Il bambino "rotondo" - Arlian - Università degli Studi di Siena

Transcript

Il bambino "rotondo" - Arlian - Università degli Studi di Siena
Il bambino “rotondo”: vedere, fare, sapere *
Massimo Squillacciotti
1 – Fare e sapere
L’idea principale che vorrei qui rendere intorno al bambino è quella di pensarlo
nella sua completezza, “a tutto tondo”, cioè come una “persona” che, usando le
mani nella sua attività, materiale e simbolica, entra “significativamente” in
contatto con il sé e con il mondo, una persona che prende possesso del mondo,
che dà significati al mondo mentre si costruisce in costante rapporto di azione e
retroazione con la realtà interna ed esterna a lui. È il mito biblico della creazione
del mondo: il “dono della parola” realizza la specificità umana di Adamo,
permettendogli la sua presa sul mondo1. Chiamare le cose con un loro nome vuol
dire innanzi tutto dare un nome alle cose, avere il potere di scegliere un nome per
ogni cosa che si voglia chiamare, cioè mettere in ordine le cose del mondo in
modo da poterle riconoscere e poter comunicare con gli altri su di esse. Vuol dire,
anche, che tra tutti i possibili linguaggi (gestuale, visivo, verbale, grafico,
cinesico, prossemico...), l'uomo ha adottato proprio la lingua come linguaggio
privilegiato, al termine di un lungo processo storico-biologico di evoluzione. Ma
il linguaggio verbale, la lingua, non è solo uno strumento per comunicare idee, per
modificare i sentimenti altrui o per esprimere i propri: ciascuna lingua è anche un
mezzo per classificare l'esperienza.
Un altro buon punto di partenza, sempre in questa direzione, è costituito
dall’Elogio della mano di Henri Focillon: “La mano è azione: afferra, crea, a volte
si direbbe che pensi. (...) le mani non hanno soltanto assecondato gli intendimenti
dell’essere umano, ma hanno contribuito al loro determinarsi, li hanno precisati,
hanno dato loro forma e figura. L’uomo ha fatto la mano, nel senso che a poco a
poco l’ha emancipata dai vincoli del mondo animale liberandola da un’antica
schiavitù imposta dalla natura; ma la mano ha fatto l’uomo. (...) La presa di
possesso del mondo esige una sorta di fiuto tattile. La vista scivola sulla superficie
dell’universo. La mano sa che l’oggetto implica un peso, può essere liscio o
rugoso, che non è inscindibile dallo sfondo di cielo o di terra con il quale sembra
far corpo. L’azione della mano definisce il vuoto dello spazio e il pieno delle cose
che lo occupano2.”
Questa citazione non ci permette solo di spiegare il significato del titolo di
questo contributo, ma va oltre: la “rotondità” del bambino non è qui proposta solo
come costruzione pedagogica sul bambino, a fini didattici, ma in primo luogo è
riscontrabile in sé, in quanto costitutiva dei processi cognitivi nell’apprendimento
del diventare adulto, nell’esprimere e sviluppare le proprie “abilità” di presa di
possesso del sé e del mondo, e in secondo luogo ci permette di ribaltare la teoria
1
psicopedagogica delle “prestazioni”, che ritiene il risultato ottenuto nelle prove e
nei compiti come di per sé prodotto da intelligenza, attitudine, capacità,
creatività... piuttosto che definibile nella relazione con la relativa “competenza”
culturale e con il contesto d’apprendimento e di sviluppo delle abilità stesse.
Da quest’ultimo punto di vista, infatti, è acquisito ormai che i “compiti”
psicologici non evocano gli stessi tipi di comportamenti in soggetti appartenenti a
contesti culturali diversi: il metro di valutazione delle abilità raggiunte da un
singolo individuo vanno commisurate e rapportate allo standard di competenze
richiesto da ogni specifica cultura, oltre che spiegate a partire dalle metodologie e
strategie dei processi di insegnamento ed apprendimento3. Così la constatazione
dell'esistenza di differenze tra individui e tra culture ci riporta alla natura di tali
differenze: è la competenza culturale a richiedere certe prestazioni ed abilità
cognitive; è l'esperienza culturale a permettere lo sviluppo delle forze e strategie
cognitive necessarie e non certo il contrario, cioè lo sviluppo cognitivo in sé a
decidere dove fermarsi od a quale livello far attestare gli individui od una cultura
nel suo complesso.
Ancora, la definizione di “rotondità” del bambino è riscontrabile negli stessi
processi cognitivi attivati nell’apprendimento del diventare adulto ed è
osservabile in contesti “d’attività libera” del bambino stesso. Infatti, se lo
osserviamo all’opera nel disegnare, colorare, dipingere e così via, le sue mani
colpiscono per il loro sforzo e concentrazione di energia: non sono tanto lo
strumento che realizza un’idea ma sono piuttosto lo strumento che guida il
pensiero a strutturarsi prima ancora che ad esprimersi linguisticamente, a
diventare materia, od anche il supporto parallelo del racconto e delle fantasie
creative che lo stesso bambino va facendo durante questo “lavoro”, come attività
profonda di realizzazione di sé4. Bambini completi, concreti e reali come le loro
mani e non “piccoli uomini” in costruzione secondo modelli del volere dei grandi5
o che piacciono ai grandi per un apprendimento di ruoli: in primo luogo ruoli
espressivi presentati come assoluti, naturali o non-casuali proprio perché al loro
interno sono presenti ed operano ruoli sociali della comunicazione con il sé e con
gli altri; in secondo luogo ruoli espressivi prodotti da una visione ancora
prevalente e secondo cui l’espressione verbale è vincolante e dominante su quella
grafica (intesa lungo il complesso che va dalla figurazione alla scrittura) e, poi,
quella grafica della scrittura dominante su quella grafica espressiva nelle sue
diverse forme estetiche. Eppure questo “campo di attività” contiene, dal punto di
vista cognitivo e del soggetto che poi sarà un uomo, implicazioni ben più
complesse di un semplice passatempo, divertente od imposto da un programma
scolastico o di laboratorio didattico, ben più “cose” di quanto uno sguardo
sincronico non faccia comprendere intorno alla stessa storia dei processi cognitivi
e dello sviluppo delle abilità del sapere come “saper fare”.
Per addentrarci ulteriormente nel tema delle mani nella costruzione dell’uomo
di oggi, parto forse apparentemente da lontano (dall’epoca delle caverne, dalla
nostra storia di ominide) per evidenziare la logica del processo primordiale con
cui siamo diventati “esseri umani” lungo il percorso storico-biologico che va
dall’antropoide all’homo sapiens. Infatti, la connessione esistente nella capacità
umana tra fabbricare utensili concreti e costruire simboli immateriali, entrambe
2
forme di espressione di un unico processo di presa di possesso del mondo,
entrambe espressioni tecnologiche del pensiero e dipendenti da una stessa
attrezzatura di base del cervello, rende possibile rintracciare nella storia
dell’uomo momenti e scenari di confronto tra queste due tecniche, definibili anche
come linguaggi. Come sottolinea Emmanuel Anati: “Possiamo affermare che
l’arte, qualsiasi arte, tra le sue numerose e svariate caratteristiche ha quella di
essere un mezzo di comunicazione, di contatto tra l’artista e l’esterno. E ciò vale
in ogni caso, quale sia il motivo della creatività artistica, anche per l’arte che
dichiaratamente abbia una funzione decorativa6.”
