Il bambino "rotondo" - Arlian - Università degli Studi di Siena
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Il bambino "rotondo" - Arlian - Università degli Studi di Siena
Il bambino “rotondo”: vedere, fare, sapere * Massimo Squillacciotti 1 – Fare e sapere L’idea principale che vorrei qui rendere intorno al bambino è quella di pensarlo nella sua completezza, “a tutto tondo”, cioè come una “persona” che, usando le mani nella sua attività, materiale e simbolica, entra “significativamente” in contatto con il sé e con il mondo, una persona che prende possesso del mondo, che dà significati al mondo mentre si costruisce in costante rapporto di azione e retroazione con la realtà interna ed esterna a lui. È il mito biblico della creazione del mondo: il “dono della parola” realizza la specificità umana di Adamo, permettendogli la sua presa sul mondo1. Chiamare le cose con un loro nome vuol dire innanzi tutto dare un nome alle cose, avere il potere di scegliere un nome per ogni cosa che si voglia chiamare, cioè mettere in ordine le cose del mondo in modo da poterle riconoscere e poter comunicare con gli altri su di esse. Vuol dire, anche, che tra tutti i possibili linguaggi (gestuale, visivo, verbale, grafico, cinesico, prossemico...), l'uomo ha adottato proprio la lingua come linguaggio privilegiato, al termine di un lungo processo storico-biologico di evoluzione. Ma il linguaggio verbale, la lingua, non è solo uno strumento per comunicare idee, per modificare i sentimenti altrui o per esprimere i propri: ciascuna lingua è anche un mezzo per classificare l'esperienza. Un altro buon punto di partenza, sempre in questa direzione, è costituito dall’Elogio della mano di Henri Focillon: “La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. (...) le mani non hanno soltanto assecondato gli intendimenti dell’essere umano, ma hanno contribuito al loro determinarsi, li hanno precisati, hanno dato loro forma e figura. L’uomo ha fatto la mano, nel senso che a poco a poco l’ha emancipata dai vincoli del mondo animale liberandola da un’antica schiavitù imposta dalla natura; ma la mano ha fatto l’uomo. (...) La presa di possesso del mondo esige una sorta di fiuto tattile. La vista scivola sulla superficie dell’universo. La mano sa che l’oggetto implica un peso, può essere liscio o rugoso, che non è inscindibile dallo sfondo di cielo o di terra con il quale sembra far corpo. L’azione della mano definisce il vuoto dello spazio e il pieno delle cose che lo occupano2.” Questa citazione non ci permette solo di spiegare il significato del titolo di questo contributo, ma va oltre: la “rotondità” del bambino non è qui proposta solo come costruzione pedagogica sul bambino, a fini didattici, ma in primo luogo è riscontrabile in sé, in quanto costitutiva dei processi cognitivi nell’apprendimento del diventare adulto, nell’esprimere e sviluppare le proprie “abilità” di presa di possesso del sé e del mondo, e in secondo luogo ci permette di ribaltare la teoria 1 psicopedagogica delle “prestazioni”, che ritiene il risultato ottenuto nelle prove e nei compiti come di per sé prodotto da intelligenza, attitudine, capacità, creatività... piuttosto che definibile nella relazione con la relativa “competenza” culturale e con il contesto d’apprendimento e di sviluppo delle abilità stesse. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, è acquisito ormai che i “compiti” psicologici non evocano gli stessi tipi di comportamenti in soggetti appartenenti a contesti culturali diversi: il metro di valutazione delle abilità raggiunte da un singolo individuo vanno commisurate e rapportate allo standard di competenze richiesto da ogni specifica cultura, oltre che spiegate a partire dalle metodologie e strategie dei processi di insegnamento ed apprendimento3. Così la constatazione dell'esistenza di differenze tra individui e tra culture ci riporta alla natura di tali differenze: è la competenza culturale a richiedere certe prestazioni ed abilità cognitive; è l'esperienza culturale a permettere lo sviluppo delle forze e strategie cognitive necessarie e non certo il contrario, cioè lo sviluppo cognitivo in sé a decidere dove fermarsi od a quale livello far attestare gli individui od una cultura nel suo complesso. Ancora, la definizione di “rotondità” del bambino è riscontrabile negli stessi processi cognitivi attivati nell’apprendimento del diventare adulto ed è osservabile in contesti “d’attività libera” del bambino stesso. Infatti, se lo osserviamo all’opera nel disegnare, colorare, dipingere e così via, le sue mani colpiscono per il loro sforzo e concentrazione di energia: non sono tanto lo strumento che realizza un’idea ma sono piuttosto lo strumento che guida il pensiero a strutturarsi prima ancora che ad esprimersi linguisticamente, a diventare materia, od anche il supporto parallelo del racconto e delle fantasie creative che lo stesso bambino va facendo durante questo “lavoro”, come attività profonda di realizzazione di sé4. Bambini completi, concreti e reali come le loro mani e non “piccoli uomini” in costruzione secondo modelli del volere dei grandi5 o che piacciono ai grandi per un apprendimento di ruoli: in primo luogo ruoli espressivi presentati come assoluti, naturali o non-casuali proprio perché al loro interno sono presenti ed operano ruoli sociali della comunicazione con il sé e con gli altri; in secondo luogo ruoli espressivi prodotti da una visione ancora prevalente e secondo cui l’espressione verbale è vincolante e dominante su quella grafica (intesa lungo il complesso che va dalla figurazione alla scrittura) e, poi, quella grafica della scrittura dominante su quella grafica espressiva nelle sue diverse forme estetiche. Eppure questo “campo di attività” contiene, dal punto di vista cognitivo e del soggetto che poi sarà un uomo, implicazioni ben più complesse di un semplice passatempo, divertente od imposto da un programma scolastico o di laboratorio didattico, ben più “cose” di quanto uno sguardo sincronico non faccia comprendere intorno alla stessa storia dei processi cognitivi e dello sviluppo delle abilità del sapere come “saper fare”. Per addentrarci ulteriormente nel tema delle mani nella costruzione dell’uomo di oggi, parto forse apparentemente da lontano (dall’epoca delle caverne, dalla nostra storia di ominide) per evidenziare la logica del processo primordiale con cui siamo diventati “esseri umani” lungo il percorso storico-biologico che va dall’antropoide all’homo sapiens. Infatti, la connessione esistente nella capacità umana tra fabbricare utensili concreti e costruire simboli immateriali, entrambe 2 forme di espressione di un unico processo di presa di possesso del mondo, entrambe espressioni tecnologiche del pensiero e dipendenti da una stessa attrezzatura di base del cervello, rende possibile rintracciare nella storia dell’uomo momenti e scenari di confronto tra queste due