
dell'imperatore stesso, secondo solo allo stesso Gesù Cristo del quale, infatti, era
il legittimo discendente, l'unico: il papa cattolico apostolico romano.
Il papa giunse all'altare e tutti, a quel punto, lo videro. Si sedette nel suo trono,
partecipò alle preghiere che, in parte, diresse, benedisse i presenti e celebrò il
mistero dell'eucaristia.
Poi, finalmente, tenne la sua lezione, ma non su teologia e ottica, come molti
credevano e pensavano, bensì su dialettica e ottica (fu la sua preferenza per la
dialettica, rispetto alla teologia, uno dei motivi della sua sorte? Fu il suo
accanimento a voler scrivere un XIII libro, in aggiunta ai famosi dodici?).
La lezione fu tenuta in latino, ovviamente, per cui i bambini compresero poco
o nulla. Ma tutti fecero silenzio, non tanto per le verghe di cui sopra, a onor del
vero, ma per la magnificenza dell'occasione, per lo splendore dell'avvenimento,
per la consapevolezza di stare partecipando a qualche cosa di unico.
Giovanni XXI parlò di dialettica e Dante fu uno dei pochi bambini che, ancora
a distanza di anni, ricordavano l'insegnamento: "Dialectica est ars artium et
scientia scientiarum ad omnium methodorum principia viam habens", che poi
dovette ritrovare all'inizio delle Summulae Logicales, studiate a Bologna e
Firenze. E, capendo il giusto, quel che può capire un bambino sotto i dieci anni di
sillogismi e cose simili, s'accorse di apprezzare quegli stimoli e quel tipo di studi.
Giovanni XXI parlò poi di ottica, e qui Dante seguì meno ancora (ma chissà
allora che cosa capirono gli altri, non solo i bambini, dico), ma ritenne a memoria
almeno alcuni brani, quelli che poteva intuire; infatti da adulto, quando ebbe
bisogno di far emanare luce dal volto di un angelo che si trovava con il Sole alle
spalle, si servì nel suo Purgatorio proprio di versi la cui origine è nelle lezioni di
ottica di Piero Ispano, pardon, di papa Giovanni XXI:
Come quando da l'acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l'opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader della pietra in igual tratta,
si come mostra esperienza ed arte;
Tutti erano a dir poco affascinati, più dall'uomo e dal suo vigore che non dai
discorsi, che ciascuno capiva in misura diversa, dal nulla più totale di bambini e
chierici ignoranti a una minima parte dei chierici più dotti.
Poi l'incanto, come sempre accade, finì. Il papa benedisse una volta di più, il
coro cantò ancora la gloria del Signore, e l'altare rimase vuoto: Giovanni XXI,
con ugual magnificenza, ma con più velocità, se ne andò nella canonica.
Prima che facesse buio fuori, e dunque per rendere più agevoli i rientri nei vari
oratori che li ospitavano, i bambini vennero fatti uscire in modo ordinato. I
quattro chierici condussero fuori i loro diciannove giovani fiorentini,
s'inchinarono più volte, fecero almeno mille volte il segno della croce in modo
ostentato e tremarono all'idea di dover riportare i bambini... all'ovile (pensando
alla paglia sparsa nel pavimento non è solo un modo di dire!). Non fu difficile,
invece: erano tutti così stanchi, ma così stanchi, che nessuno s'azzardò a correre, a
fuggire davanti o a scappare di lato. Camminarono, ciascuno pensando ai fatti
suoi, chi alla fame, chi ai bisogni corporali, chi, come Dante, ancora realmente
sinceramente scosso fin dentro l'animo.
La cena fu preceduta dai soliti lunghissimi salmi e fu dato solo un pezzo di
pane e formaggio, ancora una volta sufficiente, però.
Le solite cose e poi un sonno profondo, quasi immediato, che fuori era già
buio: nessuno aveva ancora pensato all'ora legale.
I due uomini di fatica giunsero troppo tardi; non sapevano infatti che, al farsi
buio, l'oratorio avrebbe sprangato l'entrata, e dovettero dunque dormire all'aperto,
seduti a terra, con la schiena appoggiata al portone.
Il giorno dopo, dette le preghiere e bevuto un po' di latte - poco in verità,
perché il pastore che di solito passava appena dopo l'alba non s'era visto quella
mattina - partirono.
Il vigore dell'andata s'era perduto e tutti erano mogi mogi; qualcuno vomitò,
sporgendo la testa fuori dal carro.
Dante s'era come chiuso in sé a riflettere, ma neppure lui sapeva su che cosa.
Quello, intuiva in modo confuso e inconsapevole, era un modello, un uomo che
sapeva pensare.
Pensare, ecco il cruccio dei bambini quando si rendono conto che questo è quel
che distingue un uomo da un altro: saper pensare. E iniziano a porsi la domanda
più sciocca al riguardo: "Come si fa a pensare?", domanda che sanno di non poter
fare a un adulto, che tanto riceverebbero in risposta solo una frase di scherno.
Forse uno ci nasce, con questa capacità, e allora non c'è nulla da fare: "Da
grande vedrò, se so pensare".
Forse uno lo apprende e allora bisogna vedere da che cosa dipende il
rendersene padrone. Letture, attenzione, postura?
Postura... Nella piazza a lui dedicata, nel centro storico della sua Sulmona,
Publio Ovidio Naso è ritratto nella postura tipica di chi pensa (andatelo a vedere).
Da bambino mi ci recavo di nascosto perché la casa della zia della quale ero
brevemente ospite era lontana e non mi era permesso allontanarmene tanto. Mi
ponevo di fronte alla statua, spalle al muro per evitare i pochi carri e le ancor
meno auto che allora passavano per di là, imitavo specularmente la postura di
Ovidio e mi auguravo che, assumendo quella posizione, avrei imparato a pensare.
Non so se l'ho imparato e, in caso positivo, mai saprò se è solo un fatto di postura.
So solo che ci perdevo ore intere e che una volta, dopo l'imbrunire, fu organizzata
un'intera pattuglia di amici e parenti della zia per cercarmi in città; fui ritrovato lì
fermo da ore da una giovane lontana parente, riportato a casa e solennemente
rimproverato e punito. Avevo imparato a pensare, almeno? Ne era valsa la pena?
Oh, per carità, non per fare paragoni, ma solo per casuale somiglianza di
pensieri, Dante, seduto nel carro che lo riportava a Firenze, pensava, o meglio: si
chiedeva come un essere umano potesse giungere a pensare. Non aveva la statua
di Ovidio davanti a sé, ma un modello umano: lo aveva visto in azione, splendido,
lucente, come lo ebbe a definire poi nel Paradiso.
Pensava e pensava; e quando venne notte, Firenze era ancora lontana perché i
cavalli non ne potevano più e s'erano dovuti riposare per ore, tutti dormivano
sonoramente e profondamente. Lui no: pensava a come pensare, a come si
costruisce il pensiero e decise e giurò a sé stesso che quello sarebbe stato il suo
domani; decise di consacrarsi allo studio, alla vita d'eccellenza, all'arte e alla
scienza.
4
L'infinito
Era il giorno della "disputa aperta" e la Firenze dei giovani aspiranti filosofi
era tutta in fermento.
Avveniva, di tanto in tanto, ma mai più di due volte l'anno, che tutti i giovani
che frequentavano le scuole di filosofia, i loro maestri e alcuni grandi personaggi
celebri che accettavano di partecipare, si ritrovassero una sera al crepuscolo,
presso la cappella della sede della scuola più antica di Firenze, a discutere
liberamente di argomenti di filosofia. A turno, per ordine di prenotazione e non
gerarchico, chiunque poteva lanciare una sfida filosofica, asserendo una
proposizione, una qualsiasi, per poi difenderla dagli attacchi dei presenti.
Tutti gli interventi dovevano essere brevi; questa clausola era stata aggiunta di
recente, perché taluni personaggi di secondo piano approfittavano di questa
occasione per pronunciare veri e propri sermoni, per tentare vere e proprie lezioni.
Certo, sul significato dell'aggettivo "breve" c'erano sempre discussioni, ogni
volta. Però, almeno, l'idea c'era e ci si poteva appellare a quella.
Era dunque già il pomeriggio avanzato del giorno della disputa e i giovani
scolari di filosofia bighellonavano attorno al Battistero sotto una vecchia torre
senza nome (che, di lì a pochi anni, sarebbe stata abbattuta per far posto ad una
nuova, disegnata da Giotto), ipotizzando interventi, temi, personaggi.
Si sapeva che il grande teologo Tiziano da Poggibonsi aveva accettato, che
forse il maestro Igino da San Gimignano avrebbe fatto in tempo ad arrivare, si
diceva di due tre cardinali; e, certo, sarebbero intervenuti tutti i maestri, i più
amati dagli studenti, ma anche i più disprezzati dai filosofi ecclesiastici.
Molti studenti sbruffoni vantavano possibili interventi che poi, di fatto, non
avrebbero proposto; e lì, in quell'occasione, tentavano la ventura di fare sparate
grosse, tra i propri pari, per il gusto di vedere che cosa i loro compagni avrebbero
controproposto. Si accendevano liti furiose, in alcuni capannelli, mentre in altri si
sentivano sonore risate. Tutto ciò era sempre interrotto di comune muto accordo
ogni volta che passava per di là una giovane abbastanza avvenente, da sola, con
un'amica o con una domestica, per far posto a commenti ad alta voce, a proposte
di nottate carnali, a fischi e lazzi d'ogni tipo. E questo succedeva con una certa
frequenza, e proprio allo scopo di scatenare quelle reazioni, sorriderne,
pavoneggiarsene, perché quella piazza era meta di finto passaggio di molte
giovani donne che sapevano perfettamente essere quello il ritrovo degli studenti
più interessanti della città; passavano di là, dunque, a bella posta, e fingevano di
arrossire a parole un po' spinte, per poi allontanarsi e cercare ogni motivo per
dover casualmente o forzatamente ripassare di lì a poco, in senso inverso (più di
questo doppio passaggio era indecoroso giacché sarebbe parso evidente che lo si
faceva apposta).
Era dunque la fine del pomeriggio del giorno della "disputa" e l'ora si
avvicinava rapidamente. I giovani cominciarono ad avviarsi verso la cappella
della scuola che sorgeva verso gli Albizi, dopo il Proconsolo.
Al crepuscolo, vennero accese tutte le fiaccole e le candele e si fece luce per
tutta la cappella.
Luce, oddio. Bisogna pensare che a quei tempi ci si accontentava di scorgere o
distinguere le persone vicine: non si sarebbe potuto vedere un quadro alla parete
né leggere un libro. Era, secondo i nostri criteri, non più di un'oscura penombra
che veniva considerata luce solo rispetto al buio esterno: lungo le strade, e non
tutte, v'erano fiaccole che venivano accese un'ora dopo il tramonto e spente un'ora
prima dell'alba. Tra una fiaccola e l'altra, c'erano ampi tratti di strada totalmente al
buio. Per non dire delle tante strade addirittura senza fiaccole. Vigeva sempre il
coprifuoco per evitare assassini, violenze d'ogni tipo, rapine e furti. Nessuna
donna perbene usciva da sola la sera o la notte, per nessun motivo al mondo.
La cappella era dunque, secondo i criteri dell'epoca, illuminata. E
gremitissima; i più fortunati o i primi arrivati avevano trovato posto a sedere sulle
panche al centro, rivolte verso l'altare. Ma poi i nuovi venuti avevano dovuto
stringersi in piedi, addossati ai muri laterali, arrampicati sulle scale del pulpito,
stretti stretti attorno all'organo e, insomma, ognuno dove aveva potuto.
Davanti all'altare c'era una predella di legno ricoperta d'uno spesso panno
purpureo, quella sulla quale l'oratore di turno avrebbe prima lanciato e poi difeso
la propria proposizione, dando le spalle all'altare.
La prima fila di panche, quella più vicina alla predella, era stata riservata ai
maestri fiorentini (anche se non sempre erano proprio di Firenze) e agli ospiti
stranieri. Alcuni maestri c'erano già, altri giunsero in poco tempo, fendendo la
folla degli studenti a lato. Alcuni posti della prima fila rimasero infine vuoti.
Dopo una brevissima cerimonia religiosa che culminò con una benedizione
generale ai presenti, il decano della scuola dei filosofi più vecchia della città prese
la parola, ricordò il nome degli illustri stranieri presenti (tutti nomi che al giorno
d'oggi non dicono assolutamente più nulla ma che allora una certa notorietà ce
l'avevano), riepilogò le regole della "disputa" e si sedette in prima fila, al centro.
Cominciò, com'era non obbligo, ma oramai consuetudine, il giovane più
brillante tra coloro che stavano per terminare il ciclo di studi presso la scuola
ospitante, Salvo da Fiesole; era appunto stabilito che questi, destinato, nel giro di
pochi mesi, a diventare ivi maestro, presentasse come primo oggetto di disputa
alcuni punti della propria tesi. Il tema riguardava le relazioni tra universali e
particolari, come funzionavano le negazioni degli universali eccetera, più o meno
le solite cose, quelle tramandate da Roscellino di Compiègne. La cosa suscitò
diversi interventi, la cui violenza però apparve ai più come un evidente desiderio
di mettersi in mostra che non una reale ostilità alle tesi di Salvo.
Continuarono in molti altri, studenti e maestri, con proposte di vario tipo,
moltissime a carattere teologico, altre a carattere morale, ma anche non poche su
questioni di dialettica.
Quando la folla si fu un po' calmata, si levò una mano dal fondo e il giovane
maestro che stava in quel momento fungendo da chairman (come si direbbe oggi,
ma forse qui dovrei dire "moderatore") invitò il possessore di quella mano ad
avvicinarsi alla predella ed esporre la propria idea.
Sebbene provenisse dal fondo, colui che fendeva la folla verso la predella non
era evidentemente uno studente, ma un signore di mezza età. Vestiva
elegantemente, aveva un corto pizzetto, indossava guanti; si inchinò, come tutti
facevano prima di parlare, di fronte all'ostensorio al centro dell'altare, fece un
lento e largo segno della croce, s'inchinò al decano, salì la predella e, in un
silenzio inverosimile se si pensa alla massa di studenti e alla loro età, così parlò:
- Io propongo alla discussione un tema che mi tormenta da anni e che fu
oggetto di discussione già in passato da parte dei grandi, ossia se Dio possieda o
no in sé coscienza dell'infinità dei numeri...
Non aveva neppur finito la parola numeri, che il decano s'era alzato con il
braccio teso e la mano raccolta a pugno urlando qualcosa come "Bestemmiatore,
come osi?" ma che non si era capito bene perché da tutte le parti molti erano
coloro che urlavano a perdifiato, chi gesticolando, chi quasi saltando.
Due sole persone erano calme in quel putiferio: il moderatore e l'oratore.
Il primo, con una freddezza e una padronanza della situazione che avevano
dell'inverosimile, invitava tutti, perfino il decano infuriato, a fare silenzio e a
sedersi.
Il secondo era impassibile, fermo, aspettando di poter continuare, come sapeva
perfettamente essere suo diritto.
- Silenzio, calma, smettetela - diceva il moderatore; poi, quando seppe che la
sua voce si sarebbe finalmente sentita, continuò:
- Voi tutti sapete bene quali siano le regole di questa disputa. Chiunque può
intervenire e può dire qualsiasi cosa, proponendola alla discussione. (Ancora urla
dal fondo e ancora il decano in piedi, con l'atto di andarsene, dicendo qualche
cosa come "Sì, ma questo è troppo" o cose del genere).
- Dunque questo signore ha tutto il diritto di terminare la sua proposta di
discussione. È norma imprescindibile della disputa lasciarlo parlare - e poi, rivolto
all'oratore: - Prego, proseguite pure.
Senza per nulla scomporsi e per nulla turbato, l'oratore riprese, ma partendo
questa volta più da lontano:
- Mi chiamo Manlio, sono nato a Tivoli ma vivo vicino ad Arezzo da oramai
quarant'anni e mi considero toscano. Ho frequentato la scuola di Simplicio
d'Arezzo - e si accese un coro di "Oh" di meraviglia: era una delle scuole più
famose del momento, nemica acerrima di tutte le fiorentine - e ho avuto la fortuna
di studiare a Bologna, con Annibale di Mantova che fu allievo diretto di Boezio di
Dacia - un altro "Oh", molto, molto più forte - e a Parigi, con Ennio di Pavia, che
fu a sua volta allievo d'un allievo del grande Tommaso d'Aquino - il nuovo "Oh"
scosse le fondamenta della cappella; il decano era a disagio e si aggiustava ogni
abito addosso.
- Vi prego quindi di ascoltarmi con pazienza, perché la mia pena è grande:
come posso permettermi, mi chiedo, di dissentire da ciascuno di questi grandi
maestri, su un argomento di sì rilevante pregnanza? Dunque, tutti noi sappiamo
che i numeri sono infiniti - vi furono moltissimi commenti ad alta voce, ma quasi
tutti incomprensibili. - Lasciatemi dire la cosa in un modo che anche i fanciulli
capiscono: se si comincia a contare uno due tre quattro ci si ferma quando si è
stanchi, ma sempre, in qualsiasi istante, chiunque potrebbe procedere oltre e dire
un numero in più - altri interventi, sparsi, ad alta voce.
- Qualcuno potrebbe dire che ciò non basta per profferire la parola terribile
"infinito", che tanto terrore incuteva ai Greci, eppure provatevi a ragionare. Io
principio a contare oggi e proseguo senza sosta domani e così via per tutta la mia
vita, giungendo a un milione, o forse più. A mio figlio Francesco (ho voluto dargli
questo nome per ricordare il fondatore dell'ordine che ci ospita) lascio in eredità il
compito di proseguire e, alla mia morte, egli riprende da un milione e uno e
prosegue un milione e due un milione e tre e continua, continua, continua;
essendo tanto giovane, potrà contare più di me. A sua volta, Francesco lascia al
suo figliolo la stessa eredità e, per amore del padre e del padre del padre, anch'egli
continuerà; e questa diventerà una tradizione di famiglia e ciascuno dei miei
discendenti, nei secoli dei secoli, proseguirà.
Adesso sì, c'era silenzio. Tutti i giovani studenti erano impietriti, fissando
Manlio negli occhi, per quel che l'oscurità permetteva.
Giunto un po' tardi, dunque in piedi, accalcato accanto all'unica uscita laterale,
stava Dante; anch'egli impietrito, non perdeva una parola e s'era già dimenticato
della scomoda posizione.
- Ci sarà una fine? Per noi credenti nel vero Dio, sì, una fine ci sarà. Quando?
Il giorno del giudizio. Tutti i viventi e i morti risorti verranno giudicati e sarà la
fine di questa caduca vita terrena, per passare nella perfezione dell'aldilà. Ma,
attenti bene, sarà la resurrezione della carne, ricominceremo tutti a vivere in una
situazione ideale e perfetta, sulla natura della quale, tuttavia, ancora non c'è totale
accordo - molti dei dotti seduti in prima fila si agitarono, altri annuirono, nessuno
sorrise.
- Dunque, io stesso a quel punto, divenuto eterno, a cospetto di Dio che, spero,
avrà avuto la bontà di assolvere i miei peccati e accettarmi seco, potrei
ricominciare a contare laddove il mio ultimo discendente aveva terminato, e
proseguire proseguire proseguire, senza più arresto. Davvero qualcuno di voi può
controbattere alla mia affermazione che i numeri sono infiniti? - risatine, sorrisi,
conferme, coppie di studenti che confabulano rapidamente tra loro. - L'uomo
dunque concepisce l'infinito? - nuove urla da ogni dove, incomprensibili, e il
decano ancora in piedi, che protesta e che nuovamente fa l'atto di andarsene, ma
che poi si risiede. - Dicevo: può l'uomo concepire l'infinito, dunque? No, direte
voi, perché l'infinito risiede nella mente di Dio e solo Lui può possederlo. Eppure
voi, pochi minuti fa, avete avuto per un momento l'illusione di... afferrarlo, questo
infinito. No? - e molti, moltissimi, annuirono; anche Dante, conquistato, annuì.
- Ebbene, il grande Peripatetico ci suggerisce una via per capire bene la
questione, via che Tommaso analizzò e meditò a fondo. Quel che abbiamo
accettato prima era un infinito in potenza: qualsiasi numero io pensi, se ne può
dare uno maggiore. Ma quel che sconforta è l'infinito in atto, dato in un colpo
solo. Questo l'uomo con la sua limitatezza mortale - urlò a gran voce e un'eco si
diffuse per tutta la cappella - non lo può dominare.
(Finalmente il decano assentì, un po' più rilassato).
Il moderatore lo interruppe:
- Manlio, vi prego di concludere, le norme mi costringono a ricordarvi la
regola della brevità.
Urla a squarciagola si levarono contro di lui; questo Manlio stava affascinando
tutti i giovani e le sue argomentazioni erano profonde e nuove per i più.
- Mi dispiace, ma le norme devono essere rispettate - ribatté il moderatore.
Levando le mani per zittire e calmare i suoi... oggi si direbbe fans, Manlio
riprese:
- Silenzio, vi prego, vi prego, il moderatore ha ragione, mi sto dilungando
troppo. Arriverò al punto e cederò la parola. Dunque, l'uomo arriva a possedere
l'infinità potenziale dei numeri, ma non concepisce quella attuale. Se anche solo ci
si prova, questa... gli scappa da tutte le parti - e fece il gesto di arginare una falla,
scatenando risate e ampi consensi tra il pubblico. - Ma Dio no, dice Tommaso, e
lo diceva prima anche Agostino, Dio concepisce in un tutto unico l'infinità attuale.
Ma se questa infinità fosse davvero riunibile in un unico tutto, che noi umani non
sappiamo immaginare, sarebbe circoscrittibile, sarebbe cioè finita, o no? - dissensi
a voce alta, ma incomprensibili; assensi, pure a voce alta, e ancora
incomprensibili.
- E come potrebbe un'infinità attuale essere finita per Dio e infinita per l'uomo?
È nella sua natura poter permettere di sé stessa questa duplice lettura? Può dunque
davvero Dio, infinito sì nel tempo e nella gloria e nella potenza sua, possedere
l'infinità attuale dei numeri, o l'ammettere ciò provoca un'insanabile
contraddizione logica?
Il tono della voce rivelava che Manlio aveva finito. La reazione alle sue parole
era delle più disparate: chi applaudiva, molti in verità, chi agitava pugni all'aria o
verso l'oratore stesso, chi alzava la mano per intervenire, chi semplicemente
parlava con il proprio vicino dicendogli chissà cosa di bene, a favore di Manlio, o
di male.
Dante era come impietrito. Quel genere di domande lui se le era già fatte,
aveva provato a pensare di contare i numeri fino all'ultimo, quando era bambino,
come fanno prima o poi tutti i bambini intelligenti e critici, per accorgersi però
ben presto dell'inutilità di questa impresa. Le parole di Manlio l'avevano
conquistato, ma non sapeva come interpretarle, che cosa pensare di tutto ciò.
Come gli sarebbe piaciuto parlare a quattr'occhi con quell'uomo!
Gli interventi furono pura retorica, inutili; ognuno disse cose, nessuno disse
nulla. Nessuno, neppure il decano, neppure i maestri che, più o meno tutti,
intervennero, dissero nulla; ognuno andava, come si usa dire oggi, per la tangente,
senza entrare nel merito.
Si fece tardi, ci furono altre proposte, ognuno se ne andò. Manlio, additato da
tutti mentre passava, garbatamente salutò i maestri, inchinandosi a tutti, uscì e
s'incamminò nel buio della strada in leggera discesa che portava all'Arno
passando pe' Peruzzi. Fatti pochi passi, s'accorse che una figura lo stava come
aspettando o, almeno, così gli parve. Ebbe un po' di timore, ma era oramai
impossibile cambiare strada e proseguì.
Era Dante, evidentemente. I due si guardarono in volto, Dante gli fece le scuse
per quel modo così poco elegante e inurbano di apostrofarlo per strada di notte,
ma Manlio, sia per il sollievo dello scampato pericolo, sia perché era persona
schietta e simpatica di natura, accettò di continuare la serata, invece che rientrare
nella locanda presso la quale aveva riservato una camera per la notte, prima di
ritornarsene in Valdarno.
Fu così che il contenuto di due brocche di Chianti di Castellina, dunque di
quello buono per davvero, trovarono degna dimora nel giro di poche ore; e che
una taverna assai vicina all'Arno fu teatro di un'appassionata discussione
sull'infinito che, però, paradosso nel paradosso, finì (all'alba).
Le cronache dell'epoca, così meticolose nel riportare nomi e dettar fatti, non
rivelano il contenuto di quella discussione; ma certo Manlio non convinse Dante
che, nel Convivio, pochi anni dopo, scrisse infatti che sull'infinità dei numeri,
l'occhio dell'intelletto non può fermarsi "però che 'l numero quant'è in sé
considerato, è infinito, e questo non potremo noi intendere".
O forse Dante fu convinto, ma i dettami dello Stagirita erano troppo forti in
quel periodo per rischiare altre denunce, altre calunnie, altri attacchi da parte della
Chiesa, dei ghibellini e dei potenti.
Le cronache ci dicono, però, cose facete: che questo Manlio tornò poco dopo
l'alba alla sua locanda sull'altra sponda d'Arno, vicino a' Frescobaldi, dove lo
avevano aspettato tutta notte; recuperò le sue cose, disputò con l'albergatore sulla
tariffa da pagare per una stanza riservata sì ma non usata, e poi se ne andò, su una
diligenza che faceva la tratta Firenze-Arezzo quasi tutti i giorni, scendendo in una
località imprecisata, più vicina ad Arezzo che non a Firenze.
Ci dicono anche che dell'intervento di Manlio molto si parlò tra i giovani nella
scuola di filosofia di tutta Firenze, tanto che i maestri dovettero intervenire per
dire che non è lecito all'uomo neppur parlare dell'infinito attuale, pena la
scomunica per superbia per aver voluto assimilare l'intelletto proprio a quello di
Dio.
Georg Cantor nacque nel 1845 e morì nel 1918; lottò e lavorò tutta la vita per
regalarci l'infinito attuale e fu solo quando, verso la fine, era mentalmente infermo
ad Halle, che i matematici se ne accorsero per davvero. Corsero a rendergli
omaggio, ma era troppo tardi.
Dante morì invece troppo presto per immaginare tutto ciò, nel 1321.
Altrimenti, nel Convivio, avrebbe probabilmente scritto cose diverse.
5
Angoli e triangoli
- Vorrei essere a Faenza prima di notte.
- Te lo dico ancora una volta: se fossimo partiti all'alba saremmo già potuti
essere a Bologna.
- Va beh, non me lo ripetere ogni istante. Lo so. Ma come potevo fare, suvvia?
- Eh dài, ogni volta ce ne hai una...
- Oh, senti un po' chi parla, Dante il monogamo.
Stettero zitti per un po', erano in mezzo alla foresta e Faenza era ancora
lontana; cominciava a far buio e quelle strade, percorse da soli, non erano di gran
bell'auspicio.
- Ci potremmo fermare dalle parti di Marradi, dài, lì una locanda ci sarà pure.
- Arrivarci! E poi, lo sai? Coi pochi quattrini che abbiamo in tasca, ogni notte
passata in locanda è una in meno a Bologna.
- Te l'ho detto che conosco gente a Bologna, amici miei, veri. Ci ospiteranno
per un po', mica sono grulli.
- Guido, te li ricordi gli amici tuoi a Pistoia? A momenti ci linciavano. Anche lì
ospitalità, ospitalità, e poi?
- Oh, ma lì fosti tu, o non te la ricordi la brunetta? Ma proprio con l'amante del
Bigiavi dovevi farti sotto?
- Che c'entra? Che ne sapevo io? E poi, eravamo ospiti o no?
- Ma senti come ragiona questo - disse Guido, levando la mano destra dalle
briglie e battendosi il palmo sulla fronte.
Questo gesto gli fece cadere il largo cappello e dovette fermare il cavallo
bruno, magro assai e alquanto malridotto, tornare indietro e scendere per
recuperarlo; ne approfittò per stiracchiarsi un po' il collo e le gambe e
massaggiarsi il fondo schiena.
Dante, nel frattempo, aveva percorso altri 30-40 passi e s'accorse solo allora
dell'arresto dell'amico. Si fermò a sua volta, voltò il cavallo e urlò:
- O che tu fai? Ma allora non vuoi proprio arrivare. L'è buio, un lo vedi?
- Senti, io sono tutto rotto. Erano anni che non cavalcavo. Troviamo un buco
qualsiasi e fermiamoci.
- Per forza, a quest'ora; dài, vediamo se c'è una locanda o una posta, non
dovrebbe mancare troppo.
Risalire in groppa non fu banale, per Guido, e molti suoi tentativi furono
fallimentari; Dante rideva a crepapelle e diceva:
- O Guido, come poeta sarai un dio, ma montare a cavallo, proprio non ce la
fai. Meno male che sai montare altre puledre - e rideva; e anche Guido, per quanto
seccato dagli inutili tentativi, rideva.
Alla fine riuscì e cercarono di spingere quelle due povere malnutrite bestie,
troppo vecchie per quel lungo tragitto, al galoppo.
Effettivamente, dopo due, tre miglia, la foresta si aprì e in fondo alla stretta
radura si vide una posta, a malapena illuminata, proprio mentre il Sole lasciava
alla notte il compito di dirigere i lavori sulla Terra.
Al rumore degli zoccoli, il proprietario uscì, uno straccio tra le mani,
grassoccio, basso, barba malfatta, baffi e una bella pelata che rivelava un cranio
tondo tondo e lucido, sul quale si rifletteva la luce di una fiaccola.
- Di dove venite? - chiese loro, mentre scendevano da cavallo.
- Oh dio, da Firenze. Siamo stanchissimi.
Comparve d'improvviso un burdel con i vestiti stracciati e i piedi nudi, più
sporco lui di merda di cavallo che non il letamaio che si vedeva a pochi passi;
prese le briglie dei due cavalli e, senza nulla dire, portò con sé le due bestie verso
una stalla.
- Dagli una strigliata - disse Guido.
- E un po' di fieno, ma poco, che non s'illudano - disse invece Dante.
Un'ora dopo, la pancia piena di fagioli, cotiche e lenticchie, Dante e Guido
stavano ancora bevendo vino e sbocconcellando crescioni e piadine, ripulendo in
ogni angolo remoto il piatto dai suoi avanzi di grassi, unti e sughi.
Avevano parlato e chiacchierato a voce alta tutto il tempo e non s'erano accorti
che un avventore, dall'aria, come dire, pensierosa e seria, li aveva osservati con
attenzione.
S'avvicinò e li apostrofò:
- Scusate, messeri. Scusate se mi permetto, ma - e lo disse sottovoce - in
mezzo a tutti questi bifolchi...
Dante e Guido dapprima lo guardarono, poi si voltarono per constatare che,
davvero, tutt'attorno erano circondati da gente piuttosto trasandata, non
viaggiatori ma contadini o altro venuti dai dintorni a passare qui la sera, in attesa
di rientrarsene a casa per la notte.
- Voi, per quanto usiate un parlare popolare e modi goliardici, siete due
persone colte e perbene, si vede subito. Se mi permettete, sono Eraldo da Todi e
sono in viaggio di studio verso Bologna. La notte mi ha sorpreso e mi sono
dovuto fermare.
Fu Dante a parlare:
- Ma vi preghiamo, messer Eraldo, sedetevi con noi e versatevi da bere se non
ce l'avete ancora - e fece due gesti con la stessa mano, il primo per indicare
all'ospite uno sgabello vuoto e l'altro per indicare una brocca che era stata appena
riempita di vino.
Continuò:
- Io sono Dante degli Alaghieri, figlio di Alaghiero, da Firenze, e questi che
s'accompagna a me è Guido Cavalcanti, figlio di Cavalcante Cavalcanti, di
Firenze pure. Compartiamo la stessa sorte, messer Eraldo: anche noi sorpresi dalla
notte, in cammino verso Bologna per motivi di studio.
Eraldo aveva un'età nettamente più avanzata dei due, pareva rasato di fresco e
pulito. Indossava un mantello ampio, nonostante il caldo della taverna della posta;
Dante lo notò, ma pensò che, effettivamente, in luoghi come quello è sempre
meglio indossare tutto quel che si possiede e non abbandonarlo in nessun
momento, neppure in camera propria.
- Ah, motivi di studio? E quali, se posso permettermi l'ardire? Siete goliardi
dell'Alma Mater?
- In verità no, anche se ne abbiamo lo spirito - disse questa volta Guido, e rise.
- In verità no - confermò Dante - è che vogliamo impratichirci in dialettica e lì
ci pare che le cose si facciano sul serio, ora che il papa ha dato la scomunica. A
Bologna se ne fregano, a Bologna la dialettica si fa igualmente.
- Ah sì, sapevo di tutto ciò - disse compunto Eraldo. - Ma non avete paura
anche voi della scomunica?
- Sentite, Eraldo; io ci ho mille e più motivi di scomunica; se dovessi
preoccuparmi di tutti... - disse tra le risa Guido.
E tutti e tre risero.
- E voi, Eraldo, quali studi affrontate a Bologna?
- Oh, io vado pella geometria. Sono io stesso geometra e debbo vedere certe
cose; ora lì ci sono maestri fissi che vengono dalla Alemannia e dalla Francia; ma
ci sono pure certi bolognesi che mi dicono dotti.
- Ah, la geometria - disse come in estasi Dante. - È una delle mie scienze
preferite.
- Oddio, adesso questo ricomincia, per carità - protestò Guido. - Sentite un po',
e se ce ne andassimo a letto? - e fece il gesto di alzarsi.
- Senti, vacci tu a letto, che a te le scienze t'interessano poco o punto. Lasciaci
discorrere un po' di geometria, dacché ho avuto la fortuna d'incontrare qui un
esperto. Ho proprio cose mie da chiedergli - e si voltò verso Eraldo. - Sempre che
la signoria vostra permetta.
- Certo, certo; ho un poco sonno, ma qualche momento possiamo ancora
discorrere - confermò Eraldo.
Guido nel frattempo s'era già alzato, si era rimesso in testa il cappello,
raccogliendolo dal tavolo, e li salutò con una certa ironia:
- Vi lascio ordunque alla vostra amata geometria, signori - e se ne andò, con un
inchino di scherno, alla ricerca di una camera e di un letto.
Rimasti soli, Dante ed Eraldo cominciarono a discorrere di tutto, della retta,
dei punti, di triangoli e di cerchi, fino a che Dante non rivelò il suo cruccio.
- Sentite un po', Eraldo. Sto menando il can per l'aia ma, in verità, ho due
problemi seri ai quali so dare risposta, perché li ho studiati in Boezio, ma non me
ne so rendere ragione.
- Ditemi e v'aiuterò, se posso, se so, ditemi a cuore aperto.
- Ebbene, ho due problemi, vi dicevo, più legati alla poesia mia che non alla
geometria. Vi spiego il primo, volete?
- Ripeto, se so e posso, sono a vostra disposizione di buon animo.
La fortuna volle che la tavola, sulla quale poggiavano ancora i piatti nei quali
Guido e Dante avevano mangiato, fosse così sporca, ma così sporca, che Dante
potesse tracciare con un dito le figure che voleva.
- Ecco, vedete, io traccio una retta - e tracciò, in verità, un segmento:
- Ora, immaginatevi che questa sia un diametro di un circolo, così:
- Ora io prendo un punto sulla mezza circonferenza di sopra e disegno un
triangolo che ci ha quel diametro come lato, per esempio così:
- Lo vedete?
- Certo - disse subito Eraldo. E aggiunse, in un lampo:
- È un triangolo rettangolo.
- Ecco - esclamò a voce alta Dante, tanto che molti avventori si voltarono a
mirarlo. - È proprio questo che non so spiegarmi. Qualunque punto io prenda, l'è
sempre un triangolo rettangolo? Oh dio bono, e com'è possibile?
- Messer Dante, non è troppo difficile. Vedete che l'angolo comprende i due
estremi del segmento, no?
- Certo, in ogni caso è come se li abbracciasse.
- Se fate lo sforzo di immaginarvi il diametro come un angolo che ha il vertice
nel centro del circolo, che angolo vi trovate dinanzi?
- Oh perbacco, ma è ovviamente un angolo piatto, come lo chiama Gherardo.
- Ebbene, qualsiasi angolo che ha il vertice sul circolo è sempre la metà di
quello, visto che l'abbraccia sempre. Quindi è retto. Né potrebbe essere d'altra
maniera.
- Ma io come lo so che è la metà?
- Non avete letto Boezio, mi avete detto? E Boezio ricopia Euclide che dice
questo nella teoria delli circoli: "L'angolo rettilineo sulla circonferenza
(periphereia, dice il sommo Euclide) è sempre la metà dell'angolo al centro che
abbraccia la stessa corda", non ricordate?
- Oh, sì, me lo ricordo bene, ma non l'avevo messo in relazione; ah sì, è vero, è
proprio vero, ora lo capisco, deve essere così, è necessariamente così, non può
essere altrimenti.
E, mentre parlava a Eraldo, in realtà il suo pensiero era rivolto ad Adamo,
Cristo e Salomone e il suo cervello già stava scrivendo:
o se del mezzo cerchio far si puote
trïangol sì ch'un retto non avesse.
Era talmente concentrato che solo dopo chissà quanti scrolloni si accorse che
Eraldo lo stava quasi malmenando, scuotendolo:
- Dante, che vi prende? Che succede? Avete il mal sottile?
- No, no, scusate, Eraldo, mi ero messo a riflettere. Grazie, non so come darvi
la grazia, davvero.
- Oh, non è nulla, ma mi avete spaventato... Che stavate sognando?
- Se vi dicessi che stavo pensando alla sapienza di Adamo, mi prendereste per
matto, e non lo sono; né potrei però ora spiegarvi tutto.
Eraldo lo fissò e, davvero, pensò che quel curioso avventore della notte fosse
almeno un po' matto; fece l'atto di alzarsi, dicendo:
- Beh, messer Dante, allora io vado a dormire, dunque.
- Oh no, per favore - Dante lo trattenne per un braccio - per favore non ancora.
Ho ancora un altro problema di geometria nella quale, vedo, siete maestro insigne.
Per favore, solo un altro istante.
La preghiera veniva davvero dal cuore, si rese conto Eraldo; si sedette di
nuovo e disse:
- Bene, allora, Dante, ditemi che cos'altro vi assilla.
- Ecco, è un'altra cosa sui triangoli; io so che se prendo tutti gli angoli di un
triangolo, questi danno come somma due retti; ma se ne prendo due soli, che
posso dire di essi? Possono essere insieme due retti? O due ottusi, o che? Ho un
po' di confusione in mente, e una chiarificazione come quella di dianzi mi farebbe
comodo assai.