Prima della comparsa del grafismo, in un primo periodo di simbolismo sonoro,
la mano interviene prevalentemente nella fabbricazione di strumenti e la bocca
nell’articolazione di un primordiale linguaggio sonoro, come poli funzionali del
“campo anteriore” di relazione dell’uomo; ma la mano e la bocca sembrano anche
divaricarsi tra loro, tra specializzazione e concorrenza, realizzandosi la prima
attraverso l’utensile e la seconda attraverso la fonazione prima e la parola poi. È
con la comparsa della rappresentazione grafica7 (i graffiti intesi nel significato più
ampio della realizzazione di immagine: simboli, figurazione, arte, scrittura) che si
ristabilisce il parallelismo tra i due poli funzionali ed operativi, grazie alla mano
che acquisisce anche un’altra tecnica: quella di “parlare” tracciando su supporto
esterno segni e simboli che, come quelli verbali, sono contemporaneamente
risultato e strumento del pensiero. Per dirla con il paleontologo André LeroiGourhan: “La mano ha il suo linguaggio la cui espressione è in rapporto con la
visione, la faccia ha il suo che è legato all’audizione8.”
Possiamo andare oltre avanzando in proposito un’ipotesi forse forte ma
convincente dal punto di vista cognitivo per “l’uomo in formazione”, sia dal punto
di vista filogenetico nel processo di ominazione che ontogenetico nello sviluppo
dal bambino all’adulto. Un’ipotesi di rovesciamento dell’ottica di privilegiamento
per l’uomo del linguaggio verbale su tutti gli altri possibili linguaggi in quanto
strutturato e strutturante la “sintassi” della comunicazione linguistica; un’ipotesi
di rifiuto dell’idea del processo evolutivo per strati: dal biologico allo psichico ed
infine al culturale9. Quando la mano interviene nella fabbricazione degli
strumenti, nell’elaborare un linguaggio della tecnica, il “fare” dell’uomo
incorpora ed esprime un “saper fare” in quanto ricava dall’oggetto le sue regole
compositive, le regole delle relazioni tra le sue diverse parti e della collocazione
delle sue forme nello spazio oggettuale. Come dire sinteticamente che la sintassi
implicita ed esplicita dell’oggetto viene assunta dal saper fare dell’uomo nella
mente e poi trasferita ed applicata dal linguaggio della tecnica agli altri tipi di
linguaggi, tra cui quello grafico prima e quello verbale poi, in maniera interrelata
e compensativa. A livello dello sviluppo dell’individuo è questo il caso del
bambino che, non controllando ancora o non pienamente la sintassi del linguaggio
verbale, riesce già però a realizzare l’articolazione sintattica del discorso,
trasferendola nella sintassi dello spazio scenico e compositivo, della
rappresentazione grafica in un disegno-plastico10.
In sintonia con questa prospettiva etno-cognitiva è possibile definire, allora, il
“simbolo” non solo come elemento che sta al posto di un altro elemento, ma ancor
3
più come relazione nel soggetto tra dimensione materiale ed immagine mentale di
una “cosa”, come risultato dell’operazione di resa immateriale della materialità di
una cosa, spostando l’attenzione dalla relazione esterna al soggetto e formata nella
“cosa” in sé alla relazione resa interna al soggetto dal processo di costruzione di
senso.
E tutto questo processo ce lo portiamo ancora dentro come parte del nostro
corredo di integrazione tra natura e cultura, come estensione strumentale e
dominio della cultura sulla nostra base naturale. L’uso degli strumenti (da una
parte utensili e simbolismi grafici e dall’altra simbolismi verbali) è indice
dell’esistenza di quel “sistema di attività”11 che caratterizza propriamente l’uomo
in apprendimento: mentre l’animale dispone di un insieme di comportamenti o
attività condizionati dagli organi propri di ogni specie, l’uomo è in grado di
rendere praticamente illimitato il suo “sistema di attività” mediante
l’utilizzazione, e in seguito l’invenzione, di sempre nuovi strumenti. In particolare
questi strumenti non sono solo materiali, ma legati anche alla significazione, alla
necessità cioè di esprimersi e di comunicare nel suo complesso. Questa forma
superiore è mediata dal segno e si distingue sostanzialmente dalle forme naturali
di comunicazione da cui scaturisce. Come ha osservato in proposito Lev
Vygotskij: “Se è vero che il segno è inizialmente uno strumento di comunicazione
e che soltanto in seguito diventa un mezzo per regolare il comportamento della
persona, è affatto chiaro che lo sviluppo culturale è fondato sull’uso dei segni e
che la loro introduzione nel generale sistema del comportamento si è verificato
inizialmente in forma sociale, esterna. In via generale potremo dire che le
relazioni tra le funzioni psichiche superiori sono state un tempo relazioni fra
persone12.”
Da qui, su altro piano ma più vicino ai nostri interessi, l’affermazione di Jean
Piaget: “Nonostante siamo soliti pensare che l’arte incomincia con i primi segni
che il bambino traccia su un foglio, di fatto essa prende l’avvio molto prima,
allorché i sensi entrano per la prima volta in contatto con l’ambiente ed il
bambino reagisce a queste esperienze sensoriali. Toccare, vedere, sentire,
manipolare, gustare, ascoltare sono altrettanti modi di percepire e reagire
all’ambiente: essi formano l’essenziale sottofondo per la produzione di forme
artistiche, sia che ci si trovi a livello del bambino che a livello dell’artista di
professione13.
Da qui scaturisce anche, come dicevo prima, la necessità del nostro pensare a
bambini completi, concreti e reali come le loro mani, strumenti e guida del
pensiero stesso. Un’immagine in proposito può risultare familiare a molti di noi:
quella del bambino di 5-6 anni che: “steso sul pavimento, la sua mano correva
veloce su un foglio “giocando” una partita di pallone con un disegno mentre,
contemporaneamente, la sua bocca raccontava “in diretta” lo svolgimento della
partita come se lui avesse effettivamente davanti agli occhi (davanti agli occhi
della mente) una partita reale o lui stesso fosse parte del gioco in corso (...)
l’impressione che il disegno fosse già di per sé un racconto e che, come questo,
avesse anche una vita propria (...)14.”
Come per il nostro antenato sapiens, così anche per il bambino di oggi le prime
forme di grafismo iniziano non nella rappresentazione ingenua e primitiva della
4
realtà ma nella sua trasposizione simbolica15, con segni che sembrano esprimere
prima di tutto ritmi e non forme. Là dove il simbolismo grafico gode, rispetto al
linguaggio fonetico, di una certa indipendenza: il suo contenuto esprime nelle
dimensioni plastiche dello spazio quello che il linguaggio fonetico esprime
nell’unica dimensione del tempo. Il legame che unisce il linguaggio
all’espressione grafica è coordinativo e non subordinativo, come invece succede
con la nostra scrittura lineare, in cui l’espressione grafica è completamente
subordinata all’espressione fonetica, e questo più per i processi storico-sociali
della cultura che per l’evidenza tecnologica della scrittura in sé16. L’immagine,
come visione e come prodotto della rappresentazione grafica, possiede per questo
una libertà dimensionale che manca alla scrittura ed al racconto: può dare il via al
processo verbale della narrazione, senza esservi legata e perdurando al di là del
suo autore.