tecniche, definibili anche come linguaggi. Come sottolinea Emmanuel Anati: “Possiamo affermare che l’arte, qualsiasi arte, tra le sue numerose e svariate caratteristiche ha quella di essere un mezzo di comunicazione, di contatto tra l’artista e l’esterno. E ciò vale in ogni caso, quale sia il motivo della creatività artistica, anche per l’arte che dichiaratamente abbia una funzione decorativa6.” Prima della comparsa del grafismo, in un primo periodo di simbolismo sonoro, la mano interviene prevalentemente nella fabbricazione di strumenti e la bocca nell’articolazione di un primordiale linguaggio sonoro, come poli funzionali del “campo anteriore” di relazione dell’uomo; ma la mano e la bocca sembrano anche divaricarsi tra loro, tra specializzazione e concorrenza, realizzandosi la prima attraverso l’utensile e la seconda attraverso la fonazione prima e la parola poi. È con la comparsa della rappresentazione grafica7 (i graffiti intesi nel significato più ampio della realizzazione di immagine: simboli, figurazione, arte, scrittura) che si ristabilisce il parallelismo tra i due poli funzionali ed operativi, grazie alla mano che acquisisce anche un’altra tecnica: quella di “parlare” tracciando su supporto esterno segni e simboli che, come quelli verbali, sono contemporaneamente risultato e strumento del pensiero. Per dirla con il paleontologo André LeroiGourhan: “La mano ha il suo linguaggio la cui espressione è in rapporto con la visione, la faccia ha il suo che è legato all’audizione8.” Possiamo andare oltre avanzando in proposito un’ipotesi forse forte ma convincente dal punto di vista cognitivo per “l’uomo in formazione”, sia dal punto di vista filogenetico nel processo di ominazione che ontogenetico nello sviluppo dal bambino all’adulto. Un’ipotesi di rovesciamento dell’ottica di privilegiamento per l’uomo del linguaggio verbale su tutti gli altri possibili linguaggi in quanto strutturato e strutturante la “sintassi” della comunicazione linguistica; un’ipotesi di rifiuto dell’idea del processo evolutivo per strati: dal biologico allo psichico ed infine al culturale9. Quando la mano interviene nella fabbricazione degli strumenti, nell’elaborare un linguaggio della tecnica, il “fare” dell’uomo incorpora ed esprime un “saper fare” in quanto ricava dall’oggetto le sue regole compositive, le regole delle relazioni tra le sue diverse parti e della collocazione delle sue forme nello spazio oggettuale. Come dire sinteticamente che la sintassi implicita ed esplicita dell’oggetto viene assunta dal saper fare dell’uomo nella mente e poi trasferita ed applicata dal linguaggio della tecnica agli altri tipi di linguaggi, tra cui quello grafico prima e quello verbale poi, in maniera interrelata e compensativa. A livello dello sviluppo dell’individuo è questo il caso del bambino che, non controllando ancora o non pienamente la sintassi del linguaggio verbale, riesce già però a realizzare l’articolazione sintattica del discorso, trasferendola nella sintassi dello spazio scenico e compositivo, della rappresentazione grafica in un disegno-plastico10. In sintonia con questa prospettiva etno-cognitiva è possibile definire, allora, il “simbolo” non solo come elemento che sta al posto di un altro elemento, ma ancor 3 più come relazione nel soggetto tra dimensione materiale ed immagine mentale di una “cosa”, come risultato dell’operazione di resa immateriale della materialità di una cosa, spostando l’attenzione dalla relazione esterna al soggetto e formata nella “cosa” in sé alla relazione resa interna al soggetto dal processo di costruzione di senso. E tutto questo processo ce lo portiamo ancora dentro come parte del nostro corredo di integrazione tra natura e cultura, come estensione strumentale e dominio della cultura sulla nostra base naturale. L’uso degli strumenti (da una parte utensili e simbolismi grafici e dall’altra simbolismi verbali) è indice dell’esistenza di quel “sistema di attività”11 che caratterizza propriamente l’uomo in apprendimento: mentre l’animale dispone di un insieme di comportamenti o attività condizionati dagli organi propri di ogni specie, l’uomo è in grado di rendere praticamente illimitato il suo “sistema di attività” mediante l’utilizzazione, e in seguito l’invenzione, di sempre nuovi strumenti. In particolare questi strumenti non sono solo materiali, ma legati anche alla significazione, alla necessità cioè di esprimersi e di comunicare nel suo complesso. Questa forma superiore è mediata dal segno e si distingue sostanzialmente dalle forme naturali di comunicazione da cui scaturisce. Come ha osservato in proposito Lev Vygotskij: “Se è vero che il segno è inizialmente uno strumento di comunicazione e che soltanto in seguito diventa un mezzo per regolare il comportamento della persona, è affatto chiaro che lo sviluppo culturale è fondato sull’uso dei segni e che la loro introduzione nel generale sistema del comportamento si è verificato inizialmente in forma sociale, esterna. In via generale potremo dire che le relazioni tra le funzioni psichiche superiori sono state un tempo relazioni fra persone12.” Da qui, su altro piano ma più vicino ai nostri interessi, l’affermazione di Jean Piaget: “Nonostante siamo soliti pensare che l’arte incomincia con i primi segni che il bambino traccia su un foglio, di fatto essa prende l’avvio molto prima, allorché i sensi entrano per la prima volta in contatto con l’ambiente ed il bambino reagisce a queste esperienze sensoriali. Toccare, vedere, sentire, manipolare, gustare, ascoltare sono altrettanti modi di percepire e reagire all’ambiente: essi formano l’essenziale sottofondo per la produzione di forme artistiche, sia che ci si trovi a livello del bambino che a livello dell’artista di professione13. Da qui scaturisce anche, come dicevo prima, la necessità del nostro pensare a bambini completi, concreti e reali come le loro mani, strumenti e guida del pensiero stesso. Un’immagine in proposito può risultare familiare a molti di noi: quella del bambino di 5-6 anni che: “steso sul pavimento, la sua mano correva veloce su un foglio “giocando” una partita di pallone con un disegno mentre, contemporaneamente, la sua bocca raccontava “in diretta” lo svolgimento della partita come se lui avesse effettivamente davanti agli occhi (davanti agli occhi della mente) una partita reale o lui stesso fosse parte del gioco in corso (...) l’impressione che il disegno fosse già di per sé un racconto e che, come questo, avesse anche una vita propria (...)14.” Come per il nostro antenato sapiens, così anche per il bambino di oggi le prime forme di grafismo iniziano non nella rappresentazione ingenua e primitiva della 4 realtà ma nella sua trasposizione simbolica15, con segni che sembrano esprimere prima di tutto ritmi e non forme. Là dove il simbolismo grafico gode, rispetto al linguaggio fonetico, di una certa indipendenza: il suo contenuto esprime nelle dimensioni