Dante e la matematica (per lo scientifico)
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Dante e la matematica (per lo scientifico)
Bruno D'Amore DANTE E LA MATEMATICA (c) 2011 Giunti Editore S.p.A. È un Dante inedito e romanzato quello che colorisce le pagine di questo volume di Bruno D'Amore. Un Dante curioso e in qualche misura civettuolo, che, assieme al suo amico Guido (Cavalcanti) è il protagonista dei divertenti e fantasiosi episodi che si propongono di svelarci l'origine di alcune celebri terzine. A Martha, che lo ha reso possibile Prefazione di Umberto Bottazzini La Commedia di Dante è intessuta di conoscenze scientifiche, di aritmetica e di geometria, di astronomia e di logica. Anche se gli studenti alle prese con l'opera del divino Poeta raramente se ne accorgono. Per chi legge l'opera di Dante con le lenti della scienza, il Paradiso si rivela come il racconto di un viaggio in un universo tolemaico fatto di sfere concentriche crescenti fino a raggiungere la sfera che rappresenta il cielo del Primo Mobile oltre il quale stanno le nove sfere del cielo Empireo. Il sacro e il trascendente trovano sostegno nelle sfere armillari dell'astronomia del tempo. Ma la matematica si affaccia attraverso tutta la Commedia e offre a Dante materia di allusioni e riferimenti espliciti, di metafore e similitudini in terzine che ricordiamo a memoria dai banchi di scuola: "Qual è 'l geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond'elli indige", "O cara piota mia che sì t'insusi, che, come veggion le terrene menti non capere in trïangol due ottusi", "Quando si parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara" e così via. Nelle appendici, D'Amore discute alcune delle occorrenze della matematica e della logica nei versi di Dante e ricorda le numerose figure di matematici che Dante menziona esplicitamente o ai quali fa riferimento in maniera più allusiva. Per quanto interessanti, le appendici costituiscono tuttavia l'aspetto accademico e, per così dire, più prevedibile di questo volume. Molto più sorprendenti e godibili sono invece le storie che costituiscono il libro vero e proprio. Con la libertà propria della finzione narrativa, D'Amore ci invita a seguire Dante per le strade e nelle osterie di Firenze, nei suoi incontri con amici e maestri. Un Dante curioso di sapere, che cerca di familiarizzarsi con le "figure degli Indi", i calcoli con le cifre arabe che si apprendono nelle scuole come quella di Paolo dell'Abaco, che a Campo dei Fiori a Roma si ricorda della storiella persiana sul moltiplicarsi dei chicchi di riso sulla scacchiera ("che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla"), che in una disputa filosofica a Firenze trova occasione per riflettere sull'infinità dei numeri. Un Dante che risolve antichi ma sempre attuali indovinelli di lupi, capre e cavoli e problemi di calcolo delle probabilità che si presentano nel lancio di tre dadi del "gioco della zara", cui assiste nelle strade di Bologna. Che con Guido Cavalcanti discute di logica modale, a Siena segue una lezione di ottica di Pietro Ispano e nella odiata Pisa, "vituperio delle genti", va sulle tracce lasciate da Fibonacci, il più grande matematico del Medioevo. Il Medioevo che fa da sfondo alle pagine di D'Amore è un'epoca ricca di umori vitali e il lettore si lascia catturare dalla finzione, dimentico che i racconti trovino pretesto nelle terzine della Commedia. O conferme nella biografia di Dante. Ma il gioco della finzione si svolge in un felice equilibrio tra realtà storica e immaginazione. Se consente a D'Amore una grande libertà di movimento nello spazio e nel tempo narrativo, restituisce al lettore un'immagine viva e credibile della matematica del tempo di Dante, un'epoca in cui le poche vestigia lasciate dall'eredità classica si incontrano con i nuovi algoritmi portati dalla cultura matematica degli infedeli. Prefazione di Emilio Pasquini Sorprendente l'impianto di questo libro. Giudicandolo dalle appendici (ove ritroviamo pagine in buona misura già note), siamo indotti ad apprezzare quella chiarezza affabile e didascalica che ha fatto di Bruno D'Amore uno tra i più fedeli seguaci di un superamento della frattura fra le cosiddette due culture. Vi si affrontano, infatti, luoghi topici di Dante, per valenza geometrica e matematica, con acute osservazioni sugli incunaboli danteschi della logica formale: specie quando la logica matematica collabora con l'insiemistica nel delucidare il sillogismo del "nero cherubino" di Inferno XXVII; o la geometria serve a capire meglio certi luoghi del Paradiso, come i retroscena della quadratura del cerchio nel XXXIII canto. Sono argomenti che si riflettono puntuali in alcuni fra i capitoli precedenti: Angoli e triangoli, Piramide eccetera. Ma altri titoli sconcertano non poco, specie in bocca ad un valente matematico: La taverna, A casa di Paolo, Asini che volano e via dicendo. Se poi si continua a leggere, si viene invasi dallo stupore. Davvero, era difficile immaginare un simile brio narrativo nel collega non letterato: il gusto per le descrizioni d'ambiente e la vivacità dialogica di tanti bozzetti fanno quasi dimenticare lo scopo finale, che è invece quello di chiarire ardui problemi scientifici legati al testo dantesco. Sulla scena è Dante, coi suoi amici e i suoi maestri, in vari luoghi d'Italia. Egli parla un suo pastoso toscano, si mescola alla gente, rivela estri e umori di uomo a tutto tondo: curioso di ogni cosa, amante del vino e della buona tavola, ammirato dagli uomini, concupito dalle donne (ineffabile l'incontro fra lui bambino e la coetanea Bea, proprio Beatrice; qui, stranamente, D'Amore non approfitta del numero 9). Ora dunque, grazie al figlio Iacopo, Dante impara da Paolo dell'Abaco la "magìa della scrittura posizionale dei numeri" e degli algoritmi; ma già da scolaretto, in classe con Guido Cavalcanti (nel cosiddetto "quadrivio"), aveva dovuto compitare le tabelline. Ora è protagonista, con Guido, di un'avventura notturna a Pietole, che dal salvataggio di due ragazze alluvionate ascende fino all'armonia di Pitagora. Sempre in viaggio col compagno prediletto, incontra il geometra Eraldo da Todi e si addentra nei misteri dei triangoli; a Bologna scopre i segreti dei dadi e della scacchiera: il che lo porta, in una bettola di Campo di Fiori a Roma, dove vede giocare a scacchi e ripensa alla nota storiella persiana di Sissa Nassir, a coniare la similitudine paradisiaca per suggerire il numero infinito degli angeli ("più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla"). D'Amore immagina poi che a Pisa egli metta le mani sui manoscritti di Leonardo Fibonacci; che a Siena intuisca le leggi dell'ottica ascoltando una lezione di Pietro Ispano; che, infine, stimolato da Lauretta, figlia minore di Guido Novello da Polenta, elabori a Ravenna, verso per verso, il penultimo paragone ("Qual è 'l geomètra che tutto s'affige...") e la chiusa del Paradiso. Fantasia e invenzione si sposano a elementi storici, senza rispettare pedantescamente l'esatta cronologia degli eventi: Dante, per esempio, non poteva essere a Firenze con Gemma Donati a concepire un certo paragone della terza cantica; ed è difficile che Cavalcanti lo accompagnasse a Bologna a studiare dialettica. Ma quanto è amabile questo Dante in pantofole, che arriva alle verità più radiose frequentando scienziati o corteggiando le belle donne (a volte anche le brutte)... Sulle sottostorie del quotidiano, grazie all'amico D'Amore, sormonta l'icona della Matematica come Sole, secondo la bella definizione del Convivio. 1 Un grosso cavolo - E ora vediamo! Questo è davvero difficile. Chi lo indovina riceverà un grande premio. Siete pronti? Un coro di "Sì!" riempì l'aria. I bambini erano elettrizzati; era difficile tenerli fermi, seduti sulle panche o nell'erba. Erano tutti vestiti a festa, l'aria spandeva un gradevole profumo di mille fiori, maggio era iniziato da un po' e il venticello tipico delle Cascine era già tiepido. La grande festa annuale di primavera stava riuscendo a meraviglia. - Pronti, allora. Siamo sul bordo d'un fiume talmente largo che per attraversarlo ci vuole una barca a remi. Ma la barca ha solo due posti, uno per il rematore e uno per un passeggero. Arriva un contadino che deve andare dall'altra parte e reca con sé un feroce lupo, una pecora mansueta ma affamata e un grosso cavolo appetitoso. Può trasportare le sue cose una alla volta perché solo lui può remare. Avete mai visto una pecora remare? Beeeh, Beeeh - e il giullare belava e faceva l'atto di remare. Risate allegre e convinte dei bambini. - Allora, come fa? Pensateci bene e rispondete. Ma prima ancora che terminasse, già c'era una mano alzata; sapete com'è, conoscete quei bambini che manco ascoltano la domanda e già si vogliono mettere in evidenza; ne avete o ne avevate in classe con voi? - Bene, qui c'è già un candidato; dicci, allora, come fa? - Mette in barca il cavolo sotto, la pecora sopra... - Ma ti ho detto che può portare le cose una alla volta - lo interruppe subito il giullare che fungeva da intrattenitore, come si fa oggi negli alberghi di lusso per lasciar liberi i genitori per un po'. - Ah, ma io credevo, pensavo, se lui... - C'è qualcun altro? Una bambina, questa volta: - Non può portare lupo e pecora insieme? - No, ti ho detto solo uno alla volta. - Io, io lo so - urlava un bimbetto in piedi a mano alzata. - Forza, dillo tu, allora. - Carica il lupo e s'avvia, remando; quando arriva dall'altra parte... - La pecora s'è bell'e mangiato il cavolo - e tutti si misero a ridere, avvilendo oltre ogni dire il povero bambino. - Una bambina, questa volta: tu - disse il giullare. - Mette in barca il cavolo e lo porta di là e poi... - E poi il lupo si mangia la pecora approfittando della sua assenza - e giù tutti a ridere e la bambina rossa in volto, mortificata. - Ma allora è impossibile - sbottò uno, e un coro di "Impossibile, impossibile..." si sparse immediatamente fra tutti i bambini. - Ma no, se ci pensate bene una soluzione c'è; possibile che nessuno la indovini? Ah ecco una mano alzata; dì tu, bambino. - Ecco: lascia lupo e cavolo, ché ai lupi i cavoli non piacciono per nulla, neppure a merenda - e molti risero. - Porta dunque di là la pecora. Poi ritorna e prende il lupo e lo porta di là, poi ritorna... - E mentre lui ritorna, il lupo si mangia la pecora - disse ancora il giullare. Tutti risero così sguaiatamente che il bambino si offese e scappò via in lacrime facendosi burlare da tutti. - Allora, raddoppio il premio! Un altro bambino, dì. - Aveva ragione lui, almeno per l'inizio. Lascia lupo e cavolo e porta di là la pecora. Ritorna indietro e porta il lupo. Nel tornare ancora indietro, però, si riporta la pecora con sé. Poi porta di là il cavolo, così da una parte ci sono lui, cavolo e lupo e dall'altra la pecora. A questo punto può lasciare lupo e cavolo e tornare a riprendersi la pecora, e così il trasporto è fatto. Il giullare gli fece festa, con tanti elogi; molti dei presenti non avevano capito un bel nulla, ma al sentire il giullare complimentarsi, si complimentarono pure loro. Dante ricevette il doppio premio, ma gli fu assai più gradito il complimento di una bambina di poco più piccola di lui, graziosa e civettuola, con un visetto d'angelo, tutta vestita d'azzurro e bianco, che gli si avvicinò: - Bravo, sei stato bravo. Ma me lo puoi rispiegare? Non sono certa d'aver compreso bene. Con infinita pazienza e con molta tenerezza, ché era conquistato da quello sguardo tanto dolce e penetrante, Dante le spiegò di nuovo tutto, ma lei mostrava di non capire ancora: - L'unica cosa che mi venne in mente, mentre il giullare parlava e ci chiedeva, è che quel cavolo doveva essere grande assai per occupare il posto di un uomo. Io, cavoli così non ne ho mai visti. - Va bene, ma è un gioco, devi fingere, nei giochi, si sa... - Sì, è vero, come ti chiami? - Dante mi chiamo. E tu? - Mi chiamo Beatrice, ma tutti mi chiamano Bea. Gli anni passano veloci, si sa, e Dante si ritrovò non tanto giovane studente di dialettica a Bologna; tra compagni si facevano giochi d'astuzia e un tal Lapo, originario di un paese vicino a Lugo, suggerì lo stesso indovinello, una volta che erano tutti in compagnia di uno dei maestri. L'ambiente era allegro nella grande taverna delle Quattro Campane, che ancora esiste vicino al conservatorio di musica: un'unica grande stanza interrotta solo da colonne, calda, umida e piena di fumo di legna. Alla domanda di Lapo, tanti risero e molti provarono a rispondere. Tanto allegra era la combriccola, che al gioco e ai lazzi partecipavano, graditissime, anche le tante giovani e avvenenti cameriere che servivano ai tavoli e la cui prontezza di riflessi doveva essere notevole per evitare manatine e pizzicotti degli studenti allegri e ridanciani. - Io, io lo so - disse uno. - Dai, allora - fece Lapo. - Il contadino porta di là il cavolo e poi... - E poi quando torna non trova più la pecora. - E perché? - Perché il lupo se l'è... divorata! - urlò Lapo, facendo la parte del lupo che inseguiva a fauci spalancate una cameriera che fuggiva fingendosi pecorella intimorita. Tutti risero a crepapelle. Insomma, ognuno volle dire la sua, studenti e cameriere, e una volta perfino l'oste, che si dava arie da intellettuale perché una volta aveva conosciuto il rettore. Ma nessuno colpì nel segno. Dante taceva, sentendosi un poco a disagio: lui la storia la sapeva già, quindi non era giusto intervenire; d'altra parte nessuno risolveva l'enigma, e poi lui se l'era risolto da sé, mica gli avevano dato la soluzione... dunque ruppe gli indugi e disse: - Io, Lapo, io. - Oh, il nobile fiorentino - e fece l'atto di inchinarsi. - Dai, spara allora. Dante spiegò tutto per filo e per segno e tutti gli applaudirono, anche le cameriere e il maestro, contenti, dandogli manate sulle spalle. Un coro di "Bene, Bravo!" continuò per un po'. L'oste gli offrì da bere e il bicchiere omaggio gli venne portato dalla più avvenente delle cameriere, quella che faceva perdere la testa a tutti, Anna, detta Nina. Nina si avvicinò a Dante, gli diede il bicchiere direttamente in mano e lo baciò, tra le urla, gli schiamazzi e le grida d'invidia dei presenti: "A me, anche a me, avevo indovinato anch'io...". Dante, assai compiaciuto, fece l'atto di alzare il bicchiere brindando a tutti, bevve d'un fiato e si sedette. S'accorse allora di essere andato a finire accanto al maestro e si alzò, scusandosi, facendo cenno di cedere il posto. Era consuetudine, infatti, che i posti accanto al maestro fossero riservati agli studenti più anziani e Dante era invece da poco arrivato. Ma il maestro lo fermò: - No, no, state qui, non vi preoccupate. Oggi meritate gli onori di noi tutti. - Oh grazie - fece Dante. - Siete molto acuto, complimenti. Ma Dante era troppo sincero: - In verità, maestro, avevo già risolto questo quesito quando ero giovincello, durante una festa all'aperto a Firenze, e quindi lo conoscevo già. - Si vedeva, la vostra sicurezza era tanta. - Sì, ma quella volta l'avevo risolto da solo. - Lo credo, lo credo, non vi risentite, vi prego. - No, scusate maestro, credevo... - Va bene così. Anch'io lo conoscevo. - E avete taciuto. - Sì, il gioco mi sembrava riservato agli studenti, non credete? - Partecipavano tutti - fece Dante, indicando cameriere e oste. Il maestro tacque. Tutt'attorno proseguivano frizzi e canti e rumori, cameriere che fingevano di fuggire e studenti che cercavano, sul serio, di agguantarle. Dopo un po' il maestro riprese, dandogli improvvisamente del tu: - Ti interesserà sapere qual è la fonte di questo gioco e di tanti altri che sviluppano l'ingegno? - Oh, sì, eccome - disse, sincero, Dante. - Orbene, c'è un'opera manoscritta dell'800 circa, scritta alla corte di Carlo il Grande, imperatore, redatta da un mago famoso, Alcuino di York, che Carlo chiamò a sé per addestrare i giovani. Quest'opera è una vera miniera di giochi e si chiama Quaestiones ad acuendos juvenes. Tra i tanti giochi e indovinelli c'è pure questo. - Ah, come gradirei vedere questo testo per conoscere gli altri giochi. Nel frattempo, Nina era passata a ritirare il bicchiere vuoto con il quale Dante stava ancora giocherellando tenendoselo in mano; si fermò deliberatamente un istante di più, quello che servì a carezzargli le dita nell'atto di prendergli il bicchiere e strofinare un braccio con il suo. Dante, imbarazzato dalla presenza del maestro, fece conto di nulla. Il maestro, pure. - Purtroppo quest'opera è nota, citata da più d'un autore, ma se n'è perduta traccia. Un'opera interessante, sottile e notevole, eppure... - Eppure? - Eppure copiata, copiata di sana pianta. - O che mi dite - fece Dante. - E come, da chi? - Una volta s'usava molto e ancora oggi s'usa e temo che si proseguirà in futuro. Si prende un libro che si sa essere raro e lo si copia. Si cambia qualche cosa qua e là, e via. In questo caso Alcuino ha solo cambiato l'ordine dei problemi e se n'è addirittura scordato qualcuno per la strada. Risero entrambi. - E si può sapere da chi l'ha ricopiato? - Sì, certo, da un'illustre fonte. Da un libro di un grande, del Venerabile Beda, che visse cent'anni e più prima di lui, sempre a York. - Beda, Beda l'enciclopedista? Lui? Proprio lui? - Sì, colui. Ma perché tanta sorpresa? - Gli è che lo credevo vecchio e saggio e poco incline a simili facezie. - Scrivere di questi giochi non è facezia, è rara prova di capacità e di intelligenza. - Sono del tutto d'accordo, maestro. - Ma ora va, Dante; pare che ci sia qualcuno che mi sta odiando perché ti trattengo, che fa di tutto perché tu t'accosti a lei, che fa di tutto per fartelo capire, come ha fatto poc'anzi colle mani e col braccio e con lo sguardo. E indicò col mento a sinistra. Dante si voltò e vide, da lontano, in un angolo della sala, Nina, che se lo mangiava con gli occhi e che lo stava invitando, in cuor suo, a farsi da parte con lei. Questa volta sì, Dante arrossì e guardò il maestro: - Vai, dunque, o debbo pensar male di te. Credi che io, al posto tuo, rimanderei d'un solo istante questo incontro, maestro o non maestro? Sorrisero entrambi, e Dante s'alzò e, nel congedarsi, strinse riconoscente con la mano l'avambraccio del maestro. S'avvicinò a Nina ed insieme si allontanarono furtivi, lei avanti, lui dietro di pochi passi; solo qualcuno se ne accorse ed invidiò molto Dante. Quando furono in un corridoio appartato, quello che portava alle camere di residenza di oste e cameriere, Nina gli prese le mani, accostò la propria bocca alla guancia di lui e lo baciò; poi gli disse sussurrando vicino all'orecchio: - Sai, mi hai preceduto d'un istante, stavo per dare io la soluzione. Solo un istante, un istante solo, e ti avrei battuto. Dunque, per la tua villania, ti meriti questo - e gli diede un tal morso all'orecchio, che Dante urlò sincerante dal dolore e si ritrasse d'un balzo, prendendosi l'orecchio con una mano. Come se nulla fosse, lei continuò: - Non credi che ci sia una strada più breve, una soluzione meno complicata? - Non so, sinceramente non so - disse Dante, massaggiandosi l'orecchio. - Non ci ho pensato. - Sono certa di sì; quella tua è corretta, ma mi sembra esagerata. Deve esserci una strategia più breve. - Devo pensarci su - e ancora si massaggiava. - Bene, io ho finito il turno e quella, la terza a destra, è la mia stanza; ci sto chiusa dentro a chiave; ma se trovi una soluzione più breve, non esitare: vieni a dirmela. E si allontanò, senza mai voltarsi, lasciando Dante come un baccalà, muovendo le anche in modo esagerato; aprì la porta, entrò e fece in modo che Dante sentisse la chiave girare una, due, tre volte nella toppa, per fargli capire l'impenetrabilità di quell'alcova, senza il permesso di lei. Dante pensò a lungo, quella sera, ad una strategia più breve. Ancora gli anni passano, oh dio, come passano rapidi. Una notte, a corte a Treviso, si giocava agli indovinelli; ce n'erano di belli e di brutti. Ora, non c'è nulla di peggio che un indovinello raccontato o proposto male. La persona che lo propone ha sempre poi l'arroganza di darti una soluzione che non corrisponde alla richiesta ed è tanto imbecille che neppure se ne rende conto, e si sente più intelligente di voi. E non capisce neppure perché voi vi arrabbiate tanto. Questo capitò quando un ospite di S. (non dirò di dove per timore d'offendere un intero paese) chiese a tutti silenzio per proporre un indovinello: - È bellissimo e difficile. Dunque, c'è un pastore che deve trasportare in barca tre animali. Ma la barca è piccola e lui ne può trasportare solo uno alla volta. Come fa? - e giù a ridere, come fanno quelli che preannunciano una barzelletta divertente e iniziano a ridere prima ancora di raccontarla. Dante trasalì: "Che razza di idiozia è questa?" pensò dentro di sé. Già una nobildonna di Montebelluna aveva chiesto la parola e disse: - Li porta di là, uno alla volta. "È la risposta corretta alla domanda idiota che è stata fatta" pensò Dante "ma sono certo che non l'accetterà perché ci ha in mente qualche cosa d'altro", e infatti: - No, no, non è così - commentò l'ospite di S., tutto soddisfatto. E ognuno disse la sua, mentre Dante si mangiava il fegato e non sapeva se intervenire o no. In questi casi, la voglia spontanea è quella di offendere il fesso, mandarlo al diavolo e spiegare al posto suo. Ma quello era un importante ospite di Gherardo. Quando molti ebbero provato e a ciascuno l'ospite di S. ebbe detto che no, che la risposta non era quella, finalmente qualcuno lo apostrofò spazientito: - Beh, allora, per cortesia, datecela voi la riposta. E il signore di S. iniziò: - Dunque, adesso non mi ricordo bene; credo che, ma non mi ricordo più, credo che bisogna riportare indietro uno degli animali... Dante non riuscì più a trattenersi, ma misurò, con molta nobiltà, le parole: - Se posso, eccellenza, vorrei raccontare io una storia e proporre un indovinello che molto s'avvicina al vostro. E Dante propose, questa volta in modo corretto, l'indovinello. Molti tentarono di dare risposta, mentre il signore di S. cercava di dire a tutti che era proprio quello, come l'aveva detto lui, e tutti lo evitavano e, dietro le spalle, lo deridevano, Gherardo compreso. Nessuno riusciva a dare la risposta, neppure il Signore, che cominciava a spazientirsi. - Allora, serve proprio un aiuto? - disse Dante. - Gli è che ogni volta che il pastore s'allontana, qualcuno si mangia qualche cosa - disse una signora elegante, con una inattesa voce tonante. - Non è proprio così - disse Dante. - Pensate, pensate sempre che i lupi non mangiano i cavoli. Pensate solo a questo, ma sempre. - Oh, allora io avrei, forse, trovato un modo. La voce era gradevolissima; Dante si voltò e fu abbagliato dalla grazia e dall'eleganza composta nei modi, più che nelle vesti, della signora di mezza età che aveva appena parlato. Le si avvicinò e non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: - Bene, allora, signora, diteci - e parteggiava per lei in cuor suo. - Dunque, mi pare che si debba portare di là la pecora, così che il lupo non faccia danni, e questo è il primo viaggio di andata. Poi il pastore torna indietro, ed è il suo primo viaggio di ritorno, da solo. A quel punto carica il cavolo e lo porta di là, nel suo secondo viaggio di andata. Ora, da una parte c'è il lupo e dall'altra pecora, cavolo e pastore. Il pastore deve ritornare a prendere il lupo, e sarebbe il secondo viaggio di ritorno, ma non può abbandonare pecora e cavolo; dunque, questo secondo viaggio di ritorno lo farà accompagnandosi alla pecora. Ora, nel terzo viaggio di andata, porta seco il lupo che può abbandonare di là e torna ancora una volta a prendere la pecora. - Fiera, batteva le mani e saltellava cercando il consenso di Dante, con una grazia di bambina. - Non è forse così? Tutti guardarono Dante, perché nessuno aveva capito davvero, e aspettavano il suo consenso per applaudire. Dante fece l'atto di abbracciarla, ma solo le si inchinò, dicendo a tutti: - Ecco, signori, un raro esempio di grazia e di intelligenza a un tempo. Complimenti, signora. E tutti applaudirono, si complimentarono, le si avvicinarono; mentre il signore di S. prese a parte Dante e gli disse: - Era come dicevo io, no? Bisognava riportare indietro un animale, no? Dante lo guardò con disprezzo, non disse alcunché, e ritornò dalla dama per complimentarsi. - Oh, i vostri complimenti, signor mio, sono il miglior premio. Decisero tutti di ballare un po', e Dante chiese e ottenne dalla dama il permesso di essere il suo unico cavaliere per l'intera serata. 2 Tabelline - Tre via uno tre, tre via due sei, tre via tre nove... - diceva a voce alta, quasi salmodiando, anzi proprio salmodiando, il vecchio maestro, vestito un po' logoro, barba sfatta a chiazze bianche, capelli che sembravano un cespuglio di more tirato con violenza verso il basso. - Tre via sei diciotto, tre via sette ventuno, tre via otto ventiquattro contemporaneamente dicevano tutti in coro, con un'attenzione estrema e una concentrazione totale, gli allievi di ogni età, da nove dieci a vent'anni, vestiti chi in maniera sommaria chi con una certa eleganza. Guai a sbagliare, guai anche solo ad uscire dal coro: un istante di ritardo o uno di anticipo erano considerati come un errore imperdonabile. La punizione? Studente che mi leggi oggi, nel terzo millennio, non ci vorrai credere. C'erano qua e là, sparsi per la stanza, che di aula proprio non si poteva parlare, dei giovanotti bastardi e ignoranti che avevano solo il compito di segnalare al maestro qualsiasi genere di scorrettezza. Lo studente sorpreso nella disattenzione, nell'errore, nell'uscita dal coro veniva immediatamente segnalato; la "lezione" s'interrompeva all'istante e il povero malcapitato, altro che nota o "Fa' venire i tuoi genitori", veniva giustiziato lì per lì. Il minimo che gli poteva capitare era una bella serie di robuste sferzate sulle dita delle mani tese, palme in basso, con una bacchetta di legno durissima che ogni maestro portava sempre con sé, parte fondamentale del corredo didattico, più dei libri; le sferzate erano tali da poter anche fratturare le dita. E guai a dirlo a casa, perché allora il padre, altro che difesa del povero studente, te le avrebbe date in soprannumero di santa ragione (e, a quei tempi, quando il babbo menava, menava duro, per lasciare il segno e mostrare a tutti il senso evidente della indiscussa patria potestà). Ma se la scorrettezza era grave, come dire "sette via otto quarantotto", come viene spontaneo per la rima, allora erano guai seri: potevi essere sottoposto all'immediato abbassamento dei pantaloni (se ne avevi, perché erano ancora poco diffusi) o all'innalzamento della gonna o della palandrana (molto più usuali anche tra i giovani maschi) e colpito di fronte a tutti nel sedere nudo, con vergate che facevano immediatamente sanguinare. E sai la cosa più incredibile? Che i tuoi compagni, altro che solidarietà, come fanno i pusillanimi per il proprio scampato pericolo, avrebbero riso a crepapelle, nel vedere dapprima il tuo sedere rosa mostrato a tutti e poi nel sentire le tue urla di dolore e vedere il sangue colare. Ecco perché l'attenzione era estrema e la concentrazione somma. È chiaro ora a ciascun lettore il perché? - Quattro via uno quattro, quattro via due otto - diceva il vecchio maestro, che nel frattempo era passato al quattro e che, si sapeva, stava per andarsene; quella era la sua ultima lezione e quel giorno stesso, dopo il desinare, dicevano i più, sarebbe arrivato il maestro nuovo, che nessuno ancora conosceva. Era giovane, si diceva, e questo era un male: giovane significa maggior vigore e forza, significa dunque più dita spezzate della mano e più sangue dalle natiche. - Quattro via sei ventiquattro, quattro via sette ventotto - dicevano in coro i giovani di diverse età, perfettamente all'unisono, mentre i vigilanti, stizziti per non trovare clienti alla tortura, cercavano con puntigliosa attenzione di regalare a questa nostra storia e alle cronache dell'epoca fratture e sangue. La cosa proseguiva, lenta e solenne, e poteva durare una mattina intera, ma noi abbrevieremo la storia giungendo subito alla fine: - Venti via diciannove trecentottanta, venti via venti quattrocento terminarono, all'unisono, vecchio maestro e giovani allievi, con grande soddisfazione di tutti ed un profondo respiro di sollievo. - Sedetevi - disse il maestro, perché la salmodia delle tabelline andava detta in piedi per maggior concentrazione. - Io vi lascio questo monito, che fu anche dei vecchi saggi, i grandi della storia e dell'intelletto. L'insegnamento di Pitagora, che voi avete, devo riconoscere, così abilmente ripetuto or ora, è il fondamento dell'arismetrica tutta e ciascuno di voi lo deve salmodiare almeno tre volte al giorno, congiuntamente alle preci, al mattino, al mezzodì, e alla sera, al momento di coricarsi. Sapere a memoria le tabelline vi salverà da fastidiosi calcoli all'abaco, vi dirà rapidamente quali risultati sono importanti e decisivi. Non dimenticatelo. Abbiamo studiato i numeri, così come i dotti Greci ci hanno tramandato e Pitagora di Samo in prima linea. Poi le operazioni: la somma o addizione, la sottrazione o differenza o resto che è la sua inversa; la moltiplicazione o prodotto, cinque via sei che fa trenta; la divisione che è la sua inversa, e che può essere di contenenza o di ripartizione. Un'operazione alla quale pure abbiamo fatto menzione, ma che solo i più abili di voi hanno colto, è la potenza, inventata dal grande Archimede di Siracusa: due alla potenza seconda è quattro; tre alla potenza seconda è nove; tre alla potenza terza è ventisette. Avendo studiato la divisione e i divisori, sapete ora che cosa sono i numeri primi, gloria dell'intelletto di Euclide di Alessandria. I numeri primi sono due, tre, cinque, sette, undici, vi ricordate? Le domande che, di quando in quando, il vecchio maestro faceva, alito pestifero, unghie delle mani nere, calzari stinti dai quali spuntavano piedi che nessuno poteva neppur guardare per non avere immediati conati di vomito, eppure uomo con una sua certa qual dignità, le domande, dicevo, erano pura retorica. Guai a rispondere, guai a fiatare se non era il maestro a indicarti con la punta del bastone, direttamente, a metà tra l'indicazione e la minaccia. L'allievo non poteva neppure respirare; doveva stare compostamente seduto sulla panca, non c'erano banchi: schiena ritta, braccia conserte sul davanti e mani che dovevano afferrare i gomiti per evitare che le dita libere facessero chissà che gesti indecorosi. - Dunque, per chi di voi ha appreso, e saranno pochi, lo so, la lezione è stata grande e, in futuro, fruttifera. Per gli altri, poveretti - e fece come un gesto di compassione - tempo perso per me e per loro. Ma la matematica, come diceva anche il Sommo Maestro di color che sanno, si sa, è intelligibile solo a pochi spiriti eletti [chissà dove aveva trovato questa dotta citazione, che io ho cercato vanamente in tutto Aristotele]. Gli altri, oh, gli altri potranno ritornare agli sforzi dei loro antenati, certo zotici e villici, a rimuovere la terra con il nuovo strumento che tanti miracoli sta facendo, l'aratro a punta piegata, che ora, pensate, viene trascinato dai buoi. Io ho fatto il possibile, più del possibile, e il mio animo è in pace; i miracoli li possono fare solo Dio ed i suoi santi. E, con fare teatrale, testa eretta e busto dritto, uscì dalla stanza. Ora tutti si immagineranno, in base ai nostri attuali simpatici modelli comportamentali, studenti scapestrati urlanti montare sulle panche, gettarsi addosso l'un l'altro o chissà che, canti, schiamazzi, urla... approfittando dell'assenza del maestro. Ma neppure per sogno: quei giannizzeri dei cercatori di candidati alla tortura mica se ne erano andati. Essi non erano dotazione dell'insegnante, ma della scuola e quindi se ne restavano lì. Sì, dirà il mio lettore, ma in caso di scorrettezza, chi avrebbe inflitto la punizione? Oh, ma la risposta è multipla e semplice: o il responsabile della scuola (direttore o preside, diremmo noi oggi), o il prossimo insegnante, o loro stessi. E perché gli studenti non si sollevavano e non li menavano? Sì, questo era possibile, e le cronache dicono che a volte accadde che studenti esasperati dalle angherie continue si ribellassero. Ma tanto, alla fine, era sempre peggio per loro... Oh, ma zitti, zitti, torniamo nella stanza, perché era arrivato il nuovo maestro, inaspettatamente, molto prima del previsto. Gli studenti erano ancora in perfetto silenzio, allineati, le schiene diritte eccetera, insomma, come ho detto poc'anzi. In queste circostanze, entrò un giovane elegante, volto perfettamente rasato, capelli castano chiaro lunghi raccolti a coda, pulito, senza verga (senza verga!), con un libro in mano. Indossava una palandrana che sembrava di velluto, non aveva guanti, aveva ai piedi delle scarpe di panno pesante (molto di moda a quei tempi) il cui colore ben si legava a quello del corpetto che s'intravedeva sotto la palandrana e che sbucava dagli omeri per trasformarsi in maniche lunghe che accompagnavano il braccio fino ai polsi. Gli studenti lo guardarono ammirati e sbalorditi; mai in una scuola si era visto un personaggio simile, più vicino nell'aspetto a un nobile di corte che a un maestro. Sembrava ben nutrito, sveglio, molto sicuro di sé. Vide gli studenti, almeno 60 o 70 o forse più, tutti silenti e composti, e 5-6 ragazzotti male in arnese in piedi, con in mano canne che servivano ufficialmente per indicare al maestro i depravati che sbagliavano ma, di fatto, per stuzzicare, indurre all'errore, alla disattenzione, alla reazione, e dunque al conseguente castigo. - Voi chi siete, che fate costì in piedi? - chiese proprio agli aguzzini. - Noi siamo i tutori, maestro, al vostro servizio - rispose uno di loro, il più infingardo. - Oh, grazie, allora, ma io non ho bisogno di voi; andate pure. - Ma maestro, ma come, no, insomma, è il nostro dovere, il nostro lavoro, abbiamo sempre, sì insomma - non sapeva che dire. - Andate, andate e celermente, altrimenti... - e fece l'atto di alzare la mano per colpire. - Andate dal vostro superiore a dire che il nuovo maestro d'abaco non necessita di queste forme arcaiche di protezione, che so fare da me. Immaginatevi la scena: gli studenti increduli, felici, rossi in volto dalla gioia; gli aguzzini che se ne andavano, quasi minacciando maestro e studenti, ma con la coda tra le gambe. Gli studenti erano ancora rigidi, ma le dita di alcuni di essi si muovevano e molte mani mollarono la presa del gomito e si richiusero a pugno, beh, quasi, perché il medio era in molte mani sollevato a dire non so che, ma certo qualche cosa di offensivo. Si seppe poi, dalle cronache, che il nuovo maestro era stato pregato e ripregato di prender posto in quella scuola, anche perché la sua presenza, un nobile a far da maestro in una scuola pubblica fissa, avrebbe portato contributi in danaro freschi da parte di varie corporazioni; e che lui aveva alfine acconsentito a insegnare lì, a patto di avere carta bianca e libertà su tutto, cosa che gli era stata subito accordata. - E insomma, che fate lì così imbalsamati? Mi sembrate pezzi di stoccafisso disse, rivolgendosi agli studenti. - Stoccafisso - disse sottovoce Dante a Guido, senza neppure voltarsi, quasi da ventriloquo. - Che sia di Livorno? O di Pisa? - Tu, laggiù - oh dio, il nuovo maestro l'aveva già visto - che stai dicendo al tuo compagno? - e, visto che Dante non parlava, il maestro di nuovo: - Su allora, parla, te lo ordino. - Nulla, signor Maestro, commentavo il vostro riferimento allo stoccafisso e mi chiedevo se siete di Livorno o di Pisa. Vi prego, non ho fatto nulla di male. Dante non era uno studente modello, nel senso che aveva il debole di non riuscire a star zitto e quando aveva un commento da fare, lo faceva. Di solito era tanto abile che nessuno lo sorprendeva, eppure aveva preso talvolta vergate sulle dita (sì, lettore, non illuderti, solo sulle dita). Ma questo nuovo maestro lo aveva subito colto sul fatto o, come dicono spesso gli studenti, "beccato", nel senso di scoperto. Dante era già pronto a "beccarsi", questa volta nel senso semantico di prendersi, ricevere, vergate sulle dita. - Ah, bene, signor mio; dunque voi siete un curiosone - disse invece allegramente il maestro. Nessun cenno alle vergate... Qualche allievo iniziava a smettere la posizione delle braccia conserte e lentamente metteva le mani più comode, ma sempre con fare circospetto. Molti rilassavano la schiena, molti si guardavo attorno incuriositi, come a cercare conforto dai vicini: osiamo o non osiamo? - Allora - disse il maestro a Dante - sappiate che sono di San Miniato, dunque più vicino a Pisa che a Firenze; ma ho studiato fuori, in giro per l'Italia prima, poi per l'Europa. Sono stato chiamato qua, ed ho accettato, per insegnarvi l'arismetrica. Ma mi dicono che il vostro precedente maestro era di grande valore e che dunque voi siete tutti già molto esperti, nevvero? La simpatia per quest'uomo era già alle stelle, ma pur sempre un maestro era, capace di chissà quali torture; dunque, forti delle precedenti esperienze "didattiche", nessuno fiatò. - Ma che diavolo succede? - chiese e si chiese il maestro. - Vi faccio una domanda e nessuno fiata? Orsù, dunque, tu - indicando Dante che avevi prima la lingua sì lunga, parla a nome di tutti, via. - Gli è, signor Maestro, che mille volte ci hanno detto e mille volte spiegato che non si deve mai parlare a un Maestro, a meno che lui non ti chiami espressamente, non ti indichi, insomma non cerchi proprio di te in persona. E così noi... - Ah, capisco. Bene, e allora adesso le regole le cambiamo. Non so che cosa farete con gli altri maestri del quadrivio, ma per quanto riguarda me, potete e anzi dovete parlare. Se vi faccio una domanda, qualcuno di voi risponda. Così sia. Va bene? Increduli, ancora un po' impauriti, però non codardi, qualcuno cominciò a sperare e disse di sì, accettando questa nuova situazione. - Oh, bene, così deve essere. E allora, parliamo ordunque di arismetrica. So che avete studiato molto, ma non so che cosa. Il vecchio maestro, andandosene inviperito, non ha voluto parlarmi. Dunque, per esempio, questa mattina che cosa avete ripetuto come ultima cosa? - Pitagora - disse più d'uno. - Le tabelline di Pitagora - dissero altri. Ma molti ancora tacevano, incerti e con poca fiducia in questa improvvisa apertura democratica, diremmo noi oggi. - Ah, bene - fece il maestro - dunque, vediamo. Tu - indicando un giovane in prima fila - quanto fa sei via tre? Un "Oh" di meraviglia si levò; molti cominciarono ad agitarsi, molti parlottarono tra loro. - Che succede, oh che succede? - chiese il maestro a tutti. - Gli è che così non vale, non è mai stato fatto. E come lo sappiamo? - Come "come"? Non sapete le tabelline? - No, Maestro, perdonate l'ardire, ma noi le sappiamo, eccome, le tabelline. - Bene, allora tu dimmi: quanto fa sei via tre? - Va bene, Maestro - e salmodiò: - Sei via uno sei, sei via due dodici, sei via... - Ma come - l'interruppe il maestro - ogni volta dovete ripetere questa litania daccapo? Non sapete rispondere a colpo? Sei via tre fa diciotto. Non lo sapete fare a colpo? Senza pensare? Gli studenti si guardavano l'un l'altro, come da sempre è tipico per loro. Quando si rompe quel che loro credono essere un contratto didattico e una clausola stabile nel tempo e ritenuta immutabile viene d'improvviso cambiata, oppure un accordo preso viene ritenuto modificato unilateralmente dal docente, si interrogano l'un l'altro, annuendo, come a dire: "Ma non è così? Certo che è così. Ma non è possibile, non era questo, è sempre stato quest'altro. E chi l'ha mai fatto? Ma non era da studiare. Era per oggi? No, era per domani. Ma questo argomento ancora non è mai stato affrontato. Ma come 'sbagliato', l'ha detto lei a lezione", eccetera eccetera. - Ah, allora è così. Bene dunque; a partire da oggi, le tabelline di Pitagora le dovete sapere come dico io. Io vi chiedo, d'improvviso: quanto fa sette via quattro e chiunque, dico, chiunque di voi deve sapermi dire ventotto, al volo, senza pensarci un istante. Così deve essere, questo vuol dire sapere le tabelline. Molti furono i commenti e molte le recriminazioni, ma nessuna aperta; quel maestro la sapeva lunga ma ancora nessuno l'aveva visto in azione sulle punizioni. Chissà che sottigliezze aveva o avrebbe inventato, per punirli. Qualche ora dopo, quando Dante e Guido parlottavano rientrando a casa, passando sotto gli Uffizi, i commenti erano opposti ed ingenui, come devono essere i commenti di ragazzini di 10-11 anni. - Deve essere un tipo, quello, sottile e perfido. Prima ti lisciano, i tipi così, e poi ti vergano - diceva Guido. - Io non sono convinto - ribatteva Dante - a me è piaciuto, sembrava sincero. E poi, se ci pensi davvero, effettivamente se ti chiedono per la strada: 'Quanto fa otto via nove', per rispondere 'settandue' alla maniera del vecchio maestro ci metti un giorno. E si misero a ridere a crepapelle. D'un tratto, Guido si fermò e afferrò un braccio di Dante, bloccandolo: - E tu come lo sai? - Lo so che? Sei grullo? - Tu come lo sai che otto via nove fa settantadue? Come lo sai? Dante si corrugò in fronte, come la pelle liscia del volto di un bambino permette, come a concentrarsi su di un fatto insolito, e poi disse, lui pure stupito: - Oh bella, non lo so. So che fa settandue, ma non so perché. Stupito l'uno, ancora più stupito l'altro, o era magia, o aveva ragione il nuovo maestro. 