Come per le abilità linguistiche, così anche per il simbolismo grafico si può
parlare di processo di sviluppo della sua espressività, processo che si realizza
complessivamente lungo l’arco di grafismo cinestetico, scarabocchio, scrittura
imitativa, disegno intenzionale, grafismo narrativo, scrittura intenzionale,
calligrafia, disegno figurativo, figurazione artistica. Ma, a ben vedere, questo
processo è inserito in un contesto d’apprendimento, prevalentemente quello
scolastico, che in genere si avvale di codici pedagogici della comunicazione di
tipo ristretto17 perché unidirezionale (dall’adulto al bambino), non intersoggettiva
(di contro alla rete di relazione di tutte le persone coinvolte nel rapporto) e
selettiva nelle forme dell’espressività stessa (come privilegiare la scrittura rispetto
al disegno18, imparare a leggere solo un testo scritto - che pure nella nostra storia
nasce come immagine e non come sonoro - o suggerire le modalità compositive
del disegno). Insomma, un contesto di apprendimento in cui il pensiero metaforico
e visivo non trovano spazio; eppure perfino nella costruzione del linguaggio
verbale il bambino realizza una serie di attività tecniche particolarmente
importanti per il suo sviluppo cognitivo perché connesse alle altre forme della
comunicazione e, per questo, in linea con la costruzione di un sé propria del
bambino reale: un bambino che “impara ad essere mentre gioca”. Come dire che è
proprio l’integrazione tra i diversi codici usati (al di là della loro autonoma
modalità di funzionamento e specifici tempi di sviluppo) a permettere alla nostra
Alice nel Paese delle Meraviglie di avere una “relazione” con la maestratestuggine, cioè di affrontare e risolvere positivamente il confronto con il “potere
della parola” quando è interrogata19.
2 – Vedere e saper fare
In questa prospettiva, allora, se il sapere è un saper fare, lo stesso fare è
un’attività “intelligente” che si realizza in un contesto d’apprendimento basato su
codici della comunicazione e regole di espressione “liberi e dotati di senso” cioè
che, impegnando il bambino in tutta la gamma di espressione e formazione dei
suoi sensi, permettono un approccio infantile adeguato, ma non “bambinese”, a
5
lavorare in contesti d’uso ed astrarre sequenze logiche esportabili. In questa
prospettiva didattica, il principio della competenza assume il particolare e ricco
significato di abilità di trasferimento di acquisizioni e metodologie ai diversi
campi della conoscenza.
Così nella costruzione del linguaggio il bambino esprime anche alcune attività
tecniche per lo sviluppo di altre forme di comunicazione, come il disegno prima e
poi la scrittura, ed in questa prospettiva Jack Goody nota che “la base fisica della
scrittura è certamente la stessa del disegno, dell'incisione, della pittura (le
cosiddette arti grafiche). In ultima analisi essa dipende dalla capacità umana di
maneggiare taluni strumenti con una mano ed un pollice, coordinati ovviamente
da occhio, orecchio, cervello20.”
Questo riferimento ci serve come promemoria nell'introdurre un’altra tappa
della riflessione sul rapporto tra le diverse forme grafiche nel processo di
strutturazione del pensiero in età infantile. In altre parole, per dirla con Jerome
Bruner, dobbiamo tener presente che lo sviluppo intellettivo è influenzato dal
modo con cui gli esseri umani gradualmente apprendono a rappresentare il mondo
attraverso l'azione, l'immagine ed il simbolo21.
Allora, anche solo per delineare il percorso di formazione nel soggetto delle
diverse forme grafiche, dobbiamo aver davanti ai nostri occhi un bambino reale,
cioè che non solo disegna o scrive o parla od ascolta, ma che vede, tocca, sente,
manipola, gusta, ascolta, parla, canta, conta, disegna e scrive mentre gioca ed
impara ad essere, operando un'integrazione tra i diversi codici usati.
Inoltre, dobbiamo tener presente che l'interpretazione che segue del processo di
formazione e di sviluppo delle diverse fasi psico-genetiche è guidata da una
prospettiva etno-cognitiva e che, pertanto, non hanno qui validità tanto le singole
scansioni in sé né i caratteri interni ad ognuna di queste fasi, quanto la possibilità
e la necessità euristica di determinare i diversi contesti culturali in cui si può
sincronicamente esprimere e costruire il soggetto dato (livelli di abilità richiesti,
livelli di abilità raggiunti; strumenti e materiali, forme e codici di trasmissione del
sapere, e così via).
Infatti, l’excursus che segue non tiene conto della differenza tra i diversi studi
“classici” di psicologia del grafismo22, né di altri possibili approfondimenti a
riguardo, come la valutazione dell'importanza dello scarabocchio nel determinare
la separazione fra grafia e disegno23 o la corrispondenza nel bambino tra funzione
iconica delle parole e la simulazione dell'oggetto nello scrivere24. Ancora, accanto
ai processi spaziali-visivi nello sviluppo del coordinamento psico-motorio manoocchio nel bambino, ci sono aspetti particolari dell'espressione grafica, quali la
rappresentazione della figura umana25, la realizzazione di figure geometriche, in
relazione ad altri aspetti e "settori categoriali" che si formano e sviluppano
parallelamente e sincronicamente, pur nello stesso processo complessivo. Per un
approfondimento specifico non mancano gli strumenti bibliografici in proposito,
mentre è importante qui insistere proprio sugli aspetti dell'interdipendenza tra
cultura e contesto d’apprendimento da una parte e processi dell'individuo
dall’altra, ma anche tra i diversi settori d'espressione di uno stesso individuo.
6
Lo scarabocchio
Gli psicologi infantili J. Piaget e B. Inhelder definiscono il disegno
un'immagine grafica e affermano che esso è una preparazione e una risultante
dell'immagine mentale. Il disegno si inserisce come intermediario tra il gioco
simbolico, di cui presenta il medesimo piacere funzionale, e l'immagine mentale26
con la quale condivide il tentativo di imitazione del reale prima e poi di
rappresentazione.
“Per quanto già molto presto il bambino si esprima vocalmente, il suo primo
segno permanente prende di solito la forma di uno scarabocchio all'età di circa
diciotto mesi”27. Il bambino, verso i due anni, anche se utilizza il linguaggio
verbale, non è ancora in grado di astrarre, ma il gioco simbolico (costituito da
linguaggio verbale, grafismi ed attività ludica) gli permette di elaborare
interiormente le proprie esperienze.
All'inizio, l'attività grafica è un fatto essenzialmente di tipo organico: il segno è
la conseguenza del gesto che descrive la sua traiettoria su una superficie capace di
registrarla. In questo primo stadio dello scarabocchio non c'è ancora un tentativo
di rappresentazione della realtà. Il bambino è attratto da questa attività soprattutto
per la soddisfazione derivata dall'esperienza di sensazioni cinestetiche.