plastiche dello spazio quello che il linguaggio fonetico esprime nell’unica dimensione del tempo. Il legame che unisce il linguaggio all’espressione grafica è coordinativo e non subordinativo, come invece succede con la nostra scrittura lineare, in cui l’espressione grafica è completamente subordinata all’espressione fonetica, e questo più per i processi storico-sociali della cultura che per l’evidenza tecnologica della scrittura in sé16. L’immagine, come visione e come prodotto della rappresentazione grafica, possiede per questo una libertà dimensionale che manca alla scrittura ed al racconto: può dare il via al processo verbale della narrazione, senza esservi legata e perdurando al di là del suo autore. Come per le abilità linguistiche, così anche per il simbolismo grafico si può parlare di processo di sviluppo della sua espressività, processo che si realizza complessivamente lungo l’arco di grafismo cinestetico, scarabocchio, scrittura imitativa, disegno intenzionale, grafismo narrativo, scrittura intenzionale, calligrafia, disegno figurativo, figurazione artistica. Ma, a ben vedere, questo processo è inserito in un contesto d’apprendimento, prevalentemente quello scolastico, che in genere si avvale di codici pedagogici della comunicazione di tipo ristretto17 perché unidirezionale (dall’adulto al bambino), non intersoggettiva (di contro alla rete di relazione di tutte le persone coinvolte nel rapporto) e selettiva nelle forme dell’espressività stessa (come privilegiare la scrittura rispetto al disegno18, imparare a leggere solo un testo scritto - che pure nella nostra storia nasce come immagine e non come sonoro - o suggerire le modalità compositive del disegno). Insomma, un contesto di apprendimento in cui il pensiero metaforico e visivo non trovano spazio; eppure perfino nella costruzione del linguaggio verbale il bambino realizza una serie di attività tecniche particolarmente importanti per il suo sviluppo cognitivo perché connesse alle altre forme della comunicazione e, per questo, in linea con la costruzione di un sé propria del bambino reale: un bambino che “impara ad essere mentre gioca”. Come dire che è proprio l’integrazione tra i diversi codici usati (al di là della loro autonoma modalità di funzionamento e specifici tempi di sviluppo) a permettere alla nostra Alice nel Paese delle Meraviglie di avere una “relazione” con la maestratestuggine, cioè di affrontare e risolvere positivamente il confronto con il “potere della parola” quando è interrogata19. 2 – Vedere e saper fare In questa prospettiva, allora, se il sapere è un saper fare, lo stesso fare è un’attività “intelligente” che si realizza in un contesto d’apprendimento basato su codici della comunicazione e regole di espressione “liberi e dotati di senso” cioè che, impegnando il bambino in tutta la gamma di espressione e formazione dei suoi sensi, permettono un approccio infantile adeguato, ma non “bambinese”, a 5 lavorare in contesti d’uso ed astrarre sequenze logiche esportabili. In questa prospettiva didattica, il principio della competenza assume il particolare e ricco significato di abilità di trasferimento di acquisizioni e metodologie ai diversi campi della conoscenza. Così nella costruzione del linguaggio il bambino esprime anche alcune attività tecniche per lo sviluppo di altre forme di comunicazione, come il disegno prima e poi la scrittura, ed in questa prospettiva Jack Goody nota che “la base fisica della scrittura è certamente la stessa del disegno, dell'incisione, della pittura (le cosiddette arti grafiche). In ultima analisi essa dipende dalla capacità umana di maneggiare taluni strumenti con una mano ed un pollice, coordinati ovviamente da occhio, orecchio, cervello20.” Questo riferimento ci serve come promemoria nell'introdurre un’altra tappa della riflessione sul rapporto tra le diverse forme grafiche nel processo di strutturazione del pensiero in età infantile. In altre parole, per dirla con Jerome Bruner, dobbiamo tener presente che lo sviluppo intellettivo è influenzato dal modo con cui gli esseri umani gradualmente apprendono a rappresentare il mondo attraverso l'azione, l'immagine ed il simbolo21. Allora, anche solo per delineare il percorso di formazione nel soggetto delle diverse forme grafiche, dobbiamo aver davanti ai nostri occhi un bambino reale, cioè che non solo disegna o scrive o parla od ascolta, ma che vede, tocca, sente, manipola, gusta, ascolta, parla, canta, conta, disegna e scrive mentre gioca ed impara ad essere, operando un'integrazione tra i diversi codici usati. Inoltre, dobbiamo tener presente che l'interpretazione che segue del processo di formazione e di sviluppo delle diverse fasi psico-genetiche è guidata da una prospettiva etno-cognitiva e che, pertanto, non hanno qui validità tanto le singole scansioni in sé né i caratteri interni ad ognuna di queste fasi, quanto la possibilità e la necessità euristica di determinare i diversi contesti culturali in cui si può sincronicamente esprimere e costruire il soggetto dato (livelli di abilità richiesti, livelli di abilità raggiunti; strumenti e materiali, forme e codici di trasmissione del sapere, e così via). Infatti, l’excursus che segue non tiene conto della differenza tra i diversi studi “classici” di psicologia del grafismo22, né di altri possibili approfondimenti a riguardo, come la valutazione dell'importanza dello scarabocchio nel determinare la separazione fra grafia e disegno23 o la corrispondenza nel bambino tra funzione iconica delle parole e la simulazione dell'oggetto nello scrivere24. Ancora, accanto ai processi spaziali-visivi nello sviluppo del coordinamento psico-motorio manoocchio nel bambino, ci sono aspetti particolari dell'espressione grafica, quali la rappresentazione della figura umana25, la realizzazione di figure geometriche, in relazione ad altri aspetti e "settori categoriali" che si formano e sviluppano parallelamente e sincronicamente, pur nello stesso processo complessivo. Per un approfondimento specifico non mancano gli strumenti bibliografici in proposito, mentre è importante qui insistere proprio sugli aspetti dell'interdipendenza tra cultura e contesto d’apprendimento da una parte e processi dell'individuo dall’altra, ma anche tra i diversi settori d'espressione di uno stesso individuo. 