3 Siena Il fermento era grande; l'entusiasmo si sarebbe potuto toccare, tanto era vivo e concreto da cadere sotto la percezione dei sensi. I bambini scalpitavano, fremevano, stringendo a sé le proprie poche cose. Chi le teneva raccolte in una sacca, chi in un cestello, chi in un canestro, chi in una borsa e chi, più semplicemente, in un panno annodato. Parlavano a voce alta, si chiedevano, si dicevano. I genitori raccomandavano, sollecitavano, auguravano, ma i bambini li guardavano con un solo occhio e li ascoltavano con un solo orecchio, ché erano già proiettati verso il viaggio, la meta, Siena. Erano stati scelti venti bambini nell'oratorio, quelli più meritevoli, che meglio sapevano recitare la dottrina, che meglio sapevano rispondere alle domande di fede, che meglio e più spesso recitavano giaculatorie e rosari, che si erano comunicati più di sovente. Scelti per una gita nella città con la famosa piazza in forte pendenza, in occasione di un evento d'eccezione: sua santità Giovanni XXI avrebbe dato lezione ai giovani sulle sue arti, la teologia e l'ottica, convocandoli da ogni terra di Toscana, pregando ogni città, ogni fazione, ogni banda di dimenticare per alcuni giorni le ostilità politiche e d'armi. Per rappresentare Firenze era stato scelto proprio l'oratorio della Badia e Dante si era dato subito da fare per mandare a memoria le risposte insulse alle domande insulse che venivano poste, a pregare in maniera evidente e ostentata ogni giorno, a comunicarsi tutte le mattine: a tutti i costi non voleva perdere l'occasione di vedere Siena. Tanto impegno aveva profuso, che risultò addirittura il primo, con grande soddisfazione di Alaghiero e Bella, papà e mamma. Ora, però, come tutti gli altri coetanei, friggeva e stordiva, domandava e rispondeva, saltava d'ansia e di attesa. Vedere il papa? Oh dio, quanto può interessare a un bambino di nove anni vedere un papa "vecchio" di oltre mezzo secolo? E ascoltarlo, poi, parlare di teologia e di ottica... Siena, la leggendaria Siena, affascinava tutti i fiorentini: vecchi, giovani e bambini; ma pochi vi si potevano recare, a causa delle accese ed eterne rivalità. Un fiorentino là, senza salvacondotto e senza scorta d'armati, se la sarebbe vista brutta. Partirono, dunque, finalmente, ché era oramai l'alba; solo uno mancava all'appello perché l'ansia del viaggio gli aveva messo la febbre addosso, tanto alta che s'era deciso di lasciarlo a casa, ed era troppo tardi ora per rimpiazzarlo. Partirono, dunque, su due piccoli carri scoperti, sperando nel bel tempo di fine maggio, diciannove bambini tra gli otto e gli undici anni, con sei accompagnatori adulti, quattro chierici e due uomini di fatica, quelli che conducevano le bestie. Avevano preparato, e ora li tenevano accuratamente ripiegati, festoni dipinti con i colori del papa, quelli di Firenze e quelli del loro oratorio, con sopra le solite scritte di questi casi: "VIVA IL PAPA", "VIVA LA PACE" eccetera. Il viaggio? Beh, se dovessi descrivervi il viaggio mi servirebbero ben più che le pagine di questo libro. Schiamazzi, inutili minacce, richiami, lazzi d'ogni tipo. Ogni due leghe, a un bambino diverso scappa la pipì, "E basta, che così non si arriva mai", e "Ho mal di pancia" e "Padre, Guido mi dà dei pizzicotti", "Smettetela tutti e due, basta, se no vi punisco", "Ma è lui, io che c'entro?", "Ho fame", "Quando arriviamo?"... Siete mai stati a una gita scolastica, ma dalla parte del povero insegnante che non ricorda più perché ha accettato e che dopo tre minuti di pullman si sta già pentendo amaramente di non essere a casa sua con una febbre a 40? Immaginate un viaggio da Firenze a Siena, lungo una strada sassosa, a bordo di due carri aperti sobbalzanti, con le ruote cerchiate di ferro, che viaggiano l'uno di seguito all'altro, in colonna, ad andatura d'uomo, con diciannove scatenati che mai sono usciti di casa loro e per i quali, nello stesso tempo, ogni cosa è nuova e ogni cosa assomiglia a qualche cosa d'altro, che s'affannano tutti per dirvelo contemporaneamente, come se a voi potesse interessare un fico secco, e che, per farsi sentire, non solo urlano, ma urlano cercando di sovrastare l'urlo del vicino... Insomma: ho reso l'idea? Il viaggio, dunque, chiedevate? Immaginatevelo voi. Fatto sta che arrivarono a notte fonda. Avviliti, tutti, grandi e piccini, mezzi addormentati, sporchi, sudati, disfatti, giunsero alle porte di Siena; e non li fecero entrare, perché la città era accessibile solo a partire dall'alba fatta. Dormirono, dunque, tutt'e 25, stesi come potevano sui carri; che fortuna hanno i cavalli, che possono dormire all'in piedi, senza dover sopportare addosso i corpi altrui, senza dover cercare per tutta la notte un pezzo di pavimento di carro sul quale potersi poggiare per intero. Duro, oh, sì, duro. Ma meglio che sovrastare corpi altrui o esserne sovrastati. O trovarsi in bocca in piena notte un calzino maleodorante con dentro un piede lavato chissà quando. L'alba arrivò e nessuno pensò a lavarsi, a quei tempi non s'usava molto; fecero vedere alla guardia le credenziali, furono un po' sfottuti in quanto fiorentini - ma questo era già stato messo in conto - ed entrarono, finalmente, a Siena. Sia i bambini che gli adulti erano silenziosi e tesissimi. Percorsero le ultime salite e giunsero nella famosa piazza che avevano udito descrivere tante volte. Girarono a destra, secondo le indicazioni ricevute, cercando un convento verso il palazzo dei Signori Buoni, dove avrebbero avuto alloggio presso il cortile e il colonnato dell'oratorio. - Oh, però, badate, pagliericci e null'altro, per terra - avevano già detto. Ma far penitenza e vedere e ascoltare il papa era tutt'uno. Giunsero, alfine, accolti con benevolenza ed entusiasmo, da un frate rotondetto che li stava aspettando dalla sera prima ed era in apprensione. Ricevettero latte e gallette, una per ciascuno, ed un pagliericcio, cioè un fascio di paglia con una piccola coperta. Il frate li condusse tutti in una vasta sala vuota, se non fosse stato per quattro colonne, con ampie aperture su un giardino interno silenzioso nel quale erano coltivati ortaggi. I diciannove bambini e i due uomini si sistemarono là, ciascuno scegliendo il posto suo, con litigi e dispetti che potete immaginarvi se siete stati in colonia da piccoli, o con gli scout. I quattro chierici furono invece portati un po' più in là, in una stanza più piccola, ma arredata con quattro sedie di legno e paglia, una per ciascun ospite: - Mi dispiace, più di così non posso fare; sapete, arrivano migliaia di pellegrini da tutta la Toscana. - Oh, padre, ma che dite? Nessuno di noi s'aspettava un'accoglienza così straordinaria, che dite mai? Vi ringraziamo, nel nome del Signore - e ognuno si faceva e si rifaceva più volte il segno della croce. Dormire? Macché dormire. Metteteceli voi diciannove bambini a letto, mentre già brilla il Sole, eccitati com'erano: - Dormite, dormite per qualche tempo, riposatevi, poi andremo a zonzo fino al mezzodì - s'affannavano a dire i chierici agli esagitati bambini che si tiravano addosso paglia e coperte, ché altro non avevano sottomano (addio letti). I due uomini s'erano già sdraiati e uno dei due ronfava in modo tale da scuotere le colonne e più d'un bambino aveva preso a sfotterlo e c'era pure chi cercava d'infilargli pagliuzze nelle narici o nella bocca aperta. L'altro sonnecchiava, si rigirava, ma di lì a poco sarebbe crollato. Decisero, alla fine, di uscire tutti per vedere la città: impossibile contenere quei diavoli scatenati; e poi, a dire la verità, anche i chierici ne avevano una voglia matta. - Dunque, non disperdetevi. Se vi perdete, vi bastoneremo. In ogni caso, ricordate il vostro alloggio, e per il mezzodì dovrete trovarvi tutti riuniti costì, proprio costì, per le preghiere e il desinare. Più tardi andrete a sentire l'orazione del papa, pensate: del papa. La frase era stata detta all'uscita dell'oratorio; ma prima ancora che il chierico ne terminasse la prima parte, i bambini erano già tutti partiti correndo a perdifiato, in salita, verso la magica piazza e nessuno poteva né fermarli, oramai, né rincorrerli. C'era solo da affidarsi alla pietà celeste. La pietà celeste funzionò, almeno in quel caso. Al mezzodì, o poco dopo, tutti erano al posto giusto, attesi con ansia dai chierici; entrarono nella cappella; pregarono a lungo o, meglio, a lungo parteciparono alle litanie in coro; si recarono nel cortile della cucina (non era permesso né entrare nella vasta sala dove i frati mangiavano, né nella cucina stessa, dove alcuni frati cucinavano per tutti). Seduti per terra o sugli scalini, ricevettero ciascuno una scodella con della zuppa, un bel pezzo di pane che sembrava fresco e l'invito a bere alla fonte, "Uno alla volta, però", che stava dentro la cucina. Neanche a dirlo, avevano una fame che avrebbero divorato un elefante, anche se nessuno ne aveva mai visto uno, ma zuppa e pane erano abbondanti e tutti furono soddisfatti (un po' meno i due uomini di fatica, che chiesero e ottennero, dal frate che scodellava la brodaglia, una doppia razione). Com'era nelle usanze dell'epoca, si svolsero i fatti seguenti, in quest'ordine: ognuno entrava in cucina, beveva alla fonte, lavava la propria scodella e la riponeva su un colatoio che il frate indicava; poi ognuno aveva il tempo di andare in uno sgabuzzino riparato da pareti di legno leggero, all'aperto, a fare i suoi bisogni, che ne sentisse o no l'urgenza, ché poi, fino a sera inoltrata, non ci sarebbe più stata alcuna opportunità. La cosa, è ovvio, richiese molto più tempo del previsto, ma alla fine tutti furono pronti per il grande evento, quello che aveva determinato la gita stessa, l'incontro con il papa. Il Duomo era gremito fino all'inverosimile, tanto che, se non si fosse provveduto a fissare preventivamente gli spazi, riservandoli e assegnandoli ciascuno a una città o paese, sarebbe stato un caos infernale. I fiorentini ebbero fortuna perché gli furono destinate due panche verso il centro, un po' a destra. I quattro chierici si sedettero sulle panche e altri sei bambini ebbero la furbizia di precipitarsi a sedere, lottando un po'; gli altri dovettero accomodarsi per terra (i due uomini di fatica non erano stati invitati e forse erano a zonzo per conto loro). Ci volle un bel po' di tempo per sistemare tutte le molte centinaia di bambini provenienti da ogni dove; ma la maestà del luogo, la presenza di austeri chierici anziani dalla lunga barba bianca e, soprattutto, la presenza di chierici giovani con in mano robuste verghe, la cui funzione non venne detta perché parve subito esplicita a tutti, fecero sì che vi fosse un relativo silenzio. Tutti erano, a un certo punto, in ordine, in silenzio, in attesa. Tutto era pronto. E il papa entrò. Entrò lento e maestoso, riccamente vestito, mentre un coro di bambini (tutti maschi, non solo il coro, tutti, tutti i presenti) cantava le lodi del Signore. Era un'immagine potente, mozzafiato, anche per i più discoli. Una scena che avrebbe impressionato chiunque, anche il più convinto ateo, anche il più antipapista, il guelfo più acceso. Giovanni XXI saliva con maestà i pochi scalini. Altro che vecchio. Aveva un fisico da atleta, possente ed energico, sprizzava salute da tutti i pori (e morì, duetre anni dopo, quando Dante aveva dodici anni, in modo misterioso, sepolto in fretta a Orvieto, non unico papa, antico o recente, la cui morte è ancora discussa). Tutti erano estasiati, in piedi. Non tutti i bambini potevano vedere, specie dal mezzo duomo in poi, perché avevano davanti a sé adulti o festoni tesi. Ma chinandosi un po' a destra, un po' a sinistra, rizzandosi sulla punta dei piedi, riuscivano almeno a intravedere qualche cosa e tanto bastava, nella sua magnificenza, per ammutolire chiunque. Dante era sistemato, ovviamente, in posizione centrale e comoda; s'era conquistato quel privilegio spingendo e calciando i compagni più insistenti, anche più grandi di lui, e dunque aveva una visione nitida e completa. Inoltre era un bambino molto sensibile e dunque suggestionabile più d'ogni altro: era rapito, come in estasi. Aveva di fronte a sé la creatura umana di più alto lignaggio (pensava allora, indottrinato dai chierici), più d'ogni nobile laico, più dell'imperatore stesso, secondo solo allo stesso Gesù Cristo del quale, infatti, era il legittimo discendente, l'unico: il papa cattolico apostolico romano. Il papa giunse all'altare e tutti, a quel punto, lo videro. Si sedette nel suo trono, partecipò alle preghiere che, in parte, diresse, benedisse i presenti e celebrò il mistero dell'eucaristia. Poi, finalmente, tenne la sua lezione, ma non su teologia e ottica, come molti credevano e pensavano, bensì su dialettica e ottica (fu la sua preferenza per la dialettica, rispetto alla teologia, uno dei motivi della sua sorte? Fu il suo accanimento a voler scrivere un XIII libro, in aggiunta ai famosi dodici?). La lezione fu tenuta in latino, ovviamente, per cui i bambini compresero poco o nulla. Ma tutti fecero silenzio, non tanto per le verghe di cui sopra, a onor del vero, ma per la magnificenza dell'occasione, per lo splendore dell'avvenimento, per la consapevolezza di stare partecipando a qualche cosa di unico. Giovanni XXI parlò di dialettica e Dante fu uno dei pochi bambini che, ancora a distanza di anni, ricordavano l'insegnamento: "Dialectica est ars artium et scientia scientiarum ad omnium methodorum principia viam habens", che poi dovette ritrovare all'inizio delle Summulae Logicales, studiate a Bologna e Firenze. E, capendo il giusto, quel che può capire un bambino sotto i dieci anni di sillogismi e cose simili, s'accorse di apprezzare quegli stimoli e quel tipo di studi. Giovanni XXI parlò poi di ottica, e qui Dante seguì meno ancora (ma chissà allora che cosa capirono gli altri, non solo i bambini, dico), ma ritenne a memoria almeno alcuni brani, quelli che poteva intuire; infatti da adulto, quando ebbe bisogno di far emanare luce dal volto di un angelo che si trovava con il Sole alle spalle, si servì nel suo Purgatorio proprio di versi la cui origine è nelle lezioni di ottica di Piero Ispano, pardon, di papa Giovanni XXI: Come quando da l'acqua o da lo specchio salta lo raggio a l'opposita parte, salendo su per lo modo parecchio a quel che scende, e tanto si diparte dal cader della pietra in igual tratta, si come mostra esperienza ed arte; Tutti erano a dir poco affascinati, più dall'uomo e dal suo vigore che non dai discorsi, che ciascuno capiva in misura diversa, dal nulla più totale di bambini e chierici ignoranti a una minima parte dei chierici più dotti. Poi l'incanto, come sempre accade, finì. Il papa benedisse una volta di più, il coro cantò ancora la gloria del Signore, e l'altare rimase vuoto: Giovanni XXI, con ugual magnificenza, ma con più velocità, se ne andò nella canonica. Prima che facesse buio fuori, e dunque per rendere più agevoli i rientri nei vari oratori che li ospitavano, i bambini vennero fatti uscire in modo ordinato. I quattro chierici condussero fuori i loro diciannove giovani fiorentini, s'inchinarono più volte, fecero almeno mille volte il segno della croce in modo ostentato e tremarono all'idea di dover riportare i bambini... all'ovile (pensando alla paglia sparsa nel pavimento non è solo un modo di dire!). Non fu difficile, invece: erano tutti così stanchi, ma così stanchi, che nessuno s'azzardò a correre, a fuggire davanti o a scappare di lato. Camminarono, ciascuno pensando ai fatti suoi, chi alla fame, chi ai bisogni corporali, chi, come Dante, ancora realmente sinceramente scosso fin dentro l'animo. La cena fu preceduta dai soliti lunghissimi salmi e fu dato solo un pezzo di pane e formaggio, ancora una volta sufficiente, però. Le solite cose e poi un sonno profondo, quasi immediato, che fuori era già buio: nessuno aveva ancora pensato all'ora legale. I due uomini di fatica giunsero troppo tardi; non sapevano infatti che, al farsi buio, l'oratorio avrebbe sprangato l'entrata, e dovettero dunque dormire all'aperto, seduti a terra, con la schiena appoggiata al portone. Il giorno dopo, dette le preghiere e bevuto un po' di latte - poco in verità, perché il pastore che di solito passava appena dopo l'alba non s'era visto quella mattina - partirono. Il vigore dell'andata s'era perduto e tutti erano mogi mogi; qualcuno vomitò, sporgendo la testa fuori dal carro. Dante s'era come chiuso in sé a riflettere, ma neppure lui sapeva su che cosa. Quello, intuiva in modo confuso e inconsapevole, era un modello, un uomo che sapeva pensare. Pensare, ecco il cruccio dei bambini quando si rendono conto che questo è quel che distingue un uomo da un altro: saper pensare. E iniziano a porsi la domanda più sciocca al riguardo: "Come si fa a pensare?", domanda che sanno di non poter fare a un adulto, che tanto riceverebbero in risposta solo una frase di scherno. Forse uno ci nasce, con questa capacità, e allora non c'è nulla da fare: "Da grande vedrò, se so pensare". Forse uno lo apprende e allora bisogna vedere da che cosa dipende il rendersene padrone. Letture, attenzione, postura? Postura... Nella piazza a lui dedicata, nel centro storico della sua Sulmona, Publio Ovidio Naso è ritratto nella postura tipica di chi pensa (andatelo a vedere). Da bambino mi ci recavo di nascosto perché la casa della zia della quale ero brevemente ospite era lontana e non mi era permesso allontanarmene tanto. Mi ponevo di fronte alla statua, spalle al muro per evitare i pochi carri e le ancor meno auto che allora passavano per di là, imitavo specularmente la postura di Ovidio e mi auguravo che, assumendo quella posizione, avrei imparato a pensare. Non so se l'ho imparato e, in caso positivo, mai saprò se è solo un fatto di postura. So solo che ci perdevo ore intere e che una volta, dopo l'imbrunire, fu organizzata un'intera pattuglia di amici e parenti della zia per cercarmi in città; fui ritrovato lì fermo da ore da una giovane lontana parente, riportato a casa e solennemente rimproverato e punito. Avevo imparato a pensare, almeno? Ne era valsa la pena? Oh, per carità, non per fare paragoni, ma solo per casuale somiglianza di pensieri, Dante, seduto nel carro che lo riportava a Firenze, pensava, o meglio: si chiedeva come un essere umano potesse giungere a pensare. Non aveva la statua di Ovidio davanti a sé, ma un modello umano: lo aveva visto in azione, splendido, lucente, come lo ebbe a definire poi nel Paradiso. Pensava e pensava; e quando venne notte, Firenze era ancora lontana perché i cavalli non ne potevano più e s'erano dovuti riposare per ore, tutti dormivano sonoramente e profondamente. Lui no: pensava a come pensare, a come si costruisce il pensiero e decise e giurò a sé stesso che quello sarebbe stato il suo domani; decise di consacrarsi allo studio, alla vita d'eccellenza, all'arte e alla scienza. 4 L'infinito Era il giorno della "disputa aperta" e la Firenze dei giovani aspiranti filosofi era tutta in fermento. Avveniva, di tanto in tanto, ma mai più di due volte l'anno, che tutti i giovani che frequentavano le scuole di filosofia, i loro maestri e alcuni grandi personaggi celebri che accettavano di partecipare, si ritrovassero una sera al crepuscolo, presso la cappella della sede della scuola più antica di Firenze, a discutere liberamente di argomenti di filosofia. A turno, per ordine di prenotazione e non gerarchico, chiunque poteva lanciare una sfida filosofica, asserendo una proposizione, una qualsiasi, per poi difenderla dagli attacchi dei presenti. Tutti gli interventi dovevano essere brevi; questa clausola era stata aggiunta di recente, perché taluni personaggi di secondo piano approfittavano di questa occasione per pronunciare veri e propri sermoni, per tentare vere e proprie lezioni. Certo, sul significato dell'aggettivo "breve" c'erano sempre discussioni, ogni volta. Però, almeno, l'idea c'era e ci si poteva appellare a quella. Era dunque già il pomeriggio avanzato del giorno della disputa e i giovani scolari di filosofia bighellonavano attorno al Battistero sotto una vecchia torre senza nome (che, di lì a pochi anni, sarebbe stata abbattuta per far posto ad una nuova, disegnata da Giotto), ipotizzando interventi, temi, personaggi. Si sapeva che il grande teologo Tiziano da Poggibonsi aveva accettato, che forse il maestro Igino da San Gimignano avrebbe fatto in tempo ad arrivare, si diceva di due tre cardinali; e, certo, sarebbero intervenuti tutti i maestri, i più amati dagli studenti, ma anche i più disprezzati dai filosofi ecclesiastici. Molti studenti sbruffoni vantavano possibili interventi che poi, di fatto, non avrebbero proposto; e lì, in quell'occasione, tentavano la ventura di fare sparate grosse, tra i propri pari, per il gusto di vedere che cosa i loro compagni avrebbero controproposto. Si accendevano liti furiose, in alcuni capannelli, mentre in altri si sentivano sonore risate. Tutto ciò era sempre interrotto di comune muto accordo ogni volta che passava per di là una giovane abbastanza avvenente, da sola, con un'amica o con una domestica, per far posto a commenti ad alta voce, a proposte di nottate carnali, a fischi e lazzi d'ogni tipo. E questo succedeva con una certa frequenza, e proprio allo scopo di scatenare quelle reazioni, sorriderne, pavoneggiarsene, perché quella piazza era meta di finto passaggio di molte giovani donne che sapevano perfettamente essere quello il ritrovo degli studenti più interessanti della città; passavano di là, dunque, a bella posta, e fingevano di arrossire a parole un po' spinte, per poi allontanarsi e cercare ogni motivo per dover casualmente o forzatamente ripassare di lì a poco, in senso inverso (più di questo doppio passaggio era indecoroso giacché sarebbe parso evidente che lo si faceva apposta). Era dunque la fine del pomeriggio del giorno della "disputa" e l'ora si avvicinava rapidamente. I giovani cominciarono ad avviarsi verso la cappella della scuola che sorgeva verso gli Albizi, dopo il Proconsolo. Al crepuscolo, vennero accese tutte le fiaccole e le candele e si fece luce per tutta la cappella. Luce, oddio. Bisogna pensare che a quei tempi ci si accontentava di scorgere o distinguere le persone vicine: non si sarebbe potuto vedere un quadro alla parete né leggere un libro. Era, secondo i nostri criteri, non più di un'oscura penombra che veniva considerata luce solo rispetto al buio esterno: lungo le strade, e non tutte, v'erano fiaccole che venivano accese un'ora dopo il tramonto e spente un'ora prima dell'alba. Tra una fiaccola e l'altra, c'erano ampi tratti di strada totalmente al buio. Per non dire delle tante strade addirittura senza fiaccole. Vigeva sempre il coprifuoco per evitare assassini, violenze d'ogni tipo, rapine e furti. Nessuna donna perbene usciva da sola la sera o la notte, per nessun motivo al mondo. La cappella era dunque, secondo i criteri dell'epoca, illuminata. E gremitissima; i più fortunati o i primi arrivati avevano trovato posto a sedere sulle panche al centro, rivolte verso l'altare. Ma poi i nuovi venuti avevano dovuto stringersi in piedi, addossati ai muri laterali, arrampicati sulle scale del pulpito, stretti stretti attorno all'organo e, insomma, ognuno dove aveva potuto. Davanti all'altare c'era una predella di legno ricoperta d'uno spesso panno purpureo, quella sulla quale l'oratore di turno avrebbe prima lanciato e poi difeso la propria proposizione, dando le spalle all'altare. La prima fila di panche, quella più vicina alla predella, era stata riservata ai maestri fiorentini (anche se non sempre erano proprio di Firenze) e agli ospiti stranieri. Alcuni maestri c'erano già, altri giunsero in poco tempo, fendendo la folla degli studenti a lato. Alcuni posti della prima fila rimasero infine vuoti. Dopo una brevissima cerimonia religiosa che culminò con una benedizione generale ai presenti, il decano della scuola dei filosofi più vecchia della città prese la parola, ricordò il nome degli illustri stranieri presenti (tutti nomi che al giorno d'oggi non dicono assolutamente più nulla ma che allora una certa notorietà ce l'avevano), riepilogò le regole della "disputa" e si sedette in prima fila, al centro. Cominciò, com'era non obbligo, ma oramai consuetudine, il giovane più brillante tra coloro che stavano per terminare il ciclo di studi presso la scuola ospitante, Salvo da Fiesole; era appunto stabilito che questi, destinato, nel giro di pochi mesi, a diventare ivi maestro, presentasse come primo oggetto di disputa alcuni punti della propria tesi. Il tema riguardava le relazioni tra universali e particolari, come funzionavano le negazioni degli universali eccetera, più o meno le solite cose, quelle tramandate da Roscellino di Compiègne. La cosa suscitò diversi interventi, la cui violenza però apparve ai più come un evidente desiderio di mettersi in mostra che non una reale ostilità alle tesi di Salvo. Continuarono in molti altri, studenti e maestri, con proposte di vario tipo, moltissime a carattere teologico, altre a carattere morale, ma anche non poche su questioni di dialettica. Quando la folla si fu un po' calmata, si levò una mano dal fondo e il giovane maestro che stava in quel momento fungendo da chairman (come si direbbe oggi, ma forse qui dovrei dire "moderatore") invitò il possessore di quella mano ad avvicinarsi alla predella ed esporre la propria idea. Sebbene provenisse dal fondo, colui che fendeva la folla verso la predella non era evidentemente uno studente, ma un signore di mezza età. Vestiva elegantemente, aveva un corto pizzetto, indossava guanti; si inchinò, come tutti facevano prima di parlare, di fronte all'ostensorio al centro dell'altare, fece un lento e largo segno della croce, s'inchinò al decano, salì la predella e, in un silenzio inverosimile se si pensa alla massa di studenti e alla loro età, così parlò: - Io propongo alla discussione un tema che mi tormenta da anni e che fu oggetto di discussione già in passato da parte dei grandi, ossia se Dio possieda o no in sé coscienza dell'infinità dei numeri... Non aveva neppur finito la parola numeri, che il decano s'era alzato con il braccio teso e la mano raccolta a pugno urlando qualcosa come "Bestemmiatore, come osi?" ma che non si era capito bene perché da tutte le parti molti erano coloro che urlavano a perdifiato, chi gesticolando, chi quasi saltando. Due sole persone erano calme in quel putiferio: il moderatore e l'oratore. Il primo, con una freddezza e una padronanza della situazione che avevano dell'inverosimile, invitava tutti, perfino il decano infuriato, a fare silenzio e a sedersi. Il secondo era impassibile, fermo, aspettando di poter continuare, come sapeva perfettamente essere suo diritto. - Silenzio, calma, smettetela - diceva il moderatore; poi, quando seppe che la sua voce si sarebbe finalmente sentita, continuò: - Voi tutti sapete bene quali siano le regole di questa disputa. Chiunque può intervenire e può dire qualsiasi cosa, proponendola alla discussione. (Ancora urla dal fondo e ancora il decano in piedi, con l'atto di andarsene, dicendo qualche cosa come "Sì, ma questo è troppo" o cose del genere). - Dunque questo signore ha tutto il diritto di terminare la sua proposta di discussione. È norma imprescindibile della disputa lasciarlo parlare - e poi, rivolto all'oratore: - Prego, proseguite pure. Senza per nulla scomporsi e per nulla turbato, l'oratore riprese, ma partendo questa volta più da lontano: - Mi chiamo Manlio, sono nato a Tivoli ma vivo vicino ad Arezzo da oramai quarant'anni e mi considero toscano. Ho frequentato la scuola di Simplicio d'Arezzo - e si accese un coro di "Oh" di meraviglia: era una delle scuole più famose del momento, nemica acerrima di tutte le fiorentine - e ho avuto la fortuna di studiare a Bologna, con Annibale di Mantova che fu allievo diretto di Boezio di Dacia - un altro "Oh", molto, molto più forte - e a Parigi, con Ennio di Pavia, che fu a sua volta allievo d'un allievo del grande Tommaso d'Aquino - il nuovo "Oh" scosse le fondamenta della cappella; il decano era a disagio e si aggiustava ogni abito addosso. - Vi prego quindi di ascoltarmi con pazienza, perché la mia pena è grande: come posso permettermi, mi chiedo, di dissentire da ciascuno di questi grandi maestri, su un argomento di sì rilevante pregnanza? Dunque, tutti noi sappiamo che i numeri sono infiniti - vi furono moltissimi commenti ad alta voce, ma quasi tutti incomprensibili. - Lasciatemi dire la cosa in un modo che anche i fanciulli capiscono: se si comincia a contare uno due tre quattro ci si ferma quando si è stanchi, ma sempre, in qualsiasi istante, chiunque potrebbe procedere oltre e dire un numero in più - altri interventi, sparsi, ad alta voce. - Qualcuno potrebbe dire che ciò non basta per profferire la parola terribile "infinito", che tanto terrore incuteva ai Greci, eppure provatevi a ragionare. Io principio a contare oggi e proseguo senza sosta domani e così via per tutta la mia vita, giungendo a un milione, o forse più. A mio figlio Francesco (ho voluto dargli questo nome per ricordare il fondatore dell'ordine che ci ospita) lascio in eredità il compito di proseguire e, alla mia morte, egli riprende da un milione e uno e prosegue un milione e due un milione e tre e continua, continua, continua; essendo tanto giovane, potrà contare più di me. A sua volta, Francesco lascia al suo figliolo la stessa eredità e, per amore del padre e del padre del padre, anch'egli continuerà; e questa diventerà una tradizione di famiglia e ciascuno dei miei discendenti, nei secoli dei secoli, proseguirà. Adesso sì, c'era silenzio. Tutti i giovani studenti erano impietriti, fissando Manlio negli occhi, per quel che l'oscurità permetteva. Giunto un po' tardi, dunque in piedi, accalcato accanto all'unica uscita laterale, stava Dante; anch'egli impietrito, non perdeva una parola e s'era già dimenticato della scomoda posizione. - Ci sarà una fine? Per noi credenti nel vero Dio, sì, una fine ci sarà. Quando? Il giorno del giudizio. Tutti i viventi e i morti risorti verranno giudicati e sarà la fine di questa caduca vita terrena, per passare nella perfezione dell'aldilà. Ma, attenti bene, sarà la resurrezione della carne, ricominceremo tutti a vivere in una situazione ideale e perfetta, sulla natura della quale, tuttavia, ancora non c'è totale accordo - molti dei dotti seduti in prima fila si agitarono, altri annuirono, nessuno sorrise. - Dunque, io stesso a quel punto, divenuto eterno, a cospetto di Dio che, spero, avrà avuto la bontà di assolvere i miei peccati e accettarmi seco, potrei ricominciare a contare laddove il mio ultimo discendente aveva terminato, e proseguire proseguire proseguire, senza più arresto. Davvero qualcuno di voi può controbattere alla mia affermazione che i numeri sono infiniti? - risatine, sorrisi, conferme, coppie di studenti che confabulano rapidamente tra loro. - L'uomo dunque concepisce l'infinito? - nuove urla da ogni dove, incomprensibili, e il decano ancora in piedi, che protesta e che nuovamente fa l'atto di andarsene, ma che poi si risiede. - Dicevo: può l'uomo concepire l'infinito, dunque? No, direte voi, perché l'infinito risiede nella mente di Dio e solo Lui può possederlo. Eppure voi, pochi minuti fa, avete avuto per un momento l'illusione di... afferrarlo, questo infinito. No? - e molti, moltissimi, annuirono; anche Dante, conquistato, annuì. - Ebbene, il grande Peripatetico ci suggerisce una via per capire bene la questione, via che Tommaso analizzò e meditò a fondo. Quel che abbiamo accettato prima era un infinito in potenza: qualsiasi numero io pensi, se ne può dare uno maggiore. Ma quel che sconforta è l'infinito in atto, dato in un colpo solo. Questo l'uomo con la sua limitatezza mortale - urlò a gran voce e un'eco si diffuse per tutta la cappella - non lo può dominare. (Finalmente il decano assentì, un po' più rilassato). Il moderatore lo interruppe: - Manlio, vi prego di concludere, le norme mi costringono a ricordarvi la regola della brevità. Urla a squarciagola si levarono contro di lui; questo Manlio stava affascinando tutti i giovani e le sue argomentazioni erano profonde e nuove per i più. - Mi dispiace, ma le norme devono essere rispettate - ribatté il moderatore. Levando le mani per zittire e calmare i suoi... oggi si direbbe fans, Manlio riprese: - Silenzio, vi prego, vi prego, il moderatore ha ragione, mi sto dilungando troppo. Arriverò al punto e cederò la parola. Dunque, l'uomo arriva a possedere l'infinità potenziale dei numeri, ma non concepisce quella attuale. Se anche solo ci si prova, questa... gli scappa da tutte le parti - e fece il gesto di arginare una falla, scatenando risate e ampi consensi tra il pubblico. - Ma Dio no, dice Tommaso, e lo diceva prima anche Agostino, Dio concepisce in un tutto unico l'infinità attuale. Ma se questa infinità fosse davvero riunibile in un unico tutto, che noi umani non sappiamo immaginare, sarebbe circoscrittibile, sarebbe cioè finita, o no? - dissensi a voce alta, ma incomprensibili; assensi, pure a voce alta, e ancora incomprensibili. - E come potrebbe un'infinità attuale essere finita per Dio e infinita per l'uomo? È nella sua natura poter permettere di sé stessa questa duplice lettura? Può dunque davvero Dio, infinito sì nel tempo e nella gloria e nella potenza sua, possedere l'infinità attuale dei numeri, o l'ammettere ciò provoca un'insanabile contraddizione logica? Il tono della voce rivelava che Manlio aveva finito. La reazione alle sue parole era delle più disparate: chi applaudiva, molti in verità, chi agitava pugni all'aria o verso l'oratore stesso, chi alzava la mano per intervenire, chi semplicemente parlava con il proprio vicino dicendogli chissà cosa di bene, a favore di Manlio, o di male. Dante era come impietrito. Quel genere di domande lui se le era già fatte, aveva provato a pensare di contare i numeri fino all'ultimo, quando era bambino, come fanno prima o poi tutti i bambini intelligenti e critici, per accorgersi però ben presto dell'inutilità di questa impresa. Le parole di Manlio l'avevano conquistato, ma non sapeva come interpretarle, che cosa pensare di tutto ciò. Come gli sarebbe piaciuto parlare a quattr'occhi con quell'uomo! Gli interventi furono pura retorica, inutili; ognuno disse cose, nessuno disse nulla. Nessuno, neppure il decano, neppure i maestri che, più o meno tutti, intervennero, dissero nulla; ognuno andava, come si usa dire oggi, per la tangente, senza entrare nel merito. Si fece tardi, ci furono altre proposte, ognuno se ne andò. Manlio, additato da tutti mentre passava, garbatamente salutò i maestri, inchinandosi a tutti, uscì e s'incamminò nel buio della strada in leggera discesa che portava all'Arno passando pe' Peruzzi. Fatti pochi passi, s'accorse che una figura lo stava come aspettando o, almeno, così gli parve. Ebbe un po' di timore, ma era oramai impossibile cambiare strada e proseguì. Era Dante, evidentemente. I due si guardarono in volto, Dante gli fece le scuse per quel modo così poco elegante e inurbano di apostrofarlo per strada di notte, ma Manlio, sia per il sollievo dello scampato pericolo, sia perché era persona schietta e simpatica di natura, accettò di continuare la serata, invece che rientrare nella locanda presso la quale aveva riservato una camera per la notte, prima di ritornarsene in Valdarno. Fu così che il contenuto di due brocche di Chianti di Castellina, dunque di quello buono per davvero, trovarono degna dimora nel giro di poche ore; e che una taverna assai vicina all'Arno fu teatro di un'appassionata discussione sull'infinito che, però, paradosso nel paradosso, finì (all'alba). Le cronache dell'epoca, così meticolose nel riportare nomi e dettar fatti, non rivelano il contenuto di quella discussione; ma certo Manlio non convinse Dante che, nel Convivio, pochi anni dopo, scrisse infatti che sull'infinità dei numeri, l'occhio dell'intelletto non può fermarsi "però che 'l numero quant'è in sé considerato, è infinito, e questo non potremo noi intendere". O forse Dante fu convinto, ma i dettami dello Stagirita erano troppo forti in quel periodo per rischiare altre denunce, altre calunnie, altri attacchi da parte della Chiesa, dei ghibellini e dei potenti. Le cronache ci dicono, però, cose facete: che questo Manlio tornò poco dopo l'alba alla sua locanda sull'altra sponda d'Arno, vicino a' Frescobaldi, dove lo avevano aspettato tutta notte; recuperò le sue cose, disputò con l'albergatore sulla tariffa da pagare per una stanza riservata sì ma non usata, e poi se ne andò, su una diligenza che faceva la tratta Firenze-Arezzo quasi tutti i giorni, scendendo in una località imprecisata, più vicina ad Arezzo che non a Firenze. Ci dicono anche che dell'intervento di Manlio molto si parlò tra i giovani nella scuola di filosofia di tutta Firenze, tanto che i maestri dovettero intervenire per dire che non è lecito all'uomo neppur parlare dell'infinito attuale, pena la scomunica per superbia per aver voluto assimilare l'intelletto proprio a quello di Dio. Georg Cantor nacque nel 1845 e morì nel 1918; lottò e lavorò tutta la vita per regalarci l'infinito attuale e fu solo quando, verso la fine, era mentalmente infermo ad Halle, che i matematici se ne accorsero per davvero. Corsero a rendergli omaggio, ma era troppo tardi. Dante morì invece troppo presto per immaginare tutto ciò, nel 1321. Altrimenti, nel Convivio, avrebbe probabilmente scritto cose diverse. 5 Angoli e triangoli - Vorrei essere a Faenza prima di notte. - Te lo dico ancora una volta: se fossimo partiti all'alba saremmo già potuti essere a Bologna. - Va beh, non me lo ripetere ogni istante. Lo so. Ma come potevo fare, suvvia? - Eh dài, ogni volta ce ne hai una... - Oh, senti un po' chi parla, Dante il monogamo. Stettero zitti per un po', erano in mezzo alla foresta e Faenza era ancora lontana; cominciava a far buio e quelle strade, percorse da soli, non erano di gran bell'auspicio. - Ci potremmo fermare dalle parti di Marradi, dài, lì una locanda ci sarà pure. - Arrivarci! E poi, lo sai? Coi pochi quattrini che abbiamo in tasca, ogni notte passata in locanda è una in meno a Bologna. - Te l'ho detto che conosco gente a Bologna, amici miei, veri. Ci ospiteranno per un po', mica sono grulli. - Guido, te li ricordi gli amici tuoi a Pistoia? A momenti ci linciavano. Anche lì ospitalità, ospitalità, e poi? - Oh, ma lì fosti tu, o non te la ricordi la brunetta? Ma proprio con l'amante del Bigiavi dovevi farti sotto? - Che c'entra? Che ne sapevo io? E poi, eravamo ospiti o no? - Ma senti come ragiona questo - disse Guido, levando la mano destra dalle briglie e battendosi il palmo sulla fronte. Questo gesto gli fece cadere il largo cappello e dovette fermare il cavallo bruno, magro assai e alquanto malridotto, tornare indietro e scendere per recuperarlo; ne approfittò per stiracchiarsi un po' il collo e le gambe e massaggiarsi il fondo schiena. Dante, nel frattempo, aveva percorso altri 30-40 passi e s'accorse solo allora dell'arresto dell'amico. Si fermò a sua volta, voltò il cavallo e urlò: - O che tu fai? Ma allora non vuoi proprio arrivare. L'è buio, un lo vedi? - Senti, io sono tutto rotto. Erano anni che non cavalcavo. Troviamo un buco qualsiasi e fermiamoci. - Per forza, a quest'ora; dài, vediamo se c'è una locanda o una posta, non dovrebbe mancare troppo. Risalire in groppa non fu banale, per Guido, e molti suoi tentativi furono fallimentari; Dante rideva a crepapelle e diceva: - O Guido, come poeta sarai un dio, ma montare a cavallo, proprio non ce la fai. Meno male che sai montare altre puledre - e rideva; e anche Guido, per quanto seccato dagli inutili tentativi, rideva. Alla fine riuscì e cercarono di spingere quelle due povere malnutrite bestie, troppo vecchie per quel lungo tragitto, al galoppo. Effettivamente, dopo due, tre miglia, la foresta si aprì e in fondo alla stretta radura si vide una posta, a malapena illuminata, proprio mentre il Sole lasciava alla notte il compito di dirigere i lavori sulla Terra. Al rumore degli zoccoli, il proprietario uscì, uno straccio tra le mani, grassoccio, basso, barba malfatta, baffi e una bella pelata che rivelava un cranio tondo tondo e lucido, sul quale si rifletteva la luce di una fiaccola. - Di dove venite? - chiese loro, mentre scendevano da cavallo. - Oh dio, da Firenze. Siamo stanchissimi. Comparve d'improvviso un burdel con i vestiti stracciati e i piedi nudi, più sporco lui di merda di cavallo che non il letamaio che si vedeva a pochi passi; prese le briglie dei due cavalli e, senza nulla dire, portò con sé le due bestie verso una stalla. - Dagli una strigliata - disse Guido. - E un po' di fieno, ma poco, che non s'illudano - disse invece Dante. Un'ora dopo, la pancia piena di fagioli, cotiche e lenticchie, Dante e Guido stavano ancora bevendo vino e sbocconcellando crescioni e piadine, ripulendo in ogni angolo remoto il piatto dai suoi avanzi di grassi, unti e sughi. Avevano parlato e chiacchierato a voce alta tutto il tempo e non s'erano accorti che un avventore, dall'aria, come dire, pensierosa e seria, li aveva osservati con attenzione. S'avvicinò e li apostrofò: - Scusate, messeri. Scusate se mi permetto, ma - e lo disse sottovoce - in mezzo a tutti questi bifolchi... Dante e Guido dapprima lo guardarono, poi si voltarono per constatare che, davvero, tutt'attorno erano circondati da gente piuttosto trasandata, non viaggiatori ma contadini o altro venuti dai dintorni a passare qui la sera, in attesa di rientrarsene a casa per la notte. - Voi, per quanto usiate un parlare popolare e modi goliardici, siete due persone colte e perbene, si vede subito. Se mi permettete, sono Eraldo da Todi e sono in viaggio di studio verso Bologna. La notte mi ha sorpreso e mi sono dovuto fermare. Fu Dante a parlare: - Ma vi preghiamo, messer Eraldo, sedetevi con noi e versatevi da bere se non ce l'avete ancora - e fece due gesti con la stessa mano, il primo per indicare all'ospite uno sgabello vuoto e l'altro per indicare una brocca che era stata appena riempita di vino. Continuò: - Io sono Dante degli Alaghieri, figlio di Alaghiero, da Firenze, e questi che s'accompagna a me è Guido Cavalcanti, figlio di Cavalcante Cavalcanti, di Firenze pure. Compartiamo la stessa sorte, messer Eraldo: anche noi sorpresi dalla notte, in cammino verso Bologna per motivi di studio. Eraldo aveva un'età nettamente più avanzata dei due, pareva rasato di fresco e pulito. Indossava un mantello ampio, nonostante il caldo della taverna della posta; Dante lo notò, ma pensò che, effettivamente, in luoghi come quello è sempre meglio indossare tutto quel che si possiede e non abbandonarlo in nessun momento, neppure in camera propria. - Ah, motivi di studio? E quali, se posso permettermi l'ardire? Siete goliardi dell'Alma Mater? - In verità no, anche se ne abbiamo lo spirito - disse questa volta Guido, e rise. - In verità no - confermò Dante - è che vogliamo impratichirci in dialettica e lì ci pare che le cose si facciano sul serio, ora che il papa ha dato la scomunica. A Bologna se ne fregano, a Bologna la dialettica si fa igualmente. - Ah sì, sapevo di tutto ciò - disse compunto Eraldo. - Ma non avete paura anche voi della scomunica? - Sentite, Eraldo; io ci ho mille e più motivi di scomunica; se dovessi preoccuparmi di tutti... - disse tra le risa Guido. E tutti e tre risero. - E voi, Eraldo, quali studi affrontate a Bologna? - Oh, io vado pella geometria. Sono io stesso geometra e debbo vedere certe cose; ora lì ci sono maestri fissi che vengono dalla Alemannia e dalla Francia; ma ci sono pure certi bolognesi che mi dicono dotti. - Ah, la geometria - disse come in estasi Dante. - È una delle mie scienze preferite. - Oddio, adesso questo ricomincia, per carità - protestò Guido. - Sentite un po', e se ce ne andassimo a letto? - e fece il gesto di alzarsi. - Senti, vacci tu a letto, che a te le scienze t'interessano poco o punto. Lasciaci discorrere un po' di geometria, dacché ho avuto la fortuna d'incontrare qui un esperto. Ho proprio cose mie da chiedergli - e si voltò verso Eraldo. - Sempre che la signoria vostra permetta. - Certo, certo; ho un poco sonno, ma qualche momento possiamo ancora discorrere - confermò Eraldo. Guido nel frattempo s'era già alzato, si era rimesso in testa il cappello, raccogliendolo dal tavolo, e li salutò con una certa ironia: - Vi lascio ordunque alla vostra amata geometria, signori - e se ne andò, con un inchino di scherno, alla ricerca di una camera e di un letto. Rimasti soli, Dante ed Eraldo cominciarono a discorrere di tutto, della retta, dei punti, di triangoli e di cerchi, fino a che Dante non rivelò il suo cruccio. - Sentite un po', Eraldo. Sto menando il can per l'aia ma, in verità, ho due problemi seri ai quali so dare risposta, perché li ho studiati in Boezio, ma non me ne so rendere ragione. - Ditemi e v'aiuterò, se posso, se so, ditemi a cuore aperto. - Ebbene, ho due problemi, vi dicevo, più legati alla poesia mia che non alla geometria. Vi spiego il primo, volete? - Ripeto, se so e posso, sono a vostra disposizione di buon animo. La fortuna volle che la tavola, sulla quale poggiavano ancora i piatti nei quali Guido e Dante avevano mangiato, fosse così sporca, ma così sporca, che Dante potesse tracciare con un dito le figure che voleva. - Ecco, vedete, io traccio una retta - e tracciò, in verità, un segmento: - Ora, immaginatevi che questa sia un diametro di un circolo, così: - Ora io prendo un punto sulla mezza circonferenza di sopra e disegno un triangolo che ci ha quel diametro come lato, per esempio così: - Lo vedete? - Certo - disse subito Eraldo. E aggiunse, in un lampo: - È un triangolo rettangolo. - Ecco - esclamò a voce alta Dante, tanto che molti avventori si voltarono a mirarlo. - È proprio questo che non so spiegarmi. Qualunque punto io prenda, l'è sempre un triangolo rettangolo? Oh dio bono, e com'è possibile? - Messer Dante, non è troppo difficile. Vedete che l'angolo comprende i due estremi del segmento, no? - Certo, in ogni caso è come se li abbracciasse. - Se fate lo sforzo di immaginarvi il diametro come un angolo che ha il vertice nel centro del circolo, che angolo vi trovate dinanzi? - Oh perbacco, ma è ovviamente un angolo piatto, come lo chiama Gherardo. - Ebbene, qualsiasi angolo che ha il vertice sul circolo è sempre la metà di quello, visto che l'abbraccia sempre. Quindi è retto. Né potrebbe essere d'altra maniera. - Ma io come lo so che è la metà? - Non avete letto Boezio, mi avete detto? E Boezio ricopia Euclide che dice questo nella teoria delli circoli: "L'angolo rettilineo sulla circonferenza (periphereia, dice il sommo Euclide) è sempre la metà dell'angolo al centro che abbraccia la stessa corda", non ricordate? - Oh, sì, me lo ricordo bene, ma non l'avevo messo in relazione; ah sì, è vero, è proprio vero, ora lo capisco, deve essere così, è necessariamente così, non può essere altrimenti. E, mentre parlava a Eraldo, in realtà il suo pensiero era rivolto ad Adamo, Cristo e Salomone e il suo cervello già stava scrivendo: o se del mezzo cerchio far si puote trïangol sì ch'un retto non avesse. Era talmente concentrato che solo dopo chissà quanti scrolloni si accorse che Eraldo lo stava quasi malmenando, scuotendolo: - Dante, che vi prende? Che succede? Avete il mal sottile? - No, no, scusate, Eraldo, mi ero messo a riflettere. Grazie, non so come darvi la grazia, davvero. - Oh, non è nulla, ma mi avete spaventato... Che stavate sognando? - Se vi dicessi che stavo pensando alla sapienza di Adamo, mi prendereste per matto, e non lo sono; né potrei però ora spiegarvi tutto. Eraldo lo fissò e, davvero, pensò che quel curioso avventore della notte fosse almeno un po' matto; fece l'atto di alzarsi, dicendo: - Beh, messer Dante, allora io vado a dormire, dunque. - Oh no, per favore - Dante lo trattenne per un braccio - per favore non ancora. Ho ancora un altro problema di geometria nella quale, vedo, siete maestro insigne. Per favore, solo un altro istante. La preghiera veniva davvero dal cuore, si rese conto Eraldo; si sedette di nuovo e disse: - Bene, allora, Dante, ditemi che cos'altro vi assilla. - Ecco, è un'altra cosa sui triangoli; io so che se prendo tutti gli angoli di un triangolo, questi danno come somma due retti; ma se ne prendo due soli, che posso dire di essi? Possono essere insieme due retti? O due ottusi, o che? Ho un po' di confusione in mente, e una chiarificazione come quella di dianzi mi farebbe comodo assai. - Oh, beh - fece Eraldo - questa è ancora più facile. E disegnò sulla tavola, con il dito, lasciando un segno tra grassi, ceneri e polvere: - Vedete, disegno un triangolo che ha alla base due angoli ottusi: - Oh, fece Dante, e che triangolo è mai codesto? - a metà tra l'ironico e lo stupito. - Appunto, Dante: se questa è la base - e indicò il segmento orizzontale - e questi sono due angoli ottusi - e indicò con due freccine gli angoli: - Come vedete i lati se ne vanno ognuno per suo conto e il triangolo non si chiude. - Per dio! - esclamò Dante. - L'è vero, è semplicissimo. E io cercavo nel divino Euclide... - Effettivamente, nel I libro degli Elementi, a ben guardare, c'è una proposizione che dice che giammai la somma di due angoli interni di un triangolo può essere uguale o maggiore a due retti, giammai - levando l'indice della mano destra al cielo. - Dev'essere la XVI o la XVII, ora non ricordo bene. - Oh, Eraldo, come potrò mai ringraziarvi di questa illuminazione? - Domani, cammin facendo, se avrete la bontà di accompagnarvi entrambi con me per non lasciarmi solo nel periglioso cammino tra qui e Faenza, mi offrirete da bere. Si salutarono con enfasi e Dante si fermò ancora un po'. Aveva smesso di pensare alla sapienza di Salomone e aveva cominciato a pensare a quella di un altro personaggio, diversa in verità, un antenato suo al quale voleva dedicare versi forti, che risuonassero per l'eternità: O cara piota mia che sì t'insusi, che, come veggion le terrene menti non capere in trïangol due ottusi... 