Pochi mesi dopo, il bambino scopre che esiste un rapporto tra i suoi movimenti
ed i segni ottenuti e studia le varie possibilità di movimento per ottenere diversi
risultati a livello grafico. È in questo periodo che comincia a formarsi l'immagine
del corpo, inizia il processo di lateralizzazione e c'è una maggiore integrazione tra
l'apparato visivo e quello motorio.
Matteo, 2 anni.
Successivamente, verso i tre anni e mezzo di età, il bambino incomincia a dare
un nome al suo scarabocchio: la linea non è più solo la traccia di un movimento,
ma diventa il limite di una forma. La soddisfazione che il bambino trae dallo
scarabocchiare è ora legata ai rapporti tra le linee ed il mondo esterno.
7
A volte il bambino accompagna con una descrizione verbale ciò che sta
esprimendo nello scarabocchio: comincia ad utilizzare la sua attività grafica anche
come mezzo di comunicazione.
Paolo, 3 anni, Cane che corre.
Giovanni, 3 anni, Il bosco.
C'è una partecipazione di tutto il corpo all'atto grafico che non si limita a
coinvolgere la mano ed il braccio. Nella situazione avanzata della fase dello
scarabocchio, la traccia diventa il motivo del gesto in un meccanismo di feed-back
e l'avvenimento è importante perché il bambino sperimenta visivamente ciò che
prima aveva sperimentato solo a livello cinestetico. Le tracce grafiche hanno lo
stesso valore espressivo del gesto.
8
Il disegno intenzionale
A quattro anni si può cominciare a parlare di disegno intenzionale: il bambino
non disegna più solo per una comunicazione con il sé, ma è già parzialmente
relazionato con l'esterno.
Checca, 3 anni, Bimbo che parla.
Giovanni, 4 anni, Bambino.
Giovanni, 3 anni e mezzo, Con i miei fratelli.
Comincia a distinguere la parola "Fine" al termine dei cartoni animati o dei
libri dei racconti che gli vengono letti o che sfoglia da solo, vede gli adulti
9
scrivere e tenta un "disegno" della scrittura, magari per chiedere subito dopo “Che
cosa ho scritto?”.
Giulio, 4 anni, Che cosa ho scritto?
I suoi segni non riproducono fedelmente l'immagine, sia prodotta su base di
invenzione che tratta dalla realtà, e le cose vengono disegnate in un rapporto
casuale nel foglio, senza essere disposte secondo punti di riferimento. Accentuati
sono gli aspetti in cui il bambino è stato emotivamente coinvolto e per lui reale è
ogni tipo di percezione e di rappresentazione, anche onirica. Gli vien fatta
disegnare l'immagine della madre o del padre, quando questi sono assenti, per
alleggerire la tensione creatasi in lui per la paura della loro perdita.
L'attività cognitiva è prevalentemente di tipo intuitivo e lo sviluppo percettivo
avviene attraverso l'utilizzo di tutti i canali sensoriali: si assiste ad un affinamento
delle capacità di percezione analitica, che stimola il bambino ad una costante
ricerca di nuove nozioni e del perché delle cose.
Giovanni, 4 anni, La mia casa.
Giulia, 4 anni, La casa.
Se frequenta la scuola materna, comincia ad imparare a distinguere la scrittura
dal disegno, i diversi grafemi tra loro, riproducendoli sulla carta o sulla
10
lavagnetta, sulla falsariga tracciata dall'insegnante ed all'interno di due righe
commisurate al suo sforzo di coordinamento psico-motorio.
Comincia a scrivere i numeri, indifferentemente al "dritto" e al "rovescio", ma
la loro lettura non è scontata: per lui non sono ancora entità matematiche, anche se
usa già l'operazione dell'appaiamento28 ma, soprattutto, della conta con le
filastrocche.
Giulio, 5 anni, Disegno di numeri.
Gli viene insegnato ad oggettivare il proprio corpo attraverso la
rappresentazione della mano "ricalcata" sul foglio o "impressa" come orma sulla
creta. Gli viene insegnato a valutare la differenza della grandezza attraverso il
ricalco successivo, con un gesso per terra, di due corpi diversi e sovrapposti.
Paolo, 5 anni, Mani-contorno.
Giovanni, 5 anni, Le mie mani-orma.
Capisce l'esistenza di un andamento processuale del racconto che comincia con
“C'era una volta...” e finisce con “...e vissero felici e contenti”, ma non afferra la
rigidità della successione delle parti della storia, che possono essere vissute anche
come compresenti.
A cinque anni riproduce una storia che ha ascoltato, costruendo un "libro" con
una serie di disegni, mentre se utilizza un foglio solo, la raffigurazione della storia
è statica e limitata ad una sola scena anche se la sua narrazione esula dal disegno,
a precedere e seguire la stessa rappresentazione.
È in grado di scrivere il proprio nome in stampatello su un foglio: se il foglio è
vuoto, il nome viene scritto in alto a sinistra utilizzando il bordo superiore come
riferimento; se il foglio contiene già un disegno, il nome viene scritto anche più
volte, negli spazi lasciati vuoti dal disegno. In quest'ultimo caso, spesso, mettere il
11
proprio nome non equivale a firmare ma all'espressione della propria volontà di
entrare a far parte del disegno o del racconto disegnato, al pari della figura di se
stesso che compare di frequente, a questa età, disegnata all'interno della scena.
Continua a scrivere i numeri indifferentemente al "dritto" e al "rovescio", cioè
capovolti e speculari, e li legge in maniera biunivoca in quanto le cifre non
vengono percepite nel loro orientamento sul foglio ma per la forma rappresentata;
comunque per lui non sono ancora entità matematiche ma, pur sapendo che “i
numeri non sono parole”, li usa a memoria nella loro giusta successione come
filastrocca. D'altronde a questa età il bambino, per dire "venti", può dire
"diciadue", cioè "dieci due"; come può dire, sul versante della percezione del
tempo, "il domani di domani" al posto di "dopodomani" ed estendere questo
metodo all'indietro e dire "il domani di ieri" al posto di "l'altro ieri". Comunque
non chiede già più se “Oggi è già domani?”, come poteva fare invece a quattro
anni.
Il disegno come racconto
Verso la fine dei cinque anni il disegno si fa racconto vero e proprio, nel senso
che su di un solo foglio rappresenta per intero la successione degli avvenimenti,
come nel caso della partita di pallone descritta prima. Al termine del disegno una
serie di righe sul foglio, scarabocchi apparenti, sono il segno lasciato dal
movimento delle figure della storia.
Giulio, 5 anni, Partita di pallone.
Per disegnare una scena complessa, con un centro come luogo principale di
svolgimento della storia "raccontata", spesso usa scrivere parole come "Fuori"
accanto alla rappresentazione di elementi del racconto che si svolgono, appunto,
fuori dal centro. Così gli oggetti posti in alto sono quelli lontani ed il percorso che
unisce due punti è generalmente tracciato senza senso della profondità.
12
Il bambino firma in corsivo più volte con il proprio nome, in forma corretta
grammaticalmente ma non corretta dal punto di vista grafico, ad esempio non
controllando lo spazio necessario a contenere per intero il proprio nome.