6 Lo scarabocchio Gli psicologi infantili J. Piaget e B. Inhelder definiscono il disegno un'immagine grafica e affermano che esso è una preparazione e una risultante dell'immagine mentale. Il disegno si inserisce come intermediario tra il gioco simbolico, di cui presenta il medesimo piacere funzionale, e l'immagine mentale26 con la quale condivide il tentativo di imitazione del reale prima e poi di rappresentazione. “Per quanto già molto presto il bambino si esprima vocalmente, il suo primo segno permanente prende di solito la forma di uno scarabocchio all'età di circa diciotto mesi”27. Il bambino, verso i due anni, anche se utilizza il linguaggio verbale, non è ancora in grado di astrarre, ma il gioco simbolico (costituito da linguaggio verbale, grafismi ed attività ludica) gli permette di elaborare interiormente le proprie esperienze. All'inizio, l'attività grafica è un fatto essenzialmente di tipo organico: il segno è la conseguenza del gesto che descrive la sua traiettoria su una superficie capace di registrarla. In questo primo stadio dello scarabocchio non c'è ancora un tentativo di rappresentazione della realtà. Il bambino è attratto da questa attività soprattutto per la soddisfazione derivata dall'esperienza di sensazioni cinestetiche. Pochi mesi dopo, il bambino scopre che esiste un rapporto tra i suoi movimenti ed i segni ottenuti e studia le varie possibilità di movimento per ottenere diversi risultati a livello grafico. È in questo periodo che comincia a formarsi l'immagine del corpo, inizia il processo di lateralizzazione e c'è una maggiore integrazione tra l'apparato visivo e quello motorio. Matteo, 2 anni. Successivamente, verso i tre anni e mezzo di età, il bambino incomincia a dare un nome al suo scarabocchio: la linea non è più solo la traccia di un movimento, ma diventa il limite di una forma. La soddisfazione che il bambino trae dallo scarabocchiare è ora legata ai rapporti tra le linee ed il mondo esterno. 7 A volte il bambino accompagna con una descrizione verbale ciò che sta esprimendo nello scarabocchio: comincia ad utilizzare la sua attività grafica anche come mezzo di comunicazione. Paolo, 3 anni, Cane che corre. Giovanni, 3 anni, Il bosco. C'è una partecipazione di tutto il corpo all'atto grafico che non si limita a coinvolgere la mano ed il braccio. Nella situazione avanzata della fase dello scarabocchio, la traccia diventa il motivo del gesto in un meccanismo di feed-back e l'avvenimento è importante perché il bambino sperimenta visivamente ciò che prima aveva sperimentato solo a livello cinestetico. Le tracce grafiche hanno lo stesso valore espressivo del gesto. 8 Il disegno intenzionale A quattro anni si può cominciare a parlare di disegno intenzionale: il bambino non disegna più solo per una comunicazione con il sé, ma è già parzialmente relazionato con l'esterno. Checca, 3 anni, Bimbo che parla. Giovanni, 4 anni, Bambino. Giovanni, 3 anni e mezzo, Con i miei fratelli. Comincia a distinguere la parola "Fine" al termine dei cartoni animati o dei libri dei racconti che gli vengono letti o che sfoglia da solo, vede gli adulti 9 scrivere e tenta un "disegno" della scrittura, magari per chiedere subito dopo “Che cosa ho scritto?”. Giulio, 4 anni, Che cosa ho scritto? I suoi segni non riproducono fedelmente l'immagine, sia prodotta su base di invenzione che tratta dalla realtà, e le cose vengono disegnate in un rapporto casuale nel foglio, senza essere disposte secondo punti di riferimento. Accentuati sono gli aspetti in cui il bambino è stato emotivamente coinvolto e per lui reale è ogni tipo di percezione e di rappresentazione, anche onirica. Gli vien fatta disegnare l'immagine della madre o del padre, quando questi sono assenti, per alleggerire la tensione creatasi in lui per la paura della loro perdita. L'attività cognitiva è prevalentemente di tipo intuitivo e lo sviluppo percettivo avviene attraverso l'utilizzo di tutti i canali sensoriali: si assiste ad un affinamento delle capacità di percezione analitica, che stimola il bambino ad una costante ricerca di nuove nozioni e del perché delle cose. Giovanni, 4 anni, La mia casa. Giulia, 4 anni, La casa. Se frequenta la scuola materna, comincia ad imparare a distinguere la scrittura dal disegno, i diversi grafemi tra loro, riproducendoli sulla carta o sulla 10 lavagnetta, sulla falsariga tracciata dall'insegnante ed all'interno di due righe commisurate al suo sforzo di coordinamento psico-motorio. Comincia a scrivere i numeri, indifferentemente al "dritto" e al "rovescio", ma la loro lettura non è scontata: per lui non sono ancora entità matematiche, anche se usa già l'operazione dell'appaiamento28 ma, soprattutto, della conta con le filastrocche. Giulio, 5 anni, Disegno di numeri. Gli viene insegnato ad oggettivare il proprio corpo attraverso la rappresentazione della mano "ricalcata" sul foglio o "impressa" come orma sulla creta. Gli viene insegnato a valutare la differenza della grandezza attraverso il ricalco successivo, con un gesso per terra, di due corpi diversi e sovrapposti. Paolo, 5 anni, Mani-contorno. Giovanni, 5 anni, Le mie mani-orma. Capisce l'esistenza di un andamento processuale del racconto che comincia con “C'era una volta...” e finisce con “...e vissero felici e contenti”, ma non afferra la rigidità della successione delle parti della storia, che possono essere vissute anche come compresenti. A cinque anni riproduce una storia che ha ascoltato, costruendo un "libro" con una serie di disegni, mentre se utilizza un foglio solo, la raffigurazione della storia è statica e limitata ad una sola scena anche se la sua narrazione esula dal disegno, a precedere e seguire la stessa rappresentazione. È in grado di scrivere il proprio nome in stampatello su un foglio: se il foglio è vuoto, il nome viene scritto in alto a sinistra utilizzando il bordo superiore come riferimento; se il foglio contiene già un disegno, il nome viene scritto anche più volte, negli spazi lasciati vuoti dal disegno. In quest'ultimo caso, spesso, mettere il 11 proprio nome non equivale a firmare ma all'espressione della propria volontà di entrare a far parte del disegno o del racconto disegnato, al pari della figura di se stesso che compare di frequente, a questa età, disegnata all'interno della scena. Continua a scrivere i numeri indifferentemente al "dritto" e al "rovescio", cioè capovolti e speculari, e li legge in maniera biunivoca in quanto le cifre non vengono percepite nel loro orientamento sul foglio ma per la forma rappresentata; comunque per lui non sono ancora entità matematiche ma, pur sapendo che “i numeri non sono parole”, li usa a memoria nella loro giusta successione come filastrocca. D'altronde a questa età il bambino, per dire "venti", può dire "diciadue", cioè "dieci due"; come può dire, sul versante della percezione del tempo, "il domani di domani" al posto di "dopodomani" ed estendere questo metodo all'indietro e dire "il domani di ieri" al posto di "l'altro ieri". Comunque non chiede già più se “Oggi è già domani?”, come poteva fare invece a quattro anni. Il disegno come racconto Verso la fine dei cinque anni il disegno si fa racconto vero e proprio, nel senso che su di un solo foglio rappresenta per intero la successione degli avvenimenti, come nel caso della partita di pallone descritta prima. Al termine del disegno una serie di righe sul foglio, scarabocchi apparenti, sono il segno lasciato dal movimento delle figure della storia. Giulio, 5 anni, Partita di pallone. Per disegnare una scena complessa, con un centro come luogo principale di svolgimento della storia "raccontata", spesso usa scrivere parole come "Fuori" accanto alla rappresentazione di elementi del racconto che si svolgono, appunto, fuori dal centro. Così gli oggetti posti in alto sono quelli lontani ed il percorso che unisce due punti è generalmente tracciato senza senso della profondità. 