6 Zara - Uffa, non credevo che trovar casa a Bologna fosse tanto difficile. Con l'Università, credevo... - Sì, ma dilla tutta: e quei tuoi amici che dovevano ospitarci con tanta generosità? - L'hai visto anche tu, ovvio: avrebbero voluto, ma non c'era spazio, erano avviliti e dispiaciuti sinceramente. - Sarà. A me sembra invece che non ne avessero intenzione alcuna. Solo che tutta la zona vicina alla piazza l'abbiamo vagliata e ora non ci restano che i fuori porta. Non vorrei andar tanto lontano, però non vedo alternativa. - Proviamo per di là - indicò Guido - verso quella direzione. - Tu non ci prendi mai, dunque andiamo in quella opposta. Oppure ognuno cerca per suo conto e ci ritroviamo a sera qui. - No, no, va bene, vengo teco, non separiamoci. E s'incamminarono, oramai decisi ad andare fuori porta. Bologna a quei tempi era piccola ma il fuori porta, in alcune direzioni, per esempio verso sud, verso la collina, era ampio e abitato. Dante e Guido non immaginavano neppure quanto fosse difficile per uno studente trovar casa in locazione nella Dotta, allora e ancor più oggi. Tutti gli studenti giungono a Bologna sognando di abitare in centro, perché la notte basta scendere e c'è un via vai impressionante fino all'alba, ma i più finiscono con l'abitare in lontane periferie. Dante e Guido non immaginavano neppure, in quel momento, quanto lontano dal centro avrebbero dovuto abitare. S'incamminarono dunque, nella Val d'Aposa, lungo il torrente che, a quel tempo, era ancora scoperto; nella deliziosa piazzetta che le faceva e le fa da ingresso, videro una moltitudine di gente - saranno state venti, trenta persone accalcate - urlare, sbraitare, sbracciare, tutte chinate in basso verso il centro del gruppo. La cosa li incuriosì subito molto e, dimentichi della casa che stavano cercando, s'avvicinarono per vedere. Riuscirono, un po' alla volta, a intrufolarsi fino a poter assistere. Due giovani, uno abbastanza distinto e l'altro un po' più cialtrone, erano chini a terra e tra loro stava una bella quantità di danaro sonante. L'uno stringeva un pugno appena un po' sollevato, come quando si hanno in mano dei dadi, e l'altro fissava quel pugno, come in tema d'un imbroglio. D'un tratto la gente fece silenzio e i due dissero all'un tempo: - Sette! - l'uno gridando con violenza. - Undici! - l'altro urlando a perdifiato e, nello stesso momento, quei che teneva il pugno chiuso lo aprì, gettando, in una specie di contenitore di legno con le pareti rialzate, effettivamente dei dadi. Erano tre dadi bianco avorio, di osso; rotolarono brevemente, scontrandosi l'un l'altro e poi contro la parete del bordo, fino a fermarsi: - Dieci! - urlarono tutti, ma proprio tutti all'unisono, e il suono fu così forte che la chiesa bassa e rossa che stava di fronte quasi tremò. Commenti a non finire, su non si sa che, e i due contendenti misero ciascuno una mano nella propria saccoccia, estraendone un danaro e ponendolo nel mucchio già consistente, rendendolo ancor più appetitoso. L'altro, questa volta, raccolse i dadi e li strinse nel pugno, chiudendo gli occhi come se stesse invocando la grazia divina o la sorte, mentre l'altro non gli levava gli occhi di dosso; si fece silenzio e, dopo un istante: - Sette - confermò il primo. - Undici - confermò il secondo, entrambi con violenza, mentre i dadi volavano, cadevano, rotolavano, sbattevano tra loro, cozzavano contro le pareti... Pochi istanti, pochissimi, poi di nuovo un urlo atroce della folla intera: - Nove! Dante aveva capito il meccanismo, ma lo volle chiedere ugualmente al ricco ed elegante signore che stava a lato, la cui corpulenza avrebbe benissimo potuto esser presa a modello per rappresentare la Grassa: - Scusate messere, sono straniero, come capirete dalla mia parlata. Che gioco è, e come si gioca? - Giovanotto, ma si gioca come vedete - disse questo in bolognese accentuato. - Il primo che ci coglie, si becca tutto il gruzzolo, veh. Nel frattempo i due contendenti ripetevano ogni particolare del copione precedente: versare un'altra moneta nel mucchio della posta, adesso realmente una bella cifra, risistemare i dadi e, come sempre: - Sette - sembrava affezionato a non volersi smentire il primo. - Undici - con la stessa determinazione il secondo. Pochi, tesissimi istanti e la folla, con un urlo che si sentì fino in cima alla torre degli Asinelli, la più alta e la più rappresentativa della rossa turrita città: - Undici, undici, undici! Ha vinto, ha vinto! Il povero affezionato del sette rimase lì, come un allocco, con una faccia triste e disperata, rigettava i dadi e diceva a sé stesso: "Ah avessi detto nove alla volta precedente, e dire che ci avevo pensato", e si dava pugni in testa. Quando si parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara; Il felice vincitore raccolse tutta la grana, se la infilò in saccoccia e accettò i complimenti di tutti; si staccava da dosso le mani di chi gli si afferrava alle maniche, alla veste, prometteva da bere ai più vicini scalmanati, spostava con forza chi gli bloccava il cammino e commentava con tutti la fortuna, la sorte eccetera: con l'altro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, e qual dallato li si reca a mente; el non s'arresta, e questo e quello intende; a cui porge la man, più non fa pressa; e così da la calca si difende. Dante si avvicinò a Guido e gli disse: - Ma non hai visto? Era idiota, quello, a dire sempre sette. - Perché? Non capisco. - Ma l'undici era molto più facile a uscire, o il dieci, è ovvio. - Ma che dici Dante, che ne sai tu? I dadi sono come le belle donne e cambiano faccia in continuazione. - Ma no, no. Se ci pensi un po', solo da 3 a 18 si possono avere uscite, e queste due precisamente in una sola maniera, cioè con le tre facce uguali. Già 4 e 17 hanno qualche possibilità in più. Il 4 può aversi con 1, 1 e 2; 1, 2 e 1; 2, 1 e 1, dunque tre volte, e 17 pure. Ci pensi? E così via, ogni volta ci sono possibilità in più. Dunque i numeri centrali, 10 e 11, sono i più certi. Se li giochi, vinci. - Ma allora perché questo diceva sette? È un allocco? - Non so, non capisco, forse non s'industria a fare questi facili calcoli. - Ma tu, avrai ragione? Sai, tu ti picchi di sapere d'arismetrica, ma io non so poi se ne sai abbastanza. - Ma sì, ma sì, è certo così. Dài, dammi monete. - Oh dio, Dante, per carità, che già siamo male in arnese. Lascia stare, non per sfiducia, sai. - Dammi monete, ti dico, e non te ne pentirai. Molto, ma molto a malincuore, Guido, che sempre subiva il fascino di Dante e non ne sapeva mai arginare gli entusiasmi, gli dette una manciata di monete, quasi tutto il suo patrimonio. Dante le mise nella sua saccoccia, si avvicinò al gruppo e disse a tutti: - Come si gioca, signori, che io sono forestiero e mi piacerebbe puntare? A sentir la parlata di fuori, tutti si voltarono; si giocava in continuazione, ma avere uno straniero in gara da spennare rendeva la cosa ancora più eccitante. Un signore di mezza età, un poco grassoccio e con la faccia rubizza, gli rispose: - Giovanotto, se volete v'insegno io, però giocando. - Oh, bene - disse Dante - e mi spiegherete dunque le regole cammin facendo? - Sì, molto volentieri - ammiccando ai presenti; e, chissà perché, tutti si misero a ridere all'unisono, con cattiveria. Quel signore e Dante presero i due posti occupati prima dagli altri due, si formò uno stretto capannello con Guido teso e impaurito accovacciato accanto a Dante. Puntarono una prima moneta: - Cinque - disse l'uomo, gettando per primo i dadi; - Dieci - disse Dante contemporaneamente. Dopo un istante la folla sancì il risultato urlando: - Undici. Di nuovo monete, di nuovo dichiarazioni: - Sei - l'uomo; - Dieci - Dante. E, ironia della sorte, uscì proprio il sei. L'uomo raccolse le quattro monete con molta allegria e strafottenza; Dante era un po' seccato, Guido in lacrime: - Lascia andare, lascia andare, ti prego. Due monete in fumo. Ma che teoria è la tua. Per quanto turbato, Dante non si diede perduto e chiese al signore di continuare con altre tre partite. - Giovanotto, se non vado errato, voi siete uno studente e, di solito, gli studenti sono qui da noi benvenuti anche se male in arnese. Ma siete nuovo di questo gioco e non vorrei approfittare. Parlava con strafottenza, guardandosi attorno come fa chi cerca consenso, e la gente attorno rideva, dandogli ragione. - Non vi preoccupate, ho danaro a sufficienza dato che gioco anche il danaro di questo compagno mio - indicando Guido, che si torceva le mani con terrore. - Bene, ordunque, e sia: altre tre sole partite di seguito. Non starò qui ora a raccontare le singole fasi della gara, ma solo il risultato: Dante le vinse tutt'e tre, sempre alternando 10 con 11. Solo una volta ci fu una contestazione perché il signore disse 4 e tutti i circostanti annullarono in coro la puntata, prima ancora che i tre dadi si fossero fermati, perché, ricordarono, da sempre le puntate su 3, 4, 17 e 18 erano vietate. L'ironia della sorte volle però che uscisse proprio il 4 e dunque il signore protestò a lungo, ma le regole sono regole. È come quando nel calcio la punta avversaria fa goal l'istante successivo al quale l'arbitro ha suonato il fischietto per fermare il gioco per un fallo. I giocatori della squadra che ha fatto il goal protestano e chiedono la validità del punto: tutti hanno sentito il fischietto suonare dopo l'ingresso della palla in rete e sarebbero disposti a giurarlo sulla Bibbia; mentre gli altri s'appellano alla precedenza temporale del fischio. Dante vinse dunque, ma non tante monete, una dozzina circa, con la gioia immensa di Guido e di tanti circostanti che già stavano promettendo ai due studenti fiorentini amicizia imperitura nei secoli dei secoli, in cambio di una bella bevuta. Ma tutta l'operazione era stata seguita in silenzio dal primo vincitore, quello che diceva sempre undici. Questi si avvicinò a Dante, lo prese con una certa qual forza per il braccio, e lo trascinò qualche passo lontano: - Perché dicevate sempre dieci o undici? - gli chiese con cattiveria. - Davvero non sapete giocare? Chi siete voi? - E voi, signore, perché dicevate sempre undici? Il gioco me l'avete insegnato voi, senza volere, suppongo, in un solo istante. - E allora giocheremo noi due, studente straniero, ma di due monete in due. - Non ha senso, messere, voi lo capite bene. Così il gioco è alla pari e vince solo la sorte. - È quel che voglio mostrarvi - e fece l'atto di spingerlo verso la tavola di legno, mentre tutta le gente si accalcava e Guido urlava: - Oh no, madonna mia proteggici. Chissà se fu davvero la Madonna o più banalmente il caso, ma Guido (e Dante) furono protetti per davvero, perché dal fondo della Val d'Aposa in leggera salita arrivarono di corsa le guardie comunali di gran carriera, con lunghe alabarde e corte spade, con in testa un caporale che urlava a perdifiato: - Siete tutti in arresto, siete tutti in arresto! In men che non si dica tutti sparirono, correndo chi di qua, chi di là; uno raccolse dadi e tavola di legno; Dante si ritrovò a correre con Guido e altri oltre quel che oggi è chiamato Collegio di Spagna, verso la via Urbana (un paio di miglia più in là avrebbero a sera trovato alloggio). Finalmente, passato il pericolo, Dante e i suoi compagni di fuga si fermarono più o meno dov'è oggi la porta Saragozza e i due gli chiesero di mantenere la promessa, offrendo da bere; il caso volle che lì nei pressi ci fosse, anche se già in estrema periferia, una taverna tra le più pregiate, meta delle gite fuori porta dei nobili le sere d'estate e le domeniche pomeriggio. Bevendo allegramente Albana molto fresca, Dante chiese il perché delle minacce delle guardie, il perché del divieto del gioco ed il nome del gioco stesso. - Si chiama zara, ma qui da noi lo chiamiamo ludus ad gnaffum. Da molti anni, dal 1270 o '71 mi pare, o poco dopo, è stato vietato perché chi lo gioca forma capannelli e blocca il traffico per le strade - rispose uno dei due, quello che pareva il più simpatico. - Ma è vietato solo a Bologna? - A quel che ne so io, è vietato a Bologna per le strade e a Ferrara a corte. - Lì dunque non blocca il traffico - rise Dante, seguito da tutti gli altri tre. - Sì, sì, ma blocca il lavoro a corte, sapete com'è Ferrara. O non conoscete i ferraresi? Lì a corte tutti giocano alla zara tutto il giorno e i lavori politici si arrestano e nessuno ne vuol più sapere. - Perché parlate con tanta ironia dei ferraresi? C'è livore antico tra voi e loro? - No, in realtà no, solo inimicizia cordiale. Le cose stanno ben peggio tra noi e i modenesi. - Contate, contate, ché son ghiotto di queste cose - disse Dante, mentre con un braccio chiamava l'oste e gli faceva segno con l'indice della mano di portare un'altra bella brocca piena di Albana fresca. 7 Asini che volano - Socrate corre e Socrate non corre, dunque gli asini volano. In effetti Dante e Guido stavano pensando ad altro, più addormentati che svegli. Sì, fa specie e rende il giudizio amaro e negativo pensare a due giovani, peggio ancora perché non più giovanissimi, che se ne partono da casa, con sacrifici immensi, per andare all'Ateneo più antico del mondo, con tanto di sigillo imperiale, al puro scopo di studiare dialettica, e che poi invece, al momento di una dotta lezione dalla cattedra, pensano a tutt'altro e parlano di affari propri. O, peggio ancora, dormono. Sì, fa brutta impressione. E tuttavia bisogna capirli. I giovani sono giovani, appunto, anche se si chiamano Dante e Guido. E si è giovani una sola volta, perbacco. E poi Bologna è città cordiale e accogliente e alcune donne di varia età, rango e situazione, amano molto accompagnarsi agli studenti dell'Alma Mater, specie ai meno sbarbatelli, specie a quelli che vengono da fuori e hanno parlate garbate e piacevoli. Ora, Dante e Guido, quanto a parlantina, belle maniere, modi, garbo e finezza, quanto a voce accattivante e gradevole (se un toscano non parla sguaiato, come purtroppo accade a volte, ha un fascino irresistibile su chiunque), ne avevano da vendere. E quindi ogni notte, ma proprio ogni notte, si trasformava in festino e..., beh, non fatemelo scrivere in un libro dabbene. Ogni sera, a fine lezione, pieni di appunti e di belle idee, i due si ripromettevano di passare la notte insonne a studiare. Ma bastavano pochi passi verso la piazza Maggiore o verso la torre degli Asinelli, bastava che si fermassero a ciarlare con qualcuno, bastava che si fermassero in una qualsiasi delle mille taverne, bastava anche solo che passeggiassero un poco prima di porsi il problema non sempre banale del desinare serale, che si trovassero invitati irresistibilmente a una festa di compleanno, a una festa di onomastico, a una festa per un compagno in partenza, a una festa per un compagno in arrivo, a una festa per una vincita alla riffa, a una festa per una buona notizia, a una festa per uno scampato pericolo, a una festa per l'arrivo di un fratello, a una festa... per nulla. Cercati da tutti, abili rimatori, abili suonatori, abili narratori, Guido e Dante avevano solo un imbarazzo: scegliere ogni notte la compagnia. - Socrate corre e Socrate non corre, dunque gli asini volano - continuava a salmodiare il maestro. Veniva da lontano, ma il suo latino era fluido e dotto, anche se il suono era duro e alquanto sgradevole. Nell'Alma Mater era severissimamente vietato parlare volgare e dunque era abbastanza facile conversare tra allievi e maestri in latino, anche se questi ultimi erano stranieri, purché fosse fuori dalle ore di cattedra. Durante la lettura, nessuno nessuno nessuno avrebbe potuto neppur concepire di interrompere. Ma dopo, fuori, sì. Per un momento, ma solo per un momento, Dante aveva ascoltato l'incredibile frase del maestro. - Ma che dice, che sta dicendo secondo te? Ma parla sul serio, o lo dice solo per creare attesa? - chiese, rivolgendosi sottovoce a Guido. - Chi? Teresa? Ancora? No, dài, che oramai ci conosce bene tutti e due rispose Guido, evidentemente interpretando male la domanda di Dante. Dante si mise a ridere. Stavano ripiegati sotto il rotolo degli appunti; se fossero stati sorpresi a parlare, o peggio ancora a sonnecchiare o a ridere, sarebbero stati immediatamente espulsi dall'aula; c'erano vigilanti appositamente stipendiati che avevano esclusivamente questo compito: osservare gli scolari, sorprenderli disattenti e castigarli duramente. - Ma che Teresa e Teresa, va' al diavolo, ho detto attesa - disse Dante, tra le risate. La sera prima erano stati dal Biggi, anche lui toscano, di Figline, benestante studente di giurisprudenza, figlio di un famoso notaio e allievo dei glossatori di Bologna, amici intimi del padre. Era talmente ricco che aveva potuto prendersi una casa tutta sua in via degli Orefici, proprio vicina al palazzo di Re Enzo, a pochi passi dall'Università e da piazza Maggiore. Quando dava feste lui, almeno due tre al mese, riempiva la casa di ogni ben di dio, così i più poveri scolari facevano all'un tempo festa e cena (e si riempivano le saccocce per i due tre giorni a venire). Riempiva la casa anche di musici, giullari e donne disponibili. Per non far adirare i vicini (c'è sempre un vicino odioso che tu disturbi quando sei allegro, perfino a Bologna), li invitava tutti; e così, dopo un po', non più la sua sola casa, ma tutta la strada era imbandita ed era tutta una festa, dalla piazza della Mercanzia al palazzo-carcere di Re Enzo, figlio dell'imperatore Barbarossa. Una volta che le guardie notturne accorsero per farli tacere, i bei modi e le divertenti facezie di Guido e Dante avevano trasformato le perfide guardie in nuovi allegri festaioli complici, conquistandosi una fama imperitura per la quale ancora venivano additati. La sera prima, dunque, erano stati ancora dal Biggi ed era stata festa grande, dal crepuscolo a mezz'ora prima della lezione; per cui, ancora mezzi sbronzi, assonnati (non dormivano oramai da settimane un sonno normale), si erano precipitati a lezione. Avevano fatto di tutto: mangiato, bevuto, cantato, suonato, di tutto, di tutto. - Socrate corre e Socrate non corre, dunque gli asini volano. "Oh dio, ancora questo che dice di Socrate e degli asini, e che io non capisco". Mentre Guido era totalmente e irrimediabilmente rintontito, ma all'apparenza vigile e attento, tanto da sembrar prendere appunti di quando in quando, Dante si propose di ascoltare, preso da un improvviso pentimento. Il maestro parlava di contraddizioni, di vero e falso, di deduzioni, di assurdi... Tutte parole che, prese una per una, dicevano tanto a Dante, che la dialettica la stava studiando sul serio, e che stava impadronendosene davvero, scherzi a parte. Ma insieme, oh dio, lo sforzo appariva sì grande da non poterlo affrontare con la testa ancora ebbra e una fatica fisica sopportata tutta la notte, quella che al mattino ti fa dolere i fianchi, verso il centro della schiena, e la parte alta esterna delle anche. Eppure l'argomentazione era interessante. Ogni tanto coglieva una citazione. Tra l'altro, a voler peggiorare un poco le cose, il maestro era lontanissimo e lui sentiva a malapena. Certo, non c'era alcun rumore e l'unico dominante era il crepitio degli stili sui rotoli stesi. Ma ci sentiva a malapena. Il maestro citava famosi dialettici, ma anche Cicerone e Quintiliano, chissà poi perché. Poi uno Scoto, un certo Giovanni, Pietro (pronunciando il cui nome s'inchinava, essendo stato papa fino a poco prima); gli sembrava anche di sentire a volte il nome di Anselmo, di Tommaso, ma non ci avrebbe giurato. Non c'era intervallo, a quei tempi: la lezione aveva durata indeterminata e il maestro ripeteva e ripeteva le stesse parole, leggendole o a memoria, anche quattro, cinque, sei volte e più. Per cui, quando d'improvviso il maestro cessò di parlare, Dante tirò un sospiro di sollievo e diede una forte gomitata a Guido. La mattina era finita, dovevano se possibile mangiare un boccone e poi tornare in un lampo a lezione. Assonnati, frastornati dalla nottata, che si sommava alle tante precedenti, i due si sedettero sugli scalini di San Petronio (non era, la loro, un'idea originale: quasi tutti gli studenti erano lì) e ricordarono che avevano le saccocce piene di cibi portati via dalla casa del Biggi la notte prima. Mangiarono roba varia, tutta fredda, e pane, si dissetarono alla fonte che allora stava in piazza vicino al palazzo dei Notai e, troppo stanchi per girovagare qua e là, come sempre facevano gli altri giorni, stravaccati per terra, tentarono di riposare. Nel tormentato dormiveglia furono svegliati da una pedata; sussultarono e riconobbero una guardia: - Non tenete, in questo luogo di passaggio di dame e fanciulli, questo comportamento indecente, specie se, come credo, siete scolari dell'Alma Mater; non vi si confà. Si alzarono, si rassettarono, bofonchiarono qualche parola più o meno di scusa, ma non c'era nulla da dire: era assai disdicevole sdraiarsi per la piazza, con la corta veste primaverile. La guardia aveva perfettamente ragione. In quel momento, proprio in quel momento, il maestro di dialettica stava passando accanto a loro e li stava guardando con un sorriso di difficile interpretazione. Lo salutarono in latino con enfasi, inchinandosi più volte, come era d'uopo fare con un maestro. - La guardia vi ha sgridato, eh? - disse in volgare il maestro. - Beh, sì, aveva ragione - rispose più pronto Guido. E poi: - Ma voi parlate volgare? - Siamo fuori dall'aula, nevvero? - E dove, come l'avete appreso? - Da molti anni frequento la penisola italica e ne conosco diversi luoghi, da nord a sud. - E conoscete pure la Toscana e Firenze, la nostra patria? - Ah sì, eccome, la più bella città d'Italia. Certo, gente difficile, ostile. - No, non dite così. Siamo un po' difficili ad aprirci, ma poi affabili. E allora i pisani? - Quelli non so, non saprei. Eravate a scuola questa mattina? - Certo, Maestro - disse rapidissimo Dante, facendo percepire la "m" maiuscola - Socrate corre e Socrate non corre, dunque gli asini volano. - Ah bravi, bravi. Ora vado. - No, Maestro, per carità. Vi volevamo parlare appunto ed è la sorte che vi ha fatto passare di qua - disse rapido Dante, non volendosi far scappare l'occasione. - Che c'è, che volete? Che posso fare per voi? - Maestro, alcune delle vostre dotte frasi non giungevano ai miei orecchi a causa della lontananza. Ora io ho di conseguenza delle lacune che vorrei colmare. Che ne dite se questa sera, al crepuscolo, vi infastidissi qualche istante e vi rubassi pochi momenti per porvi domande che mi potessero chiarire alcuni punti? Era stato ancora Dante a parlare. Guido lo guardava sorpreso: com'è possibile che Dante, nel suo dormiveglia nel quale non faceva altro che nominare Teresa, avesse capito anche solo una parola del maestro? E che cos'era quella storia di Socrate e degli asini che volano? - Va bene, sì, ti accontenterò - disse subito, inaspettatamente, e con infinita affabilità il maestro. - Alla fine della mia lezione, qui, anzi no, in un luogo più appartato, dietro la fonte del Delfino (che ora non c'è più a Bologna). E se ne andò. - Cos'è questa storia di Socrate, e tu che ne sai? E ci andrai tu all'appuntamento, io ci ho un sonno che muoio, andrò a dormire appena posso contestò Guido. - Sai, è una cosa interessante e voglio approfondirla. Veramente non ho domande da fare sulla lezione di stamani, non ci ho capito nulla. In realtà, tenterò di farmi spiegare tutto daccapo. E andarono a lezione di filosofia morale, Dante molto più sveglio e attento, Guido distrutto dal sonno. All'uscita dalla lezione, davvero Guido aveva tutta la ferma intenzione di andare per una volta a dormire presto, a casa loro (casa: una stanza in una vecchia soffitta piena di ragnatele e muffa, condivisa con altri due studenti, stranieri di Alemannia, simpatici, al quarto piano, con lavabo e cesso però in comune con tutto il palazzo nel cortile a piano terra, all'aperto) che avevano trovato a bassa pigione, però piuttosto distante, più o meno dove inizia tuttora la salita del Meloncello, allora fuori città. Ma il Leoni, un veneto birbantello, sempre allegro e spiritato, studente anche lui di dialettica, li fermò con altri: - Stasera tutti a casa mia, specie voi due. Non ammetto discussioni. Sarete gli eroi della festa. Vino a volontà. Indovinate chi mi ha chiesto di voi due? La Sara, quella che vende il latte, e ci sarà anche la sua amica, quella biondina che voi due conoscete bene. Hanno chiesto espressamente di voi. - No, guarda, stasera no - rispose pronto Dante. - Io ci ho un impegno già preso e lui - indicando Guido - non sta più in piedi dal sonno. - Tu pensa per te - fece invece inaspettatamente Guido, con fare faceto, risvegliatosi d'improvviso. E poi, rivolto a Dante: - O te la ricordi l'amica della Sara, quella bionda? Te la ricordi o sei grullo? Se te la ricordi e non vieni i casi son due: o sei grullo pe' davvero o hai fatto il salto della sponda e sei passato dall'altra parte. Risero tutti. - Ma come fo, come fo ora? Ho preso l'impegno col maestro. - Beh, fai come ti pare, io t'aspetto. E ricordati: non solo io - disse il Leoni, e se ne andò con tutti gli altri. - Dài, va' dal maestro, ponigli una domanda, lui ti risponde e via, raggiungici costà. No? Non si può fare così? - chiese Guido. - Sì, va bene, hai ragione. Farò così - e ognuno se ne andò per la sua strada. Dante raggiunse il luogo dell'appuntamento nello stesso preciso istante del maestro: - E dov'è il tuo amico? - domandò questi. - Maestro, il vero interessato sono io. Guido, il mio compagno, è andato ad altro appuntamento. - Bene. Troviamo dove appoggiarci e ponimi le domande che vuoi. - Sì, Maestro; ma che significa appoggiarci? Dove volete andare? - Dove ci si possa sedere. Mica si può parlare di dialettica all'impiedi, no? Non ti preoccupare, offro io. E Dante, giovane, capì tante cose: che i maestri sono persone normali, che sanno stare al mondo, che vanno in taverna a bere, che sanno parlare a un giovane anche se sono scienziati o filosofi famosi. In breve furono nella taverna dell'Orsa, a quell'ora piena di studenti. Dante non sapeva se essere felice o no, nel caso d'esser visto e riconosciuto dai suoi compagni. Da un lato, valeva pur sempre quel minimo d'orgoglio di mostrare che un maestro accetta la tua compagnia; ma dall'altro la solita paura che hanno i giovani di passare, agli occhi dei pari, per dei saputelli o degli sgobboni o dei leccapiedi. Due minuti dopo, sorseggiando vino nero frizzante e spumosissimo che pareva proprio Lambrusco amabile importato da Modena, Dante aveva già dimenticato ogni timore e stava allegramente parlando di sé al maestro. - Ah, poeta dunque? Bene. Ingegnati, che la nuova lingua vostra ha bisogno di trovare una parlata elegante e colta, dotta come era il latino, lingua moribonda, ormai. - Maestro, che dite mai? Che non vi sentano. - Ah, ma io mica sono un chierico, mica sono ordinato. Io sono un cittadino libero. - Dunque, non avete i voti? - Ma nemmeno per sogno. Disprezzo i preti, i cardinali, i vescovi, i papi. Quando sono in cattedra, accetto le loro condizioni, ma fuori di là torno ad essere me stesso. Odio le loro falsità, le loro menzogne, le loro doppiezze. Pecca, pecca pure, cattolico, che tanto dopo c'è la confessione che ti purifica. Che squallide persone. Si consacrano a Cristo e alla Madonna, puri fin sulla punta dei piedi, e sono lenoni e pedofili, amano la gente del proprio sesso e frequentano le prostitute. Tutto, purché sia fatto di nascosto, che non nuoccia all'immagine della chiesa. Gozzovigliano e s'ingrassano, superbi, lussuriosi, avari e pieni di invidie. Ipocriti. La gola, per loro, non è un peccato, ma una virtù. L'accidia un vanto. Dante era stupefatto; mai aveva sentito parlare così apertamente di quel che, in fondo in fondo, lui stesso e molti altri pensavano. Erano tempi duri, quelli, per la chiesa cattolica. Era affascinato da quell'uomo. E avevano già bevuto una fiasca intera. - Dài, fammi ordunque le domande che devi. - Maestro, sì, grazie. In realtà non ho capito molto. Che vuol dire la storia di Socrate e degli asini? - Oh, dio, e dov'eri a lezione? Dunque, prendi come premesse... Sai che vuol dire premesse? Hai studiato le mie lezioni precedenti? Hai studiato Pietro? - e, questa volta, non fece alcun inchino. - Sì, sì Maestro, non mi umiliate. Ho studiato, so che cosa sono le premesse, le conclusioni, i sillogismi. - Ma che sillogismi, qui i sillogismi non c'entrano punto - disse con un toscanismo appreso chissà dove; e Dante si sentì a casa. - Allora; come premesse prendi contemporaneamente Socrate corre e Socrate non corre. - Perdonatemi, Maestro, se vi interrompo. Ma come posso prendere due premesse che sono una la negazione dell'altra? Aristotele... - Lascia stare Aristotele e seguimi. Hai ragione, prendere come premesse due proposizioni che siano l'una la negazione dell'altra è sciocco e fallace, ma si tratta, appunto, di quel che ti voglio mostrare: perché è sciocco e in che senso fallace. Tu, per ora, prendile e basta. - Sì, Maestro, prendo come premesse Socrate corre e Socrate non corre. - Bene. Se sono premesse, sono entrambe vere. - Maestro, non ce la faccio. Se sono una la negazione dell'altra, come possono essere entrambe vere. Aristotele... - Come ti chiami? - chiese d'improvviso il maestro. - Dante, Dante degli Alaghieri. - Bene. E tu non saresti il poeta? Non hai il coraggio di immaginare, di fingere, di sognare? Aristotele ti ha dunque rimbecillito? Se lui enuncia il suo principio, tu non puoi enunciare il tuo? Tu, ora, di fronte a un bicchiere di Lambrusco dici: Socrate corre e Socrate non corre sono entrambe vere, in quanto entrambe premesse. Così voglio io, Dante! - Sì, Maestro. Adesso capisco. È come quando in geometria si fa un ragionamento per assurdo. - Va beh, mettiamola così. Ci siamo, allora? - Sì, Socrate dunque corre; ma Socrate pure non corre. Entrambe vere. - Bene. Ora prendi un'assurdità, quella che vuoi. - Non so, Maestro. - La cosa più assurda che ti venga in mente. Io direi: Dio esiste, ma non si può; gli antichi concepirono: gli asini volano. Ti pare abbastanza assurda? - Sì, Maestro, assurda quanto basta. - Ora dimostriamo che se si assume Socrate corre e anche Socrate non corre, gli asini volano davvero. Sei pronto? - Oh, dio, maestro, sì. - Dobbiamo dapprima dimostrare che: (Socrate corre e Socrate non corre) implica (gli asini volano), quella che si chiama implicazione materiale, o di Crisippo, del tipo: premessa implica conclusione. Ma questo equivale a dire, come mostrarono gli antichi, come conferma lo Stagirita e come trovi in Pietro: non premessa vel conclusione. Nel nostro caso dunque: [non (Socrate corre e Socrate non corre)] vel (gli asini volano). Ma tutti sanno, e Pietro spiega, che: [non (proposizione prima et proposizione seconda)] equivale a [(non proposizione prima) vel (non proposizione seconda)]. Dunque, nel nostro caso è: (Socrate non corre) vel (Socrate corre) vel (gli asini volano)che è vera perché contiene un vel tra due proposizioni che sono una la negazione dell'altra, come il Maestro di color che sanno dice e come Pietro conferma. Dunque: (Socrate corre e Socrate non corre) implica (gli asini volano)è vera. Ma questo ancora non ci dice che gli asini volano sia vera. Applichiamo ordunque la regola di modus ponendo ponens, che Aristotele precisa e Pietro spiega; abbiamo: premessa implica conclusione e premessa ammessa come vera, dunque conclusione vera. Gli asini volano davvero, dunque! Ci hai capito qualche cosa? - Come qualche cosa? Perfettamente tutto. E come. Dunque, Maestro, se ho capito bene, io posso dimostrare qualsiasi cosa, qualsiasi cosa - diceva Dante eccitato. - Se le due premesse sono contraddittorie tra loro, beninteso. - Sì, certo, l'ho capito bene. E questo allora è molto più forte di quel che dice Aristotele, il principio del terzo escluso. - Certo, quello è un principio, necessario finché vuoi, ma pur sempre un principio. Questa è una dimostrazione. - Maestro, e chi è quel genio che ha trovato questa dimostrazione così chiara? - Non si sa, avvenne alcuni decenni fa. La si attribuisce ad uno Scotto, ma c'è anche chi dice fu Giovanni di Cornovaglia, spirito fine. Chi lo sa? C'è dunque chi dice Scotto; c'è chi dice Giovanni; c'è anche chi dice Anselmo... Così come c'è chi dice che il maestro di dialettica, quella notte, gozzovigliò con Dante, più di Dante e Guido, rubando loro la biondina amica della Sara e mostrandosi più goliardo di tutti i goliardi. Di certo, non si sa nulla più. Solo che Dante non dimenticò la lezione e la fece sua quando dovette scrivere, in Paradiso, sulla conversione di Giustiniano a opera di Agapito (papa dal 535 al 536): Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era, vegg'io or chiaro sì, come tu vedi ogni contradizion e falsa e vera. Altro che principio aristotelico del terzo escluso. Qui si tratta di convincere, con una dimostrazione, non con un principio che ne sostituisce un altro. 