I Quaderni dall`IsolaAppendiceI
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I Quaderni dall`IsolaAppendiceI
Materie prime per il sapere nomade 1° Appendice ai Quaderni dall'Isola Spesso non si scrive perché non si ha un quaderno sottomano. Organizzare la presenza di un quaderno è la cosa più difficile. Scorro i titoli dei libri di psicologia dal catalogo del “Mulino”: che rigurgito di depressione! E' come spremere del sangue dai muri. Salvare il tempo, o lasciarlo andare a pezzi; mollare il secolo, che si sfoghi per bene? Ora ho capito perché Lucio si è ucciso. Per la solitudine, per il rumore di fondo che, nel silenzio assoluto, si amplifica fino a stordirti. E' come un microfono automatico. Il microfono automatico si regola, come volume, sui suoni che sente. Se qualcuno parla, allora il rumore di fondo si attutisce sino a scomparire, ma se non parla nessuno, allora il microfono ricerca i suoni più profondi, più oscuri, più nascosti, scava dentro al silenzio, penetra in esso come in una buia galleria, e allora incubi e immaginazioni, concrete e irreali, ti assalgono. L'unica terapia è l'amicizia, l'amore e un po' di serenità, oppure il sonno, il sonno profondo. Serenità, che parola meravigliosa. Accontentarsi e gioire delle piccole cose che ti può dare la vita…e avere cura di essa nel corpo e nella mente. Tenerezza. E c'è sempre speranza, sempre, per tutti. Ama il prossimo tuo come te stesso. Iniziamo auto-amandoci, perfino i nostri genitori, i nostri amici. Essendo pazienti con loro. Non si finisce mai di imparare e la nostra vera maestra è la vita; la vita che ci bastona… chiusi in un angolo scuro a soffrire come bambini, in castigo, ma la vita non è mai cattiva, siamo noi che dobbiamo crescere, diventare adulti, ma maturi per davvero. Il mondo pre-industriale era migliore perché sapeva di Tiglio, di Salice, intrecciava il Biancospino ai tetti e ai camini fumanti. Il mondo pre-industriale, qua da noi, risale ad almeno trent'anni fa, e in esso vanno annoverati il locomotore elettrico e la filovia, nonché il negozio di maglieria della “Bruna” e il “Cioccorì”, venduto al banco della tabaccheria assieme alle sigarette sciolte. Il mondo pre-industriale è il mondo della mia infanzia, di mio padre giovane, di mia nonna viva e di mia madre bambina. Sarebbe un grave errore se voi lettori, pensaste che questa è solo nostalgia. Il mondo preindustriale era grigio in città e verde in periferia, aveva ancora un qualche odore sparso di resina, di elettricità, di legno tagliato e di carbone. I piani regolatori non erano ancora stati inventati, e la mia casetta era ancora viva, con i suoi pioli decorati nel sottotetto, con la soffitta buia piena di rumori, di “Babau”, di topi e di mistero. Io cito a giudizio i responsabili della morte della vita su questo pianeta, cito a giudizio gli ingegneri per aver *****il piano biologico dei miei occhi azzurri, ora bruciati e spenti. Cito a giudizio i tecnocrati che hanno trasformato il mondo fiorito in una macchina senza colore che ingoia tutto: erba, terra, persone, che caga bulloni e manuali di istruzioni. Accuso apertamente di alto tradimento alla tenerezza chi ha ucciso il lavoro di ogni uomo per aumentare la produzione, perdere la qualità e, nell'umiliante condizione dell'operaio, produrre la propria fortuna. Cara Anamaria, anche se potrai deridermi e sputarmi addosso, ti dico che gli ingegneri sono i veri signori della guerra perché ci strappano dai sogni le cose nostre, essenziali, e ci riempiono di ridicole e dispendiose invenzioni superflue. Amali pure, se vuoi, ma riconducili alla ragione e non farti trasportare nelle loro chimere, non essere superficiale, non volare astrattamente in un mondo dove si può ammettere tutto. La letteratura, stremata, lascia il suo posto al silenzio. Mia nonna, prima di morire, mi ha baciato tre volte. I suoi libri sapienziali: i suoi occhi. L'edificazione di intere città: le sue mani. Mia nonna non è del secolo delle metropoli, è del secolo della terra, terra immensa, distesa, discendente agli argini verso l'acqua, ascendente ai monti verso il cielo. Mia nonna è la struttura dell'evento biologico universale, come la Madonna del Masaccio ci vede piccoli oranti bambini al suo cospetto, ancora oggi che lei, donna senza studi, è distesa immobile nella bara. E l'abbandono negli occhi di mia madre, e tutti i problemi che ci affliggono ogni