Più avanti nei mesi il bambino ricorre a suddividere il foglio in più piani
sovrapposti, attraverso righe parallele su cui poggiare le diverse scene in un
continuum di discorso per risolvere la continuità delle scene e la profondità dello
spazio ancora rappresentato bidimensionale.
Giulio, 5 anni, Palestra.
Il disegno presenta, comunque, una plasticità di forme e di uso dello spazio,
mostrandosi piuttosto come codice di scrittura particolare, rivolto verso le forme
del mitogramma e della pittografia. Il disegnare non è ancora separato
rigidamente dalla scrittura: le due forme si integrano e si rinviano reciprocamente,
come avviene con la parola che accompagna il disegno durante la sua stessa
esecuzione.
Giulio, 5 anni, Sciatori in montagna.
13
Disegnare, scrivere e raccontare sono ora espressioni compresenti e parallele di
un pensiero in costruzione che non sostanzia ancora un'operazione di transcodifica
tra codici proprio perché questi non sono ancora divaricati tra loro.
Giovanni, 6 anni, Passeggiata a cavallo.
Valentina, 7 anni, Cappuccettorosso.
Valentina, 8 anni, La casa di Mariolino.
14
La radiografia
In prima elementare, a sei anni, il bambino ha come compito scolastico di
imparare "a leggere, scrivere e far di conto". Legge ad alta voce, spesso sillabando
ancora e comunque seguendo con il dito il percorso della lettura. A volte deve
ripetere la lettura prima di aver capito il testo o di essere in grado di dimostrare
verbalmente tale comprensione.
Apprende il concetto di numero matematico, attraverso il coordinamento degli
ordinali e dei cardinali, ed inizia l'apprendimento delle operazioni a partire dalla
somma.
Inizia a realizzare la rappresentazione grafica come una pianta della casa, ma
questa è disegnata per il percorso necessario a raggiungerne i diversi ambienti,
piuttosto che nelle sue parti costitutive ed autonome (stanze, corridoio,
ingresso...), e senza le relative pareti di delimitazione degli ambienti verso
l'esterno.
Giulio, 6 anni, Piantina di casa mia.
Ancora, la casa viene anche disegnata nel suo spaccato verticale, piuttosto che
come pianta vera e propria. Da qui l'uso della "radiografia": cioè di un disegno a
due facce corrispondenti al fronte/retro di un foglio e che possano essere lette, per
ciascuna parte corrispondente di immagine, come la mano o le ossa, una casa di
fronte o le stanze dentro la casa, un bambino o il suo scheletro... ma anche
15
controluce come un disegno unico per la corrispondenza delle due immagini: la
mano con le ossa, la facciata di una casa con le relative stanze come se non ci
fosse la parete frontale, la radiografia di un bambino con il suo scheletro di
dentro…
Giulio, 6 anni, La mia casa da fuori e da dentro (radiografia).
Per risolvere il problema della rappresentazione della tridimensionalità, il
bambino ricorre alla costruzione di un disegno-plastico: su di un foglio
comprendente alcune parti disegnate, vengono incollate "in piedi" sagome
disegnate e preparate prima su di un altro foglio, come un ponte, un albero, una
casa...
Giulio, 6 anni, Paesaggio (plastico).
16
Il bambino firma intenzionalmente il disegno in corsivo e correttamente sia dal
punto di vista grammaticale che grafico-spaziale.
Più avanti nei mesi, per dare profondità ad esempio ad un paesaggio con una
piscina, fa il disegno "mettendosi" dalla parte dell'acqua ed in modo da poter
disegnare in verticale gli spigoli e le scale della piscina che gli sono davanti. Le
case sono disegnate bidimensionali ma spesso il particolare dell'ombra del tetto
risolve il senso tridimensionale e di profondità della casa.
Giulio, 8 anni, Piscina comunale.
Giulio, 8 anni, Gita in campagna.
Gli animali, inventati o reali, mostri o preistorici, sono disegnati nel rispetto
delle proporzioni ma in maniera conforme alle modalità di rappresentazione di
altre scene.
Ancora, ricorre alla costruzione di un disegno-plastico più complesso del
precedente: attraverso la realizzazione di forme solide, riempie il disegno di
piramidi e cubi, accanto ad alberi ancora disegnati "piatti" sul foglio, ma con una
sintassi compositiva nell'uso dello spazio. È l'età in cui disegno e scrittura si
separano.
17
Il disegno pittorico
All'età di 7 anni, la rappresentazione dello spazio è legata alla consapevolezza
del bambino di essere una parte dell'ambiente. Questa scoperta viene espressa nel
disegno attraverso il simbolo della "linea di base": tutti gli elementi del disegno
vengono posti su questa linea che rappresenta il terreno, il pavimento, la strada su
cui gli oggetti poggiano. Nei disegni appare anche la linea del cielo, situata in
cima al foglio. Lo spazio compreso tra la linea in alto e quella in basso viene
identificato dal bambino come l'aria. Spesso tale tipo di formalizzazione dello
spazio è conseguente ad un "ordine" didattico della maestra che dà agli scolari il
"buon consiglio" di cominciare il disegno proprio tracciando due righe, quella
della terra e quella del cielo... Lo spazio rappresentato in questa età è ancora
bidimensionale perché il soggetto non è ancora in grado di esprimere
graficamente la tridimensionalità spaziale.
Valentina, 7 anni.
Giovanni, 7 anni, Da un racconto africano.
18
A seconda del tipo di configurazione che intende dare alle varie parti del
disegno, il bambino adotta per ognuna il punto di vista che le caratterizza meglio,
alla luce del fatto che egli tende sempre a collocarsi all'interno delle situazioni
restandone coinvolto; così tra i vari modi di espressione del concetto di spazio
trovano posto il ribaltamento (gli oggetti vengono rappresentati
perpendicolarmente alla linea di base anche quando appaiono capovolti) e la
rappresentazione di oggetti o persone che non dovrebbero comparire perché
nascoste da altri.
Il disegno come calco e come arte
Il bambino, a nove anni, inizia a pensare in termini astratti anche per quanto
riguarda il disegno, scoprendo il piano, la profondità, la sovrapposizione. Ora il
suo disegno è fedele e rispettoso del reale: è un calco, una riproduzione che lo
libera tecnicamente, permettendogli di esprimere la sua creatività, il suo modo di
vedere la realtà.
Giulio 10 anni, La villa dei miei sogni.
19
Secondo Vygotskij29 il linguaggio grafico-pittorico può diventare uno
strumento per la manifestazione del pensiero creativo: il soggetto ora può, grazie
al disegno, riportare sul foglio, riproducendoli, tutti gli aspetti e gli elementi della
realtà o della fantasia che vuol rappresentare.
Alessandra, 12 anni, La diva.
Sara, 10 anni, Gita a Siena.
Mattia, 10 anni, Gita a Siena.
Gianna, 13 anni, Una via nuova.
20
Angela, 12 anni, La mia tavola.