8 Pitagora e l'armonia Era una notte buia e tempestosa. Mantova, ma la Lombardia tutta, era scossa da fulmini, tuoni, lampi, mentre una pioggia mai vista prima riempiva rapidamente il Mincio e questo minacciava, come spesso accadeva e accade, di tracimare prima e stramazzare poi nelle campagne. Pietole Vecchia era tutta un fango e la potenza protettrice del grande Publio Virgilio Marone non bastava certo ad arginare eventuali flutti. La taverna vicina al cippo, quella famosa del luccio in salsa, era piena di gente e di fumo come non mai, come se gli uomini dei dintorni avessero deciso di darsi reciproca solidarietà nell'attesa degli eventi: inutile, dicevano, fingendo molta serietà, starsene ognuno nella propria dimora a opporsi per conto proprio agli eventi, meglio era far fronte comune al problema di tutti. Le donne e i figli a casa soli, in pericolo? Più protetti così che con ciascun uomo a casa. Di fatto, tutto ciò era un pretesto vigliacco per passare la notte intera in taverna, con la gratitudine addirittura delle consorti per il sacrificio della veglia notturna, sperando nel miracolo di uno scampato pericolo alla fine. L'oste continuava a servire, oltre al pane, quel Lambrusco mantovano duro, rugoso, nero, che si mette nel "sorbir d'agnoli", nel luccio cucinato in mille modi, accanto al formaggio misto pecorino e bovino; ogni riserva dell'oste stava per finire, ma la notte era oramai piena e all'alba, in un modo o nell'altro, ciascuno sarebbe dovuto rientrare a casa sua. Dante e Guido erano in quei giorni delegati a Mantova e avevano deciso di rendere omaggio al grande Poeta andando a cenare nella sua località natale; le prime poche gocce di pioggia non li avevano impressionati per nulla, mentre lasciavano Mantova, ma poi l'acquazzone, meglio la tormenta, li aveva costretti a passare la notte fuori: nessun carro, nessuna carrozza avrebbe affrontato nottetempo quel fango, e rientrare a piedi di notte era troppo pericoloso. Dunque, con vari bicchieri di quel particolare Lambrusco, luccio cucinato in vari modi, formaggio e pane (i prezzi erano incredibilmente bassi), Dante e Guido stavano allegramente passando la notte, in una compagnia ciarliera e rumorosa, tra canti e risate. Spinto da un bisogno improvviso, però, Guido dovette uscire a cercare nel fango e nell'acqua un luogo abbastanza appartato per restituire alla natura parte dei liquidi. Uscì, coprendosi alla bell'e meglio la testa, girò a destra, era già fracido dopo un istante, e si appartò dietro l'angolo della casa stessa; dopo un minuto era già di ritorno, molto soddisfatto; rientrava lento, tanto oramai era bagnato dalla testa ai piedi. Ma sulla porta, o meglio, un passo prima, si stagliava contro la luce dell'interno una figura nera di donna avvolta in uno scialle pesante. - Ehi, ma che fate, vi bagnate tutta, entrate o correte a casa - le suggerì Guido. - Non m'importa di bagnarmi - disse la donna con fare e voce molto gradevoli. Guido cercò di vederle il volto, ma era impossibile in quel buio. - Sto cercando uomini dabbene, ma non ne vedo qui e non so più dove cercare, questo è l'unico luogo illuminato. - Uomini dabbene? E per quale scopo? - chiese Guido, aggirandola verso la porta per costringerla a porgere il volto alla luce. Ci riuscì: la donna si voltò infatti, per parlargli mirandolo in volto, e la luce che emanava dall'interno la illuminò, infine. Guido trasalì: era una giovane molto avvenente, dai modi fini e dalla carnagione chiara, con profondi occhi scuri e un nasino dolce leggermente e piacevolmente pronunciato, labbra carnose e zigomi appena appena sporgenti: una visione paradisiaca in quella notte d'inferno. - Ho un problema in casa - e si girò, indicando con il braccio teso un vecchio edificio a poca distanza. - La pioggia ha abbattuto una veranda e ora ci riempie la casa; mia sorella e io abbiamo provato ad arginarla, ma ci vuole la forza di un uomo o forse di due. Ma qui dentro sono tutti ubriachi e temiamo, chiedendo aiuto, per la nostra incolumità. - Non tutti sono mascalzoni e non tutti sono ubriachi. Ma non avete uomini in casa? - Nostro padre è in viaggio a Cremona e rientra tra due giorni; è partito con i nostri fratelli per una faccenda di legname e noi siamo sole da ieri. Nulla faceva presagire questo disastro, altrimenti... Guido, spudorato, le chiese: - Vostra sorella è maggiore di età? - Oh, no, mi è inferiore di due anni. Ma perché questa domanda tanto strana? Che c'entra? Che mi volete dire? Guido gongolava, immaginandosi già chissà cosa, ma rispose compunto fingendo quasi indifferenza: - No, solo per sapere. Bene, aspettatemi qui, chiamo il mio compagno di viaggio e siamo da voi. - Aspettate messere, voi mi sembrate persona degna, ma non siete di qui, la vostra parlata è rara. - Sì, infatti: il mio compagno e io siamo fiorentini, sapete di dove? - Certo, della Toscana, dopo Bologna, ma prima assai di Roma, sull'Arno. E i vostri nomi, messere? - Io - disse inchinandosi - sono Guido, Guido Cavalcanti; il compagno mio si chiama Dante degli Alaghieri. Veniamo, dunque? - Signore, se non avessi necessità assoluta non vi darei disturbo. - Madame - disse per far colpo (e si rese conto di aver fatto centro) - anche a nome del mio compagno già vi dico: sarà un piacere aiutare voi e la vostra sorellina minore - e con un balzo, bagnato fradicio, fu dentro; interruppe Dante che stava chiacchierando con un tale sulla differenza tra la coltivazione del riso in Piemonte e nel mantovano, gli raccontò tutto, pagarono l'oste e uscirono, nella sorpresa di tutti che li invitavano a non fare follie con quell'acqua. Rapidamente, tutti e tre di corsa raggiunsero in breve la casa, infangati dappertutto, bagnati come mai prima; il buio pesto era appena illuminato solo dalla oramai fioca luce proveniente dall'interno della taverna. La donna spinse il portone che, evidentemente, era stato lasciato socchiuso, ed entrarono; buio, anche lì. "E la sorella, al buio?" pensò Guido. La donna accese una fiaccola e si fece un po' di luce, piuttosto fioca, che non riusciva neppure a illuminare tutta la stanza. - Ma dov'è la falla - chiese Guido - che non la vedo? - Oh, è di là, signore, nella stanza di mia sorella, venite. E la donna, presa in mano la fiaccola, fece loro strada. Passarono un'altra porta, un lungo corridoio, entrarono in un'ampia stanza con un grande camino spento e s'avviarono verso un'altra porta; già si sentiva uno scrosciare forte, come se al di là, invece di una stanza, ci fosse stata una corte. E furono nella stanza della veranda che aveva ceduto, piuttosto grande, un letto scuro in un angolo, praticamente sotto una pioggia scrosciante. Dante e Guido si guardarono: che fare? Nessuno dei due aveva dimestichezza alcuna con lavori vili, Guido poi... In qualche modo, però, decisero di intervenire; Dante per puro altruismo - oramai era lì - Guido sperando poi in una ricompensa di qualsiasi tipo. ("Ma la sorellina, dove diavolo sta che non la vedo?"). Riassestarono la parte rotta e posero un diaframma verso l'esterno, ma non reggeva la violenza degli scrosci; spostarono allora un armadio che pesava più delle colonne del tempio dei Filistei, e ciascuno d'essi si sentiva Sansone. L'armadio fece forza abbastanza per sostenere un grande pannello di legno che chiudeva finalmente tutta la falla e l'acqua smise di entrare. Certo, per terra era un lago, ma già la giovane donna aveva riunito stracci e segatura e stava raccogliendo l'acqua dentro due o tre secchi. Guido e Dante si guardarono in volto e si chinarono per aiutare. Poté più la segatura (ce n'era tanta in quella casa, ma già, gli uomini erano a Cremona per faccenda di legno, dunque dovevano essere falegnami o costruttori) che gli stracci; mentre erano così sdraiati a terra, Guido chiese: - Signora, non mi avete ancora detto il vostro nome. Sembrava quasi un'accusa, come dire: con tutto quel che stiamo facendo qui per voi, mi piacerebbe entrare un po' più in intimità. - Oh, signori, come mi dispiace di questa indecorosa scorrettezza - si rizzò in piedi, si asciugò le mani alla veste e disse: - Mi chiamo Laura, sono nata a San Benedetto Po. E questa - indicando con il braccio destro nell'angolo del letto - è mia sorella Pina, detta Pinuccia, nata invece a Mantova. Sorpresi, Dante e Guido si voltarono all'unisono, ma nulla videro, se non la massa oscura del letto: la luce non arrivava a rischiarare fin là. Udirono però una voce gradevolissima che disse con allegria: - Signori gentili e affabili, vi ringrazio molto di quanto avete voluto fare, e con tanto sacrificio, per Laura e per me. Guido, spudoratamente, prese in mano la lampada e l'avvicinò all'angolo dal quale saliva la voce e vide, infatti - videro entrambi - che nel letto giaceva coricata una fanciulla dal viso dolce e lunghi capelli neri, bianchissima in volto. - Fu un piacere, per noi - disse Guido; - Siamo incantati di conoscere due fanciulle così avvenenti, anche se in così curiose circostanze - confermò Dante, e già Guido s'era avvicinato all'orecchio di Laura e le chiedeva a voce bassa: - Ma che, è inferma? Prima che Laura potesse rispondere, Pinuccia, che aveva sentito, rispose al suo posto: - Oh sì, signor mio, inferma. Inferma dalla nascita o quasi, quando un male perfido mi prese le gambe e le anche. Non posso camminare, signore, neppur reggermi in piedi, signore, ma non ho perso l'uso delle braccia, delle parole e, se mi posso permettere, soprattutto l'uso dell'intelletto. L'aveva detto con disprezzo, con forza, con ironia, con coraggio, con determinazione, con sfida, con sollecitudine, con consapevolezza, con disperazione, con ira, con decisione, con rabbia, con distacco, con tutte quelle contemporanee doti e risorse necessarie, in casi e persone come queste, a trovare la forza di vivere, invece che di sopravvivere. Dante s'avvicinò a Pinuccia e si sedette sul bordo del letto, prendendole una mano con tenerezza: - Permettete, dolce Pinuccia? Ho avvertito nella vostra voce e nella determinazione della vostra asserzione molta rabbia e molto dolore, ma anche tanta risolutezza, per la quale vi ammiro. Scusate se mi permetto, come un vostro padre, o come fratello maggiore almeno. Guido era furioso, non tanto per la situazione, quanto per le parole di Dante che davano, in un colpo solo, tutt'un altro senso a quell'incontro che, per lui, avrebbe dovuto avere solo la direzione sperata fin dall'inizio. - Messer Dante, grazie per le vostre parole. Sarete stanco, siete fradicio, come facciamo? - Non importa; se qui c'è un camino - e si guardò attorno - potremmo accendere un fuoco per eliminare non solo l'umidità mia, ma quella di tutta la stanza. - Sì, sì - disse Laura - un camino c'è. Se messer Guido mi aiutasse a portar qui legna secca... La teniamo nel... - Certo! - Guido era già in piedi, felice all'idea di appartarsi un po' con Laura, e uscirono insieme. In pochi minuti il fuoco schioppettava, Guido era tornato allegro, Pinuccia sembrava allegra di suo, senza altri motivi contingenti, Dante era imbarazzato. - Laura - si rivolse Guido alla ragazza - quando v'ho chiesto di Firenze mi avete dato mostra di grande competenza geografica. Come avete queste nozioni, avete viaggiato, come noi due, o studiato? Laura guardò Pinuccia ed entrambe sorrisero. - No, nessuna di noi due ha viaggiato, viaggiato per davvero - rispose Pinuccia. - Laura sempre s'è dedicata a me, specie dopo la morte della mamma. Però molto abbiamo viaggiato con la mente. Mio padre, nostro padre, è abbastanza facoltoso per potersi permettere di dare ai suoi figli, a tutti, maschi e femmine, una certa cultura. Da Mantova, e per anni, vennero vari maestri privati in casa, e dettero lezioni di tutto a tutti noi. Ma Laura e io abbiamo proseguito, leggendo - e la sorpresa di Dante e Guido fu grande: donne che spontaneamente leggevano, andando contro le leggi e le consuetudini, e che lo dicevano senza tema, espressamente - e cercando altri maestri, sempre più specializzati. Messeri, vi vedo stupiti, perché? - No, non stupore per voi - e il fuoco schioppettava allegramente e un certo calore si cominciava infine a diffondere per la stanza - ma per la situazione e per quel che ci dite. Da noi, la maggior parte delle donne rifuggono i libri e ci sono chierici, cardinali e papi che condannano la lettura delle donne. Se vi sono donne che leggono, ma rare, sono alte nobildonne, di tale lignaggio, che non temono le ire clericali; mai ci era capitato... - ... di incontrare donne di basso livello sociale, contadine infine, in grado di leggere? - Perdonatemi, Pinuccia, perdonatemi Laura, ma lo confesso: la mia risposta è sì. Ma non tanto perché siete in grado di leggere, bensì perché ne avete il gusto riservato ai dotti, maschi, per lo più. - Ebbene, per quanto giovani, ciascuna di noi ha deciso di impratichirsi in qualche disciplina. E così Laura ha optato per musica e astronomia, ma con grande impegno anche nello studio dei fatti storici, della dialettica, della grammatica e della retorica, nonché della geografia. Io, Pinuccia, ho preferito la geometria e l'arismetrica, ma anch'io sono attratta dagli studi di dialettica, che quindi condividiamo. Mentre Pinuccia parlava, Laura si era alzata, aveva aperto il grande armadio che Dante e Guido avevano spostato con tanta fatica e che ora proteggeva tutti dalla pioggia esterna, e ne aveva tratto una brocca di terracotta e tre piccoli bicchieri di vetro, molto raffinati; aveva appoggiato tutto sul tavolo al centro della stanza e servito un liquore, distribuendo a tutti, tranne a Pinuccia, un bicchiere. Mentre Dante e Guido sorseggiavano quella delizia (sembrava liquore di limone, come potrebbe essere il moderno limoncello), Laura s'avvicinò a Pinuccia, le sollevò la testa, e le fece sorseggiare il liquore. - Voi non bevete? - chiese Guido a Laura. - Oh, no, per me è troppo forte. Lo faccio io, perché Pinuccia lo gradisce molto, però lo nascondiamo ai fratelli - ridendo un po' - perché fan tanto i maschi virili prendendoci in giro per il nostro infuso, ma quando possono lo bevono e ce lo finiscono in un lampo. E Laura e Pinuccia sorrisero, con immensa benevolenza. - Dunque - fece Dante - arismetrica? E che cosa avete studiato recentemente, se mi è permesso chiedervelo? Vedete, amo la stessa disciplina pure io. Ma prima che Pinuccia potesse rispondere, Guido già stava protestando: - Dio no, ancora arismetrica, ma che sfortuna. Si formò, nel giro di pochi istanti, una partizione dei presenti in due gruppetti: Laura e Guido si avvicinarono al fuoco e si misero a parlare di non si sa che, fitti fitti sottovoce; ogni tanto si coglievano degli "Oh no", pieni di stupore o di finta ritrosia, e dei "Ma che dite, Guido?", di Laura; mentre Dante si manteneva seduto sulla sponda del letto di Pinuccia e si misero a parlare anch'essi fitti fitti di arismetrica. - Che ho studiato ultimamente, mi chiedevate? Oh, tante cose, in continuazione. Ma se volete saperlo, ho ricevuto qui a casa, proprio dov'è ora il vostro compagno che sta corteggiando mia sorella, Anselmo di Cortona, il matematico che certo conoscerete, amico dei Gonzaga, che mi fanno l'onore di venirmi a trovare, di quando in quando. E lui mi ha raccontato di una scoperta di Pitagora che molto mi ha affascinato e che ancora porto nel cuore e mi fa sobbalzare l'intelletto dalla meraviglia. - Mi incuriosite, Pinuccia - Dante le strinse forte la mano: era affascinato dalla forza di quella creatura; ah, l'avesse conosciuta prima, chissà se la sua teoria delle fanciulle avrebbe avuto sorte diversa. - Ditemi, ordunque, non tenetemi così sulle spine. - Bene, guardate in quello stipetto, prendete calamaio e stilo e stendete il rotolo e scrivete e fate quel che vi dirò. Dante eseguì in fretta e lanciò un'occhiata agli altri due; Guido parlava all'orecchio di Laura e questa faceva la ritrosa: tipica situazione d'abbordaggio nella quale aveva visto Guido, maestro, trionfare più volte. Chissà chi dei due sarà alla fine più felice, lui o io? Poi tornò a sedersi sul letto e avvicinò il lume per vedere meglio. - Ora seguitemi e disegnate un punto che dovete pensare come una monade pitagorica, essenza stessa dell'unità. Dante disegnò: • - Così va bene? - Sì, proprio così volevo. Che numero rappresenta? - Non so che cosa volete dire, Pinuccia, ma la risposta che mi sale spontanea è uno. - Così è. Dunque: uno. Che è il primo numero dispari. Ma uno è anche il numero quadrato di uno stesso, nevvero? Conoscete l'operazione di elevamento a potenza, avete letto Archimede? Che rabbia! Nessuna storia, nessuna cronaca riporta la risposta di Dante, così che ancora permane il dubbio se Dante abbia o no letto direttamente quel poco che si aveva allora di Archimede. Dunque non sappiamo che cosa rispose Dante, ma sappiamo che, nella scuola d'abaco da lui frequentata, si era trattata la questione dell'elevamento al quadrato e al cubo, non di più credo. - E allora - proseguì Pinuccia - pensate a quella monade come al primo numero dispari e anche come al numero uno elevato al quadrato. Scrivetelo, se potete, per tenerlo a mente. Ora, usate un colore diverso, lì c'è un doppio calamaio colorato. Circondate quella monade tutt'attorno, tenendola ferma nel vertice in alto a sinistra di un ipotetico quadrato di monadi. Mi capite? - Credo di sì - fece Dante, e disegnò. - Va bene così? - disse mostrandole il proprio disegno: - Perfetto, proprio quel che volevo. Che numero avete aggiunto? E che numero avete ottenuto? - Ho aggiunto tre e ho avuto in tutto quattro. - Non vi dice nulla? - Mi sembra di poter dire, se colgo bene il vostro pensiero, che tre è il successivo dispari mentre di quattro non so che pensare... - Pensate, come prima, ai quadrati. - Oh, bella, quattro è due al quadrato. - Dunque? Dunque, e Dante scrisse, ma non sappiamo come, quindi lo scriveremo qui a modo nostro in forma ingenua: 1 è il primo dispari 12 3 è il secondo dispari 22 - Non mi dire, Pinuccia, che prosegue così. - Fate la prova voi stesso. E Dante disegnò: e disse tra sé e sé, ma facendo sì che Pinuccia sentisse: - Ho aggiunto uno due tre quattro cinque punti, il terzo dispari - con sorpresa infinita. - E ora ho nove punti, madonna: tre alla seconda. E aggiunse a quel che stava scrivendo a mo' di sunto: 5 è il terzo dispari 32 - Bello, non trovate? - fece Pinuccia. - Incredibile, bellissimo; ma davvero segue così? E, senza attendere sollecitazioni, disegnò ancora: Disse ancora, stavolta a voce alta: - Dunque, sedici che, si vede subito, è quattro al quadrato; ma quanti punti ho aggiunto? Vediamo: oh, sì, sette, il dispari successivo, cioè il quarto; incredibile. E scrisse ancora: 7 è il quarto dispari 42 - È proprio vero, funziona. E si voltò per dirlo a Guido, per comunicargli quella cosa elegante e sorprendente, ben sapendo però che Guido non si lasciava affascinare da questioni di questo tipo. Ma Guido non c'era più e, neanche a dirlo, neppure Laura. Dante si voltò verso Pinuccia, preoccupato che questa s'adombrasse: - Oh, messere, non vi preoccupate, la purezza di mia sorella non è in pericolo, sa badare a sé stessa. Qualsiasi cosa vi racconterà domattina il vostro amico sbruffoncello, non gli credete: Laura non cederà ad alcuna lusinga; ha una lingua tagliente che smorzerebbe, al momento buono, qualsiasi ardore. Ma so esser tipico dei maschi, la mattina dopo, non ammettere fallimenti amorosi, nevvero? E risero entrambi. - Oh dio, Pinuccia, quanto mi avete mostrato è incredibile, segno definitivo dell'armonia delle monadi pitagoriche, della perfezione del mondo, della grandezza degli antichi. - Vedete voi, come meglio credete, messer Dante. Io preferisco pensare alle meraviglie infinite della nostra amata disciplina, che pervade tutte le conoscenze, e che in questo caso si conferma estetica e bellezza. E così proseguirono, finché durò il buio, dunque per non molto oltre, perché all'alba, anzi poco prima, quando la pioggia ridusse fortunatamente il suo impeto, Dante e Guido se ne dovettero rientrare a Mantova perché al mattino presto li aspettava una delegazione alla quale dovevano fare un'ambasciata politica. Dante e Pinuccia si salutarono come due amanti e più, avendo condiviso, come questi, il piacere dell'estasi. Guido e Laura, un po' più freddi... Quando il carro, trainato da un vecchio ronzino davvero malmesso, raggiunse la strada maestra, Dante chiese a Guido, seduto accanto a lui in fondo al carro, con la schiena appoggiata al fieno, guardando la strada che pian piano abbandonavano dietro: - Beh, e com'è andata con Laura? Avvenente, davvero. - Cristo, non c'è stato nulla da fare. Ero sempre lì lì, ma all'ultimo mi tagliava il sangue e mi gelava le vene. Ho fatto di tutto. Nulla da fare: mi ha arginato ogni mossa. Che notte infame, sono ancora tutto scosso dentro, infreddolito più da quella donna che non dall'umidità. L'avrei amata con tutto il cuore, ma me lo ha impedito. E bravo Guido, pensò Dante, Guido sincero. Ah, quanto gli sarebbe piaciuto dirlo a Pinuccia, che Guido era, in fondo in fondo, sì un po' sbruffone, ma un vero gentiluomo. 9 Conigli Era uno degli incarichi diplomatici fra i più difficili degli ultimi decenni, tanto è vero che la sola discussione sul luogo nel quale andava tenuto l'incontro durò oltre un anno. - Saremmo dovuti venirci in armi - diceva Saro, il legato principale, cavalcando ad andatura ridotta. Era circondato dai quattro diplomatici che lui stesso aveva scelto e seguito da una pattuglia che recava i gonfaloni con i colori di Firenze, ma pure, secondo gli accordi, una bandiera bianca. - In armi, sì, ma allora con tutti gli eserciti - rideva rispondendo con voce grossa Lapo, considerato il "falco" del gruppo. - Otterremo di più così, con una delegazione di pace e cercando un accordo; d'altra parte conviene a tutti, a noi e a loro - rispondeva Antonello, la "colomba". Pisa si vedeva già bene di lontano; svettava su tutta la città il chiarore del Duomo, della Basilica e della Torre e le basse case costruite a est riuscivano appena a nasconderne solo la parte inferiore. - Ecco, dovrebbero aspettarci dopo il ponte, quello là - disse Vito. In quel momento era in testa al gruppo Dante; a un tratto si fermò e avvisò i compagni: - Eccoli, li vedo, saranno una decina in tutto. Saro, il saggio; Lapo, il falco; Antonello, la colomba; Dante, il colto; Vito, l'esperto. Questa era la delegazione fiorentina giunta alle porte di Pisa per una discussione all'ultimo sangue: o si risolveva politicamente la questione territoriale di confine o era, definitivamente, la guerra. Ma sia Pisa che Firenze avevano problemi interni, e forti, in quel momento, e nessuna delle due voleva perder tempo e soprattutto danaro in una guerra; d'altra parte, un successo politico, in quel momento, sarebbe stato opportuno per entrambe le fazioni al governo. - Salute a te, Saro, e benvenuto a Pisa - disse il capo delegazione di Pisa. - Salute a te, Ennio, e speriamo che il viaggio non sia stato invano. Così, con parole di benvenuto, iniziò il lavoro di mediazione politica che durò oltre un mese e che, si sa, vide il successo delle due delegazioni che trovarono accordi su tutto il territorio; i litigi furono furibondi, più volte la delegazione fiorentina minacciò di abbandonare il tavolo delle trattative; più volte Ennio minacciò tutti i legati fiorentini di morte; più volte Lapo insorse furioso contro i suoi, inveendo per la loro eccessiva condiscendenza; eccetera, come in ogni discussione politica, come sempre. Le cronache raccontano di tutta la questione con ampi dettagli, nomi, fatti e date; ma nessuna racconta di quel che Dante cercò, in quei giorni, nel pomeriggio, alla fine dei lavori, rischiando molto avventurandosi da solo per Pisa, dove i cittadini fiorentini non erano proprio ben visti da tutti. Due tre giorni dopo l'arrivo, infatti, Dante si mise a uscire tutti i pomeriggi, avventurandosi nei vari quartieri di Pisa e chiedendo a chiunque incontrasse per la strada dove si trovasse la casa di Bonaccio, padre di Leonardo, detto il Bigollo. Ogni tanto qualcuno mostrava di aver sentito questo nome, ma poi nulla, non si riusciva a trovare. Ebbe allora l'idea di andare alla notaria pubblica dei commercianti per nave per chiedere informazioni; dato che Bonaccio era stato commerciante di sete, spezie e profumi con le coste settentrionali d'Africa, doveva dunque aver posseduto qualche nave. Gli dissero che sì, che quello era il posto giusto, ma che le informazioni sugli armatori erano riservate; né Dante ottenne di più offrendo qualche moneta e spiegando che non stava cercando informazioni commerciali, ma solo la casa dove avevano abitato a lungo Bonaccio e il figlio Leonardo, morti oramai da tempo entrambi. - Sentite, nobile fiorentino, queste informazioni davvero non posso darvele; ma se aveva navi, e dunque era un armatore, sarà stato vicino al vecchio porto, non ne convenite? - disse l'impiegato strizzando l'occhio. - Ah sì, grazie, proverò - disse Dante, ma con poca speranza perché vicino al porto aveva già tentato. Tornò dunque al porto vecchio ed entrò all'osteria, piena di marinai; all'oste chiese se avesse mai sentito nominare Leonardo, il figlio di Bonaccio, detto il Bighello. - No, io mai; ma chiedete al vecchio proprietario dell'osteria; io sono qui da dieci anni, lui forse sa qualche cosa di più. Questa sì che era una buona idea; si fece dire dove abitava ora, lì a pochi passi, e vi si recò. La casa era una tipica costruzione da porto, bassa, praticamente una sola stanza; la porta era aperta, come si usava a quell'epoca, e Dante spinse l'uscio chiedendo: - Posso? Posso entrare? Sono Dante da Firenze. Entrò, ma non c'era nessuno. Una stanza confusa così non l'aveva mai vista. Ciarpame dappertutto, pezzi di reti di mare, un letto sfatto da anni, scarpe, vestiti, calzari, sedie, lampade, sembrava che ci fosse stata una battaglia pochi minuti prima. Il vecchio oste non c'era; Dante uscì ed attese fuori, nella speranza che potesse rientrare. Passò di là una vecchia signora dall'aria nobile che squadrò Dante dalla testa ai piedi; si fermò e gli chiese: - E voi, chi siete? Siete forse il nipote di questo disgraziato - fece, indicando la casa - tornato dall'Africa? - No, signora, in verità non lo sono e non conosco il proprietario di questa casa; ma gli devo chiedere un'informazione. Sapete voi per caso dov'è? - Eh sì, purtroppo. L'altro giorno ha bevuto troppo, è un buon uomo, sapete? S'è sentito male, malato com'è e male in arnese. E così l'hanno ricoverato al vecchio ospedale dei derelitti. Io credo che la sbornia gli sia passata, oramai, ma di solito li tengono dentro due o tre giorni anche dopo. - Ah, e dov'è, di grazia, questo spedale? - Dovete prendere dietro i Capitani e poi... Ma tanto non vi faranno entrare, non fanno entrare neppure i parenti. L'unica è che torniate domani a provare e poi ancora il domani dopo. - Ah, che rabbia, così perderò altri giorni - si fece scappare Dante. - Ma insomma signore, chi siete e che cosa cercate? Con ben poca speranza, Dante le disse che cercava di rintracciare la casa di Bonaccio e di suo figlio Leonardo, che voleva vederla, parlare con i loro discendenti. Era infatti un fervido ammiratore del grande maestro d'abaco. Il volto della donna s'illuminò: - Siete fortunato, signore, posso aiutarvi io. Seguitemi. Dante, incredulo, era al settimo cielo; seguì la donna, con molta fiducia e questa volta pieno di speranza. Camminarono per un po', poi la donna si fermò e gli chiese: - Ma chi siete, e che cosa cercate? - Mi chiamo Dante degli Alaghieri, sono fiorentino e sono qui in delegazione politica. Ma sono scrittore e scienziato e voglio rendere omaggio a questo grande; e, se possibile, chiedere di lui a qualcuno che lo conosca bene. In fondo è morto solo pochi anni fa. La donna sorrise e riprese in silenzio il cammino. Dopo varie stradine, giunsero in una piazzetta, dominata da un grande palazzo in decadenza. La donna si avvicinò all'uscio, estrasse una grande chiave e la introdusse nella toppa, dopo di che si rivolse a Dante: - Voi che siete più giovane di me, abbiate la compiacenza di aprire, ché ogni volta per me è un sacrificio. Sapete, devo chiudere, uscendo, per via dei ladri. Non è più come una volta. Non fu banale, ma poi, alla fine, Dante riuscì ad aprire ed entrarono. La casa era grande, fredda, impolverata, ma in ordine. Salirono con estrema lentezza un grande scalone interno mentre Dante si guardava all'intorno e sperava in un miracolo; la vecchia signora s'aggrappava a un passamano di metallo fissato lungo la parete. Finalmente la donna arrivò a una porta massiccia e scura, s'arrestò, sorrise a Dante, e l'aprì. Meraviglia! Una biblioteca immensa, con scaffali ordinati e pieni di polvere, libri fitti fitti, rotoli, carte dappertutto, ma in bell'ordine, stiletti e piume d'oca dovunque, calami di vario colore... Dante si guardò attorno stupito, finché la donna disse: - Ecco, signor mio, ecco la sua stanza, i suoi libri, il suo studio, quello di Leonardo, mio fratello maggiore. Dante le si avvicinò, la ringraziò, le diede un sonoro bacio sulla guancia: - Ah, è così dunque, è così; lui stava qui. - Notte e giorno, dopo i suoi viaggi. - Ditemi, vi prego, ditemi tutto se potete. Si sedettero in due ampie poltrone e la donna raccontò: - Mio padre era buono, ma molto esigente; alla mia nascita la mamma morì di parto e le forze abbandonarono allora mio padre. Io ero piccola e non ricordo, so solo che era una discussione continua. Leonardo studiava tutto il giorno qui, aveva 15 o 16 anni, e mio padre lo rimproverava perché non s'occupava degli uffici suoi. Ma Leonardo non ne voleva sapere. Un giorno, dopo una frustata a sangue, Leonardo partì, sotto gli occhi impietosi di nostro padre, con destinazione Bugia. Sapete dov'è? - Non so, credo sulle coste mediterranee d'Africa. - Sì, infatti, nelle vicinanze del popolo che si chiama algerino, proprio sulle coste mediterranee d'Africa. Mio padre commerciava in tessuti, spezie e profumi che importava e rivendeva qui all'intorno; ma venivano anche da lontano per comprarglieli. Questo palazzo lo comprò lui, pensate, prima ch'io nascessi, non s'ebbe in eredità. Quando Leonardo tornò, mio padre pensava che avrebbe intrapreso la professione; io ero allora una giovinetta, ma ricordo ancora che Leonardo gli disse di no, definitivamente, che aveva scoperto cose grandi a Bugia e che doveva trascriverle in un libro. Mio padre tentò di tutto, ma non ci fu nulla da fare. Fu costretto ad assumere un giovane commerciante di grande valore e, per essere certo che non lo tradisse, decise di legarselo con un matrimonio. - Fu vostro marito, dunque? - Sì, avete indovinato; fu un marito adorabile, fedele, lavoratore infaticabile, e questa fu la fortuna di Leonardo, ché mio padre non lo torturò più. Leonardo scrisse in due anni, era giovanissimo, ché aveva vent'anni circa, il suo famoso Liber Abaci, ma gli rimase la fama di Bighello che qui si dà a chi non fa un mestiere, a chi non suda. Ma lui sudava, eccome; io lo vedevo, giorno e notte qui dentro a scrivere; io gli portavo tisane, ché soffriva di leggera gastrite e mali di capo, ma lui no, a scrivere. Io non sono persona di grande cultura, signore, Dante, avete detto? Ma l'ho seguito finché ho potuto. Lo chiamò l'imperatore e mio padre, che era ancora vivo, non poteva crederci. Lo convocò a Palermo per una disfida contro gli infedeli, che Leonardo vinse. Insomma, mio padre morì contento: suo figlio celebre matematico di corte, sua figlia sposa felice a un giovane dabbene che avrebbe proseguito nella mercanzia. Solo che, meno d'un anno dopo, mio marito perì in un naufragio vicino a Pantelleria, e io non feci in tempo ad avere figli; Leonardo sposarsi neppure per sogno, e così vendetti tutta la flotta e le mercanzie residue, e con la rendita vivo poco meno che decorosamente, anche grazie ai denari che Leonardo, di tanto in tanto, guadagnava per perizie e altre consulenze. Ecco, questa è la storia. - Ma lui, Leonardo dico, com'era? Che tipo era? - Simpatico, sempre battute, un po' insolente, strafottente... Dante si rese conto d'improvviso che fuori era scuro e che dunque lui doveva correre: aveva un'importante cena con tutti i legati a corte; salutò rapido la signora, le chiese il permesso di poter tornare l'indomani e, avutolo, si congedò. Corse rapido alla cena, ma aveva in mente ben altro, tante domande, una su tutte: la questione dei conigli. Il pomeriggio dopo, manco a dirlo, Dante era lì. Non aveva neppure pranzato per correre subito. Riconobbe facilmente il palazzo, bussò al portone più e più volte, ma nulla. Oh dio, che rabbia. Dove sarà la signora? Ieri l'aveva incontrata per strada, infatti, e quindi forse era solita far due passi, chissà, andare a trovare un'amica, una parente. Un passante lo vide: - O che cercate la Gina? - Sì, beh, non so, a dire il vero non m'ha detto come si chiama; la signora che vive qui, la figlia di Bonaccio. Avevamo appuntamento. - Sapete, è un po' sorda; è certamente in casa, ma come farvi sentire? Gina, oh Gina, mi sentite? - urlò a perdifiato l'uomo. In quel mentre si sentì rumore dietro la porta e l'anziana signora da dentro disse: - Spingete, spingete, che da sola un ce la fo. Il passante si mise a ridere, come a dire "Avete visto?", salutò e se ne andò. Dante spinse con tutte le sue forze e il portone si aprì: - Vi avevo sentito, che credete che sia sorda? Ma per arrivare a voi, un po' di tempo mi ci vuole. Ricominciarono da dove avevano lasciato, seduti, ammirando tutto all'intorno. - C'è una domanda che voglio farvi, se me lo sapete dire voi. - Di che si tratta? Mio fratello mi spiegava tante cose, ma alcune non arrivavo a capirle, per quanto si sforzasse, e lui rideva, rideva, e mi burlava, ma con amore. - La faccenda dei conigli, signora. Tanto se ne parla, ma io non so, non ho mai trovato davvero una spiegazione convincente. Ne sapete nulla? - Oh sì, quella sì, beh, è facile. Che volete sapere? - Niente, solo com'è, come funziona. - È presto detto. Dunque, voi sapete che i conigli presto s'ammalano e muoiono e che sono prolifici assai. Bene, la prima cosa dimenticatela e fate con me questa ipotesi: che s'abbia una coppia di conigli, maschio e femmina, giovani, appena nati. Il primo mese i conigli non figliano, ma dal secondo mese in poi, sempre, ogni mese, figliano una coppia, ancora sempre maschio e femmina. La domanda è: dopo un anno, quante coppie di conigli vi sono? - È questa la domanda? - Sì, provateci e io vi seguirò. A Leonardo piacevano molto le sfide e voi sembrate un giovane arguto. Ah, sareste stati bene a discorrere insieme. - Bene, grazie, ecco, ci proverò. Il primo mese una coppia; al secondo mese ancora una perché non figliano, no? Al terzo mese la coppia figlia e quindi sono due coppie. Al quarto mese le coppie sono quelle due ma la prima coppia figlia ancora e fanno tre; la seconda coppia non figlia ancora; dunque, in totale al quarto mese sono tre coppie. Al quinto mese la prima coppia figlia ancora e la seconda inizia a figliare, più le tre di prima, fanno cinque. Cinque in tutto, nevvero? - e la signora annuì, sorridendo. - Ora andiamo al sesto mese; dunque abbiamo le cinque coppie, ma sono tre quelle che possono figliare ché l'ultima nata è troppo giovane e fanno otto in tutto; dunque al sesto mese sono otto coppie. Al settimo mese, dio mi sto perdendo, sono ancora le otto, ma in quante figliano ora? Le cinque di prima, le tre nuove nate no, dunque fanno in tutto tredici. Sto confondendomi... Non ci arrivo a un anno. - Fate dunque come avrebbe fatto lui, con stilo e calamo, con appunti scritti, non tutto a memoria. Dante s'avvicinò al tavolo e con circospezione e reverenza sollevò una piuma, ne intinse la punta nel calamaio, prese un brandello di rotolo e scrisse: - Dunque: mese I coppie I mese II coppie I mese III coppie II mese IV coppie III mese V coppie V mese VI coppie VIII mese VII coppie XIII Ecco, fin qui ci siamo; ora proseguo, al mese otto; ci sono le tredici coppie, più quelle che figliano che sono, dio, mi sono perso davvero... - E qui l'arismetrica aiuta, avrebbe detto Leonardo. Guardate bene, signore, questi numeri, questi - e indicò i numeri delle coppie. - Che vedete? - Oh, nulla, e che vedo mai? Vedo come numeri disordinati, non so, aumentano, ma come? - Guardate bene i numeri, tutti. Il XIII, per esempio, che relazione ha con chi lo precede? - Oh dio santo - scoprì d'improvviso Dante. - Il XIII è la somma dei due precedenti. Aspetta aspetta, sì, sì, è così: ogni numero nuovo è sempre la somma dei due vecchi precedenti. Che magia. - È così, Dante; proseguite con l'arismetrica e senza perdervi. E Dante aggiunse: mese VIII coppie XXI mese IX coppie XXXIV mese X coppie LV - Cinquantacinque, così tanti? Non è possibile, davvero che magia è mai questa? mese XI coppie LXXXIX mese XII coppie CXLIV - Un numero immenso, non lo posso credere. - È così Dante, la cosa è straordinaria; crescono dapprincipio poco alla volta, poi sempre più in fretta. Leonardo diceva che questa successione è magica perché è presente nella natura, in ogni dove, ma io questo non l'ho mai capito. - Doveva essere un personaggio straordinario. - Sì, lo era - e la vecchia signora aveva chiuso gli occhi abbandonandosi alla poltrona, come a ricordare tempi felici, trascorsi in compagnia di un fratello che l'adorava e che lei idolatrava. S'addormentò. Dante prese a girellare per la stanza, toccando manoscritti, spolverandoli un po' con il dorso della mano per leggerne i titoli. Su una madia chiusa era appoggiata una chiave; Dante la prese e con quella aprì il vasto sportello intarsiato. Dentro c'erano manoscritti, Dante trasalì, forse i manoscritti originali del grande studioso. Li prese in mano uno ad uno, e infatti lesse: Liber abaci; Practica geometriae, Liber quadratorum; Flos super solutionibus quarundam quaestionum ad numerum et ad geometriam, vel ad utrumque pertinentium; De modo solvendi quaestiones avium et similium; Libro di merchatanti di minor guisa; e altri. Era felice: aveva tra le mani un tesoro. La più copiosa ed importante opera matematica di quei secoli. Quanto gli sarebbe piaciuto avere il tempo e la capacità di leggere quelle cose, per impadronirsene, per farle proprie, per usarle, ma anche solo per il puro gusto di conoscere. Passò molto tempo toccando, spolverando, leggendo qua e là, ma dovette a un certo punto andarsene. Non poteva farlo così, senza salutare la signora che era stata tanto gentile; s'avvicinò, la scosse un po', dolcemente, finché questa aprì gli occhi dicendo, come spesso fanno gli anziani: - Non dormivo mica, o che si è creduto? Si salutarono come due vecchi amici che condividevano un tesoro comune; la vecchia si fece promettere una nuova visita, cosa che Dante, in effetti, nei giorni successivi fece ancora. 10 Angeli, tanti ma tanti angeli Dante aveva percorso quella parte di strada che porta a Campo dei Fiori tante volte; il selciato così brullo, e da chissà quanto tempo consunto dalle ruote dei pesanti carri e dagli zoccoli delle bestie, gli faceva dolere i piedi. Avrebbe dovuto far risuolare i calzari, questo sì, oramai rimasuglio di quelli fatti fare su misura anni prima, quando la fortuna gli era compagna e amica; e tuttavia il dolore non era solo colpa di quelli. In ogni caso, meglio quella pavimentazione che non la successiva, da Campo dei Fiori a San Pietro, tutta fangosa e melmosa in qualsiasi periodo dell'anno, lungo il Tevere o poi oltre, fino a Castel Sant'Angelo. Il pensiero sulla strada aveva interrotto, però, un altro e ben più profondo ansioso pensiero che lo tormentava da settimane: gli angeli. Creature incorporee, ideate a rappresentare la potenza di Dio, immagine stessa della grandezza e della gloria, immortali, esistenti da sempre. Ecco il punto: già tutte esistenti da sempre, o in perenne nascita? Una nascita continua di angeli avrebbe significato il perdurare della grandezza immutata di Dio, nella sua assidua lotta contro il principe delle tenebre, il maligno, Lucifero, anch'egli angelo decaduto. Ma come farli nascere, dove, quando? Il freddo pungente lo costrinse ancora una volta a cambiare di pensiero: strinse il mantello che copriva la palandrana celeste, calcò ancora di più il copricapo senza visiera, dotato di paraorecchi ricoperti di lana, ma le gambe continuavano a essere gelate. Strano freddo per Roma, e poi di marzo, quando già l'inverno lascia il posto, almeno di solito, alla nuova stagione. "Ah le stagioni, le stagioni non sono più quelle di una volta", si sorprese a pensare, e si mise a ridere lui stesso per la banale stupidità di quella frase da vecchio: è un modo di dire che solo gli anziani usano, e forse lo dicono da ogni epoca e per chissà quanto ancora lo diranno. In Campo dei Fiori ardeva un falò, un falò enorme, forse presagio, intravide Dante nel fondo della sua mente, di altri falò accesi qui, in questo stesso posto; ma non riusciva a capire il perché di quel curioso presentimento. Il falò era stato appiccato dai netturbini che avevano raccolto immondizia, avanzi, topi morti, foglie, sterpi e altre cose, e invece di trasportarle chissà dove, avevano deciso di eliminarle lì stesso, seduta stante. Per fare prima e far ardere di più, avevano usato legna secca di faggio, lì a portata di mano, che crepita molto e produce molte scintille. Scintille, tante, tante, a ogni istante... La mente fertile e fervida di Dante già rimuginava qualche cosa, già presagiva una grande idea. Si fermò, sollevò la veste per scaldarsi le gambe, e si godette quell'istante di tepore immediato che gli scaldò subito le cosce. Angeli, una quantità infinita. Infiniti esseri asessuati, incorporei, a garantire la grandezza, la potenza, la gloria di Dio. Sì, ma se sono infiniti, sono infiniti e basta. Se sono già infiniti, che ne nascano di nuovi o no, che importa? Più che infiniti non possono essere, pensava Dante. Sarebbe più bello, più suggestivo, e anche più eccitante, se fossero tanti, ma tanti tanti, d'un numero che nessun ingegno umano sappia pensare o costruire; allora sì, la gloria di Dio sarebbe enorme. Tanti angeli che nessun umano sappia contarli, ma non infiniti, che possano nascerne ancora, sempre, ogni giorno, che dico, a ogni istante. Una scintilla, più violenta delle altre, gli colpì il ginocchio destro e Dante, più per la sorpresa che per il dolore, in verità, fece un rapido salto all'indietro. - Ahó, e statti attento - replicò una voce alle sue spalle. Dante si rese conto d'aver pestato qualcuno che, come lui, ma a più prudente distanza, stava raccogliendo con soddisfazione lo stesso calore. - Oh, messere, perdonatemi, ma una scintilla... - Sì, ho visto, non ti preoccupare. Non fa niente. - Grazie. Ho fatto un salto più per la sorpresa che altro. - Bello il fuoco, eh? E che strano freddo per Roma in marzo, non trovi? - Lo stavo proprio pensando anch'io ed è per questo che mi sono fermato. - Beh, ora devo proprio andare. Peccato. Questo calduccio se ne andrà fatti pochi passi. - Questo è il guaio del foco da focolare. Ti riscalda solo di fronte e solo quell'istante che ti proponi. Poi, pluff, svanisce - disse Dante, aprendo la mano con un gesto, a rinforzare il suo curioso "pluff". - Voi siete toscano, no? Si sente da come parlate. - Sì, sono di Firenze, sono qui da due giorni e mi fermo altri due. Ho da sbrigare certe cose in Vaticano. - Io ci lavoro in Vaticano, sono uno dei pochi esterni, lo sapete che significa, vero? - e Dante annuì. - Prendo servizio tra un'ora e sto giusto andando al di là del Tevere. Mi fermo a farmi un bicchiere alla taverna all'angolo, e vado. - Un bicchiere di Frascati sarebbe quel che ci vuole per dare un po' di tepore, e poi proseguire verso quelle anguste e fredde sale. - Chi dovete vedere? - Il cardinale Malaspina mi deve dare una risposta a una domanda della delegazione fiorentina, ch'io indegnamente rappresento. - Ah, ma voi siete dunque quel guelfo che dicono, il poeta? - Poeta è titolo immeritato per me, ma scrivo, sì, scrivo di poesia, e sono guelfo, o, meglio, sono, in questo momento, portavoce. - A dirla in verità - disse l'uomo, piuttosto basso e corpulento, che non arrivava alla spalla di Dante, e sarebbe stato più sbrigativo saltarlo che girargli attorno, avvicinando la mano alla bocca per indicare che parlava a lui solo - a dire la verità, a me i guelfi mi sono simpatici - si voltò da ogni lato. - Ma guai a dirlo forte in Vaticano - e si mise a ridere. Pure Dante sorrise e già s'erano avviati insieme verso la vicina taverna. La porta era chiusa, di legno pesante e logora di fuliggine, e al solo aprirsi fece uscire un odore nauseabondo di castrati, fettuccine, abbacchi, oli, sughi, lardi, strutti, vini, fetori d'ogni tipo accumulati negli anni e soprattutto in quel lungo inverno che non voleva finire. Il cavolo, poi, la faceva da padrone, con quell'odore che tanto contrasta con il sapore. I due si sedettero a un grande tavolo al quale, sorpresa per Dante, che mai si sarebbe aspettato di vedere una cosa simile in una bettola che pareva tanto di malaffare, sedevano coppie di giocatori di scacchi. Per quanto alto fosse il rumore all'intorno, e di ogni tipo, le coppie erano silenziose e concentratissime, di ogni età, e tutti maschi. - Che succede? - chiese Dante al suo interlocutore. - Ah, domenica c'è qui proprio a Campo dei Fiori la sfida a scacchi della città, e qui si riuniscono i giocatori di questo rione. Vedi quello là? - indicando un giovane piuttosto spelacchiato e male in arnese. - Quello è un vero campione. Giocò rappresentando Roma contro i francesi e vinse 8 a 4. Fu il papa stesso a chiamarlo, fingendolo nobile; la sua fama corre pe' tutta Roma. Nel frattempo, come per magia, lettura del pensiero o semplice richiesta dell'occasionale compagno, l'oste aveva portato una fiaschetta di Frascati e due bicchieri sozzi. Dante versava e sorseggiava, ammirando la concentrazione, riflettendo sulla sua stessa sorpresa. Aveva dimenticato gli angeli e il fuoco e le scintille; ma certo, come capita nelle teste dei poeti e dei matematici, autonomamente qualche cosa lavorava incoscientemente al posto suo, scrivendo, collimando, cercando, rimando, deducendo, creando. E angeli e fuoco entravano in rotta di collisione per chissà quali destini poetici finali. Non infiniti, ma tanti, per poter nascere perennemente, e poi il fuoco, gli scacchi... - E tu giochi? - Come? - rispose Dante, colto di sorpresa. - Ah, a scacchi dite? Sì, un poco, una volta ero abbastanza abile, ora è tanto che non c'ho più tempo. - Qui dentro la passione è tanta. Si fanno pure scommesse forti, sai? - Ah sì? E chi raccoglie le scommesse? - Oh, beh, dipende, a volte l'oste, a volte io stesso, a volte altri. Però i giocatori no, a loro non è permesso. - E quanto si gioca? - Dipende, uno gioca quel che gli pare. - E quanto si vince? - Straniero, che domanda. Anche questo dipende. Se giochi sul campione, poco o nulla. Se giochi sul più scamorza, la posta la chiamiamo Sissa Nassir - e si mise a ridere a crepapelle. - Come? Che dici? Non capisco. Che c'è da ridere? - Ah, non lo sai? È molto divertente, te lo devo raccontare dunque. E sottovoce, per non turbare i giocatori, l'impiegato del Vaticano, del quale le cronache non hanno tramandato il nome, raccontò a Dante della leggenda, tanto famosa, secondo la quale il gioco degli scacchi fu inventato su commissione. - Il re di Persia, il più potente sovrano del suo tempo, chiamò un famoso mago, Sissa Nassir, e gli disse: 'Inventa per me un gioco bellissimo, che io lo possa giocare in ogni momento, e che sia imperituro'. Sissa inventò gli scacchi e li donò al re che fu talmente contento che gli disse: 'Hai superato te stesso; chiedimi ordunque come ricompensa quel che vuoi e sarai accontentato'. E Sissa chiese, semplicemente, un po' di riso. 