giorno, il lavoro… Sono in classe: tra me e i miei allievi non vi è nessuna differenza. Ma dietro a questa ingannevole apparenza, per cui sembriamo tutti parimenti esseri umani, si nasconde una grande diversità: loro sono ricchissimi e io un miserabile. Non vi è nulla di più micidiale che un maestro senza ispirazione, ricco, viziato, soffocato nel lusso. Egli, come un orco, divora i suoi discepoli, succhia il loro midollo, e poi li restituisce morti alle rispettive famiglie. Diffidate del tepore del pollaio, la vera scuola è la vita. Consapevolezza. Ho deciso di fare un film sulle lezioni private di una ragazza sola ad una bambina. Comunque vadano le cose, sono con te, con la tua solitudine, con la nebbia di questa città, con l'anima nei quartieri in cerca di niente, con il tuo corpo fragile e la tua dolcezza. Comunque vadano le cose, io sono qui sotto gli alberi piantati e abbandonati della via a camminare senza scopo e respirare gli inverni tra un caffè e un altro. Sono qui e non ho più voglia di fingere che questo squallore non sia uno squallore, di fingere che la mia indole non sia quella di cercare sotto le mutande un po' di odori reali. Adottatemi, maestrine, e pagatemi in carezze, alitatemi la vostra maternità. Le donne hanno occhi sopra e sotto la realtà, per questo sanno abbracciare; hanno occhi silenziosi e appartengono a un tempo astorico; profetesse creatrici della vita e votate a un amore astrale. In paziente raccoglimento attendono da noi qualcosa, e noi improvvisiamo come musici senza un “la” di partenza, come sempre, scordati. Andrò in montagna e trascinerò questi miei pensieri in un libro e mi proverò ancora di scrivere poesie. Al pari del collezionista, dell'entomologo, del cercatore di pepite, del cacciatore, il poeta si limita ad acciuffare un pensiero, anzi i suoi rari costituenti; il quadrifoglio, il tartufo, il nucleo insomma, dove sono confluiti gli umori germinali, le luci e le ombre, i raggi solari e quelli lunari, la vita e la morte assieme… Non si tratta di creare, ma di scoprire tra i muschi e le erbe del sottobosco il grasso porcino. Non può esserci poesia senza azione. La pigrizia è la sua morte. La pigrizia è l'anima pensante del consumismo; ciò che ci incolla al televisore, ciò che porta il mondo a noi e non noi nel mondo; è l' antipoesia, l'antitesi dell'uomo, il regno dei morti a colori. Rompere ogni volta la tela della pigrizia che il ragno “Panciolle” tesse attorno a te. Vivificante azione, che non vuol dire attivismo, frenetica concitazione. Tutt'altro, vuol dire andare incontro al mondo. Mi trovo in Toscana. Una giornata piovosa di primavera mi è apparsa oltre la tapparella di plastica. Davanti a me un pino marittimo saldamente ancorato al terreno da tiranti di ferro. La porta di casa a vetri chiusa a chiave e puntellata all'interno da una sedia obliquamente incastrata tra il pavimento e la maniglia. Questa casa va protetta, è uno scrigno che contiene due gioielli del Rinascimento: le figlie della Signora. Il delta del fiume: praticamente l'odore di salsedine che è la memoria di me, fanciullo al mare. Mille allevamenti ittici nel dedalo palmare, nel ventaglio di Scardovari, Cà Venier, Cà Maggiore, Occhiobello. Arcipelaghi dove case mute in lontananza si perdono nei deserti acquatici tra canneti, secche, muri di pochi metri, biotopi, paludi. Case che resistono ai venti e al sale. Abitazioni reali nel deserto di un sogno a portata di mano. Io, etimologicamente, vivo tra il pelo dell'acqua e il fondo. Non sollevo sabbia, nessuna esplosione subacquea, sono io il sottomarino e il sole mi fa da potente riflettore, io vivo qui e ogni tanto affioro dagli abissi orizzontali del tempo. Venne costruita la diga. Migliaia di metri cubi di cemento armato sbarrarono la valle trasformandola così in un bacino artificiale. Gli abitanti di Fabbrica dovettero abbandonare le proprie case e il paese fu sommerso dalle acque. Ora, per una misura straordinaria di manutenzione delle sponde, il lago deve essere svuotato, e dalle acque del bacino di Vagli riemergerà per un mese il fantasma del paese di Fabbrica. Io voglio riprendere questo svuotamento progressivo in vari appuntamenti e cercare tra i ruderi, che per la melma appaiono come cantieri d'argilla, le voci degli antichi officianti. Voglio riportare le voci degli abitatori in quel luogo spettrale, dove le faine, le volpi e i lupi della Garfagnana