In sostanza se il percorso storico evolutivo dell'uomo è andato dalla lettura
delle orme alla loro riproduzione in graffiti rupestri, poi alle svariate forme di
scrittura, all'arte, alla stampa, alla video-scrittura, lo sviluppo grafico del soggetto
moderno va dallo scarabocchio, al disegno intenzionale, allo spaccato ed alla
"radiografia", al racconto grafico, alla scrittura, al disegno pittorico, alla videografia, ai tag, ai graffiti urbani... In questa prospettiva etno-cognitiva una
definizione possibile di arte figurativa è: linguaggio grafico che utilizza la
metafora come forma di espressione e di comunicazione. L’arte appartiene allo
stesso meccanismo cognitivo delle altre rappresentazioni grafiche, opposto come
area cerebrale a quello della comunicazione verbale, ma ad esso parallelo lungo
l‘asse evolutivo che va dallo scarabocchio al disegno nelle sue diverse forme;
processo lungo il quale si innesta la produzione grafica dei diversi sistemi di
scrittura.
Calvin, Roma 1995.
21
Seda e Hitnes, Roma 2001.
Fra 32 + Madfisio, Pisa 2002.
Ma, come linguaggio e pensiero nascono separatamente e si interrelano nel
processo della loro costruzione, condizionando le forme espressive del pensiero,
così nel rapporto tra grafismi e scrittura avviene il contrario. Le forme grafiche
vengono separate dalla scrittura lineare: questa si subordina al linguaggio verbale
mentre il disegno esprime il pensiero e rappresenta il reale per un'altra e sua
propria strada. La distanza della scrittura lineare dalle altre forme grafiche, cui il
disegno appartiene, è diventata differenza di codice: non basta più esprimere un
pensiero traducendolo in una delle due forme parallele e complementari, ma è
necessaria un'operazione di transcodifica per mettere in comunicazione questi due
differenti piani e le loro differenti realizzazioni. Questo almeno dal punto di vista
tecnico perché poi, come già accennato, rilevanti il sistema di fruizione dei diversi
codici e di relazione tra questi sono le tecniche sociali ed i circuiti di
apprendimento/insegnamento della lingua e della grafia.
22
3 – Insegnare ed imparare
Che vuol dire tutto ciò in una prospettiva didattica? Come tradurre presupposti
teorici ed esigenze formative in una attività di laboratorio? È questo il campo
tematico dello sviluppo delle competenze che, pur connesso agli studi cognitivi
fin qui visti, ha un ulteriore suo ambito specifico nella progettazione di interventi
mirati alla formazione nel bambino di abilità, situate tra capacità critiche e
creatività. Il problema è stato da ultimo sentito ed indagato da più parti proprio
per il suo interesse prospettico ed interdisciplinare che va dai Musei per i bambini
all’allestimento di mostre, a Laboratori didattici sull’arte intesa in senso lato e
come esperienza plastica in molte direzioni: sensoriale, espressiva, di ricezione, di
fruizione e lettura...
In particolare il tema dell’insegnare ed imparare nell’educazione all’immagine
ed ai linguaggi materiali e simbolici dell’esperire può avere come punto di
partenza dell’analisi il campo della “comunicazione figurativa”, da cui emerge
nella sua centralità la questione dell’obiettivo didattico che è stato sviluppato
nell’attività di laboratorio del Santa Maria della Scala, del Centro d’Arte
Contemporanea Palazzo delle Papesse e del Museo d’arte per bambini30.
In sintonia con quanto fin qui esaminato, il “comportamento estetico” è
l’obiettivo della comunicazione figurativa che si svolge nel contesto di un più
generale processo della comunicazione didattica (ricezione od ascolto in entrata e
fruizione o produzione in uscita) e che si struttura esprimendosi nei tre campi
della forma, del significato e della funzione. In particolare:
- il campo della forma è definibile come manifestazione delle strutture
cognitive e loro traduzione in forme percepibili e dotate di senso;
- il significato è il mondo delle azioni e delle intenzioni reali ed è formato dal
codice delle regole di costruzione dei simboli;
- infine, la funzione riguarda le stesse intenzioni comunicative, come quella
simbolica, artistica, informativa, decorativa, mnemonica, emblematica.
Ma, nonostante la chiarezza metodologica di queste affermazioni, la questione
dell’educazione estetica sembra dover necessariamente partire dalla confutazione
di un principio residuale in ambito educativo e secondo il quale “il prodotto è più
importante del processo”, per cui i modelli che vengono proposti ai bambini sono,
come in una galleria, conclusi, esemplari, spesso privi di relazioni con il proprio
contesto e con tutte quelle componenti socio-culturali che la persona dell’autore
può veicolare tramite una rappresentazione. Di contro è bene ribadire il principio
per cui la vera formazione della capacità espressiva è possibile solo a partire dalla
sperimentazione delle fasi, ideative e costruttive, che dall'articolazione delle
percezioni conducono alla progettazione delle proprie forme e dei propri
contenuti, cioè al progetto ideativo che implica la riflessione sull'impiego di mezzi
tecnici e di soluzioni formali.
L'importanza formativa dei processi di costruzione di un'azione espressiva è
data dal fatto che, attraverso la scoperta di questi processi, il bambino impara a
prendere coscienza delle proprie capacità cognitive, indirizzando nel contempo le
proprie energie espressive in progetti unitari e diretti ad uno scopo. Infatti “la
23
realtà interna dell'uomo produce ed è prodotta dalla realtà esterna, e fra i due
livelli vi è un'interferenza positiva talmente stretta proprio perché non si sa mai se
conta più il prodotto o il processo. In realtà, l'uno non esiste senza l'altro, così
come l'azione non esiste senza la reazione e viceversa31.”
Inoltre, attraverso l'azione motivata, il bambino diventa consapevole degli esiti
del gesto compiuto: l'attività esterna diventa cioè attività interna ed il gesto
diventa parola. Afferrare un oggetto - azione che implica capacità cognitive
motorie e cinestetiche legate all'uso della mano - diventa afferrare
consapevolmente lo strumento; diventa cioè azione consapevole, che collega le
abilità spaziali e motorie a quelle simboliche. Questa consapevolezza fa in modo
che il bambino sviluppi progressivamente le proprie capacità simboliche,
rendendosi capace non solo di afferrare ed usare un oggetto, ma anche di costruire
un proprio sistema di oggetti; in questo senso, l'agire diventa “intenzionare”, cioè
formare consapevolmente. E proprio questo formare, che è azione consapevole,
modifica ulteriormente le capacità cognitive, perché conduce alla consapevolezza
della forma, che è struttura estetico-cognitiva.
Lo stesso avviene per il segno grafico: il bambino scopre le potenzialità
rappresentative del segno grafico attraverso la costruzione e l'esercizio personale,
che si presenta come il risultato di un'attività motivata che passa da un uso
intransitivo dello scarabocchio, che costituisce un'esperienza cinestetica, ad un
uso simbolico del segno iconico, che segna il passaggio dalla fase motoria a
quella simbolico-prelogica.
Com'è noto, dopo aver esplorato le varie possibilità rappresentative delle unità
segniche di base del linguaggio grafico, il bambino combina tali segni in modo da
generare le configurazioni che più si adattano a ciò che intende rappresentare.
Attraverso l'azione del configurare interiorizza le regole combinatorie del
linguaggio visuale, acquisendo così una conoscenza dichiarativa (conoscenza dei
fatti) ed una conoscenza procedurale (conoscenza dei processi) del linguaggio
grafico.