'Come, un po' di riso', ribatté il re incredulo e divertito. 'Chiedi di più, quel che vuoi'. Ma Sissa insisté, finché il re disse: 'E sia, tutto il riso che vuoi ti sarà dato'. E chiamò il gran ciambellano, che era anche l'abacista di corte. Sissa chiese un granello di riso per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza, e così via sempre raddoppiando, fino a completare le caselle della scacchiera che lui stesso aveva inventato. Il re rise a crepapelle, pensando: 'Che idiota, poteva avere metà del regno'. Ma il gran ciambellano sbiancò in volto. Si volse al re e disse: 'Maestà, temo che non potremo accontentare Sissa Nassir'. 'Oh bella, e perché?' chiese il re allibito. E il ciambellano fece presente al re che anche raccogliendo tutto il riso di Persia e di Cina e di India e di ogni terra emersa, non solo il riso del raccolto attuale, ma il passato e il futuro nei tempi dei tempi, mai e poi mai si sarebbe ottenuto tanto riso, il cui valore superava di miliardi di volte quello del reame stesso. E così finì che Sissa Nassir fu decapitato per alto tradimento reale, e il gran ciambellano fu condannato a fare i conti di quanto riso era quello richiesto. E credo che ancora lo stia calcolando, e giù un'altra risata, questa volta un po' troppo rumorosa, tanto che si prese irati "Shhh", da parte di molti giocatori e anche da avventori. - Ah, sì, avevo sentito questa storia, a Bologna; e anche altrove, ma non ci avevo mai fatto caso. E, per dio, quanto fa tutto questo riso insieme? - Oh beh, questo non lo so; ma dev'essere un numero grande, spaventosamente grande, infinito. - Eh, no, messere - disse Dante - per quanto grande, infinito non può essere... e iniziò a pensare per suo conto, bofonchiando tra sé e sé: "Infinito non può essere, perché i chicchi, ogni volta, sono una quantità finita e la somma prevede solo sessantaquattro addendi. Come può essere infinito? Sempre finito sarà, ma grande, Dio onnipotente, tanto grande che nessun essere umano può contarlo"; e la sua mente, a sua stessa insaputa, elaborava idee: angeli, fuoco, scintille, non infiniti, ma tanti tanti angeli a gloria di Dio, un numero immenso a ogni istante, riso, scacchi... "Ma quanti? Vediamo: 1 sulla prima casella, 2 sulla seconda e fanno 3. 4 sulla terza e fanno 7. 8 sulla quarta e fanno 15. 16 sulla quinta e fanno 31. Dio, facendo così non arriverò mai, mi perdo, mi perdo, però non sembra un numero così grande, non mi sembra. Eppure, questa storia, più o meno così, la raccontavano dappertutto; dicono, ora mi ricordo, che ha origini antiche. Che posso fare dunque per conoscere questo numero?". Dante, senza accorgersi, s'era alzato e stava per andarsene, tutto preso dai suoi pensieri; ma l'oste lo bloccò sulla porta, dicendogli semplicemente, ma in modo esplicito, un romanissimo: - Ahó, embe'? - e Dante si scusò, pagò il vino suo e quello del compagno di strada, lo salutò e andò all'incontro con quel cardinale, ma con ben altro che gli frullava in mente. Una settimana dopo era a Firenze e stava parlando con un giovane che gli era stato raccomandato da Paolo: - Mi manda il maestro Paolo; dice che avete bisogno di me. - Voi siete l'abile abacista del quale lui mi parla? Così giovane? Voi sapete fare calcoli d'ogni tipo, anche lunghi e complessi? - Sì, così dicono e così è. Faccio i calcoli, qualsiasi. - Bene, se così è, vi pagherò per il calcolo seguente - e Dante gli spiegò che voleva raddoppiare e raddoppiare da uno in poi per sessantatré volte e sapere non solo quanto era l'ultimo raddoppio, ma quanto era la somma totale. Il giovane non esitò un istante: - Sta bene - disse - domani vi darò il risultato, senza meno. Pareva molto, forse troppo sicuro di sé e Dante, per un momento dubitò, pensando: "E dopo, come controllerò se il risultato è giusto?". -Va bene - disse ancora Dante - ma che il risultato sia quello giusto, altrimenti non vi darò nulla. Io già so quanto fa, devo solo controllarlo. - Sull'anima mia, se vi darò un numero risultato, sarà quello giusto, altrimenti non mi dovrete nulla. Presero appuntamento per il crepuscolo del giorno dopo e Dante non dormì tutta la notte, steso accanto a Gemma: L'incendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che 'l numero loro... Tante scintille, tanti angeli, come in un fuoco schioppettante, ogni scintilla un angelo nuovo, tanti tanti angeli ogni istante, per la gloria di Dio. Solo, devo trovare quanti, come dire quanti... Il giorno dopo il giovane abacista lo stava aspettando, col viso paonazzo. Sembrava avesse visto il diavolo, altro che angeli. - Che succede? - gli chiese spaventato Dante. - Gli è che, alla faccia del calcolo, ci ho impiegato tutto il crepuscolo di ieri, la notte, la mattina e il pomeriggio e ho appena terminato. Un calcolo incredibile, colle figure degli Indi, sempre raddoppiando, da 1, per 63 volte. Mi sembrava di impazzire. - Oh, madonna, e che fa, quanto fa, insomma? Ditemelo. Il giovane abacista non proferì parola; estrasse dal tubo, che portava con sé a spalla come una faretra, un rotolo e lo dispiegò. Era pieno di calcoli da far paura, peggio di un papiro egizio scritto e riscritto più volte, financo negli interstizi; mostrò in silenzio a Dante un numero scritto alla maniera degli infedeli in fondo a destra: - 18 446 744 073 709 551 615. - Oh dio - fece Dante - e come si legge? - E che ne so? I 709 sono milioni, i 73 sono miliardi; ma prima? Un numero grande, ma grande, per il quale non c'è nome. Sembra una magia - disse il giovane abacista. "Una magia", rifletté Dante: L'incendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che 'l numero loro... - E siete sicuro che sia esatto? - Esatto? All'unità. Tutta notte per fare i controlli, e anche mio zio, lui pure abacista, pe' controllarli. Dante consegnò una somma consistente al giovane che se ne andò, e si mise a mirare e rimirare questo numero: La gloria di Dio, diceva tra sé e sé, però, dev'essere maggiore di quella di Sissa Nassir. Sissa raddoppiò la sua richiesta di riso di casella in casella, Dio non può dunque solo raddoppiare, deve chiedere di più alla potenza sua; deve fare di più, è come se usassi lo stesso criterio di crescita, ma invece di raddoppiare potrei triplicare, moltiplicare per 100, o... Una specie di corto circuito mise in connessione la poesia, la matematica, la teologia, la fantasia. L'incendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che 'l numero loro più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla. - S'immilla, ecco sì. Se l'uomo raggiunge vette numeriche così impervie, raddoppiando, che cosa impedisce a Dio di moltiplicare per mille, immillando? Uno sulla prima casella, mille sulla seconda, un milione sulla terza, e così via, un numero divino, non umano, eppure finito, ma istante per istante, ogni scintilla... A gloria di Dio, eterna: angeli, non infiniti, ma di numero superiore a qualsiasi estro umano: L'incendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che 'l numero loro più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla. Dante tentò, si dice, da vecchio, a Ravenna, di trovare un abacista in grado di dirgli quanto facesse quel numero, ponendo come limite a Dio, che assurdità, lo stesso numero di caselle di Sissa, e cioè "immillando" a partire da 1 e per 63 volte. Ma la storia non ci racconta di alcun matematico medievale in grado di fare questo calcolo, di mostrare cioè che, in ogni istante, da quel fuoco paradisiaco nascessero 1 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 001 di angeli a gloria di Dio. 11 Necessità - Trovami un esempio, dunque. - Il fatto ch'io non sappia trovarti esempi è al più dimostrazione della mia scarsa indole all'invenzione, alla creazione, se vuoi: dimostrazione di mio scarso intelletto o fantasia; nulla dice sulla tua asserzione, non la prova né la contraddice. - Come sarebbe a dire? - Se io non trovo esempi di una cosa, nulla di sicuro so su quella cosa. Solo i controesempi in questo caso mi potrebbero aiutare. - Sì, capisco; ma io m'affanno a convincerti e tu mi dai contro, la proposta è tua; se vuoi ch'io l'avvalori o l'accetti, fammi un esempio. Questa discussione, più o meno sempre uguale, si ripeteva da anni. Dante, convinto assertore delle tesi modali di Aristotele, ancora non si capacitava della vera portata dei sillogismi modali e non arrivava ad afferrarli. Guido, invece, dubitava assai di tutto l'impianto teorico e, a bella posta, giocava a far l'avvocato del diavolo contro le tesi di Dante. La discussione s'accendeva in ogni dove: per la strada, in taverna, in viaggio, a cena, nelle case dei due quando si incontravano, da soli, in compagnia, sempre. Tanto che a volte i loro occasionali compagni, che spesso non capivano una parola di quanto veniva discusso tra i due, li zittivano, minacciandoli di buttarli entrambi in Arno dal Pontevecchio. Ora stavano discutendo all'aperto, in piazza della Signoria, vestiti elegantemente insieme ad altri legati, aspettando da un bel po' la delegazione di Lussemburgo in visita ufficiale a Firenze. Erano tutti in bell'armi, pennacchi e alabarde, cappelli a falde larghissime, sotto un Sole non cocente. Dal Lussemburgo avrebbe dovuto alfine giungere una carovana che si sarebbe fermata prima d'Arno; scortata com'era da quel di Pistoia, forse addirittura dalla Venturina o da Porretta, da alcuni plotoni fiorentini a cavallo; dalla carovana si sarebbe staccata una elegante carrozza che sarebbe giunta con due scorte, quella loro e quella nostra, in piazza. Cerimonia, musiche, discorsi, e poi salita a palazzo per il pranzo. Tutto pronto. I lavori politici veri e propri sarebbero cominciati all'indomani e non si presentavano semplici affatto. A Dante era stata affidata una questione complessa e sottile, che avrebbe dovuto discutere con uno dei più brillanti e dotti ambasciatori di Lussemburgo. La spavalda giovinezza di Dante contro la sicura esperienza del Lussemburghese - così lo chiameremo, dunque. Della carovana nessuna notizia. Della elegante carrozza, evidentemente, meno ancora. E i legati, per lo più anziani, aspettavano. Chi poteva s'era seduto. Dante e Guido s'erano messi all'ombra del palazzo e appoggiati ai massi che da tempo erano lì dopo un restauro e che dovevano ancora essere rimossi. - Basterebbe trovare un esempio di contingenza che è tale da sola, ma che posta accanto a una necessità si trasformi anch'essa in necessaria. - Ma allora non sarebbe contingenza. Che dici? - Allora no, proviamo a ricominciare daccapo. Fammi un esempio di necessaria e contingente che siano proponibili come premesse. Mi basterebbe per capire, per intuire. Io provo a dedurre la conclusione e vediamo se non può proprio essere necessaria, come tu dici. - A parte il fatto che non lo dico io, ma Aristotele. - Dante, mi meraviglio di te. Uno come te che s'appella a un nome per difendere una propria teoria? - Sì, hai ragione. Ho avuto un momento, che dire? Di debolezza. Dunque, un esempio. Vediamo. Prendi un semicerchio e... - No, no, con la geometria non mi freghi più, ci sono già cascato altre volte. Non so perché, ma lì m'imbrogli sempre. Fammi degli esempi concreti, di vita reale. - Eh diavolo, è che... Ma furono interrotti perché giunse un soldato trafelato a cavallo che annunciò l'arrivo della carovana di là d'Arno e quindi il prossimo giungere degli ambasciatori di Lussemburgo. - Alla fine, non ne potevo più. - Bene, andiamo a conoscere questi nostri ospiti. E che Dio ce la mandi buona. - A me, più che a te - concluse Dante. Tutti i legati fiorentini ripresero dignità d'aspetto, si spolverarono, si ricomposero e si misero in fila, com'erano prima. Dopo un bel po', giunse una carrozza molto elegante e stranamente pulita, lustra addirittura, si potrebbe dire, trainata da quattro cavalli possenti. Ne discesero sei personaggi eleganti, che sembravano freschi freschi, appena usciti da una doccia. Avvenne tutto ciò che era previsto in copione, e Dante pensava, tra sé e sé: "Chi sarà il mio uomo?", perché ancora non aveva elementi per distinguerlo tra tutti. Durante il pranzo vi furono le presentazioni ufficiali e, finalmente, Dante seppe qual era il "suo" lussemburghese. Era il più magro e alto, segaligno, naso aquilino più del suo, occhi sporgenti che sembravano lì lì per cadere, nessuna ruga in viso, età impossibile da definire, tra i 30 e i 50 anni. Si vedeva subito che sarebbe stato un avversario duro e temibile, un osso duro, come si cominciava a dire da un po' tra il popolo. Persona di evidentemente nessuna simpatia, certo non tipo da portare in taverna a gozzovigliare per farselo amico. - Ah, Dante, Dante degli Alaghieri, che fortuna conoscervi. Ho letto cose vostre e vi ho ammirato molto - gli disse il suo lussemburghese, in un affabile e dotto volgare assolutamente imprevisto, quando li presentarono l'un l'altro. Certo, Dante non s'aspettava un impatto simile e ne fu grandemente sorpreso e, a dire il vero, inorgoglito. - Ah, grazie. Messere, voi mi fate arrossire. E che dire, allora, dei vostri scritti politici che io ho divorato? A dire il vero, Dante li conosceva solo per nome; era roba di una noia mortale ma circondata da una fama enorme. Non solo voleva in qualche modo contraccambiare i complimenti, mettendosi subito alla pari, ma dimostrare che c'era stata da parte sua una preparazione previa a quell'incontro, che s'intimorisse un po'. - Davvero avete avuto il coraggio di leggere quelle mie carte di una noia mortale? - fece il lussemburghese, guardandolo fisso negli occhi, come se gli avesse letto nella mente. - Davvero voi avete avuto il coraggio di leggere le mie pessime poesie, scritte in modo così ingenuo? - controbatté il fiorentino, guardando il lussemburghese fisso negli occhi. E scoppiarono tutti e due a ridere a crepapelle, come matti, tanto che tutti si voltarono a guardarli stupiti; nessuno sapeva che cosa si fossero detti e pareva tuttavia impossibile che, dopo un istante, già si raccontassero barzellette. Alla fine del pranzo era stata prevista qualche ora di sosta per permettere alla delegazione di Lussemburgo di riposare un po'; ma il lussemburghese chiese al Nostro se aveva voglia di far due passi per la città, della quale tanto aveva sentito parlare, ma che non conosceva affatto. Era lì accanto Guido, e Dante propose di far combriccola in tre, presentando i due l'uno all'altro. Partirono dunque, vestiti in modo meno... dovrei dire ridicolo, anche per quei tempi, ma dirò semplicemente pomposo, e Dante e Guido fecero a gara per scegliere angoli suggestivi dei quali Firenze abbondava (e continua ad abbondare). Il lussemburghese era affascinato; era stato a Milano, a Mantova, a Bologna, a Verona, a Genova, a Ravenna, conosceva benissimo Pisa, Roma e Napoli, ma, ironia della sorte, Firenze, questo gioiello universale, gli era sempre mancata. Dante era competente assai in architettura, urbanistica e arte, ma il lussemburghese gli era sicuramente alla pari, ed era una delizia ascoltarli riflettere, osservare, criticare, discutere, suggerire, paragonare. Ciascuno dei due vedeva particolari che riferiva all'altro, arricchendoli di note e sfumature dotte e ardite. Più tardi si sedettero in una taverna di una certa eleganza, nel lungarno che va dalle Grazie a San Nicolò, taverna frequentata bene, e chiesero di rifocillarsi. Dante non sapeva che ordinare per un ospite straniero di sì gran lignaggio e che, per quanto conversatore competente e piacevole, era pur sempre segaligno avversario da temere e battere. Lui stesso lo tolse dall'imbarazzo, però, chiedendo direttamente all'oste: - Che vino avete, buon uomo? L'oste fece un elenco breve assai, ma tutto di vini di alta qualità; il lussemburghese li esaminò uno a uno, associando a ogni nome un riferimento e un commento: - Ah, il Morellino, un buon nero della bassa Toscana, particolarmente gustoso verso la costa del Grossetano; e poi avete il Cepparello, dicevate, vino ora raro assai, un grande nero, particolarmente buono in Val d'Elsa; e ci dite l'Ornellaia, altro nero di gran classe che ricorda gli uvaggi bordolesi, più ricco se ha la vite esposta a mare, al centro della Toscana, tra filari di cipressi. Sempre tra i neri, non ci proponete vigneti vicini, schietto, grazie al microclima che li crea... - e continuò con un vasto elenco di neri che, a suo avviso, mancavano all'oste. - Tra i bianchi, ci proponete, avete detto il Bianco Vergine, volete dire quello della Valdichiana, vicino ad Arezzo, vero? Ed avete il famoso Grattamacco, quello che cresce nei castagneti sotto Livorno, verso il mare? Un vino particolarmente gradevole, da gustare qui seduti, ben fresco; non ne avete? Si potrebbe puntare sul Galestro, che cresce qui d'attorno, o su un rosato affabile, come quello di Bolgheri o del Vigneto Scalabrone, che certo non vi manca. Che dicevate, poi, del Vinsanto? - e continuò per molti minuti a decantare lodi e vizi di decine e decine di vini. Dante, Guido e l'oste stesso erano stupefatti; mai si era vista una preparazione enologica siffatta, non solo perché chi la stava facendo era straniero e di sì lontane terre, ma neppure i fiorentini più appassionati conoscevano solo dal nome le qualità dei vini, e tutte. Poi scelse: - Portateci... se posso permettermi - disse, accennando un breve inchino a Dante e Guido - posso scegliere anche per voi? - e, senza aspettare una risposta, di nuovo all'oste: - Del buon Moscadello fresco, quello di Montalcino, non altri; il suo gusto fruttato ci rallegrerà il palato. - Messere, in nome di Dio, dove avete imparato a conoscere i vini della nostra terra, se neppure l'avete mai frequentata? - Dante, il vino buono è come il cuore delle belle donne: se ne conquisti con competenza l'ardore, avrai tutto il resto. In realtà la frase lì per lì sembrava non calzare molto, ma Dante si ripromise di ristudiarsela poi con calma più tardi. - I miei complimenti dunque, messere. Le vostre continue aperture verso ogni genere di competenza mi affascinano e, devo dir la verità, all'un tempo mi confondono. In che altro siete così dotto? - Dante, non esagerate, ché dette da voi queste frasi suonano stonate. Come, proprio voi parlate? Voi astronomo, scienziato, poeta sublime, matematico, teologo, uomo d'armi, politico egregio, voi dunque elogiate me? - Ma che dite? Dove avete studiato? - Qua e là, in giro per l'Europa, Parigi, Ratisbona, Bologna, in Spagna - ma al sentire Bologna subito Dante s'era scosso: - Bologna, Bologna avete detto? Avete dunque frequentato l'Alma Mater? E quando e per che cosa? Io stesso vi fui studente orsono pochi anni, studente di filosofia morale, teologia e dialettica. - Dialettica, sì, che coincidenza, alle lezioni dettate su ispirazione di Boezio di Dacia. - Io arrivai troppo tardi per quelle - interruppe Dante - che erano cambiati i maestri e i tempi. - Ma mi trattenni poi ancora alcuni anni. - E dunque potremmo semplicemente non esserci mai intravisti? - Impossibile - disse il lussemburghese - perché... - ma s'accorse che Guido dava ampie gomitate a Dante e sottovoce gli suggeriva qualche cosa, sgarbato gesto assai, impensabile tra gentiluomini, ammesso solo perché si trovavano in taverna e non altrove. - Che succede, signori miei? Che vi dite? Ho detto qualche cosa di curioso in questa mia lingua così poco sicura? Ah, dimenticavo, che pessimo narratore sono, che nel frattempo l'oste aveva portato il vino in una brocca pulitissima e consegnato tre bicchieri di terracotta, un poco di pane bianco, formaggio pecorino stagionato già tagliuzzato in dadetti grossi e alcune fette di finocchiona, con tre stecchini di legno appuntiti; il lussemburghese si era già servito da solo, come si usa fare nel Nord Europa (qui da noi chi prende in mano la brocca serve a tutti i commensali, anche se la cosa non sempre è considerata corretta nel galateo moderno). Aveva sorseggiato il vino, sbattendosene gocce da una parte all'altra della bocca, in maniera curiosa assai, aveva annuito e, incredibile a dirsi per un degustatore sì fine, aveva tracannato d'un fiato il bicchiere. Dante aveva versato a sé e a Guido e avevano bevuto un po'. Adesso sì, posso ritornare a Guido che scuoteva a gomitate Dante e gli suggeriva all'orecchio non si sa cosa, mentre il lussemburghese esternava curiosità e forse un poco di fastidio per tutto questo. - Oh no, nulla - fece Dante, un po' titubante - gli è che Guido vorrebbe approfittare della vostra superba competenza in dialettica per proporvi un nostro dibattito che prosegue da anni, ma non è nulla d'importante. Risollevato da queste parole, avendo creduto chissà cosa, il lussemburghese rispose: - No, no, m'incuriosite; dunque, per cortesia, fatemi partecipe della vostra discussione, vi prego. Una discussione su temi dialettici mi appassiona, davvero. L'interesse era genuino e dunque Dante spiegò: - Negli Analitici, proprio nel I libro, quasi all'inizio, lo Stagirita afferma che non è possibile che, in un sillogismo modale, da una premessa necessaria e una contingente possa derivare una conseguenza necessaria. Il mio amico e io da tempo stiamo cercando un esempio, io per confermare la tesi, lui per capirla e forse poi per controbatterla. Io ho trovato tanti esempi, ma tutti nella geometria e lui non li accetta perché dice che la geometria è tutta scienza necessaria in sé. Stiamo allora da tempo cercando esempi tratti dalla vita reale, dalla consuetudine, dal quotidiano e, davvero signor mio, non ne troviamo uno solo. - Sinceramente - disse il lussemburghese con aria assorta - è un punto sul quale io stesso mi sono a lungo interrogato, e proprio giunto in Analitici I 16 - Dante e Guido si guardarono l'un l'altro stupiti per quella dimostrazione di competenza mi sono soffermato a lungo. Ne ho allora discusso con il dotto Aliprando, una notte, a Borgo di San Pietro, castello vicino a Bologna, tra Bologna e Imola, in verità, una graziosa e dotta città sul Sillaro. Lì mangiammo castrato e bevemmo benissimo sotto un vasto ma basso portico, non lontano dal cassero. Ricordo la piacevole serata. Mangiammo tanto, ma tanto, che l'esempio venne ad Aliprando spontaneo - e si fermò, a meditare. Dante e Guido aspettarono qualche secondo, poi, in coro: - E allora? L'esempio? Come scosso, il lussemburghese riprese: - Sì, sì, scusatemi, è che di tante cose parlammo... E il ricordo è ancora vivo. Dunque, se ben ricordo, Aliprando satollo e certo in carne, mi propose: 'se mangio tanto o troppo, necessariamente ingrasso se ho fame assai, mangio dunque se ho fame assai, necessariamente ingrasso' che, nel mio caso - e fece l'atto di mostrare i suoi fianchi, che ricordavano quelli del magrissimo Scotto - è del tutto falso: io ho sempre fame, una fame assillante, ma non ingrasso di un bel nulla - e si rivolse a guardare quei due. Dante prese la parola: - Necessario come prima premessa, contingente come seconda premessa; supponiamo che la conclusione voglia o debba essere necessaria, ebbene no, come mostra l'esempio. E poi, rivolto a Guido: - Ti convince? - Oh sì, l'esempio sì, ma resta il dubbio se debba necessariamente e sempre essere così o solo possiamo andare per esempi. - Guido non ha torto, Dante, ma Aristotele... Ma oramai Dante non ascoltava più; l'esempio l'aveva più o meno convinto, non gli sembrava calzante del tutto, ma la sua testa già stava costruendo qualche cosa che, di lì a poco, avrebbe messo nella sua Comedìa, e già scriveva: ... o se necesse con contingente mai necesse fenno; Narrano le cronache che Dante e il lussemburghese giunsero a un accordo soddisfacente per entrambe le parti, accordo cui nessuno aveva osato pensare prima. Che tale risultato fosse dovuto alla brillantezza dei due politici era certo cosa sicura, ma che buona parte di esso fosse legato a vini, taverne frequentate nei tre giorni seguenti (e non sempre di alto lignaggio, dando spazio a quel lampredotto che felicemente si sposa con quel Chianti), discussioni su astronomia, dialettica e musica, nessuno lo seppe mai. Dante fu invitato a sua volta come potenziale ospite illustre in Lussemburgo, sia privatamente sia ufficialmente, ma la fortuna della sua vicenda politica stava di lì a poco per declinare e tale viaggio non si fece mai. Peccato, perché anche in quelle terre vi sono vini gustosi, certo non come i toscani, ma di una certa qual raffinatezza. E anche le birre dei frati trappisti, così curate e pastose, che da noi, nell'intera nostra penisola, non hanno paragoni. Si possono bere appena fatte, ancora con i fermenti vivi, quasi ancora calde. Chissà, forse Dante le avrebbe gradite. 12 La taverna Come tutti i sedicenni di tutte le epoche e di tutte le civiltà, Jacopo camminava verso casa strascicando i piedi a bella posta, lungo la riva sinistra dell'Arno, con un'andatura studiata, lentissima, da strafottente. Oh, quante volte, negli ultimi mesi, da quando aveva iniziato ad assumere questo modo di fare, la mamma, Gemma, l'aveva rimproverato: - Solleva quei piedi quando cammini, che ti rovini tutta la suola delle scarpe. Ora poi che il babbo è senza lavoro, come fo io? E poi muoviti un po', su, dài. Il babbo senza lavoro, il babbo senza lavoro... Negli ultimi tempi era il ritornello più frequente. - E pensare che io vengo da una famiglia nobile, i Donati, lo sai no? - ripeteva a quel punto la mamma. - Ah, se non avessi incontrato quel bighellone di tuo padre, ah. E pensare che per sposarlo ho dovuto rinunciare a mezza dote e litigare con mio padre Manetto. "Povero babbo" pensava Jacopo "sempre in giro per la penisola, di qua e di là, da un mestiere all'altro, davvero, mai in casa. Un giorno politico, un giorno scrittore, un giorno soldato, un giorno mercante, un giorno podestà, un giorno poeta, un giorno astrologo... Sempre a parlare, con tutti e di tutto, sempre a scriversi certi appunti su date, gente, nomi, e che so io. Una volta col papa, una volta contro". Come tutti i sedicenni di tutte le epoche e di tutte le civiltà, Jacopo ne aveva le tasche piene della scuola, tanto più che non faceva altro che collezionare pessimi giudizi in matematica. "Ma che scalogna", pensava tra sé e sé "dappertutto ci sono i maestri d'abaco girovaghi, che se ne vanno di qua e di là, un mese qui, una settimana lì, solo il tempo d'insegnare qualche cosa e poi via, da un'altra parte. Proprio qui a Firenze ci doveva essere questa bella invenzione delle scuole fisse, qui a Santa Trinita, che mi tocca andarci quasi tutti i giorni, con quell'imbalsamato del maestro che mi urla e mi urla. Io non mi ricordo a memoria quanto fa XXIV via XXXII e lui pretende che io lo calcoli, che lo calcoli, dice lui. Ma come fa, uno, a 'calcolare' tutti, proprio tutti i numeri? Ecco, secondo lui con le figure degli Indi, si dovrebbe fare, aspetta come, non mi ricordo come...". - O Jacopo, e come tu cammini? Con la testa tra le nuvole? Sembri un filosofo. - Babbo, scusa, non sapevo, non ti avevo visto. Che ci fai qui? - Eh, oggi la mamma è tutt'un'uggia e sono uscito a far due passi. Non sapevo che tu passassi per di qui. - Lo faccio tutti i giorni, babbo, quasi tutti i giorni. - E che stavi pensando, si può dire? Si può sapere, così assorto? - Uh, oggi il maestro s'è proprio incavolato, babbo. Voleva che calcolassi XXIV via XXXII. Io ho studiato le tabelline a memoria, babbo, e so arrivare fino a XX via XX. Ma più in là, non ce la fo a memoria. - Eh certo, e come lo si può pretendere? - No, è che lui, lui dice, insomma, che non è memoria è che... bisogna calcolare. - Eh certo, con l'abaco, no? Metti i calculi fino a XXIV e... - No, babbo, è questo il problema; lui non ci vuole far usare i calculi; lui vuole che noi facciamo con lo stilo. - Come, con lo stilo? Erano giunti, intanto, sotto casa, ma le urla della Gemma contro gli altri figli, in particolare contro la piccola Antonia e la povera vecchia governante, si sentivano fin da basso e così decisero di proseguire la conversazione in taverna: dio santo, Jacopo era già in età da soldato, in fondo. Entrarono, Jacopo per la prima volta; e lì si rese subito conto di dove passasse le serate e spesso le nottate il babbo, quando tutti, ma proprio tutti gli avventori lo salutarono con enfasi, alludendo ciascuno a chissà che: - O Dante, te l'eri vista brutta l'altra notte, nevvero? - Dante, un ti dimenticare che a notte ti tocca a te. - E chi ti salva da quelle due, stanotte? E così via. Divertito, un po' impacciato, Jacopo ascoltò le repliche del babbo; per ciascuno aveva la sua battuta pungente: - Io brutta, ma tu peggio, e il brutto a te ti deve ancora venire. A me non mi tocca mai, sempre all'altri. Quelle due vengono per me, ma io non vengo pe' loro. E così via. Dante e Jacopo si sedettero a una tavolaccia unta; Dante chiamò l'oste che, senza ordine alcuno, portò vino e due boccali, un po' di fave fresche, pane e formaggio oltre naturalmente a una carta gialla di paglia piena di lampredotto, quello preferito, di cui Dante era ghiotto assai. Con uno straccio fece l'atto di pulire un po' la tavola, ma solo l'atto, perché il risultato immediato fu il contrario e peggio: un po' della sporcizia dello straccio si andò a sommare a quella che aveva tentato di togliere dal tavolo. - Con lo stilo, dicevi? E che vuol significare? - Babbo, lo so solo di poco, non te lo so spiegare. - E su, dài, dimmi, non ti far pregare. - Guarda - disse Jacopo alquanto infastidito, estraendo dalla sua tracolla uno stilo e un rotolo già quasi tutto pieno, ma fiero del vino che il babbo gli stava versando, il suo primo vino in una taverna. Sorseggiarono, Dante presentò Jacopo a quei due o tre che sembravano meno briachi degli altri. - Guarda, dunque. Dicevamo XXIV via XXXII. Ora, XXIV si scrive così: 24. - Oh, che significa questo? Che è? Come "si scrive", in che lingua? Mi vuoi prendere in giro? - No babbo, è che il maestro Paolo usa la scrittura degli infedeli, gli Arabi, li chiama lui. E dice che c'è un gran vantaggio. - Oh bel vantaggio ci può essere, se XXIV lo scrivo, lo scrivo come? Ah sì, così: 24. E dove sta il vantaggio? - Lui, il maestro, dice che così si possono fare le operazioni. Dice che 2 sono le decine (come il XX) e 4 le unità (come il IV). Io non ci ho capito molto, babbo. - E lo credo. Sarà assai più evidente che venti è XX che non questo segno strampalato, 2. - No, babbo, attento. Se scrivi solo 2, vuol dire due, II. - Ma io voglio scrivere venti e non due. - Eh, babbo, allora devi dire che codeste sono due decine e per far capire questo ci devi mettere zero unità, dietro. - Ma se ci metto zero unità dopo il 2, avrò ancora 2, mica sono grullo io. - No babbo, ci devi proprio scrivere zero. - Ma come, scrivere zero; zero non si scrive, è nulla, come scrivi nulla? - Dice il maestro che gli Arabi scrivono 0, così, per dire zero. E così venti sarebbe, nella loro arismetrica, 20. - Oh per dio, dunque gli infedeli scrivono lo zero? Lo scrivono? Lo scrivono per davvero? - Sì, babbo. Loro ce lo scrivono dietro. Così: 2 vuol dire due, mentre 20 vuol dire venti, cioè due decine e zero unità. - Ma dunque, loro insomma... Oh dio. E così trenta si scrive: XXX, no, cioè... Come cavolo si scrive? - Il trenta ci ha tre decine e zero unità; devi prima sapere quali sono i segni degli Arabi, le figure degli Indi. - Senti un po', grullo, prima che ti prenda a calci. Sono Arabi o Indi? - Boh, questo poi un lo so. So che le cose così le fanno gli Arabi, però 'sti segni si chiamano degli Indi. Non ne so punto. Non so dirti. - Allora, Indi o Arabi, come si scrive III? - Te li dico tutti, babbo. E, felice d'insegnare al babbo perché queste cose lui le sapeva, almeno queste, Jacopo scrisse le cifre arabo-indiane in bell'ordine, dall'1 al 9 e poi lo zero. - Ma perché, perché - diceva Dante quasi tra sé e sé -perché tre si scrive 3, o IV si scrive 4, che senso ha? Sarà pure più evidente se tre è III: uno I, due II e tre III. Madonna bona, non capisco. - Neppure io capisco - azzardò Jacopo, per consolare il babbo e cercando allo stesso tempo solidarietà alla sua ignoranza. - E che c'entra, tu sei grullo. Aspetta, aspetta; se ci ho lo zero, come si scrive? Ah sì, 0, e se voglio scrivere 20, devo mettere un segno dietro l'altro; se facessi XX0, non saprei più qual è il segno delle decine, come dice Jacopo. Dunque, deve essere un segno, un segno solo. Un segno solo, capisci? Un segno solo. Dante sembrava parlare a Jacopo, ma non lo guardava; aveva mangiato una decina di fave, sbocconcellato il formaggio e bevuto un paio di boccali, e parlava in realtà al rotolo spiegato, mirando le cifre che aveva scritto Jacopo. - Non capisci, arabo o indiano che sei? Una sola cifra per dire il due, una sola per dire il tre, altrimenti non capisco quel che devo prendere. Provo a scrivere XLVI; allora: c'è un quaranta, che sono quattro decine e scrivo 4; da solo vuol dire quattro, ma se ci metto dietro il sei, con una sola cifra, allora è quarantasei. Dunque sarebbe 4VI, ma così non si capisce più nulla, se le decine sono il 4 o il V; allora scrivo il sei con una sola cifra, com'è pure? Eccola: 6. E scrivo 46 che vuol dire: 6 unità e 4 decine. Funziona. Funziona? - chiese, rivolgendosi questa volta davvero a Jacopo che un po' l'ascoltava e un po' guardava in un angolo dove una donna non più giovane stava mostrando le gambe ignude a un avventore in cambio d'un bicchiere di vino. Jacopo non aveva mai visto prima delle gambe ignude di donna. - Sì, babbo, è così. Scrivere i numeri è facile. Si possono anche scrivere le centinaia; per esempio CCCXIX si scrive 319. Lo capisci? Il tono pareva un po' a sfottere, ma Dante fece finta di non cogliere; era tutto concentrato. - Certo, se devo scrivere CCCXIX vuol dire che ci ho un trecento, poi un dieci, poi un nove; quindi ci vuole un tre, 3, poi un uno, 1, e poi un 9, è così: 319. Ma certo. Se scrivo 391 ho nove decine e non una. Come se il posto, la posizione delle cifre, quella sì, avesse importanza. CCC, dovunque lo scriva, è sempre trecento, ma il 3 no, dipende da dove lo metto. Bofonchiava tra sé e sé e beveva, e il tempo passava. L'avventore che guardava le gambe un po' flaccide della signora aveva concesso la ricompensa pattuita, ma sembrava ora chiedere di più. Jacopo era molto, molto interessato a quell'angolo lontano della taverna. - E come faccio se devo fare CCXXII? Oh, questa è bella; se il 2 lo metto davanti a tutti e vale per dugento, come faccio poi con le decine? Ci vorrebbe un altro 2 e chi me lo dà? Che devo fare? Ehi, citto, ehi dico a te, ma che stai guardando? Ah, brutto sporcaccione, guardi le gambe delle donne, eh? Terrorizzato d'essere stato colto in flagrante e consapevole del fatto che quel suo guardare avrebbe certo dovuto meritare castighi apocalittici, rosso in volto, Jacopo si coprì la testa con le mani per evitare colpi furiosi, provando a borbottare un inutile: - No, ma che dici, io? - che aveva un suono così falso che lui stesso ne avrebbe riso in altra circostanza. Fu ancora più sorpreso, però, dal fatto che il babbo non s'adirasse per nulla, e che anzi, sorridesse tra sé e sé. La mamma lo avrebbe certo ammazzato di botte... - Beh, effettivamente hai, quanti? 16 anni, no? È l'età giusta. Forse una sera, se Gemma, la mamma, non fa storie, ti porto qui con me, vediamo, sì vediamo... Però dài dimmi 'sta cosa - e gli spiegò le sue titubanze sulla scrittura di CCXXII. Jacopo rise a crepapelle: - Ma tu di 2 ne hai finché ne vuoi, mica ce n'è uno solo. Perché non lo puoi riscrivere ancora? 222, 333, 4444 - sempre ridendo. - Oh, dio! - esclamò Dante, letteralmente in estasi: aveva scoperto la magia della scrittura posizionale dei numeri, grazie a suo figlio Jacopo che frequentava una delle poche scuole fisse della sua epoca, allievo di arismetrica del maestro Paolo dell'Abaco. 13 A casa di Paolo Il maestro s'era fatto attendere solo un poco. Dante lo stava aspettando in una specie di budello angusto, un corridoio che dava nell'aula grande. Era buio e lui stava in piedi, così che, quando il maestro s'avvicinò, Dante non lo poteva vedere bene. - Dante degli Alaghieri, padre di Jacopo e di Pietro? - Sì maestro, sono proprio io, grazie per aver accettato di ricevermi. - Sono oramai tre, quattro o forse più anni che il suo primo figliolo frequenta la mia scuola, ma è la prima volta che vi vedo, o no? - Beh, sapete, sono stato spesso in viaggio, per politica, per affari, per studio, per lavoro. Però mia moglie Gemma credo che sia venuta, a volte. - Sì, sì, non dico. Solo che Jacopo ancora sta alle tabelline e non s'ingegna d'apprendere. Credo che gli gusti più la musica, l'astrologia, un poco più la geometria; ma con i numeri, però, con i numeri non ci azzecca. Avevo detto a vostra moglie che... - Perdonatemi, maestro Paolo, ma, che lo crediate o no, non sono qui per Jacopo; o meglio, sono qui a causa di Jacopo, ma non per lui, insomma. - Non vi capisco, che intendete dire? - Ieri Jacopo m'ha detto delle figure degli Indi e di come gli infedeli scrivono i numeri. - Jacopo, a voi? E che vi ha detto, proprio lui? Chissà che confusione, che pasticcio avrà fatto. - No, no, al contrario, ho capito molto bene. Come si scrivono i numeri con le cifre, che il due si può ripetere più volte, che gli Arabi scrivono lo zero. Con le cifre romane non si scrive, non serve. O che novità l'è codesta? Dante parlava con enfasi, agitando le braccia, entusiasmandosi vieppiù. - Calma, calma. Sì, è tutto vero, ma voi non siete un politico? O c'è chi dice uno scrittore o un poeta. Che v'importa di tutto questo? - Io sono un uomo di scienze e provo gusto a sapere e praticare di tutto. Ho scritto di scienza, di astronomia, di lettere. Ma la geometria e l'arismetrica mi appassionano e mi sento tanto ignorante. Pure la dialettica mi appassiona e l'ho studiata a Bologna. - Beh, bene; sono stupito, sì, sono stupito. Però, ancora non capisco. Che volete da me? - Maestro Paolo, Jacopo mi dice che voi sapete calcolare XXIV via XXXII senza calculi, con lo stilo su di un rotolo - Paolo sorrise divertito. - Lui non me l'ha saputo spiegare, ma io devo sapere, devo vedere. Che magia è mai questa? Paolo sorrideva ancora. Abituandosi pian piano al buio avevano cominciato a scorgersi l'un l'altro. Dante indossava un vecchio vestito ancora elegante, con una sciarpa d'ermellino, come gli era consentito, avendo fatto parte in passato del Consiglio speciale del Capitano del popolo; portava un cappello di velluto fine, un po' liso, come una specie di cappuccio stretto; sotto il pastrano sporgevano maniche lunghe, pure quelle di velluto, lise ancora di più. Il viso era tirato, molto magro, i capelli di mezza misura ancora piuttosto neri, il naso molto pronunciato, gli occhi penetranti erano di fuoco e miravano dritto alle pupille dell'interlocutore. Era certo persona che non avrebbe mai abbassato lo sguardo, di fronte a nessuno. Paolo era vestito molto più modestamente, un lungo pastrano di lana che in passato doveva essere stato bianco; aveva una lunga barba quella sì davvero bianca, occhi allegri ma anch'essi penetranti, circondati da mille e mille rughe che gli solcavano il viso dappertutto ma che attorno agli occhi creavano come una fitta ragnatela; era magro ma muscoloso, i capelli anch'essi erano bianchi, bianchi e lunghi. I due si fissavano negli occhi, diverse intelligenze a confronto, fermi, risoluti e pieni di entusiasmo. - Bene, dunque - disse Paolo - e che facciamo? Io vi posso insegnare, spiegare, ma non qui, non ora, serve uno stilo, dobbiamo sederci. - Maestro, io vi posso aspettare qui fuori, quando avete finito andiamo dove vorrete voi. Qui all'angolo c'è una bettola che... - No, per favore, no, non facciamoci vedere costì, l'è luogo di malaffare. Venite più tardi, all'imbrunire, a casa mia. Che ne dite? - Oh sì, è un grande onore per me. E, di grazia, dove vivete? - Conoscete il cantiere di Santa Maria Novella? Guardandola a fronte, è proprio la prima casa a sinistra, a piano basso, dentro in fondo. Chiamatemi, se è il caso. - Maestro, ci sarò, all'imbrunire. Grazie. Si lasciarono e le ore passarono rapide; Dante rifletté sul 222 sul 2222 sul 22222 e così via, inebriato, estasiato da questa idea tanto semplice e geniale; eppure, eppure non riusciva a immaginarsi come fare a calcolare, senza calculi, ma con uno stilo, XXIV via XXXII, anzi no 24, via 32. - Maestro, maestro Paolo - gridò Dante entrando nel portone della casa indicata; e una voce dal fondo, mentre una porta si apriva, gli disse, al buio: - Per di qua, di qua; qua sono. I due si sorrisero, già complici, già meno formali di quanto fossero stati la mattina stessa. - Allora, Dante, siete pronto ad apprendere? - chiese Paolo. Aveva già acceso una lanterna puzzolente e una candela sul tavolo; erano già pronti, in bella vista, ordinati e a portata di mano, tutti gli accessori per scrivere e un rotolo quasi nuovo dispiegato, tenuto fermo ai bordi da due pesi, due blocchetti di marmo, raccolti forse in cava a Carrara o per la strada attorno alla Signoria o a Ponte Vecchio, rimasugli di qualche scultura. - Ora più che stamani, maestro. Realmente, muoio di curiosità. - Oh, ce l'avessero i miei allievi una curiosità così d'apprendere. Jacopo, poi... Allora, che vi devo spiegare? - Maestro, una cosa sola, la magia degli infedeli per calcolare senza calculi XXIV via XXXII. - Bene, bene, è semplice - disse Paolo. Si sedettero su due alti e vecchi sgabelli di legno, appoggiandosi entrambi al tavolo, di fronte al rotolo dispiegato. Dante raccolse la parte finale del pastrano, lo stesso della mattina, sulle ginocchia, si rimboccò le maniche e appoggiò il mento sul palmo, facendo forza sul gomito nudo. Il maestro Paolo, intingendo più volte lo stilo nel calamaio, iniziò a scrivere: - Dunque, ecco, voi già sapete come si scrivono 24 e 32. Li scrivo ora così, dentro un reticolato: Va bene, è chiaro? - Oh, sì chiarissimo. Proseguite pure. - Ora nelle caselle di centro tracciate come delle diagonali, per partirle in due, così: e poi fate i calcoli con le tabelline, come 3 via 4 che è 12 e lo scrivete al posto giusto così: e poi continuate con tutti gli altri uguale: L'è tutto chiaro? - Sì, certo, è tutto molto semplice; ma ora? Io i calcoli li ho già fatti a casa e lo so già quel che viene; li ho fatti con l'abaco e deve venire... - No, attento, non me lo dite, non mi dovete rovinare la sorpresa. - Va bene; e mo', che facciamo? - Allora adesso fate le addizioni in diagonale, come vi fo vedere io ora, qui, qui, e qui: ed ecco dunque il risultato: 24 via 32 è 768, cioè DCCLXVIII. - Lo sapevo, è quello giusto, non importa che me lo scriviate in romano, lo so scrivere pure io in cifre degli Indi, è 768. Perbacco, è lui, è esatto, madonna bona! Dante era allibito, anzi, era stordito: semplice, semplice, semplice. Molto più rapido dell'abaco, meno confusione, niente sassolini, tavole, pesi. - Che ne dite di un bicchiere di vino? - chiese il maestro Paolo; ma Dante era totalmente assorto e non s'accorse neppure dell'offerta. Si stava chiedendo come fare con i riporti, con lo zero, con numeri grandi. Ma aveva capito che lo strumento era potente, incredibilmente potente. - Vi chiedevo se volete accettare un bicchiere di vino; è vino senza nome, ma lo fanno certi amici miei, me lo mandano dal Chianti. A sentir nominare il Chianti, la valle che tanto gli era cara, Dante si voltò, non aveva sentito la frase, ma capì l'allusione al vino e accettò. Ma il maestro non s'alzò, aveva già dimenticato l'offerta ed anzi disse: - Ci sono anche altri sistemi, come la crocetta, per esempio, e il raddoppio. - Crocetta, raddoppio. Oh, Paolo, per favore, fammi vedere, non mi tener sospeso. È la cosa più bella della vita mia. Com'è la crocetta, cos'è il raddoppio? Paolo accettò di buon grado che quell'uomo così positivamente famoso, per scienza, poesia e politica, non altrettanto per virtù, gli si rivolgesse dandogli del tu e decise di farlo anche lui: in fondo era più vecchio e il maestro in quel momento era lui. E poi, si sa come vanno le cose in politica; oggi Dante non è nessuno e anzi c'è aria che tira contro di lui, ma è stato famoso politico in passato e chissà, con il ritorno dei bianchi al potere, chissà, forse la sua scuola di Santa Trinita ne avrebbe potuto trarre vantaggi. - Sì, ti fo vedere la crocetta. Stavolta scrivi i due numeri così: - Senza quadretti? - chiese Dante. - No, stavolta non serve nulla. Ora metti 'sti segni così: Ora vedi di fare, cominciando da destra: 4 via 2 che è 8 e lo scrivi qui sotto: 8 Poi 2 via 2 plus 3 via 4 che è 4 plus 12 cioè 16. Il 6 lo metti dinanzi all'8: 68 e l'uno lo conservi per dopo. Ora, infine, che ti manca? 