12 Il bambino firma in corsivo più volte con il proprio nome, in forma corretta grammaticalmente ma non corretta dal punto di vista grafico, ad esempio non controllando lo spazio necessario a contenere per intero il proprio nome. Più avanti nei mesi il bambino ricorre a suddividere il foglio in più piani sovrapposti, attraverso righe parallele su cui poggiare le diverse scene in un continuum di discorso per risolvere la continuità delle scene e la profondità dello spazio ancora rappresentato bidimensionale. Giulio, 5 anni, Palestra. Il disegno presenta, comunque, una plasticità di forme e di uso dello spazio, mostrandosi piuttosto come codice di scrittura particolare, rivolto verso le forme del mitogramma e della pittografia. Il disegnare non è ancora separato rigidamente dalla scrittura: le due forme si integrano e si rinviano reciprocamente, come avviene con la parola che accompagna il disegno durante la sua stessa esecuzione. Giulio, 5 anni, Sciatori in montagna. 13 Disegnare, scrivere e raccontare sono ora espressioni compresenti e parallele di un pensiero in costruzione che non sostanzia ancora un'operazione di transcodifica tra codici proprio perché questi non sono ancora divaricati tra loro. Giovanni, 6 anni, Passeggiata a cavallo. Valentina, 7 anni, Cappuccettorosso. Valentina, 8 anni, La casa di Mariolino. 14 La radiografia In prima elementare, a sei anni, il bambino ha come compito scolastico di imparare "a leggere, scrivere e far di conto". Legge ad alta voce, spesso sillabando ancora e comunque seguendo con il dito il percorso della lettura. A volte deve ripetere la lettura prima di aver capito il testo o di essere in grado di dimostrare verbalmente tale comprensione. Apprende il concetto di numero matematico, attraverso il coordinamento degli ordinali e dei cardinali, ed inizia l'apprendimento delle operazioni a partire dalla somma. Inizia a realizzare la rappresentazione grafica come una pianta della casa, ma questa è disegnata per il percorso necessario a raggiungerne i diversi ambienti, piuttosto che nelle sue parti costitutive ed autonome (stanze, corridoio, ingresso...), e senza le relative pareti di delimitazione degli ambienti verso l'esterno. Giulio, 6 anni, Piantina di casa mia. Ancora, la casa viene anche disegnata nel suo spaccato verticale, piuttosto che come pianta vera e propria. Da qui l'uso della "radiografia": cioè di un disegno a due facce corrispondenti al fronte/retro di un foglio e che possano essere lette, per ciascuna parte corrispondente di immagine, come la mano o le ossa, una casa di fronte o le stanze dentro la casa, un bambino o il suo scheletro... ma anche 15 controluce come un disegno unico per la corrispondenza delle due immagini: la mano con le ossa, la facciata di una casa con le relative stanze come se non ci fosse la parete frontale, la radiografia di un bambino con il suo scheletro di dentro… Giulio, 6 anni, La mia casa da fuori e da dentro (radiografia). Per risolvere il problema della rappresentazione della tridimensionalità, il bambino ricorre alla costruzione di un disegno-plastico: su di un foglio comprendente alcune parti disegnate, vengono incollate "in piedi" sagome disegnate e preparate prima su di un altro foglio, come un ponte, un albero, una casa... Giulio, 6 anni, Paesaggio (plastico). 16 Il bambino firma intenzionalmente il disegno in corsivo e correttamente sia dal punto di vista grammaticale che grafico-spaziale. Più avanti nei mesi, per dare profondità ad esempio ad un paesaggio con una piscina, fa il disegno "mettendosi" dalla parte dell'acqua ed in modo da poter disegnare in verticale gli spigoli e le scale della piscina che gli sono davanti. Le case sono disegnate bidimensionali ma spesso il particolare dell'ombra del tetto risolve il senso tridimensionale e di profondità della casa. Giulio, 8 anni, Piscina comunale. Giulio, 8 anni, Gita in campagna. Gli animali, inventati o reali, mostri o preistorici, sono disegnati nel rispetto delle proporzioni ma in maniera conforme alle modalità di rappresentazione di altre scene. Ancora, ricorre alla costruzione di un disegno-plastico più complesso del precedente: attraverso la realizzazione di forme solide, riempie il disegno di piramidi e cubi, accanto ad alberi ancora disegnati "piatti" sul foglio, ma con una sintassi compositiva nell'uso dello spazio. È l'età in cui disegno e scrittura si separano. 17 Il disegno pittorico All'età di 7 anni, la rappresentazione dello spazio è legata alla consapevolezza del bambino di essere una parte dell'ambiente. Questa scoperta viene espressa nel disegno attraverso il simbolo della "linea di base": tutti gli elementi del disegno vengono posti su questa linea che rappresenta il terreno, il pavimento, la strada su cui gli oggetti poggiano. Nei disegni appare anche la linea del cielo, situata in cima al foglio. Lo spazio compreso tra la linea in alto e quella in basso viene identificato dal bambino come l'aria. Spesso tale tipo di formalizzazione dello spazio è conseguente ad un "ordine" didattico della maestra che dà agli scolari il "buon consiglio" di cominciare il disegno proprio tracciando due righe, quella della terra e quella del cielo... Lo spazio rappresentato in questa età è ancora bidimensionale perché il soggetto non è ancora in grado di esprimere graficamente la tridimensionalità spaziale. Valentina, 7 anni. Giovanni, 7 anni, Da un racconto africano. 18 A seconda del tipo di configurazione che intende dare alle varie parti del disegno, il bambino adotta per ognuna il punto di vista che le caratterizza meglio, alla luce del fatto che egli tende sempre a collocarsi all'interno delle situazioni restandone coinvolto; così tra i vari modi di espressione del concetto di spazio trovano posto il ribaltamento (gli oggetti vengono rappresentati perpendicolarmente alla linea di base anche quando appaiono capovolti) e la rappresentazione di oggetti o persone che non dovrebbero comparire perché nascoste da altri. Il disegno come calco e come arte Il bambino, a nove anni, inizia a pensare in termini astratti anche per quanto riguarda il disegno, scoprendo il piano, la profondità, la sovrapposizione. Ora il suo disegno è fedele e rispettoso del reale: è un calco, una riproduzione che lo libera tecnicamente, permettendogli di esprimere la sua creatività, il suo modo di vedere la realtà. Giulio 10 anni, La villa dei miei sogni. 