È infatti fuor di dubbio che “ciò che chiamiamo intelligenza si sviluppa
attraverso la padronanza di un medium culturale (…) ciò porta all'ipotesi che
l'intelligenza sia l'abilità in un medium o, più precisamente, l'abilità in un medium
culturale”32. In altre parole, la stretta connessione tra linguaggio ed aspetti non
linguistici della capacità rappresentativa dimostra che il linguaggio non è che un
aspetto di una più ampia capacità simbolica che segna il passaggio da
un'intelligenza senso-motoria ad un'intelligenza rappresentativa, incentrata
contemporaneamente sugli aspetti interni, di tipo maturativo, e sui fattori esterni,
di natura culturale, che rappresentano la cornice che dà valore e senso a ciò che
accade al suo interno33.
L'uso di uno strumento è pertanto il frutto dell'attività combinatoria tra "saper
fare" e "saper dire" e questo processo permette l'incorporazione dell'utensile in
un'attività strutturata e consapevole. È evidente, quindi, che la costruzione del
"saper fare" non è soltanto una questione della psicologia dello sviluppo, ma una
questione chiave che riguarda l'evoluzione dell'uomo, dal momento che il sistema
mano-occhio-cervello permette la grande adattabilità e destrezza della mano,
rendendo possibile, e anzi necessaria, l'apparizione dell'utensile. Il bambino
24
stesso, tramite il disegno, mostra che, in realtà, lo sviluppo del linguaggio segue
quello dell'acquisizione dei "saper fare", dal momento che le strutture cognitive
nascono prima di tutto dall'azione e dallo sviluppo dei meccanismi senso-motori
che si situano a livello infralinguistico.
Al termine di questo percorso espositivo, pure condotto in termini di
problematicità, mi sembra congruente finire con le stesse parole usate da
Valentina Lusini nella conclusione del suo intervento34, a cui rimando per
completezza e sintonia d’esposizione. “Non sarà quindi inutile riaffermare, una
volta di più, che un programma educativo incentrato sulle potenzialità di qualsiasi
realtà espositiva non va affrontato come un compito di "formazione professionale"
di futuri artisti o storici dell'arte, ma come un esercizio capace di dotare ogni
bambino (ed anche ogni adulto) di quelle capacità basilari di percezione,
immaginazione progettuale e coerente abilità produttiva che, dal punto di vista
antropologico, servono a leggere non solo i messaggi intenzionali, ma anche i
segni che caratterizzano l'atteggiamento sociale dell'uomo, rilevando le categorie
che determinano i mutamenti nelle funzioni dei linguaggi (spazio, tempo, media,
classe sociale, strumenti culturali di codifica e de-codifica del messaggio) e il
modo in cui queste si intrecciano con i fattori storico-sociali35. L'elemento
centrale da cui occorre partire è quindi l'ipotesi, sistematizzata da J. S. Bruner, di
una "mente a più dimensioni"36, fondata cioè sulla consapevolezza della
molteplicità dei mezzi attraverso i quali il museo, e con esso il visitatore, si
mettono in gioco, si espongono, definiscono e ridefiniscono le proprie
rappresentazioni.”
25
Note
* Estratto dal volume Labor Arte. Esperienze di didattica per bambini, a cura di M.
Squillacciotti, Roma, Meltemi, 2004, pp. 25-48. Gli altri interventi nel volume sono: H.
Boccianti, V. Lusini, M. Squillacciotti, Presentazione: LaborArte e il Laboratorio di
Didattica e Antropologia, pp. 7-24. - V. Zucchi, Attività educativa e sensibilità culturale.
Il Santa Maria della Scala, pp. 49-76. - L. Scelfo, L’esperienza formativa dell’arte
contemporanea. Il Centro d’Arte Contemporanea “Palazzo delle Papesse”, pp. 77-110. F. De Dominicis, Commedia nell’arte. Didattica e teatro nel museo d’arte
contemporanea, pp. 111-129. - M. Eremita, Lungo la linea rossa: dallo spazio del Museo
allo spazio dell’opera. Bambimus, il Museo d’arte per bambini, pp. 131-141. - V. Lusini,
L'arte e l'altro. Il concetto di alterità come categoria euristica della didattica museale,
pp. 143-157.
1
“Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli
uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in
qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva
essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame (...)” – La Bibbia, Genesi,
2, 19-20.
2
H. Focillon, Vita delle forme, seguito da Elogio della mano, Einaudi, Torino, 1972,
pp. 105-130. Citazione passim, pp. 106, 109, 110.
3
M. Cole, J. Gay, J. Glick, Intelligenza, pensiero e creatività, Angeli, Milano, 1976. –
V. Davydov, Gli aspetti della generalizzazione nell’insegnamento, Giunti Barbera,
Firenze, 1979. – J. Goody, I. Watt, Le conseguenze dell'alfabetizzazione, in P. P. Giglioli,
G. Fele (a cura), Linguaggio e contesto sociale, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 285-331. –
M. Squillacciotti, Le tecnologie del pensiero e le culture altre, “Rivista dell'istruzione”, n.
6, 1996.
4
M. Squillacciotti, La piroga di R’Agnambié... Racconti del Gabon, L’Harmattan
Italia, Torino, 1995.
5
È il “potere della maestra” contro cui mette in guardia Luis Carrol in Alice nel paese
delle Meraviglie: “Quando io adopero una parola - disse Tombolo Dondolo con un tono
piuttosto sdegnoso - essa ha esattamente il significato che io voglio dare né più né meno.”
“Bisogna vedere - disse Alice - se voi potete fare in modo che le parole indichino cose
diverse.” “Bisogna vedere - disse Tombolo Dondolo - chi è che comanda… ecco tutto”
(Bur, Milano, 1990, p. 86). Nel viaggio onirico di Alice il potere è riferito soprattutto alla
significazione della parola mentre per noi qui è riferito all’imposizione di regole
convenzionali da parte della maestra, quando non addirittura di stili personali della
maestra stessa: la Testuggine incontrata da Alice, appunto.
6
E. Anati, Origini dell’arte e della concettualità, Jaca Book, Milano, 1992.
7
R. Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, Adelphi, Milano, 1992.
8
A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino, 1977, p. 246.
9
C. Geertz, Sviluppo della cultura ed evoluzione della mente, in ID., Interpretazione
di culture, Il Mulino, Bologna, 1988, pp. 71-107. – C. Geertz, Cultura, cervello, mente /
cervello, mente, cultura, in Idem, Antropologia e filosofia, Il Mulino, Bologna, 2001, pp.
209-223.
10
Cfr. C. M. Braglia, Oralità e scrittura. Intervento didattico di sviluppo ed
interpretazione di codici, tesi di laurea in antropologia culturale, Facoltà di Lettere e
Filosofia, Università degli Studi di Siena, a. a. 2000-2001. – A. D’Errico, La fiaba e i
26
bambini. Spazio della narrazione e della rappresentazione, tesi di laurea in antropologia
culturale, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Siena, a. a. 2001-2002.