2 via 3 che è 6, però devi aggiungere quell'uno che ti restava e che dunque è 7, e lo metti... - Davanti al 68, beh fa 768. Come prima - esclamò Dante, precedendo Paolo. Ma è impossibile, è una magia, un miracolo - continuava Dante, agitando le mani al cielo, entusiasta. - No nessun miracolo, è tutta arismetrica araba, geniale e semplice. - Ma perché a Bologna non me l'hanno insegnata così, perché usare i calculi? - Lo sai bene che questa roba viene dagli infedeli; molti cardinali si sono già dichiarati contrari, e il papa sta decidendo. Che cosa possiamo fare contro le gerarchie? Io la insegno, ma insegno pure l'abaco. - Non lo posso credere, Paolo, mi sembra un sogno. Questa si chiama crocetta, e la prima come si chiamava? - C'è chi la chiama fulminea, c'è chi scachero, chi reticolo, ha tanti nomi. Ma non ti dimenticare il raddoppio. - Paolo, dimmi, ti prego, dimmelo. Ma il maestro Paolo si era alzato e, questa volta senza chiedere nulla, aveva preso due bicchieri dal secchiaio, puliti e freschi, aveva versato del vino rosso, scuro come il sangue di Cristo nelle pitture di Giotto in Assisi, e aveva appoggiato uno dei due sul tavolo, vicino al fianco di Dante, bevendo d'un fiato il suo. - Ecco, questa è ancora più antica, dicono che la facessero già gli Egizi. Scrivi così, i due numeri l'uno a fianco all'altro: 24 1 - 1, ma come 1? Non era 32, Paolo? Che fai? - Non ti preoccupare, tu inizia sempre da 1. - Se lo dici tu. E poi? - Ora raddoppia tutt'e due, che fa 48 e 2, e scrivili sotto, così: 24 1 48 2 e così via sempre raddoppiando, finché te lo dico io. Dante prese sul serio la consegna e, facendo facili calcoli di raddoppio a mente, scrisse: 24 1 48 2 96 4 192 8 384 16 768 32 A questo punto, Dante si fermò, allibito e incredulo, esclamando: - Ma questa è una magia, eccolo qua ancora, 768. Ma la cosa non va in generale, e se non mettevo 32? - O buon uomo, 32 tu me lo hai detto tu, mica l'ho scelto io. Comunque non ti preoccupare, la cosa funziona sempre, sempre, non t'allarmare. Vuoi fare una prova? - E sì, eh? Facciamo con un dispari, diciamo 14 via 11. Allora, vediamo se ho capito: scrivo 14 e 1 così: 14 1 e poi raddoppio, raddoppio sempre: 14 1 28 2 56 4 112 8 Dante stava per raddoppiare ancora, ma Paolo lo fermò: - No, no, basta così. - Ah, vedi - disse Dante - che mica ce lo trovi l'undici? Paolo stava sorridendo e con calma infinita gli disse: - Vedi lì a destra? Prendi quei numeri che ci hanno come somma 11. Quali sono? - È ovvio - disse Dante. - Otto e due dieci, e uno undici. - Facci una crocetta a parte, così: Ora addiziona i numeri della colonna di sinistra che stanno all'altezza della crocetta. Quali sono? - 14 e 28 e 112 che fanno 42 e 112... Mi pare 154. Tu mi stai dicendo che 14 via 11 è 154? Sarebbe un'altra magia? È proprio vero? Paolo sorrideva, muto. - Oh, dio, non ci posso credere. Davvero? Aspetta che provo. Ce l'hai qui un abaco? - Dante, un abaco a casa mia non serve. - Il buffo è che ti chiamano Paolo dell'Abaco, scusa, scusa. Dunque 14 via 10 è 140; basta aggiungere dunque 14 che fa, dio, madonna bona, è vero, l'è proprio vero, fa 154. Dante era in quel momento l'uomo più felice del mondo. Preso dagli algoritmi che da pochi decenni erano entrati in Europa quasi di nascosto, non s'era accorto che quella casa, costituita da un'unica stanza, puzzava in maniera nauseabonda, che la candela stava terminando il suo servizio e che s'era fatta notte fonda. Non si ricordava neppure che due donne l'attendevano alla taverna, né si dava pena che Gemma si sarebbe infuriata, immaginandosi chissà quali nuove corna ancora. 14 Il Sole Dante non era un grande ballerino, e lo sapeva. Far coppia con lui, però, era molto ambito da dame e signore della Corte, per via del suo nome ("Ho ballato con Lui ieri sera" era frase piena di orgoglio, da comunicare alle amiche la mattina dopo). Tutte ammettevano che Dante era uomo di fascino immenso e che, durante il ballo, era perfino talvolta possibile scambiare con lui, adulatore sublime, qualche parola. Né poteva sottrarsi a questo sacrificio; anzi, al contrario, era giusto e fruttifero farsi amare da tutti e tutte, per quieto vivere. E, dopo tutto, era molto facile far credere a qualsiasi dama, giovane o vecchia, di avere un posto speciale, nel proprio cuore, riservato a lei. Solo che quella notte, dopo tutto il giorno passato a lavorare, non ne poteva proprio più. Riuscì a evitare la giovane e flaccida signora che, dopo averlo pesantemente puntato, si stava dirigendo verso di lui, per fortuna molto lentamente, per costringerlo a una lunga danza; durante una breve pausa per permettere ai musici di cambiare ritmi e strumenti, Dante si dileguò nel buio corridoio, con un piccolo pezzo di tartina in mano, che gettò al primo angolo, fingendo di cercare qualche cosa, qualsiasi cosa, l'orinatoio (che, però, di solito era all'aperto e in un luogo appartato e distante) o il vestibolo o un cameriere. Solo, finalmente, al buio, si appoggiò alla colonna e respirò, ricavando dalla grande apertura senza vetri una boccata d'aria della notte. Il cielo era pienissimo di piccoli punti luminosi e Dante, con la sua grande esperienza di astronomia, avrebbe saputo nominarne parecchi. Ogni volta il fascino della notte lo colpiva e ancora di più aveva breccia su di lui la differenza tra la potenza del Sole durante il giorno e l'oscurità totale (ché allora era davvero totale) della notte. Il mistero della sparizione del Sole ancora non era a quei tempi proprio del tutto chiaro. E ancora più misteriosa era la sparizione dei punti luminosi (stelle, pianeti, pianetini, satelliti, globi, comete, asteroidi, masse erranti etc.) durante il giorno. Dante aveva una sua teoria, ma non tutti erano d'accordo. Molti dicevano che, così come il Sole se ne andava per cedere il passo alla notte, così all'alba le stelle e gli altri corpi celesti se ne andavano per cedere il passo al Sole: teoria poco scientifica, ma democratica. Ma Dante era convinto di una cosa diversa assai: che le stelle di giorno ci fossero, eccome, nel cielo, ma che la luce del Sole fosse talmente forte da renderne impossibile la visione; guardando il cielo di giorno, qualunque essere umano vedeva il Sole o la sua luce sfavillante, restandone quasi immediatamente abbagliato, perdendo dunque la possibile visione delle stelle. Così come il Sole illumina gli altri corpi celesti e di esso non è possibile sostenere la vista, così... Così... gli sarebbe piaciuto trovare un bel paragone per il Convivio, di quelli che, quando riescono bene, riempiono la pagina e vengono citati insieme al nome del loro autore. Non s'era accorto che alle sue spalle c'era una larga tenda, spessa, di velluto blu, che si confondeva dunque con il buio assoluto dell'androne che lo stava riparando, la notò solo una volta che si fu assuefatto di più all'oscurità. Provò a scostarne leggermente un bordo, per vedere che cosa c'era dall'altra parte, e scoprì che si trattava dei musici, i suonatori. A quei tempi, a motivo di una curiosa e a noi incomprensibile cosiddetta decenza, era vietato ai musici essere presenti fisicamente nella sala dove nobiluomini e nobildonne danzavano; e a questi ultimi era vietato vedere i suonatori, essendo lecito solo ascoltarne il suono. Proprio nel momento in cui Dante sollevò il lembo, vide che il gruppo, dopo un riposo di qualche minuto (e allora capì come mai c'era stato tanto silenzio fino a quel momento), era lì lì per riprendere. Il capo musico stava dando le norme per la prossima esecuzione, muovendo la mano destra in modo ritmato e dicendo a voce bassa un semplice: - Uno due tre quattro, uno due tre quattro, capito tutti? Uno due tre quattro ripetendolo cinque sei volte, con lo stesso tono. Poi la musica cominciò, dolce e ritmata, in verità abbastanza melensa e sempre uguale e Dante pensò, con un sogghigno pieno di soddisfazione per lo scampato pericolo, "Di là le coppie hanno di certo cominciato a danzare e la cicciona avrà smesso di cercarmi". Uno due tre quattro, ripeteva tra sé; e, chissà perché, questo suono, tutto mentale, effettivamente ben si accompagnava alla melodia; sembrava anzi quasi che i suonatori, anziché suonare musica, dicessero o suonassero tutti in coro "Uno due tre quattro". Dante si trovò a danzare, da solo, al ritmo di "Uno due tre quattro, uno due tre quattro", e la cosa lo sorprese assai. "È come se la musica, nella sua essenza estrema, fosse permeata di aritmetica; questa non è una novità, Pitagora lo sapeva bene quando elaborò la sua teoria; e lo sanno bene i musici quando compongono melodie. E lo sanno bene i pedagoghi, quando mettono insieme musica e aritmetica. Già...". Questo lo fece pensare: "Musica e aritmetica, ma è l'aritmetica che permea la musica, non viceversa. E del quadrivio fan parte anche...". - Oh, messer Dante, vi ho trovato alfine - fece una voce affannata ma non sgradevole alle sue spalle, evidentemente di nobildonna. Dante sobbalzò e temette il peggio; si voltò e sì, diamine, era lei, la scomposta e affannata signora che lo stava puntando da tempo per un ballo. - Signora, che grande onore mi fate, affermando di cercare proprio me - rispose Dante, spudoratamente, con fare galante, avvicinandosi e sorridendo. Oramai la frittata era fatta, la sua fortuna stava declinando a rotta di collo ed era oramai irreparabile. Dante si sforzò dunque di limitarne i danni. - Messer Dante - disse la signora, riparandosi il viso sudaticcio che avrebbe voluto color porpora per fingere disagio e timidezza, e che invece era bianco come l'interno di una banana africana quasi matura - voi mi confondete. - Vi avevo già notato, splendida dama, e pensavo di venire or ora a cercarvi per un ballo. Dante stava cercando un rapido ritorno tra la folla degli invitati, temendo quel buio, quella solitudine e le possibili avances della dama. Ma, come temeva: - No, messer Dante, no. Non rituffiamoci in quella folla civettuola. Restiamo qui appartati, noi due, soli - disse, con un'occhiata a tre quarti, maliziosa e ammiccante. "Oh dio, no, salvami tu" pensò Dante; ma disse invece a voce alta e ferma, molto virile: - Ma qui soli, voi ed io... La nostra assenza sarà notata; che penseranno di noi? La signora non rispose; era quel che Dante temeva: che la loro assenza di coppia fosse notata, questo era lo scopo preciso della dama, dunque. Poter far sì che il pettegolezzo della notte stessa e della mattina dopo fosse quello; che le sue amiche, immaginando chissà cosa, la cercassero per saperne di più; al che lei avrebbe ammiccato, sorridendo senza nulla ammettere né negare, facendo finta di nulla, facendo dunque credere a ciascuna quello che voleva, diventando l'eroina per un giorno o due. - No, signora. Io devo proteggere il vostro nome, e che sia così - disse Dante e, ancora con fiera virilità, la prese per la mano e la tirò con forza verso la sala. Ma la dama era talmente ben piantata per terra, sulle sue gambotte ben ricoperte di una sottana larghissima - che tuttavia non riusciva a nascondere il diametro dei fianchi - che non gli riuscì di trascinarla seco neppure per un centimetro, se anche questa misura fosse esistita allora (mancavano ancora sei secoli e mezzo). La donna, senza neppure far caso allo sforzo vano del Poeta, strinse a sua volta quella mano virile con la sua manina bianca e delicata e, rivelando una potenza incredibile, lo tirò a sé portandolo alla finestra d'un balzo. - Oh, Dante, ditemi delle stelle - e la vocina stridula, non più affannata, in realtà, sembrava volesse dire ben altro. Con la mano stritolata, ancora in equilibrio instabile su di un solo piede, Dante prese alla lettera la domanda e cominciò a parlarle di stelle, di corpi erranti, di Sole, di Luna, di tutto quel che poteva, ma in maniera tecnica, senza nulla concedere alla poesia né alle sdolcinate frasi che, in ben altre circostanze e compagnie, così bene avevano funzionato. La dama, incredibilmente, accettava tutto con grande avidità scientifica e faceva domande intelligenti e pertinenti; "Dio" pensò Dante "vuoi vedere che mi sono del tutto sbagliato?". E, preso allora davvero da impeto, cominciò sul serio a parlarle, dandole importanza, rispondendo a tutte le domande. La dama era veramente felice. Guardava le stelle e Dante con la stessa cupidigia: - Una domanda da sempre mi assilla, messer Dante; e qualcosa, il mio cuore forse, mi dice che stanotte avrò finalmente la risposta da voi, che siete così abile e così competente, vero? Dante aveva completamente cambiato atteggiamento verso la dama; ora la vedeva diversa, curiosa, intelligente, perfino colta. - Ditemi, bella signora - ora la trovava davvero perfino bella. - Tenterò, con la mia modesta conoscenza, di rispondere a qualsiasi domanda vostra. Se lo potrò, e se vi accontenterò, sarò l'uomo più felice della Terra. - Ecco, messer Dante, non ridete di me e della mia domanda tanto sciocca. Sì? D'accordo? Sempre mi sono chiesta, da bambina, e nessuno mi ha mai saputo dar risposta, dove vada nottetempo il Sole e dove vadano di giorno le stelle. Oh, vi sembro sciocca? È una domanda stupida? Temo il vostro giudizio, Dante - e, così dicendo, gli prese nuovamente la stessa mano ancora dolorante e la stritolò ancora di più, fracassandone falangi e metacarpi e annerendone tutte le unghie in una sola volta. - Ahi - fu il contenuto urlo di dolore di Dante, che avrebbe voluto esprimere ben di più; liberata la mano e frizionandola con l'altra, aggiunse: - Ma questa non è una domanda banale, anzi. È la domanda che si fanno in tanti e alla quale non tutti sanno dare risposta. - Oh, grazie; allora non pensate di me che sono una stupida? Vero? Se non fosse stato per la mano stritolata, effettivamente ora, in tutta sincerità, Dante avrebbe potuto rispondere adulando; ma, pensò rapido, Dio non voglia ch'io mi ritrovi la potenza di costei a più stretto contatto. - Stupida? - si limitò dunque a dire, ma con voce neutra e distante. - Che dite mai bella signora. Comincerò col rispondere alla seconda domanda. E le spiegò la sua teoria, quella secondo la quale le stelle e i corpi celesti sono sempre presenti in cielo, ma la luce del Sole eccetera eccetera. - Oh, affascinante e convincente - disse lei. - Per cui, se potessimo schermare per un momento la luce del Sole, anche di giorno potremmo vedere le stelle, no? Ma guarda, pensò Dante, giusto. E si stava volgendo a lei con stupore, per esternarle la sua ammirazione, e per poi passare alla prima domanda (quella su dove va a finire il Sole di notte), quando un gruppo di giullari, vestiti in maniera buffa e colorata, prendendo a calci un nano che fingeva di piangere rotolandosi a ogni pedata, invasero e illuminarono a giorno il corridoio reggendo mille torce in mano, urlando d'improvviso a tutta voce e trascinando con sé tutti o quasi gli invitati in una corsa, come si usa fare ancora oggi, con ciascuno che teneva le mani sui fianchi di quello davanti. Oggi si chiama treno, allora si chiamava serpente. Dante e la signora furono dunque sorpresi da tutti alla finestra, vicinissimi, lo sguardo di lui dolce e concentrato su di lei, che stava per dirle quel che sappiamo e che pure non era affatto quel che tutti invece credettero e che la signora fece poi a lungo intendere nei giorni a seguire. Furono dunque risucchiati da quella folla, allontanati l'uno dall'altra, lei più goffa e lenta, ma, ora lo sappiamo, solo nel corpo; lui strapazzato un po' dai compagni che lo sfottevano e dalle altre signore che se ne contendevano le attenzioni. E la notte finì più o meno così. All'alba della mattina dopo, Dante aveva tutto chiaro in mente; aveva dato risposta ai pensieri che stava facendo prima dell'arrivo della signora (le storie ne riportano il nome, ma non narrano, come qui stiamo facendo, la reale verità degli avvenimenti di quella notte, lasciando, a bella posta, un alone di dubbio). L'aritmetica pervade la musica, la geometria e financo l'astronomia, pervade tutte le scienze e non solo; la sua luce è tale che alla sua presenza si vede solo quella e occorre la "notte" per scoprire davvero la realtà, per vedere non abbagliati dal Sole dell'aritmetica: così come il Sole illumina gli altri corpi celesti e di esso non è possibile sostenere la vista, così l'aritmetica illumina e permea tutte le altre discipline scientifiche, pensò dunque e scrisse Dante. "Chissà mai se i posteri mi passeranno questa immagine...". 15 Piramidi - E così, voi avete girato il mondo, signor mio. - Il mondo intero, no, ma molte città della penisola sì, e non solo. - E quale, quale delle città vi è sembrata più bella, quale ha saputo esercitare su di voi il massimo fascino, a quale i vostri ricordi non vi possono far rinunciare? - È ovvio che il cuor mio fu e sempre sarà a Firenze, la mia patria, dalla quale sono costretto a star lontano, forzato, non per mia scelta. - Che cosa rimpiangete di là, vostra moglie, i vostri figli, la famiglia, gli amici? - Sì, tutte queste cose, ma nessuna di esse in particolare. Sapete, è come aver fatto parte d'un tutto ed esserne staccato a forza. È come perdere la propria identità: tu sai d'essere là, parte di quella realtà, ma fatti contingenti ti staccano, ti avviliscono, ti allontanano. Dovunque tu vada, poi, sei straniero, anche dove sei accolto bene. Tu non ne hai colpa, non hai scelto tu l'esilio. La colpa è del destino: la ruota del tempo gira, altri destini, altre politiche; un giorno un principe bizzoso, un giorno la chiesa che cambia opinione... E tu, ch'eri uno che contava, cui si chiedeva l'opinione prima di qualsiasi decisione e impresa, sei messo da parte prima, al bando poi, come un delinquente. Molti ti rimpiangono, in segreto, ma guai a ritornare. - Oh, che triste destino il vostro, e con che pena dolente l'illustrate. Mi fate venire le lacrime agli occhi; guardate, piango. Piango di commozione. - Anch'io piango pensando a questo. Mia moglie? No, fu un matrimonio di famiglia, senza sentimenti. I miei figli? Sono grandi oramai e con destini propri. Gli amici? Quelli veri, come me sono fuori dalle mura e straziati dal dolore; meditano vendette e ritorni e, chissà, forse un giorno ritorneremo davvero con la forza. - Via, non v'avvilite; ho pena a pensare che fu la mia domanda la causa di tanta tristezza. Pensate a qualche cosa di più allegro. La seconda città del cuore, dopo Firenze. Forse un'altra di Toscana? Arezzo, Pisa, Siena? So che siete stato a lungo in tutte, e a Pistoia, mi pare. - Sì, per diversi motivi risiedetti in varie città della Toscana mia, ma, a onor del vero, dopo Firenze, la città che considero più mia e della quale conservo un pezzo nel cuore è Bologna. Bologna, oh Bologna, che ricordi. - Vi eravate da bambino? - No, no, da studente, giovane, ma non poi tanto. Studente dell'Alma Mater. Di dialettica e altro. Bologna la dotta, la grassa. Ché tutt'e due sono vere, non solo dicerie di viaggiatori. Non v'è città al mondo con maggior sapienza, anche diffusa tra il popolo. Vi si parla una lingua nobile e bellissima, la più bella dopo il toscano. Sembra che la gente respiri la cultura della propria università, la più antica del mondo e la più generosa dispensatrice di sapere. E la grassa, perché ivi il cibo e il desinare sono opere d'arte. Qualsiasi trattoria potete scegliere, dalla più raffinata alla più infame bettola, e vi faranno da mangiare con la cura e l'amore con cui il pittore dipinge la sua deposizione. Come se ogni volta desiderassero far bella figura, nella speranza d'un vostro complimento. La dotta e la grassa. - Dicono altro di Bologna... - Oh, lo so bene, la città delle tre 'T' per esempio. Le torri, i tortellini e le, beh, come dire, il seno delle donne, che a Bologna si dice, tra il volgo, con la 't' iniziale. - Sì proprio questo dicevo. - Ebbene. Quanto a questo ultimo fatto, non so perché, ma è vero. Sarà perché la donna bolognese tradisce un'origine campagnola e gaudente, a differenza di quella mia toscana, più montanara e segaligna. Il risultato è che, insomma, che il seno è ben più prosperoso assai, nella media. Dicono che per essere elegante, una donna, deve avere un seno che sta dentro una minuta coppa. Sarà pure vero, ma agli uomini, a molti uomini, piace di più quello prosperoso. - E i tortellini? Ci sono polemiche in corso tra Modena, Ferrara, Bologna e la Romagna, sull'origine dei tortellini. - È che la gente non capisce nulla. Si tratta di cose simili, ma tutt'affatto diverse, tanto è vero che cambiano nome di città in città. Solo a Bologna sono tortellini, "turtlein". Altrove sono cappelletti o tortelli o altri nomi simili. Solo a Bologna nei tortellini si mescolano lombo di maiale, vitello e mortadella, in nessun'altra città, né ora, né mai in passato, né mai in futuro, ci potete scommettere. - E davvero sono un cibo così prelibato? - Ah sì, il trionfo del palato. E, mi raccomando, non fatevi infinocchiare, che i veri tortellini bolognesi sono in brodo, ma che panna o ragù: in brodo. Pensate che, una volta, avevo ospiti miei a Bologna due amici stranieri. Avevano sentito parlare dei tortellini di Bologna ma non se li immaginavano neppure. Allora li ho portati in una trattoria sotto al portico della morte, dove te li fanno lì per lì; si tratta di un posto che porta il nome del patrono stesso di Bologna e che dunque agisce sotto la protezione più alta... - Oh, signore, non vi burlate dei santi. - Bene: mangiarono i tortellini e furono deliziati. Non vollero alcun secondo piatto e ordinarono ancora tortellini. Risiedettero a Bologna quattro giorni e ordinarono tortellini tutti i giorni. E ne comprarono non so quanti per portarseli con sé in patria, anche se io spiegavo loro che no, che non è la stessa cosa, che senza il brodo perdono tutto. Capite? Opere d'arte. - Direi, se ho capito bene, il gusto del mangiar bene, il gusto di far piacere all'ospite. - Sì, e la tipica cordialità del bolognese, senza ipocrisie, aperto, senza tante storie. - E le torri, ditemi delle torri. Chissà che fascino vederne, mi dicono, tante. - Sì è affascinante. Ve ne sono a dir poco trecento, molte di più che a San Gimignano o in qualsiasi altra città. Trecento, alte, basse, altissime e bassissime. Ogni famiglia ch'abbia un nome e abbastanza denari si fa la sua. Sono attaccate l'una all'altra, vicine a volte, che ci si potrebbe stringere la mano da una cima all'altra, se fossero alte uguali. - E sono diritte o pendenti, come quella di Pisa? - Per lo più diritte perché a Bologna, nel fondo, non c'è sabbia né mare. Ma ce n'è una inclinata assai, la Garisenda, che pare cascarvi addosso ogni volta che passa una nube. Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr'essa sì, ched ella incontro penda: tal parve Anteo a me che stava a bada - E qual è la più alta? - La più alta, e dunque la più importante, è quella della famiglia degli Asinelli, che c'ha quasi dugento anni. - E quanto misura, lo sapete? - Oh, certo, lo so bene. L'ho salita tutta almeno dieci volte. Misura poco più di 310 piedi. - Oh, oddio! E voi l'avete percorsa tutta davvero? - Sì, più volte, vi dicevo. Da lassù si vede tutta la città, le colline lontane, dolci e soleggiate, verso sud. E perfino a lungo fuori porta, tutte le strade, per Modena, per Imola, per Ferrara... - E, scusate l'ignoranza, come han fatto per misurarla? - Che cosa? Misurare che cosa? - La torre, dico. Io immagino che si debba gettare una corda dall'alto, segnare quando giunge a terra, qualcuno che la tenda in basso che non s'arricci, e poi misurare la corda stesa a terra. - Oh no, signora mia. Che dite mai? Chi seguirebbe un procedimento così... così barbaro, scusate, non v'offendete. - Non m'offendo affatto, ma non so trovare altri modi, in verità. Come, dunque? - E come, secondo voi, gli antichi Egizi misuravano l'altezza delle loro piramidi o dei loro obelischi, salendovi in cima e gettando corde? Erano così grulli? - Sinceramente, proprio non ne ho idea. Immagino che non cambi il modo: misurare una torre, o un palo, o una piramide, penso che sia lo stesso. Ma come? - Avete mai sentito parlare del grande filosofo e matematico Talete, quello della scuola di Mileto? - Sinceramente no, signor mio, sarò molto ignorante, agli occhi vostri, ma no. Ebbene? - Sicura? Quello dell'arché, dell'origine comune di tutte le cose, che volle vedere nell'acqua? - Ah sì, l'arché, certo, eccome. Ma perché ne parlate come di un matematico? Era un filosofo, il primo dei filosofi, il fondatore della scuola di Mileto, la prima scuola di filosofia dell'antichità. Talete, il grande Talete. L'acqua. E, se non ricordo male, ebbe due allievi non da meno, Anassimene e Anassimandro vero? E anche uno cercava l'arché e la trovò... - Nel vino! - e accennò una risata. - No, non ridete di quei grandi pensatori. Nell'aria, nell'aria la trovò: nell'aria che è, sentenziò, apeiron, senza confini, senza fine, infinita, indefinita, senza limiti. - Sì, proprio di quella scuola sto parlando, una scuola di dotti. Fu del VII o forse del VI secolo prima di Cristo. - Ma torniamo daccapo. Perché ne parlate come di matematici, se furono, a vostra stessa detta, filosofi? - Perché di grandi matematici sto parlando, secondi a nessuno. E Talete dimostrò molti teoremi, come ricordano Aristotele e Boezio. Forse più dello stesso Euclide. - Ma perché ne parlate a proposito della torre degli Asinelli, o forse delle Piramidi, e delle loro altezze? - Perché proprio Talete si guadagnò fama imperitura presso gli Egizi e presso le generazioni future per questo, per saper misurare le altezze senza corde e senza giocolieri disposti ad arrampicarsi fino in cima. - Oh, dunque, ditemi, che non riesco a immaginare questa magìa. - Sì, magia! Magia fu chiamata dagli Egizi. Immaginate dunque di dover misurare la torre degli Asinelli, che se ne sta ben piantata dritta a terra. Essa produrrà un'ombra, sotto al Sole, nevvero? - Certo, supponiamo sia un giorno d'estate di bel ciel sereno. - Bene. Piantate a terra un bastone, anch'esso ben diritto, alto quattro piedi. Anch'esso produrrà un'ombra. - Sì. E allora? - Ebbene, seguite il viaggio che il Sole compie, girando attorno alla Terra e misurate di tanto in tanto l'ombra del bastone medesimo, fin quando tale ombra non sia essa stessa quattro piedi. Allora un giovane lesto correrà lungo l'ombra della torre e porrà un segnale al termine di essa. A quel punto... - A quel punto basterà misurare la lunghezza dell'ombra della torre, per averne l'altezza, nevvero? - Avete grande intuito, signora mia, intelligenza viva e pronta, siete una dama davvero di grande e piacevole compagnia. - E così Talete insegnò agli Egizi a misurare le torri, no, volevo dire: le piramidi. - Sì, ma si può fare di più; mi volete seguire? - Con molto entusiasmo e con devozione. - Bene. Senza aspettare che l'ombra sia di ugual lunghezza: se l'ombra del bastone è di due piedi, cioè la metà, secondo voi di quanto sarà più corta l'ombra della torre? - Ma è ovvio, signore: in quel momento l'ombra della torre sarà la metà dell'altezza della torre stessa. - E se l'ombra del bastone è la terza parte? - L'altezza della torre sarà il triplo della lunghezza della sua ombra. - Dunque, bella, colta ed affascinante signora, ammettete che, in ogni istante, vi sia proporzionalità tra le ombre e le altezze? - Sì, è ovvio, lo ammetto con semplicità e con totale convinzione. - E dunque, Euclide descriverebbe tutto ciò con una frase come la seguente: l'ombra del bastone sta all'ombra della torre come l'altezza del bastone sta all'altezza della torre, d'accordo? Ma l'altezza del bastone la decidiamo noi, le ombre le possiamo misurare a terra; dunque, l'altezza della torre è l'unica incognita che possiamo calcolare, senza misurarla affatto. - Affascinante e semplice. Le cose escono da voi con naturalezza estrema e sembrano semplici e agevoli, come in fondo sono. Conosco maestri, però, che le rendono insulse e assurde e complicate assai. - Il merito è vostro, signora, della vostra acutezza. Voi lo sapete, vero? Che attirate gli uomini con la grazia del corpo e le movenze, ma poi li affascinate e li stordite con la sapienza e l'acutezza del vostro spirito. È un gioco crudele e magico, all'un tempo. Lo sapete, vero? - Solo di certi uomini state parlando, ne siete consapevole? Non di tutti accetto la compagnia, ma solo di quelli che so essere al mio pari, che so essere conversatori sublimi e affascinanti, come voi, signor mio toscano. - Lo so, lo so, non v'offendete. Siete seconda, nella storia, solo a una grande, ma questo mio dire non vi può offendere, perché la sua vita è oramai leggenda. - Anche se so a chi vi riferite, vi prego, ditemelo, perché l'aver voi pensato a questo paragone, mi lusinga assai. - Bene, gran dama, ve lo dirò, tanto perché la cosa sia esplicita. Ma lo dovrete indovinare voi, da questi versi - e citò, a memoria: 'Chi un esercito di cavalieri, chi una schiera di fanti, chi una flotta di navi dirà che sia la cosa più bella sopra la terra nera, io dico...'. - Io dico - continuò lei, citando sempre a memoria: 'Ciò che uno ama'. 16 Una tartaruga in corsa Tutte le sere, a corte, c'era da inventare qualcosa per passare il tempo e rallegrare il conte. Quando qualcuno proponeva una festa, era un bel sollievo. Maschere, musica, balli, bicchieri, vino, e la cosa era fatta, un rituale già consolidato. Ma altrimenti... Una volta si invitava un poeta, una volta un canzoniere, una volta un rimatore, una volta un musico, oppure un attore o un saltimbanco. Oppure... oppure bisognava inventare qualcosa. Indovinelli, storielle, ma anche storie antiche, miti, leggende, tutto appassionava. I paradossi, una sera Dante pensò di proporre paradossi. Ciascun commensale avrebbe dovuto difendere un paradosso dagli attacchi degli altri. Naturalmente la cosa andava preparata e ciascuno doveva avere due o tre giorni per pensarci. E fu così che venne deciso: "Fra tre sere, i paradossi". Naturalmente essere a corte non comporta necessariamente essere colti e dunque furono in molti a chiedersi che cosa volesse dire quella parola, paradossi. I più ingenui o i più sfacciati lo chiesero direttamente a voce alta. Gli altri ascoltarono le risposte, facendo finta di nulla e ripromettendosi poi, a casa, d'industriarsi per saperne di più. Tre sere dopo, in effetti, ci furono parecchie defezioni; era come se si fosse abbattuta un'epidemia sul Casentino, e molti cortigiani fecero sapere che non avrebbero potuto essere presenti, ma con molto dispiacere. Con una punta di malizia, pensò Dante, ma lo pensarono in tanti, più d'un cortigiano non avrebbe saputo non solo difendere un proprio paradosso, ma neppure enunciarne uno. Fu così che venne deciso di servire la cena nella biblioteca privata del conte invece che nella sala grande, dato che il numero dei presenti era esiguo assai. Giunti all'ultima portata, il momento tanto atteso, qualcuno ricordò infine che era la serata dei paradossi. Chi doveva cominciare? Dei pochi commensali, più d'uno si ritrasse dicendo che non aveva trovato begli esempi, che preferiva aspettare a sentire gli altri, che qua e che là; insomma, a dirla in breve, sembrava che l'unico che potesse proporre un paradosso fosse Dante. - Bene, Dante, spetta dunque a voi - disse il conte di Battifolle. - Sono pronto, spero che il mio paradosso vi diverta e che vi accingiate a pormi mille domande. Dunque, voi tutti conoscete il prode eroe acheo Achille, il più forte e temerario degli eroi di Omero - un coro di "Sì". - E ricordate che Achille aveva vari attributi e particolarità, nevvero? - Sì, un non so che al tallone - disse uno; - Sì, era figlio di una dea, mi pare - disse un altro. - Ricordate - suggerì Dante - una gara di corsa nell'Iliade? - Sì - disse finalmente il conte stesso. - Achille pie' veloce! - Proprio così - confermò Dante. - Achille era un lesto corridore, il più veloce tra gli Achei. Bene. E qual è l'animale più lento della Terra? - La lumaca - disse uno; - La tartaruga - disse un altro. - Bene, allora - disse Dante - supponiamo che Achille pie' veloce e la lenta tartaruga si sfidino a una gara di corsa. - Ma è inutile - sbottò una bella signora tutta imbellettata - inutile. Achille vincerà di certo. - Proprio così, graziosa signora. Ma supponiamo che la gara non sia delle solite, a chi arriva primo. Cambiamo le regole. Achille, eroe puro e dunque generoso, concede un vantaggio all'animale e poi iniziano a correre nello stesso verso. Achille vincerà se e quando mai dovesse raggiungere la tartaruga; in caso contrario, perderà. - Ma è impossibile - nuovamente intervenne la bella signora di prima - dato che Achille raggiungerà di certo, prima o poi, la lenta tartaruga - e si voltò a destra e manca cercando consensi. - Bene, allora - disse ancora Dante. - Ma non dimenticatevi che stiamo giocando ai paradossi. Allora, al via Achille e tartaruga partono e, in men che non si dica, Achille... - Avrà raggiunto la tartaruga - disse un signore anziano, che non doveva aver capito molto della faccenda. - No - disse Dante, un pelino stizzito. - Achille, in men che non si dica, avrà raggiunto la posizione nella quale si trovava la tartaruga, la quale, però, per quanto di poco, in avanti si sarà pure spostata. E quindi in quel momento precederà Achille. - Sì, è vero - intervenne il conte stesso - ma Achille prosegue nella sua corsa, mica si ferma. - Giusto! Achille prosegue e giunge in un lampo al punto nel quale si trovava ora la tartaruga. Ma quella, nel frattempo... - e rallentò a bella posta nella speranza che qualcuno abboccasse... - Sarà andata un altro poco avanti - abboccò infatti la solita bella signora. - Già - confermò Dante - ma Achille continua la corsa e giunge in un battibaleno al posto nuovo della tartaruga ma... - e non disse altro. - Ma ogniqualvolta Achille raggiunge la precedente posizione della tartaruga, questa non c'è più ed è un poco più avanti - disse un elegante signore anziano, dal viso rotondetto e dalle guance rosso porpora; e, dicendo questo, mostrò con la mano destra pollice e indice un poco distanziati e piegati paralleli, come a indicare una piccola misura. - Dunque Achille non potrà raggiungere mai la tartaruga - sentenziò il conte. Che diavoleria è mai questa, Dante? - e rise a crepapelle. La risata del sovrano era la più bella ricompensa a una serata riuscita; la fortuna di chi ideava le serate era legata a questo. - Conte - confermò Dante - non dimenticate che stiamo giocando ai paradossi. Nella realtà concreta, Achille raggiungerà, eccome, quella lenta tartaruga alla quale ha dato un vantaggio, ma io sto difendendo una posizione paradossale, come il nostro gioco richiede. Tocca a voi, signori, ora, tendermi tranelli e farmi cadere. Dovete attaccare la mia argomentazione e trovarvi un punto debole. - Bello, Dante, davvero - batté le mani il conte. - L'avete inventato voi? - Oh, no, Conte, no. È uno dei tanti paradossi di Zenone, il migliore degli allievi di Parmenide, il grande filosofo di Elea. "Fiero e terribile nella sua grandezza" diceva di lui Platone. Sapete, quello dell'universo unico e immutabile. - Sì, sì, ricordo queste cose, anche se l'oblio, sapete... Dunque, chi tra noi attacca l'argomentazione di Dante? - Io - disse la bella signora. - Dante, ma ad un certo momento il vantaggio della tartaruga sarà così piccolo ma così piccolo che la punta del calzare di Achille si confonderà con la codina della tartaruga in fuga, no? - Signora, voi avete la vista lunga e sottile; la vostra intelligenza è seconda solo alla vostra grazia - e la dama arrossì, felice come mai prima, coprendosi il viso con la mano. - Grazie alla vostra educata sfida, devo aggiungere una cosa. Per poter dar senso a un paradosso, a volte bisogna fingere situazioni ideali. Io parlo di Achille e della tartaruga ma, di fatto, penso a due punti geometrici, quelli ideati dal grande Euclide alessandrino: punto è ciò che non ha parti, dunque punti privi di dimensione. Chiamiamo Achille e tartaruga i due punti, d'accordo? E così non ci saranno parti, cioè né punte di calzari né codine. - Sì, sì, ho capito, ma nella realtà... - Nessun paradosso è reale, signora; i paradossi sono sempre legati a mondi insensibili e irreali, nei quali ha senso parlare di punti e di istanti. - Ma quanto è il vantaggio che Achille dà alla tartaruga? - chiese un altro. Questa è la tipica domanda che prima o poi uno ti fa. - E che importanza ha? - rispose Dante. - Quale che esso sia, la cosa vale. E continuarono così, per un paio d'ore, con interventi intelligenti e interventi stupidi; ma nessuno riuscì a smontare il discorso di Dante, tant'è vero che alcuni uscirono dalla serata convinti davvero che il più grande atleta mai avrebbe potuto raggiungere una tartaruga... Alla fine della serata, Dante era rimasto solo seduto alla tavola ancora imbandita, quando si avvicinò un cameriere, quello che aveva l'esclusivo compito di servire il vino al conte, scegliendo per lui gusto, tipo, annata. - Eccellenza, perdonate il mio ardire. Dante si voltò sorpreso: - Sì, buon uomo, dite pure. Che c'è? - Non ho potuto non ascoltare e mi avete molto sorpreso, a ben dire. E vi volevo chiedere, dacché nessuno qui l'ha fatto, di rivelarmi l'arcano. Se paradosso è, deve avere una soluzione. C'è un trucco, è evidente, signore; ma quale? Voi l'avete celato a bella posta, e con molta arguzia. Dante era, a quel punto, non più tanto giovane. Aveva visto di tutto e inventato di tutto per la sua Commedia e dunque nulla più lo meravigliava ormai. Ma che fosse alla fine un cameriere e non un nobile a porre la domanda più appropriata della serata, di fatto lo colpì. Solo che, per poter spiegare questa faccenda occorreva un po' di matematica e Dante temeva che il cameriere ne fosse privo. - Conoscete qualche cosa di arismetrica? - Oh, sì, signore; ai miei tempi ho frequentato la scuola d'abaco, e con successo. - Conoscete le figure degli Indi? - Sì signore. - Bene e allora proviamo. - Dante prese nelle mani due bicchieri vuoti, fece spazio sul tavolo con l'avambraccio destro, e ripeté tutta la storia mettendo una coppa sottile in luogo di Achille e un tozzo bicchiere in luogo della tartaruga. - E adesso proviamo a vedere. Supponiamo che Achille dia alla tartaruga un vantaggio di cento passi e che la velocità di Achille sia dieci volte quella della tartaruga. Quando Achille giunge nel luogo di partenza della tartaruga, questa dove si troverà? - È ovvio, eccellenza, dieci passi più avanti. - Giusto, perfetto. - Dante prese un terzo bicchiere; il cameriere non capiva dapprincipio a rappresentare quale personaggio fosse destinato, ma comprese subito dopo: semplicemente Dante si versò un po' di cordiale, lo bevve d'un fiato, ricollocò il bicchiere sul tavolo e proseguì, ritornando ai due bicchieri iniziali. - E quando Achille giunge alla nuova, seconda posizione della tartaruga, dove si trova la stessa? - Ancora ovvio signore, un passo più avanti. - E poi? - E poi a un decimo di passo, e poi a un centesimo di passo, e poi a un millesimo... - Bene, bravo, perfetto - disse entusiasta Dante. - Dunque, misuriamo ora tutta la distanza percorsa da Achille: cento più dieci più uno più un decimo più un centesimo più un millesimo e così via. D'accordo? - Certo, fin qui è tutto chiaro. - La somma di questi tratti dice quanto è lungo il percorso di Achille per raggiungere la tartaruga. - Sì. - Ma allora, se io trovo una distanza che è certamente maggiore di quella, ecco che, al percorrerla, Achille avrà non solo raggiunto, ma addirittura superato la tartaruga, o non siete d'accordo? - Sì, perbacco, è ovvio; ma quanto? - Oh, adesso è facile; basta prendere centododici passi o, se volete essere fine e sottile, bastano centoundici passi e due decimi, oppure centoundici passi un decimo e due centesimi, non trovate? - Ma dunque allora Achille la raggiunge questa benedetta tartaruga, ma non dopo centoundici passi un decimo un centesimo un millesimo... basta anche solo un millesimo dopo. - È così, è proprio così. - E il paradosso, dunque, se posso permettermi, signore, e senza offesa, sfuma. - Certo, il paradosso sfuma. Ma nessuno prima me l'ha chiesto... - Siete grande, eccellenza. E, se non siete troppo stanco, ... ce ne avreste altri? - Oh sì, eccome, quelli di Zenone sono in quantità, ma non ci sono solo quelli. Il cameriere estrasse una bottiglia di quello buono che neppure il conte sapeva esistere, prese due bicchieri puliti e insieme a Dante cominciò a parlare di frecce e di stadi finché non fu l'alba e dovettero ritirarsi. 