- Oh, beh - fece Eraldo - questa è ancora più facile.
E disegnò sulla tavola, con il dito, lasciando un segno tra grassi, ceneri e
polvere:
- Vedete, disegno un triangolo che ha alla base due angoli ottusi:
- Oh, fece Dante, e che triangolo è mai codesto? - a metà tra l'ironico e lo
stupito.
- Appunto, Dante: se questa è la base - e indicò il segmento orizzontale - e
questi sono due angoli ottusi - e indicò con due freccine gli angoli:
- Come vedete i lati se ne vanno ognuno per suo conto e il triangolo non si
chiude.
- Per dio! - esclamò Dante. - L'è vero, è semplicissimo. E io cercavo nel divino
Euclide...
- Effettivamente, nel I libro degli Elementi, a ben guardare, c'è una
proposizione che dice che giammai la somma di due angoli interni di un triangolo
può essere uguale o maggiore a due retti, giammai - levando l'indice della mano
destra al cielo. - Dev'essere la XVI o la XVII, ora non ricordo bene.
- Oh, Eraldo, come potrò mai ringraziarvi di questa illuminazione?
- Domani, cammin facendo, se avrete la bontà di accompagnarvi entrambi con
me per non lasciarmi solo nel periglioso cammino tra qui e Faenza, mi offrirete da
bere.
Si salutarono con enfasi e Dante si fermò ancora un po'. Aveva smesso di
pensare alla sapienza di Salomone e aveva cominciato a pensare a quella di un
altro personaggio, diversa in verità, un antenato suo al quale voleva dedicare versi
forti, che risuonassero per l'eternità:
O cara piota mia che sì t'insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi...
6
Zara
- Uffa, non credevo che trovar casa a Bologna fosse tanto difficile. Con
l'Università, credevo...
- Sì, ma dilla tutta: e quei tuoi amici che dovevano ospitarci con tanta
generosità?
- L'hai visto anche tu, ovvio: avrebbero voluto, ma non c'era spazio, erano
avviliti e dispiaciuti sinceramente.
- Sarà. A me sembra invece che non ne avessero intenzione alcuna. Solo che
tutta la zona vicina alla piazza l'abbiamo vagliata e ora non ci restano che i fuori
porta. Non vorrei andar tanto lontano, però non vedo alternativa.
- Proviamo per di là - indicò Guido - verso quella direzione.
- Tu non ci prendi mai, dunque andiamo in quella opposta. Oppure ognuno
cerca per suo conto e ci ritroviamo a sera qui.
- No, no, va bene, vengo teco, non separiamoci.
E s'incamminarono, oramai decisi ad andare fuori porta.
Bologna a quei tempi era piccola ma il fuori porta, in alcune direzioni, per
esempio verso sud, verso la collina, era ampio e abitato. Dante e Guido non
immaginavano neppure quanto fosse difficile per uno studente trovar casa in
locazione nella Dotta, allora e ancor più oggi. Tutti gli studenti giungono a
Bologna sognando di abitare in centro, perché la notte basta scendere e c'è un via
vai impressionante fino all'alba, ma i più finiscono con l'abitare in lontane
periferie. Dante e Guido non immaginavano neppure, in quel momento, quanto
lontano dal centro avrebbero dovuto abitare.
S'incamminarono dunque, nella Val d'Aposa, lungo il torrente che, a quel
tempo, era ancora scoperto; nella deliziosa piazzetta che le faceva e le fa da
ingresso, videro una moltitudine di gente - saranno state venti, trenta persone
accalcate - urlare, sbraitare, sbracciare, tutte chinate in basso verso il centro del
gruppo.
La cosa li incuriosì subito molto e, dimentichi della casa che stavano cercando,
s'avvicinarono per vedere. Riuscirono, un po' alla volta, a intrufolarsi fino a poter
assistere.
Due giovani, uno abbastanza distinto e l'altro un po' più cialtrone, erano chini a
terra e tra loro stava una bella quantità di danaro sonante. L'uno stringeva un
pugno appena un po' sollevato, come quando si hanno in mano dei dadi, e l'altro
fissava quel pugno, come in tema d'un imbroglio.
D'un tratto la gente fece silenzio e i due dissero all'un tempo:
- Sette! - l'uno gridando con violenza.
- Undici! - l'altro urlando a perdifiato e, nello stesso momento, quei che teneva
il pugno chiuso lo aprì, gettando, in una specie di contenitore di legno con le
pareti rialzate, effettivamente dei dadi.
Erano tre dadi bianco avorio, di osso; rotolarono brevemente, scontrandosi l'un
l'altro e poi contro la parete del bordo, fino a fermarsi:
- Dieci! - urlarono tutti, ma proprio tutti all'unisono, e il suono fu così forte che
la chiesa bassa e rossa che stava di fronte quasi tremò.
Commenti a non finire, su non si sa che, e i due contendenti misero ciascuno
una mano nella propria saccoccia, estraendone un danaro e ponendolo nel
mucchio già consistente, rendendolo ancor più appetitoso.
L'altro, questa volta, raccolse i dadi e li strinse nel pugno, chiudendo gli occhi
come se stesse invocando la grazia divina o la sorte, mentre l'altro non gli levava
gli occhi di dosso; si fece silenzio e, dopo un istante:
- Sette - confermò il primo.
- Undici - confermò il secondo, entrambi con violenza, mentre i dadi volavano,
cadevano, rotolavano, sbattevano tra loro, cozzavano contro le pareti...
Pochi istanti, pochissimi, poi di nuovo un urlo atroce della folla intera:
- Nove!
Dante aveva capito il meccanismo, ma lo volle chiedere ugualmente al ricco ed
elegante signore che stava a lato, la cui corpulenza avrebbe benissimo potuto
esser presa a modello per rappresentare la Grassa:
- Scusate messere, sono straniero, come capirete dalla mia parlata. Che gioco
è, e come si gioca?
- Giovanotto, ma si gioca come vedete - disse questo in bolognese accentuato.
- Il primo che ci coglie, si becca tutto il gruzzolo, veh.
Nel frattempo i due contendenti ripetevano ogni particolare del copione
precedente: versare un'altra moneta nel mucchio della posta, adesso realmente una
bella cifra, risistemare i dadi e, come sempre:
- Sette - sembrava affezionato a non volersi smentire il primo.
- Undici - con la stessa determinazione il secondo.
Pochi, tesissimi istanti e la folla, con un urlo che si sentì fino in cima alla torre
degli Asinelli, la più alta e la più rappresentativa della rossa turrita città:
- Undici, undici, undici! Ha vinto, ha vinto!
Il povero affezionato del sette rimase lì, come un allocco, con una faccia triste
e disperata, rigettava i dadi e diceva a sé stesso: "Ah avessi detto nove alla volta
precedente, e dire che ci avevo pensato", e si dava pugni in testa.
Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
Il felice vincitore raccolse tutta la grana, se la infilò in saccoccia e accettò i
complimenti di tutti; si staccava da dosso le mani di chi gli si afferrava alle
maniche, alla veste, prometteva da bere ai più vicini scalmanati, spostava con
forza chi gli bloccava il cammino e commentava con tutti la fortuna, la sorte
eccetera:
con l'altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s'arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Dante si avvicinò a Guido e gli disse:
- Ma non hai visto? Era idiota, quello, a dire sempre sette.
- Perché? Non capisco.
- Ma l'undici era molto più facile a uscire, o il dieci, è ovvio.
- Ma che dici Dante, che ne sai tu? I dadi sono come le belle donne e cambiano
faccia in continuazione.
- Ma no, no. Se ci pensi un po', solo da 3 a 18 si possono avere uscite, e queste
due precisamente in una sola maniera, cioè con le tre facce uguali. Già 4 e 17
hanno qualche possibilità in più. Il 4 può aversi con 1, 1 e 2; 1, 2 e 1; 2, 1 e 1,
dunque tre volte, e 17 pure. Ci pensi? E così via, ogni volta ci sono possibilità in
più. Dunque i numeri centrali, 10 e 11, sono i più certi. Se li giochi, vinci.
- Ma allora perché questo diceva sette? È un allocco?
- Non so, non capisco, forse non s'industria a fare questi facili calcoli.
- Ma tu, avrai ragione? Sai, tu ti picchi di sapere d'arismetrica, ma io non so
poi se ne sai abbastanza.
- Ma sì, ma sì, è certo così. Dài, dammi monete.
- Oh dio, Dante, per carità, che già siamo male in arnese. Lascia stare, non per
sfiducia, sai.
- Dammi monete, ti dico, e non te ne pentirai.
Molto, ma molto a malincuore, Guido, che sempre subiva il fascino di Dante e
non ne sapeva mai arginare gli entusiasmi, gli dette una manciata di monete, quasi
tutto il suo patrimonio. Dante le mise nella sua saccoccia, si avvicinò al gruppo e
disse a tutti:
- Come si gioca, signori, che io sono forestiero e mi piacerebbe puntare?
A sentir la parlata di fuori, tutti si voltarono; si giocava in continuazione, ma
avere uno straniero in gara da spennare rendeva la cosa ancora più eccitante.
Un signore di mezza età, un poco grassoccio e con la faccia rubizza, gli
rispose:
- Giovanotto, se volete v'insegno io, però giocando.
- Oh, bene - disse Dante - e mi spiegherete dunque le regole cammin facendo?
- Sì, molto volentieri - ammiccando ai presenti; e, chissà perché, tutti si misero
a ridere all'unisono, con cattiveria.
Quel signore e Dante presero i due posti occupati prima dagli altri due, si
formò uno stretto capannello con Guido teso e impaurito accovacciato accanto a
Dante.
Puntarono una prima moneta:
- Cinque - disse l'uomo, gettando per primo i dadi;
- Dieci - disse Dante contemporaneamente.
Dopo un istante la folla sancì il risultato urlando:
- Undici.
Di nuovo monete, di nuovo dichiarazioni:
- Sei - l'uomo;
- Dieci - Dante.
E, ironia della sorte, uscì proprio il sei.
L'uomo raccolse le quattro monete con molta allegria e strafottenza; Dante era
un po' seccato, Guido in lacrime:
- Lascia andare, lascia andare, ti prego. Due monete in fumo. Ma che teoria è
la tua.
Per quanto turbato, Dante non si diede perduto e chiese al signore di
continuare con altre tre partite.
- Giovanotto, se non vado errato, voi siete uno studente e, di solito, gli studenti
sono qui da noi benvenuti anche se male in arnese. Ma siete nuovo di questo
gioco e non vorrei approfittare.
Parlava con strafottenza, guardandosi attorno come fa chi cerca consenso, e la
gente attorno rideva, dandogli ragione.
- Non vi preoccupate, ho danaro a sufficienza dato che gioco anche il danaro di
questo compagno mio - indicando Guido, che si torceva le mani con terrore.
- Bene, ordunque, e sia: altre tre sole partite di seguito.
Non starò qui ora a raccontare le singole fasi della gara, ma solo il risultato:
Dante le vinse tutt'e tre, sempre alternando 10 con 11.
Solo una volta ci fu una contestazione perché il signore disse 4 e tutti i
circostanti annullarono in coro la puntata, prima ancora che i tre dadi si fossero
fermati, perché, ricordarono, da sempre le puntate su 3, 4, 17 e 18 erano vietate.
L'ironia della sorte volle però che uscisse proprio il 4 e dunque il signore protestò
a lungo, ma le regole sono regole.
È come quando nel calcio la punta avversaria fa goal l'istante successivo al
quale l'arbitro ha suonato il fischietto per fermare il gioco per un fallo. I giocatori
della squadra che ha fatto il goal protestano e chiedono la validità del punto: tutti
hanno sentito il fischietto suonare dopo l'ingresso della palla in rete e sarebbero
disposti a giurarlo sulla Bibbia; mentre gli altri s'appellano alla precedenza
temporale del fischio.
Dante vinse dunque, ma non tante monete, una dozzina circa, con la gioia
immensa di Guido e di tanti circostanti che già stavano promettendo ai due
studenti fiorentini amicizia imperitura nei secoli dei secoli, in cambio di una bella
bevuta.
Ma tutta l'operazione era stata seguita in silenzio dal primo vincitore, quello
che diceva sempre undici. Questi si avvicinò a Dante, lo prese con una certa qual
forza per il braccio, e lo trascinò qualche passo lontano:
- Perché dicevate sempre dieci o undici? - gli chiese con cattiveria. - Davvero
non sapete giocare? Chi siete voi?
- E voi, signore, perché dicevate sempre undici? Il gioco me l'avete insegnato
voi, senza volere, suppongo, in un solo istante.
- E allora giocheremo noi due, studente straniero, ma di due monete in due.
- Non ha senso, messere, voi lo capite bene. Così il gioco è alla pari e vince
solo la sorte.
- È quel che voglio mostrarvi - e fece l'atto di spingerlo verso la tavola di
legno, mentre tutta le gente si accalcava e Guido urlava:
- Oh no, madonna mia proteggici.
Chissà se fu davvero la Madonna o più banalmente il caso, ma Guido (e
Dante) furono protetti per davvero, perché dal fondo della Val d'Aposa in leggera
salita arrivarono di corsa le guardie comunali di gran carriera, con lunghe
alabarde e corte spade, con in testa un caporale che urlava a perdifiato:
- Siete tutti in arresto, siete tutti in arresto!
In men che non si dica tutti sparirono, correndo chi di qua, chi di là; uno
raccolse dadi e tavola di legno; Dante si ritrovò a correre con Guido e altri oltre
quel che oggi è chiamato Collegio di Spagna, verso la via Urbana (un paio di
miglia più in là avrebbero a sera trovato alloggio).
Finalmente, passato il pericolo, Dante e i suoi compagni di fuga si fermarono
più o meno dov'è oggi la porta Saragozza e i due gli chiesero di mantenere la
promessa, offrendo da bere; il caso volle che lì nei pressi ci fosse, anche se già in
estrema periferia, una taverna tra le più pregiate, meta delle gite fuori porta dei
nobili le sere d'estate e le domeniche pomeriggio.
Bevendo allegramente Albana molto fresca, Dante chiese il perché delle
minacce delle guardie, il perché del divieto del gioco ed il nome del gioco stesso.
- Si chiama zara, ma qui da noi lo chiamiamo ludus ad gnaffum. Da molti anni,
dal 1270 o '71 mi pare, o poco dopo, è stato vietato perché chi lo gioca forma
capannelli e blocca il traffico per le strade - rispose uno dei due, quello che pareva
il più simpatico.
- Ma è vietato solo a Bologna?
- A quel che ne so io, è vietato a Bologna per le strade e a Ferrara a corte.
- Lì dunque non blocca il traffico - rise Dante, seguito da tutti gli altri tre.
- Sì, sì, ma blocca il lavoro a corte, sapete com'è Ferrara. O non conoscete i
ferraresi? Lì a corte tutti giocano alla zara tutto il giorno e i lavori politici si
arrestano e nessuno ne vuol più sapere.
- Perché parlate con tanta ironia dei ferraresi? C'è livore antico tra voi e loro?
- No, in realtà no, solo inimicizia cordiale. Le cose stanno ben peggio tra noi e
i modenesi.
- Contate, contate, ché son ghiotto di queste cose - disse Dante, mentre con un
braccio chiamava l'oste e gli faceva segno con l'indice della mano di portare
un'altra bella brocca piena di Albana fresca.
7
Asini che volano
- Socrate corre e Socrate non corre, dunque gli asini volano.
In effetti Dante e Guido stavano pensando ad altro, più addormentati che
svegli.
Sì, fa specie e rende il giudizio amaro e negativo pensare a due giovani, peggio
ancora perché non più giovanissimi, che se ne partono da casa, con sacrifici
immensi, per andare all'Ateneo più antico del mondo, con tanto di sigillo
imperiale, al puro scopo di studiare dialettica, e che poi invece, al momento di una
dotta lezione dalla cattedra, pensano a tutt'altro e parlano di affari propri. O,
peggio ancora, dormono. Sì, fa brutta impressione.
E tuttavia bisogna capirli. I giovani sono giovani, appunto, anche se si
chiamano Dante e Guido. E si è giovani una sola volta, perbacco. E poi Bologna è
città cordiale e accogliente e alcune donne di varia età, rango e situazione, amano
molto accompagnarsi agli studenti dell'Alma Mater, specie ai meno sbarbatelli,
specie a quelli che vengono da fuori e hanno parlate garbate e piacevoli. Ora,
Dante e Guido, quanto a parlantina, belle maniere, modi, garbo e finezza, quanto
a voce accattivante e gradevole (se un toscano non parla sguaiato, come purtroppo
accade a volte, ha un fascino irresistibile su chiunque), ne avevano da vendere. E
quindi ogni notte, ma proprio ogni notte, si trasformava in festino e..., beh, non
fatemelo scrivere in un libro dabbene.
Ogni sera, a fine lezione, pieni di appunti e di belle idee, i due si
ripromettevano di passare la notte insonne a studiare. Ma bastavano pochi passi
verso la piazza Maggiore o verso la torre degli Asinelli, bastava che si fermassero
a ciarlare con qualcuno, bastava che si fermassero in una qualsiasi delle mille
taverne, bastava anche solo che passeggiassero un poco prima di porsi il problema
non sempre banale del desinare serale, che si trovassero invitati irresistibilmente a
una festa di compleanno, a una festa di onomastico, a una festa per un compagno
in partenza, a una festa per un compagno in arrivo, a una festa per una vincita alla
riffa, a una festa per una buona notizia, a una festa per uno scampato pericolo, a
una festa per l'arrivo di un fratello, a una festa... per nulla. Cercati da tutti, abili
rimatori, abili suonatori, abili narratori, Guido e Dante avevano solo un
imbarazzo: scegliere ogni notte la compagnia.
- Socrate corre e Socrate non corre, dunque gli asini volano - continuava a
salmodiare il maestro.
Veniva da lontano, ma il suo latino era fluido e dotto, anche se il suono era
duro e alquanto sgradevole. Nell'Alma Mater era severissimamente vietato parlare
volgare e dunque era abbastanza facile conversare tra allievi e maestri in latino,
anche se questi ultimi erano stranieri, purché fosse fuori dalle ore di cattedra.
Durante la lettura, nessuno nessuno nessuno avrebbe potuto neppur concepire di
interrompere. Ma dopo, fuori, sì.
Per un momento, ma solo per un momento, Dante aveva ascoltato l'incredibile
frase del maestro.
- Ma che dice, che sta dicendo secondo te? Ma parla sul serio, o lo dice solo
per creare attesa? - chiese, rivolgendosi sottovoce a Guido.
- Chi? Teresa? Ancora? No, dài, che oramai ci conosce bene tutti e due rispose Guido, evidentemente interpretando male la domanda di Dante.
Dante si mise a ridere. Stavano ripiegati sotto il rotolo degli appunti; se fossero
stati sorpresi a parlare, o peggio ancora a sonnecchiare o a ridere, sarebbero stati
immediatamente espulsi dall'aula; c'erano vigilanti appositamente stipendiati che
avevano esclusivamente questo compito: osservare gli scolari, sorprenderli
disattenti e castigarli duramente.
- Ma che Teresa e Teresa, va' al diavolo, ho detto attesa - disse Dante, tra le
risate.
La sera prima erano stati dal Biggi, anche lui toscano, di Figline, benestante
studente di giurisprudenza, figlio di un famoso notaio e allievo dei glossatori di
Bologna, amici intimi del padre. Era talmente ricco che aveva potuto prendersi
una casa tutta sua in via degli Orefici, proprio vicina al palazzo di Re Enzo, a
pochi passi dall'Università e da piazza Maggiore. Quando dava feste lui, almeno
due tre al mese, riempiva la casa di ogni ben di dio, così i più poveri scolari
facevano all'un tempo festa e cena (e si riempivano le saccocce per i due tre giorni
a venire). Riempiva la casa anche di musici, giullari e donne disponibili. Per non
far adirare i vicini (c'è sempre un vicino odioso che tu disturbi quando sei allegro,
perfino a Bologna), li invitava tutti; e così, dopo un po', non più la sua sola casa,
ma tutta la strada era imbandita ed era tutta una festa, dalla piazza della
Mercanzia al palazzo-carcere di Re Enzo, figlio dell'imperatore Barbarossa. Una
volta che le guardie notturne accorsero per farli tacere, i bei modi e le divertenti
facezie di Guido e Dante avevano trasformato le perfide guardie in nuovi allegri
festaioli complici, conquistandosi una fama imperitura per la quale ancora
venivano additati.
La sera prima, dunque, erano stati ancora dal Biggi ed era stata festa grande,
dal crepuscolo a mezz'ora prima della lezione; per cui, ancora mezzi sbronzi,
assonnati (non dormivano oramai da settimane un sonno normale), si erano
precipitati a lezione. Avevano fatto di tutto: mangiato, bevuto, cantato, suonato, di
tutto, di tutto.
- Socrate corre e Socrate non corre, dunque gli asini volano.
"Oh dio, ancora questo che dice di Socrate e degli asini, e che io non capisco".
Mentre Guido era totalmente e irrimediabilmente rintontito, ma all'apparenza
vigile e attento, tanto da sembrar prendere appunti di quando in quando, Dante si
propose di ascoltare, preso da un improvviso pentimento.
Il maestro parlava di contraddizioni, di vero e falso, di deduzioni, di assurdi...
Tutte parole che, prese una per una, dicevano tanto a Dante, che la dialettica la
stava studiando sul serio, e che stava impadronendosene davvero, scherzi a parte.
Ma insieme, oh dio, lo sforzo appariva sì grande da non poterlo affrontare con la
testa ancora ebbra e una fatica fisica sopportata tutta la notte, quella che al
mattino ti fa dolere i fianchi, verso il centro della schiena, e la parte alta esterna
delle anche.
Eppure l'argomentazione era interessante. Ogni tanto coglieva una citazione.
Tra l'altro, a voler peggiorare un poco le cose, il maestro era lontanissimo e lui
sentiva a malapena. Certo, non c'era alcun rumore e l'unico dominante era il
crepitio degli stili sui rotoli stesi. Ma ci sentiva a malapena.
Il maestro citava famosi dialettici, ma anche Cicerone e Quintiliano, chissà poi
perché. Poi uno Scoto, un certo Giovanni, Pietro (pronunciando il cui nome
s'inchinava, essendo stato papa fino a poco prima); gli sembrava anche di sentire a
volte il nome di Anselmo, di Tommaso, ma non ci avrebbe giurato.
Non c'era intervallo, a quei tempi: la lezione aveva durata indeterminata e il
maestro ripeteva e ripeteva le stesse parole, leggendole o a memoria, anche
quattro, cinque, sei volte e più.
Per cui, quando d'improvviso il maestro cessò di parlare, Dante tirò un sospiro
di sollievo e diede una forte gomitata a Guido. La mattina era finita, dovevano se
possibile mangiare un boccone e poi tornare in un lampo a lezione.
Assonnati, frastornati dalla nottata, che si sommava alle tante precedenti, i due
si sedettero sugli scalini di San Petronio (non era, la loro, un'idea originale: quasi
tutti gli studenti erano lì) e ricordarono che avevano le saccocce piene di cibi
portati via dalla casa del Biggi la notte prima. Mangiarono roba varia, tutta
fredda, e pane, si dissetarono alla fonte che allora stava in piazza vicino al palazzo
dei Notai e, troppo stanchi per girovagare qua e là, come sempre facevano gli altri
giorni, stravaccati per terra, tentarono di riposare.
Nel tormentato dormiveglia furono svegliati da una pedata; sussultarono e
riconobbero una guardia:
- Non tenete, in questo luogo di passaggio di dame e fanciulli, questo
comportamento indecente, specie se, come credo, siete scolari dell'Alma Mater;
non vi si confà.
Si alzarono, si rassettarono, bofonchiarono qualche parola più o meno di scusa,
ma non c'era nulla da dire: era assai disdicevole sdraiarsi per la piazza, con la
corta veste primaverile. La guardia aveva perfettamente ragione.
In quel momento, proprio in quel momento, il maestro di dialettica stava
passando accanto a loro e li stava guardando con un sorriso di difficile
interpretazione.
Lo salutarono in latino con enfasi, inchinandosi più volte, come era d'uopo fare
con un maestro.
- La guardia vi ha sgridato, eh? - disse in volgare il maestro.
- Beh, sì, aveva ragione - rispose più pronto Guido. E poi:
- Ma voi parlate volgare?
- Siamo fuori dall'aula, nevvero?
- E dove, come l'avete appreso?
- Da molti anni frequento la penisola italica e ne conosco diversi luoghi, da
nord a sud.
- E conoscete pure la Toscana e Firenze, la nostra patria?
- Ah sì, eccome, la più bella città d'Italia. Certo, gente difficile, ostile.
- No, non dite così. Siamo un po' difficili ad aprirci, ma poi affabili. E allora i
pisani?
- Quelli non so, non saprei. Eravate a scuola questa mattina?
- Certo, Maestro - disse rapidissimo Dante, facendo percepire la "m"
maiuscola - Socrate corre e Socrate non corre, dunque gli asini volano.
- Ah bravi, bravi. Ora vado.
- No, Maestro, per carità. Vi volevamo parlare appunto ed è la sorte che vi ha
fatto passare di qua - disse rapido Dante, non volendosi far scappare l'occasione.
- Che c'è, che volete? Che posso fare per voi?
- Maestro, alcune delle vostre dotte frasi non giungevano ai miei orecchi a
causa della lontananza. Ora io ho di conseguenza delle lacune che vorrei colmare.
Che ne dite se questa sera, al crepuscolo, vi infastidissi qualche istante e vi
rubassi pochi momenti per porvi domande che mi potessero chiarire alcuni punti?
Era stato ancora Dante a parlare. Guido lo guardava sorpreso: com'è possibile
che Dante, nel suo dormiveglia nel quale non faceva altro che nominare Teresa,
avesse capito anche solo una parola del maestro? E che cos'era quella storia di
Socrate e degli asini che volano?
- Va bene, sì, ti accontenterò - disse subito, inaspettatamente, e con infinita
affabilità il maestro. - Alla fine della mia lezione, qui, anzi no, in un luogo più
appartato, dietro la fonte del Delfino (che ora non c'è più a Bologna).
E se ne andò.
- Cos'è questa storia di Socrate, e tu che ne sai? E ci andrai tu
all'appuntamento, io ci ho un sonno che muoio, andrò a dormire appena posso contestò Guido.
- Sai, è una cosa interessante e voglio approfondirla. Veramente non ho
domande da fare sulla lezione di stamani, non ci ho capito nulla. In realtà, tenterò
di farmi spiegare tutto daccapo.
E andarono a lezione di filosofia morale, Dante molto più sveglio e attento,
Guido distrutto dal sonno.
All'uscita dalla lezione, davvero Guido aveva tutta la ferma intenzione di
andare per una volta a dormire presto, a casa loro (casa: una stanza in una vecchia
soffitta piena di ragnatele e muffa, condivisa con altri due studenti, stranieri di
Alemannia, simpatici, al quarto piano, con lavabo e cesso però in comune con
tutto il palazzo nel cortile a piano terra, all'aperto) che avevano trovato a bassa
pigione, però piuttosto distante, più o meno dove inizia tuttora la salita del
Meloncello, allora fuori città.
Ma il Leoni, un veneto birbantello, sempre allegro e spiritato, studente anche
lui di dialettica, li fermò con altri:
- Stasera tutti a casa mia, specie voi due. Non ammetto discussioni. Sarete gli
eroi della festa. Vino a volontà. Indovinate chi mi ha chiesto di voi due? La Sara,
quella che vende il latte, e ci sarà anche la sua amica, quella biondina che voi due
conoscete bene. Hanno chiesto espressamente di voi.
- No, guarda, stasera no - rispose pronto Dante. - Io ci ho un impegno già preso
e lui - indicando Guido - non sta più in piedi dal sonno.
- Tu pensa per te - fece invece inaspettatamente Guido, con fare faceto,
risvegliatosi d'improvviso. E poi, rivolto a Dante: - O te la ricordi l'amica della
Sara, quella bionda? Te la ricordi o sei grullo? Se te la ricordi e non vieni i casi
son due: o sei grullo pe' davvero o hai fatto il salto della sponda e sei passato
dall'altra parte.
Risero tutti.
- Ma come fo, come fo ora? Ho preso l'impegno col maestro.
- Beh, fai come ti pare, io t'aspetto. E ricordati: non solo io - disse il Leoni, e
se ne andò con tutti gli altri.
- Dài, va' dal maestro, ponigli una domanda, lui ti risponde e via, raggiungici
costà. No? Non si può fare così? - chiese Guido.
- Sì, va bene, hai ragione. Farò così - e ognuno se ne andò per la sua strada.
Dante raggiunse il luogo dell'appuntamento nello stesso preciso istante del
maestro:
- E dov'è il tuo amico? - domandò questi.
- Maestro, il vero interessato sono io. Guido, il mio compagno, è andato ad
altro appuntamento.
- Bene. Troviamo dove appoggiarci e ponimi le domande che vuoi.
- Sì, Maestro; ma che significa appoggiarci? Dove volete andare?
- Dove ci si possa sedere. Mica si può parlare di dialettica all'impiedi, no? Non
ti preoccupare, offro io.
E Dante, giovane, capì tante cose: che i maestri sono persone normali, che
sanno stare al mondo, che vanno in taverna a bere, che sanno parlare a un giovane
anche se sono scienziati o filosofi famosi.
In breve furono nella taverna dell'Orsa, a quell'ora piena di studenti. Dante non
sapeva se essere felice o no, nel caso d'esser visto e riconosciuto dai suoi
compagni. Da un lato, valeva pur sempre quel minimo d'orgoglio di mostrare che
un maestro accetta la tua compagnia; ma dall'altro la solita paura che hanno i
giovani di passare, agli occhi dei pari, per dei saputelli o degli sgobboni o dei
leccapiedi.
Due minuti dopo, sorseggiando vino nero frizzante e spumosissimo che pareva
proprio Lambrusco amabile importato da Modena, Dante aveva già dimenticato
ogni timore e stava allegramente parlando di sé al maestro.
- Ah, poeta dunque? Bene. Ingegnati, che la nuova lingua vostra ha bisogno di
trovare una parlata elegante e colta, dotta come era il latino, lingua moribonda,
ormai.
- Maestro, che dite mai? Che non vi sentano.
- Ah, ma io mica sono un chierico, mica sono ordinato. Io sono un cittadino
libero.
- Dunque, non avete i voti?
- Ma nemmeno per sogno. Disprezzo i preti, i cardinali, i vescovi, i papi.
Quando sono in cattedra, accetto le loro condizioni, ma fuori di là torno ad essere
me stesso. Odio le loro falsità, le loro menzogne, le loro doppiezze. Pecca, pecca
pure, cattolico, che tanto dopo c'è la confessione che ti purifica. Che squallide
persone. Si consacrano a Cristo e alla Madonna, puri fin sulla punta dei piedi, e
sono lenoni e pedofili, amano la gente del proprio sesso e frequentano le
prostitute. Tutto, purché sia fatto di nascosto, che non nuoccia all'immagine della
chiesa. Gozzovigliano e s'ingrassano, superbi, lussuriosi, avari e pieni di invidie.
Ipocriti. La gola, per loro, non è un peccato, ma una virtù. L'accidia un vanto.
Dante era stupefatto; mai aveva sentito parlare così apertamente di quel che, in
fondo in fondo, lui stesso e molti altri pensavano. Erano tempi duri, quelli, per la
chiesa cattolica. Era affascinato da quell'uomo. E avevano già bevuto una fiasca
intera.
- Dài, fammi ordunque le domande che devi.
- Maestro, sì, grazie. In realtà non ho capito molto. Che vuol dire la storia di
Socrate e degli asini?
- Oh, dio, e dov'eri a lezione? Dunque, prendi come premesse... Sai che vuol
dire premesse? Hai studiato le mie lezioni precedenti? Hai studiato Pietro? - e,
questa volta, non fece alcun inchino.
- Sì, sì Maestro, non mi umiliate. Ho studiato, so che cosa sono le premesse, le
conclusioni, i sillogismi.
- Ma che sillogismi, qui i sillogismi non c'entrano punto - disse con un
toscanismo appreso chissà dove; e Dante si sentì a casa.
- Allora; come premesse prendi contemporaneamente Socrate corre e Socrate
non corre.
- Perdonatemi, Maestro, se vi interrompo. Ma come posso prendere due
premesse che sono una la negazione dell'altra? Aristotele...
- Lascia stare Aristotele e seguimi. Hai ragione, prendere come premesse due
proposizioni che siano l'una la negazione dell'altra è sciocco e fallace, ma si tratta,
appunto, di quel che ti voglio mostrare: perché è sciocco e in che senso fallace.
Tu, per ora, prendile e basta.
- Sì, Maestro, prendo come premesse Socrate corre e Socrate non corre.
- Bene. Se sono premesse, sono entrambe vere.
- Maestro, non ce la faccio. Se sono una la negazione dell'altra, come possono
essere entrambe vere. Aristotele...
- Come ti chiami? - chiese d'improvviso il maestro.
- Dante, Dante degli Alaghieri.
- Bene. E tu non saresti il poeta? Non hai il coraggio di immaginare, di fingere,
di sognare? Aristotele ti ha dunque rimbecillito? Se lui enuncia il suo principio, tu
non puoi enunciare il tuo? Tu, ora, di fronte a un bicchiere di Lambrusco dici:
Socrate corre e Socrate non corre sono entrambe vere, in quanto entrambe
premesse. Così voglio io, Dante!
- Sì, Maestro. Adesso capisco. È come quando in geometria si fa un
ragionamento per assurdo.
- Va beh, mettiamola così. Ci siamo, allora?
- Sì, Socrate dunque corre; ma Socrate pure non corre. Entrambe vere.
- Bene. Ora prendi un'assurdità, quella che vuoi.
- Non so, Maestro.
- La cosa più assurda che ti venga in mente. Io direi: Dio esiste, ma non si può;
gli antichi concepirono: gli asini volano. Ti pare abbastanza assurda?
- Sì, Maestro, assurda quanto basta.
- Ora dimostriamo che se si assume Socrate corre e anche Socrate non corre,
gli asini volano davvero. Sei pronto?
- Oh, dio, maestro, sì.
- Dobbiamo dapprima dimostrare che:
(Socrate corre e Socrate non corre) implica (gli asini volano), quella che si
chiama implicazione materiale, o di Crisippo, del tipo: premessa implica
conclusione.
Ma questo equivale a dire, come mostrarono gli antichi, come conferma lo
Stagirita e come trovi in Pietro:
non premessa vel conclusione.
Nel nostro caso dunque:
[non (Socrate corre e Socrate non corre)] vel (gli asini volano).
Ma tutti sanno, e Pietro spiega, che:
[non (proposizione prima et proposizione seconda)] equivale a [(non
proposizione prima) vel (non proposizione seconda)].
Dunque, nel nostro caso è:
(Socrate non corre) vel (Socrate corre) vel (gli asini volano)che è vera perché
contiene un vel tra due proposizioni che sono una la negazione dell'altra, come il
Maestro di color che sanno dice e come Pietro conferma.
Dunque:
(Socrate corre e Socrate non corre) implica (gli asini volano)è vera. Ma questo
ancora non ci dice che gli asini volano sia vera.
Applichiamo ordunque la regola di modus ponendo ponens, che Aristotele
precisa e Pietro spiega; abbiamo:
premessa implica conclusione
e
premessa ammessa come vera,
dunque
conclusione vera.
Gli asini volano davvero, dunque!
Ci hai capito qualche cosa?
- Come qualche cosa? Perfettamente tutto. E come. Dunque, Maestro, se ho
capito bene, io posso dimostrare qualsiasi cosa, qualsiasi cosa - diceva Dante
eccitato.
- Se le due premesse sono contraddittorie tra loro, beninteso.
- Sì, certo, l'ho capito bene. E questo allora è molto più forte di quel che dice
Aristotele, il principio del terzo escluso.
- Certo, quello è un principio, necessario finché vuoi, ma pur sempre un
principio. Questa è una dimostrazione.
- Maestro, e chi è quel genio che ha trovato questa dimostrazione così chiara?
- Non si sa, avvenne alcuni decenni fa. La si attribuisce ad uno Scotto, ma c'è
anche chi dice fu Giovanni di Cornovaglia, spirito fine. Chi lo sa?
C'è dunque chi dice Scotto; c'è chi dice Giovanni; c'è anche chi dice
Anselmo... Così come c'è chi dice che il maestro di dialettica, quella notte,
gozzovigliò con Dante, più di Dante e Guido, rubando loro la biondina amica
della Sara e mostrandosi più goliardo di tutti i goliardi.
Di certo, non si sa nulla più. Solo che Dante non dimenticò la lezione e la fece
sua quando dovette scrivere, in Paradiso, sulla conversione di Giustiniano a opera
di Agapito (papa dal 535 al 536):
Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era,
vegg'io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizion e falsa e vera.
Altro che principio aristotelico del terzo escluso. Qui si tratta di convincere,
con una dimostrazione, non con un principio che ne sostituisce un altro.
8
Pitagora e l'armonia
Era una notte buia e tempestosa.
Mantova, ma la Lombardia tutta, era scossa da fulmini, tuoni, lampi, mentre
una pioggia mai vista prima riempiva rapidamente il Mincio e questo minacciava,
come spesso accadeva e accade, di tracimare prima e stramazzare poi nelle
campagne.
Pietole Vecchia era tutta un fango e la potenza protettrice del grande Publio
Virgilio Marone non bastava certo ad arginare eventuali flutti.
La taverna vicina al cippo, quella famosa del luccio in salsa, era piena di gente
e di fumo come non mai, come se gli uomini dei dintorni avessero deciso di darsi
reciproca solidarietà nell'attesa degli eventi: inutile, dicevano, fingendo molta
serietà, starsene ognuno nella propria dimora a opporsi per conto proprio agli
eventi, meglio era far fronte comune al problema di tutti. Le donne e i figli a casa
soli, in pericolo? Più protetti così che con ciascun uomo a casa.
Di fatto, tutto ciò era un pretesto vigliacco per passare la notte intera in
taverna, con la gratitudine addirittura delle consorti per il sacrificio della veglia
notturna, sperando nel miracolo di uno scampato pericolo alla fine. L'oste
continuava a servire, oltre al pane, quel Lambrusco mantovano duro, rugoso,
nero, che si mette nel "sorbir d'agnoli", nel luccio cucinato in mille modi, accanto
al formaggio misto pecorino e bovino; ogni riserva dell'oste stava per finire, ma la
notte era oramai piena e all'alba, in un modo o nell'altro, ciascuno sarebbe dovuto
rientrare a casa sua.