19 Secondo Vygotskij29 il linguaggio grafico-pittorico può diventare uno strumento per la manifestazione del pensiero creativo: il soggetto ora può, grazie al disegno, riportare sul foglio, riproducendoli, tutti gli aspetti e gli elementi della realtà o della fantasia che vuol rappresentare. Alessandra, 12 anni, La diva. Sara, 10 anni, Gita a Siena. Mattia, 10 anni, Gita a Siena. Gianna, 13 anni, Una via nuova. 20 Angela, 12 anni, La mia tavola. In sostanza se il percorso storico evolutivo dell'uomo è andato dalla lettura delle orme alla loro riproduzione in graffiti rupestri, poi alle svariate forme di scrittura, all'arte, alla stampa, alla video-scrittura, lo sviluppo grafico del soggetto moderno va dallo scarabocchio, al disegno intenzionale, allo spaccato ed alla "radiografia", al racconto grafico, alla scrittura, al disegno pittorico, alla videografia, ai tag, ai graffiti urbani... In questa prospettiva etno-cognitiva una definizione possibile di arte figurativa è: linguaggio grafico che utilizza la metafora come forma di espressione e di comunicazione. L’arte appartiene allo stesso meccanismo cognitivo delle altre rappresentazioni grafiche, opposto come area cerebrale a quello della comunicazione verbale, ma ad esso parallelo lungo l‘asse evolutivo che va dallo scarabocchio al disegno nelle sue diverse forme; processo lungo il quale si innesta la produzione grafica dei diversi sistemi di scrittura. Calvin, Roma 1995. 21 Seda e Hitnes, Roma 2001. Fra 32 + Madfisio, Pisa 2002. Ma, come linguaggio e pensiero nascono separatamente e si interrelano nel processo della loro costruzione, condizionando le forme espressive del pensiero, così nel rapporto tra grafismi e scrittura avviene il contrario. Le forme grafiche vengono separate dalla scrittura lineare: questa si subordina al linguaggio verbale mentre il disegno esprime il pensiero e rappresenta il reale per un'altra e sua propria strada. La distanza della scrittura lineare dalle altre forme grafiche, cui il disegno appartiene, è diventata differenza di codice: non basta più esprimere un pensiero traducendolo in una delle due forme parallele e complementari, ma è necessaria un'operazione di transcodifica per mettere in comunicazione questi due differenti piani e le loro differenti realizzazioni. Questo almeno dal punto di vista tecnico perché poi, come già accennato, rilevanti il sistema di fruizione dei diversi codici e di relazione tra questi sono le tecniche sociali ed i circuiti di apprendimento/insegnamento della lingua e della grafia. 22 3 – Insegnare ed imparare Che vuol dire tutto ciò in una prospettiva didattica? Come tradurre presupposti teorici ed esigenze formative in una attività di laboratorio? È questo il campo tematico dello sviluppo delle competenze che, pur connesso agli studi cognitivi fin qui visti, ha un ulteriore suo ambito specifico nella progettazione di interventi mirati alla formazione nel bambino di abilità, situate tra capacità critiche e creatività. Il problema è stato da ultimo sentito ed indagato da più parti proprio per il suo interesse prospettico ed interdisciplinare che va dai Musei per i bambini all’allestimento di mostre, a Laboratori didattici sull’arte intesa in senso lato e come esperienza plastica in molte direzioni: sensoriale, espressiva, di ricezione, di fruizione e lettura... In particolare il tema dell’insegnare ed imparare nell’educazione all’immagine ed ai linguaggi materiali e simbolici dell’esperire può avere come punto di partenza dell’analisi il campo della “comunicazione figurativa”, da cui emerge nella sua centralità la questione dell’obiettivo didattico che è stato sviluppato nell’attività di laboratorio del Santa Maria della Scala, del Centro d’Arte Contemporanea Palazzo delle Papesse e del Museo d’arte per bambini30. In sintonia con quanto fin qui esaminato, il “comportamento estetico” è l’obiettivo della comunicazione figurativa che si svolge nel contesto di un più generale processo della comunicazione didattica (ricezione od ascolto in entrata e fruizione o produzione in uscita) e che si struttura esprimendosi nei tre campi della forma, del significato e della funzione. In particolare: - il campo della forma è definibile come manifestazione delle strutture cognitive e loro traduzione in forme percepibili e dotate di senso; - il significato è il mondo delle azioni e delle intenzioni reali ed è formato dal codice delle regole di costruzione dei simboli; - infine, la funzione riguarda le stesse intenzioni comunicative, come quella simbolica, artistica, informativa, decorativa, mnemonica, emblematica. Ma, nonostante la chiarezza metodologica di queste affermazioni, la questione dell’educazione estetica sembra dover necessariamente partire dalla confutazione di un principio residuale in ambito educativo e secondo il quale “il prodotto è più importante del processo”, per cui i modelli che vengono proposti ai bambini sono, come in una galleria, conclusi, esemplari, spesso privi di relazioni con il proprio contesto e con tutte quelle componenti socio-culturali che la persona dell’autore può veicolare tramite una rappresentazione. Di contro è bene ribadire il principio per cui la vera formazione della capacità espressiva è possibile solo a partire dalla sperimentazione delle fasi, ideative e costruttive, che dall'articolazione delle percezioni conducono alla progettazione delle proprie forme e dei propri contenuti, cioè al progetto ideativo che implica la riflessione sull'impiego di mezzi tecnici e di soluzioni formali. L'importanza formativa dei processi di costruzione di un'azione espressiva è data dal fatto che, attraverso la scoperta di questi processi, il bambino impara a prendere coscienza delle proprie capacità cognitive, indirizzando nel contempo le proprie energie espressive in progetti unitari e diretti ad uno scopo. Infatti “la 23 realtà interna dell'uomo produce ed è prodotta dalla realtà esterna, e fra i due livelli vi è un'interferenza positiva talmente stretta proprio perché non si sa mai se conta più il prodotto o il processo. In realtà, l'uno non esiste senza l'altro, così come l'azione non esiste senza la reazione e viceversa31.” Inoltre, attraverso l'azione motivata, il bambino diventa consapevole degli esiti del gesto compiuto: l'attività esterna diventa cioè attività interna ed il gesto diventa parola. Afferrare un oggetto - azione che implica capacità cognitive motorie e cinestetiche legate all'uso della mano - diventa afferrare consapevolmente lo strumento; diventa cioè azione consapevole, che collega le abilità spaziali e motorie a quelle simboliche. Questa consapevolezza fa in modo che il bambino sviluppi progressivamente le proprie capacità simboliche, rendendosi capace non solo di afferrare ed usare un oggetto, ma anche di costruire un proprio sistema di oggetti; in questo senso, l'agire diventa “intenzionare”, cioè formare consapevolmente. E proprio questo formare, che è azione consapevole, modifica ulteriormente le capacità cognitive, perché conduce alla consapevolezza della forma, che è struttura