17 L'imago al cerchio Appoggiato al tronco, Dante sedeva all'ombra della solita quercia, sulla solita collina, in Romagna. Aveva con sé, come sempre, tutto l'occorrente per scrivere, una fiasca d'acqua e limone, un pezzo di cacio e un tozzo di pane avvolti in uno straccio. Si recava lassù ogni mattina, scriveva e scriveva, e ritornava poi giù a corte nel pomeriggio. L'opera procedeva, giorno dopo giorno; scriveva con velocità incredibile, creando o ritoccando il già scritto, a un ritmo frenetico. Aveva già quasi finito l'Inferno, quasi tutto il Purgatorio, ma era stato preso dalla frenesia di finire il Paradiso, prima di tutto il resto, mettendo in campo tutte le sue competenze di dialettica. (Dio, quanto gli era costato apprenderla. Leggere e commentare tutti i dodici libri di Pietro Ispano, "... ars artium et scientia scientiarum, ad omnium methodorum..."). Aveva avuto l'idea di terminare tutta l'opera con la "vista nova" e cercava un finale, come dire, a effetto, in modo che tutti potessero capire fino in fondo qual era il senso della perdita della ragione di fronte al trionfo della fede evidente, perché rivelata ai sensi. E sarebbe stata finalmente Beatrice, la Bice conosciuta bambina, e morta tanti anni prima, il suo personaggio, costruito ad arte negli anni, la donna ideale, perfetta, ad accompagnarlo negli ultimi versi. Ora doveva trovare il modo, trovare il modo per dire della disperazione tutta razionale di chi cerca senza esito, con la ragione, con la logica, senza riuscire, di fronte a qualche cosa che sfugge, sempre per poco, sempre e solo quasi raggiunta. - Maestro, Dante, non vi ho mai visto così corrucciato. Che vi succede? Quale ne è la causa, l'opera vostra o i felici ricordi di Fiorenza che sempre vi pongono triste di nostalgia? Dante sussultò alla frase; non s'era accorto per nulla dell'arrivo di Lauretta, la figlia minore di Guido Novello. Era una ragazza dolce, finissima, sempre attenta a tutto, sorridente, amata dalla corte intera; era intelligente e colta, avida di sapere, ballava con grazia ed era corteggiata da tutti, cugini stretti compresi. Vestiva un abitino leggero e reggeva in mano una fiaschetta di vetro montata su paglia. L'allungò a Dante, dicendo: - Ho pensato che un po' di Sangiovese fresco vi avrebbe giovato al lavoro. Vi sto dando molestia? - Lauretta, cara e dolce Lauretta, come pensate di darmi molestia, voi? Il sogno di tutti gli uomini di corte è di potervi rivolgere la parola. E io sono il più felice dei mortali, giacché voi stessa la rivolgete a me spontaneamente. - Dante, Dante, non fate anche voi il cascamorto con me. So bene che lo fate per burla, con tutto quel che vi ronza davvero per la testa. Ero curiosa di vedere a che punto siete e quando metterete la parola fine all'opera vostra, che tutti l'attendiamo con ansia. - Davvero pensate che qualcuno sia interessato a questa impresa? Non lo so, a volte mi sento di lavorare tanto per nulla. - Ma voi vedete, a corte, quando ne leggete brani, spiegandone il senso, a volte arcano in verità, vedete le lacrime per la storia di Paolo e Francesca; la tristezza per la sorte di Guido, che era di qui vicino, e ancora il suo nome aleggia nell'aria; e la brutalità agghiacciante di Ugolino... Insomma, vedete voi stesso quanto siete atteso. - Grazie, grazie, le vostre parole mi sono di molto conforto. - E dunque, allora, quando metterete la parola fine? Quando scriverete gli ultimi versi? - Si dà il caso che, sebbene io non sia alla fine, stia però scrivendo or ora gli ultimi versi. - Oh, questa poi non la capisco. Mi potete spiegare? - Sì, certo, scherzavo un po'. Dunque, sto scrivendo i versi finali del Paradiso, con i quali chiuderò l'opera. Però mi manca ancora qua e là qualche parte, specie del Purgatorio, ma pure dell'Inferno. Sono però convinto - e intanto Lauretta si era seduta accanto a lui, sfiorandogli il ginocchio con una mano - sono però convinto, dicevo, che se azzeccherò i versi di chiusura poi farò presto a finire tutto il resto, diciamo entro l'anno. - Oh, dio, che emozione - disse Lauretta portandosi la manina sinistra alla bocca, sbarrando gli occhi e aprendo la bocca, in un gesto che voleva esprimere tutta la sua profonda emozione. - E dunque entro l'anno potrò avere una copia dell'opera completa? E leggerla tutta da sola? E voi mi spiegherete di persona i versi che non capirò? Lauretta era molto giovane, troppo per Dante; e tuttavia quel contatto fisico lo turbò. - Beh, dunque - riprese Dante - il fatto d'aver finito l'opera non vuol dire che ne possiate avere immediatamente una copia. Dovrò darla agli amanuensi per farne fare un po' di copie; pensavo ai bravi fraticelli di Camaldoli. Pensavo a dieci copie, ma non so se avrò abbastanza danari: non posso sempre confidare sulla generosità di vostro padre. Una copia, la prima, sarà per vostro padre, Lauretta, questo lo capite bene. La seconda per voi. La terza, solo la terza, per me. E le altre, vedrò dunque al momento. - Sono ansiosa, se lo potete, di sapere gli ultimi versi che, non so perché, mi immagino siano i più faticosi, però anche i più importanti. Me li potete rivelare o è segreto? E Dante, eccitato all'un tempo dalla pressione della manina tenera sul ginocchio nudo e dalla curiosità così sincera e reale per la sua opera, raccontò tutto, della "vista nova", della sua ricerca d'un paragone di qualche cosa di altrettanto vicino alla disperazione di chi cerca e non trova, con gli occhi della ragione, di qualche cosa che sembra sempre lì lì per esser catturata, eppure sfuggente. E parlò e parlò. Poi, d'un tratto, s'accorse che la manina aveva smesso di premere e s'era come avvinghiata all'altra, e che Lauretta pareva concentrata su pensieri lontani. - Oh dio, vi ho annoiata? A che state pensando, di così lontano dalla mia Commedia? - No, no, al contrario, Dante, al contrario. Non so perché, ma le vostre parole mi hanno fatto venire in mente quel che mi ha insegnato il mio maestro di geometria, l'unico non noioso dei quattro che avevo. Sapete del rapporto tra circonferenza e diametro, dei tentativi dei matematici antichi, di Brisone, si dice anche di Archimede? Ogni volta che un matematico sembra avvicinarsi alla determinazione del rapporto, succede qualche cosa di nuovo. Ah sì, ora mi ricordo - gli occhi di Lauretta erano come inebriati e dentro il cervello di Dante cominciava a farsi luce un'idea, un'idea - mi ricordo di una storia, ah sì, una bella storia molto interessante, di riga e compasso, sì sì, molto bella. Sapete? Sapete di queste cose? Oh Dante sì, le sapeva eccome. Aveva studiato tutta la geometria di Boezio, sudando freddo, e sapeva bene queste cose. - Ecco, sì, ora ricordo - continuò Lauretta. - La trisezione dell'angolo generico, la duplicazione del cubo e appunto la quadratura del cerchio. Sì, sì. I Greci, e Platone in testa, avevano già capito, cercavano ma non trovavano, non trovavano. Ma mi state ascoltando? Dante s'era messo a scrivere. Stimolato da quelle parole ("Ma guarda questa ragazzina dall'aspetto fragile, da quali cose si lascia entusiasmare, e che cultura matematica ha"), aveva d'un tratto trovato il paragone giusto, quello dell'impossibile determinazione del rapporto tra circonferenza e diametro con frazioni, problema contro il quale Platone l'invincibile, Euclide il divino, Archimede il grande, Aristotele l'infinito, avevano inutilmente lottato. Lauretta allungò il collo fino all'inverosimile per leggere quel che stava scritto in bella grafìa: Qual è il geomètra che tutto s'industria per misurar lo cerchio, e non lo trova, pensando, quel principio ond'elli... "Ond'elli, non so" pensava Dante "però deve finire così": Tal era io a quella vista nova - Sì, sì, Dante, è così. Voi mettete per versi perfetti le mie idee appena abbozzate, Dio che magìa nelle vostre mani di poeta. Ora il viso bambino era accanto al suo di adulto, e lui poteva respirarne il profumo di fiori. - Non trovo, aspettate Lauretta. Ci sono quasi, non "s'industria" che non ha rima e non dà l'idea dell'afflizione, ah ecco sì l'afflizione, "s'afige" dunque, no, diamogli più corpo "s'affige" così gli rimo "indige"... E Dante corresse e aggiunse: Qual è il geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond'elli indige, tal era io a quella vista nova - Sì, sì - dissero i due con entusiasmo all'unisono; e rimasero stupiti e si guardarono a lungo negli occhi. Ma il vero entusiasmo di Dante, o forse d'entrambi (questo le storie non ce lo dicono), in questo momento, era di trovare gli ultimi due versi, solo due per dire, infine, quel che cerca il geomètra: Voler vedere come si pone nel cerchio l'imago e... - No, no, non va, non va, più fluido, più... non so. La rima deve essere con "nova", anche per darle importanza, che sia chiaro che è il centro di tutto, il paragone assoluto: Veder volea come si ponea - No, non può essere, troppo rimata internamente, devo come uscire dal verso. - Dante, maestro, calmatevi, non vi infuriate. Non credevo che fosse così poetare, voi pensate con rabbia. Io credevo che il poeta fosse un animo gentile, voi urlate e strepitate, ci manca poco che non bestemmiate - Dante la guardò. Oh, Dio, non mi direte che a volte bestemmiate. - Aspettate, un momento, silenzio, ecco, vedete: Veder voleva come si convenne l'imago al cerchio e come vi s'indova; - Non so, e allora come viene, in tutto? - Ecco, vediamo, leggiamo insieme: Qual è il geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond'elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l'imago al cerchio e come vi s'indova; - Sì, sì, è così, è perfetta. Perfetto - diceva Lauretta, felice, battendo le candide manine gentili l'una all'altra. - Sì, credo che stia bene. Lo fermo così? - Sapete, però, manca qualche cosa... - si era fatta seria. - Come si capisce qui tutta la faccenda di riga e compasso. Mi spiego? - No, sinceramente non capisco. Che cosa intendete dire, Lauretta? - Voglio dire. Uno che legge qui pare che possa intendere che la quadratura del cerchio è impossibile. Ma voi sapete bene che non è così. Esistono molti modi di quadrare il cerchio, me lo ha insegnato il mio maestro: il metodo di Ippia il Sofista (il nemico di Platone), il metodo di Dinostrato, il metodo di Nicomede, si dice che vi fosse pure un metodo di Menecmo, poi c'è il metodo cosiddetto di Platone, e tanti altri. Ma se uno legge così, crede che voi siate un ignorante e che vogliate dire che, in assoluto, non si può quadrare il cerchio. E questo è falso. Non si può quadrare con riga e compasso, ma senza questa limitazione si può, e come. - Lauretta, siete una ragazza straordinaria. Dietro alla vostra grazia, alla vostra leggerezza, alla vostra avvenenza, lasciatemelo dire, che stordirebbe chiunque, di qualunque età - e sottolineò con forza questa frase - si nasconde una competenza scientifica eccellente. Brava! Ma forse vi preoccupate per nulla. No? - In che senso? - Nel senso che queste cose sono arcinote tra persone di anche minima cultura. Chiunque abbia un minimo di cultura sa bene che la quadratura del cerchio è possibilissima, e facile anzi, se non c'è l'obbligo di usare solo riga e compasso. Diventa impossibile solo con questa restrizione. Lauretta, conquistata dalle frasi di Dante sulla propria avvenenza, si era avvicinata parecchio a lui; ora le sue manine fragili stavano l'una accarezzando il foglio arrotolato sul quale era scritto il poema, l'altra, quasi per caso, era caduta sulla mano di lui, quella che reggeva lo stilo e, ancora quasi per caso, si stava muovendo come in una carezza. - Sì, Dante, avete ragione, chi volete che non sappia queste cose? Da noi, a corte, a Ravenna, lo sanno anche gli sguatteri. La storia nulla ci dice del seguito di quel pomeriggio, e se il Sangiovese fu bevuto o no, ed eventualmente da chi. Però la storia ci dice anche che Dante e Lauretta avevano torto su di una cosa: sull'aver avuto tanta fiducia nella cultura matematica dei posteri. Appendice 1 Matematica e matematici ai tempi di Dante Poiché questa breve nota vuol parlare di Dante Alighieri, far cenno ai matematici suoi contemporanei e alla presenza della matematica nella Commedia, è bene cominciare ricordando le date esatte della vita del sommo Poeta italiano: 1265-1321. Ecco dunque alcune rapide carrellate che potrebbero avere un qualche interesse. 1. Matematici contemporanei di Dante da lui citati (più o meno esplicitamente) nella Commedia Boezio di Dacia (XIII sec.): filosofo e logico aristotelico; essendo considerato insieme a Sigieri di Brabante (1235 ca.-1283, cit. in Par. X 133-138) il fondatore dell'averroismo latino, cioè di un'interpretazione radicale e rigorosa del pensiero di Aristotele, Dante ne deve certamente aver conosciuto, se non le opere, almeno il pensiero, visto che di questo egli fu anche accusato; l'opera logica di Boezio fu infatti condannata nel 1277, mentre la lettura di Dante fu vietata più o meno per lo stesso motivo nel 1335 (14 anni dopo la morte del Poeta), e per diversi anni. Giovanni Buridano (1300 ca.-1350 ca.): rettore dell'Università di Parigi, logico e filosofo; la famosa questione dell'asino è citata da Dante in Par. IV 1-3. Giovanni Duns Scoto (1265 ca.-1308): filosofo e logico. Dante non lo cita direttamente, ma alcune delle sue osservazioni sulla relazione tra scienza e fede fanno pensare che ne conoscesse il pensiero, d'altra parte molto diffuso in Italia. Giovanni di Salisbury (1110 ca.-1180) vescovo di Chartres: logico aristotelico. Dante non lo cita, ma sembra conoscerlo, almeno per quanto riguarda alcune interpretazioni del pensiero aristotelico che fa sue. Guido Bonatti, Bonato o Bonatto (1200/1220-1296/1298): astronomo e astrologo fiorentino presso la corte di Guido da Montefeltro nonché assiduo frequentatore di Federico II, posto da Dante tra gli indovini, in Inf. XX 118. Il suo Tractatus astronomiae (in 10 libri) ebbe una certa rinomanza all'epoca e certo Dante lo conobbe. Michele Scotto o Scoto, cioè "lo scozzese", (1150/1200-1236 ca.), è nominato accanto a Guido Bonatti in Inf. XX 115-117: Quell'altro che ne' fianchi è così poco, Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe 'l gioco. Matematico, astronomo e astrologo, evidentemente molto magro, vissuto alla corte di Federico II, traduttore insigne di Aristotele e Avicenna (Federico II lo spinse a regalare all'Università di Bologna alcune delle sue traduzioni). Nel suo libro astronomico Liber introductorius sono mescolate questioni scientifiche e magiche, divinatorie, profetiche (com'era, d'altra parte, in uso a quei tempi). Pietro Ispano (1220-1277), papa Giovanni XXI: è il celeberrimo autore delle Summulae logicales, in dodici libri, che Dante ricorda in Par. XII 134-135: ... e Pietro Spano, lo qual giù luce in dodici libelli; Dante conobbe, studiò e apprezzò quest'opera, taluni elementi della quale appaiono certo in alcuni passi logici del poema. Vi sono più testimonianze concordanti sul fatto che Dante bambino abbia ascoltato una lezione di ottica geometrica di Pietro, pare a Siena. Roberto Grossatesta (1175-1253) vescovo di Lincoln: fisico, matematico, scienziato naturale, filosofo, logico; la sua famosa teoria della luce sembra ispirare, in certi punti, alcune riflessioni di Dante, che forse ne sentì parlare senza farne conoscenza diretta. 2. Dante cita una quantità notevole di matematici antichi e li pone: in Paradiso: Agostino di Tagaste (354-430): aritmetico, nominato però non in quanto matematico bensì come teologo (XXXII 35); Beda il Venerabile (673-735): enciclopedista, creatore di giochi matematici più volte copiati nel corso dei secoli (X 131), per esempio da Alcuino nell'VIII secolo; Boezio Severino Torquato (480-526): enciclopedista, scrisse, tra l'altro, trattati di aritmetica e di geometria ai quali certo si ispirò Dante per le sue conoscenze generali (X 124-129 e Convivio); Brisso o Brisone (-III sec.): geometra, secondo alcuni allievo di Euclide, che tentò di misurare il valore di p con un numero razionale (XIII 124-126). È citato da Dante come esempio di modo scorretto di ragionare, grazie a osservazioni tratte da Aristotele; Isidoro di Siviglia (560 ca.-630): vescovo di Siviglia, enciclopedista (X 130131); si sa che fu uno studioso di abaco o, come si direbbe oggi, di algoritmi; Pitagora (-VI/-V sec.): forse citato in merito alla teoria delle sfere celesti in I 82-84 (dico forse perché l'identificazione del personaggio menzionato in quei versi con Pitagora non è concorde); Tommaso d'Aquino (1221 ca.-1274): filosofo, matematico, logico, più volte citato da Dante come logico e teologo (X, XI, XII); nessuno in Purgatorio; nel Limbo (Inf. IV): Empedocle di Agrigento (-V sec.): filosofo e matematico (anche in XII 41-43). Eraclito (-550/-480 ca.): filosofo e matematico (138); Euclide di Alessandria (-IV sec.): matematico (142); Platone (-427/-347): filosofo e matematico (134-135); è negativamente citata in Par. IV 49-63 la teoria platonica del ritorno delle anime al cielo; Talete di Mileto (-VII/-VI sec.): filosofo e matematico (137); Claudio Tolomeo di Alessandria (II sec.): astronomo e matematico (142); Zenone di Elea (-V sec.): filosofo e logico (138 e Convivio); in Inferno: Vi sono poi vari matematici che Dante non cita nella Commedia, ma nel Convivio, tra questi: Albumasar (IX sec.): astronomo, astrologo e matematico arabo; Alfragano (IX sec.): astronomo, astrologo, matematico arabo, la cui opera Liber de aggregationibus scientiae stellarum è solitamente considerata una delle principali fonti di informazione astronomica di Dante. 3. Altri matematici Elencherò ora, in breve, altri matematici attivi, almeno in parte, contemporaneamente a Dante, da lui non espressamente citati; ecco i più noti, in ordine alfabetico: Alberto Magno (1193 ca.-1280): teologo, logico e scienziato naturalista, fu vescovo di Regensburg (la Ratisbona del Medioevo e del Rinascimento) e docente a Parigi; tra i suoi allievi ebbe Tommaso d'Aquino. Incredibile per quei tempi, fu strenuo difensore dell'indipendenza della speculazione filosofica e scientifica dalla dottrina della Chiesa; Alessandro di Villedieu (prima metà del XII-XIII sec.): autore del Carmen de algorismo, contribuì alla diffusione della notazione indo-araba in Europa; Alfonso X, re di Castiglia (1221-1284): autore delle Tavole astronomiche che portano il suo nome, fece tradurre in latino numerose opere scientifiche arabe; Andalò di Negro o Andalò Genovese (1270 ca.-1342 ca.): astronomo, autore dell'Opus praeclarissimum astrolabii, che sarà stampato a Ferrara nel 1475; Campano da Novara, Maestro Campano (prima decade XIII secolo-1296): autore dei trattati Computus maior e De sphaera e importante curatore degli Elementi; Gherardo da Cremona (XII sec.): astronomo, matematico, traduttore e commentatore di grande prestigio; spesso confuso con Gherardo da Sabbioneta (XIII sec.), astronomo e astrologo; Giovanni da Cornovaglia (Pseudo Scoto) (? - 1358 ca.): logico di alto livello, confuso in precedenza con altri autori e solo recentemente identificato; Giovanni di Sacrobosco o Giovanni di Halifax (prima metà XIII secolo): studioso inglese, insegnò matematica e astronomia a Parigi e scrisse il Tractatus de sphaera mundi, testo fondamentale per l'insegnamento medievale e rinascimentale dell'astronomia; Giovanni di Sassonia, Giovanni Dank o Danck (prima metà XIV secolo): filosofo e astronomo, studiò a Parigi e scrisse i Canoni de l'eclissi e il Libro de l'astrolabio; Giovanni Lignerio (prima metà XIV secolo): filosofo e astronomo tedesco, fu lettore dello Studio di Parigi. Scrisse numerose opere astronomiche, tra le quali si ricordano Canoni del primo mobile, Della sfera, De le tavole; Guglielmo di Ockham (1280 ca.-1349 ca.): filosofo e logico di primaria importanza, il cui pensiero radicale influenzò a lungo i logici; Isacio Monaco, Isaak Argyros (1310 ca.-1371 ca.): matematico, astronomo e studioso di musica bizantino, scrisse gli Scholia in Euclides Elementorum geometriae sex priores libros, opera che sarà stampata a Strasburgo nel 1579; Leonardo Fibonacci, Leonardo "Bigollo" da Pisa figlio di Bonaccio (1175 ca. 1250 ca.): il maggior esponente della matematica medievale in Europa; nel 1202 scrisse il famosissimo Liber abaci. Altre opere: Practica geometriae; Liber quadratorum; Flos super solutionibus quarundam quaestionum ad numerum et ad geometriam vel ad utrumque pertinentium; De modo solvendi quaestiones avium et similium; un commento sul decimo libro degli Elementi e un lavoro intitolato Libro di merchatanti detto di minor guisa; Levi Ben Gerson (prima metà XIV sec.): geometra, si impegnò nel tentativo di ridurre il numero dei postulati euclidei e per questo è ricordato, in senso improprio, come un lontano precursore delle geometrie non-euclidee. Scrisse lavori trigonometrici e astronomici in parte riconducibili all'impostazione tolemaica (con la notazione in frazioni sessagesimali); introdusse il teorema secondo il quale i lati di un triangolo sono proporzionali ai seni degli angoli opposti; Lullo Raimondo (1234 ca.-1315): da molti considerato (per es. da Bochénski) un precursore della logica moderna, ispirò certamente il pensiero di Leibniz; Mazzinghi Antonio, Maestro Antonio da Peretola (XIV secolo): matematico, scrisse di aritmetica; Nasir ad-Din at-Tusi (1201-1274): studioso di geometria, tentò di dimostrare il quinto postulato di Euclide. Cristoforo Clavio e Pietro Antonio Cataldi, tra gli altri, più tardi ripresero le sue argomentazioni; Paolo dell'Abaco, Paolo Dagomari (XIII-XIV secolo): maestro di Jacopo Alighieri, figlio di Dante, in una delle scuole fisse di Firenze, Santa Trinita. Autore di un celeberrimo e fortunato Trattato d'Abaco che, chissà, forse Dante ebbe tra le mani... Scrisse anche di astronomia; Pietro Daco, Petrus Philomeni de Dacia (fine XIII secolo): filosofo, astronomo e teologo. Studiò a Parigi e operò in Danimarca. Commentò alcune opere del Sacrobosco; Ruggero Bacone (1214 ca.-1292 ca.): astronomo e matematico inglese, scrisse, tra l'altro, di prospettiva e di alchimia; Vitellione, Witelo (1230 ca.-1275 ca.): matematico e studioso di ottica polacco, scrisse il Perspectiva, un famoso e apprezzato trattato di prospettiva. NOTA: Questo testo fu (più o meno) usato per una mia conferenza che aveva lo stesso titolo, a Forlì, il giorno 5 aprile 2000, nell'ambito di L'alfabeto di Pitagora. Una versione molto più ampia è stata pubblicata successivamente: D'Amore B. (2000). La matematica ai tempi di Dante. Nuova Civiltà delle Macchine. Rai-Eri. XVIII, 3, 100-115. Ringrazio il compianto allievo e amico prof. Giorgio Bagni per l'aiuto che mi ha dato nella ricerca di notizie su molti dei matematici medievali citati. Appendice 2 La matematica nella Divina Commedia1 Sebbene moltissimi siano oramai gli studi di vari autori dedicati all'analisi della presenza della matematica nell'opera di Dante e nella Divina Commedia in particolare, con grande stupore ci si accorge che esiste sempre qualche angolo inesplorato o qualche verso che può ancora fornire argomento di riflessione e di studio; lo stupore cessa ogni volta, quando si riflette sulla grandezza dell'Opera. A costo di ripetere cose già dette, nella speranza di cogliere sfumature diverse o angolazioni sfuggite, dividerò questa breve appendice (perché ben altro si potrebbe aggiungere) in tre paragrafi, specializzando i riferimenti in base a un criterio matematico: aritmetica e probabilità nel primo, logica formale nel secondo, geometria nel terzo. 1. Aritmetica e probabilità Dopo il 1290 (dunque all'età di 25 anni) e per circa 30 mesi, Dante studia filosofia e in particolare Boezio (come apprendiamo dal Convivio). Ma Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (l'autore del De consolatione philosophiae) non è solo il traduttore delle opere di Nicomaco e di Euclide, bensì egli stesso valente matematico, autore di pregevoli trattati di geometria e di aritmetica; scrive, per esempio, un De institutione arithmetica (Dante lo incontra in Par. X 125-129). Quale e quanta aritmetica conosceva Dante? È ben noto che la Divina Commedia è ricchissima di riferimenti numerologici; ora, però, di fatto, per i calcoli necessari alla numerologia non occorre di solito una grande competenza aritmetica. Non è quindi al Dante numerologo che occorre guardare per avere la risposta alla nostra domanda, ma puntare di più l'attenzione sulla presenza di una vera e propria conoscenza aritmetica. A questo proposito, molti autori si sono già posti autorevolmente il problema, come, per esempio, Beniamino Andriani (1981).2 Aggiungerò dunque alcune considerazioni, pur con poca speranza di novità. Sappiamo che Dante fu scolaro al convento francescano di Santa Croce a Firenze e poi, pare, al convento domenicano di Santa Maria Novella, dapprima Studium Solemne, poi, dal 1295, Studium Generale. Essere scolari a Firenze non era come esserlo in altre città: a Firenze, e in tutta la Toscana, era possibile avere maestri d'abaco di alto prestigio. Sappiamo, per esempio, che Jacopo, figlio di Dante, fu addirittura allievo di Paolo dell'Abaco, il quale insegnò in una delle poche scuole d'abaco fisse (di fronte alla chiesa di Santa Trinita). Forse Dante venne a contatto con il Libro d'abaco cui Paolo deve il suo nome? Secondo la testimonianza di Gino Arrighi, pare che tale trattato di Paolo risalga agli anni intorno al 1339, ma non è escluso che ne esistessero versioni preliminari, per esempio sotto forma di appunti di scolari. Forse Dante, nella sua sete di sapere, venne a contatto con il Liber abaci di Leonardo figlio di Bonaccio, il "Bigollo"?3 Certo, Dante sembra essere molto attento alla cultura, anche scientifica, del suo tempo: ancora bambino, frequenta forse a Siena alcune lezioni di Pietro Ispano e qui certo apprende l'efficacia del metodo euristico nelle scienze (ancora piuttosto ingenuo).4 Anche per alcuni suoi passi tuttora di interpretazione dibattuta sarebbe molto interessante avere le risposte alle precedenti domande; infatti, nonostante che un articolo dello Statuto dell'Arte del Cambio di Firenze del 1299 vietasse l'uso dei numeri arabi (Andriani, 1981, pag. 188), era piuttosto diffuso nella scrittura aritmetica dei trattati d'abaco l'uso del sistema arabo-indiano (le "figure delli Indi") e di conseguenza la manipolazione di sempre più rapidi algoritmi di calcolo. Ciò significa, per esteso: uso di un sistema posizionale a base dieci e uso esplicito dello zero. Tutte queste sono assolute novità rispetto alla numerazione latina, nella quale non c'è sistema posizionale e non c'è zero (non ce n'è bisogno), mentre in effetti in essa il numero dieci gioca un ruolo dominante, anche se non come "base", così come si diffonderà poi in Europa, grazie all'opera di Fibonacci e altri.5 Un celebre passo con riferimento all'aritmetica si trova in Par. XV 55-57: Tu credi che a me tuo pensier mei da quel ch'è primo, così come raia da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei; Sono le celebri frasi che Cacciaguida rivolge a Dante: "Tu che hai ferma convinzione che il tuo pensiero discenda, si riveli direttamente a me da Dio, primo Ente e principio di ogni cosa, così come dalla conoscenza dell'unità deriva quella di tutti gli altri numeri" (Sapegno, 1958). In tempi moderni si direbbe che, ammessa l'unità, si possono costruire i numeri naturali n, n+1, intendendo con ciò tutti i numeri (Cimmino, 1988). In effetti, la notazione "n", tipica oggi del matematico, intesa a indicare un numero qualsiasi, è assai più recente; quel "il cinque e 'l sei" sta a indicare numeri generici successivi, come nota il valdostano Natalino Sapegno (1901-1990), grande commentatore di Dante, che fu professore in vari atenei italiani. D'altra parte anche Euclide, quando vuol considerare un numero generico di numeri primi, ne prende tre (mi riferisco al celebre teorema: "Dato un numero primo qualsiasi, se ne può sempre trovare un altro maggiore", che si trova negli Elementi). Detto ciò, mi pare che l'affermazione di Dante non sia poi di così grande rilevanza aritmetica; credo che qualsiasi persona anche di modesta cultura possa ben comprendere che, avendo a disposizione l'unità, sia ragionevolmente facile costruire o raggiungere qualsiasi altro numero per addizione ripetuta di essa. Dico ciò espressamente perché si è voluto invece vedere in questa frase addirittura qualche anticipazione dell'intuizione di Giuseppe Peano (1858-1932) che, com'è ben noto, ideò un sistema assiomatico dei numeri naturali; pur con tutto l'amore che possiamo nutrire per Dante, questa interpretazione (si veda, per esempio, Cimmino, 1988), mi sembra eccessiva. Molto più interessante trovo invece un altro riferimento aritmetico che si trova in Par. XXVIII 91-93: L'incendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che 'l numero loro più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla. Il grande numero cui si fa riferimento può essere inteso come quello degli angeli che nascono; questi non si contano a uno a uno, ma (forzando un po' la mano, si potrebbe dire, interpretando quasi oltre il lecito il parasinteto verbale "s'inmilla") a mille a mille. Quanto è grande il numero di questi angeli? Ebbene, Dante afferma che il loro immillarsi supera "il doppiar de li scacchi". È un evidente riferimento (attraverso la mediazione di una linea topica) alla famosa leggenda di Sissa Nassir, l'inventore degli scacchi. Egli chiese, come ricompensa al suo entusiasta sovrano, qualche cosa di apparentemente assai modesto: presa la scacchiera 8 per 8, egli chiese per sé un chicco di riso (altre volte si trova di grano) sulla prima casella; il doppio, cioè 2, sulla seconda; il doppio ancora, cioè 4, sulla terza; il doppio ancora, cioè 8, sulla quarta; e così via, fino all'ultima casella, la sessantaquattresima, appunto. Con calcoli abbastanza agevoli oggi, specie con l'uso di un calcolatore, ma che risultano essere assai ardui con il sistema romano, si trova che il numero di chicchi dovuti a Sissa Nassir è il seguente: 18 446 744 073 709 551 615, quasi illeggibile. Con una scrittura più compatta, oggi si preferisce la notazione cosiddetta scientifica: 1,8447·1019. Per rendersi conto dell'enormità di questo numero, si può ricorrere al seguente espediente: immaginare di distribuire i chicchi di Sissa Nassir su tutta la superficie terrestre, la cui misura, espressa in base ai dati attuali (e non quelli dei tempi di Dante), compresi mari, oceani, deserti ghiacciai, montagne ecc., è di circa 5,0995·1018 cm². Se distribuiamo i chicchi, troviamo 3,62 chicchi (diciamo pure, per arrotondare, 3 chicchi e mezzo) per ogni cm² di superficie terrestre. (Il che spiega perché il sovrano si sentì preso in giro e, anziché premiare Sissa Nassir, gli fece mozzare la testa, ottenendo, tra l'altro, un immenso risparmio). Ma il numero degli angeli "più che" raddoppiare, come i chicchi sulla scacchiera, "s'inmilla"; se si rifà lo stesso calcolo immillando (nella nostra interpretazione, cioè: 1 chicco sulla prima casella, 1000 sulla seconda, 1000000 sulla terza, 1000000000 sulla quarta, e così via) invece che raddoppiando, si trova un numero immenso, ma pur sempre finito: 10189 (tanto per avere un'idea, 2·10170 angeli per cm2 di terra... E c'è da rallegrarsi allora del fatto che gli angeli siano immateriali). Dante sapeva fare questi calcoli? Se sì, con quali strumenti? Non certo con il metodo dei latini, con sassolini (calculi) e abaco. Anche se non sapeva farli, conosceva qualcuno che li aveva fatti? Era tra le nozioni diffuse dell'epoca? Quel che è certo è che ai suoi tempi circolavano vari giochi matematici soprattutto sui libri d'abaco. La tradizione dei giochi matematici è illustre; basti pensare all'Ad acuendos juvenes di Alcuino (735-804), "ministro" di Carlo Magno, che certo traeva ispirazione da testi di Beda il Venerabile (che Dante pone in Par. X 131 accanto a un altro grande enciclopedista, Isidoro di Siviglia). Per fare un esempio, il celeberrimo indovinello della capra, del lupo e del cavolo che devono superare un fiume su una barca, appare sia su questo libro di Alcuino sia in opere di Beda.6 Mi parrebbe plausibile che tali indovinelli circolassero tra le persone colte a Firenze; e che uno spirito arguto e profondo come Dante non potesse non apprezzarli. Sebbene io abbia deciso di evitare nelle mie ricerche sulla presenza della matematica in Dante tutto quanto riguarda la numerologia, non posso non ricordare Purg. XXXIII 37-45, e in particolare: nel quale un cinquecento dieci e cinque numero la cui interpretazione ha fatto discutere curatori, commentatori, lettori e critici. Se si scrive il numero nel sistema allora più diffuso, quello romano, si trova DXV. È un anagramma? Di Dux, cioè forse Arrigo VII? Non è un anagramma? E allora potrebbe essere il monogramma greco di Cristo ("Unto del Signore"); oppure "Domini Xristi Vergatus", il famoso misterioso Veltro, figura d'altra parte assai ricorrente. Oppure potrebbe essere "Domini Xristi Vicarius", cioè il papa. Gli anagrammi numerici erano molto diffusi nel Medioevo ed è quindi probabile che Dante vi abbia fatto ricorso. Ma la mancanza di un'interpretazione sicura (cioè: autorevole tanto da mettere tutti d'accordo... per un po'), mi lascia ampi spazi di immaginazione. Si può pensare non a DXV ma a 515, nella forma araba, supponendo che Dante se ne fosse già appropriato. Si tratta di un numero che i numerologi hanno già studiato: sarebbe la distanza tra Terra e Cielo, espressa in anni, facendo riferimento a Ezechiele 17. Ciò se si accetta come lingua-base dell'interpretazione numerologica l'ebraico.7 Se invece si accetta il greco, 515 ha come codificazione parthenos, "vergine". Se - singolare coincidenza? - si accetta il latino, 515 si codifica in "Mater Christi". La "coincidenza" ha già scatenato ridde di "autorevoli esperti" in dispute. Appaiono, sempre nella Divina Commedia, molti altri passi aritmetici che sto raccogliendo e studiando per un'opera futura; in questo breve saggio mi limito a queste poche citazioni, non senza ricordare il paragone che Dante fa nel Convivio tra l'aritmetica e il Sole: così come il Sole illumina gli altri corpi celesti e di esso non è possibile sostenere la vista, così l'aritmetica illumina e permea tutte le altre discipline scientifiche. Sull'infinità dei numeri, poi, l'occhio dell'intelletto non può fermarsi "però che 'l numero quant'è in sé considerato, è infinito, e questo non potremo noi intendere". Come annunciato nel titolo di questo paragrafo, passerò ora alla probabilità che, scienza moderna per eccellenza,8 doveva ancora del tutto costruirsi come tale ai tempi di Dante; a proposito di questa disciplina, ho trovato un solo passo, peraltro famosissimo e citatissimo, in Purg. VI 1-3: Quando si parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara; In arabo, "dado" è "zara" o "zahr" (da cui, ovviamente, "azzardo") e il gioco, che ha molte varianti, è presto spiegato in quella più diffusa in Italia centrosettentrionale: si gettano 3 dadi su una superficie piana (può essere un tavolo, ma spesso veniva giocato per strada sul selciato). I due giocatori, nel breve intervallo di tempo che intercorre tra il lancio dei dadi e il loro arresto, dicono ciascuno un valore: vince la posta chi azzecca il risultato. I valori possibili sono, ovviamente, quelli che vanno da 3 a 18 compresi; ma, per regola, 3, 4, 17, 18 sono valori, per così dire, "neutri", sui quali i giocatori non possono puntare. L'analisi del gioco è matematicamente assai banale: due numeri, 10 e 11, hanno probabilità maggiori di uscire di tutti gli altri e puntare sui valori-limite ammessi, cioè 5 e 16, dà minime speranze di vittoria. Nell'edizione critica a uso scolastico (Sapegno, 1958) a pag. 58 è emblematico il fatto che, nella nota a pie' pagina, nel tentativo di dar ragione all'accomunare i valori 3, 4, 17, 18 nell'esclusione detta, si trovi la seguente spiegazione: "(...) ciò è dovuto al fatto che la loro possibilità di uscita è unica". Ora, l'analisi è corretta nei casi 3 e 18, i quali hanno in effetti 1 probabilità su 216 di apparire; ma 4 e 17 hanno probabilità non uguale a quella, bensì addirittura tripla: 3 su 216. Né miglior sorte spetta all'appendice della voce "zara" dell'Enciclopedia Dantesca; ivi, a pag. 1166 si trova: "Erano considerati nulli (...) i numeri ottenibili con una sola [sic!] combinazione tra i tre (...) dadi (ossia i due numeri più bassi e i due numeri più alti possibili: 3 e 4, 17 e 18) per il gioco con i tre dadi (...)". Se è vero che Dante rappresenta ancora oggi un esempio straordinario di unificazione delle "due culture" di Snow, è, ahimé, altrettanto vero che da molto tempo si è persa ogni speranza di proseguire su questa strada: la specializzazione culturale fa sì che anche il più grande competente della disciplina A rischi di essere del tutto ignorante nella B, con grande nocumento per entrambe. 