scenderanno la sera per divorare i pesci esanimi lasciati dall'****** a morire sulla dura pietra delle antiche fabbriche. Si dice che in questi anni a volte si ode la campana del paese sommerso, e c'è chi giura di aver visto delle ombre muoversi sul fondo del lago. Ma che fine hanno fatto gli abitanti di Fabbrica? Dal '53 ad oggi, dove sono andati? Vorrei trovarne qualcuno. Poche giornate di ripresa scaglionate nell'arco di un paio di mesi, per riprendere un evento irripetibile: le voci del paese sommerso. E poi, riprendere le acque che riempiono il vuoto trasformando il cantiere in lago. Mi serve qualche rullo di pellicola e un piccolo finanziamento per le spese. Chiedere agli inglesi, francesi e alla TV **** italiana. Ho la sensazione che in questo mondo vengano rispettate solo le persone che hanno denaro. Viene rispettato il ricco, perché l'accumulo indiscriminato è sostanzialmente la forma estrema dell'erotismo. Gettiamo le maschere dell'ipocrisia; il denaro fa gola, seduce ogni essere umano, tranne i santi. C'è qualcosa di orrendo nel comportamento dei vivi, ed è il fatto che dimenticano i morti. Ma non è una dimenticanza dovuta al non ricordare, ma è l'inarrestabile attività di chi nelle azioni quotidiane oltrepassa il tronco reciso volgendo le spalle al passato… Ho sempre provato sgomento ed orrore di fronte a questa consapevolezza. Il modo con cui noi occidentali viviamo è basato sul disprezzo dell'immutabilità. Siamo abituati a vivere per dimenticare o a ricordare chi non è più con disperazione, affettazione e rimpianto. Ci reputiamo pertanto proiettati oltre la meta dei nostri defunti, costretti a ricordarne la vita trascorsa, mentre si allontana fuori dal finestrino di un treno. Tutto questo accade perché siamo soltanto dei rozzi materialisti e non capiamo che i morti ci precedono. La nascita della II Repubblica è la fine di ogni seppur labile parvenza di democrazia. Asini, non volpi, hanno invaso il parlamento. L'ignoranza al potere ha già ragliato i nomi da mettere nelle liste di proscrizione. Antisemiti, anime morte, xenofobi votati dalle masse incolte e avvinazzate, hanno già allargato cosce e natiche ad ogni sorta di corruzione e ingerenza mafiosa. La Repubblica è muta, la democrazia anche. Le sinistre, felici di potersi dedicare eternamente al giardinaggio, hanno rinviato la propria candidatura a un secolo meno agitato, maledetti! Vedo dopo quindici anni i miei compagni di classe: sono tutti rovinati dal tempo, sono tutti infelici, me compreso. Poco fa, per l'ennesima volta, per educarmi, Lucia mi ha indicato la via dell'auto distruzione. Ho il cranio che lascia scoprire la calvizie, la schiena pericolosamente asimmetrica e protesa in avanti, perfino qualche rampollo fascista di buona famiglia che mi prende per il culo. Ma io resisto! Apprendo dalla natura una morale non è religiosa, una innocenza superiore che non conosce repressione. Pressione di forze che la vita, da sé, allargando le braccia in segno di remissione, allontana. La volgarità è un'innocente cattiveria, un peto intestinale, un escremento dello spirito. L'arroganza, invece, è l'uso strumentale della volgarità come arma repressiva. Gli italiani hanno mandato in parlamento dei volgari, arroganti escrementi. Ho letto il “Palazzo dei sogni” di Kadaré: libro ostico e stupendo, anzi stupefacente. E' il luogo dove la letteratura si volta indietro. E' il luogo dei piccoli passi; una strada nuova; fare una strada. E' un varco nel tempo. Talmente faticoso e geniale che sembra il dettato di una specie superiore, di un fauno, un Pan cantore, ma passato, trapassato, sputato dalla storia, intriso di storia. Mi ricorda una litografia ricorrente di una grande spugna in una piazza, opera esposta alla galleria Mastrogiacomo tanti anni fa. Il libro di Kadaré è un'autentica realtà che solo un lettore coraggioso può riconoscere inerpicandosi sulle spiegazioni di carne e legno, stringendo le parole con il pugno per “afferrarne il senso”. Il poeta e l'alchimista manipolano le stesse sostanze per anni e anni. Come stelle che muoiono i risultati si configurano in particelle serrate che chiudono il pugno. Ora che sono solo, che non ho più nessuno con cui parlare, parlo con me stesso. Erano belli i tempi in cui era possibile parlare, in cui erano accettati i confronti e ognuno dava di sé le cose più **** e interiori. Non credo fossero sproloqui. Era bello