Dante e Guido erano in quei giorni delegati a Mantova e avevano deciso di
rendere omaggio al grande Poeta andando a cenare nella sua località natale; le
prime poche gocce di pioggia non li avevano impressionati per nulla, mentre
lasciavano Mantova, ma poi l'acquazzone, meglio la tormenta, li aveva costretti a
passare la notte fuori: nessun carro, nessuna carrozza avrebbe affrontato
nottetempo quel fango, e rientrare a piedi di notte era troppo pericoloso.
Dunque, con vari bicchieri di quel particolare Lambrusco, luccio cucinato in
vari modi, formaggio e pane (i prezzi erano incredibilmente bassi), Dante e Guido
stavano allegramente passando la notte, in una compagnia ciarliera e rumorosa,
tra canti e risate.
Spinto da un bisogno improvviso, però, Guido dovette uscire a cercare nel
fango e nell'acqua un luogo abbastanza appartato per restituire alla natura parte
dei liquidi.
Uscì, coprendosi alla bell'e meglio la testa, girò a destra, era già fracido dopo
un istante, e si appartò dietro l'angolo della casa stessa; dopo un minuto era già di
ritorno, molto soddisfatto; rientrava lento, tanto oramai era bagnato dalla testa ai
piedi. Ma sulla porta, o meglio, un passo prima, si stagliava contro la luce
dell'interno una figura nera di donna avvolta in uno scialle pesante.
- Ehi, ma che fate, vi bagnate tutta, entrate o correte a casa - le suggerì Guido.
- Non m'importa di bagnarmi - disse la donna con fare e voce molto gradevoli.
Guido cercò di vederle il volto, ma era impossibile in quel buio. - Sto cercando
uomini dabbene, ma non ne vedo qui e non so più dove cercare, questo è l'unico
luogo illuminato.
- Uomini dabbene? E per quale scopo? - chiese Guido, aggirandola verso la
porta per costringerla a porgere il volto alla luce.
Ci riuscì: la donna si voltò infatti, per parlargli mirandolo in volto, e la luce
che emanava dall'interno la illuminò, infine. Guido trasalì: era una giovane molto
avvenente, dai modi fini e dalla carnagione chiara, con profondi occhi scuri e un
nasino dolce leggermente e piacevolmente pronunciato, labbra carnose e zigomi
appena appena sporgenti: una visione paradisiaca in quella notte d'inferno.
- Ho un problema in casa - e si girò, indicando con il braccio teso un vecchio
edificio a poca distanza. - La pioggia ha abbattuto una veranda e ora ci riempie la
casa; mia sorella e io abbiamo provato ad arginarla, ma ci vuole la forza di un
uomo o forse di due. Ma qui dentro sono tutti ubriachi e temiamo, chiedendo
aiuto, per la nostra incolumità.
- Non tutti sono mascalzoni e non tutti sono ubriachi. Ma non avete uomini in
casa?
- Nostro padre è in viaggio a Cremona e rientra tra due giorni; è partito con i
nostri fratelli per una faccenda di legname e noi siamo sole da ieri. Nulla faceva
presagire questo disastro, altrimenti...
Guido, spudorato, le chiese:
- Vostra sorella è maggiore di età?
- Oh, no, mi è inferiore di due anni. Ma perché questa domanda tanto strana?
Che c'entra? Che mi volete dire?
Guido gongolava, immaginandosi già chissà cosa, ma rispose compunto
fingendo quasi indifferenza:
- No, solo per sapere. Bene, aspettatemi qui, chiamo il mio compagno di
viaggio e siamo da voi.
- Aspettate messere, voi mi sembrate persona degna, ma non siete di qui, la
vostra parlata è rara.
- Sì, infatti: il mio compagno e io siamo fiorentini, sapete di dove?
- Certo, della Toscana, dopo Bologna, ma prima assai di Roma, sull'Arno. E i
vostri nomi, messere?
- Io - disse inchinandosi - sono Guido, Guido Cavalcanti; il compagno mio si
chiama Dante degli Alaghieri. Veniamo, dunque?
- Signore, se non avessi necessità assoluta non vi darei disturbo.
- Madame - disse per far colpo (e si rese conto di aver fatto centro) - anche a
nome del mio compagno già vi dico: sarà un piacere aiutare voi e la vostra
sorellina minore - e con un balzo, bagnato fradicio, fu dentro; interruppe Dante
che stava chiacchierando con un tale sulla differenza tra la coltivazione del riso in
Piemonte e nel mantovano, gli raccontò tutto, pagarono l'oste e uscirono, nella
sorpresa di tutti che li invitavano a non fare follie con quell'acqua.
Rapidamente, tutti e tre di corsa raggiunsero in breve la casa, infangati
dappertutto, bagnati come mai prima; il buio pesto era appena illuminato solo
dalla oramai fioca luce proveniente dall'interno della taverna.
La donna spinse il portone che, evidentemente, era stato lasciato socchiuso, ed
entrarono; buio, anche lì. "E la sorella, al buio?" pensò Guido.
La donna accese una fiaccola e si fece un po' di luce, piuttosto fioca, che non
riusciva neppure a illuminare tutta la stanza.
- Ma dov'è la falla - chiese Guido - che non la vedo?
- Oh, è di là, signore, nella stanza di mia sorella, venite.
E la donna, presa in mano la fiaccola, fece loro strada. Passarono un'altra
porta, un lungo corridoio, entrarono in un'ampia stanza con un grande camino
spento e s'avviarono verso un'altra porta; già si sentiva uno scrosciare forte, come
se al di là, invece di una stanza, ci fosse stata una corte. E furono nella stanza
della veranda che aveva ceduto, piuttosto grande, un letto scuro in un angolo,
praticamente sotto una pioggia scrosciante.
Dante e Guido si guardarono: che fare? Nessuno dei due aveva dimestichezza
alcuna con lavori vili, Guido poi... In qualche modo, però, decisero di intervenire;
Dante per puro altruismo - oramai era lì - Guido sperando poi in una ricompensa
di qualsiasi tipo. ("Ma la sorellina, dove diavolo sta che non la vedo?").
Riassestarono la parte rotta e posero un diaframma verso l'esterno, ma non
reggeva la violenza degli scrosci; spostarono allora un armadio che pesava più
delle colonne del tempio dei Filistei, e ciascuno d'essi si sentiva Sansone.
L'armadio fece forza abbastanza per sostenere un grande pannello di legno che
chiudeva finalmente tutta la falla e l'acqua smise di entrare. Certo, per terra era un
lago, ma già la giovane donna aveva riunito stracci e segatura e stava
raccogliendo l'acqua dentro due o tre secchi. Guido e Dante si guardarono in volto
e si chinarono per aiutare. Poté più la segatura (ce n'era tanta in quella casa, ma
già, gli uomini erano a Cremona per faccenda di legno, dunque dovevano essere
falegnami o costruttori) che gli stracci; mentre erano così sdraiati a terra, Guido
chiese:
- Signora, non mi avete ancora detto il vostro nome.
Sembrava quasi un'accusa, come dire: con tutto quel che stiamo facendo qui
per voi, mi piacerebbe entrare un po' più in intimità.
- Oh, signori, come mi dispiace di questa indecorosa scorrettezza - si rizzò in
piedi, si asciugò le mani alla veste e disse: - Mi chiamo Laura, sono nata a San
Benedetto Po. E questa - indicando con il braccio destro nell'angolo del letto - è
mia sorella Pina, detta Pinuccia, nata invece a Mantova.
Sorpresi, Dante e Guido si voltarono all'unisono, ma nulla videro, se non la
massa oscura del letto: la luce non arrivava a rischiarare fin là. Udirono però una
voce gradevolissima che disse con allegria:
- Signori gentili e affabili, vi ringrazio molto di quanto avete voluto fare, e con
tanto sacrificio, per Laura e per me.
Guido, spudoratamente, prese in mano la lampada e l'avvicinò all'angolo dal
quale saliva la voce e vide, infatti - videro entrambi - che nel letto giaceva
coricata una fanciulla dal viso dolce e lunghi capelli neri, bianchissima in volto.
- Fu un piacere, per noi - disse Guido;
- Siamo incantati di conoscere due fanciulle così avvenenti, anche se in così
curiose circostanze - confermò Dante, e già Guido s'era avvicinato all'orecchio di
Laura e le chiedeva a voce bassa:
- Ma che, è inferma?
Prima che Laura potesse rispondere, Pinuccia, che aveva sentito, rispose al suo
posto:
- Oh sì, signor mio, inferma. Inferma dalla nascita o quasi, quando un male
perfido mi prese le gambe e le anche. Non posso camminare, signore, neppur
reggermi in piedi, signore, ma non ho perso l'uso delle braccia, delle parole e, se
mi posso permettere, soprattutto l'uso dell'intelletto.
L'aveva detto con disprezzo, con forza, con ironia, con coraggio, con
determinazione, con sfida, con sollecitudine, con consapevolezza, con
disperazione, con ira, con decisione, con rabbia, con distacco, con tutte quelle
contemporanee doti e risorse necessarie, in casi e persone come queste, a trovare
la forza di vivere, invece che di sopravvivere.
Dante s'avvicinò a Pinuccia e si sedette sul bordo del letto, prendendole una
mano con tenerezza:
- Permettete, dolce Pinuccia? Ho avvertito nella vostra voce e nella
determinazione della vostra asserzione molta rabbia e molto dolore, ma anche
tanta risolutezza, per la quale vi ammiro. Scusate se mi permetto, come un vostro
padre, o come fratello maggiore almeno.
Guido era furioso, non tanto per la situazione, quanto per le parole di Dante
che davano, in un colpo solo, tutt'un altro senso a quell'incontro che, per lui,
avrebbe dovuto avere solo la direzione sperata fin dall'inizio.
- Messer Dante, grazie per le vostre parole. Sarete stanco, siete fradicio, come
facciamo?
- Non importa; se qui c'è un camino - e si guardò attorno - potremmo
accendere un fuoco per eliminare non solo l'umidità mia, ma quella di tutta la
stanza.
- Sì, sì - disse Laura - un camino c'è. Se messer Guido mi aiutasse a portar qui
legna secca... La teniamo nel...
- Certo! - Guido era già in piedi, felice all'idea di appartarsi un po' con Laura, e
uscirono insieme.
In pochi minuti il fuoco schioppettava, Guido era tornato allegro, Pinuccia
sembrava allegra di suo, senza altri motivi contingenti, Dante era imbarazzato.
- Laura - si rivolse Guido alla ragazza - quando v'ho chiesto di Firenze mi
avete dato mostra di grande competenza geografica. Come avete queste nozioni,
avete viaggiato, come noi due, o studiato?
Laura guardò Pinuccia ed entrambe sorrisero.
- No, nessuna di noi due ha viaggiato, viaggiato per davvero - rispose Pinuccia.
- Laura sempre s'è dedicata a me, specie dopo la morte della mamma. Però molto
abbiamo viaggiato con la mente. Mio padre, nostro padre, è abbastanza facoltoso
per potersi permettere di dare ai suoi figli, a tutti, maschi e femmine, una certa
cultura. Da Mantova, e per anni, vennero vari maestri privati in casa, e dettero
lezioni di tutto a tutti noi. Ma Laura e io abbiamo proseguito, leggendo - e la
sorpresa di Dante e Guido fu grande: donne che spontaneamente leggevano,
andando contro le leggi e le consuetudini, e che lo dicevano senza tema,
espressamente - e cercando altri maestri, sempre più specializzati. Messeri, vi
vedo stupiti, perché?
- No, non stupore per voi - e il fuoco schioppettava allegramente e un certo
calore si cominciava infine a diffondere per la stanza - ma per la situazione e per
quel che ci dite. Da noi, la maggior parte delle donne rifuggono i libri e ci sono
chierici, cardinali e papi che condannano la lettura delle donne. Se vi sono donne
che leggono, ma rare, sono alte nobildonne, di tale lignaggio, che non temono le
ire clericali; mai ci era capitato...
- ... di incontrare donne di basso livello sociale, contadine infine, in grado di
leggere?
- Perdonatemi, Pinuccia, perdonatemi Laura, ma lo confesso: la mia risposta è
sì. Ma non tanto perché siete in grado di leggere, bensì perché ne avete il gusto
riservato ai dotti, maschi, per lo più.
- Ebbene, per quanto giovani, ciascuna di noi ha deciso di impratichirsi in
qualche disciplina. E così Laura ha optato per musica e astronomia, ma con
grande impegno anche nello studio dei fatti storici, della dialettica, della
grammatica e della retorica, nonché della geografia. Io, Pinuccia, ho preferito la
geometria e l'arismetrica, ma anch'io sono attratta dagli studi di dialettica, che
quindi condividiamo.
Mentre Pinuccia parlava, Laura si era alzata, aveva aperto il grande armadio
che Dante e Guido avevano spostato con tanta fatica e che ora proteggeva tutti
dalla pioggia esterna, e ne aveva tratto una brocca di terracotta e tre piccoli
bicchieri di vetro, molto raffinati; aveva appoggiato tutto sul tavolo al centro della
stanza e servito un liquore, distribuendo a tutti, tranne a Pinuccia, un bicchiere.
Mentre Dante e Guido sorseggiavano quella delizia (sembrava liquore di limone,
come potrebbe essere il moderno limoncello), Laura s'avvicinò a Pinuccia, le
sollevò la testa, e le fece sorseggiare il liquore.
- Voi non bevete? - chiese Guido a Laura.
- Oh, no, per me è troppo forte. Lo faccio io, perché Pinuccia lo gradisce
molto, però lo nascondiamo ai fratelli - ridendo un po' - perché fan tanto i maschi
virili prendendoci in giro per il nostro infuso, ma quando possono lo bevono e ce
lo finiscono in un lampo.
E Laura e Pinuccia sorrisero, con immensa benevolenza.
- Dunque - fece Dante - arismetrica? E che cosa avete studiato recentemente,
se mi è permesso chiedervelo? Vedete, amo la stessa disciplina pure io.
Ma prima che Pinuccia potesse rispondere, Guido già stava protestando:
- Dio no, ancora arismetrica, ma che sfortuna.
Si formò, nel giro di pochi istanti, una partizione dei presenti in due gruppetti:
Laura e Guido si avvicinarono al fuoco e si misero a parlare di non si sa che, fitti
fitti sottovoce; ogni tanto si coglievano degli "Oh no", pieni di stupore o di finta
ritrosia, e dei "Ma che dite, Guido?", di Laura; mentre Dante si manteneva seduto
sulla sponda del letto di Pinuccia e si misero a parlare anch'essi fitti fitti di
arismetrica.
- Che ho studiato ultimamente, mi chiedevate? Oh, tante cose, in
continuazione. Ma se volete saperlo, ho ricevuto qui a casa, proprio dov'è ora il
vostro compagno che sta corteggiando mia sorella, Anselmo di Cortona, il
matematico che certo conoscerete, amico dei Gonzaga, che mi fanno l'onore di
venirmi a trovare, di quando in quando. E lui mi ha raccontato di una scoperta di
Pitagora che molto mi ha affascinato e che ancora porto nel cuore e mi fa
sobbalzare l'intelletto dalla meraviglia.
- Mi incuriosite, Pinuccia - Dante le strinse forte la mano: era affascinato dalla
forza di quella creatura; ah, l'avesse conosciuta prima, chissà se la sua teoria delle
fanciulle avrebbe avuto sorte diversa. - Ditemi, ordunque, non tenetemi così sulle
spine.
- Bene, guardate in quello stipetto, prendete calamaio e stilo e stendete il rotolo
e scrivete e fate quel che vi dirò.
Dante eseguì in fretta e lanciò un'occhiata agli altri due; Guido parlava
all'orecchio di Laura e questa faceva la ritrosa: tipica situazione d'abbordaggio
nella quale aveva visto Guido, maestro, trionfare più volte. Chissà chi dei due sarà
alla fine più felice, lui o io? Poi tornò a sedersi sul letto e avvicinò il lume per
vedere meglio.
- Ora seguitemi e disegnate un punto che dovete pensare come una monade
pitagorica, essenza stessa dell'unità.
Dante disegnò:
•
- Così va bene?
- Sì, proprio così volevo. Che numero rappresenta?
- Non so che cosa volete dire, Pinuccia, ma la risposta che mi sale spontanea è
uno.
- Così è. Dunque: uno. Che è il primo numero dispari. Ma uno è anche il
numero quadrato di uno stesso, nevvero? Conoscete l'operazione di elevamento a
potenza, avete letto Archimede?
Che rabbia! Nessuna storia, nessuna cronaca riporta la risposta di Dante, così
che ancora permane il dubbio se Dante abbia o no letto direttamente quel poco
che si aveva allora di Archimede.
Dunque non sappiamo che cosa rispose Dante, ma sappiamo che, nella scuola
d'abaco da lui frequentata, si era trattata la questione dell'elevamento al quadrato e
al cubo, non di più credo.
- E allora - proseguì Pinuccia - pensate a quella monade come al primo numero
dispari e anche come al numero uno elevato al quadrato. Scrivetelo, se potete, per
tenerlo a mente. Ora, usate un colore diverso, lì c'è un doppio calamaio colorato.
Circondate quella monade tutt'attorno, tenendola ferma nel vertice in alto a
sinistra di un ipotetico quadrato di monadi. Mi capite?
- Credo di sì - fece Dante, e disegnò. - Va bene così? - disse mostrandole il
proprio disegno:
- Perfetto, proprio quel che volevo. Che numero avete aggiunto? E che numero
avete ottenuto?
- Ho aggiunto tre e ho avuto in tutto quattro.
- Non vi dice nulla?
- Mi sembra di poter dire, se colgo bene il vostro pensiero, che tre è il
successivo dispari mentre di quattro non so che pensare...
- Pensate, come prima, ai quadrati.
- Oh, bella, quattro è due al quadrato.
- Dunque?
Dunque, e Dante scrisse, ma non sappiamo come, quindi lo scriveremo qui a
modo nostro in forma ingenua:
1 è il primo dispari
12
3 è il secondo dispari
22
- Non mi dire, Pinuccia, che prosegue così.
- Fate la prova voi stesso.
E Dante disegnò:
e disse tra sé e sé, ma facendo sì che Pinuccia sentisse:
- Ho aggiunto uno due tre quattro cinque punti, il terzo dispari - con sorpresa
infinita. - E ora ho nove punti, madonna: tre alla seconda.
E aggiunse a quel che stava scrivendo a mo' di sunto:
5 è il terzo dispari
32
- Bello, non trovate? - fece Pinuccia.
- Incredibile, bellissimo; ma davvero segue così?
E, senza attendere sollecitazioni, disegnò ancora:
Disse ancora, stavolta a voce alta:
- Dunque, sedici che, si vede subito, è quattro al quadrato; ma quanti punti ho
aggiunto? Vediamo: oh, sì, sette, il dispari successivo, cioè il quarto; incredibile.
E scrisse ancora:
7 è il quarto dispari
42
- È proprio vero, funziona.
E si voltò per dirlo a Guido, per comunicargli quella cosa elegante e
sorprendente, ben sapendo però che Guido non si lasciava affascinare da questioni
di questo tipo. Ma Guido non c'era più e, neanche a dirlo, neppure Laura.
Dante si voltò verso Pinuccia, preoccupato che questa s'adombrasse:
- Oh, messere, non vi preoccupate, la purezza di mia sorella non è in pericolo,
sa badare a sé stessa. Qualsiasi cosa vi racconterà domattina il vostro amico
sbruffoncello, non gli credete: Laura non cederà ad alcuna lusinga; ha una lingua
tagliente che smorzerebbe, al momento buono, qualsiasi ardore. Ma so esser
tipico dei maschi, la mattina dopo, non ammettere fallimenti amorosi, nevvero?
E risero entrambi.
- Oh dio, Pinuccia, quanto mi avete mostrato è incredibile, segno definitivo
dell'armonia delle monadi pitagoriche, della perfezione del mondo, della
grandezza degli antichi.
- Vedete voi, come meglio credete, messer Dante. Io preferisco pensare alle
meraviglie infinite della nostra amata disciplina, che pervade tutte le conoscenze,
e che in questo caso si conferma estetica e bellezza.
E così proseguirono, finché durò il buio, dunque per non molto oltre, perché
all'alba, anzi poco prima, quando la pioggia ridusse fortunatamente il suo impeto,
Dante e Guido se ne dovettero rientrare a Mantova perché al mattino presto li
aspettava una delegazione alla quale dovevano fare un'ambasciata politica.
Dante e Pinuccia si salutarono come due amanti e più, avendo condiviso, come
questi, il piacere dell'estasi.
Guido e Laura, un po' più freddi...
Quando il carro, trainato da un vecchio ronzino davvero malmesso, raggiunse
la strada maestra, Dante chiese a Guido, seduto accanto a lui in fondo al carro,
con la schiena appoggiata al fieno, guardando la strada che pian piano
abbandonavano dietro:
- Beh, e com'è andata con Laura? Avvenente, davvero.
- Cristo, non c'è stato nulla da fare. Ero sempre lì lì, ma all'ultimo mi tagliava il
sangue e mi gelava le vene. Ho fatto di tutto. Nulla da fare: mi ha arginato ogni
mossa. Che notte infame, sono ancora tutto scosso dentro, infreddolito più da
quella donna che non dall'umidità. L'avrei amata con tutto il cuore, ma me lo ha
impedito.
E bravo Guido, pensò Dante, Guido sincero.
Ah, quanto gli sarebbe piaciuto dirlo a Pinuccia, che Guido era, in fondo in
fondo, sì un po' sbruffone, ma un vero gentiluomo.
9
Conigli
Era uno degli incarichi diplomatici fra i più difficili degli ultimi decenni, tanto
è vero che la sola discussione sul luogo nel quale andava tenuto l'incontro durò
oltre un anno.
- Saremmo dovuti venirci in armi - diceva Saro, il legato principale,
cavalcando ad andatura ridotta.
Era circondato dai quattro diplomatici che lui stesso aveva scelto e seguito da
una pattuglia che recava i gonfaloni con i colori di Firenze, ma pure, secondo gli
accordi, una bandiera bianca.
- In armi, sì, ma allora con tutti gli eserciti - rideva rispondendo con voce
grossa Lapo, considerato il "falco" del gruppo.
- Otterremo di più così, con una delegazione di pace e cercando un accordo;
d'altra parte conviene a tutti, a noi e a loro - rispondeva Antonello, la "colomba".
Pisa si vedeva già bene di lontano; svettava su tutta la città il chiarore del
Duomo, della Basilica e della Torre e le basse case costruite a est riuscivano
appena a nasconderne solo la parte inferiore.
- Ecco, dovrebbero aspettarci dopo il ponte, quello là - disse Vito.
In quel momento era in testa al gruppo Dante; a un tratto si fermò e avvisò i
compagni:
- Eccoli, li vedo, saranno una decina in tutto.
Saro, il saggio; Lapo, il falco; Antonello, la colomba; Dante, il colto; Vito,
l'esperto. Questa era la delegazione fiorentina giunta alle porte di Pisa per una
discussione all'ultimo sangue: o si risolveva politicamente la questione territoriale
di confine o era, definitivamente, la guerra. Ma sia Pisa che Firenze avevano
problemi interni, e forti, in quel momento, e nessuna delle due voleva perder
tempo e soprattutto danaro in una guerra; d'altra parte, un successo politico, in
quel momento, sarebbe stato opportuno per entrambe le fazioni al governo.
- Salute a te, Saro, e benvenuto a Pisa - disse il capo delegazione di Pisa.
- Salute a te, Ennio, e speriamo che il viaggio non sia stato invano.
Così, con parole di benvenuto, iniziò il lavoro di mediazione politica che durò
oltre un mese e che, si sa, vide il successo delle due delegazioni che trovarono
accordi su tutto il territorio; i litigi furono furibondi, più volte la delegazione
fiorentina minacciò di abbandonare il tavolo delle trattative; più volte Ennio
minacciò tutti i legati fiorentini di morte; più volte Lapo insorse furioso contro i
suoi, inveendo per la loro eccessiva condiscendenza; eccetera, come in ogni
discussione politica, come sempre.
Le cronache raccontano di tutta la questione con ampi dettagli, nomi, fatti e
date; ma nessuna racconta di quel che Dante cercò, in quei giorni, nel pomeriggio,
alla fine dei lavori, rischiando molto avventurandosi da solo per Pisa, dove i
cittadini fiorentini non erano proprio ben visti da tutti.
Due tre giorni dopo l'arrivo, infatti, Dante si mise a uscire tutti i pomeriggi,
avventurandosi nei vari quartieri di Pisa e chiedendo a chiunque incontrasse per la
strada dove si trovasse la casa di Bonaccio, padre di Leonardo, detto il Bigollo.
Ogni tanto qualcuno mostrava di aver sentito questo nome, ma poi nulla, non
si riusciva a trovare.
Ebbe allora l'idea di andare alla notaria pubblica dei commercianti per nave
per chiedere informazioni; dato che Bonaccio era stato commerciante di sete,
spezie e profumi con le coste settentrionali d'Africa, doveva dunque aver
posseduto qualche nave. Gli dissero che sì, che quello era il posto giusto, ma che
le informazioni sugli armatori erano riservate; né Dante ottenne di più offrendo
qualche moneta e spiegando che non stava cercando informazioni commerciali,
ma solo la casa dove avevano abitato a lungo Bonaccio e il figlio Leonardo, morti
oramai da tempo entrambi.
- Sentite, nobile fiorentino, queste informazioni davvero non posso darvele; ma
se aveva navi, e dunque era un armatore, sarà stato vicino al vecchio porto, non ne
convenite? - disse l'impiegato strizzando l'occhio.
- Ah sì, grazie, proverò - disse Dante, ma con poca speranza perché vicino al
porto aveva già tentato.
Tornò dunque al porto vecchio ed entrò all'osteria, piena di marinai; all'oste
chiese se avesse mai sentito nominare Leonardo, il figlio di Bonaccio, detto il
Bighello.
- No, io mai; ma chiedete al vecchio proprietario dell'osteria; io sono qui da
dieci anni, lui forse sa qualche cosa di più.
Questa sì che era una buona idea; si fece dire dove abitava ora, lì a pochi passi,
e vi si recò.
La casa era una tipica costruzione da porto, bassa, praticamente una sola
stanza; la porta era aperta, come si usava a quell'epoca, e Dante spinse l'uscio
chiedendo:
- Posso? Posso entrare? Sono Dante da Firenze.
Entrò, ma non c'era nessuno. Una stanza confusa così non l'aveva mai vista.
Ciarpame dappertutto, pezzi di reti di mare, un letto sfatto da anni, scarpe, vestiti,
calzari, sedie, lampade, sembrava che ci fosse stata una battaglia pochi minuti
prima.
Il vecchio oste non c'era; Dante uscì ed attese fuori, nella speranza che potesse
rientrare.
Passò di là una vecchia signora dall'aria nobile che squadrò Dante dalla testa ai
piedi; si fermò e gli chiese:
- E voi, chi siete? Siete forse il nipote di questo disgraziato - fece, indicando la
casa - tornato dall'Africa?
- No, signora, in verità non lo sono e non conosco il proprietario di questa
casa; ma gli devo chiedere un'informazione. Sapete voi per caso dov'è?
- Eh sì, purtroppo. L'altro giorno ha bevuto troppo, è un buon uomo, sapete?
S'è sentito male, malato com'è e male in arnese. E così l'hanno ricoverato al
vecchio ospedale dei derelitti. Io credo che la sbornia gli sia passata, oramai, ma
di solito li tengono dentro due o tre giorni anche dopo.
- Ah, e dov'è, di grazia, questo spedale?
- Dovete prendere dietro i Capitani e poi... Ma tanto non vi faranno entrare,
non fanno entrare neppure i parenti. L'unica è che torniate domani a provare e poi
ancora il domani dopo.
- Ah, che rabbia, così perderò altri giorni - si fece scappare Dante.
- Ma insomma signore, chi siete e che cosa cercate?
Con ben poca speranza, Dante le disse che cercava di rintracciare la casa di
Bonaccio e di suo figlio Leonardo, che voleva vederla, parlare con i loro
discendenti. Era infatti un fervido ammiratore del grande maestro d'abaco.
Il volto della donna s'illuminò:
- Siete fortunato, signore, posso aiutarvi io. Seguitemi.
Dante, incredulo, era al settimo cielo; seguì la donna, con molta fiducia e
questa volta pieno di speranza.
Camminarono per un po', poi la donna si fermò e gli chiese:
- Ma chi siete, e che cosa cercate?
- Mi chiamo Dante degli Alaghieri, sono fiorentino e sono qui in delegazione
politica. Ma sono scrittore e scienziato e voglio rendere omaggio a questo grande;
e, se possibile, chiedere di lui a qualcuno che lo conosca bene. In fondo è morto
solo pochi anni fa.
La donna sorrise e riprese in silenzio il cammino.
Dopo varie stradine, giunsero in una piazzetta, dominata da un grande palazzo
in decadenza. La donna si avvicinò all'uscio, estrasse una grande chiave e la
introdusse nella toppa, dopo di che si rivolse a Dante:
- Voi che siete più giovane di me, abbiate la compiacenza di aprire, ché ogni
volta per me è un sacrificio. Sapete, devo chiudere, uscendo, per via dei ladri.
Non è più come una volta.
Non fu banale, ma poi, alla fine, Dante riuscì ad aprire ed entrarono. La casa
era grande, fredda, impolverata, ma in ordine.
Salirono con estrema lentezza un grande scalone interno mentre Dante si
guardava all'intorno e sperava in un miracolo; la vecchia signora s'aggrappava a
un passamano di metallo fissato lungo la parete.
Finalmente la donna arrivò a una porta massiccia e scura, s'arrestò, sorrise a
Dante, e l'aprì.
Meraviglia! Una biblioteca immensa, con scaffali ordinati e pieni di polvere,
libri fitti fitti, rotoli, carte dappertutto, ma in bell'ordine, stiletti e piume d'oca
dovunque, calami di vario colore...
Dante si guardò attorno stupito, finché la donna disse:
- Ecco, signor mio, ecco la sua stanza, i suoi libri, il suo studio, quello di
Leonardo, mio fratello maggiore.
Dante le si avvicinò, la ringraziò, le diede un sonoro bacio sulla guancia:
- Ah, è così dunque, è così; lui stava qui.
- Notte e giorno, dopo i suoi viaggi.
- Ditemi, vi prego, ditemi tutto se potete.
Si sedettero in due ampie poltrone e la donna raccontò:
- Mio padre era buono, ma molto esigente; alla mia nascita la mamma morì di
parto e le forze abbandonarono allora mio padre. Io ero piccola e non ricordo, so
solo che era una discussione continua. Leonardo studiava tutto il giorno qui,
aveva 15 o 16 anni, e mio padre lo rimproverava perché non s'occupava degli
uffici suoi. Ma Leonardo non ne voleva sapere. Un giorno, dopo una frustata a
sangue, Leonardo partì, sotto gli occhi impietosi di nostro padre, con destinazione
Bugia. Sapete dov'è?
- Non so, credo sulle coste mediterranee d'Africa.
- Sì, infatti, nelle vicinanze del popolo che si chiama algerino, proprio sulle
coste mediterranee d'Africa. Mio padre commerciava in tessuti, spezie e profumi
che importava e rivendeva qui all'intorno; ma venivano anche da lontano per
comprarglieli. Questo palazzo lo comprò lui, pensate, prima ch'io nascessi, non
s'ebbe in eredità. Quando Leonardo tornò, mio padre pensava che avrebbe
intrapreso la professione; io ero allora una giovinetta, ma ricordo ancora che
Leonardo gli disse di no, definitivamente, che aveva scoperto cose grandi a Bugia
e che doveva trascriverle in un libro. Mio padre tentò di tutto, ma non ci fu nulla
da fare. Fu costretto ad assumere un giovane commerciante di grande valore e, per
essere certo che non lo tradisse, decise di legarselo con un matrimonio.
- Fu vostro marito, dunque?
- Sì, avete indovinato; fu un marito adorabile, fedele, lavoratore infaticabile, e
questa fu la fortuna di Leonardo, ché mio padre non lo torturò più. Leonardo
scrisse in due anni, era giovanissimo, ché aveva vent'anni circa, il suo famoso
Liber Abaci, ma gli rimase la fama di Bighello che qui si dà a chi non fa un
mestiere, a chi non suda. Ma lui sudava, eccome; io lo vedevo, giorno e notte qui
dentro a scrivere; io gli portavo tisane, ché soffriva di leggera gastrite e mali di
capo, ma lui no, a scrivere. Io non sono persona di grande cultura, signore, Dante,
avete detto? Ma l'ho seguito finché ho potuto. Lo chiamò l'imperatore e mio
padre, che era ancora vivo, non poteva crederci. Lo convocò a Palermo per una
disfida contro gli infedeli, che Leonardo vinse. Insomma, mio padre morì
contento: suo figlio celebre matematico di corte, sua figlia sposa felice a un
giovane dabbene che avrebbe proseguito nella mercanzia. Solo che, meno d'un
anno dopo, mio marito perì in un naufragio vicino a Pantelleria, e io non feci in
tempo ad avere figli; Leonardo sposarsi neppure per sogno, e così vendetti tutta la
flotta e le mercanzie residue, e con la rendita vivo poco meno che decorosamente,
anche grazie ai denari che Leonardo, di tanto in tanto, guadagnava per perizie e
altre consulenze. Ecco, questa è la storia.
- Ma lui, Leonardo dico, com'era? Che tipo era?
- Simpatico, sempre battute, un po' insolente, strafottente...
Dante si rese conto d'improvviso che fuori era scuro e che dunque lui doveva
correre: aveva un'importante cena con tutti i legati a corte; salutò rapido la
signora, le chiese il permesso di poter tornare l'indomani e, avutolo, si congedò.
Corse rapido alla cena, ma aveva in mente ben altro, tante domande, una su
tutte: la questione dei conigli.
Il pomeriggio dopo, manco a dirlo, Dante era lì. Non aveva neppure pranzato
per correre subito. Riconobbe facilmente il palazzo, bussò al portone più e più
volte, ma nulla. Oh dio, che rabbia. Dove sarà la signora? Ieri l'aveva incontrata
per strada, infatti, e quindi forse era solita far due passi, chissà, andare a trovare
un'amica, una parente.
Un passante lo vide:
- O che cercate la Gina?
- Sì, beh, non so, a dire il vero non m'ha detto come si chiama; la signora che
vive qui, la figlia di Bonaccio. Avevamo appuntamento.
- Sapete, è un po' sorda; è certamente in casa, ma come farvi sentire? Gina, oh
Gina, mi sentite? - urlò a perdifiato l'uomo.
In quel mentre si sentì rumore dietro la porta e l'anziana signora da dentro
disse:
- Spingete, spingete, che da sola un ce la fo.
Il passante si mise a ridere, come a dire "Avete visto?", salutò e se ne andò.
Dante spinse con tutte le sue forze e il portone si aprì:
- Vi avevo sentito, che credete che sia sorda? Ma per arrivare a voi, un po' di
tempo mi ci vuole.
Ricominciarono da dove avevano lasciato, seduti, ammirando tutto all'intorno.
- C'è una domanda che voglio farvi, se me lo sapete dire voi.
- Di che si tratta? Mio fratello mi spiegava tante cose, ma alcune non arrivavo
a capirle, per quanto si sforzasse, e lui rideva, rideva, e mi burlava, ma con amore.
- La faccenda dei conigli, signora. Tanto se ne parla, ma io non so, non ho mai
trovato davvero una spiegazione convincente. Ne sapete nulla?
- Oh sì, quella sì, beh, è facile. Che volete sapere?
- Niente, solo com'è, come funziona.
- È presto detto. Dunque, voi sapete che i conigli presto s'ammalano e muoiono
e che sono prolifici assai. Bene, la prima cosa dimenticatela e fate con me questa
ipotesi: che s'abbia una coppia di conigli, maschio e femmina, giovani, appena
nati. Il primo mese i conigli non figliano, ma dal secondo mese in poi, sempre,
ogni mese, figliano una coppia, ancora sempre maschio e femmina. La domanda
è: dopo un anno, quante coppie di conigli vi sono?
- È questa la domanda?
- Sì, provateci e io vi seguirò. A Leonardo piacevano molto le sfide e voi
sembrate un giovane arguto. Ah, sareste stati bene a discorrere insieme.
- Bene, grazie, ecco, ci proverò. Il primo mese una coppia; al secondo mese
ancora una perché non figliano, no? Al terzo mese la coppia figlia e quindi sono
due coppie. Al quarto mese le coppie sono quelle due ma la prima coppia figlia
ancora e fanno tre; la seconda coppia non figlia ancora; dunque, in totale al quarto
mese sono tre coppie. Al quinto mese la prima coppia figlia ancora e la seconda
inizia a figliare, più le tre di prima, fanno cinque. Cinque in tutto, nevvero? - e la
signora annuì, sorridendo. - Ora andiamo al sesto mese; dunque abbiamo le
cinque coppie, ma sono tre quelle che possono figliare ché l'ultima nata è troppo
giovane e fanno otto in tutto; dunque al sesto mese sono otto coppie. Al settimo
mese, dio mi sto perdendo, sono ancora le otto, ma in quante figliano ora? Le
cinque di prima, le tre nuove nate no, dunque fanno in tutto tredici. Sto
confondendomi... Non ci arrivo a un anno.
- Fate dunque come avrebbe fatto lui, con stilo e calamo, con appunti scritti,
non tutto a memoria.
Dante s'avvicinò al tavolo e con circospezione e reverenza sollevò una piuma,
ne intinse la punta nel calamaio, prese un brandello di rotolo e scrisse:
- Dunque:
mese I
coppie I
mese II
coppie I
mese III
coppie II
mese IV
coppie III
mese V
coppie V
mese VI
coppie VIII
mese VII
coppie XIII
Ecco, fin qui ci siamo; ora proseguo, al mese otto; ci sono le tredici coppie, più
quelle che figliano che sono, dio, mi sono perso davvero...
- E qui l'arismetrica aiuta, avrebbe detto Leonardo. Guardate bene, signore,
questi numeri, questi - e indicò i numeri delle coppie. - Che vedete?
- Oh, nulla, e che vedo mai? Vedo come numeri disordinati, non so,
aumentano, ma come?
- Guardate bene i numeri, tutti. Il XIII, per esempio, che relazione ha con chi
lo precede?