11
V. Davydov, Gli aspetti della generalizzazione…, op. cit.
12
L. S. Vygotskij, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Giunti
Barbera, Firenze, 1974, p. 200.
13
J. Piaget, Psicologia dell’intelligenza, Giunti Barbera, Firenze, 1952, p. 153.
14
M. Squillacciotti, La piroga di R’Agnambié…, op. cit., pp. 133-134.
15
Per attività simbolica si intende la capacità di rappresentare, tramite un’altra entità,
un qualcosa che appartiene al mondo e che percepiamo attraverso i sensi. Punto di
mediazione tra la realtà in sé e la realtà per il soggetto, tra la realtà “naturale” e quella
della “cultura”, diviene l’immagine mentale come prodotto dell'interiorizzazione delle
azioni intellettuali, copia non dell'oggetto in sé ma degli adattamenti appropriati alle
azioni connesse all'oggetto, cioè copia attiva dell'oggetto, quindi imitazione interiorizzata
e non traccia del residuo sensoriale degli oggetti percepiti.
16
M. Squillacciotti, La parola, l’immagine e la scrittura: una prospettiva etnocognitiva, “Thule”, n. 4/5, 1998, pp. 9-21.
17
E. Camilletti, A. Castelnuovo, L’identità multicolore. I codici di comunicazione
interculturale nella scuola dell’infanzia, Angeli, Milano, 1994.
18
A scuola il bambino impara che la scrittura è legata al linguaggio verbale, alla
parola, mentre il disegno alla visione, alla fantasia, alla immaginazione. Non a caso oggi
si insegna da subito a scrivere grafemi come trascrizione di suoni, mentre “alla mia
epoca” ci insegnavano prima di tutto a fare aste, cerchietti, triangolini...
19
“Allora dimmi subito quello che credi.” riprese la Lepre. “Come volete”, rispose in
fretta Alice, “Vi dico quello che credo… perché quello che credo dico… è la stessa
cosa.”. “Non è per niente la stessa cosa!”, esclamò il Cappellaio, “Vorresti forse sostenere
che la frase vedo quello che mangio ha lo stesso significato di mangio quello che vedo?”.
“O vorresti sostenere”, proseguì la Lepre Marzolina, “che la frase mi piace quello che
prendo ha lo stesso significato di prendo quello che mi piace?”. “E vorresti forse
sostenere”, concluse il Ghiro “che la frase respiro quando dormo ha lo stesso significato
di dormo quando respiro?”. “Per te è la stessa cosa!”, disse il Cappellaio. E a questo
punto la conversazione finì. – L. Carrol, Alice nel Paese delle Meraviglie, Bur, Milano,
1990, p. 98.
20
J. Goody, Il suono e i segni, Il Saggiatore, Milano, 1990, p. 17.
21
J. Bruner, Lo sviluppo cognitivo, Armando, Roma, 1968.
22
Ad esempio C. Burt nel 1921 descrive una successione in sette stadi dello sviluppo
del disegno infantile: ghirigoro (2-5 anni con una punta ai 3), linea (4 anni), simbolismo
descrittivo (5-6 anni), realismo descrittivo (7-8 anni), realismo visivo (9-10 anni),
regressione (11-14 anni), ripresa artistica (prima adolescenza); mentre G. H. Luquet (Il
disegno infantile, Armando, Roma, 1969) attribuisce un valore di fondamentale realismo
nell’intenzione del bambino e nella funzione rappresentazionale del disegno stesso che si
sviluppa secondo quattro fasi: realismo fortuito, realismo mancato, realismo intellettuale
(5-8 anni), realismo visivo (8-9 anni).
23
“Dallo scarabocchio informe si dipartono, con intenzionalità diverse, il disegno e la
scrittura”, come sostiene A. Oliverio Ferraris, Il significato del disegno infantile,
Boringhieri, Torino, 1978, p. 25.
24
Cfr. in particolare E. Ferreiro, A. Teberosky, La costruzione della lingua scritta nel
bambino, Giunti, Firenze, 1985, a differenza di quanto sostiene A. Oliverio Ferraris, che
sembra schiacciare la comunicazione infantile sull'obiettivo dell'apprendimento del
codice grafico dell'adulto. “Il bambino che scrive non può, se vuole esprimersi
27
chiaramente, fare a meno di adeguarsi correttamente alle regole della lingua e perciò non
sempre è in grado di mettere per scritto quello che ha in mente (...) Questo senso
d'inadeguatezza del mezzo al contenuto è meno forte nella rappresentazione figurativa
perché le regole sono meno costrittive.” (A. Oliverio Ferraris, Il significato del disegno
infantile, op. cit., p. 27-28).
25
K. Machover, Il disegno della figura umana, Organizzazioni Speciali, Firenze,
1968.
26
J. Piaget, B. Inhelder, La psicologia del bambino, Einaudi, Torino, 1970.
L’immagine mentale è un prodotto dell’interiorizzazione delle azioni intellettuali, è una
copia non dell’oggetto in sé ma degli adattamenti appropriati alle azioni connesse
all’oggetto, cioè una copia attiva e non una traccia del residuo sensoriale degli oggetti
percepiti.
27
W. Lowenfeld, W. L. Brittain, Creatività e sviluppo mentale, Firenze, Giunti
Barbera, 1984, p. 204.
28
L'operazione dell'appaiamento consiste nell'abbinare un dito per ogni oggetto
contato, sollevando il dito corrispondente per ogni oggetto e dicendo “Questo [dito] è
questo [oggetto]”, comprendendo così la quantità non numerica degli oggetti e stabilendo
una corrispondenza biunivoca tra l'insieme delle dita "toccate" e quello degli oggetti
"contati" fino a dire «Sono questi», indicando le dita impegnate, e magari chiedere poi
all'adulto “Quante sono questi?”. Cfr. M. Squillacciotti (a cura di), Antropologia del
numero. Categorie cognitive e forme sociali, Grafo edizioni, Brescia, 1996.
29
L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Giunti Barbera, Firenze, 1966.
30
Si vedano in questo volume gli interventi di V. Zucchi, L. Scelfo, F. De Dominicis,
M. S. Eremita e le schede di approfondimento di L. Lazzarini, A. Brunetti, M. Giordano,
E. Scelfo.
31
A. Santoni Rugiu, L'educazione estetica, Editori Riuniti, Roma, 1975, p.123.
32
D. Olson, Linguaggi, “media” e processi educativi, Loescher, Torino, 1979, p. 54.
33
J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Einaudi,
Torino, 1967.
34
Si veda l’intervento di V. Lusini inserito in questo volume ed inoltre V. Lusini,
Sviluppo della competenza: abilità culturali, capacità critiche, creatività, relazione al
Convegno Arte e non arte nell’espressione pittorica infantile, Comune di Casole d’Elsa
ed Associazione “Francesco di Piazza”, Casole d’Elsa (Si), 25 maggio 2002.
35
Pertanto, è chiaro che è proprio in questo senso che la didattica museale può
diventare un'attività sociale, cioè uno strumento per partecipare ed elaborare la realtà
imprevista delle cose e delle persone. Su questo punto si veda AA. VV., Il museo come
esperienza sociale, De Luca, Roma, 1972.
36
Si veda J. S. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari, 1988.
28