estetico-cognitiva. Lo stesso avviene per il segno grafico: il bambino scopre le potenzialità rappresentative del segno grafico attraverso la costruzione e l'esercizio personale, che si presenta come il risultato di un'attività motivata che passa da un uso intransitivo dello scarabocchio, che costituisce un'esperienza cinestetica, ad un uso simbolico del segno iconico, che segna il passaggio dalla fase motoria a quella simbolico-prelogica. Com'è noto, dopo aver esplorato le varie possibilità rappresentative delle unità segniche di base del linguaggio grafico, il bambino combina tali segni in modo da generare le configurazioni che più si adattano a ciò che intende rappresentare. Attraverso l'azione del configurare interiorizza le regole combinatorie del linguaggio visuale, acquisendo così una conoscenza dichiarativa (conoscenza dei fatti) ed una conoscenza procedurale (conoscenza dei processi) del linguaggio grafico. È infatti fuor di dubbio che “ciò che chiamiamo intelligenza si sviluppa attraverso la padronanza di un medium culturale (…) ciò porta all'ipotesi che l'intelligenza sia l'abilità in un medium o, più precisamente, l'abilità in un medium culturale”32. In altre parole, la stretta connessione tra linguaggio ed aspetti non linguistici della capacità rappresentativa dimostra che il linguaggio non è che un aspetto di una più ampia capacità simbolica che segna il passaggio da un'intelligenza senso-motoria ad un'intelligenza rappresentativa, incentrata contemporaneamente sugli aspetti interni, di tipo maturativo, e sui fattori esterni, di natura culturale, che rappresentano la cornice che dà valore e senso a ciò che accade al suo interno33. L'uso di uno strumento è pertanto il frutto dell'attività combinatoria tra "saper fare" e "saper dire" e questo processo permette l'incorporazione dell'utensile in un'attività strutturata e consapevole. È evidente, quindi, che la costruzione del "saper fare" non è soltanto una questione della psicologia dello sviluppo, ma una questione chiave che riguarda l'evoluzione dell'uomo, dal momento che il sistema mano-occhio-cervello permette la grande adattabilità e destrezza della mano, rendendo possibile, e anzi necessaria, l'apparizione dell'utensile. Il bambino 24 stesso, tramite il disegno, mostra che, in realtà, lo sviluppo del linguaggio segue quello dell'acquisizione dei "saper fare", dal momento che le strutture cognitive nascono prima di tutto dall'azione e dallo sviluppo dei meccanismi senso-motori che si situano a livello infralinguistico. Al termine di questo percorso espositivo, pure condotto in termini di problematicità, mi sembra congruente finire con le stesse parole usate da Valentina Lusini nella conclusione del suo intervento34, a cui rimando per completezza e sintonia d’esposizione. “Non sarà quindi inutile riaffermare, una volta di più, che un programma educativo incentrato sulle potenzialità di qualsiasi realtà espositiva non va affrontato come un compito di "formazione professionale" di futuri artisti o storici dell'arte, ma come un esercizio capace di dotare ogni bambino (ed anche ogni adulto) di quelle capacità basilari di percezione, immaginazione progettuale e coerente abilità produttiva che, dal punto di vista antropologico, servono a leggere non solo i messaggi intenzionali, ma anche i segni che caratterizzano l'atteggiamento sociale dell'uomo, rilevando le categorie che determinano i mutamenti nelle funzioni dei linguaggi (spazio, tempo, media, classe sociale, strumenti culturali di codifica e de-codifica del messaggio) e il modo in cui queste si intrecciano con i fattori storico-sociali35. L'elemento centrale da cui occorre partire è quindi l'ipotesi, sistematizzata da J. S. Bruner, di una "mente a più dimensioni"36, fondata cioè sulla consapevolezza della molteplicità dei mezzi attraverso i quali il museo, e con esso il visitatore, si mettono in gioco, si espongono, definiscono e ridefiniscono le proprie rappresentazioni.” 25 Note * Estratto dal volume Labor Arte. Esperienze di didattica per bambini, a cura di M. Squillacciotti, Roma, Meltemi, 2004, pp. 25-48. Gli altri interventi nel volume sono: H. Boccianti, V. Lusini, M. Squillacciotti, Presentazione: LaborArte e il Laboratorio di Didattica e Antropologia, pp. 7-24. - V. Zucchi, Attività educativa e sensibilità culturale. Il Santa Maria della Scala, pp. 49-76. - L. Scelfo, L’esperienza formativa dell’arte contemporanea. Il Centro d’Arte Contemporanea “Palazzo delle Papesse”, pp. 77-110. F. De Dominicis, Commedia nell’arte. Didattica e teatro nel museo d’arte contemporanea, pp. 111-129. - M. Eremita, Lungo la linea rossa: dallo spazio del Museo allo spazio dell’opera. Bambimus, il Museo d’arte per bambini, pp. 131-141. - V. Lusini, L'arte e l'altro. Il concetto di alterità come categoria euristica della didattica museale, pp. 143-157. 1 “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame (...)” – La Bibbia, Genesi, 2, 19-20. 2 H. Focillon, Vita delle forme, seguito da Elogio della mano, Einaudi, Torino, 1972, pp. 105-130. Citazione passim, pp. 106, 109, 110. 3 M. Cole, J. Gay, J. Glick, Intelligenza, pensiero e creatività, Angeli, Milano, 1976. – V. Davydov, Gli aspetti della generalizzazione nell’insegnamento, Giunti Barbera, Firenze, 1979. – J. Goody, I. Watt, Le conseguenze dell'alfabetizzazione, in P. P. Giglioli, G. Fele (a cura), Linguaggio e contesto sociale, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 285-331. – M. Squillacciotti, Le tecnologie del pensiero e le culture altre, “Rivista dell'istruzione”, n. 6, 1996. 4 M. Squillacciotti, La piroga di R’Agnambié... Racconti del Gabon, L’Harmattan Italia, Torino, 1995. 5 È il “potere della maestra” contro cui mette in guardia Luis Carrol in Alice nel paese delle Meraviglie: “Quando io adopero una parola - disse Tombolo Dondolo con un tono piuttosto sdegnoso - essa ha esattamente il significato che io voglio dare né più né meno.” “Bisogna vedere - disse Alice - se voi potete fare in modo che le parole indichino cose diverse.” “Bisogna vedere - disse Tombolo Dondolo - chi è che comanda… ecco tutto” (Bur, Milano, 1990, p. 86). Nel viaggio onirico di Alice il potere è riferito soprattutto alla significazione della parola mentre per noi qui è riferito all’imposizione di regole convenzionali da parte della maestra, quando non addirittura di stili personali della maestra stessa: la Testuggine incontrata da Alice, appunto. 6 E. Anati, Origini dell’arte e della concettualità, Jaca Book, Milano, 1992. 7 R. Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, Adelphi, Milano, 1992. 8 A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino, 1977, p. 246. 9 C. Geertz, Sviluppo della cultura ed evoluzione della mente, in ID., Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1988, pp. 71-107. – C. Geertz, Cultura, cervello, mente / cervello, mente, cultura, in Idem, Antropologia e filosofia, Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 209-223. 