- Oh dio santo - scoprì d'improvviso Dante. - Il XIII è la somma dei due
precedenti. Aspetta aspetta, sì, sì, è così: ogni numero nuovo è sempre la somma
dei due vecchi precedenti. Che magia.
- È così, Dante; proseguite con l'arismetrica e senza perdervi.
E Dante aggiunse:
mese VIII
coppie XXI
mese IX
coppie XXXIV
mese X
coppie LV
- Cinquantacinque, così tanti? Non è possibile, davvero che magia è mai
questa?
mese XI
coppie LXXXIX
mese XII
coppie CXLIV
- Un numero immenso, non lo posso credere.
- È così Dante, la cosa è straordinaria; crescono dapprincipio poco alla volta,
poi sempre più in fretta. Leonardo diceva che questa successione è magica perché
è presente nella natura, in ogni dove, ma io questo non l'ho mai capito.
- Doveva essere un personaggio straordinario.
- Sì, lo era - e la vecchia signora aveva chiuso gli occhi abbandonandosi alla
poltrona, come a ricordare tempi felici, trascorsi in compagnia di un fratello che
l'adorava e che lei idolatrava. S'addormentò.
Dante prese a girellare per la stanza, toccando manoscritti, spolverandoli un
po' con il dorso della mano per leggerne i titoli.
Su una madia chiusa era appoggiata una chiave; Dante la prese e con quella
aprì il vasto sportello intarsiato. Dentro c'erano manoscritti, Dante trasalì, forse i
manoscritti originali del grande studioso. Li prese in mano uno ad uno, e infatti
lesse: Liber abaci; Practica geometriae, Liber quadratorum; Flos super
solutionibus quarundam quaestionum ad numerum et ad geometriam, vel ad
utrumque pertinentium; De modo solvendi quaestiones avium et similium; Libro
di merchatanti di minor guisa; e altri.
Era felice: aveva tra le mani un tesoro. La più copiosa ed importante opera
matematica di quei secoli. Quanto gli sarebbe piaciuto avere il tempo e la capacità
di leggere quelle cose, per impadronirsene, per farle proprie, per usarle, ma anche
solo per il puro gusto di conoscere.
Passò molto tempo toccando, spolverando, leggendo qua e là, ma dovette a un
certo punto andarsene.
Non poteva farlo così, senza salutare la signora che era stata tanto gentile;
s'avvicinò, la scosse un po', dolcemente, finché questa aprì gli occhi dicendo,
come spesso fanno gli anziani:
- Non dormivo mica, o che si è creduto?
Si salutarono come due vecchi amici che condividevano un tesoro comune; la
vecchia si fece promettere una nuova visita, cosa che Dante, in effetti, nei giorni
successivi fece ancora.
10
Angeli, tanti ma tanti angeli
Dante aveva percorso quella parte di strada che porta a Campo dei Fiori tante
volte; il selciato così brullo, e da chissà quanto tempo consunto dalle ruote dei
pesanti carri e dagli zoccoli delle bestie, gli faceva dolere i piedi. Avrebbe dovuto
far risuolare i calzari, questo sì, oramai rimasuglio di quelli fatti fare su misura
anni prima, quando la fortuna gli era compagna e amica; e tuttavia il dolore non
era solo colpa di quelli. In ogni caso, meglio quella pavimentazione che non la
successiva, da Campo dei Fiori a San Pietro, tutta fangosa e melmosa in qualsiasi
periodo dell'anno, lungo il Tevere o poi oltre, fino a Castel Sant'Angelo.
Il pensiero sulla strada aveva interrotto, però, un altro e ben più profondo
ansioso pensiero che lo tormentava da settimane: gli angeli.
Creature incorporee, ideate a rappresentare la potenza di Dio, immagine stessa
della grandezza e della gloria, immortali, esistenti da sempre. Ecco il punto: già
tutte esistenti da sempre, o in perenne nascita? Una nascita continua di angeli
avrebbe significato il perdurare della grandezza immutata di Dio, nella sua
assidua lotta contro il principe delle tenebre, il maligno, Lucifero, anch'egli
angelo decaduto. Ma come farli nascere, dove, quando?
Il freddo pungente lo costrinse ancora una volta a cambiare di pensiero: strinse
il mantello che copriva la palandrana celeste, calcò ancora di più il copricapo
senza visiera, dotato di paraorecchi ricoperti di lana, ma le gambe continuavano a
essere gelate. Strano freddo per Roma, e poi di marzo, quando già l'inverno lascia
il posto, almeno di solito, alla nuova stagione. "Ah le stagioni, le stagioni non
sono più quelle di una volta", si sorprese a pensare, e si mise a ridere lui stesso
per la banale stupidità di quella frase da vecchio: è un modo di dire che solo gli
anziani usano, e forse lo dicono da ogni epoca e per chissà quanto ancora lo
diranno.
In Campo dei Fiori ardeva un falò, un falò enorme, forse presagio, intravide
Dante nel fondo della sua mente, di altri falò accesi qui, in questo stesso posto;
ma non riusciva a capire il perché di quel curioso presentimento.
Il falò era stato appiccato dai netturbini che avevano raccolto immondizia,
avanzi, topi morti, foglie, sterpi e altre cose, e invece di trasportarle chissà dove,
avevano deciso di eliminarle lì stesso, seduta stante. Per fare prima e far ardere di
più, avevano usato legna secca di faggio, lì a portata di mano, che crepita molto e
produce molte scintille.
Scintille, tante, tante, a ogni istante... La mente fertile e fervida di Dante già
rimuginava qualche cosa, già presagiva una grande idea.
Si fermò, sollevò la veste per scaldarsi le gambe, e si godette quell'istante di
tepore immediato che gli scaldò subito le cosce.
Angeli, una quantità infinita. Infiniti esseri asessuati, incorporei, a garantire la
grandezza, la potenza, la gloria di Dio. Sì, ma se sono infiniti, sono infiniti e
basta. Se sono già infiniti, che ne nascano di nuovi o no, che importa? Più che
infiniti non possono essere, pensava Dante. Sarebbe più bello, più suggestivo, e
anche più eccitante, se fossero tanti, ma tanti tanti, d'un numero che nessun
ingegno umano sappia pensare o costruire; allora sì, la gloria di Dio sarebbe
enorme. Tanti angeli che nessun umano sappia contarli, ma non infiniti, che
possano nascerne ancora, sempre, ogni giorno, che dico, a ogni istante.
Una scintilla, più violenta delle altre, gli colpì il ginocchio destro e Dante, più
per la sorpresa che per il dolore, in verità, fece un rapido salto all'indietro.
- Ahó, e statti attento - replicò una voce alle sue spalle.
Dante si rese conto d'aver pestato qualcuno che, come lui, ma a più prudente
distanza, stava raccogliendo con soddisfazione lo stesso calore.
- Oh, messere, perdonatemi, ma una scintilla...
- Sì, ho visto, non ti preoccupare. Non fa niente.
- Grazie. Ho fatto un salto più per la sorpresa che altro.
- Bello il fuoco, eh? E che strano freddo per Roma in marzo, non trovi?
- Lo stavo proprio pensando anch'io ed è per questo che mi sono fermato.
- Beh, ora devo proprio andare. Peccato. Questo calduccio se ne andrà fatti
pochi passi.
- Questo è il guaio del foco da focolare. Ti riscalda solo di fronte e solo
quell'istante che ti proponi. Poi, pluff, svanisce - disse Dante, aprendo la mano
con un gesto, a rinforzare il suo curioso "pluff".
- Voi siete toscano, no? Si sente da come parlate.
- Sì, sono di Firenze, sono qui da due giorni e mi fermo altri due. Ho da
sbrigare certe cose in Vaticano.
- Io ci lavoro in Vaticano, sono uno dei pochi esterni, lo sapete che significa,
vero? - e Dante annuì. - Prendo servizio tra un'ora e sto giusto andando al di là del
Tevere. Mi fermo a farmi un bicchiere alla taverna all'angolo, e vado.
- Un bicchiere di Frascati sarebbe quel che ci vuole per dare un po' di tepore, e
poi proseguire verso quelle anguste e fredde sale.
- Chi dovete vedere?
- Il cardinale Malaspina mi deve dare una risposta a una domanda della
delegazione fiorentina, ch'io indegnamente rappresento.
- Ah, ma voi siete dunque quel guelfo che dicono, il poeta?
- Poeta è titolo immeritato per me, ma scrivo, sì, scrivo di poesia, e sono
guelfo, o, meglio, sono, in questo momento, portavoce.
- A dirla in verità - disse l'uomo, piuttosto basso e corpulento, che non arrivava
alla spalla di Dante, e sarebbe stato più sbrigativo saltarlo che girargli attorno,
avvicinando la mano alla bocca per indicare che parlava a lui solo - a dire la
verità, a me i guelfi mi sono simpatici - si voltò da ogni lato.
- Ma guai a dirlo forte in Vaticano - e si mise a ridere.
Pure Dante sorrise e già s'erano avviati insieme verso la vicina taverna. La
porta era chiusa, di legno pesante e logora di fuliggine, e al solo aprirsi fece uscire
un odore nauseabondo di castrati, fettuccine, abbacchi, oli, sughi, lardi, strutti,
vini, fetori d'ogni tipo accumulati negli anni e soprattutto in quel lungo inverno
che non voleva finire. Il cavolo, poi, la faceva da padrone, con quell'odore che
tanto contrasta con il sapore.
I due si sedettero a un grande tavolo al quale, sorpresa per Dante, che mai si
sarebbe aspettato di vedere una cosa simile in una bettola che pareva tanto di
malaffare, sedevano coppie di giocatori di scacchi.
Per quanto alto fosse il rumore all'intorno, e di ogni tipo, le coppie erano
silenziose e concentratissime, di ogni età, e tutti maschi.
- Che succede? - chiese Dante al suo interlocutore.
- Ah, domenica c'è qui proprio a Campo dei Fiori la sfida a scacchi della città,
e qui si riuniscono i giocatori di questo rione. Vedi quello là? - indicando un
giovane piuttosto spelacchiato e male in arnese. - Quello è un vero campione.
Giocò rappresentando Roma contro i francesi e vinse 8 a 4. Fu il papa stesso a
chiamarlo, fingendolo nobile; la sua fama corre pe' tutta Roma.
Nel frattempo, come per magia, lettura del pensiero o semplice richiesta
dell'occasionale compagno, l'oste aveva portato una fiaschetta di Frascati e due
bicchieri sozzi. Dante versava e sorseggiava, ammirando la concentrazione,
riflettendo sulla sua stessa sorpresa.
Aveva dimenticato gli angeli e il fuoco e le scintille; ma certo, come capita
nelle teste dei poeti e dei matematici, autonomamente qualche cosa lavorava
incoscientemente al posto suo, scrivendo, collimando, cercando, rimando,
deducendo, creando. E angeli e fuoco entravano in rotta di collisione per chissà
quali destini poetici finali. Non infiniti, ma tanti, per poter nascere perennemente,
e poi il fuoco, gli scacchi...
- E tu giochi?
- Come? - rispose Dante, colto di sorpresa. - Ah, a scacchi dite? Sì, un poco,
una volta ero abbastanza abile, ora è tanto che non c'ho più tempo.
- Qui dentro la passione è tanta. Si fanno pure scommesse forti, sai?
- Ah sì? E chi raccoglie le scommesse?
- Oh, beh, dipende, a volte l'oste, a volte io stesso, a volte altri. Però i giocatori
no, a loro non è permesso.
- E quanto si gioca?
- Dipende, uno gioca quel che gli pare.
- E quanto si vince?
- Straniero, che domanda. Anche questo dipende. Se giochi sul campione, poco
o nulla. Se giochi sul più scamorza, la posta la chiamiamo Sissa Nassir - e si mise
a ridere a crepapelle.
- Come? Che dici? Non capisco. Che c'è da ridere?
- Ah, non lo sai? È molto divertente, te lo devo raccontare dunque.
E sottovoce, per non turbare i giocatori, l'impiegato del Vaticano, del quale le
cronache non hanno tramandato il nome, raccontò a Dante della leggenda, tanto
famosa, secondo la quale il gioco degli scacchi fu inventato su commissione.
- Il re di Persia, il più potente sovrano del suo tempo, chiamò un famoso mago,
Sissa Nassir, e gli disse: 'Inventa per me un gioco bellissimo, che io lo possa
giocare in ogni momento, e che sia imperituro'. Sissa inventò gli scacchi e li donò
al re che fu talmente contento che gli disse: 'Hai superato te stesso; chiedimi
ordunque come ricompensa quel che vuoi e sarai accontentato'. E Sissa chiese,
semplicemente, un po' di riso. 'Come, un po' di riso', ribatté il re incredulo e
divertito. 'Chiedi di più, quel che vuoi'. Ma Sissa insisté, finché il re disse: 'E sia,
tutto il riso che vuoi ti sarà dato'. E chiamò il gran ciambellano, che era anche
l'abacista di corte. Sissa chiese un granello di riso per la prima casella, due per la
seconda, quattro per la terza, e così via sempre raddoppiando, fino a completare le
caselle della scacchiera che lui stesso aveva inventato. Il re rise a crepapelle,
pensando: 'Che idiota, poteva avere metà del regno'. Ma il gran ciambellano
sbiancò in volto. Si volse al re e disse: 'Maestà, temo che non potremo
accontentare Sissa Nassir'. 'Oh bella, e perché?' chiese il re allibito. E il
ciambellano fece presente al re che anche raccogliendo tutto il riso di Persia e di
Cina e di India e di ogni terra emersa, non solo il riso del raccolto attuale, ma il
passato e il futuro nei tempi dei tempi, mai e poi mai si sarebbe ottenuto tanto
riso, il cui valore superava di miliardi di volte quello del reame stesso. E così finì
che Sissa Nassir fu decapitato per alto tradimento reale, e il gran ciambellano fu
condannato a fare i conti di quanto riso era quello richiesto. E credo che ancora lo
stia calcolando, e giù un'altra risata, questa volta un po' troppo rumorosa, tanto
che si prese irati "Shhh", da parte di molti giocatori e anche da avventori.
- Ah, sì, avevo sentito questa storia, a Bologna; e anche altrove, ma non ci
avevo mai fatto caso. E, per dio, quanto fa tutto questo riso insieme?
- Oh beh, questo non lo so; ma dev'essere un numero grande, spaventosamente
grande, infinito.
- Eh, no, messere - disse Dante - per quanto grande, infinito non può essere... e iniziò a pensare per suo conto, bofonchiando tra sé e sé:
"Infinito non può essere, perché i chicchi, ogni volta, sono una quantità finita e
la somma prevede solo sessantaquattro addendi. Come può essere infinito?
Sempre finito sarà, ma grande, Dio onnipotente, tanto grande che nessun essere
umano può contarlo"; e la sua mente, a sua stessa insaputa, elaborava idee: angeli,
fuoco, scintille, non infiniti, ma tanti tanti angeli a gloria di Dio, un numero
immenso a ogni istante, riso, scacchi...
"Ma quanti? Vediamo: 1 sulla prima casella, 2 sulla seconda e fanno 3. 4 sulla
terza e fanno 7. 8 sulla quarta e fanno 15. 16 sulla quinta e fanno 31. Dio, facendo
così non arriverò mai, mi perdo, mi perdo, però non sembra un numero così
grande, non mi sembra. Eppure, questa storia, più o meno così, la raccontavano
dappertutto; dicono, ora mi ricordo, che ha origini antiche. Che posso fare dunque
per conoscere questo numero?".
Dante, senza accorgersi, s'era alzato e stava per andarsene, tutto preso dai suoi
pensieri; ma l'oste lo bloccò sulla porta, dicendogli semplicemente, ma in modo
esplicito, un romanissimo:
- Ahó, embe'? - e Dante si scusò, pagò il vino suo e quello del compagno di
strada, lo salutò e andò all'incontro con quel cardinale, ma con ben altro che gli
frullava in mente.
Una settimana dopo era a Firenze e stava parlando con un giovane che gli era
stato raccomandato da Paolo:
- Mi manda il maestro Paolo; dice che avete bisogno di me.
- Voi siete l'abile abacista del quale lui mi parla? Così giovane? Voi sapete fare
calcoli d'ogni tipo, anche lunghi e complessi?
- Sì, così dicono e così è. Faccio i calcoli, qualsiasi.
- Bene, se così è, vi pagherò per il calcolo seguente - e Dante gli spiegò che
voleva raddoppiare e raddoppiare da uno in poi per sessantatré volte e sapere non
solo quanto era l'ultimo raddoppio, ma quanto era la somma totale.
Il giovane non esitò un istante:
- Sta bene - disse - domani vi darò il risultato, senza meno.
Pareva molto, forse troppo sicuro di sé e Dante, per un momento dubitò,
pensando: "E dopo, come controllerò se il risultato è giusto?".
-Va bene - disse ancora Dante - ma che il risultato sia quello giusto, altrimenti
non vi darò nulla. Io già so quanto fa, devo solo controllarlo.
- Sull'anima mia, se vi darò un numero risultato, sarà quello giusto, altrimenti
non mi dovrete nulla.
Presero appuntamento per il crepuscolo del giorno dopo e Dante non dormì
tutta la notte, steso accanto a Gemma:
L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro...
Tante scintille, tanti angeli, come in un fuoco schioppettante, ogni scintilla un
angelo nuovo, tanti tanti angeli ogni istante, per la gloria di Dio. Solo, devo
trovare quanti, come dire quanti...
Il giorno dopo il giovane abacista lo stava aspettando, col viso paonazzo.
Sembrava avesse visto il diavolo, altro che angeli.
- Che succede? - gli chiese spaventato Dante.
- Gli è che, alla faccia del calcolo, ci ho impiegato tutto il crepuscolo di ieri, la
notte, la mattina e il pomeriggio e ho appena terminato. Un calcolo incredibile,
colle figure degli Indi, sempre raddoppiando, da 1, per 63 volte. Mi sembrava di
impazzire.
- Oh, madonna, e che fa, quanto fa, insomma? Ditemelo.
Il giovane abacista non proferì parola; estrasse dal tubo, che portava con sé a
spalla come una faretra, un rotolo e lo dispiegò. Era pieno di calcoli da far paura,
peggio di un papiro egizio scritto e riscritto più volte, financo negli interstizi;
mostrò in silenzio a Dante un numero scritto alla maniera degli infedeli in fondo a
destra:
- 18 446 744 073 709 551 615.
- Oh dio - fece Dante - e come si legge?
- E che ne so? I 709 sono milioni, i 73 sono miliardi; ma prima? Un numero
grande, ma grande, per il quale non c'è nome. Sembra una magia - disse il giovane
abacista.
"Una magia", rifletté Dante:
L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro...
- E siete sicuro che sia esatto?
- Esatto? All'unità. Tutta notte per fare i controlli, e anche mio zio, lui pure
abacista, pe' controllarli.
Dante consegnò una somma consistente al giovane che se ne andò, e si mise a
mirare e rimirare questo numero:
La gloria di Dio, diceva tra sé e sé, però, dev'essere maggiore di quella di Sissa
Nassir. Sissa raddoppiò la sua richiesta di riso di casella in casella, Dio non può
dunque solo raddoppiare, deve chiedere di più alla potenza sua; deve fare di più, è
come se usassi lo stesso criterio di crescita, ma invece di raddoppiare potrei
triplicare, moltiplicare per 100, o... Una specie di corto circuito mise in
connessione la poesia, la matematica, la teologia, la fantasia.
L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.
- S'immilla, ecco sì. Se l'uomo raggiunge vette numeriche così impervie,
raddoppiando, che cosa impedisce a Dio di moltiplicare per mille, immillando?
Uno sulla prima casella, mille sulla seconda, un milione sulla terza, e così via, un
numero divino, non umano, eppure finito, ma istante per istante, ogni scintilla... A
gloria di Dio, eterna: angeli, non infiniti, ma di numero superiore a qualsiasi estro
umano:
L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.
Dante tentò, si dice, da vecchio, a Ravenna, di trovare un abacista in grado di
dirgli quanto facesse quel numero, ponendo come limite a Dio, che assurdità, lo
stesso numero di caselle di Sissa, e cioè "immillando" a partire da 1 e per 63
volte. Ma la storia non ci racconta di alcun matematico medievale in grado di fare
questo calcolo, di mostrare cioè che, in ogni istante, da quel fuoco paradisiaco
nascessero 1 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001
001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001
001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001
001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 di angeli a gloria di Dio.
11
Necessità
- Trovami un esempio, dunque.
- Il fatto ch'io non sappia trovarti esempi è al più dimostrazione della mia
scarsa indole all'invenzione, alla creazione, se vuoi: dimostrazione di mio scarso
intelletto o fantasia; nulla dice sulla tua asserzione, non la prova né la contraddice.
- Come sarebbe a dire?
- Se io non trovo esempi di una cosa, nulla di sicuro so su quella cosa. Solo i
controesempi in questo caso mi potrebbero aiutare.
- Sì, capisco; ma io m'affanno a convincerti e tu mi dai contro, la proposta è
tua; se vuoi ch'io l'avvalori o l'accetti, fammi un esempio.
Questa discussione, più o meno sempre uguale, si ripeteva da anni. Dante,
convinto assertore delle tesi modali di Aristotele, ancora non si capacitava della
vera portata dei sillogismi modali e non arrivava ad afferrarli. Guido, invece,
dubitava assai di tutto l'impianto teorico e, a bella posta, giocava a far l'avvocato
del diavolo contro le tesi di Dante.
La discussione s'accendeva in ogni dove: per la strada, in taverna, in viaggio, a
cena, nelle case dei due quando si incontravano, da soli, in compagnia, sempre.
Tanto che a volte i loro occasionali compagni, che spesso non capivano una parola
di quanto veniva discusso tra i due, li zittivano, minacciandoli di buttarli entrambi
in Arno dal Pontevecchio.
Ora stavano discutendo all'aperto, in piazza della Signoria, vestiti
elegantemente insieme ad altri legati, aspettando da un bel po' la delegazione di
Lussemburgo in visita ufficiale a Firenze. Erano tutti in bell'armi, pennacchi e
alabarde, cappelli a falde larghissime, sotto un Sole non cocente. Dal
Lussemburgo avrebbe dovuto alfine giungere una carovana che si sarebbe fermata
prima d'Arno; scortata com'era da quel di Pistoia, forse addirittura dalla Venturina
o da Porretta, da alcuni plotoni fiorentini a cavallo; dalla carovana si sarebbe
staccata una elegante carrozza che sarebbe giunta con due scorte, quella loro e
quella nostra, in piazza. Cerimonia, musiche, discorsi, e poi salita a palazzo per il
pranzo. Tutto pronto. I lavori politici veri e propri sarebbero cominciati
all'indomani e non si presentavano semplici affatto. A Dante era stata affidata una
questione complessa e sottile, che avrebbe dovuto discutere con uno dei più
brillanti e dotti ambasciatori di Lussemburgo. La spavalda giovinezza di Dante
contro la sicura esperienza del Lussemburghese - così lo chiameremo, dunque.
Della carovana nessuna notizia. Della elegante carrozza, evidentemente, meno
ancora. E i legati, per lo più anziani, aspettavano. Chi poteva s'era seduto. Dante e
Guido s'erano messi all'ombra del palazzo e appoggiati ai massi che da tempo
erano lì dopo un restauro e che dovevano ancora essere rimossi.
- Basterebbe trovare un esempio di contingenza che è tale da sola, ma che
posta accanto a una necessità si trasformi anch'essa in necessaria.
- Ma allora non sarebbe contingenza. Che dici?
- Allora no, proviamo a ricominciare daccapo. Fammi un esempio di
necessaria e contingente che siano proponibili come premesse. Mi basterebbe per
capire, per intuire. Io provo a dedurre la conclusione e vediamo se non può
proprio essere necessaria, come tu dici.
- A parte il fatto che non lo dico io, ma Aristotele.
- Dante, mi meraviglio di te. Uno come te che s'appella a un nome per
difendere una propria teoria?
- Sì, hai ragione. Ho avuto un momento, che dire? Di debolezza. Dunque, un
esempio. Vediamo. Prendi un semicerchio e...
- No, no, con la geometria non mi freghi più, ci sono già cascato altre volte.
Non so perché, ma lì m'imbrogli sempre. Fammi degli esempi concreti, di vita
reale.
- Eh diavolo, è che...
Ma furono interrotti perché giunse un soldato trafelato a cavallo che annunciò
l'arrivo della carovana di là d'Arno e quindi il prossimo giungere degli
ambasciatori di Lussemburgo.
- Alla fine, non ne potevo più.
- Bene, andiamo a conoscere questi nostri ospiti. E che Dio ce la mandi buona.
- A me, più che a te - concluse Dante.
Tutti i legati fiorentini ripresero dignità d'aspetto, si spolverarono, si
ricomposero e si misero in fila, com'erano prima. Dopo un bel po', giunse una
carrozza molto elegante e stranamente pulita, lustra addirittura, si potrebbe dire,
trainata da quattro cavalli possenti.
Ne discesero sei personaggi eleganti, che sembravano freschi freschi, appena
usciti da una doccia.
Avvenne tutto ciò che era previsto in copione, e Dante pensava, tra sé e sé:
"Chi sarà il mio uomo?", perché ancora non aveva elementi per distinguerlo tra
tutti.
Durante il pranzo vi furono le presentazioni ufficiali e, finalmente, Dante
seppe qual era il "suo" lussemburghese. Era il più magro e alto, segaligno, naso
aquilino più del suo, occhi sporgenti che sembravano lì lì per cadere, nessuna ruga
in viso, età impossibile da definire, tra i 30 e i 50 anni. Si vedeva subito che
sarebbe stato un avversario duro e temibile, un osso duro, come si cominciava a
dire da un po' tra il popolo. Persona di evidentemente nessuna simpatia, certo non
tipo da portare in taverna a gozzovigliare per farselo amico.
- Ah, Dante, Dante degli Alaghieri, che fortuna conoscervi. Ho letto cose
vostre e vi ho ammirato molto - gli disse il suo lussemburghese, in un affabile e
dotto volgare assolutamente imprevisto, quando li presentarono l'un l'altro.
Certo, Dante non s'aspettava un impatto simile e ne fu grandemente sorpreso e,
a dire il vero, inorgoglito.
- Ah, grazie. Messere, voi mi fate arrossire. E che dire, allora, dei vostri scritti
politici che io ho divorato?
A dire il vero, Dante li conosceva solo per nome; era roba di una noia mortale
ma circondata da una fama enorme. Non solo voleva in qualche modo
contraccambiare i complimenti, mettendosi subito alla pari, ma dimostrare che
c'era stata da parte sua una preparazione previa a quell'incontro, che s'intimorisse
un po'.
- Davvero avete avuto il coraggio di leggere quelle mie carte di una noia
mortale? - fece il lussemburghese, guardandolo fisso negli occhi, come se gli
avesse letto nella mente.
- Davvero voi avete avuto il coraggio di leggere le mie pessime poesie, scritte
in modo così ingenuo? - controbatté il fiorentino, guardando il lussemburghese
fisso negli occhi.
E scoppiarono tutti e due a ridere a crepapelle, come matti, tanto che tutti si
voltarono a guardarli stupiti; nessuno sapeva che cosa si fossero detti e pareva
tuttavia impossibile che, dopo un istante, già si raccontassero barzellette.
Alla fine del pranzo era stata prevista qualche ora di sosta per permettere alla
delegazione di Lussemburgo di riposare un po'; ma il lussemburghese chiese al
Nostro se aveva voglia di far due passi per la città, della quale tanto aveva sentito
parlare, ma che non conosceva affatto. Era lì accanto Guido, e Dante propose di
far combriccola in tre, presentando i due l'uno all'altro.
Partirono dunque, vestiti in modo meno... dovrei dire ridicolo, anche per quei
tempi, ma dirò semplicemente pomposo, e Dante e Guido fecero a gara per
scegliere angoli suggestivi dei quali Firenze abbondava (e continua ad
abbondare).
Il lussemburghese era affascinato; era stato a Milano, a Mantova, a Bologna, a
Verona, a Genova, a Ravenna, conosceva benissimo Pisa, Roma e Napoli, ma,
ironia della sorte, Firenze, questo gioiello universale, gli era sempre mancata.
Dante era competente assai in architettura, urbanistica e arte, ma il
lussemburghese gli era sicuramente alla pari, ed era una delizia ascoltarli
riflettere, osservare, criticare, discutere, suggerire, paragonare. Ciascuno dei due
vedeva particolari che riferiva all'altro, arricchendoli di note e sfumature dotte e
ardite.
Più tardi si sedettero in una taverna di una certa eleganza, nel lungarno che va
dalle Grazie a San Nicolò, taverna frequentata bene, e chiesero di rifocillarsi.
Dante non sapeva che ordinare per un ospite straniero di sì gran lignaggio e che,
per quanto conversatore competente e piacevole, era pur sempre segaligno
avversario da temere e battere. Lui stesso lo tolse dall'imbarazzo, però, chiedendo
direttamente all'oste:
- Che vino avete, buon uomo?
L'oste fece un elenco breve assai, ma tutto di vini di alta qualità; il
lussemburghese li esaminò uno a uno, associando a ogni nome un riferimento e un
commento:
- Ah, il Morellino, un buon nero della bassa Toscana, particolarmente gustoso
verso la costa del Grossetano; e poi avete il Cepparello, dicevate, vino ora raro
assai, un grande nero, particolarmente buono in Val d'Elsa; e ci dite l'Ornellaia,
altro nero di gran classe che ricorda gli uvaggi bordolesi, più ricco se ha la vite
esposta a mare, al centro della Toscana, tra filari di cipressi. Sempre tra i neri, non
ci proponete vigneti vicini, schietto, grazie al microclima che li crea... - e
continuò con un vasto elenco di neri che, a suo avviso, mancavano all'oste. - Tra i
bianchi, ci proponete, avete detto il Bianco Vergine, volete dire quello della
Valdichiana, vicino ad Arezzo, vero? Ed avete il famoso Grattamacco, quello che
cresce nei castagneti sotto Livorno, verso il mare? Un vino particolarmente
gradevole, da gustare qui seduti, ben fresco; non ne avete? Si potrebbe puntare sul
Galestro, che cresce qui d'attorno, o su un rosato affabile, come quello di Bolgheri
o del Vigneto Scalabrone, che certo non vi manca. Che dicevate, poi, del
Vinsanto? - e continuò per molti minuti a decantare lodi e vizi di decine e decine
di vini.
Dante, Guido e l'oste stesso erano stupefatti; mai si era vista una preparazione
enologica siffatta, non solo perché chi la stava facendo era straniero e di sì lontane
terre, ma neppure i fiorentini più appassionati conoscevano solo dal nome le
qualità dei vini, e tutte.
Poi scelse:
- Portateci... se posso permettermi - disse, accennando un breve inchino a
Dante e Guido - posso scegliere anche per voi? - e, senza aspettare una risposta, di
nuovo all'oste:
- Del buon Moscadello fresco, quello di Montalcino, non altri; il suo gusto
fruttato ci rallegrerà il palato.
- Messere, in nome di Dio, dove avete imparato a conoscere i vini della nostra
terra, se neppure l'avete mai frequentata?
- Dante, il vino buono è come il cuore delle belle donne: se ne conquisti con
competenza l'ardore, avrai tutto il resto.
In realtà la frase lì per lì sembrava non calzare molto, ma Dante si ripromise di
ristudiarsela poi con calma più tardi.
- I miei complimenti dunque, messere. Le vostre continue aperture verso ogni
genere di competenza mi affascinano e, devo dir la verità, all'un tempo mi
confondono. In che altro siete così dotto?
- Dante, non esagerate, ché dette da voi queste frasi suonano stonate. Come,
proprio voi parlate? Voi astronomo, scienziato, poeta sublime, matematico,
teologo, uomo d'armi, politico egregio, voi dunque elogiate me?
- Ma che dite? Dove avete studiato?
- Qua e là, in giro per l'Europa, Parigi, Ratisbona, Bologna, in Spagna - ma al
sentire Bologna subito Dante s'era scosso:
- Bologna, Bologna avete detto? Avete dunque frequentato l'Alma Mater? E
quando e per che cosa? Io stesso vi fui studente orsono pochi anni, studente di
filosofia morale, teologia e dialettica.
- Dialettica, sì, che coincidenza, alle lezioni dettate su ispirazione di Boezio di
Dacia.
- Io arrivai troppo tardi per quelle - interruppe Dante - che erano cambiati i
maestri e i tempi.
- Ma mi trattenni poi ancora alcuni anni.
- E dunque potremmo semplicemente non esserci mai intravisti?
- Impossibile - disse il lussemburghese - perché... - ma s'accorse che Guido
dava ampie gomitate a Dante e sottovoce gli suggeriva qualche cosa, sgarbato
gesto assai, impensabile tra gentiluomini, ammesso solo perché si trovavano in
taverna e non altrove. - Che succede, signori miei? Che vi dite? Ho detto qualche
cosa di curioso in questa mia lingua così poco sicura?
Ah, dimenticavo, che pessimo narratore sono, che nel frattempo l'oste aveva
portato il vino in una brocca pulitissima e consegnato tre bicchieri di terracotta,
un poco di pane bianco, formaggio pecorino stagionato già tagliuzzato in dadetti
grossi e alcune fette di finocchiona, con tre stecchini di legno appuntiti; il
lussemburghese si era già servito da solo, come si usa fare nel Nord Europa (qui
da noi chi prende in mano la brocca serve a tutti i commensali, anche se la cosa
non sempre è considerata corretta nel galateo moderno). Aveva sorseggiato il
vino, sbattendosene gocce da una parte all'altra della bocca, in maniera curiosa
assai, aveva annuito e, incredibile a dirsi per un degustatore sì fine, aveva
tracannato d'un fiato il bicchiere. Dante aveva versato a sé e a Guido e avevano
bevuto un po'.
Adesso sì, posso ritornare a Guido che scuoteva a gomitate Dante e gli
suggeriva all'orecchio non si sa cosa, mentre il lussemburghese esternava curiosità
e forse un poco di fastidio per tutto questo.
- Oh no, nulla - fece Dante, un po' titubante - gli è che Guido vorrebbe
approfittare della vostra superba competenza in dialettica per proporvi un nostro
dibattito che prosegue da anni, ma non è nulla d'importante.
Risollevato da queste parole, avendo creduto chissà cosa, il lussemburghese
rispose:
- No, no, m'incuriosite; dunque, per cortesia, fatemi partecipe della vostra
discussione, vi prego. Una discussione su temi dialettici mi appassiona, davvero.
L'interesse era genuino e dunque Dante spiegò:
- Negli Analitici, proprio nel I libro, quasi all'inizio, lo Stagirita afferma che
non è possibile che, in un sillogismo modale, da una premessa necessaria e una
contingente possa derivare una conseguenza necessaria. Il mio amico e io da
tempo stiamo cercando un esempio, io per confermare la tesi, lui per capirla e
forse poi per controbatterla. Io ho trovato tanti esempi, ma tutti nella geometria e
lui non li accetta perché dice che la geometria è tutta scienza necessaria in sé.
Stiamo allora da tempo cercando esempi tratti dalla vita reale, dalla consuetudine,
dal quotidiano e, davvero signor mio, non ne troviamo uno solo.
- Sinceramente - disse il lussemburghese con aria assorta - è un punto sul quale
io stesso mi sono a lungo interrogato, e proprio giunto in Analitici I 16 - Dante e
Guido si guardarono l'un l'altro stupiti per quella dimostrazione di competenza mi sono soffermato a lungo. Ne ho allora discusso con il dotto Aliprando, una
notte, a Borgo di San Pietro, castello vicino a Bologna, tra Bologna e Imola, in
verità, una graziosa e dotta città sul Sillaro. Lì mangiammo castrato e bevemmo
benissimo sotto un vasto ma basso portico, non lontano dal cassero. Ricordo la
piacevole serata. Mangiammo tanto, ma tanto, che l'esempio venne ad Aliprando
spontaneo - e si fermò, a meditare.
Dante e Guido aspettarono qualche secondo, poi, in coro:
- E allora? L'esempio?
Come scosso, il lussemburghese riprese:
- Sì, sì, scusatemi, è che di tante cose parlammo... E il ricordo è ancora vivo.
Dunque, se ben ricordo, Aliprando satollo e certo in carne, mi propose:
'se mangio tanto o troppo, necessariamente ingrasso
se ho fame assai, mangio
dunque
se ho fame assai, necessariamente ingrasso'
che, nel mio caso - e fece l'atto di mostrare i suoi fianchi, che ricordavano
quelli del magrissimo Scotto - è del tutto falso: io ho sempre fame, una fame
assillante, ma non ingrasso di un bel nulla - e si rivolse a guardare quei due.
Dante prese la parola:
- Necessario come prima premessa, contingente come seconda premessa;
supponiamo che la conclusione voglia o debba essere necessaria, ebbene no, come
mostra l'esempio. E poi, rivolto a Guido:
- Ti convince?
- Oh sì, l'esempio sì, ma resta il dubbio se debba necessariamente e sempre
essere così o solo possiamo andare per esempi.
- Guido non ha torto, Dante, ma Aristotele...
Ma oramai Dante non ascoltava più; l'esempio l'aveva più o meno convinto,
non gli sembrava calzante del tutto, ma la sua testa già stava costruendo qualche
cosa che, di lì a poco, avrebbe messo nella sua Comedìa, e già scriveva:
... o se necesse
con contingente mai necesse fenno;
Narrano le cronache che Dante e il lussemburghese giunsero a un accordo
soddisfacente per entrambe le parti, accordo cui nessuno aveva osato pensare
prima. Che tale risultato fosse dovuto alla brillantezza dei due politici era certo
cosa sicura, ma che buona parte di esso fosse legato a vini, taverne frequentate nei
tre giorni seguenti (e non sempre di alto lignaggio, dando spazio a quel
lampredotto che felicemente si sposa con quel Chianti), discussioni su
astronomia, dialettica e musica, nessuno lo seppe mai.
Dante fu invitato a sua volta come potenziale ospite illustre in Lussemburgo,
sia privatamente sia ufficialmente, ma la fortuna della sua vicenda politica stava
di lì a poco per declinare e tale viaggio non si fece mai. Peccato, perché anche in
quelle terre vi sono vini gustosi, certo non come i toscani, ma di una certa qual
raffinatezza. E anche le birre dei frati trappisti, così curate e pastose, che da noi,
nell'intera nostra penisola, non hanno paragoni. Si possono bere appena fatte,
ancora con i fermenti vivi, quasi ancora calde. Chissà, forse Dante le avrebbe
gradite.