2. Logica formale A proposito della presenza e della tipologia della logica e del suo uso da parte di Dante nella Divina Commedia, molti autori hanno espresso più d'un diverso parere. Se è vero che la "logica" usata nelle argomentazioni da Dante è schiacciante, dove egli attinge questa forza deduttiva? E la logica stessa è mai argomento esplicito in Dante? Va da sé che non si tratta ovviamente di logica matematica, la quale nasce solo con l'opera di George Boole attorno alla metà del XIX secolo; direi che in Dante la logica è esercizio retorico, è intelligenza, è cultura, è chiarezza di idee; nel modo di dire comune, in effetti, questa è la "logica". Ebbene, pur presente, ma difficile da definirsi, io non mi voglio qui occupare di questa "logica-del-senso-comune", intendo invece dedicare energie a quell'aspetto della logica, in Dante, che si può pensare appartenere a tutta quella serie di riflessioni che, a partire contemporaneamente da Aristotele e dai megarico-stoici, hanno appunto portato piano piano a Boole, anche attraverso i logici medievali, regalando al mondo la logica matematica così come oggi è intesa. Dove, come, quando Dante ha appreso la logica? Certo, nello studio del trivio: grammatica, retorica, dialettica, dove, appunto, quest'ultima disciplina coincide in gran parte con la logica. E poi in quei famosi 30 mesi da me già citati in D'Amore 1991 e nel paragrafo precedente. Se Cicerone sta per retorica, Boezio sta (anche) per logica, dato che attraverso Boezio Dante è arrivato ad Aristotele (del quale, nella versione latina, il cosiddetto "Aristotele latino", ha certo una lettura diretta), e poi a Pietro Ispano la cui opera, come vedremo, conosce e cita. Dante studia poi Tommaso d'Aquino, anche lui logico finissimo. Tra gli studi di Boezio che Dante potrebbe aver fatto, c'è quel Modi significandi sive quaestiones super Priscianum maiorem che costituisce sostanzialmente un testo di logica delle modalità. Boccaccio immagina (inventandolo, pare, di sana pianta) un viaggio di Dante a Parigi per creargli radici dell'aristotelismo radicale (che potremmo impropriamente chiamare averroismo) e delle sue conoscenze di logica. Ma studi ben noti, soprattutto quello dettagliatissimo di Carlo Calcaterra (Calcaterra, 1948), mostrano come questo aristotelismo radicale fosse attecchito nella Facoltà di Arti a Bologna, proprio nel periodo frequentato da Dante (e qualcuno dice Cavalcanti) nell'ateneo felsineo. D'altra parte, grazie a Michele Scoto, la tradizione aristotelica interpretata da Averroè giunse alla corte di Federico prima a Bologna che a Parigi (com'è testimoniato dalle lettere di Pier delle Vigne e di Manfredi). Infine, come non ricordare la scoperta di J. Pinborg (fatta nel 1967) del manoscritto Quaestiones magistri Mathei Bononiensis super modos significandi et super grammaticam, precedente l'opera dei (oggi diremmo) danesi Martino e Boezio? A Bologna, certe idee sulla logica modale circolavano già da tempo; e Bologna non ebbe le condanne che ebbe Parigi, dato che qui mancava una Facoltà di Teologia, mentre quella giuridica era protetta dall'imperatore. Tant'è vero che, quando l'opera di Boezio fu condannata nel 1277, essa non scomparve da Bologna, se è vero che Gentile da Cingoli la trascrisse e la glossò: è questa versione che, verosimilmente, ebbe poi tra le mani Dante. Ad ulteriore conferma di questa posizione chiamo in causa lo studio di M. Corti, Dante a un nuovo crocevia (Firenze, 1982), nel quale si annoda il sottile filo che parte dal Modi significandi di Boezio e termina con il De vulgari eloquentia: impossibile mettere in discussione il fatto che la formazione logica di Dante passi attraverso lo studio dell'opera di Boezio (e poi di Sigieri e di Martino di Dacia) nell'ambiente bolognese, come afferma anche P. Rossi (Rossi, 1989, pagg. 277-286). Detto ciò, andiamo dunque alla ricerca di passi che trattano esplicitamente di logica nella Divina Commedia. Comincerò da Par. XII 134-135: ... e Pietro Spano, lo qual giù luce in dodici libelli; Si noti che Dante parla direttamente di Pietro Ispano e non del papa Giovanni XXI (che era poi il ventesimo papa di nome Giovanni, in verità). Questo è un richiamo esplicito a un personaggio che Dante doveva amare e ben conoscere; quei "dodici libelli" sono i dodici libri che compongono le Summulae logicales di Pietro, opera che ci permette di dire che si tratta del massimo logico medievale.9 A lui si deve una definizione di logica tipicamente medievale che consente ancora qualche meditazione critica: "Dialectica est ars artium et scientia scientiarum ad omnium methodorum principia viam habens". Dante conosceva questa imponente opera di logica a lui contemporanea e di respiro quasi moderno. Si pensi che nel I volume si trova già traccia di quello che oggi viene chiamato "calcolo degli enunciati" (per quanto ingenuo), mentre nel IV trova posto la sillogistica. È in quest'opera che si trovano i famosissimi versi mnemonici dei sillogismi validi: barbara, celarent, darii, ferion (tanto per limitarci alla prima figura) che poi si sono diffusi, tanto che oggi si usa dire "un sillogismo in barbara" per indicare la forma universale affermativa-universale affermativa-universale affermativa: "ogni B è A, ogni C è B; dunque ogni C è A". È in quest'opera che i quattro giudizi delle forme A E I O (universale affermativa: Affirmo; universale negativa: nEgo; particolare affermativa: affIrmo; particolare negativa: negO), si trovano nella celeberrima forma a quadrato, ai quattro vertici; in tale quadrato, A ed E sono contrariae; I e O sono subcontrariae; A e I, E e O sono subalternae; A e O, E e I sono contradictoriae. In questi termini latini corsivi, sono racchiuse le regole aristoteliche di conversione, che i logici medievali studiarono con estrema cura (Carruccio, 1971b). Tale "quadrato" si trova ancora oggi in molti schemi su libri di testo di logica o di filosofia. Dante conosceva tutte queste cose, avendo studiato logica al massimo livello per i suoi tempi. (In fondo, Pietro Ispano s'era meritato il Paradiso, almeno per questo). Sempre in Par. VI 19-21: Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era, vegg'io or chiaro sì, come tu vedi ogni contradizion e falsa e vera. Siamo nell'ambito della famosissima narrazione della conversione di Giustiniano (482-565), "Io", a opera di Agapito,"li": "(...) ciò che io allora accoglievo come materia di fede [la dottrina ortodossa della duplice natura di Cristo], fidando nell'autorità di lui, ora lo vedo con la stessa chiarezza ed evidenza con cui tu intendi che, di due proposizioni che si contraddicono, una è necessariamente vera e l'altra falsa" (Sapegno, 1958). Si tratta, secondo tutti i commenti che ho analizzato, del "principio del terzo escluso": dati due enunciati dei quali uno è la negazione dell'altro (A e non A) uno è vero e l'altro è falso. A lato di questa interpretazione per così dire "classica", se ne può proporre un'altra più azzardata, ma giustificabile proprio sulla base della conoscenza che Dante dimostra delle Summulae logicales. Ivi si trova enunciato il celebre metateorema dello Pseudo Scoto: "Ex absurdis sequitur quodlibet", secondo il quale da una contraddizione si può dimostrare qualsiasi cosa, e il falso e il vero (su questo interessante metateorema, si vedano Carruccio, 1971 a-b; Bochénski, 1972; è dato oramai per certo che non si tratta di un risultato dovuto a Scoto o a Pseudo Scoto, ma a Giovanni di Cornovaglia). Mi sembra che questa interpretazione spieghi meglio il passo in questione e si adatti meglio alla situazione: dalla fede alla chiarezza evidente, dalla fede alla ragione, dunque alla dimostrazione, altrimenti l'interpretazione precedente non sarebbe altro che un atto di fede, un "principio logico" appunto, e non un teorema; il che sembra contraddire proprio lo spirito di quel che Dante sta cercando di dire. "Principio" era questo, si noti bene, anche ai tempi di Dante, derivato dalla logica di Aristotele. La natura dimostrativa del teorema di Giovanni di Cornovaglia meglio coglie, a mio avviso, il passaggio dalla fede alla ragione in Giustiniano. Ancora un riferimento alla logica lo troviamo in Par. XIII 98-99: ...o se necesse con contingente mai necesse fenno; Si tratta di un passaggio "tecnico" di logica modale: in un sillogismo una premessa necessaria e una contingente possono dare una conseguenza necessaria? Il problema, non banale, era già stato affrontato e negativamente risolto da Aristotele in Analitici primi I 16. Dunque, una questione erudita di logica tecnica che Dante mostra di conoscere e alla quale fa volentieri ricorso (tutta l'argomentazione di questo brano è logica, dato che si sta dibattendo una questione teologica ed è risaputo che Tommaso d'Aquino era ben noto per le sue argomentazioni teologiche con strumenti di sofisticata logica). Consapevole di forzare un po' la mano, a questo punto, ma anche sicuro di proporre un'argomentazione affascinante, invece di proseguire sulla strada intrapresa (logica esplicita in Dante) mi avvicino a uno dei brani più intensi di tutta l'opera, Inf. XXVII 112-123, nel commento del quale azzarderò un po'. Si tratta della vicenda di Guido da Montefeltro, convinto a peccare gravemente dal papa Bonifacio VIII. Lo sventurato frate francescano Guido, ex grande condottiero, narra a Dante la sua tragedia. Il papa lo convince al tradimento ma lo rassicura, assolvendolo in anticipo. Guido si lascia persuadere, pecca, e poi, anni dopo, muore. A quel punto lo stesso Francesco d'Assisi lo va a prelevare per portarselo seco in Paradiso, come era d'uso per le anime dei fraticelli dell'ordine, quando appare un "nero cherubino"... Francesco venne poi, com'io fu' morto, per me; ma un de' neri cherubini li disse: "Non portar: non mi far torto. Venir se ne dee giù tra' miei meschini perché diede il consiglio fraudolente, dal quale in qua stato li sono a' crini; ch'assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente". Oh me dolente! Come mi riscossi quando mi prese dicendomi: "Forse tu non pensavi ch'io loico fossi!". Questo aggettivo finale, "loico", è una tentazione troppo forte: come non credere a un... invito da parte di Dante a verificare che il nero cherubino abbia ragione, e a non fidarsi dell'apparente evidenza? Dunque, si svolge una lotta tra Francesco d'Assisi (il fondatore dell'ordine, un santo, addirittura) e uno (qualunque) dei neri cherubini, e la lotta è a suon di logica. E quel nero cherubino trionfa, trasportandosi la sua preda "giù" all'Inferno in virtù di un ragionamento schiacciante che lascia il povero Francesco con tanto di naso. Ettore Carruccio (1971 b) ha esaminato il testo dantesco sulla base della logica formale; io mi limito qui, per ora, a ripresentare i conti con un simbolismo un po' più moderno ma, avviso, molto ingenuo. Siano: U: l'insieme-universo degli esseri umani V(x): il predicato a un posto: x ha gravemente peccato P(x): il predicato a un posto: x si è pentito A(x): il predicato a un posto: x è stato (validamente) assolto g: la costante: Guido da Montefeltro. Le premesse del nero Cherubino sono tre: 1. V(g) cioè: g ha gravemente peccato (dando il consiglio fraudolento); 2. ( x) ¬ [A(x)^¬P(x)] cioè: assolver non si può chi non si pente; 3. ( x) ¬ [P(x)^V(x)] cioè: né pentere e volere insieme puossi. La tesi del nero Cherubino è: T: ¬A(g) cioè: Guido non è stato (validamente) assolto. Ora, è indubitabile alla prova dei fatti che le premesse del demonio sono accettabili e che le dobbiamo accettare come vere; in più, se applichiamo la regola di particolarizzazione a 2. e a 3. (cioè: sostituiamo la costante g al posto della generica x), abbiamo: 2'. ¬[A(g)^¬P(g)] 3'. ¬[P(g)^V(g)] Consideriamo ora l'implicazione: (1^2'^3') ?T. Facendo conti piuttosto facili (trattando le formule chiuse come enunciati) si scopre che si tratta di una tautologia; inoltre, usando la regola di congiunzione, essendo 1, 2', 3' premesse vere, anche 1^2'^3' è vera. Ora, con la regola del Modus Ponens, essendo l'implicazione vera e l'antecedente vero, è vero il conseguente, cioè è vera la tesi del nero cherubino. Il diavolo ha quindi perfettamente ragione e il povero Guido sconterà una pena eterna per non aver fatto lui stesso questo ragionamento prima di cedere alle lusinghe del papa. Dante avrebbe potuto ragionare così? A parte il simbolismo moderno, a parte l'evidenza e il nome dati alle regole utilizzate (evidenza che è di stile moderno, dato che i logici medievali spesso davano per scontata l'applicazione delle regole) la risposta è positiva: tutto ciò si basa in fondo sulla regola del Modus Ponendo Ponens molto usata in quel periodo ed il cui nome è proprio medievale, quello stesso usato da Pietro Ispano. Non è quindi da escludere che Dante avrebbe saputo argomentare in modo simile a questo anche se mettendo forse meno enfasi nei singoli passaggi e, certamente, con nessun simbolismo. Ma non basta. Abbiamo visto che Dante conosceva i sillogismi; ebbene, è possibile argomentare che il nero cherubino ha ragione anche con un adeguato e semplice sillogismo. "Assolver non si può chi non si pente" significa che: "Ogni assolto è un pentito"; in termini di insiemi, se A è l'insieme degli assolti (validamente) e P quello dei pentiti: A P (l'insieme A è contenuto in P): "Né pentere e volere insieme puossi" significa che: "Nessun pentito è un peccatore volontario"; se con V indichiamo l'insieme dei peccatori consapevoli, abbiamo: P CV (cioè P è incluso nel complementare di V): Se ne deduce, con un banale sillogismo, che A CV, cioè che l'insieme degli assolti è incluso nel complementare dei peccatori volontari o, meglio, che nessun assolto può essere un peccatore volontario. In modo esplicito, se g è un elemento di A, allora è anche elemento di CV, cioè non è elemento di V. Anche i sillogismi incatenano Guido al suo destino. Noi ci chiediamo solo quale dei due ragionamenti sia quello più vicino a quanto avrebbe potuto fare Dante, con la sua competenza in logica, a parte, al solito, ogni questione formale e ogni uso di simbolismo.10 3. Geometria Ho già ricordato nel primo paragrafo come Dante, dopo la morte di Beatrice, avesse frequentato la "scuola dei religiosi" e le "disputazioni dei filosofanti", leggendo Cicerone (la retorica) e Boezio. Sempre nel primo paragrafo, Boezio ha significato principalmente aritmetica; ma non dimentichiamo che lo stesso Boezio ha tradotto Euclide.11 Era quindi inevitabile, studiando Boezio, incontrare l'opera del geniale alessandrino. Inoltre i primi secoli del II millennio sono tempi di traduttori solerti: a partire dal 1116, Platone da Tivoli traduce una grande quantità di libri di matematica dall'ebraico (quelli che Abraham Car Higgha Nasi aveva a sua volta tradotto dal greco e dall'arabo); Platone scrive anche il celebre Liber embadorum Savosardae, che all'epoca ebbe discreta diffusione. Nel 1175 Gherardo da Cremona traduce dall'arabo al latino gli Elementi di Euclide, ma già mezzo secolo prima Abelardo da Bath lo aveva fatto. Inoltre, sui vari libri d'abaco (già ricordati nel primo paragrafo), figuravano quasi sempre regole geometriche, per lo più pratiche, adatte ad agrimensori, muratori o artigiani (i commercianti, cioè coloro che più di ogni altro si servivano di aritmetica, avevano poca dimestichezza con la geometria perché non ne facevano un grande uso). Dunque, lo studio della geometria di Euclide, intesa come rigoroso sistema deduttivo, non si poteva praticare banalmente attraverso i maestri d'abaco più rozzi, ma richiedeva analisi più approfondite che, di solito, passavano attraverso la filosofia. Dobbiamo ricordare, a questo punto, che Aristotele è riportato in Occidente e in Europa grazie agli Arabi, in arabo, ma è accolto, anche proprio per tale motivo, con estrema diffidenza. È del 1210 il decreto del Consiglio Provinciale di Parigi, confermato 5 anni dopo dal legato pontificio Roberto di Courçon: "... nec libri Aristotelis de naturali philosophia nec commenta legantur Parisiis publice vel secreto". Sarà poi il sistematico lavoro dei domenicani a inserire addirittura l'aristotelismo all'interno della filosofia cristiana. Il modo in cui Dante accoglie le tesi di Aristotele, così in anticipo sui tempi, non può non aver creato dei sospetti nei suoi contemporanei. Anche per questo, insieme ad altri motivi più vari, nel 1335 (14 anni dopo la morte di Dante) il Capitolo provinciale dello Studio generale in Santa Maria Novella vietò a tutti, frati, giovani e vecchi, di leggere le opere poetiche e prosastiche in lingua volgare del "cosiddetto Dante", con il pretesto che dovevano occuparsi più di teologia. In particolare si proibiva "lectio librorum poeticorum seu libellos per illum qui Dante nominatur, in vulgari compositos". Ed è qui il punto: forse lo studio di Aristotele che Dante intraprese con una certa dose di coraggio in modo così serrato (come abbiamo visto nel paragrafo 2) portava necessariamente a fare i conti con la geometria. Uno dei più famosi passi matematici di Dante è certo in Par. XXXIII 133-138: Qual è 'l geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond'elli indige, tal era io a quella vista nova: veder volea come si convenne l'imago al cerchio e come vi s'indova; Che cosa sia la "vista nova" è talmente risaputo che sarebbe offensivo nei riguardi del lettore farne anche solo cenno; ma capire che cosa c'entra la "vista nova", appunto, con quel "misurar lo cerchio", non è immediato. Gli insegnanti e gli studenti, in questi casi, consultano le note di un critico poste in fondo alle pagine dei manuali scolastici. In un testo diffuso (Sapegno, 1958) si trova la spiegazione classica: "come il geometra che si applica, concentrando tutte le sue facoltà mentali, all'insolubile problema della quadratura del circolo..." (corsivo mio), "tal ero io dinanzi a quella straordinaria visione, ché invano...". Che cos'è esattamente il problema della quadratura del cerchio? Si può esprimere in due modi almeno, tra loro equivalenti: - data una circonferenza, trovare un quadrato o un rettangolo il cui perimetro abbia la stessa lunghezza della circonferenza; - dato un cerchio, trovare un quadrato o un rettangolo la cui area abbia la stessa estensione del cerchio. Questo problema è stato risolto molto brillantemente nell'antichità greca, per esempio da Dinosastro nel -V sec. (ma non solo da lui; si veda Carruccio, 1964). Era una cosa ben nota, diffusa tra le persone colte, non solo tra i matematici, tra gli altri ben spiegata da Platone. Da un punto di vista più modestamente scolastico, il lettore ricorderà d'aver appreso in quarta o quinta elementare che una circonferenza di raggio r misura 2pr; dunque, se si prende un rettangolo di lati 1 e pr-1, lunghezza della circonferenza e perimetro di quel rettangolo coincidono; così, l'area di un cerchio di raggio r è, come ben sa ogni bambino di 10 anni, pr²; dunque, un rettangolo di lati pr ed r avrà area uguale a quella del cerchio. perimetro del rettangolo: 2pr misura della circonferenza: 2pr area del rettangolo: pr² area del cerchio: pr² Ma allora, dove sta l'impossibilità del problema? Dante ha fatto un sottinteso; per motivi soprattutto estetici i Greci privilegiavano le soluzioni "con riga e compasso" (è un modo di dire che nasconde qualche cosa di più preciso che non il mero riferimento ai due strumenti: si veda Carruccio, 1964; sorvolerò qui sulle questioni tecniche: il lettore può immaginare, in prima approssimazione, che si tratti davvero di servirsi di una riga - non graduata - e di un compasso). La soluzione data da Dinostrato e quelle date dagli altri studiosi greci della quadratura del cerchio sono sì corrette, ma non sono state ottenute con riga e compasso. Inutilmente, e per secoli, dapprima i matematici greci e poi via via tutti gli altri, cercarono di quadrare il cerchio con questi strumenti, inutilmente: oggi sappiamo che ciò è impossibile (lo ha dimostrato Lindemann, ma solo nel 1882). I Greci devono averlo supposto, anche se in modo implicito: non può essere un caso se i tre problemi più amati e più studiati (i tre "problemi classici della geometria greca", citatissimi da Platone), tra i quali, appunto, quello qui in esame, erano perennemente presi ad esempio.12 (La cosa curiosa è che a nessun docente di lettere della scuola superiore, e a nessuno studente in prossimità di maturità, venga in mente che, mentre nelle ore di lettere si commentano questi versi in tal modo, nelle ore di matematica il cerchio, dalla quinta elementare in poi, si sa quadrare, eccome). Dunque non è impossibile il problema della quadratura del cerchio: è impossibile nelle modalità dette, con quegli strumenti. La nota del critico è, dunque, quanto meno, fuorviante. Ora, però, il problema è: poiché Dante non dice esplicitamente "con riga e compasso", è da ritenere che anche lui cadesse nell'errore del critico moderno, oppure che conoscesse la questione e ritenesse che i suoi lettori pure la conoscessero talmente bene che non valeva la pena di star lì a fare i pignoli? Non avremo mai la risposta a questa domanda; ma la competenza geometrica che si può dimostrare in Dante mi spinge quasi ad azzardare che siamo di fronte ad un altro esempio di sconfitta attuale dell'unicità della cultura: in Dante le "due culture" convivevano; nei suoi lettori attuali, ahimé, spesso non solo nonmatematici ma anti-matematici (perché stupidamente la matematica è considerata materia "vuota ed arida come i sassi", come diceva il filosofo Gentile), no. C'è però da dire che per "quadrare il cerchio" spesso si intende una visione diversa, anche se del tutto equivalente alla precedente, e cioè trovare l'esatto valore del rapporto tra lunghezza di una data circonferenza e suo raggio, rapporto uguale per tutte le circonferenze. In qualsiasi circonferenza, il rapporto tra la misura della circonferenza stessa e il suo diametro è costante. A tale rapporto costante, studiato per secoli, è stato dato il nome p nel XVIII secolo. Esso vale circa 3,14. Ora, qui si dovrebbe aprire tutta un'altra storia. Aristotele afferma in Categorie 7 b 31-33 che tale problema non è "ancora" scientifico, intendendo, seguo la traduzione critica di G. Colli, che non esiste una scienza di tale quadratura, anche se esiste il problema come oggetto del sapere. Si potrebbe supporre che Dante abbia fatto uso di queste affermazioni, più che di quelle di Boezio che, invece, al riguardo prende una... cantonata, proprio commentando il precedente passo di Aristotele; Boezio afferma, infatti, che il problema è stato risolto; egli fa riferimento senz'altro alla misura di p che si suole far risalire al matematico greco Briso o Brisone, condannata da Aristotele e addirittura da questi ridicolizzata, ma accettata da molti geometri e cioè di che corrisponde grosso modo al valore medio dei due estremi fissati successivamente per p da Archimede, cioè: 3 + e 3 + . (In realtà, Brisone non pare far cenno al valore , limitandosi a dire che tra il quadrato inscritto e quello circoscritto a un cerchio ce n'è uno equiesteso al cerchio: si veda Loria, 1914 pagg. 96-97). Ora si apre un giallo piuttosto complesso: • Dante aveva letto Archimede? • se non lo aveva letto, poteva conoscere i calcoli del Siracusano per sentito dire? • Dante accettava davvero la misura , molto diffusa nella sua epoca, ma rifiutata dai geometri più sofisticati? • se Dante afferma nel Par. che tale rapporto esatto non esiste, quale è il calcolo esatto da fare in Inf. XXIX 7-9 circa la misura delle bolge? • come mai Dante, fedele lettore di Boezio, non accetta il valore da questi suggerito per p? E così via. Si potrebbe rispondere a ciascuna domanda a suon di date: traduzioni di Archimede furono compiute dal frate fiammingo Guglielmo di Mörbeke (12151286), è vero, ma esse circolarono con molta difficoltà; per esempio, ne ebbe in mano una rarissima Nicolò Fontana da Brescia (il Tartaglia), che nel 1543 e nel 1565 fece credere effettuate da lui, appunto, traduzioni di Guglielmo (l'imbroglio, caratteristico del pur eccellente matematico bresciano, fu scoperto solo nel 1884, quando venne alla luce un'altra rara traduzione di Guglielmo nella biblioteca Vaticana, vedi Loria, 1929 e Maracchia, 1979). Prima di passare ad altro, a complicare le cose sta il fatto che Dante conosceva Brisone: lo cita, infatti in Par. XIII 121-126, addirittura con Parmenide di Elea, con Melisso e altri grandissimi (Andriani, 1981, pagg. 145-146). Ma eviterò di narrare tutta la storia e di entrare in dispute di questo tipo, rinviando ad altra occasione di maggior respiro. Proseguendo nella ricerca di altri passi a carattere geometrico, troviamo nella Divina Commedia paragoni, esempi o parafrasi per i quali, appunto, il campo di riferimento è la geometria, anche quando avrebbe potuto essere qualsiasi altro. Per esempio, in Par. XIII 88-101 si sta discutendo il problema seguente: c'è contraddizione tra la sapienza perfetta di Adamo e di Cristo e la sapienza di Salomone? Tutta la questione è interessante, ma io punto l'attenzione specificamente sui versi 95-102: ... el fu re, che chiese senno acciò che re sufficiente fosse; non per sapere il numero in che enno li motor di qua sù, o se necesse con contingente mai necesse fenno; non si est dare primum motum esse, o se del mezzo cerchio far si puote trïangol sì ch' un retto non avesse. Si tratta di due affermazioni, l'una tratta dalla fisica e l'altra dalla geometria: • è possibile che vi sia un moto primo, cioè a sua volta non causato da un altro moto; • è possibile che esista un triangolo inscritto in una semicirconferenza, ma non rettangolo. Ebbene, Dante le prende come esempio palese di qualche cosa di falso perché contraddicono alla modalità della necessità logica: • se c'è un moto, allora c'è anche necessariamente qualche cosa che l'ha generato, una causa; • se un triangolo è inscritto in una semicirconferenza, allora necessariamente quel triangolo è rettangolo, cioè ha un angolo retto. Ora, mentre l'affermazione di carattere fisico è legata al discorso che si sta facendo (e porta, come ben noto, all'esistenza di un unico ente in grado di causare, senza precedente causa, un motore a sua volta immobile), come campo di riferimento analogico, per prelevare un esempio di qualche cosa di altrettanto necessario, Dante avrebbe potuto scegliere qualsiasi altro dominio, anche e soprattutto del mondo dell'esperienza; sceglie la geometria perché gli è facile, consono, immediato. E forse perché, insisto, quel tipo di competenze era diffuso e ovvio tra i letterati dell'epoca e tra le persone colte. Si noti anche lo stile di queste affermazioni, pedante e scolastico, ripetitivo: sembrano voler richiamare alla mente un insegnamento accademico cattedratico; ed è verosimile che questioni di filosofia e di teologia venissero davvero insegnate così; la geometria sembra più pertinente a quei campi che non ad altri. A conferma di quanto asserito, ecco Par. XVII 13-15: O cara piota mia che sì t'insusi, che, come veggion le terrene menti non capere in trïangol due ottusi, così vedi le cose contingenti anzi che sieno in sé, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti; Dante ha appena incontrato il suo avo Cacciaguida e intende dirgli che lo vede così elevato, così in alto con il suo spirito che, come le menti umane vedono con assoluta certezza che un triangolo non possa avere due angoli interni ottusi, così Cacciaguida vede le cose del futuro prima che avvengano. L'immagine è a dir poco stupenda: una specie di big bang temporale, un punto di assoluta contemporaneità, prima dell'inizio della freccia temporale. Ancora una volta, dovendo dare un esempio di impossibilità logica, Dante ricorre a un esempio geometrico (è il teorema XVII del I libro degli Elementi di Euclide, enunciato ben 17 volte nelle opere di Aristotele e dimostrato per intero in Metafisica 1051 a 24-25, enunciato ma non dimostrato, come sempre, da Boezio). Non so se sia lecito citare nell'ambito della geometria anche uno splendido esempio in realtà di ottica; ma poiché si tratta di ottica geometrica non mi sembra poi del tutto fuor di luogo; lo si trova in Purg. XV 16-21: Come quando da l'acqua o da lo specchio salta lo raggio a l'opposita parte, salendo su per lo modo parecchio a quel che scende, e tanto si diparte dal cader della pietra in igual tratta, sì come mostra esperienza ed arte; Un raggio di luce emana, come Virgilio spiega a Dante, dal volto di un angelo. Ma, pur essendo luce riflessa, non è solare, visto che il Sole è alle spalle dell'angelo. Come già interpretarono Buti e Landino e come Sapegno spiega, è la luce che emana direttamente da Dio a colpire, come raggio riflesso, il volto del Poeta. Il che giustifica, secondo lo stesso Sapegno, la minuzia altrimenti oziosa con la quale Dante spiega il processo matematico-fisico che contraddistingue il fenomeno della riflessione della luce: il raggio incidente e quello riflesso si trovano sullo stesso piano perpendicolare al piano di riflessione; ma non solo: l'angolo di incidenza e l'angolo di riflessione (pensati rispetto alla verticale: il "cader della pietra") sono uguali. "Sì come mostra esperienza e arte": "arte" sta per "esperimento" e dunque sarebbe: "esperienza ed esperimento" (non posso qui non ricordare ancora le famose lezioni di ottica date da Pietro Ispano a Siena, notando come lo stesso Pietro fosse fautore di un metodo euristico). Altri esempi di Dante fisico si possono trovare in Cimmino, 1988. Per avere un'idea del tentativo che fa Dante di applicare un metodo sperimentale, del tutto ingenuo ai nostri occhi moderni, più "qualitativo" che "quantitativo", si veda Par. II 94-105, che lascio senza commenti: Da questa instanza può deliberarti esperienza, se già mai la provi, ch'esser suol fonte ai rivi di vostr'arti. Tre specchi prenderai; e i due rimovi da te d'un modo, e l'altro, più rimosso, tr'ambo li primi li occhi tuoi ritrovi. Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso ti stea un lume che i tre specchi accenda e torni a te da tutti ripercosso. Ben che nel quanto tanto non si stenda la vista più lontana, lì vedrai come convien ch'igualmente risplenda. Evito qui ogni riferimento a Dante astronomo, tolemaico e aristotelico (e scrivo questa congiunzione con enfasi particolare in modo consapevole, perché tanto ci sarebbe da discutere...), il che mi porterebbe assai lontano. Ma non senza ricordare che, per poter comprendere e spiegare il sistema delle sfere concentriche necessarie a concepire il sistema aristotelico, occorre qualche non banale riflessione. Appendice 3 Spigolature (minime) dantesche su temi matematici Premessa Di solito il connubio Commedia-matematica viene inteso come studio delle varie numerologie nascoste nell'opera; ma in passato ho già fatto vedere come questa interpretazione sia piuttosto riduttiva e assai poco interessante dal punto di vista matematico, perché lascia fuori interi campi della matematica, per esempio la geometria e la logica, di cui la Commedia è ricchissima (D'Amore, 1993, 2001). Un'ennesima rilettura mi spinge ora a ulteriori (minime) note che hanno il valore di riflessioni personali. Nota 1 Par. XXVII 115-117: Dante paragona i moti dei vari cieli, dicendo che essi sono misurati a partire da quello del Sole, preso come unità di misura. Non è suo moto per altro distinto, ma li altri son mensurati da questo, sì come diece da mezzo e da quinto. Quella che segue è una delle più celebri note di commento a questi versi, fatta da Natalino Sapegno: "Il movimento del Primo Mobile non è determinato e misurato da un altro movimento; ché anzi tutti gli altri moti prendono da esso la loro misura, si ragguagliano ad esso così come il numero dieci è misurato esattamente dal suo mezzo, il cinque, e dal suo quinto, il due (essendo appunto il dieci il prodotto di cinque per due)" (Sapegno, 1958). Notiamo che: Per completare l'intero, restano , appunto: ; d'altra parte: 10 = 5+ 2 + (5 - 2). Questa banale relazione aritmetica è legata a un celebre indovinello, molto in voga nel Medioevo, ma di tradizione assai più antica: ho un contenitore da 10 litri colmo; devo consegnare 3 litri, ma ho a disposizione solo un contenitore da 5 litri vuoto e uno da 2 litri vuoto; come fare? Si riempie il contenitore da 5 litri, si versa parte del suo contenuto nel contenitore da 2 litri, cosicché nel contenitore da 5 litri ne restano esattamente 3. Questo gioco di versamenti mostra che stretta relazione vi sia tra il 10, la sua metà e la sua quinta parte. L'interpretazione di Sapegno come moltiplicazione viene riproposta nel gioco come addizione. Se non avessi segnalato altrove la curiosità di Dante per i giochi a carattere matematico, la spiegazione del Sapegno sarebbe sufficiente; ma quel "mensurati" mi obbliga a pensare anche al gioco dei versamenti appena citato. Nota 2 Par. XVII 23-24: ... avvegna ch'io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura. Dante sta dicendo a Cacciaguida che sia nel Purgatorio sia nell'Inferno gli sono state dette "parole gravi" riguardo alla sua "vita futura", a causa delle quali deve ben sentirsi saldo a terra per poter affrontare gli eventi che l'attendono. "Tetragono" è il termine di paragone della stabilità. Ecco il commento tomistico (riportato in Sapegno, 1958) alla descrizione del termine fatta da Aristotele Etica I, 10, Retorica III 11: "Tetragonum nominat perfectum in virtute ad similitudinem corporis cubici, habentis sex superficies quadratas, propter quod bene stat in qualibet superficie [sottointeso: piana]. Et similiter virtuosus in qualibet fortuna bene se habet". Perfetto. Ma Sapegno sua sponte in un inutile ed errato commento premette: "[Tetragono] è, genericamente, ogni figura geometrica con quattro angoli; e più specialmente il cubo, inteso come esempio di perfetta stabilità". Ma gli "angoli" si addicono alle figure piane e quindi "tetragono" sarebbe sinonimo di "quadrilatero". Mentre "cubo" è una figura solida sulla quale, basta guardare, vi sono almeno 24 angoli, oppure, se si vuole, 8 angoloidi e non 4. Quali sarebbero i "4 angoli" del cubo? Talvolta è meglio tacere. Nota 3 Par. XII 88-96: E a la sedia che fu già benigna più a' poveri giusti, non per lei, ma per colui che siede, che traligna, non dispensare o due o tre per sei, non la fortuna di prima vacante, non decimas, quae sunt pauperum Dei, addimandò, ma contro al mondo errante licenza di combatter per lo seme del qual ti fascian ventiquattro piante. A noi interessa precisamente il verso 91: "non dispensare o due o tre per sei". Ma la cosa è complessa e richiede qualche spiegazione. I personaggi in questione sono: Bonaventura da Bagnoregio (al secolo Giovanni Fidanza, 1217 ca.-1274), che sta tessendo il panegirico di Domenico di Guzmán, così come Tommaso d'Aquino aveva a sua volta fatto per Francesco d'Assisi; filosofo e teologo, Doctor Seraphicus, professore alla Sorbona, amico di Tommaso d'Aquino, anch'esso santo. Scrisse la più importante biografia di Francesco d'Assisi (1182-1226), fu vescovo e cardinale, nonché ministro generale dell'ordine francescano e ispirò Giotto da Bondone (1267-1337) con la sua biografia (Legenda maior) per il ciclo delle storie nella basilica di Assisi; secondo il suo pensiero teologico la conoscenza deriva dai sensi, ma l'anima non ne ha bisogno per conoscere Dio; Domenico di Guzmán (1170-1221), fondatore dell'ordine dei frati predicatori, anch'egli "santo (quasi) subito" (1234), famosissimo per la sua generosità, manifestata fin dalla più giovane età e prima ancora di prendere gli ordini. Poliglotta e grande viaggiatore per tutta Europa, sia presso varie corti sia con delicati compiti di evangelizzazione; fondatore di un ordine religioso basato su rigide norme di vita, nel 1209 non esitò a condannare con grande coraggio gli scempi, gli stupri, gli eccidi compiuti dai cosiddetti "crociati" cristiani durante i falsi tentativi di conquistare la "terra santa", massacri compiuti nel nome di Cristo che non risparmiavano inermi bambini e donne musulmane. Non sempre i domenicani furono bene accolti, al contrario, ma vi furono anche accoglienze entusiastiche, come a Bologna, quando ai domenicani furono fatte offerte di palazzi, edifici e danaro, che Domenico rifiutò in base alla scelta di povertà del suo ordine; morì nel 1221 proprio nel suo convento, che oggi è annesso alla Basilica di San Domenico a Bologna, unico frate dell'ordine a non avere neppure una cella per sé. Si capisce bene a questo punto perché Dante, dovendo affrontare il problema della sempre più diffusa avarizia nel mondo clericale, abbia scelto proprio Domenico e il suo grande estimatore Bonaventura. L'avarizia degli ecclesiastici arriva a questo, ci dice Dante: i vescovi, i preti, i cardinali chiedono alla Santa Sede la dispensa per poter elargire i beni ricevuti a favore dei poveri per "due o tre" laddove dovrebbero dare "per sei", cioè elargire la terza parte o la metà, trattenendo il surplus (i due terzi o almeno la metà) per sé. Aritmetica davvero alla portata di tutti. Ebbene, Domenico non chiese tale dispensa, né quelle analoghe di trattenere le decime (destinate ai bisogni dei più miseri), né altre rendite. L'interpretazione è resa ancora più credibile dal fatto che anche in Monarchia II, XI, 1-3, Dante si scaglia contro queste richieste di dispensa, denunciate da molti altri commentatori dei costumi dell'epoca. Nota 4 Par. VI 136-138: E poi il mosser le parole biece a dimandar ragione a questo giusto, che li assegnò sette e cinque per diece. È il famosissimo canto contenente un unico discorso, quello di Giustiniano: l'imperatore sta presentando a Dante la storia di Romeo, Romée de Villeneuve (1170-1250), ministro di Raimondo Berengario IV (1198-1245). Romée è uomo onesto, "savio e valoroso", ma ingiustamente calunniato, al punto che dapprima Berengario gli chiede conto della sua amministrazione (a tanto lo indussero le parole calunniose dei cortigiani), ma poi, riconosciuto che Romeo aveva reso ("assegnò") ancora più ricco il patrimonio del conte (come "sette e cinque per diece"), lo prega di restare a corte; cosa che Romeo, deluso e offeso, non accetta, preferendo "povero e vetusto" partire andando a mendicare per il resto della sua vita "a frusto a frusto". Questo "sette e cinque" è sempre interpretato in un sola battuta come 12, dunque il patrimonio sarebbe stato arricchito del 20%, si direbbe oggi. Ma vi si potrebbe vedere anche un motivo... aritmetico dell'accusa rivolta a Romée. In prima istanza, al patrimonio (10) di Berengario egli restituisce dapprincipio meno (solo 7, dunque con una perdita del 30%), ma poi anche altro (5, dunque con una perdita del 50%); ad un'analisi frettolosa, potrebbe apparire che Romée abbia mal amministrato il patrimonio; ma, considerando tutto, alla fine ci si rende conto del vantaggio. Questo spiega da un lato la ragionevolezza delle accuse e dall'altro la reazione offesa di Romée. Ma sono spinto a queste riflessioni solo per trovare ragioni d'ogni parola usata da Dante, per non doverne lasciare alcuna al caso. Nota 5 Par. V 58-60: e ogne permutanza credi stolta, se la cosa dimessa in la sorpresa come 'l quattro nel sei non è raccolta. Beatrice sta spiegando a Dante la dottrina dell'essenza e del valore del voto e, più precisamente, sta parlando della permutazione del voto. Dice Sapegno: "La materia del voto lassata [spiega il Buti], non è ricolta, cioè contenuta, in la sorpresa, cioè nella presa in suo scambio, come il quattro nel sei ... la cosa, nella quale tu permuti la cosa votata, sia maggiore di quella, sì che contenga in sé quella e la metà di quella, sì come il numero del sei contiene il numero del quattro e la metà più, o almeno sia maggiore di quella [spiega il cosiddetto Ottimo]". Per dar rilevanza alle sue analisi, Sapegno ricorre alla citazione di due commentatori eccelsi: Francesco di Bartolo, detto anche Francesco da Buti (1324-1406), uno dei primi commentatori della Commedia e Andrea Lancia (forse, ma l'attribuzione è tuttora incerta), detto l'Ottimo, per, appunto, l'ottimo commento alla Commedia del 1330-1334. Sembra che, assai semplicemente, si voglia far intendere una differenza di quantità, resa analoga o proporzionale a quella stessa differenza che c'è tra quattro e sei, ossia una semplice diminuzione. Nota 6 Quel che mi sorprende, è che non finirò mai. Bibliografia Andriani B. (1981). Aspetti della scienza in Dante. Firenze: Le Monnier. Bochenski J.M. (1972). La logica formale dai Presocratici a Leibniz. Vol. I. Torino: Einaudi. Calcaterra C. (1948). Alma mater studiorum. L'Università di Bologna nella storia della cultura e della civiltà. Bologna: Zanichelli. Carruccio E. (1964). Il valore ascetico della matematica nel pensiero di S. Agostino. Studium, dicembre. Carruccio E. (1971a). Lezioni di Matematiche elementari da un punto di vista superiore. Bologna: Pitagora. Carruccio E. (1971b). Mondi della logica. Bologna: Zanichelli. Cimmino G. (1988). Dante e la Matematica. Atti della Accademia Pontaniana, 36, 7-17. Corti M. (1982). Dante a un nuovo crocevia. Firenze: Sansoni. Dupont P. (1985). Primo incontro con la probabilità. Storia e didattica. Torino: SEI. D'Amore B. (1991). Cenni sulla presenza della matematica nell'opera di Dante. In: Pasquini E. (ed.) (1991), Dante e l'enciclopedia delle scienze, Atti del Convegno omonimo, Bologna: Clueb. D'Amore B. (1993). Alcuni cenni sulla presenza della Matematica nella Divina Commedia. Cultura e scuola. 127, 145-161. Ristampato (1993) su: Alma Mater Studiorum, VII, 1, 40-68 (in italiano), 69-86 (in inglese). Ristampato in: D'Amore B., Speranza F. (eds.) (1995), La matematica e la sua storia, Milano: Angeli. D'Amore B. (1995). Probabilità, logica formale e geometria: contributi all'esegesi di alcuni passi della Commedia. In: Boyde P., Russo V. (eds.) (1995), Dante e la Scienza, Atti del Convegno omonimo, Ravenna: Longo, 91-108. D'Amore B. (2001). Più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla. Incontri di Dante con la Matematica. Bologna: Pitagora. [Prefazioni di U. Bottazzini e E. Pasquini]. Loria G. (1914). Le scienze esatte nell'antica Grecia. Milano: Hoepli. Loria G. (1929). Storia delle Matematiche. Torino, vol. I. Maracchia S. (1979). Dante e la matematica. Archimede, 4, 195 e segg. Rossi P. (1989). Logica e ontologia nel pensiero di Dante. Epistemologia. 12. Sapegno N. (a cura di), Alighieri D. (1958). La Divina Commedia. Firenze: La Nuova Italia. Indice Prefazione di Umberto Bottazzini Prefazione di Emilio Pasquini Capitolo 1 Un grosso cavolo Capitolo 2 Tabelline Capitolo 3 Siena Capitolo 4 L'infinito Capitolo 5 Angoli e triangoli Capitolo 6 Zara Capitolo 7 Asini che volano Capitolo 8 Pitagora e l'armonia Capitolo 9 Conigli Capitolo 10 Angeli, tanti ma tanti angeli Capitolo 11 Necessità Capitolo 12 La taverna Capitolo 13 A casa di Paolo Capitolo 14 Il sole Capitolo 15 Piramidi Capitolo 16 Una tartaruga in corsa Capitolo 17 L'imago al cerchio Appendice 1 Matematica e matematici ai tempi di Dante Appendice 2 La matematica nella Divina Commedia Appendice 3 Spigolature (minime) dantesche su temi matematici Bibliografia NOTE: 1 Questo testo è già stato oggetto di stampa: D'Amore B. (1993). Alcuni cenni sulla presenza della Matematica nella Divina Commedia. Cultura e Scuola. 127, 145-161. Ristampato su: Alma Mater Studiorum. Università degli Studi di Bologna. VII, 1, 1994, 40-68 (in italiano), 69-86 (in inglese). 2 Molto si potrebbe qui dire sul significato che vari studiosi hanno voluto dare alle matematiche, anche se queste esulavano dal loro specifico campo di interesse. Vorrei qui ricordare il pensiero di Agostino di Tagaste, per il quale l'aritmetica ha valore ascetico (Carruccio, 1964). 3 Su questo punto ci furono e ci sono posizioni molto diverse; lo storico della matematica G. Loria nega contatti tra Dante e l'opera di Leonardo Fibonacci (Loria, 1929, pag. 409); viceversa, I. Baldelli fa l'affermazione opposta (Baldelli, 1965). Sembra tuttavia plausibile l'ipotesi di S. Maracchia (Maracchia, 1979) secondo il quale Dante potrebbe non essere venuto a contatto con l'opera di Leonardo direttamente, ma potrebbe aver conosciuto "alcuni suoi risultati più facili e accessibili"; tanto più che molti autori hanno affermato la scarsa diffusione che ebbero le opere di Leonardo (si pensi che addirittura M. Cantor tende ad attribuire il merito della diffusione della nuova matematica a Giordano Nemorario, contemporaneo di Leonardo, piuttosto che a quest'ultimo, proprio a causa della scarsa diffusione di cui sopra). Curioso, però, il fatto che Dante citi e dunque conosca Michele Scoto, Inf. XX, 115-117, noto per aver contribuito a una nuova stesura proprio del Liber Abaci... A mio avviso, su questo punto c'è ancora parecchio da indagare. 4 Questa frequenza alle lezioni di Pietro Ispano, confermata da molti autori, mi lascia un po' perplesso. Alla morte di Pietro, Dante aveva 12 anni. Pare che le lezioni avessero come argomento quel che oggi si chiamerebbe ottica geometrica, ma certo, com'era negli interessi di Pietro e nello spirito dell'epoca, non saranno mancate argomentazioni logiche (Pietro è il massimo logico medievale) e teologiche (lo studio della logica, della "dialettica", aveva principalmente questo scopo; e Pietro era papa). Come può un bambino di al più 12 anni cogliere quel che la tradizione vuole cogliesse? È assai più verosimile che Dante ricordasse quelle lezioni non per il loro contenuto, ma per la personalità dell'insegnante; e che successivamente, per conto proprio, se lo ha fatto, abbia studiato le opere di Pietro. 5 Anche su questo punto c'è una lunga controversia in corso: è da attribuire a Fibonacci questo merito? Tra i contendenti ho trovato citato ancora Giordano Nemorario e poi Gerberto di Aurillac (papa Silvestro II, morto nel 1003); all'indietro, addirittura Severus Sebock (vescovo siriano attivo nel 650). 6 Varie sono le testimonianze, tutte concordi, sulla presenza del problema della capra, del lupo e del cavolo in Alcuino: un'edizione del 1777 di Ratisbona (Regensburg), una del 1863 di Parigi (dove appare il problema come numero 18) e altre più moderne. Un po' più discussa la presenza in Beda: questi non numerava i problemi ma i suoi 53 sono tutti riportati in Alcuino tranne 3 (che, per motivi che non starò qui a specificare, Folkerts, in un'edizione critica di Alcuino del 1978, numera: 11a, 11b e 33a). In questa numerazione, il problema (di Alcuino-Beda) è, appunto, il 18. Tale presenza sarebbe confermata da un'edizione dell'opera aritmetica di Beda stampata a Basilea nel 1563 e da successive riedizioni con curatori diversi, per esempio quella di J.P. Migne di Parigi (1800-1875) del 1904. La presenza irlandese di questo gioco in studiosi di tal rango mi ha messo sulle tracce di un immaginario (per ora) filo conduttore che sto seguendo, come in un delicato interessante labirinto... (Per molte indicazioni bibliografiche su questo punto sono debitore a Dario Uri, giocologo di fama internazionale). 7 È noto che in numerologia si "trasformano" le lettere dell'alfabeto di una lingua in numeri e viceversa. Dunque, numeri uguali hanno, di norma, interpretazioni numerologiche diverse, da lingua a lingua. 8 Per un'introduzione alla storia della probabilità si veda per esempio (Dupont, 1985). 9 C'è un'interessante storia, quasi una leggenda, sull'esistenza di un XIII libro di logica, a carattere teologico, di Pietro: ma non ho saputo rintracciare nulla più di quel che comunemente si sa; né vi è alcuna traccia nell'opera di Dante circa questo XIII libro; è probabile che la leggenda sia nata successivamente. 10 Cfr. D'Amore B. (2009). Matematica, stupore e poesia. Firenze: Giunti. 11 Boezio ha anche scritto una Geometria, ispirandosi all'opera di Euclide e, com'è stato a lungo tradizione, commentandola; Boezio ha però una caratteristica: enuncia i risultati senza darne dimostrazioni. In più, c'è da dire che l'attuale critica tende a non riconoscere più come unico autore della Geometria proprio Boezio. 12 I tre problemi cosiddetti dell'Ellade classica in oggetto sono: la quadratura del cerchio, appunto, la duplicazione del cubo e la trisezione dell'angolo generico.