10 Cfr. C. M. Braglia, Oralità e scrittura. Intervento didattico di sviluppo ed interpretazione di codici, tesi di laurea in antropologia culturale, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Siena, a. a. 2000-2001. – A. D’Errico, La fiaba e i 26 bambini. Spazio della narrazione e della rappresentazione, tesi di laurea in antropologia culturale, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Siena, a. a. 2001-2002. 11 V. Davydov, Gli aspetti della generalizzazione…, op. cit. 12 L. S. Vygotskij, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Giunti Barbera, Firenze, 1974, p. 200. 13 J. Piaget, Psicologia dell’intelligenza, Giunti Barbera, Firenze, 1952, p. 153. 14 M. Squillacciotti, La piroga di R’Agnambié…, op. cit., pp. 133-134. 15 Per attività simbolica si intende la capacità di rappresentare, tramite un’altra entità, un qualcosa che appartiene al mondo e che percepiamo attraverso i sensi. Punto di mediazione tra la realtà in sé e la realtà per il soggetto, tra la realtà “naturale” e quella della “cultura”, diviene l’immagine mentale come prodotto dell'interiorizzazione delle azioni intellettuali, copia non dell'oggetto in sé ma degli adattamenti appropriati alle azioni connesse all'oggetto, cioè copia attiva dell'oggetto, quindi imitazione interiorizzata e non traccia del residuo sensoriale degli oggetti percepiti. 16 M. Squillacciotti, La parola, l’immagine e la scrittura: una prospettiva etnocognitiva, “Thule”, n. 4/5, 1998, pp. 9-21. 17 E. Camilletti, A. Castelnuovo, L’identità multicolore. I codici di comunicazione interculturale nella scuola dell’infanzia, Angeli, Milano, 1994. 18 A scuola il bambino impara che la scrittura è legata al linguaggio verbale, alla parola, mentre il disegno alla visione, alla fantasia, alla immaginazione. Non a caso oggi si insegna da subito a scrivere grafemi come trascrizione di suoni, mentre “alla mia epoca” ci insegnavano prima di tutto a fare aste, cerchietti, triangolini... 19 “Allora dimmi subito quello che credi.” riprese la Lepre. “Come volete”, rispose in fretta Alice, “Vi dico quello che credo… perché quello che credo dico… è la stessa cosa.”. “Non è per niente la stessa cosa!”, esclamò il Cappellaio, “Vorresti forse sostenere che la frase vedo quello che mangio ha lo stesso significato di mangio quello che vedo?”. “O vorresti sostenere”, proseguì la Lepre Marzolina, “che la frase mi piace quello che prendo ha lo stesso significato di prendo quello che mi piace?”. “E vorresti forse sostenere”, concluse il Ghiro “che la frase respiro quando dormo ha lo stesso significato di dormo quando respiro?”. “Per te è la stessa cosa!”, disse il Cappellaio. E a questo punto la conversazione finì. – L. Carrol, Alice nel Paese delle Meraviglie, Bur, Milano, 1990, p. 98. 20 J. Goody, Il suono e i segni, Il Saggiatore, Milano, 1990, p. 17. 21 J. Bruner, Lo sviluppo cognitivo, Armando, Roma, 1968. 22 Ad esempio C. Burt nel 1921 descrive una successione in sette stadi dello sviluppo del disegno infantile: ghirigoro (2-5 anni con una punta ai 3), linea (4 anni), simbolismo descrittivo (5-6 anni), realismo descrittivo (7-8 anni), realismo visivo (9-10 anni), regressione (11-14 anni), ripresa artistica (prima adolescenza); mentre G. H. Luquet (Il disegno infantile, Armando, Roma, 1969) attribuisce un valore di fondamentale realismo nell’intenzione del bambino e nella funzione rappresentazionale del disegno stesso che si sviluppa secondo quattro fasi: realismo fortuito, realismo mancato, realismo intellettuale (5-8 anni), realismo visivo (8-9 anni). 23 “Dallo scarabocchio informe si dipartono, con intenzionalità diverse, il disegno e la scrittura”, come sostiene A. Oliverio Ferraris, Il significato del disegno infantile, Boringhieri, Torino, 1978, p. 25. 24 Cfr. in particolare E. Ferreiro, A. Teberosky, La costruzione della lingua scritta nel bambino, Giunti, Firenze, 1985, a differenza di quanto sostiene A. Oliverio Ferraris, che sembra schiacciare la comunicazione infantile sull'obiettivo dell'apprendimento del codice grafico dell'adulto. “Il bambino che scrive non può, se vuole esprimersi 27 chiaramente, fare a meno di adeguarsi correttamente alle regole della lingua e perciò non sempre è in grado di mettere per scritto quello che ha in mente (...) Questo senso d'inadeguatezza del mezzo al contenuto è meno forte nella rappresentazione figurativa perché le regole sono meno costrittive.” (A. Oliverio Ferraris, Il significato del disegno infantile, op. cit., p. 27-28). 25 K. Machover, Il disegno della figura umana, Organizzazioni Speciali, Firenze, 1968. 26 J. Piaget, B. Inhelder, La psicologia del bambino, Einaudi, Torino, 1970. L’immagine mentale è un prodotto dell’interiorizzazione delle azioni intellettuali, è una copia non dell’oggetto in sé ma degli adattamenti appropriati alle azioni connesse all’oggetto, cioè una copia attiva e non una traccia del residuo sensoriale degli oggetti percepiti. 27 W. Lowenfeld, W. L. Brittain, Creatività e sviluppo mentale, Firenze, Giunti Barbera, 1984, p. 204. 28 L'operazione dell'appaiamento consiste nell'abbinare un dito per ogni oggetto contato, sollevando il dito corrispondente per ogni oggetto e dicendo “Questo [dito] è questo [oggetto]”, comprendendo così la quantità non numerica degli oggetti e stabilendo una corrispondenza biunivoca tra l'insieme delle dita "toccate" e quello degli oggetti "contati" fino a dire «Sono questi», indicando le dita impegnate, e magari chiedere poi all'adulto “Quante sono questi?”. Cfr. M. Squillacciotti (a cura di), Antropologia del numero. Categorie cognitive e forme sociali, Grafo edizioni, Brescia, 1996. 29 L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Giunti Barbera, Firenze, 1966. 30 Si vedano in questo volume gli interventi di V. Zucchi, L. Scelfo, F. De Dominicis, M. S. Eremita e le schede di approfondimento di L. Lazzarini, A. Brunetti, M. Giordano, E. Scelfo. 31 A. Santoni Rugiu, L'educazione estetica, Editori Riuniti, Roma, 1975, p.123. 32 D. Olson, Linguaggi, “media” e processi educativi, Loescher, Torino, 1979, p. 54. 33 J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Einaudi, Torino, 1967. 34 Si veda l’intervento di V. Lusini inserito in questo volume ed inoltre V. Lusini, Sviluppo della competenza: abilità culturali, capacità critiche, creatività, relazione al Convegno Arte e non arte nell’espressione pittorica infantile, Comune di Casole d’Elsa ed Associazione “Francesco di Piazza”, Casole d’Elsa (Si), 25 maggio 2002. 35 Pertanto, è chiaro che è proprio in questo senso che la didattica museale può diventare un'attività sociale, cioè uno strumento per partecipare ed elaborare la realtà imprevista delle cose e delle persone. Su questo punto si veda AA. VV., Il museo come esperienza sociale, De Luca, Roma, 1972. 36 Si veda J. S. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari, 1988. 28