12
La taverna
Come tutti i sedicenni di tutte le epoche e di tutte le civiltà, Jacopo camminava
verso casa strascicando i piedi a bella posta, lungo la riva sinistra dell'Arno, con
un'andatura studiata, lentissima, da strafottente. Oh, quante volte, negli ultimi
mesi, da quando aveva iniziato ad assumere questo modo di fare, la mamma,
Gemma, l'aveva rimproverato:
- Solleva quei piedi quando cammini, che ti rovini tutta la suola delle scarpe.
Ora poi che il babbo è senza lavoro, come fo io? E poi muoviti un po', su, dài.
Il babbo senza lavoro, il babbo senza lavoro... Negli ultimi tempi era il
ritornello più frequente.
- E pensare che io vengo da una famiglia nobile, i Donati, lo sai no? - ripeteva
a quel punto la mamma. - Ah, se non avessi incontrato quel bighellone di tuo
padre, ah. E pensare che per sposarlo ho dovuto rinunciare a mezza dote e litigare
con mio padre Manetto.
"Povero babbo" pensava Jacopo "sempre in giro per la penisola, di qua e di là,
da un mestiere all'altro, davvero, mai in casa. Un giorno politico, un giorno
scrittore, un giorno soldato, un giorno mercante, un giorno podestà, un giorno
poeta, un giorno astrologo... Sempre a parlare, con tutti e di tutto, sempre a
scriversi certi appunti su date, gente, nomi, e che so io. Una volta col papa, una
volta contro".
Come tutti i sedicenni di tutte le epoche e di tutte le civiltà, Jacopo ne aveva le
tasche piene della scuola, tanto più che non faceva altro che collezionare pessimi
giudizi in matematica.
"Ma che scalogna", pensava tra sé e sé "dappertutto ci sono i maestri d'abaco
girovaghi, che se ne vanno di qua e di là, un mese qui, una settimana lì, solo il
tempo d'insegnare qualche cosa e poi via, da un'altra parte. Proprio qui a Firenze
ci doveva essere questa bella invenzione delle scuole fisse, qui a Santa Trinita,
che mi tocca andarci quasi tutti i giorni, con quell'imbalsamato del maestro che mi
urla e mi urla. Io non mi ricordo a memoria quanto fa XXIV via XXXII e lui
pretende che io lo calcoli, che lo calcoli, dice lui. Ma come fa, uno, a 'calcolare'
tutti, proprio tutti i numeri? Ecco, secondo lui con le figure degli Indi, si dovrebbe
fare, aspetta come, non mi ricordo come...".
- O Jacopo, e come tu cammini? Con la testa tra le nuvole? Sembri un filosofo.
- Babbo, scusa, non sapevo, non ti avevo visto. Che ci fai qui?
- Eh, oggi la mamma è tutt'un'uggia e sono uscito a far due passi. Non sapevo
che tu passassi per di qui.
- Lo faccio tutti i giorni, babbo, quasi tutti i giorni.
- E che stavi pensando, si può dire? Si può sapere, così assorto?
- Uh, oggi il maestro s'è proprio incavolato, babbo. Voleva che calcolassi
XXIV via XXXII. Io ho studiato le tabelline a memoria, babbo, e so arrivare fino
a XX via XX. Ma più in là, non ce la fo a memoria.
- Eh certo, e come lo si può pretendere?
- No, è che lui, lui dice, insomma, che non è memoria è che... bisogna
calcolare.
- Eh certo, con l'abaco, no? Metti i calculi fino a XXIV e...
- No, babbo, è questo il problema; lui non ci vuole far usare i calculi; lui vuole
che noi facciamo con lo stilo.
- Come, con lo stilo?
Erano giunti, intanto, sotto casa, ma le urla della Gemma contro gli altri figli,
in particolare contro la piccola Antonia e la povera vecchia governante, si
sentivano fin da basso e così decisero di proseguire la conversazione in taverna:
dio santo, Jacopo era già in età da soldato, in fondo.
Entrarono, Jacopo per la prima volta; e lì si rese subito conto di dove passasse
le serate e spesso le nottate il babbo, quando tutti, ma proprio tutti gli avventori lo
salutarono con enfasi, alludendo ciascuno a chissà che:
- O Dante, te l'eri vista brutta l'altra notte, nevvero?
- Dante, un ti dimenticare che a notte ti tocca a te.
- E chi ti salva da quelle due, stanotte?
E così via.
Divertito, un po' impacciato, Jacopo ascoltò le repliche del babbo; per ciascuno
aveva la sua battuta pungente:
- Io brutta, ma tu peggio, e il brutto a te ti deve ancora venire. A me non mi
tocca mai, sempre all'altri. Quelle due vengono per me, ma io non vengo pe' loro.
E così via.
Dante e Jacopo si sedettero a una tavolaccia unta; Dante chiamò l'oste che,
senza ordine alcuno, portò vino e due boccali, un po' di fave fresche, pane e
formaggio oltre naturalmente a una carta gialla di paglia piena di lampredotto,
quello preferito, di cui Dante era ghiotto assai. Con uno straccio fece l'atto di
pulire un po' la tavola, ma solo l'atto, perché il risultato immediato fu il contrario
e peggio: un po' della sporcizia dello straccio si andò a sommare a quella che
aveva tentato di togliere dal tavolo.
- Con lo stilo, dicevi? E che vuol significare?
- Babbo, lo so solo di poco, non te lo so spiegare.
- E su, dài, dimmi, non ti far pregare.
- Guarda - disse Jacopo alquanto infastidito, estraendo dalla sua tracolla uno
stilo e un rotolo già quasi tutto pieno, ma fiero del vino che il babbo gli stava
versando, il suo primo vino in una taverna.
Sorseggiarono, Dante presentò Jacopo a quei due o tre che sembravano meno
briachi degli altri.
- Guarda, dunque. Dicevamo XXIV via XXXII. Ora, XXIV si scrive così: 24.
- Oh, che significa questo? Che è? Come "si scrive", in che lingua? Mi vuoi
prendere in giro?
- No babbo, è che il maestro Paolo usa la scrittura degli infedeli, gli Arabi, li
chiama lui. E dice che c'è un gran vantaggio.
- Oh bel vantaggio ci può essere, se XXIV lo scrivo, lo scrivo come? Ah sì,
così: 24. E dove sta il vantaggio?
- Lui, il maestro, dice che così si possono fare le operazioni. Dice che 2 sono le
decine (come il XX) e 4 le unità (come il IV). Io non ci ho capito molto, babbo.
- E lo credo. Sarà assai più evidente che venti è XX che non questo segno
strampalato, 2.
- No, babbo, attento. Se scrivi solo 2, vuol dire due, II.
- Ma io voglio scrivere venti e non due.
- Eh, babbo, allora devi dire che codeste sono due decine e per far capire
questo ci devi mettere zero unità, dietro.
- Ma se ci metto zero unità dopo il 2, avrò ancora 2, mica sono grullo io.
- No babbo, ci devi proprio scrivere zero.
- Ma come, scrivere zero; zero non si scrive, è nulla, come scrivi nulla?
- Dice il maestro che gli Arabi scrivono 0, così, per dire zero. E così venti
sarebbe, nella loro arismetrica, 20.
- Oh per dio, dunque gli infedeli scrivono lo zero? Lo scrivono? Lo scrivono
per davvero?
- Sì, babbo. Loro ce lo scrivono dietro. Così: 2 vuol dire due, mentre 20 vuol
dire venti, cioè due decine e zero unità.
- Ma dunque, loro insomma... Oh dio. E così trenta si scrive: XXX, no, cioè...
Come cavolo si scrive?
- Il trenta ci ha tre decine e zero unità; devi prima sapere quali sono i segni
degli Arabi, le figure degli Indi.
- Senti un po', grullo, prima che ti prenda a calci. Sono Arabi o Indi?
- Boh, questo poi un lo so. So che le cose così le fanno gli Arabi, però 'sti segni
si chiamano degli Indi. Non ne so punto. Non so dirti.
- Allora, Indi o Arabi, come si scrive III?
- Te li dico tutti, babbo.
E, felice d'insegnare al babbo perché queste cose lui le sapeva, almeno queste,
Jacopo scrisse le cifre arabo-indiane in bell'ordine, dall'1 al 9 e poi lo zero.
- Ma perché, perché - diceva Dante quasi tra sé e sé -perché tre si scrive 3, o
IV si scrive 4, che senso ha? Sarà pure più evidente se tre è III: uno I, due II e tre
III. Madonna bona, non capisco.
- Neppure io capisco - azzardò Jacopo, per consolare il babbo e cercando allo
stesso tempo solidarietà alla sua ignoranza.
- E che c'entra, tu sei grullo. Aspetta, aspetta; se ci ho lo zero, come si scrive?
Ah sì, 0, e se voglio scrivere 20, devo mettere un segno dietro l'altro; se facessi
XX0, non saprei più qual è il segno delle decine, come dice Jacopo. Dunque, deve
essere un segno, un segno solo. Un segno solo, capisci? Un segno solo.
Dante sembrava parlare a Jacopo, ma non lo guardava; aveva mangiato una
decina di fave, sbocconcellato il formaggio e bevuto un paio di boccali, e parlava
in realtà al rotolo spiegato, mirando le cifre che aveva scritto Jacopo.
- Non capisci, arabo o indiano che sei? Una sola cifra per dire il due, una sola
per dire il tre, altrimenti non capisco quel che devo prendere. Provo a scrivere
XLVI; allora: c'è un quaranta, che sono quattro decine e scrivo 4; da solo vuol dire
quattro, ma se ci metto dietro il sei, con una sola cifra, allora è quarantasei.
Dunque sarebbe 4VI, ma così non si capisce più nulla, se le decine sono il 4 o il
V; allora scrivo il sei con una sola cifra, com'è pure? Eccola: 6. E scrivo 46 che
vuol dire: 6 unità e 4 decine. Funziona. Funziona? - chiese, rivolgendosi questa
volta davvero a Jacopo che un po' l'ascoltava e un po' guardava in un angolo dove
una donna non più giovane stava mostrando le gambe ignude a un avventore in
cambio d'un bicchiere di vino. Jacopo non aveva mai visto prima delle gambe
ignude di donna.
- Sì, babbo, è così. Scrivere i numeri è facile. Si possono anche scrivere le
centinaia; per esempio CCCXIX si scrive 319. Lo capisci?
Il tono pareva un po' a sfottere, ma Dante fece finta di non cogliere; era tutto
concentrato.
- Certo, se devo scrivere CCCXIX vuol dire che ci ho un trecento, poi un dieci,
poi un nove; quindi ci vuole un tre, 3, poi un uno, 1, e poi un 9, è così: 319. Ma
certo. Se scrivo 391 ho nove decine e non una. Come se il posto, la posizione
delle cifre, quella sì, avesse importanza. CCC, dovunque lo scriva, è sempre
trecento, ma il 3 no, dipende da dove lo metto.
Bofonchiava tra sé e sé e beveva, e il tempo passava. L'avventore che guardava
le gambe un po' flaccide della signora aveva concesso la ricompensa pattuita, ma
sembrava ora chiedere di più. Jacopo era molto, molto interessato a quell'angolo
lontano della taverna.
- E come faccio se devo fare CCXXII? Oh, questa è bella; se il 2 lo metto
davanti a tutti e vale per dugento, come faccio poi con le decine? Ci vorrebbe un
altro 2 e chi me lo dà? Che devo fare? Ehi, citto, ehi dico a te, ma che stai
guardando? Ah, brutto sporcaccione, guardi le gambe delle donne, eh?
Terrorizzato d'essere stato colto in flagrante e consapevole del fatto che quel
suo guardare avrebbe certo dovuto meritare castighi apocalittici, rosso in volto,
Jacopo si coprì la testa con le mani per evitare colpi furiosi, provando a borbottare
un inutile:
- No, ma che dici, io? - che aveva un suono così falso che lui stesso ne avrebbe
riso in altra circostanza.
Fu ancora più sorpreso, però, dal fatto che il babbo non s'adirasse per nulla, e
che anzi, sorridesse tra sé e sé. La mamma lo avrebbe certo ammazzato di botte...
- Beh, effettivamente hai, quanti? 16 anni, no? È l'età giusta. Forse una sera, se
Gemma, la mamma, non fa storie, ti porto qui con me, vediamo, sì vediamo...
Però dài dimmi 'sta cosa - e gli spiegò le sue titubanze sulla scrittura di CCXXII.
Jacopo rise a crepapelle:
- Ma tu di 2 ne hai finché ne vuoi, mica ce n'è uno solo. Perché non lo puoi
riscrivere ancora? 222, 333, 4444 - sempre ridendo.
- Oh, dio! - esclamò Dante, letteralmente in estasi: aveva scoperto la magia
della scrittura posizionale dei numeri, grazie a suo figlio Jacopo che frequentava
una delle poche scuole fisse della sua epoca, allievo di arismetrica del maestro
Paolo dell'Abaco.
13
A casa di Paolo
Il maestro s'era fatto attendere solo un poco. Dante lo stava aspettando in una
specie di budello angusto, un corridoio che dava nell'aula grande. Era buio e lui
stava in piedi, così che, quando il maestro s'avvicinò, Dante non lo poteva vedere
bene.
- Dante degli Alaghieri, padre di Jacopo e di Pietro?
- Sì maestro, sono proprio io, grazie per aver accettato di ricevermi.
- Sono oramai tre, quattro o forse più anni che il suo primo figliolo frequenta la
mia scuola, ma è la prima volta che vi vedo, o no?
- Beh, sapete, sono stato spesso in viaggio, per politica, per affari, per studio,
per lavoro. Però mia moglie Gemma credo che sia venuta, a volte.
- Sì, sì, non dico. Solo che Jacopo ancora sta alle tabelline e non s'ingegna
d'apprendere. Credo che gli gusti più la musica, l'astrologia, un poco più la
geometria; ma con i numeri, però, con i numeri non ci azzecca. Avevo detto a
vostra moglie che...
- Perdonatemi, maestro Paolo, ma, che lo crediate o no, non sono qui per
Jacopo; o meglio, sono qui a causa di Jacopo, ma non per lui, insomma.
- Non vi capisco, che intendete dire?
- Ieri Jacopo m'ha detto delle figure degli Indi e di come gli infedeli scrivono i
numeri.
- Jacopo, a voi? E che vi ha detto, proprio lui? Chissà che confusione, che
pasticcio avrà fatto.
- No, no, al contrario, ho capito molto bene. Come si scrivono i numeri con le
cifre, che il due si può ripetere più volte, che gli Arabi scrivono lo zero. Con le
cifre romane non si scrive, non serve. O che novità l'è codesta?
Dante parlava con enfasi, agitando le braccia, entusiasmandosi vieppiù.
- Calma, calma. Sì, è tutto vero, ma voi non siete un politico? O c'è chi dice
uno scrittore o un poeta. Che v'importa di tutto questo?
- Io sono un uomo di scienze e provo gusto a sapere e praticare di tutto. Ho
scritto di scienza, di astronomia, di lettere. Ma la geometria e l'arismetrica mi
appassionano e mi sento tanto ignorante. Pure la dialettica mi appassiona e l'ho
studiata a Bologna.
- Beh, bene; sono stupito, sì, sono stupito. Però, ancora non capisco. Che
volete da me?
- Maestro Paolo, Jacopo mi dice che voi sapete calcolare XXIV via XXXII
senza calculi, con lo stilo su di un rotolo - Paolo sorrise divertito. - Lui non me
l'ha saputo spiegare, ma io devo sapere, devo vedere. Che magia è mai questa?
Paolo sorrideva ancora.
Abituandosi pian piano al buio avevano cominciato a scorgersi l'un l'altro.
Dante indossava un vecchio vestito ancora elegante, con una sciarpa
d'ermellino, come gli era consentito, avendo fatto parte in passato del Consiglio
speciale del Capitano del popolo; portava un cappello di velluto fine, un po' liso,
come una specie di cappuccio stretto; sotto il pastrano sporgevano maniche
lunghe, pure quelle di velluto, lise ancora di più. Il viso era tirato, molto magro, i
capelli di mezza misura ancora piuttosto neri, il naso molto pronunciato, gli occhi
penetranti erano di fuoco e miravano dritto alle pupille dell'interlocutore. Era
certo persona che non avrebbe mai abbassato lo sguardo, di fronte a nessuno.
Paolo era vestito molto più modestamente, un lungo pastrano di lana che in
passato doveva essere stato bianco; aveva una lunga barba quella sì davvero
bianca, occhi allegri ma anch'essi penetranti, circondati da mille e mille rughe che
gli solcavano il viso dappertutto ma che attorno agli occhi creavano come una
fitta ragnatela; era magro ma muscoloso, i capelli anch'essi erano bianchi, bianchi
e lunghi.
I due si fissavano negli occhi, diverse intelligenze a confronto, fermi, risoluti e
pieni di entusiasmo.
- Bene, dunque - disse Paolo - e che facciamo? Io vi posso insegnare, spiegare,
ma non qui, non ora, serve uno stilo, dobbiamo sederci.
- Maestro, io vi posso aspettare qui fuori, quando avete finito andiamo dove
vorrete voi. Qui all'angolo c'è una bettola che...
- No, per favore, no, non facciamoci vedere costì, l'è luogo di malaffare. Venite
più tardi, all'imbrunire, a casa mia. Che ne dite?
- Oh sì, è un grande onore per me. E, di grazia, dove vivete?
- Conoscete il cantiere di Santa Maria Novella? Guardandola a fronte, è
proprio la prima casa a sinistra, a piano basso, dentro in fondo. Chiamatemi, se è
il caso.
- Maestro, ci sarò, all'imbrunire. Grazie.
Si lasciarono e le ore passarono rapide; Dante rifletté sul 222 sul 2222 sul
22222 e così via, inebriato, estasiato da questa idea tanto semplice e geniale;
eppure, eppure non riusciva a immaginarsi come fare a calcolare, senza calculi,
ma con uno stilo, XXIV via XXXII, anzi no 24, via 32.
- Maestro, maestro Paolo - gridò Dante entrando nel portone della casa
indicata; e una voce dal fondo, mentre una porta si apriva, gli disse, al buio:
- Per di qua, di qua; qua sono.
I due si sorrisero, già complici, già meno formali di quanto fossero stati la
mattina stessa.
- Allora, Dante, siete pronto ad apprendere? - chiese Paolo.
Aveva già acceso una lanterna puzzolente e una candela sul tavolo; erano già
pronti, in bella vista, ordinati e a portata di mano, tutti gli accessori per scrivere e
un rotolo quasi nuovo dispiegato, tenuto fermo ai bordi da due pesi, due blocchetti
di marmo, raccolti forse in cava a Carrara o per la strada attorno alla Signoria o a
Ponte Vecchio, rimasugli di qualche scultura.
- Ora più che stamani, maestro. Realmente, muoio di curiosità.
- Oh, ce l'avessero i miei allievi una curiosità così d'apprendere. Jacopo, poi...
Allora, che vi devo spiegare?
- Maestro, una cosa sola, la magia degli infedeli per calcolare senza calculi
XXIV via XXXII.
- Bene, bene, è semplice - disse Paolo.
Si sedettero su due alti e vecchi sgabelli di legno, appoggiandosi entrambi al
tavolo, di fronte al rotolo dispiegato. Dante raccolse la parte finale del pastrano, lo
stesso della mattina, sulle ginocchia, si rimboccò le maniche e appoggiò il mento
sul palmo, facendo forza sul gomito nudo.
Il maestro Paolo, intingendo più volte lo stilo nel calamaio, iniziò a scrivere:
- Dunque, ecco, voi già sapete come si scrivono 24 e 32. Li scrivo ora così,
dentro un reticolato:
Va bene, è chiaro?
- Oh, sì chiarissimo. Proseguite pure.
- Ora nelle caselle di centro tracciate come delle diagonali, per partirle in due,
così:
e poi fate i calcoli con le tabelline, come 3 via 4 che è 12 e lo scrivete al posto
giusto così:
e poi continuate con tutti gli altri uguale:
L'è tutto chiaro?
- Sì, certo, è tutto molto semplice; ma ora? Io i calcoli li ho già fatti a casa e lo
so già quel che viene; li ho fatti con l'abaco e deve venire...
- No, attento, non me lo dite, non mi dovete rovinare la sorpresa.
- Va bene; e mo', che facciamo?
- Allora adesso fate le addizioni in diagonale, come vi fo vedere io ora, qui,
qui, e qui:
ed ecco dunque il risultato: 24 via 32 è 768, cioè DCCLXVIII.
- Lo sapevo, è quello giusto, non importa che me lo scriviate in romano, lo so
scrivere pure io in cifre degli Indi, è 768. Perbacco, è lui, è esatto, madonna bona!
Dante era allibito, anzi, era stordito: semplice, semplice, semplice. Molto più
rapido dell'abaco, meno confusione, niente sassolini, tavole, pesi.
- Che ne dite di un bicchiere di vino? - chiese il maestro Paolo; ma Dante era
totalmente assorto e non s'accorse neppure dell'offerta. Si stava chiedendo come
fare con i riporti, con lo zero, con numeri grandi. Ma aveva capito che lo
strumento era potente, incredibilmente potente.
- Vi chiedevo se volete accettare un bicchiere di vino; è vino senza nome, ma
lo fanno certi amici miei, me lo mandano dal Chianti.
A sentir nominare il Chianti, la valle che tanto gli era cara, Dante si voltò, non
aveva sentito la frase, ma capì l'allusione al vino e accettò. Ma il maestro non
s'alzò, aveva già dimenticato l'offerta ed anzi disse:
- Ci sono anche altri sistemi, come la crocetta, per esempio, e il raddoppio.
- Crocetta, raddoppio. Oh, Paolo, per favore, fammi vedere, non mi tener
sospeso. È la cosa più bella della vita mia. Com'è la crocetta, cos'è il raddoppio?
Paolo accettò di buon grado che quell'uomo così positivamente famoso, per
scienza, poesia e politica, non altrettanto per virtù, gli si rivolgesse dandogli del tu
e decise di farlo anche lui: in fondo era più vecchio e il maestro in quel momento
era lui. E poi, si sa come vanno le cose in politica; oggi Dante non è nessuno e
anzi c'è aria che tira contro di lui, ma è stato famoso politico in passato e chissà,
con il ritorno dei bianchi al potere, chissà, forse la sua scuola di Santa Trinita ne
avrebbe potuto trarre vantaggi.
- Sì, ti fo vedere la crocetta. Stavolta scrivi i due numeri così:
- Senza quadretti? - chiese Dante.
- No, stavolta non serve nulla. Ora metti 'sti segni così:
Ora vedi di fare, cominciando da destra: 4 via 2 che è 8 e lo scrivi qui sotto:
8
Poi 2 via 2 plus 3 via 4 che è 4 plus 12 cioè 16. Il 6 lo metti dinanzi all'8:
68
e l'uno lo conservi per dopo. Ora, infine, che ti manca? 2 via 3 che è 6, però
devi aggiungere quell'uno che ti restava e che dunque è 7, e lo metti...
- Davanti al 68, beh fa 768. Come prima - esclamò Dante, precedendo Paolo. Ma è impossibile, è una magia, un miracolo - continuava Dante, agitando le mani
al cielo, entusiasta.
- No nessun miracolo, è tutta arismetrica araba, geniale e semplice.
- Ma perché a Bologna non me l'hanno insegnata così, perché usare i calculi?
- Lo sai bene che questa roba viene dagli infedeli; molti cardinali si sono già
dichiarati contrari, e il papa sta decidendo. Che cosa possiamo fare contro le
gerarchie? Io la insegno, ma insegno pure l'abaco.
- Non lo posso credere, Paolo, mi sembra un sogno. Questa si chiama crocetta,
e la prima come si chiamava?
- C'è chi la chiama fulminea, c'è chi scachero, chi reticolo, ha tanti nomi. Ma
non ti dimenticare il raddoppio.
- Paolo, dimmi, ti prego, dimmelo.
Ma il maestro Paolo si era alzato e, questa volta senza chiedere nulla, aveva
preso due bicchieri dal secchiaio, puliti e freschi, aveva versato del vino rosso,
scuro come il sangue di Cristo nelle pitture di Giotto in Assisi, e aveva appoggiato
uno dei due sul tavolo, vicino al fianco di Dante, bevendo d'un fiato il suo.
- Ecco, questa è ancora più antica, dicono che la facessero già gli Egizi. Scrivi
così, i due numeri l'uno a fianco all'altro:
24
1
- 1, ma come 1? Non era 32, Paolo? Che fai?
- Non ti preoccupare, tu inizia sempre da 1.
- Se lo dici tu. E poi?
- Ora raddoppia tutt'e due, che fa 48 e 2, e scrivili sotto, così:
24
1
48
2
e così via sempre raddoppiando, finché te lo dico io.
Dante prese sul serio la consegna e, facendo facili calcoli di raddoppio a
mente, scrisse:
24
1
48
2
96
4
192
8
384
16
768
32
A questo punto, Dante si fermò, allibito e incredulo, esclamando:
- Ma questa è una magia, eccolo qua ancora, 768. Ma la cosa non va in
generale, e se non mettevo 32?
- O buon uomo, 32 tu me lo hai detto tu, mica l'ho scelto io. Comunque non ti
preoccupare, la cosa funziona sempre, sempre, non t'allarmare. Vuoi fare una
prova?
- E sì, eh? Facciamo con un dispari, diciamo 14 via 11. Allora, vediamo se ho
capito: scrivo 14 e 1 così:
14
1
e poi raddoppio, raddoppio sempre:
14
1
28
2
56
4
112
8
Dante stava per raddoppiare ancora, ma Paolo lo fermò:
- No, no, basta così.
- Ah, vedi - disse Dante - che mica ce lo trovi l'undici?
Paolo stava sorridendo e con calma infinita gli disse:
- Vedi lì a destra? Prendi quei numeri che ci hanno come somma 11. Quali
sono?
- È ovvio - disse Dante. - Otto e due dieci, e uno undici.
- Facci una crocetta a parte, così:
Ora addiziona i numeri della colonna di sinistra che stanno all'altezza della
crocetta. Quali sono?
- 14 e 28 e 112 che fanno 42 e 112... Mi pare 154. Tu mi stai dicendo che 14
via 11 è 154? Sarebbe un'altra magia? È proprio vero?
Paolo sorrideva, muto.
- Oh, dio, non ci posso credere. Davvero? Aspetta che provo. Ce l'hai qui un
abaco?
- Dante, un abaco a casa mia non serve.
- Il buffo è che ti chiamano Paolo dell'Abaco, scusa, scusa. Dunque 14 via 10 è
140; basta aggiungere dunque 14 che fa, dio, madonna bona, è vero, l'è proprio
vero, fa 154.
Dante era in quel momento l'uomo più felice del mondo. Preso dagli algoritmi
che da pochi decenni erano entrati in Europa quasi di nascosto, non s'era accorto
che quella casa, costituita da un'unica stanza, puzzava in maniera nauseabonda,
che la candela stava terminando il suo servizio e che s'era fatta notte fonda.
Non si ricordava neppure che due donne l'attendevano alla taverna, né si dava
pena che Gemma si sarebbe infuriata, immaginandosi chissà quali nuove corna
ancora.
14
Il Sole
Dante non era un grande ballerino, e lo sapeva. Far coppia con lui, però, era
molto ambito da dame e signore della Corte, per via del suo nome ("Ho ballato
con Lui ieri sera" era frase piena di orgoglio, da comunicare alle amiche la
mattina dopo). Tutte ammettevano che Dante era uomo di fascino immenso e che,
durante il ballo, era perfino talvolta possibile scambiare con lui, adulatore
sublime, qualche parola.
Né poteva sottrarsi a questo sacrificio; anzi, al contrario, era giusto e fruttifero
farsi amare da tutti e tutte, per quieto vivere. E, dopo tutto, era molto facile far
credere a qualsiasi dama, giovane o vecchia, di avere un posto speciale, nel
proprio cuore, riservato a lei.
Solo che quella notte, dopo tutto il giorno passato a lavorare, non ne poteva
proprio più. Riuscì a evitare la giovane e flaccida signora che, dopo averlo
pesantemente puntato, si stava dirigendo verso di lui, per fortuna molto
lentamente, per costringerlo a una lunga danza; durante una breve pausa per
permettere ai musici di cambiare ritmi e strumenti, Dante si dileguò nel buio
corridoio, con un piccolo pezzo di tartina in mano, che gettò al primo angolo,
fingendo di cercare qualche cosa, qualsiasi cosa, l'orinatoio (che, però, di solito
era all'aperto e in un luogo appartato e distante) o il vestibolo o un cameriere.
Solo, finalmente, al buio, si appoggiò alla colonna e respirò, ricavando dalla
grande apertura senza vetri una boccata d'aria della notte. Il cielo era pienissimo
di piccoli punti luminosi e Dante, con la sua grande esperienza di astronomia,
avrebbe saputo nominarne parecchi.
Ogni volta il fascino della notte lo colpiva e ancora di più aveva breccia su di
lui la differenza tra la potenza del Sole durante il giorno e l'oscurità totale (ché
allora era davvero totale) della notte.
Il mistero della sparizione del Sole ancora non era a quei tempi proprio del
tutto chiaro. E ancora più misteriosa era la sparizione dei punti luminosi (stelle,
pianeti, pianetini, satelliti, globi, comete, asteroidi, masse erranti etc.) durante il
giorno.
Dante aveva una sua teoria, ma non tutti erano d'accordo. Molti dicevano che,
così come il Sole se ne andava per cedere il passo alla notte, così all'alba le stelle
e gli altri corpi celesti se ne andavano per cedere il passo al Sole: teoria poco
scientifica, ma democratica. Ma Dante era convinto di una cosa diversa assai: che
le stelle di giorno ci fossero, eccome, nel cielo, ma che la luce del Sole fosse
talmente forte da renderne impossibile la visione; guardando il cielo di giorno,
qualunque essere umano vedeva il Sole o la sua luce sfavillante, restandone quasi
immediatamente abbagliato, perdendo dunque la possibile visione delle stelle.
Così come il Sole illumina gli altri corpi celesti e di esso non è possibile
sostenere la vista, così...
Così... gli sarebbe piaciuto trovare un bel paragone per il Convivio, di quelli
che, quando riescono bene, riempiono la pagina e vengono citati insieme al nome
del loro autore.
Non s'era accorto che alle sue spalle c'era una larga tenda, spessa, di velluto
blu, che si confondeva dunque con il buio assoluto dell'androne che lo stava
riparando, la notò solo una volta che si fu assuefatto di più all'oscurità. Provò a
scostarne leggermente un bordo, per vedere che cosa c'era dall'altra parte, e scoprì
che si trattava dei musici, i suonatori. A quei tempi, a motivo di una curiosa e a
noi incomprensibile cosiddetta decenza, era vietato ai musici essere presenti
fisicamente nella sala dove nobiluomini e nobildonne danzavano; e a questi ultimi
era vietato vedere i suonatori, essendo lecito solo ascoltarne il suono.
Proprio nel momento in cui Dante sollevò il lembo, vide che il gruppo, dopo
un riposo di qualche minuto (e allora capì come mai c'era stato tanto silenzio fino
a quel momento), era lì lì per riprendere. Il capo musico stava dando le norme per
la prossima esecuzione, muovendo la mano destra in modo ritmato e dicendo a
voce bassa un semplice:
- Uno due tre quattro, uno due tre quattro, capito tutti? Uno due tre quattro ripetendolo cinque sei volte, con lo stesso tono.
Poi la musica cominciò, dolce e ritmata, in verità abbastanza melensa e sempre
uguale e Dante pensò, con un sogghigno pieno di soddisfazione per lo scampato
pericolo, "Di là le coppie hanno di certo cominciato a danzare e la cicciona avrà
smesso di cercarmi".
Uno due tre quattro, ripeteva tra sé; e, chissà perché, questo suono, tutto
mentale, effettivamente ben si accompagnava alla melodia; sembrava anzi quasi
che i suonatori, anziché suonare musica, dicessero o suonassero tutti in coro "Uno
due tre quattro".
Dante si trovò a danzare, da solo, al ritmo di "Uno due tre quattro, uno due tre
quattro", e la cosa lo sorprese assai.
"È come se la musica, nella sua essenza estrema, fosse permeata di aritmetica;
questa non è una novità, Pitagora lo sapeva bene quando elaborò la sua teoria; e lo
sanno bene i musici quando compongono melodie. E lo sanno bene i pedagoghi,
quando mettono insieme musica e aritmetica. Già...". Questo lo fece pensare:
"Musica e aritmetica, ma è l'aritmetica che permea la musica, non viceversa. E del
quadrivio fan parte anche...".
- Oh, messer Dante, vi ho trovato alfine - fece una voce affannata ma non
sgradevole alle sue spalle, evidentemente di nobildonna.
Dante sobbalzò e temette il peggio; si voltò e sì, diamine, era lei, la scomposta
e affannata signora che lo stava puntando da tempo per un ballo.
- Signora, che grande onore mi fate, affermando di cercare proprio me - rispose
Dante, spudoratamente, con fare galante, avvicinandosi e sorridendo. Oramai la
frittata era fatta, la sua fortuna stava declinando a rotta di collo ed era oramai
irreparabile. Dante si sforzò dunque di limitarne i danni.
- Messer Dante - disse la signora, riparandosi il viso sudaticcio che avrebbe
voluto color porpora per fingere disagio e timidezza, e che invece era bianco
come l'interno di una banana africana quasi matura - voi mi confondete.
- Vi avevo già notato, splendida dama, e pensavo di venire or ora a cercarvi per
un ballo.
Dante stava cercando un rapido ritorno tra la folla degli invitati, temendo quel
buio, quella solitudine e le possibili avances della dama.
Ma, come temeva:
- No, messer Dante, no. Non rituffiamoci in quella folla civettuola. Restiamo
qui appartati, noi due, soli - disse, con un'occhiata a tre quarti, maliziosa e
ammiccante.
"Oh dio, no, salvami tu" pensò Dante; ma disse invece a voce alta e ferma,
molto virile:
- Ma qui soli, voi ed io... La nostra assenza sarà notata; che penseranno di noi?
La signora non rispose; era quel che Dante temeva: che la loro assenza di
coppia fosse notata, questo era lo scopo preciso della dama, dunque. Poter far sì
che il pettegolezzo della notte stessa e della mattina dopo fosse quello; che le sue
amiche, immaginando chissà cosa, la cercassero per saperne di più; al che lei
avrebbe ammiccato, sorridendo senza nulla ammettere né negare, facendo finta di
nulla, facendo dunque credere a ciascuna quello che voleva, diventando l'eroina
per un giorno o due.
- No, signora. Io devo proteggere il vostro nome, e che sia così - disse Dante e,
ancora con fiera virilità, la prese per la mano e la tirò con forza verso la sala.
Ma la dama era talmente ben piantata per terra, sulle sue gambotte ben
ricoperte di una sottana larghissima - che tuttavia non riusciva a nascondere il
diametro dei fianchi - che non gli riuscì di trascinarla seco neppure per un
centimetro, se anche questa misura fosse esistita allora (mancavano ancora sei
secoli e mezzo).
La donna, senza neppure far caso allo sforzo vano del Poeta, strinse a sua volta
quella mano virile con la sua manina bianca e delicata e, rivelando una potenza
incredibile, lo tirò a sé portandolo alla finestra d'un balzo.
- Oh, Dante, ditemi delle stelle - e la vocina stridula, non più affannata, in
realtà, sembrava volesse dire ben altro.
Con la mano stritolata, ancora in equilibrio instabile su di un solo piede, Dante
prese alla lettera la domanda e cominciò a parlarle di stelle, di corpi erranti, di
Sole, di Luna, di tutto quel che poteva, ma in maniera tecnica, senza nulla
concedere alla poesia né alle sdolcinate frasi che, in ben altre circostanze e
compagnie, così bene avevano funzionato.
La dama, incredibilmente, accettava tutto con grande avidità scientifica e
faceva domande intelligenti e pertinenti; "Dio" pensò Dante "vuoi vedere che mi
sono del tutto sbagliato?".
E, preso allora davvero da impeto, cominciò sul serio a parlarle, dandole
importanza, rispondendo a tutte le domande. La dama era veramente felice.
Guardava le stelle e Dante con la stessa cupidigia:
- Una domanda da sempre mi assilla, messer Dante; e qualcosa, il mio cuore
forse, mi dice che stanotte avrò finalmente la risposta da voi, che siete così abile e
così competente, vero?
Dante aveva completamente cambiato atteggiamento verso la dama; ora la
vedeva diversa, curiosa, intelligente, perfino colta.
- Ditemi, bella signora - ora la trovava davvero perfino bella. - Tenterò, con la
mia modesta conoscenza, di rispondere a qualsiasi domanda vostra. Se lo potrò, e
se vi accontenterò, sarò l'uomo più felice della Terra.
- Ecco, messer Dante, non ridete di me e della mia domanda tanto sciocca. Sì?
D'accordo? Sempre mi sono chiesta, da bambina, e nessuno mi ha mai saputo dar
risposta, dove vada nottetempo il Sole e dove vadano di giorno le stelle. Oh, vi
sembro sciocca? È una domanda stupida? Temo il vostro giudizio, Dante - e, così
dicendo, gli prese nuovamente la stessa mano ancora dolorante e la stritolò ancora
di più, fracassandone falangi e metacarpi e annerendone tutte le unghie in una
sola volta.
- Ahi - fu il contenuto urlo di dolore di Dante, che avrebbe voluto esprimere
ben di più; liberata la mano e frizionandola con l'altra, aggiunse:
- Ma questa non è una domanda banale, anzi. È la domanda che si fanno in
tanti e alla quale non tutti sanno dare risposta.
- Oh, grazie; allora non pensate di me che sono una stupida? Vero?
Se non fosse stato per la mano stritolata, effettivamente ora, in tutta sincerità,
Dante avrebbe potuto rispondere adulando; ma, pensò rapido, Dio non voglia
ch'io mi ritrovi la potenza di costei a più stretto contatto.
- Stupida? - si limitò dunque a dire, ma con voce neutra e distante. - Che dite
mai bella signora. Comincerò col rispondere alla seconda domanda.
E le spiegò la sua teoria, quella secondo la quale le stelle e i corpi celesti sono
sempre presenti in cielo, ma la luce del Sole eccetera eccetera.
- Oh, affascinante e convincente - disse lei. - Per cui, se potessimo schermare
per un momento la luce del Sole, anche di giorno potremmo vedere le stelle, no?
Ma guarda, pensò Dante, giusto. E si stava volgendo a lei con stupore, per
esternarle la sua ammirazione, e per poi passare alla prima domanda (quella su
dove va a finire il Sole di notte), quando un gruppo di giullari, vestiti in maniera
buffa e colorata, prendendo a calci un nano che fingeva di piangere rotolandosi a
ogni pedata, invasero e illuminarono a giorno il corridoio reggendo mille torce in
mano, urlando d'improvviso a tutta voce e trascinando con sé tutti o quasi gli
invitati in una corsa, come si usa fare ancora oggi, con ciascuno che teneva le
mani sui fianchi di quello davanti. Oggi si chiama treno, allora si chiamava
serpente.
Dante e la signora furono dunque sorpresi da tutti alla finestra, vicinissimi, lo
sguardo di lui dolce e concentrato su di lei, che stava per dirle quel che sappiamo
e che pure non era affatto quel che tutti invece credettero e che la signora fece poi
a lungo intendere nei giorni a seguire.
Furono dunque risucchiati da quella folla, allontanati l'uno dall'altra, lei più
goffa e lenta, ma, ora lo sappiamo, solo nel corpo; lui strapazzato un po' dai
compagni che lo sfottevano e dalle altre signore che se ne contendevano le
attenzioni.
E la notte finì più o meno così.
All'alba della mattina dopo, Dante aveva tutto chiaro in mente; aveva dato
risposta ai pensieri che stava facendo prima dell'arrivo della signora (le storie ne
riportano il nome, ma non narrano, come qui stiamo facendo, la reale verità degli
avvenimenti di quella notte, lasciando, a bella posta, un alone di dubbio).
L'aritmetica pervade la musica, la geometria e financo l'astronomia, pervade
tutte le scienze e non solo; la sua luce è tale che alla sua presenza si vede solo
quella e occorre la "notte" per scoprire davvero la realtà, per vedere non abbagliati
dal Sole dell'aritmetica: così come il Sole illumina gli altri corpi celesti e di esso
non è possibile sostenere la vista, così l'aritmetica illumina e permea tutte le altre
discipline scientifiche, pensò dunque e scrisse Dante.
"Chissà mai se i posteri mi passeranno questa immagine...".
15
Piramidi
- E così, voi avete girato il mondo, signor mio.
- Il mondo intero, no, ma molte città della penisola sì, e non solo.
- E quale, quale delle città vi è sembrata più bella, quale ha saputo esercitare su
di voi il massimo fascino, a quale i vostri ricordi non vi possono far rinunciare?
- È ovvio che il cuor mio fu e sempre sarà a Firenze, la mia patria, dalla quale
sono costretto a star lontano, forzato, non per mia scelta.
- Che cosa rimpiangete di là, vostra moglie, i vostri figli, la famiglia, gli amici?
- Sì, tutte queste cose, ma nessuna di esse in particolare. Sapete, è come aver
fatto parte d'un tutto ed esserne staccato a forza. È come perdere la propria
identità: tu sai d'essere là, parte di quella realtà, ma fatti contingenti ti staccano, ti
avviliscono, ti allontanano. Dovunque tu vada, poi, sei straniero, anche dove sei
accolto bene. Tu non ne hai colpa, non hai scelto tu l'esilio. La colpa è del destino:
la ruota del tempo gira, altri destini, altre politiche; un giorno un principe bizzoso,
un giorno la chiesa che cambia opinione... E tu, ch'eri uno che contava, cui si
chiedeva l'opinione prima di qualsiasi decisione e impresa, sei messo da parte
prima, al bando poi, come un delinquente. Molti ti rimpiangono, in segreto, ma
guai a ritornare.
- Oh, che triste destino il vostro, e con che pena dolente l'illustrate. Mi fate
venire le lacrime agli occhi; guardate, piango. Piango di commozione.
- Anch'io piango pensando a questo. Mia moglie? No, fu un matrimonio di
famiglia, senza sentimenti. I miei figli? Sono grandi oramai e con destini propri.
Gli amici? Quelli veri, come me sono fuori dalle mura e straziati dal dolore;
meditano vendette e ritorni e, chissà, forse un giorno ritorneremo davvero con la
forza.
- Via, non v'avvilite; ho pena a pensare che fu la mia domanda la causa di tanta
tristezza. Pensate a qualche cosa di più allegro. La seconda città del cuore, dopo
Firenze. Forse un'altra di Toscana? Arezzo, Pisa, Siena? So che siete stato a lungo
in tutte, e a Pistoia, mi pare.
- Sì, per diversi motivi risiedetti in varie città della Toscana mia, ma, a onor del
vero, dopo Firenze, la città che considero più mia e della quale conservo un pezzo
nel cuore è Bologna. Bologna, oh Bologna, che ricordi.
- Vi eravate da bambino?
- No, no, da studente, giovane, ma non poi tanto. Studente dell'Alma Mater. Di
dialettica e altro. Bologna la dotta, la grassa. Ché tutt'e due sono vere, non solo
dicerie di viaggiatori. Non v'è città al mondo con maggior sapienza, anche diffusa
tra il popolo. Vi si parla una lingua nobile e bellissima, la più bella dopo il
toscano. Sembra che la gente respiri la cultura della propria università, la più
antica del mondo e la più generosa dispensatrice di sapere. E la grassa, perché ivi
il cibo e il desinare sono opere d'arte. Qualsiasi trattoria potete scegliere, dalla più
raffinata alla più infame bettola, e vi faranno da mangiare con la cura e l'amore
con cui il pittore dipinge la sua deposizione. Come se ogni volta desiderassero far
bella figura, nella speranza d'un vostro complimento. La dotta e la grassa.
- Dicono altro di Bologna...
- Oh, lo so bene, la città delle tre 'T' per esempio. Le torri, i tortellini e le, beh,
come dire, il seno delle donne, che a Bologna si dice, tra il volgo, con la 't'
iniziale.
- Sì proprio questo dicevo.
- Ebbene. Quanto a questo ultimo fatto, non so perché, ma è vero. Sarà perché
la donna bolognese tradisce un'origine campagnola e gaudente, a differenza di
quella mia toscana, più montanara e segaligna. Il risultato è che, insomma, che il
seno è ben più prosperoso assai, nella media. Dicono che per essere elegante, una
donna, deve avere un seno che sta dentro una minuta coppa. Sarà pure vero, ma
agli uomini, a molti uomini, piace di più quello prosperoso.
- E i tortellini? Ci sono polemiche in corso tra Modena, Ferrara, Bologna e la
Romagna, sull'origine dei tortellini.
- È che la gente non capisce nulla. Si tratta di cose simili, ma tutt'affatto
diverse, tanto è vero che cambiano nome di città in città. Solo a Bologna sono
tortellini, "turtlein". Altrove sono cappelletti o tortelli o altri nomi simili. Solo a
Bologna nei tortellini si mescolano lombo di maiale, vitello e mortadella, in
nessun'altra città, né ora, né mai in passato, né mai in futuro, ci potete
scommettere.
- E davvero sono un cibo così prelibato?
- Ah sì, il trionfo del palato. E, mi raccomando, non fatevi infinocchiare, che i
veri tortellini bolognesi sono in brodo, ma che panna o ragù: in brodo. Pensate
che, una volta, avevo ospiti miei a Bologna due amici stranieri. Avevano sentito
parlare dei tortellini di Bologna ma non se li immaginavano neppure. Allora li ho
portati in una trattoria sotto al portico della morte, dove te li fanno lì per lì; si
tratta di un posto che porta il nome del patrono stesso di Bologna e che dunque
agisce sotto la protezione più alta...
- Oh, signore, non vi burlate dei santi.
- Bene: mangiarono i tortellini e furono deliziati. Non vollero alcun secondo
piatto e ordinarono ancora tortellini. Risiedettero a Bologna quattro giorni e
ordinarono tortellini tutti i giorni. E ne comprarono non so quanti per portarseli
con sé in patria, anche se io spiegavo loro che no, che non è la stessa cosa, che
senza il brodo perdono tutto. Capite? Opere d'arte.
- Direi, se ho capito bene, il gusto del mangiar bene, il gusto di far piacere
all'ospite.
- Sì, e la tipica cordialità del bolognese, senza ipocrisie, aperto, senza tante
storie.
- E le torri, ditemi delle torri. Chissà che fascino vederne, mi dicono, tante.
- Sì è affascinante. Ve ne sono a dir poco trecento, molte di più che a San
Gimignano o in qualsiasi altra città. Trecento, alte, basse, altissime e bassissime.
Ogni famiglia ch'abbia un nome e abbastanza denari si fa la sua. Sono attaccate
l'una all'altra, vicine a volte, che ci si potrebbe stringere la mano da una cima
all'altra, se fossero alte uguali.
- E sono diritte o pendenti, come quella di Pisa?
- Per lo più diritte perché a Bologna, nel fondo, non c'è sabbia né mare. Ma ce
n'è una inclinata assai, la Garisenda, che pare cascarvi addosso ogni volta che
passa una nube.
Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto 'l chinato, quando un nuvol vada
sovr'essa sì, ched ella incontro penda:
tal parve Anteo a me che stava a bada
- E qual è la più alta?
- La più alta, e dunque la più importante, è quella della famiglia degli Asinelli,
che c'ha quasi dugento anni.
- E quanto misura, lo sapete?
- Oh, certo, lo so bene. L'ho salita tutta almeno dieci volte. Misura poco più di
310 piedi.
- Oh, oddio! E voi l'avete percorsa tutta davvero?
- Sì, più volte, vi dicevo. Da lassù si vede tutta la città, le colline lontane, dolci
e soleggiate, verso sud. E perfino a lungo fuori porta, tutte le strade, per Modena,
per Imola, per Ferrara...
- E, scusate l'ignoranza, come han fatto per misurarla?
- Che cosa? Misurare che cosa?
- La torre, dico. Io immagino che si debba gettare una corda dall'alto, segnare
quando giunge a terra, qualcuno che la tenda in basso che non s'arricci, e poi
misurare la corda stesa a terra.
- Oh no, signora mia. Che dite mai? Chi seguirebbe un procedimento così...
così barbaro, scusate, non v'offendete.
- Non m'offendo affatto, ma non so trovare altri modi, in verità. Come,
dunque?
- E come, secondo voi, gli antichi Egizi misuravano l'altezza delle loro
piramidi o dei loro obelischi, salendovi in cima e gettando corde? Erano così
grulli?
- Sinceramente, proprio non ne ho idea. Immagino che non cambi il modo:
misurare una torre, o un palo, o una piramide, penso che sia lo stesso. Ma come?
- Avete mai sentito parlare del grande filosofo e matematico Talete, quello
della scuola di Mileto?
- Sinceramente no, signor mio, sarò molto ignorante, agli occhi vostri, ma no.
Ebbene?
- Sicura? Quello dell'arché, dell'origine comune di tutte le cose, che volle
vedere nell'acqua?
- Ah sì, l'arché, certo, eccome. Ma perché ne parlate come di un matematico?
Era un filosofo, il primo dei filosofi, il fondatore della scuola di Mileto, la prima
scuola di filosofia dell'antichità. Talete, il grande Talete. L'acqua. E, se non
ricordo male, ebbe due allievi non da meno, Anassimene e Anassimandro vero? E
anche uno cercava l'arché e la trovò...
- Nel vino! - e accennò una risata.
- No, non ridete di quei grandi pensatori. Nell'aria, nell'aria la trovò: nell'aria
che è, sentenziò, apeiron, senza confini, senza fine, infinita, indefinita, senza
limiti.
- Sì, proprio di quella scuola sto parlando, una scuola di dotti. Fu del VII o
forse del VI secolo prima di Cristo.
- Ma torniamo daccapo. Perché ne parlate come di matematici, se furono, a
vostra stessa detta, filosofi?
- Perché di grandi matematici sto parlando, secondi a nessuno. E Talete
dimostrò molti teoremi, come ricordano Aristotele e Boezio. Forse più dello
stesso Euclide.
- Ma perché ne parlate a proposito della torre degli Asinelli, o forse delle
Piramidi, e delle loro altezze?
- Perché proprio Talete si guadagnò fama imperitura presso gli Egizi e presso
le generazioni future per questo, per saper misurare le altezze senza corde e senza
giocolieri disposti ad arrampicarsi fino in cima.
- Oh, dunque, ditemi, che non riesco a immaginare questa magìa.
- Sì, magia! Magia fu chiamata dagli Egizi. Immaginate dunque di dover
misurare la torre degli Asinelli, che se ne sta ben piantata dritta a terra. Essa
produrrà un'ombra, sotto al Sole, nevvero?
- Certo, supponiamo sia un giorno d'estate di bel ciel sereno.
- Bene. Piantate a terra un bastone, anch'esso ben diritto, alto quattro piedi.
Anch'esso produrrà un'ombra.
- Sì. E allora?
- Ebbene, seguite il viaggio che il Sole compie, girando attorno alla Terra e
misurate di tanto in tanto l'ombra del bastone medesimo, fin quando tale ombra
non sia essa stessa quattro piedi. Allora un giovane lesto correrà lungo l'ombra
della torre e porrà un segnale al termine di essa. A quel punto...
- A quel punto basterà misurare la lunghezza dell'ombra della torre, per averne
l'altezza, nevvero?
- Avete grande intuito, signora mia, intelligenza viva e pronta, siete una dama
davvero di grande e piacevole compagnia.
- E così Talete insegnò agli Egizi a misurare le torri, no, volevo dire: le
piramidi.
- Sì, ma si può fare di più; mi volete seguire?
- Con molto entusiasmo e con devozione.
- Bene. Senza aspettare che l'ombra sia di ugual lunghezza: se l'ombra del
bastone è di due piedi, cioè la metà, secondo voi di quanto sarà più corta l'ombra
della torre?
- Ma è ovvio, signore: in quel momento l'ombra della torre sarà la metà
dell'altezza della torre stessa.
- E se l'ombra del bastone è la terza parte?
- L'altezza della torre sarà il triplo della lunghezza della sua ombra.
- Dunque, bella, colta ed affascinante signora, ammettete che, in ogni istante,
vi sia proporzionalità tra le ombre e le altezze?
- Sì, è ovvio, lo ammetto con semplicità e con totale convinzione.
- E dunque, Euclide descriverebbe tutto ciò con una frase come la seguente:
l'ombra del bastone sta all'ombra della torre
come
l'altezza del bastone sta all'altezza della torre,
d'accordo? Ma l'altezza del bastone la decidiamo noi, le ombre le possiamo
misurare a terra; dunque, l'altezza della torre è l'unica incognita che possiamo
calcolare, senza misurarla affatto.
- Affascinante e semplice. Le cose escono da voi con naturalezza estrema e
sembrano semplici e agevoli, come in fondo sono. Conosco maestri, però, che le
rendono insulse e assurde e complicate assai.
- Il merito è vostro, signora, della vostra acutezza. Voi lo sapete, vero? Che
attirate gli uomini con la grazia del corpo e le movenze, ma poi li affascinate e li
stordite con la sapienza e l'acutezza del vostro spirito. È un gioco crudele e
magico, all'un tempo. Lo sapete, vero?
- Solo di certi uomini state parlando, ne siete consapevole? Non di tutti accetto
la compagnia, ma solo di quelli che so essere al mio pari, che so essere
conversatori sublimi e affascinanti, come voi, signor mio toscano.
- Lo so, lo so, non v'offendete. Siete seconda, nella storia, solo a una grande,
ma questo mio dire non vi può offendere, perché la sua vita è oramai leggenda.
- Anche se so a chi vi riferite, vi prego, ditemelo, perché l'aver voi pensato a
questo paragone, mi lusinga assai.
- Bene, gran dama, ve lo dirò, tanto perché la cosa sia esplicita. Ma lo dovrete
indovinare voi, da questi versi - e citò, a memoria: 'Chi un esercito di cavalieri,
chi una schiera di fanti,
chi una flotta di navi dirà che sia la cosa più bella
sopra la terra nera, io dico...'.
- Io dico - continuò lei, citando sempre a memoria: 'Ciò che uno ama'.
16
Una tartaruga in corsa
Tutte le sere, a corte, c'era da inventare qualcosa per passare il tempo e
rallegrare il conte. Quando qualcuno proponeva una festa, era un bel sollievo.
Maschere, musica, balli, bicchieri, vino, e la cosa era fatta, un rituale già
consolidato. Ma altrimenti... Una volta si invitava un poeta, una volta un
canzoniere, una volta un rimatore, una volta un musico, oppure un attore o un
saltimbanco. Oppure... oppure bisognava inventare qualcosa. Indovinelli,
storielle, ma anche storie antiche, miti, leggende, tutto appassionava.
I paradossi, una sera Dante pensò di proporre paradossi. Ciascun commensale
avrebbe dovuto difendere un paradosso dagli attacchi degli altri. Naturalmente la
cosa andava preparata e ciascuno doveva avere due o tre giorni per pensarci. E fu
così che venne deciso: "Fra tre sere, i paradossi".
Naturalmente essere a corte non comporta necessariamente essere colti e
dunque furono in molti a chiedersi che cosa volesse dire quella parola, paradossi.
I più ingenui o i più sfacciati lo chiesero direttamente a voce alta. Gli altri
ascoltarono le risposte, facendo finta di nulla e ripromettendosi poi, a casa,
d'industriarsi per saperne di più.
Tre sere dopo, in effetti, ci furono parecchie defezioni; era come se si fosse
abbattuta un'epidemia sul Casentino, e molti cortigiani fecero sapere che non
avrebbero potuto essere presenti, ma con molto dispiacere. Con una punta di
malizia, pensò Dante, ma lo pensarono in tanti, più d'un cortigiano non avrebbe
saputo non solo difendere un proprio paradosso, ma neppure enunciarne uno.
Fu così che venne deciso di servire la cena nella biblioteca privata del conte
invece che nella sala grande, dato che il numero dei presenti era esiguo assai.
Giunti all'ultima portata, il momento tanto atteso, qualcuno ricordò infine che
era la serata dei paradossi.
Chi doveva cominciare? Dei pochi commensali, più d'uno si ritrasse dicendo
che non aveva trovato begli esempi, che preferiva aspettare a sentire gli altri, che
qua e che là; insomma, a dirla in breve, sembrava che l'unico che potesse proporre
un paradosso fosse Dante.
- Bene, Dante, spetta dunque a voi - disse il conte di Battifolle.
- Sono pronto, spero che il mio paradosso vi diverta e che vi accingiate a pormi
mille domande. Dunque, voi tutti conoscete il prode eroe acheo Achille, il più
forte e temerario degli eroi di Omero - un coro di "Sì". - E ricordate che Achille
aveva vari attributi e particolarità, nevvero?
- Sì, un non so che al tallone - disse uno;
- Sì, era figlio di una dea, mi pare - disse un altro.
- Ricordate - suggerì Dante - una gara di corsa nell'Iliade?
- Sì - disse finalmente il conte stesso. - Achille pie' veloce!
- Proprio così - confermò Dante. - Achille era un lesto corridore, il più veloce
tra gli Achei. Bene. E qual è l'animale più lento della Terra?
- La lumaca - disse uno;
- La tartaruga - disse un altro.
- Bene, allora - disse Dante - supponiamo che Achille pie' veloce e la lenta
tartaruga si sfidino a una gara di corsa.
- Ma è inutile - sbottò una bella signora tutta imbellettata - inutile. Achille
vincerà di certo.
- Proprio così, graziosa signora. Ma supponiamo che la gara non sia delle
solite, a chi arriva primo. Cambiamo le regole. Achille, eroe puro e dunque
generoso, concede un vantaggio all'animale e poi iniziano a correre nello stesso
verso. Achille vincerà se e quando mai dovesse raggiungere la tartaruga; in caso
contrario, perderà.
- Ma è impossibile - nuovamente intervenne la bella signora di prima - dato
che Achille raggiungerà di certo, prima o poi, la lenta tartaruga - e si voltò a
destra e manca cercando consensi.
- Bene, allora - disse ancora Dante. - Ma non dimenticatevi che stiamo
giocando ai paradossi. Allora, al via Achille e tartaruga partono e, in men che non
si dica, Achille...
- Avrà raggiunto la tartaruga - disse un signore anziano, che non doveva aver
capito molto della faccenda.
- No - disse Dante, un pelino stizzito. - Achille, in men che non si dica, avrà
raggiunto la posizione nella quale si trovava la tartaruga, la quale, però, per
quanto di poco, in avanti si sarà pure spostata. E quindi in quel momento
precederà Achille.
- Sì, è vero - intervenne il conte stesso - ma Achille prosegue nella sua corsa,
mica si ferma.
- Giusto! Achille prosegue e giunge in un lampo al punto nel quale si trovava
ora la tartaruga. Ma quella, nel frattempo... - e rallentò a bella posta nella speranza
che qualcuno abboccasse...
- Sarà andata un altro poco avanti - abboccò infatti la solita bella signora.
- Già - confermò Dante - ma Achille continua la corsa e giunge in un
battibaleno al posto nuovo della tartaruga ma... - e non disse altro.
- Ma ogniqualvolta Achille raggiunge la precedente posizione della tartaruga,
questa non c'è più ed è un poco più avanti - disse un elegante signore anziano, dal
viso rotondetto e dalle guance rosso porpora; e, dicendo questo, mostrò con la
mano destra pollice e indice un poco distanziati e piegati paralleli, come a
indicare una piccola misura.
- Dunque Achille non potrà raggiungere mai la tartaruga - sentenziò il conte. Che diavoleria è mai questa, Dante? - e rise a crepapelle.
La risata del sovrano era la più bella ricompensa a una serata riuscita; la
fortuna di chi ideava le serate era legata a questo.
- Conte - confermò Dante - non dimenticate che stiamo giocando ai paradossi.
Nella realtà concreta, Achille raggiungerà, eccome, quella lenta tartaruga alla
quale ha dato un vantaggio, ma io sto difendendo una posizione paradossale,
come il nostro gioco richiede. Tocca a voi, signori, ora, tendermi tranelli e farmi
cadere. Dovete attaccare la mia argomentazione e trovarvi un punto debole.
- Bello, Dante, davvero - batté le mani il conte. - L'avete inventato voi?
- Oh, no, Conte, no. È uno dei tanti paradossi di Zenone, il migliore degli
allievi di Parmenide, il grande filosofo di Elea. "Fiero e terribile nella sua
grandezza" diceva di lui Platone. Sapete, quello dell'universo unico e immutabile.
- Sì, sì, ricordo queste cose, anche se l'oblio, sapete... Dunque, chi tra noi
attacca l'argomentazione di Dante?
- Io - disse la bella signora. - Dante, ma ad un certo momento il vantaggio della
tartaruga sarà così piccolo ma così piccolo che la punta del calzare di Achille si
confonderà con la codina della tartaruga in fuga, no?
- Signora, voi avete la vista lunga e sottile; la vostra intelligenza è seconda
solo alla vostra grazia - e la dama arrossì, felice come mai prima, coprendosi il
viso con la mano. - Grazie alla vostra educata sfida, devo aggiungere una cosa.
Per poter dar senso a un paradosso, a volte bisogna fingere situazioni ideali. Io
parlo di Achille e della tartaruga ma, di fatto, penso a due punti geometrici, quelli
ideati dal grande Euclide alessandrino: punto è ciò che non ha parti, dunque punti
privi di dimensione. Chiamiamo Achille e tartaruga i due punti, d'accordo? E così
non ci saranno parti, cioè né punte di calzari né codine.
- Sì, sì, ho capito, ma nella realtà...
- Nessun paradosso è reale, signora; i paradossi sono sempre legati a mondi
insensibili e irreali, nei quali ha senso parlare di punti e di istanti.
- Ma quanto è il vantaggio che Achille dà alla tartaruga? - chiese un altro.
Questa è la tipica domanda che prima o poi uno ti fa.
- E che importanza ha? - rispose Dante. - Quale che esso sia, la cosa vale.
E continuarono così, per un paio d'ore, con interventi intelligenti e interventi
stupidi; ma nessuno riuscì a smontare il discorso di Dante, tant'è vero che alcuni
uscirono dalla serata convinti davvero che il più grande atleta mai avrebbe potuto
raggiungere una tartaruga...
Alla fine della serata, Dante era rimasto solo seduto alla tavola ancora
imbandita, quando si avvicinò un cameriere, quello che aveva l'esclusivo compito
di servire il vino al conte, scegliendo per lui gusto, tipo, annata.
- Eccellenza, perdonate il mio ardire.
Dante si voltò sorpreso:
- Sì, buon uomo, dite pure. Che c'è?
- Non ho potuto non ascoltare e mi avete molto sorpreso, a ben dire. E vi
volevo chiedere, dacché nessuno qui l'ha fatto, di rivelarmi l'arcano. Se paradosso
è, deve avere una soluzione. C'è un trucco, è evidente, signore; ma quale? Voi
l'avete celato a bella posta, e con molta arguzia.
Dante era, a quel punto, non più tanto giovane. Aveva visto di tutto e inventato
di tutto per la sua Commedia e dunque nulla più lo meravigliava ormai. Ma che
fosse alla fine un cameriere e non un nobile a porre la domanda più appropriata
della serata, di fatto lo colpì. Solo che, per poter spiegare questa faccenda
occorreva un po' di matematica e Dante temeva che il cameriere ne fosse privo.
- Conoscete qualche cosa di arismetrica?
- Oh, sì, signore; ai miei tempi ho frequentato la scuola d'abaco, e con
successo.
- Conoscete le figure degli Indi?
- Sì signore.
- Bene e allora proviamo. - Dante prese nelle mani due bicchieri vuoti, fece
spazio sul tavolo con l'avambraccio destro, e ripeté tutta la storia mettendo una
coppa sottile in luogo di Achille e un tozzo bicchiere in luogo della tartaruga. - E
adesso proviamo a vedere. Supponiamo che Achille dia alla tartaruga un
vantaggio di cento passi e che la velocità di Achille sia dieci volte quella della
tartaruga. Quando Achille giunge nel luogo di partenza della tartaruga, questa
dove si troverà?
- È ovvio, eccellenza, dieci passi più avanti.
- Giusto, perfetto. - Dante prese un terzo bicchiere; il cameriere non capiva
dapprincipio a rappresentare quale personaggio fosse destinato, ma comprese
subito dopo: semplicemente Dante si versò un po' di cordiale, lo bevve d'un fiato,
ricollocò il bicchiere sul tavolo e proseguì, ritornando ai due bicchieri iniziali. - E
quando Achille giunge alla nuova, seconda posizione della tartaruga, dove si trova
la stessa?
- Ancora ovvio signore, un passo più avanti.
- E poi?
- E poi a un decimo di passo, e poi a un centesimo di passo, e poi a un
millesimo...
- Bene, bravo, perfetto - disse entusiasta Dante. - Dunque, misuriamo ora tutta
la distanza percorsa da Achille: cento più dieci più uno più un decimo più un
centesimo più un millesimo e così via. D'accordo?
- Certo, fin qui è tutto chiaro.
- La somma di questi tratti dice quanto è lungo il percorso di Achille per
raggiungere la tartaruga.
- Sì.
- Ma allora, se io trovo una distanza che è certamente maggiore di quella, ecco
che, al percorrerla, Achille avrà non solo raggiunto, ma addirittura superato la
tartaruga, o non siete d'accordo?
- Sì, perbacco, è ovvio; ma quanto?
- Oh, adesso è facile; basta prendere centododici passi o, se volete essere fine e
sottile, bastano centoundici passi e due decimi, oppure centoundici passi un
decimo e due centesimi, non trovate?
- Ma dunque allora Achille la raggiunge questa benedetta tartaruga, ma non
dopo centoundici passi un decimo un centesimo un millesimo... basta anche solo
un millesimo dopo.
- È così, è proprio così.
- E il paradosso, dunque, se posso permettermi, signore, e senza offesa, sfuma.
- Certo, il paradosso sfuma. Ma nessuno prima me l'ha chiesto...
- Siete grande, eccellenza. E, se non siete troppo stanco, ... ce ne avreste altri?
- Oh sì, eccome, quelli di Zenone sono in quantità, ma non ci sono solo quelli.
Il cameriere estrasse una bottiglia di quello buono che neppure il conte sapeva
esistere, prese due bicchieri puliti e insieme a Dante cominciò a parlare di frecce e
di stadi finché non fu l'alba e dovettero ritirarsi.
17
L'imago al cerchio
Appoggiato al tronco, Dante sedeva all'ombra della solita quercia, sulla solita
collina, in Romagna. Aveva con sé, come sempre, tutto l'occorrente per scrivere,
una fiasca d'acqua e limone, un pezzo di cacio e un tozzo di pane avvolti in uno
straccio. Si recava lassù ogni mattina, scriveva e scriveva, e ritornava poi giù a
corte nel pomeriggio.
L'opera procedeva, giorno dopo giorno; scriveva con velocità incredibile,
creando o ritoccando il già scritto, a un ritmo frenetico. Aveva già quasi finito
l'Inferno, quasi tutto il Purgatorio, ma era stato preso dalla frenesia di finire il
Paradiso, prima di tutto il resto, mettendo in campo tutte le sue competenze di
dialettica. (Dio, quanto gli era costato apprenderla. Leggere e commentare tutti i
dodici libri di Pietro Ispano, "... ars artium et scientia scientiarum, ad omnium
methodorum...").
Aveva avuto l'idea di terminare tutta l'opera con la "vista nova" e cercava un
finale, come dire, a effetto, in modo che tutti potessero capire fino in fondo qual
era il senso della perdita della ragione di fronte al trionfo della fede evidente,
perché rivelata ai sensi. E sarebbe stata finalmente Beatrice, la Bice conosciuta
bambina, e morta tanti anni prima, il suo personaggio, costruito ad arte negli anni,
la donna ideale, perfetta, ad accompagnarlo negli ultimi versi.
Ora doveva trovare il modo, trovare il modo per dire della disperazione tutta
razionale di chi cerca senza esito, con la ragione, con la logica, senza riuscire, di
fronte a qualche cosa che sfugge, sempre per poco, sempre e solo quasi raggiunta.
- Maestro, Dante, non vi ho mai visto così corrucciato. Che vi succede? Quale
ne è la causa, l'opera vostra o i felici ricordi di Fiorenza che sempre vi pongono
triste di nostalgia?
Dante sussultò alla frase; non s'era accorto per nulla dell'arrivo di Lauretta, la
figlia minore di Guido Novello. Era una ragazza dolce, finissima, sempre attenta a
tutto, sorridente, amata dalla corte intera; era intelligente e colta, avida di sapere,
ballava con grazia ed era corteggiata da tutti, cugini stretti compresi. Vestiva un
abitino leggero e reggeva in mano una fiaschetta di vetro montata su paglia.
L'allungò a Dante, dicendo:
- Ho pensato che un po' di Sangiovese fresco vi avrebbe giovato al lavoro. Vi
sto dando molestia?
- Lauretta, cara e dolce Lauretta, come pensate di darmi molestia, voi? Il sogno
di tutti gli uomini di corte è di potervi rivolgere la parola. E io sono il più felice
dei mortali, giacché voi stessa la rivolgete a me spontaneamente.
- Dante, Dante, non fate anche voi il cascamorto con me. So bene che lo fate
per burla, con tutto quel che vi ronza davvero per la testa. Ero curiosa di vedere a
che punto siete e quando metterete la parola fine all'opera vostra, che tutti
l'attendiamo con ansia.
- Davvero pensate che qualcuno sia interessato a questa impresa? Non lo so, a
volte mi sento di lavorare tanto per nulla.
- Ma voi vedete, a corte, quando ne leggete brani, spiegandone il senso, a volte
arcano in verità, vedete le lacrime per la storia di Paolo e Francesca; la tristezza
per la sorte di Guido, che era di qui vicino, e ancora il suo nome aleggia nell'aria;
e la brutalità agghiacciante di Ugolino... Insomma, vedete voi stesso quanto siete
atteso.
- Grazie, grazie, le vostre parole mi sono di molto conforto.
- E dunque, allora, quando metterete la parola fine? Quando scriverete gli
ultimi versi?
- Si dà il caso che, sebbene io non sia alla fine, stia però scrivendo or ora gli
ultimi versi.
- Oh, questa poi non la capisco. Mi potete spiegare?
- Sì, certo, scherzavo un po'. Dunque, sto scrivendo i versi finali del Paradiso,
con i quali chiuderò l'opera. Però mi manca ancora qua e là qualche parte, specie
del Purgatorio, ma pure dell'Inferno. Sono però convinto - e intanto Lauretta si era
seduta accanto a lui, sfiorandogli il ginocchio con una mano - sono però convinto,
dicevo, che se azzeccherò i versi di chiusura poi farò presto a finire tutto il resto,
diciamo entro l'anno.
- Oh, dio, che emozione - disse Lauretta portandosi la manina sinistra alla
bocca, sbarrando gli occhi e aprendo la bocca, in un gesto che voleva esprimere
tutta la sua profonda emozione.
- E dunque entro l'anno potrò avere una copia dell'opera completa? E leggerla
tutta da sola? E voi mi spiegherete di persona i versi che non capirò?
Lauretta era molto giovane, troppo per Dante; e tuttavia quel contatto fisico lo
turbò.
- Beh, dunque - riprese Dante - il fatto d'aver finito l'opera non vuol dire che ne
possiate avere immediatamente una copia. Dovrò darla agli amanuensi per farne
fare un po' di copie; pensavo ai bravi fraticelli di Camaldoli. Pensavo a dieci
copie, ma non so se avrò abbastanza danari: non posso sempre confidare sulla
generosità di vostro padre. Una copia, la prima, sarà per vostro padre, Lauretta,
questo lo capite bene. La seconda per voi. La terza, solo la terza, per me. E le
altre, vedrò dunque al momento.
- Sono ansiosa, se lo potete, di sapere gli ultimi versi che, non so perché, mi
immagino siano i più faticosi, però anche i più importanti. Me li potete rivelare o
è segreto?
E Dante, eccitato all'un tempo dalla pressione della manina tenera sul
ginocchio nudo e dalla curiosità così sincera e reale per la sua opera, raccontò
tutto, della "vista nova", della sua ricerca d'un paragone di qualche cosa di
altrettanto vicino alla disperazione di chi cerca e non trova, con gli occhi della
ragione, di qualche cosa che sembra sempre lì lì per esser catturata, eppure
sfuggente. E parlò e parlò. Poi, d'un tratto, s'accorse che la manina aveva smesso
di premere e s'era come avvinghiata all'altra, e che Lauretta pareva concentrata su
pensieri lontani.
- Oh dio, vi ho annoiata? A che state pensando, di così lontano dalla mia
Commedia?
- No, no, al contrario, Dante, al contrario. Non so perché, ma le vostre parole
mi hanno fatto venire in mente quel che mi ha insegnato il mio maestro di
geometria, l'unico non noioso dei quattro che avevo. Sapete del rapporto tra
circonferenza e diametro, dei tentativi dei matematici antichi, di Brisone, si dice
anche di Archimede? Ogni volta che un matematico sembra avvicinarsi alla
determinazione del rapporto, succede qualche cosa di nuovo. Ah sì, ora mi ricordo
- gli occhi di Lauretta erano come inebriati e dentro il cervello di Dante
cominciava a farsi luce un'idea, un'idea - mi ricordo di una storia, ah sì, una bella
storia molto interessante, di riga e compasso, sì sì, molto bella. Sapete? Sapete di
queste cose?
Oh Dante sì, le sapeva eccome. Aveva studiato tutta la geometria di Boezio,
sudando freddo, e sapeva bene queste cose.
- Ecco, sì, ora ricordo - continuò Lauretta. - La trisezione dell'angolo generico,
la duplicazione del cubo e appunto la quadratura del cerchio. Sì, sì. I Greci, e
Platone in testa, avevano già capito, cercavano ma non trovavano, non trovavano.
Ma mi state ascoltando?
Dante s'era messo a scrivere. Stimolato da quelle parole ("Ma guarda questa
ragazzina dall'aspetto fragile, da quali cose si lascia entusiasmare, e che cultura
matematica ha"), aveva d'un tratto trovato il paragone giusto, quello
dell'impossibile determinazione del rapporto tra circonferenza e diametro con
frazioni, problema contro il quale Platone l'invincibile, Euclide il divino,
Archimede il grande, Aristotele l'infinito, avevano inutilmente lottato.
Lauretta allungò il collo fino all'inverosimile per leggere quel che stava scritto
in bella grafìa:
Qual è il geomètra che tutto s'industria
per misurar lo cerchio, e non lo trova,
pensando, quel principio ond'elli...
"Ond'elli, non so" pensava Dante "però deve finire così":
Tal era io a quella vista nova
- Sì, sì, Dante, è così. Voi mettete per versi perfetti le mie idee appena
abbozzate, Dio che magìa nelle vostre mani di poeta.
Ora il viso bambino era accanto al suo di adulto, e lui poteva respirarne il
profumo di fiori.
- Non trovo, aspettate Lauretta. Ci sono quasi, non "s'industria" che non ha
rima e non dà l'idea dell'afflizione, ah ecco sì l'afflizione, "s'afige" dunque, no,
diamogli più corpo "s'affige" così gli rimo "indige"...
E Dante corresse e aggiunse:
Qual è il geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,
tal era io a quella vista nova
- Sì, sì - dissero i due con entusiasmo all'unisono; e rimasero stupiti e si
guardarono a lungo negli occhi.
Ma il vero entusiasmo di Dante, o forse d'entrambi (questo le storie non ce lo
dicono), in questo momento, era di trovare gli ultimi due versi, solo due per dire,
infine, quel che cerca il geomètra:
Voler vedere come si pone
nel cerchio l'imago e...
- No, no, non va, non va, più fluido, più... non so. La rima deve essere con
"nova", anche per darle importanza, che sia chiaro che è il centro di tutto, il
paragone assoluto:
Veder volea come si ponea
- No, non può essere, troppo rimata internamente, devo come uscire dal verso.
- Dante, maestro, calmatevi, non vi infuriate. Non credevo che fosse così
poetare, voi pensate con rabbia. Io credevo che il poeta fosse un animo gentile,
voi urlate e strepitate, ci manca poco che non bestemmiate - Dante la guardò. Oh, Dio, non mi direte che a volte bestemmiate.
- Aspettate, un momento, silenzio, ecco, vedete:
Veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
- Non so, e allora come viene, in tutto?
- Ecco, vediamo, leggiamo insieme:
Qual è il geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
- Sì, sì, è così, è perfetta. Perfetto - diceva Lauretta, felice, battendo le candide
manine gentili l'una all'altra.
- Sì, credo che stia bene. Lo fermo così?
- Sapete, però, manca qualche cosa... - si era fatta seria.
- Come si capisce qui tutta la faccenda di riga e compasso. Mi spiego?
- No, sinceramente non capisco. Che cosa intendete dire, Lauretta?
- Voglio dire. Uno che legge qui pare che possa intendere che la quadratura del
cerchio è impossibile. Ma voi sapete bene che non è così. Esistono molti modi di
quadrare il cerchio, me lo ha insegnato il mio maestro: il metodo di Ippia il
Sofista (il nemico di Platone), il metodo di Dinostrato, il metodo di Nicomede, si
dice che vi fosse pure un metodo di Menecmo, poi c'è il metodo cosiddetto di
Platone, e tanti altri. Ma se uno legge così, crede che voi siate un ignorante e che
vogliate dire che, in assoluto, non si può quadrare il cerchio. E questo è falso. Non
si può quadrare con riga e compasso, ma senza questa limitazione si può, e come.
- Lauretta, siete una ragazza straordinaria. Dietro alla vostra grazia, alla vostra
leggerezza, alla vostra avvenenza, lasciatemelo dire, che stordirebbe chiunque, di
qualunque età - e sottolineò con forza questa frase - si nasconde una competenza
scientifica eccellente. Brava! Ma forse vi preoccupate per nulla. No?
- In che senso?
- Nel senso che queste cose sono arcinote tra persone di anche minima cultura.
Chiunque abbia un minimo di cultura sa bene che la quadratura del cerchio è
possibilissima, e facile anzi, se non c'è l'obbligo di usare solo riga e compasso.
Diventa impossibile solo con questa restrizione.
Lauretta, conquistata dalle frasi di Dante sulla propria avvenenza, si era
avvicinata parecchio a lui; ora le sue manine fragili stavano l'una accarezzando il
foglio arrotolato sul quale era scritto il poema, l'altra, quasi per caso, era caduta
sulla mano di lui, quella che reggeva lo stilo e, ancora quasi per caso, si stava
muovendo come in una carezza.
- Sì, Dante, avete ragione, chi volete che non sappia queste cose? Da noi, a
corte, a Ravenna, lo sanno anche gli sguatteri.
La storia nulla ci dice del seguito di quel pomeriggio, e se il Sangiovese fu
bevuto o no, ed eventualmente da chi.
Però la storia ci dice anche che Dante e Lauretta avevano torto su di una cosa:
sull'aver avuto tanta fiducia nella cultura matematica dei posteri.
Appendice 1
Matematica e matematici ai tempi di Dante
Poiché questa breve nota vuol parlare di Dante Alighieri, far cenno ai
matematici suoi contemporanei e alla presenza della matematica nella Commedia,
è bene cominciare ricordando le date esatte della vita del sommo Poeta italiano:
1265-1321.
Ecco dunque alcune rapide carrellate che potrebbero avere un qualche
interesse.
1. Matematici contemporanei di Dante da lui citati (più o meno esplicitamente)
nella Commedia
Boezio di Dacia (XIII sec.): filosofo e logico aristotelico; essendo considerato
insieme a Sigieri di Brabante (1235 ca.-1283, cit. in Par. X 133-138) il fondatore
dell'averroismo latino, cioè di un'interpretazione radicale e rigorosa del pensiero
di Aristotele, Dante ne deve certamente aver conosciuto, se non le opere, almeno
il pensiero, visto che di questo egli fu anche accusato; l'opera logica di Boezio fu
infatti condannata nel 1277, mentre la lettura di Dante fu vietata più o meno per lo
stesso motivo nel 1335 (14 anni dopo la morte del Poeta), e per diversi anni.
Giovanni Buridano (1300 ca.-1350 ca.): rettore dell'Università di Parigi, logico
e filosofo; la famosa questione dell'asino è citata da Dante in Par. IV 1-3.
Giovanni Duns Scoto (1265 ca.-1308): filosofo e logico. Dante non lo cita
direttamente, ma alcune delle sue osservazioni sulla relazione tra scienza e fede
fanno pensare che ne conoscesse il pensiero, d'altra parte molto diffuso in Italia.
Giovanni di Salisbury (1110 ca.-1180) vescovo di Chartres: logico aristotelico.
Dante non lo cita, ma sembra conoscerlo, almeno per quanto riguarda alcune
interpretazioni del pensiero aristotelico che fa sue.
Guido Bonatti, Bonato o Bonatto (1200/1220-1296/1298): astronomo e
astrologo fiorentino presso la corte di Guido da Montefeltro nonché assiduo
frequentatore di Federico II, posto da Dante tra gli indovini, in Inf. XX 118. Il suo
Tractatus astronomiae (in 10 libri) ebbe una certa rinomanza all'epoca e certo
Dante lo conobbe.
Michele Scotto o Scoto, cioè "lo scozzese", (1150/1200-1236 ca.), è nominato
accanto a Guido Bonatti in Inf. XX 115-117:
Quell'altro che ne' fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe 'l gioco.
Matematico, astronomo e astrologo, evidentemente molto magro, vissuto alla
corte di Federico II, traduttore insigne di Aristotele e Avicenna (Federico II lo
spinse a regalare all'Università di Bologna alcune delle sue traduzioni). Nel suo
libro astronomico Liber introductorius sono mescolate questioni scientifiche e
magiche, divinatorie, profetiche (com'era, d'altra parte, in uso a quei tempi).
Pietro Ispano (1220-1277), papa Giovanni XXI: è il celeberrimo autore delle
Summulae logicales, in dodici libri, che Dante ricorda in Par. XII 134-135:
... e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli;
Dante conobbe, studiò e apprezzò quest'opera, taluni elementi della quale
appaiono certo in alcuni passi logici del poema. Vi sono più testimonianze
concordanti sul fatto che Dante bambino abbia ascoltato una lezione di ottica
geometrica di Pietro, pare a Siena.
Roberto Grossatesta (1175-1253) vescovo di Lincoln: fisico, matematico,
scienziato naturale, filosofo, logico; la sua famosa teoria della luce sembra
ispirare, in certi punti, alcune riflessioni di Dante, che forse ne sentì parlare senza
farne conoscenza diretta.
2. Dante cita una quantità notevole di matematici antichi e li pone: in Paradiso:
Agostino di Tagaste (354-430): aritmetico, nominato però non in quanto
matematico bensì come teologo (XXXII 35);
Beda il Venerabile (673-735): enciclopedista, creatore di giochi matematici più
volte copiati nel corso dei secoli (X 131), per esempio da Alcuino nell'VIII
secolo;
Boezio Severino Torquato (480-526): enciclopedista, scrisse, tra l'altro, trattati
di aritmetica e di geometria ai quali certo si ispirò Dante per le sue conoscenze
generali (X 124-129 e Convivio);
Brisso o Brisone (-III sec.): geometra, secondo alcuni allievo di Euclide, che
tentò di misurare il valore di p con un numero razionale (XIII 124-126). È citato
da Dante come esempio di modo scorretto di ragionare, grazie a osservazioni
tratte da Aristotele;
Isidoro di Siviglia (560 ca.-630): vescovo di Siviglia, enciclopedista (X 130131); si sa che fu uno studioso di abaco o, come si direbbe oggi, di algoritmi;
Pitagora (-VI/-V sec.): forse citato in merito alla teoria delle sfere celesti in I
82-84 (dico forse perché l'identificazione del personaggio menzionato in quei
versi con Pitagora non è concorde);
Tommaso d'Aquino (1221 ca.-1274): filosofo, matematico, logico, più volte
citato da Dante come logico e teologo (X, XI, XII);
nessuno in Purgatorio;
nel Limbo (Inf. IV):
Empedocle di Agrigento (-V sec.): filosofo e matematico (anche in XII 41-43).
Eraclito (-550/-480 ca.): filosofo e matematico (138);
Euclide di Alessandria (-IV sec.): matematico (142);
Platone (-427/-347): filosofo e matematico (134-135); è negativamente citata
in Par. IV 49-63 la teoria platonica del ritorno delle anime al cielo;
Talete di Mileto (-VII/-VI sec.): filosofo e matematico (137);
Claudio Tolomeo di Alessandria (II sec.): astronomo e matematico (142);
Zenone di Elea (-V sec.): filosofo e logico (138 e Convivio);
in Inferno:
Vi sono poi vari matematici che Dante non cita nella Commedia, ma nel
Convivio, tra questi:
Albumasar (IX sec.): astronomo, astrologo e matematico arabo;
Alfragano (IX sec.): astronomo, astrologo, matematico arabo, la cui opera
Liber de aggregationibus scientiae stellarum è solitamente considerata una delle
principali fonti di informazione astronomica di Dante.
3. Altri matematici
Elencherò ora, in breve, altri matematici attivi, almeno in parte,
contemporaneamente a Dante, da lui non espressamente citati; ecco i più noti, in
ordine alfabetico:
Alberto Magno (1193 ca.-1280): teologo, logico e scienziato naturalista, fu
vescovo di Regensburg (la Ratisbona del Medioevo e del Rinascimento) e docente
a Parigi; tra i suoi allievi ebbe Tommaso d'Aquino. Incredibile per quei tempi, fu
strenuo difensore dell'indipendenza della speculazione filosofica e scientifica
dalla dottrina della Chiesa;
Alessandro di Villedieu (prima metà del XII-XIII sec.): autore del Carmen de
algorismo, contribuì alla diffusione della notazione indo-araba in Europa;
Alfonso X, re di Castiglia (1221-1284): autore delle Tavole astronomiche che
portano il suo nome, fece tradurre in latino numerose opere scientifiche arabe;
Andalò di Negro o Andalò Genovese (1270 ca.-1342 ca.): astronomo, autore
dell'Opus praeclarissimum astrolabii, che sarà stampato a Ferrara nel 1475;
Campano da Novara, Maestro Campano (prima decade XIII secolo-1296):
autore dei trattati Computus maior e De sphaera e importante curatore degli
Elementi;
Gherardo da Cremona (XII sec.): astronomo, matematico, traduttore e
commentatore di grande prestigio; spesso confuso con Gherardo da Sabbioneta
(XIII sec.), astronomo e astrologo;
Giovanni da Cornovaglia (Pseudo Scoto) (? - 1358 ca.): logico di alto livello,
confuso in precedenza con altri autori e solo recentemente identificato;
Giovanni di Sacrobosco o Giovanni di Halifax (prima metà XIII secolo):
studioso inglese, insegnò matematica e astronomia a Parigi e scrisse il Tractatus
de sphaera mundi, testo fondamentale per l'insegnamento medievale e
rinascimentale dell'astronomia;
Giovanni di Sassonia, Giovanni Dank o Danck (prima metà XIV secolo):
filosofo e astronomo, studiò a Parigi e scrisse i Canoni de l'eclissi e il Libro de
l'astrolabio;
Giovanni Lignerio (prima metà XIV secolo): filosofo e astronomo tedesco, fu
lettore dello Studio di Parigi. Scrisse numerose opere astronomiche, tra le quali si
ricordano Canoni del primo mobile, Della sfera, De le tavole;
Guglielmo di Ockham (1280 ca.-1349 ca.): filosofo e logico di primaria
importanza, il cui pensiero radicale influenzò a lungo i logici;
Isacio Monaco, Isaak Argyros (1310 ca.-1371 ca.): matematico, astronomo e
studioso di musica bizantino, scrisse gli Scholia in Euclides Elementorum
geometriae sex priores libros, opera che sarà stampata a Strasburgo nel 1579;
Leonardo Fibonacci, Leonardo "Bigollo" da Pisa figlio di Bonaccio (1175 ca. 1250 ca.): il maggior esponente della matematica medievale in Europa; nel 1202
scrisse il famosissimo Liber abaci. Altre opere: Practica geometriae; Liber
quadratorum; Flos super solutionibus quarundam quaestionum ad numerum et ad
geometriam vel ad utrumque pertinentium; De modo solvendi quaestiones avium
et similium; un commento sul decimo libro degli Elementi e un lavoro intitolato
Libro di merchatanti detto di minor guisa;
Levi Ben Gerson (prima metà XIV sec.): geometra, si impegnò nel tentativo di
ridurre il numero dei postulati euclidei e per questo è ricordato, in senso
improprio, come un lontano precursore delle geometrie non-euclidee. Scrisse
lavori trigonometrici e astronomici in parte riconducibili all'impostazione
tolemaica (con la notazione in frazioni sessagesimali); introdusse il teorema
secondo il quale i lati di un triangolo sono proporzionali ai seni degli angoli
opposti;
Lullo Raimondo (1234 ca.-1315): da molti considerato (per es. da Bochénski)
un precursore della logica moderna, ispirò certamente il pensiero di Leibniz;
Mazzinghi Antonio, Maestro Antonio da Peretola (XIV secolo): matematico,
scrisse di aritmetica;
Nasir ad-Din at-Tusi (1201-1274): studioso di geometria, tentò di dimostrare il
quinto postulato di Euclide. Cristoforo Clavio e Pietro Antonio Cataldi, tra gli
altri, più tardi ripresero le sue argomentazioni;
Paolo dell'Abaco, Paolo Dagomari (XIII-XIV secolo): maestro di Jacopo
Alighieri, figlio di Dante, in una delle scuole fisse di Firenze, Santa Trinita.
Autore di un celeberrimo e fortunato Trattato d'Abaco che, chissà, forse Dante
ebbe tra le mani... Scrisse anche di astronomia;
Pietro Daco, Petrus Philomeni de Dacia (fine XIII secolo): filosofo, astronomo
e teologo. Studiò a Parigi e operò in Danimarca. Commentò alcune opere del
Sacrobosco;
Ruggero Bacone (1214 ca.-1292 ca.): astronomo e matematico inglese, scrisse,
tra l'altro, di prospettiva e di alchimia;
Vitellione, Witelo (1230 ca.-1275 ca.): matematico e studioso di ottica polacco,
scrisse il Perspectiva, un famoso e apprezzato trattato di prospettiva.
NOTA:
Questo testo fu (più o meno) usato per una mia conferenza che aveva lo stesso
titolo, a Forlì, il giorno 5 aprile 2000, nell'ambito di L'alfabeto di Pitagora. Una
versione molto più ampia è stata pubblicata successivamente: D'Amore B. (2000).
La matematica ai tempi di Dante. Nuova Civiltà delle Macchine. Rai-Eri. XVIII,
3, 100-115. Ringrazio il compianto allievo e amico prof. Giorgio Bagni per l'aiuto
che mi ha dato nella ricerca di notizie su molti dei matematici medievali citati.
Appendice 2
La matematica nella Divina Commedia1
Sebbene moltissimi siano oramai gli studi di vari autori dedicati all'analisi
della presenza della matematica nell'opera di Dante e nella Divina Commedia in
particolare, con grande stupore ci si accorge che esiste sempre qualche angolo
inesplorato o qualche verso che può ancora fornire argomento di riflessione e di
studio; lo stupore cessa ogni volta, quando si riflette sulla grandezza dell'Opera.
A costo di ripetere cose già dette, nella speranza di cogliere sfumature diverse
o angolazioni sfuggite, dividerò questa breve appendice (perché ben altro si
potrebbe aggiungere) in tre paragrafi, specializzando i riferimenti in base a un
criterio matematico: aritmetica e probabilità nel primo, logica formale nel
secondo, geometria nel terzo.
1. Aritmetica e probabilità
Dopo il 1290 (dunque all'età di 25 anni) e per circa 30 mesi, Dante studia
filosofia e in particolare Boezio (come apprendiamo dal Convivio). Ma Anicio
Manlio Torquato Severino Boezio (l'autore del De consolatione philosophiae) non
è solo il traduttore delle opere di Nicomaco e di Euclide, bensì egli stesso valente
matematico, autore di pregevoli trattati di geometria e di aritmetica; scrive, per
esempio, un De institutione arithmetica (Dante lo incontra in Par. X 125-129).
Quale e quanta aritmetica conosceva Dante? È ben noto che la Divina
Commedia è ricchissima di riferimenti numerologici; ora, però, di fatto, per i
calcoli necessari alla numerologia non occorre di solito una grande competenza
aritmetica. Non è quindi al Dante numerologo che occorre guardare per avere la
risposta alla nostra domanda, ma puntare di più l'attenzione sulla presenza di una
vera e propria conoscenza aritmetica. A questo proposito, molti autori si sono già
posti autorevolmente il problema, come, per esempio, Beniamino Andriani
(1981).2
Aggiungerò dunque alcune considerazioni, pur con poca speranza di novità.
Sappiamo che Dante fu scolaro al convento francescano di Santa Croce a
Firenze e poi, pare, al convento domenicano di Santa Maria Novella, dapprima
Studium Solemne, poi, dal 1295, Studium Generale. Essere scolari a Firenze non
era come esserlo in altre città: a Firenze, e in tutta la Toscana, era possibile avere
maestri d'abaco di alto prestigio. Sappiamo, per esempio, che Jacopo, figlio di
Dante, fu addirittura allievo di Paolo dell'Abaco, il quale insegnò in una delle
poche scuole d'abaco fisse (di fronte alla chiesa di Santa Trinita). Forse Dante
venne a contatto con il Libro d'abaco cui Paolo deve il suo nome? Secondo la
testimonianza di Gino Arrighi, pare che tale trattato di Paolo risalga agli anni
intorno al 1339, ma non è escluso che ne esistessero versioni preliminari, per
esempio sotto forma di appunti di scolari. Forse Dante, nella sua sete di sapere,
venne a contatto con il Liber abaci di Leonardo figlio di Bonaccio, il "Bigollo"?3
Certo, Dante sembra essere molto attento alla cultura, anche scientifica, del
suo tempo: ancora bambino, frequenta forse a Siena alcune lezioni di Pietro
Ispano e qui certo apprende l'efficacia del metodo euristico nelle scienze (ancora
piuttosto ingenuo).4
Anche per alcuni suoi passi tuttora di interpretazione dibattuta sarebbe molto
interessante avere le risposte alle precedenti domande; infatti, nonostante che un
articolo dello Statuto dell'Arte del Cambio di Firenze del 1299 vietasse l'uso dei
numeri arabi (Andriani, 1981, pag. 188), era piuttosto diffuso nella scrittura
aritmetica dei trattati d'abaco l'uso del sistema arabo-indiano (le "figure delli
Indi") e di conseguenza la manipolazione di sempre più rapidi algoritmi di
calcolo.
Ciò significa, per esteso: uso di un sistema posizionale a base dieci e uso
esplicito dello zero.
Tutte queste sono assolute novità rispetto alla numerazione latina, nella quale
non c'è sistema posizionale e non c'è zero (non ce n'è bisogno), mentre in effetti in
essa il numero dieci gioca un ruolo dominante, anche se non come "base", così
come si diffonderà poi in Europa, grazie all'opera di Fibonacci e altri.5
Un celebre passo con riferimento all'aritmetica si trova in Par. XV 55-57:
Tu credi che a me tuo pensier mei
da quel ch'è primo, così come raia
da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei;
Sono le celebri frasi che Cacciaguida rivolge a Dante: "Tu che hai ferma
convinzione che il tuo pensiero discenda, si riveli direttamente a me da Dio,
primo Ente e principio di ogni cosa, così come dalla conoscenza dell'unità deriva
quella di tutti gli altri numeri" (Sapegno, 1958).
In tempi moderni si direbbe che, ammessa l'unità, si possono costruire i numeri
naturali n, n+1, intendendo con ciò tutti i numeri (Cimmino, 1988). In effetti, la
notazione "n", tipica oggi del matematico, intesa a indicare un numero qualsiasi, è
assai più recente; quel "il cinque e 'l sei" sta a indicare numeri generici successivi,
come nota il valdostano Natalino Sapegno (1901-1990), grande commentatore di
Dante, che fu professore in vari atenei italiani. D'altra parte anche Euclide,
quando vuol considerare un numero generico di numeri primi, ne prende tre (mi
riferisco al celebre teorema: "Dato un numero primo qualsiasi, se ne può sempre
trovare un altro maggiore", che si trova negli Elementi).
Detto ciò, mi pare che l'affermazione di Dante non sia poi di così grande
rilevanza aritmetica; credo che qualsiasi persona anche di modesta cultura possa
ben comprendere che, avendo a disposizione l'unità, sia ragionevolmente facile
costruire o raggiungere qualsiasi altro numero per addizione ripetuta di essa.
Dico ciò espressamente perché si è voluto invece vedere in questa frase
addirittura qualche anticipazione dell'intuizione di Giuseppe Peano (1858-1932)
che, com'è ben noto, ideò un sistema assiomatico dei numeri naturali; pur con
tutto l'amore che possiamo nutrire per Dante, questa interpretazione (si veda, per
esempio, Cimmino, 1988), mi sembra eccessiva.
Molto più interessante trovo invece un altro riferimento aritmetico che si trova
in Par. XXVIII 91-93:
L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.
Il grande numero cui si fa riferimento può essere inteso come quello degli
angeli che nascono; questi non si contano a uno a uno, ma (forzando un po' la
mano, si potrebbe dire, interpretando quasi oltre il lecito il parasinteto verbale
"s'inmilla") a mille a mille.
Quanto è grande il numero di questi angeli? Ebbene, Dante afferma che il loro
immillarsi supera "il doppiar de li scacchi". È un evidente riferimento (attraverso
la mediazione di una linea topica) alla famosa leggenda di Sissa Nassir,
l'inventore degli scacchi. Egli chiese, come ricompensa al suo entusiasta sovrano,
qualche cosa di apparentemente assai modesto: presa la scacchiera 8 per 8, egli
chiese per sé un chicco di riso (altre volte si trova di grano) sulla prima casella; il
doppio, cioè 2, sulla seconda; il doppio ancora, cioè 4, sulla terza; il doppio
ancora, cioè 8, sulla quarta; e così via, fino all'ultima casella, la
sessantaquattresima, appunto. Con calcoli abbastanza agevoli oggi, specie con
l'uso di un calcolatore, ma che risultano essere assai ardui con il sistema romano,
si trova che il numero di chicchi dovuti a Sissa Nassir è il seguente: 18 446 744
073 709 551 615, quasi illeggibile. Con una scrittura più compatta, oggi si
preferisce la notazione cosiddetta scientifica: 1,8447·1019.
Per rendersi conto dell'enormità di questo numero, si può ricorrere al seguente
espediente: immaginare di distribuire i chicchi di Sissa Nassir su tutta la
superficie terrestre, la cui misura, espressa in base ai dati attuali (e non quelli dei
tempi di Dante), compresi mari, oceani, deserti ghiacciai, montagne ecc., è di
circa 5,0995·1018 cm². Se distribuiamo i chicchi, troviamo 3,62 chicchi (diciamo
pure, per arrotondare, 3 chicchi e mezzo) per ogni cm² di superficie terrestre. (Il
che spiega perché il sovrano si sentì preso in giro e, anziché premiare Sissa
Nassir, gli fece mozzare la testa, ottenendo, tra l'altro, un immenso risparmio).
Ma il numero degli angeli "più che" raddoppiare, come i chicchi sulla
scacchiera, "s'inmilla"; se si rifà lo stesso calcolo immillando (nella nostra
interpretazione, cioè: 1 chicco sulla prima casella, 1000 sulla seconda, 1000000
sulla terza, 1000000000 sulla quarta, e così via) invece che raddoppiando, si trova
un numero immenso, ma pur sempre finito: 10189 (tanto per avere un'idea,
2·10170 angeli per cm2 di terra... E c'è da rallegrarsi allora del fatto che gli angeli
siano immateriali).
Dante sapeva fare questi calcoli? Se sì, con quali strumenti? Non certo con il
metodo dei latini, con sassolini (calculi) e abaco. Anche se non sapeva farli,
conosceva qualcuno che li aveva fatti? Era tra le nozioni diffuse dell'epoca?
Quel che è certo è che ai suoi tempi circolavano vari giochi matematici
soprattutto sui libri d'abaco. La tradizione dei giochi matematici è illustre; basti
pensare all'Ad acuendos juvenes di Alcuino (735-804), "ministro" di Carlo
Magno, che certo traeva ispirazione da testi di Beda il Venerabile (che Dante pone
in Par. X 131 accanto a un altro grande enciclopedista, Isidoro di Siviglia). Per
fare un esempio, il celeberrimo indovinello della capra, del lupo e del cavolo che
devono superare un fiume su una barca, appare sia su questo libro di Alcuino sia
in opere di Beda.6 Mi parrebbe plausibile che tali indovinelli circolassero tra le
persone colte a Firenze; e che uno spirito arguto e profondo come Dante non
potesse non apprezzarli.
Sebbene io abbia deciso di evitare nelle mie ricerche sulla presenza della
matematica in Dante tutto quanto riguarda la numerologia, non posso non
ricordare Purg. XXXIII 37-45, e in particolare:
nel quale un cinquecento dieci e cinque
numero la cui interpretazione ha fatto discutere curatori, commentatori, lettori
e critici.
Se si scrive il numero nel sistema allora più diffuso, quello romano, si trova
DXV. È un anagramma? Di Dux, cioè forse Arrigo VII? Non è un anagramma? E
allora potrebbe essere il monogramma greco di Cristo ("Unto del Signore");
oppure "Domini Xristi Vergatus", il famoso misterioso Veltro, figura d'altra parte
assai ricorrente. Oppure potrebbe essere "Domini Xristi Vicarius", cioè il papa.
Gli anagrammi numerici erano molto diffusi nel Medioevo ed è quindi
probabile che Dante vi abbia fatto ricorso. Ma la mancanza di un'interpretazione
sicura (cioè: autorevole tanto da mettere tutti d'accordo... per un po'), mi lascia
ampi spazi di immaginazione.
Si può pensare non a DXV ma a 515, nella forma araba, supponendo che
Dante se ne fosse già appropriato. Si tratta di un numero che i numerologi hanno
già studiato: sarebbe la distanza tra Terra e Cielo, espressa in anni, facendo
riferimento a Ezechiele 17. Ciò se si accetta come lingua-base dell'interpretazione
numerologica l'ebraico.7 Se invece si accetta il greco, 515 ha come codificazione
parthenos, "vergine". Se - singolare coincidenza? - si accetta il latino, 515 si
codifica in "Mater Christi". La "coincidenza" ha già scatenato ridde di "autorevoli
esperti" in dispute.
Appaiono, sempre nella Divina Commedia, molti altri passi aritmetici che sto
raccogliendo e studiando per un'opera futura; in questo breve saggio mi limito a
queste poche citazioni, non senza ricordare il paragone che Dante fa nel Convivio
tra l'aritmetica e il Sole: così come il Sole illumina gli altri corpi celesti e di esso
non è possibile sostenere la vista, così l'aritmetica illumina e permea tutte le altre
discipline scientifiche. Sull'infinità dei numeri, poi, l'occhio dell'intelletto non può
fermarsi "però che 'l numero quant'è in sé considerato, è infinito, e questo non
potremo noi intendere".
Come annunciato nel titolo di questo paragrafo, passerò ora alla probabilità
che, scienza moderna per eccellenza,8 doveva ancora del tutto costruirsi come tale
ai tempi di Dante; a proposito di questa disciplina, ho trovato un solo passo,
peraltro famosissimo e citatissimo, in Purg. VI 1-3:
Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
In arabo, "dado" è "zara" o "zahr" (da cui, ovviamente, "azzardo") e il gioco,
che ha molte varianti, è presto spiegato in quella più diffusa in Italia centrosettentrionale: si gettano 3 dadi su una superficie piana (può essere un tavolo, ma
spesso veniva giocato per strada sul selciato). I due giocatori, nel breve intervallo
di tempo che intercorre tra il lancio dei dadi e il loro arresto, dicono ciascuno un
valore: vince la posta chi azzecca il risultato. I valori possibili sono, ovviamente,
quelli che vanno da 3 a 18 compresi; ma, per regola, 3, 4, 17, 18 sono valori, per
così dire, "neutri", sui quali i giocatori non possono puntare. L'analisi del gioco è
matematicamente assai banale: due numeri, 10 e 11, hanno probabilità maggiori
di uscire di tutti gli altri e puntare sui valori-limite ammessi, cioè 5 e 16, dà
minime speranze di vittoria.
Nell'edizione critica a uso scolastico (Sapegno, 1958) a pag. 58 è emblematico
il fatto che, nella nota a pie' pagina, nel tentativo di dar ragione all'accomunare i
valori 3, 4, 17, 18 nell'esclusione detta, si trovi la seguente spiegazione: "(...) ciò è
dovuto al fatto che la loro possibilità di uscita è unica". Ora, l'analisi è corretta nei
casi 3 e 18, i quali hanno in effetti 1 probabilità su 216 di apparire; ma 4 e 17
hanno probabilità non uguale a quella, bensì addirittura tripla: 3 su 216.
Né miglior sorte spetta all'appendice della voce "zara" dell'Enciclopedia
Dantesca; ivi, a pag. 1166 si trova: "Erano considerati nulli (...) i numeri ottenibili
con una sola [sic!] combinazione tra i tre (...) dadi (ossia i due numeri più bassi e i
due numeri più alti possibili: 3 e 4, 17 e 18) per il gioco con i tre dadi (...)".
Se è vero che Dante rappresenta ancora oggi un esempio straordinario di
unificazione delle "due culture" di Snow, è, ahimé, altrettanto vero che da molto
tempo si è persa ogni speranza di proseguire su questa strada: la specializzazione
culturale fa sì che anche il più grande competente della disciplina A rischi di
essere del tutto ignorante nella B, con grande nocumento per entrambe.
2. Logica formale
A proposito della presenza e della tipologia della logica e del suo uso da parte
di Dante nella Divina Commedia, molti autori hanno espresso più d'un diverso
parere.
Se è vero che la "logica" usata nelle argomentazioni da Dante è schiacciante,
dove egli attinge questa forza deduttiva? E la logica stessa è mai argomento
esplicito in Dante?
Va da sé che non si tratta ovviamente di logica matematica, la quale nasce solo
con l'opera di George Boole attorno alla metà del XIX secolo; direi che in Dante
la logica è esercizio retorico, è intelligenza, è cultura, è chiarezza di idee; nel
modo di dire comune, in effetti, questa è la "logica".
Ebbene, pur presente, ma difficile da definirsi, io non mi voglio qui occupare
di questa "logica-del-senso-comune", intendo invece dedicare energie a
quell'aspetto della logica, in Dante, che si può pensare appartenere a tutta quella
serie di riflessioni che, a partire contemporaneamente da Aristotele e dai
megarico-stoici, hanno appunto portato piano piano a Boole, anche attraverso i
logici medievali, regalando al mondo la logica matematica così come oggi è
intesa.
Dove, come, quando Dante ha appreso la logica?
Certo, nello studio del trivio: grammatica, retorica, dialettica, dove, appunto,
quest'ultima disciplina coincide in gran parte con la logica. E poi in quei famosi
30 mesi da me già citati in D'Amore 1991 e nel paragrafo precedente.
Se Cicerone sta per retorica, Boezio sta (anche) per logica, dato che attraverso
Boezio Dante è arrivato ad Aristotele (del quale, nella versione latina, il
cosiddetto "Aristotele latino", ha certo una lettura diretta), e poi a Pietro Ispano la
cui opera, come vedremo, conosce e cita. Dante studia poi Tommaso d'Aquino,
anche lui logico finissimo.
Tra gli studi di Boezio che Dante potrebbe aver fatto, c'è quel Modi
significandi sive quaestiones super Priscianum maiorem che costituisce
sostanzialmente un testo di logica delle modalità.
Boccaccio immagina (inventandolo, pare, di sana pianta) un viaggio di Dante a
Parigi per creargli radici dell'aristotelismo radicale (che potremmo
impropriamente chiamare averroismo) e delle sue conoscenze di logica. Ma studi
ben noti, soprattutto quello dettagliatissimo di Carlo Calcaterra (Calcaterra,
1948), mostrano come questo aristotelismo radicale fosse attecchito nella Facoltà
di Arti a Bologna, proprio nel periodo frequentato da Dante (e qualcuno dice
Cavalcanti) nell'ateneo felsineo.
D'altra parte, grazie a Michele Scoto, la tradizione aristotelica interpretata da
Averroè giunse alla corte di Federico prima a Bologna che a Parigi (com'è
testimoniato dalle lettere di Pier delle Vigne e di Manfredi).
Infine, come non ricordare la scoperta di J. Pinborg (fatta nel 1967) del
manoscritto Quaestiones magistri Mathei Bononiensis super modos significandi et
super grammaticam, precedente l'opera dei (oggi diremmo) danesi Martino e
Boezio?
A Bologna, certe idee sulla logica modale circolavano già da tempo; e Bologna
non ebbe le condanne che ebbe Parigi, dato che qui mancava una Facoltà di
Teologia, mentre quella giuridica era protetta dall'imperatore. Tant'è vero che,
quando l'opera di Boezio fu condannata nel 1277, essa non scomparve da
Bologna, se è vero che Gentile da Cingoli la trascrisse e la glossò: è questa
versione che, verosimilmente, ebbe poi tra le mani Dante.
Ad ulteriore conferma di questa posizione chiamo in causa lo studio di M.
Corti, Dante a un nuovo crocevia (Firenze, 1982), nel quale si annoda il sottile
filo che parte dal Modi significandi di Boezio e termina con il De vulgari
eloquentia: impossibile mettere in discussione il fatto che la formazione logica di
Dante passi attraverso lo studio dell'opera di Boezio (e poi di Sigieri e di Martino
di Dacia) nell'ambiente bolognese, come afferma anche P. Rossi (Rossi, 1989,
pagg. 277-286).
Detto ciò, andiamo dunque alla ricerca di passi che trattano esplicitamente di
logica nella Divina Commedia. Comincerò da Par. XII 134-135:
... e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli;
Si noti che Dante parla direttamente di Pietro Ispano e non del papa Giovanni
XXI (che era poi il ventesimo papa di nome Giovanni, in verità). Questo è un
richiamo esplicito a un personaggio che Dante doveva amare e ben conoscere;
quei "dodici libelli" sono i dodici libri che compongono le Summulae logicales di
Pietro, opera che ci permette di dire che si tratta del massimo logico medievale.9
A lui si deve una definizione di logica tipicamente medievale che consente
ancora qualche meditazione critica: "Dialectica est ars artium et scientia
scientiarum ad omnium methodorum principia viam habens".
Dante conosceva questa imponente opera di logica a lui contemporanea e di
respiro quasi moderno.
Si pensi che nel I volume si trova già traccia di quello che oggi viene chiamato
"calcolo degli enunciati" (per quanto ingenuo), mentre nel IV trova posto la
sillogistica.
È in quest'opera che si trovano i famosissimi versi mnemonici dei sillogismi
validi: barbara, celarent, darii, ferion (tanto per limitarci alla prima figura) che poi
si sono diffusi, tanto che oggi si usa dire "un sillogismo in barbara" per indicare la
forma universale affermativa-universale affermativa-universale affermativa: "ogni
B è A, ogni C è B; dunque ogni C è A".
È in quest'opera che i quattro giudizi delle forme A E I O (universale
affermativa: Affirmo; universale negativa: nEgo; particolare affermativa: affIrmo;
particolare negativa: negO), si trovano nella celeberrima forma a quadrato, ai
quattro vertici; in tale quadrato, A ed E sono contrariae; I e O sono subcontrariae;
A e I, E e O sono subalternae; A e O, E e I sono contradictoriae. In questi termini
latini corsivi, sono racchiuse le regole aristoteliche di conversione, che i logici
medievali studiarono con estrema cura (Carruccio, 1971b).
Tale "quadrato" si trova ancora oggi in molti schemi su libri di testo di logica o
di filosofia.
Dante conosceva tutte queste cose, avendo studiato logica al massimo livello
per i suoi tempi. (In fondo, Pietro Ispano s'era meritato il Paradiso, almeno per
questo).
Sempre in Par. VI 19-21:
Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era,
vegg'io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizion e falsa e vera.
Siamo nell'ambito della famosissima narrazione della conversione di
Giustiniano (482-565), "Io", a opera di Agapito,"li": "(...) ciò che io allora
accoglievo come materia di fede [la dottrina ortodossa della duplice natura di
Cristo], fidando nell'autorità di lui, ora lo vedo con la stessa chiarezza ed evidenza
con cui tu intendi che, di due proposizioni che si contraddicono, una è
necessariamente vera e l'altra falsa" (Sapegno, 1958). Si tratta, secondo tutti i
commenti che ho analizzato, del "principio del terzo escluso": dati due enunciati
dei quali uno è la negazione dell'altro (A e non A) uno è vero e l'altro è falso.
A lato di questa interpretazione per così dire "classica", se ne può proporre
un'altra più azzardata, ma giustificabile proprio sulla base della conoscenza che
Dante dimostra delle Summulae logicales. Ivi si trova enunciato il celebre
metateorema dello Pseudo Scoto: "Ex absurdis sequitur quodlibet", secondo il
quale da una contraddizione si può dimostrare qualsiasi cosa, e il falso e il vero
(su questo interessante metateorema, si vedano Carruccio, 1971 a-b; Bochénski,
1972; è dato oramai per certo che non si tratta di un risultato dovuto a Scoto o a
Pseudo Scoto, ma a Giovanni di Cornovaglia).
Mi sembra che questa interpretazione spieghi meglio il passo in questione e si
adatti meglio alla situazione: dalla fede alla chiarezza evidente, dalla fede alla
ragione, dunque alla dimostrazione, altrimenti l'interpretazione precedente non
sarebbe altro che un atto di fede, un "principio logico" appunto, e non un teorema;
il che sembra contraddire proprio lo spirito di quel che Dante sta cercando di dire.
"Principio" era questo, si noti bene, anche ai tempi di Dante, derivato dalla logica
di Aristotele. La natura dimostrativa del teorema di Giovanni di Cornovaglia
meglio coglie, a mio avviso, il passaggio dalla fede alla ragione in Giustiniano.
Ancora un riferimento alla logica lo troviamo in Par. XIII 98-99:
...o se necesse
con contingente mai necesse fenno;
Si tratta di un passaggio "tecnico" di logica modale: in un sillogismo una
premessa necessaria e una contingente possono dare una conseguenza necessaria?
Il problema, non banale, era già stato affrontato e negativamente risolto da
Aristotele in Analitici primi I 16. Dunque, una questione erudita di logica tecnica
che Dante mostra di conoscere e alla quale fa volentieri ricorso (tutta
l'argomentazione di questo brano è logica, dato che si sta dibattendo una
questione teologica ed è risaputo che Tommaso d'Aquino era ben noto per le sue
argomentazioni teologiche con strumenti di sofisticata logica).
Consapevole di forzare un po' la mano, a questo punto, ma anche sicuro di
proporre un'argomentazione affascinante, invece di proseguire sulla strada
intrapresa (logica esplicita in Dante) mi avvicino a uno dei brani più intensi di
tutta l'opera, Inf. XXVII 112-123, nel commento del quale azzarderò un po'.
Si tratta della vicenda di Guido da Montefeltro, convinto a peccare gravemente
dal papa Bonifacio VIII. Lo sventurato frate francescano Guido, ex grande
condottiero, narra a Dante la sua tragedia. Il papa lo convince al tradimento ma lo
rassicura, assolvendolo in anticipo. Guido si lascia persuadere, pecca, e poi, anni
dopo, muore. A quel punto lo stesso Francesco d'Assisi lo va a prelevare per
portarselo seco in Paradiso, come era d'uso per le anime dei fraticelli dell'ordine,
quando appare un "nero cherubino"...
Francesco venne poi, com'io fu' morto,
per me; ma un de' neri cherubini
li disse: "Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra' miei meschini
perché diede il consiglio fraudolente,
dal quale in qua stato li sono a' crini;
ch'assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente".
Oh me dolente! Come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: "Forse
tu non pensavi ch'io loico fossi!".
Questo aggettivo finale, "loico", è una tentazione troppo forte: come non
credere a un... invito da parte di Dante a verificare che il nero cherubino abbia
ragione, e a non fidarsi dell'apparente evidenza?
Dunque, si svolge una lotta tra Francesco d'Assisi (il fondatore dell'ordine, un
santo, addirittura) e uno (qualunque) dei neri cherubini, e la lotta è a suon di
logica. E quel nero cherubino trionfa, trasportandosi la sua preda "giù" all'Inferno
in virtù di un ragionamento schiacciante che lascia il povero Francesco con tanto
di naso. Ettore Carruccio (1971 b) ha esaminato il testo dantesco sulla base della
logica formale; io mi limito qui, per ora, a ripresentare i conti con un simbolismo
un po' più moderno ma, avviso, molto ingenuo.
Siano:
U: l'insieme-universo degli esseri umani
V(x): il predicato a un posto: x ha gravemente peccato
P(x): il predicato a un posto: x si è pentito
A(x): il predicato a un posto: x è stato (validamente) assolto
g: la costante: Guido da Montefeltro.
Le premesse del nero Cherubino sono tre:
1. V(g) cioè: g ha gravemente peccato (dando il consiglio fraudolento);
2. ( x) ¬ [A(x)^¬P(x)] cioè: assolver non si può chi non si pente;
3. ( x) ¬ [P(x)^V(x)] cioè: né pentere e volere insieme puossi.
La tesi del nero Cherubino è:
T: ¬A(g) cioè: Guido non è stato (validamente) assolto.
Ora, è indubitabile alla prova dei fatti che le premesse del demonio sono
accettabili e che le dobbiamo accettare come vere; in più, se applichiamo la regola
di particolarizzazione a 2. e a 3. (cioè: sostituiamo la costante g al posto della
generica x), abbiamo:
2'. ¬[A(g)^¬P(g)]
3'. ¬[P(g)^V(g)]
Consideriamo ora l'implicazione:
(1^2'^3') ?T.
Facendo conti piuttosto facili (trattando le formule chiuse come enunciati) si
scopre che si tratta di una tautologia; inoltre, usando la regola di congiunzione,
essendo 1, 2', 3' premesse vere, anche 1^2'^3' è vera. Ora, con la regola del Modus
Ponens, essendo l'implicazione vera e l'antecedente vero, è vero il conseguente,
cioè è vera la tesi del nero cherubino.
Il diavolo ha quindi perfettamente ragione e il povero Guido sconterà una pena
eterna per non aver fatto lui stesso questo ragionamento prima di cedere alle
lusinghe del papa.
Dante avrebbe potuto ragionare così? A parte il simbolismo moderno, a parte
l'evidenza e il nome dati alle regole utilizzate (evidenza che è di stile moderno,
dato che i logici medievali spesso davano per scontata l'applicazione delle regole)
la risposta è positiva: tutto ciò si basa in fondo sulla regola del Modus Ponendo
Ponens molto usata in quel periodo ed il cui nome è proprio medievale, quello
stesso usato da Pietro Ispano.
Non è quindi da escludere che Dante avrebbe saputo argomentare in modo
simile a questo anche se mettendo forse meno enfasi nei singoli passaggi e,
certamente, con nessun simbolismo.
Ma non basta. Abbiamo visto che Dante conosceva i sillogismi; ebbene, è
possibile argomentare che il nero cherubino ha ragione anche con un adeguato e
semplice sillogismo.
"Assolver non si può chi non si pente" significa che: "Ogni assolto è un
pentito"; in termini di insiemi, se A è l'insieme degli assolti (validamente) e P
quello dei pentiti: A P (l'insieme A è contenuto in P):
"Né pentere e volere insieme puossi" significa che: "Nessun pentito è un
peccatore volontario"; se con V indichiamo l'insieme dei peccatori consapevoli,
abbiamo: P CV (cioè P è incluso nel complementare di V):
Se ne deduce, con un banale sillogismo, che A CV, cioè che l'insieme degli
assolti è incluso nel complementare dei peccatori volontari o, meglio, che nessun
assolto può essere un peccatore volontario.
In modo esplicito, se g è un elemento di A, allora è anche elemento di CV, cioè
non è elemento di V.
Anche i sillogismi incatenano Guido al suo destino.
Noi ci chiediamo solo quale dei due ragionamenti sia quello più vicino a
quanto avrebbe potuto fare Dante, con la sua competenza in logica, a parte, al
solito, ogni questione formale e ogni uso di simbolismo.10
3. Geometria
Ho già ricordato nel primo paragrafo come Dante, dopo la morte di Beatrice,
avesse frequentato la "scuola dei religiosi" e le "disputazioni dei filosofanti",
leggendo Cicerone (la retorica) e Boezio. Sempre nel primo paragrafo, Boezio ha
significato principalmente aritmetica; ma non dimentichiamo che lo stesso Boezio
ha tradotto Euclide.11 Era quindi inevitabile, studiando Boezio, incontrare l'opera
del geniale alessandrino.
Inoltre i primi secoli del II millennio sono tempi di traduttori solerti: a partire
dal 1116, Platone da Tivoli traduce una grande quantità di libri di matematica
dall'ebraico (quelli che Abraham Car Higgha Nasi aveva a sua volta tradotto dal
greco e dall'arabo); Platone scrive anche il celebre Liber embadorum Savosardae,
che all'epoca ebbe discreta diffusione. Nel 1175 Gherardo da Cremona traduce
dall'arabo al latino gli Elementi di Euclide, ma già mezzo secolo prima Abelardo
da Bath lo aveva fatto.
Inoltre, sui vari libri d'abaco (già ricordati nel primo paragrafo), figuravano
quasi sempre regole geometriche, per lo più pratiche, adatte ad agrimensori,
muratori o artigiani (i commercianti, cioè coloro che più di ogni altro si servivano
di aritmetica, avevano poca dimestichezza con la geometria perché non ne
facevano un grande uso).
Dunque, lo studio della geometria di Euclide, intesa come rigoroso sistema
deduttivo, non si poteva praticare banalmente attraverso i maestri d'abaco più
rozzi, ma richiedeva analisi più approfondite che, di solito, passavano attraverso
la filosofia.
Dobbiamo ricordare, a questo punto, che Aristotele è riportato in Occidente e
in Europa grazie agli Arabi, in arabo, ma è accolto, anche proprio per tale motivo,
con estrema diffidenza. È del 1210 il decreto del Consiglio Provinciale di Parigi,
confermato 5 anni dopo dal legato pontificio Roberto di Courçon: "... nec libri
Aristotelis de naturali philosophia nec commenta legantur Parisiis publice vel
secreto". Sarà poi il sistematico lavoro dei domenicani a inserire addirittura
l'aristotelismo all'interno della filosofia cristiana. Il modo in cui Dante accoglie le
tesi di Aristotele, così in anticipo sui tempi, non può non aver creato dei sospetti
nei suoi contemporanei. Anche per questo, insieme ad altri motivi più vari, nel
1335 (14 anni dopo la morte di Dante) il Capitolo provinciale dello Studio
generale in Santa Maria Novella vietò a tutti, frati, giovani e vecchi, di leggere le
opere poetiche e prosastiche in lingua volgare del "cosiddetto Dante", con il
pretesto che dovevano occuparsi più di teologia. In particolare si proibiva "lectio
librorum poeticorum seu libellos per illum qui Dante nominatur, in vulgari
compositos".
Ed è qui il punto: forse lo studio di Aristotele che Dante intraprese con una
certa dose di coraggio in modo così serrato (come abbiamo visto nel paragrafo 2)
portava necessariamente a fare i conti con la geometria.
Uno dei più famosi passi matematici di Dante è certo in Par. XXXIII 133-138:
Qual è 'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder volea come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
Che cosa sia la "vista nova" è talmente risaputo che sarebbe offensivo nei
riguardi del lettore farne anche solo cenno; ma capire che cosa c'entra la "vista
nova", appunto, con quel "misurar lo cerchio", non è immediato. Gli insegnanti e
gli studenti, in questi casi, consultano le note di un critico poste in fondo alle
pagine dei manuali scolastici. In un testo diffuso (Sapegno, 1958) si trova la
spiegazione classica: "come il geometra che si applica, concentrando tutte le sue
facoltà mentali, all'insolubile problema della quadratura del circolo..." (corsivo
mio), "tal ero io dinanzi a quella straordinaria visione, ché invano...".
Che cos'è esattamente il problema della quadratura del cerchio?
Si può esprimere in due modi almeno, tra loro equivalenti:
- data una circonferenza, trovare un quadrato o un rettangolo il cui perimetro
abbia la stessa lunghezza della circonferenza;
- dato un cerchio, trovare un quadrato o un rettangolo la cui area abbia la stessa
estensione del cerchio.
Questo problema è stato risolto molto brillantemente nell'antichità greca, per
esempio da Dinosastro nel -V sec. (ma non solo da lui; si veda Carruccio, 1964).
Era una cosa ben nota, diffusa tra le persone colte, non solo tra i matematici, tra
gli altri ben spiegata da Platone.
Da un punto di vista più modestamente scolastico, il lettore ricorderà d'aver
appreso in quarta o quinta elementare che una circonferenza di raggio r misura
2pr; dunque, se si prende un rettangolo di lati 1 e pr-1, lunghezza della
circonferenza e perimetro di quel rettangolo coincidono; così, l'area di un cerchio
di raggio r è, come ben sa ogni bambino di 10 anni, pr²; dunque, un rettangolo di
lati pr ed r avrà area uguale a quella del cerchio.
perimetro del rettangolo: 2pr
misura della circonferenza: 2pr
area del rettangolo: pr²
area del cerchio: pr²
Ma allora, dove sta l'impossibilità del problema?
Dante ha fatto un sottinteso; per motivi soprattutto estetici i Greci
privilegiavano le soluzioni "con riga e compasso" (è un modo di dire che
nasconde qualche cosa di più preciso che non il mero riferimento ai due
strumenti: si veda Carruccio, 1964; sorvolerò qui sulle questioni tecniche: il
lettore può immaginare, in prima approssimazione, che si tratti davvero di servirsi
di una riga - non graduata - e di un compasso).
La soluzione data da Dinostrato e quelle date dagli altri studiosi greci della
quadratura del cerchio sono sì corrette, ma non sono state ottenute con riga e
compasso.
Inutilmente, e per secoli, dapprima i matematici greci e poi via via tutti gli
altri, cercarono di quadrare il cerchio con questi strumenti, inutilmente: oggi
sappiamo che ciò è impossibile (lo ha dimostrato Lindemann, ma solo nel 1882). I
Greci devono averlo supposto, anche se in modo implicito: non può essere un
caso se i tre problemi più amati e più studiati (i tre "problemi classici della
geometria greca", citatissimi da Platone), tra i quali, appunto, quello qui in esame,
erano perennemente presi ad esempio.12 (La cosa curiosa è che a nessun docente
di lettere della scuola superiore, e a nessuno studente in prossimità di maturità,
venga in mente che, mentre nelle ore di lettere si commentano questi versi in tal
modo, nelle ore di matematica il cerchio, dalla quinta elementare in poi, si sa
quadrare, eccome).
Dunque non è impossibile il problema della quadratura del cerchio: è
impossibile nelle modalità dette, con quegli strumenti. La nota del critico è,
dunque, quanto meno, fuorviante.
Ora, però, il problema è: poiché Dante non dice esplicitamente "con riga e
compasso", è da ritenere che anche lui cadesse nell'errore del critico moderno,
oppure che conoscesse la questione e ritenesse che i suoi lettori pure la
conoscessero talmente bene che non valeva la pena di star lì a fare i pignoli?
Non avremo mai la risposta a questa domanda; ma la competenza geometrica
che si può dimostrare in Dante mi spinge quasi ad azzardare che siamo di fronte
ad un altro esempio di sconfitta attuale dell'unicità della cultura: in Dante le "due
culture" convivevano; nei suoi lettori attuali, ahimé, spesso non solo nonmatematici ma anti-matematici (perché stupidamente la matematica è considerata
materia "vuota ed arida come i sassi", come diceva il filosofo Gentile), no.
C'è però da dire che per "quadrare il cerchio" spesso si intende una visione
diversa, anche se del tutto equivalente alla precedente, e cioè trovare l'esatto
valore del rapporto tra lunghezza di una data circonferenza e suo raggio, rapporto
uguale per tutte le circonferenze.
In qualsiasi circonferenza, il rapporto tra la misura della circonferenza stessa e
il suo diametro è costante. A tale rapporto costante, studiato per secoli, è stato
dato il nome p nel XVIII secolo. Esso vale circa 3,14.
Ora, qui si dovrebbe aprire tutta un'altra storia. Aristotele afferma in Categorie
7 b 31-33 che tale problema non è "ancora" scientifico, intendendo, seguo la
traduzione critica di G. Colli, che non esiste una scienza di tale quadratura, anche
se esiste il problema come oggetto del sapere. Si potrebbe supporre che Dante
abbia fatto uso di queste affermazioni, più che di quelle di Boezio che, invece, al
riguardo prende una... cantonata, proprio commentando il precedente passo di
Aristotele; Boezio afferma, infatti, che il problema è stato risolto; egli fa
riferimento senz'altro alla misura di p che si suole far risalire al matematico greco
Briso o Brisone, condannata da Aristotele e addirittura da questi ridicolizzata, ma
accettata da molti geometri e cioè di che corrisponde grosso modo al valore
medio dei due estremi fissati successivamente per p da Archimede, cioè: 3 + e 3
+ . (In realtà,
Brisone non pare far cenno al valore , limitandosi a dire che
tra il quadrato inscritto e quello circoscritto a un cerchio ce n'è uno equiesteso
al cerchio: si veda Loria, 1914 pagg. 96-97).
Ora si apre un giallo piuttosto complesso:
• Dante aveva letto Archimede?
• se non lo aveva letto, poteva conoscere i calcoli del Siracusano per sentito
dire?
• Dante accettava davvero la misura , molto diffusa nella sua epoca, ma
rifiutata dai geometri più sofisticati?
• se Dante afferma nel Par. che tale rapporto esatto non esiste, quale è il
calcolo esatto da fare in Inf. XXIX 7-9 circa la misura delle bolge?
• come mai Dante, fedele lettore di Boezio, non accetta il valore da questi
suggerito per p?
E così via.
Si potrebbe rispondere a ciascuna domanda a suon di date: traduzioni di
Archimede furono compiute dal frate fiammingo Guglielmo di Mörbeke (12151286), è vero, ma esse circolarono con molta difficoltà; per esempio, ne ebbe in
mano una rarissima Nicolò Fontana da Brescia (il Tartaglia), che nel 1543 e nel
1565 fece credere effettuate da lui, appunto, traduzioni di Guglielmo (l'imbroglio,
caratteristico del pur eccellente matematico bresciano, fu scoperto solo nel 1884,
quando venne alla luce un'altra rara traduzione di Guglielmo nella biblioteca
Vaticana, vedi Loria, 1929 e Maracchia, 1979).
Prima di passare ad altro, a complicare le cose sta il fatto che Dante conosceva
Brisone: lo cita, infatti in Par. XIII 121-126, addirittura con Parmenide di Elea,
con Melisso e altri grandissimi (Andriani, 1981, pagg. 145-146).
Ma eviterò di narrare tutta la storia e di entrare in dispute di questo tipo,
rinviando ad altra occasione di maggior respiro.
Proseguendo nella ricerca di altri passi a carattere geometrico, troviamo nella
Divina Commedia paragoni, esempi o parafrasi per i quali, appunto, il campo di
riferimento è la geometria, anche quando avrebbe potuto essere qualsiasi altro.
Per esempio, in Par. XIII 88-101 si sta discutendo il problema seguente: c'è
contraddizione tra la sapienza perfetta di Adamo e di Cristo e la sapienza di
Salomone? Tutta la questione è interessante, ma io punto l'attenzione
specificamente sui versi 95-102:
... el fu re, che chiese senno
acciò che re sufficiente fosse;
non per sapere il numero in che enno
li motor di qua sù, o se necesse
con contingente mai necesse fenno;
non si est dare primum motum esse,
o se del mezzo cerchio far si puote
trïangol sì ch' un retto non avesse.
Si tratta di due affermazioni, l'una tratta dalla fisica e l'altra dalla geometria:
• è possibile che vi sia un moto primo, cioè a sua volta non causato da un altro
moto;
• è possibile che esista un triangolo inscritto in una semicirconferenza, ma non
rettangolo.
Ebbene, Dante le prende come esempio palese di qualche cosa di falso perché
contraddicono alla modalità della necessità logica:
• se c'è un moto, allora c'è anche necessariamente qualche cosa che l'ha
generato, una causa;
• se un triangolo è inscritto in una semicirconferenza, allora necessariamente
quel triangolo è rettangolo, cioè ha un angolo retto.
Ora, mentre l'affermazione di carattere fisico è legata al discorso che si sta
facendo (e porta, come ben noto, all'esistenza di un unico ente in grado di causare,
senza precedente causa, un motore a sua volta immobile), come campo di
riferimento analogico, per prelevare un esempio di qualche cosa di altrettanto
necessario, Dante avrebbe potuto scegliere qualsiasi altro dominio, anche e
soprattutto del mondo dell'esperienza; sceglie la geometria perché gli è facile,
consono, immediato. E forse perché, insisto, quel tipo di competenze era diffuso e
ovvio tra i letterati dell'epoca e tra le persone colte. Si noti anche lo stile di queste
affermazioni, pedante e scolastico, ripetitivo: sembrano voler richiamare alla
mente un insegnamento accademico cattedratico; ed è verosimile che questioni di
filosofia e di teologia venissero davvero insegnate così; la geometria sembra più
pertinente a quei campi che non ad altri.
A conferma di quanto asserito, ecco Par. XVII 13-15:
O cara piota mia che sì t'insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;
Dante ha appena incontrato il suo avo Cacciaguida e intende dirgli che lo vede
così elevato, così in alto con il suo spirito che, come le menti umane vedono con
assoluta certezza che un triangolo non possa avere due angoli interni ottusi, così
Cacciaguida vede le cose del futuro prima che avvengano. L'immagine è a dir
poco stupenda: una specie di big bang temporale, un punto di assoluta
contemporaneità, prima dell'inizio della freccia temporale.
Ancora una volta, dovendo dare un esempio di impossibilità logica, Dante
ricorre a un esempio geometrico (è il teorema XVII del I libro degli Elementi di
Euclide, enunciato ben 17 volte nelle opere di Aristotele e dimostrato per intero in
Metafisica 1051 a 24-25, enunciato ma non dimostrato, come sempre, da Boezio).
Non so se sia lecito citare nell'ambito della geometria anche uno splendido
esempio in realtà di ottica; ma poiché si tratta di ottica geometrica non mi sembra
poi del tutto fuor di luogo; lo si trova in Purg. XV 16-21:
Come quando da l'acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l'opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader della pietra in igual tratta,
sì come mostra esperienza ed arte;
Un raggio di luce emana, come Virgilio spiega a Dante, dal volto di un angelo.
Ma, pur essendo luce riflessa, non è solare, visto che il Sole è alle spalle
dell'angelo. Come già interpretarono Buti e Landino e come Sapegno spiega, è la
luce che emana direttamente da Dio a colpire, come raggio riflesso, il volto del
Poeta. Il che giustifica, secondo lo stesso Sapegno, la minuzia altrimenti oziosa
con la quale Dante spiega il processo matematico-fisico che contraddistingue il
fenomeno della riflessione della luce: il raggio incidente e quello riflesso si
trovano sullo stesso piano perpendicolare al piano di riflessione; ma non solo:
l'angolo di incidenza e l'angolo di riflessione (pensati rispetto alla verticale: il
"cader della pietra") sono uguali. "Sì come mostra esperienza e arte": "arte" sta
per "esperimento" e dunque sarebbe: "esperienza ed esperimento" (non posso qui
non ricordare ancora le famose lezioni di ottica date da Pietro Ispano a Siena,
notando come lo stesso Pietro fosse fautore di un metodo euristico). Altri esempi
di Dante fisico si possono trovare in Cimmino, 1988.
Per avere un'idea del tentativo che fa Dante di applicare un metodo
sperimentale, del tutto ingenuo ai nostri occhi moderni, più "qualitativo" che
"quantitativo", si veda Par. II 94-105, che lascio senza commenti:
Da questa instanza può deliberarti
esperienza, se già mai la provi,
ch'esser suol fonte ai rivi di vostr'arti.
Tre specchi prenderai; e i due rimovi
da te d'un modo, e l'altro, più rimosso,
tr'ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.
Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
e torni a te da tutti ripercosso.
Ben che nel quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien ch'igualmente risplenda.
Evito qui ogni riferimento a Dante astronomo, tolemaico e aristotelico (e
scrivo questa congiunzione con enfasi particolare in modo consapevole, perché
tanto ci sarebbe da discutere...), il che mi porterebbe assai lontano. Ma non senza
ricordare che, per poter comprendere e spiegare il sistema delle sfere concentriche
necessarie a concepire il sistema aristotelico, occorre qualche non banale
riflessione.
Appendice 3
Spigolature (minime) dantesche su temi matematici
Premessa
Di solito il connubio Commedia-matematica viene inteso come studio delle
varie numerologie nascoste nell'opera; ma in passato ho già fatto vedere come
questa interpretazione sia piuttosto riduttiva e assai poco interessante dal punto di
vista matematico, perché lascia fuori interi campi della matematica, per esempio
la geometria e la logica, di cui la Commedia è ricchissima (D'Amore, 1993,
2001).
Un'ennesima rilettura mi spinge ora a ulteriori (minime) note che hanno il
valore di riflessioni personali.
Nota 1
Par. XXVII 115-117:
Dante paragona i moti dei vari cieli, dicendo che essi sono misurati a partire da
quello del Sole, preso come unità di misura.
Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
sì come diece da mezzo e da quinto.
Quella che segue è una delle più celebri note di commento a questi versi, fatta
da Natalino Sapegno: "Il movimento del Primo Mobile non è determinato e
misurato da un altro movimento; ché anzi tutti gli altri moti prendono da esso la
loro misura, si ragguagliano ad esso così come il numero dieci è misurato
esattamente dal suo mezzo, il cinque, e dal suo quinto, il due (essendo appunto il
dieci il prodotto di cinque per due)" (Sapegno, 1958).
Notiamo che:
Per completare l'intero, restano , appunto: ; d'altra parte: 10 = 5+ 2 + (5 - 2).
Questa banale relazione aritmetica è legata a un celebre indovinello, molto in
voga nel Medioevo, ma di tradizione assai più antica: ho un contenitore da 10 litri
colmo; devo consegnare 3 litri, ma ho a disposizione solo un contenitore da 5 litri
vuoto e uno da 2 litri vuoto; come fare?
Si riempie il contenitore da 5 litri, si versa parte del suo contenuto nel
contenitore da 2 litri, cosicché nel contenitore da 5 litri ne restano esattamente 3.
Questo gioco di versamenti mostra che stretta relazione vi sia tra il 10, la sua
metà e la sua quinta parte. L'interpretazione di Sapegno come moltiplicazione
viene riproposta nel gioco come addizione.
Se non avessi segnalato altrove la curiosità di Dante per i giochi a carattere
matematico, la spiegazione del Sapegno sarebbe sufficiente; ma quel "mensurati"
mi obbliga a pensare anche al gioco dei versamenti appena citato.
Nota 2
Par. XVII 23-24:
... avvegna ch'io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura.
Dante sta dicendo a Cacciaguida che sia nel Purgatorio sia nell'Inferno gli sono
state dette "parole gravi" riguardo alla sua "vita futura", a causa delle quali deve
ben sentirsi saldo a terra per poter affrontare gli eventi che l'attendono.
"Tetragono" è il termine di paragone della stabilità. Ecco il commento tomistico
(riportato in Sapegno, 1958) alla descrizione del termine fatta da Aristotele Etica
I, 10, Retorica III 11: "Tetragonum nominat perfectum in virtute ad similitudinem
corporis cubici, habentis sex superficies quadratas, propter quod bene stat in
qualibet superficie [sottointeso: piana]. Et similiter virtuosus in qualibet fortuna
bene se habet".
Perfetto. Ma Sapegno sua sponte in un inutile ed errato commento premette:
"[Tetragono] è, genericamente, ogni figura geometrica con quattro angoli; e più
specialmente il cubo, inteso come esempio di perfetta stabilità".
Ma gli "angoli" si addicono alle figure piane e quindi "tetragono" sarebbe
sinonimo di "quadrilatero". Mentre "cubo" è una figura solida sulla quale, basta
guardare, vi sono almeno 24 angoli, oppure, se si vuole, 8 angoloidi e non 4.
Quali sarebbero i "4 angoli" del cubo? Talvolta è meglio tacere.
Nota 3
Par. XII 88-96:
E a la sedia che fu già benigna
più a' poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.
A noi interessa precisamente il verso 91: "non dispensare o due o tre per sei".
Ma la cosa è complessa e richiede qualche spiegazione. I personaggi in
questione sono:
Bonaventura da Bagnoregio (al secolo Giovanni Fidanza, 1217 ca.-1274), che
sta tessendo il panegirico di Domenico di Guzmán, così come Tommaso d'Aquino
aveva a sua volta fatto per Francesco d'Assisi; filosofo e teologo, Doctor
Seraphicus, professore alla Sorbona, amico di Tommaso d'Aquino, anch'esso
santo. Scrisse la più importante biografia di Francesco d'Assisi (1182-1226), fu
vescovo e cardinale, nonché ministro generale dell'ordine francescano e ispirò
Giotto da Bondone (1267-1337) con la sua biografia (Legenda maior) per il ciclo
delle storie nella basilica di Assisi; secondo il suo pensiero teologico la
conoscenza deriva dai sensi, ma l'anima non ne ha bisogno per conoscere Dio;
Domenico di Guzmán (1170-1221), fondatore dell'ordine dei frati predicatori,
anch'egli "santo (quasi) subito" (1234), famosissimo per la sua generosità,
manifestata fin dalla più giovane età e prima ancora di prendere gli ordini.
Poliglotta e grande viaggiatore per tutta Europa, sia presso varie corti sia con
delicati compiti di evangelizzazione; fondatore di un ordine religioso basato su
rigide norme di vita, nel 1209 non esitò a condannare con grande coraggio gli
scempi, gli stupri, gli eccidi compiuti dai cosiddetti "crociati" cristiani durante i
falsi tentativi di conquistare la "terra santa", massacri compiuti nel nome di Cristo
che non risparmiavano inermi bambini e donne musulmane. Non sempre i
domenicani furono bene accolti, al contrario, ma vi furono anche accoglienze
entusiastiche, come a Bologna, quando ai domenicani furono fatte offerte di
palazzi, edifici e danaro, che Domenico rifiutò in base alla scelta di povertà del
suo ordine; morì nel 1221 proprio nel suo convento, che oggi è annesso alla
Basilica di San Domenico a Bologna, unico frate dell'ordine a non avere neppure
una cella per sé.
Si capisce bene a questo punto perché Dante, dovendo affrontare il problema
della sempre più diffusa avarizia nel mondo clericale, abbia scelto proprio
Domenico e il suo grande estimatore Bonaventura.
L'avarizia degli ecclesiastici arriva a questo, ci dice Dante: i vescovi, i preti, i
cardinali chiedono alla Santa Sede la dispensa per poter elargire i beni ricevuti a
favore dei poveri per "due o tre" laddove dovrebbero dare "per sei", cioè elargire
la terza parte o la metà, trattenendo il surplus (i due terzi o almeno la metà) per sé.
Aritmetica davvero alla portata di tutti.
Ebbene, Domenico non chiese tale dispensa, né quelle analoghe di trattenere le
decime (destinate ai bisogni dei più miseri), né altre rendite.
L'interpretazione è resa ancora più credibile dal fatto che anche in Monarchia
II, XI, 1-3, Dante si scaglia contro queste richieste di dispensa, denunciate da
molti altri commentatori dei costumi dell'epoca.
Nota 4
Par. VI 136-138:
E poi il mosser le parole biece
a dimandar ragione a questo giusto,
che li assegnò sette e cinque per diece.
È il famosissimo canto contenente un unico discorso, quello di Giustiniano:
l'imperatore sta presentando a Dante la storia di Romeo, Romée de Villeneuve
(1170-1250), ministro di Raimondo Berengario IV (1198-1245). Romée è uomo
onesto, "savio e valoroso", ma ingiustamente calunniato, al punto che dapprima
Berengario gli chiede conto della sua amministrazione (a tanto lo indussero le
parole calunniose dei cortigiani), ma poi, riconosciuto che Romeo aveva reso
("assegnò") ancora più ricco il patrimonio del conte (come "sette e cinque per
diece"), lo prega di restare a corte; cosa che Romeo, deluso e offeso, non accetta,
preferendo "povero e vetusto" partire andando a mendicare per il resto della sua
vita "a frusto a frusto".
Questo "sette e cinque" è sempre interpretato in un sola battuta come 12,
dunque il patrimonio sarebbe stato arricchito del 20%, si direbbe oggi. Ma vi si
potrebbe vedere anche un motivo... aritmetico dell'accusa rivolta a Romée. In
prima istanza, al patrimonio (10) di Berengario egli restituisce dapprincipio meno
(solo 7, dunque con una perdita del 30%), ma poi anche altro (5, dunque con una
perdita del 50%); ad un'analisi frettolosa, potrebbe apparire che Romée abbia mal
amministrato il patrimonio; ma, considerando tutto, alla fine ci si rende conto del
vantaggio. Questo spiega da un lato la ragionevolezza delle accuse e dall'altro la
reazione offesa di Romée.
Ma sono spinto a queste riflessioni solo per trovare ragioni d'ogni parola usata
da Dante, per non doverne lasciare alcuna al caso.
Nota 5
Par. V 58-60:
e ogne permutanza credi stolta,
se la cosa dimessa in la sorpresa
come 'l quattro nel sei non è raccolta.
Beatrice sta spiegando a Dante la dottrina dell'essenza e del valore del voto e,
più precisamente, sta parlando della permutazione del voto. Dice Sapegno: "La
materia del voto lassata [spiega il Buti], non è ricolta, cioè contenuta, in la
sorpresa, cioè nella presa in suo scambio, come il quattro nel sei ... la cosa, nella
quale tu permuti la cosa votata, sia maggiore di quella, sì che contenga in sé
quella e la metà di quella, sì come il numero del sei contiene il numero del quattro
e la metà più, o almeno sia maggiore di quella [spiega il cosiddetto Ottimo]".
Per dar rilevanza alle sue analisi, Sapegno ricorre alla citazione di due
commentatori eccelsi:
Francesco di Bartolo, detto anche Francesco da Buti (1324-1406), uno dei
primi commentatori della Commedia e Andrea Lancia (forse, ma l'attribuzione è
tuttora incerta), detto l'Ottimo, per, appunto, l'ottimo commento alla Commedia
del 1330-1334.
Sembra che, assai semplicemente, si voglia far intendere una differenza di
quantità, resa analoga o proporzionale a quella stessa differenza che c'è tra quattro
e sei, ossia una semplice diminuzione.
Nota 6
Quel che mi sorprende, è che non finirò mai.
Bibliografia
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Commedia. Cultura e scuola. 127, 145-161. Ristampato (1993) su: Alma Mater
Studiorum, VII, 1, 40-68 (in italiano), 69-86 (in inglese). Ristampato in: D'Amore
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Sapegno N. (a cura di), Alighieri D. (1958). La Divina Commedia. Firenze: La
Nuova Italia.
Indice
Prefazione di Umberto Bottazzini
Prefazione di Emilio Pasquini
Capitolo 1
Un grosso cavolo
Capitolo 2
Tabelline
Capitolo 3
Siena
Capitolo 4
L'infinito
Capitolo 5
Angoli e triangoli
Capitolo 6
Zara
Capitolo 7
Asini che volano
Capitolo 8
Pitagora e l'armonia
Capitolo 9
Conigli
Capitolo 10
Angeli, tanti ma tanti angeli
Capitolo 11
Necessità
Capitolo 12
La taverna
Capitolo 13
A casa di Paolo
Capitolo 14
Il sole
Capitolo 15
Piramidi
Capitolo 16
Una tartaruga in corsa
Capitolo 17
L'imago al cerchio
Appendice 1
Matematica e matematici ai tempi di Dante
Appendice 2
La matematica nella Divina Commedia
Appendice 3
Spigolature (minime) dantesche su temi matematici
Bibliografia
NOTE:
1 Questo testo è già stato oggetto di stampa: D'Amore B. (1993). Alcuni cenni
sulla presenza della Matematica nella Divina Commedia. Cultura e Scuola. 127,
145-161. Ristampato su: Alma Mater Studiorum. Università degli Studi di
Bologna. VII, 1, 1994, 40-68 (in italiano), 69-86 (in inglese).
2 Molto si potrebbe qui dire sul significato che vari studiosi hanno voluto dare
alle matematiche, anche se queste esulavano dal loro specifico campo di interesse.
Vorrei qui ricordare il pensiero di Agostino di Tagaste, per il quale l'aritmetica ha
valore ascetico (Carruccio, 1964).
3 Su questo punto ci furono e ci sono posizioni molto diverse; lo storico della
matematica G. Loria nega contatti tra Dante e l'opera di Leonardo Fibonacci
(Loria, 1929, pag. 409); viceversa, I. Baldelli fa l'affermazione opposta (Baldelli,
1965). Sembra tuttavia plausibile l'ipotesi di S. Maracchia (Maracchia, 1979)
secondo il quale Dante potrebbe non essere venuto a contatto con l'opera di
Leonardo direttamente, ma potrebbe aver conosciuto "alcuni suoi risultati più
facili e accessibili"; tanto più che molti autori hanno affermato la scarsa diffusione
che ebbero le opere di Leonardo (si pensi che addirittura M. Cantor tende ad
attribuire il merito della diffusione della nuova matematica a Giordano
Nemorario, contemporaneo di Leonardo, piuttosto che a quest'ultimo, proprio a
causa della scarsa diffusione di cui sopra). Curioso, però, il fatto che Dante citi e
dunque conosca Michele Scoto, Inf. XX, 115-117, noto per aver contribuito a una
nuova stesura proprio del Liber Abaci... A mio avviso, su questo punto c'è ancora
parecchio da indagare.
4 Questa frequenza alle lezioni di Pietro Ispano, confermata da molti autori, mi
lascia un po' perplesso. Alla morte di Pietro, Dante aveva 12 anni. Pare che le
lezioni avessero come argomento quel che oggi si chiamerebbe ottica geometrica,
ma certo, com'era negli interessi di Pietro e nello spirito dell'epoca, non saranno
mancate argomentazioni logiche (Pietro è il massimo logico medievale) e
teologiche (lo studio della logica, della "dialettica", aveva principalmente questo
scopo; e Pietro era papa). Come può un bambino di al più 12 anni cogliere quel
che la tradizione vuole cogliesse? È assai più verosimile che Dante ricordasse
quelle lezioni non per il loro contenuto, ma per la personalità dell'insegnante; e
che successivamente, per conto proprio, se lo ha fatto, abbia studiato le opere di
Pietro.
5 Anche su questo punto c'è una lunga controversia in corso: è da attribuire a
Fibonacci questo merito? Tra i contendenti ho trovato citato ancora Giordano
Nemorario e poi Gerberto di Aurillac (papa Silvestro II, morto nel 1003);
all'indietro, addirittura Severus Sebock (vescovo siriano attivo nel 650).
6 Varie sono le testimonianze, tutte concordi, sulla presenza del problema della
capra, del lupo e del cavolo in Alcuino: un'edizione del 1777 di Ratisbona
(Regensburg), una del 1863 di Parigi (dove appare il problema come numero 18)
e altre più moderne. Un po' più discussa la presenza in Beda: questi non numerava
i problemi ma i suoi 53 sono tutti riportati in Alcuino tranne 3 (che, per motivi che
non starò qui a specificare, Folkerts, in un'edizione critica di Alcuino del 1978,
numera: 11a, 11b e 33a). In questa numerazione, il problema (di Alcuino-Beda) è,
appunto, il 18. Tale presenza sarebbe confermata da un'edizione dell'opera
aritmetica di Beda stampata a Basilea nel 1563 e da successive riedizioni con
curatori diversi, per esempio quella di J.P. Migne di Parigi (1800-1875) del 1904.
La presenza irlandese di questo gioco in studiosi di tal rango mi ha messo sulle
tracce di un immaginario (per ora) filo conduttore che sto seguendo, come in un
delicato interessante labirinto... (Per molte indicazioni bibliografiche su questo
punto sono debitore a Dario Uri, giocologo di fama internazionale).
7 È noto che in numerologia si "trasformano" le lettere dell'alfabeto di una
lingua in numeri e viceversa. Dunque, numeri uguali hanno, di norma,
interpretazioni numerologiche diverse, da lingua a lingua.
8 Per un'introduzione alla storia della probabilità si veda per esempio (Dupont,
1985).
9 C'è un'interessante storia, quasi una leggenda, sull'esistenza di un XIII libro
di logica, a carattere teologico, di Pietro: ma non ho saputo rintracciare nulla più
di quel che comunemente si sa; né vi è alcuna traccia nell'opera di Dante circa
questo XIII libro; è probabile che la leggenda sia nata successivamente.
10 Cfr. D'Amore B. (2009). Matematica, stupore e poesia. Firenze: Giunti.
11 Boezio ha anche scritto una Geometria, ispirandosi all'opera di Euclide e,
com'è stato a lungo tradizione, commentandola; Boezio ha però una caratteristica:
enuncia i risultati senza darne dimostrazioni. In più, c'è da dire che l'attuale critica
tende a non riconoscere più come unico autore della Geometria proprio Boezio.
12 I tre problemi cosiddetti dell'Ellade classica in oggetto sono: la quadratura
del cerchio, appunto, la duplicazione del cubo e la trisezione dell'angolo generico.