parlare, parlare, camminare, ascoltare. Oggi, invece, nella mia vita il silenzio è interrotto solo da cose inutili, stupidaggini. Non voglio farvi compassione, e taccio anch'io come tutti, tumulato dietro a un volto che a poco a poco si spegne, per sempre. Lascerò la scuola, questa baracca che sta affondando nell'orrore. Care vecchie ammuffite carrozze di treno, io appartengo a voi, così come voi appartenete a me. Forse apparteniamo entrambi al passato fatto di formica beige in simil-legno e in finti ottoni lucidati dal tempo: leghe misteriose, dorate, che decorano a finitura il lercio scompartimento, dove le gonfie poltrone di simil pelle lasciano intravedere le scuciture e ferite più profonde rabberciate dai punti. Come voi, treni del sessanta, anch'io sono ricucito, rabberciato, ferito, e i miei punti di sutura muoiono con me. In questo viaggio di andata e in questo viaggio di ritorno passa la mia vita da uno scompartimento all'altro, in cerca della bellezza. Ho vergogna di venire qui, alle ACLI, tra i pensionati, a consegnare il mio modello 740 in cui figurano certe cifre che nemmeno il più miserabile reietto potrebbe immaginare. Tra la povertà e la miseria c'è molta differenza ed io, oggi, sono in miseria. Prego Dio, come non mai, che mi arrivi una telefonata di convocazione al “LUCE”, e che la mia esistenza inizi a girare per il verso giusto. Come pesa la vita sulle spalle. I ricordi mi schiacciano. Lascio…. La paura che mi fa questa sera e la paura di quel faro laggiù, la paura di me stesso ed il peso dei ricordi, dei volti. La straziante solitudine che ho regalato, la condanna che ho inflitto alle stupende creature che ho incontrato. La televisione sì mi difende con la sua banalità, con il suo unico programma, con la sua stupidità: l'unguento benefico, la sbronza analcolica. E il passato mi insegue, ma vorrei fosse presente per poterlo abbracciare, ma i fantasmi… Tutto fugge. Come un corteo che mi sta addosso, di nascosto, i volti vivi e morti, le notti profonde, la paura. Scomparsi siamo tutti in piccole celle, scomparsi per sempre, peccatori. Come si fa a imparare a vivere? Come si fa ad essere buoni? Ho paura, vorrei che nevicasse, ma è estate, e vorrei un sole splendente, ma è notte. Vorrei un amico con cui parlare, ma sono solo. Lucia, dove sei? Sei stanca come me? Vorrei che tu fossi felice, e saperti tale rinverdirebbe la mia vita, che è arida, sabbiosa come il fondo di un lago. Ho visto il cratere e i ruderi del paese sommerso, l'argilla molle non ci reggeva, saremmo sprofondati. Vorrei sentire una musica, ma non triste, una musica allegra ma dolce. Seppellire i morti è una cosa atroce, atroce. Sono decadente come tutta la gente che ha studiato, vuota come le parole che hanno perso il senso, sono esanime e dissanguato, coperto di pinguedine e gonfiato dalla birra, sono il guscio vuoto di un laureato. Vedrò sprofondare anche i miei genitori, quante cose ancora vedrò? Sono nell'abitacolo della mia auto ferma, sto leggendo la mia sceneggiatura, quando sento un rumore nella carrozzeria della mia macchina: è un rumore palmare, ovattato. Fermo nel parcheggio, vedo con la coda dell'occhio un'anziana signora che cammina adagio sorreggendosi alla mia auto, e dallo specchietto retrovisore la vedo ancora appoggiata mentre aspetta di poter attraversare la strada. Un nero che chiede di vendere delle cose suonando al campanello di casa, la polizia che perquisisce dei neri vicino alla stazione, i lavavetri….La gente dentro l'abitacolo delle auto ai semafori, i testimoni di Geova, in due davanti alla porta. Le fotografie fermano le persone, ne gelano gli anni. E i ricordi, incorporei, perdono ogni peso e ogni zavorra e possono volare là dove la mente consente loro un accesso, e come le fotografie, ma più lievi, si rivelano. C'è una considerevole diversità tra i cani che cagano sulle strade asfaltate e hanno un guinzaglio retrattile, e i cani che teneva mio nonno. In catena o liberi, chiusi in stalla la notte, il giorno andavano a mendicare avanzi nei due ristoranti della “Costa”. I cani di mio nonno erano cani di campagna, e come gli uomini di campagna, amavano stare all'ombra dopo il pranzo, si dirigevano a dormire presto la sera, ed erano feroci con i ladri. C'è uno stato d'assedio, taciuto, il fascismo sta salendo come la febbre in un organismo che crede ancora di essere sano. Nel mio paese è in atto un programma scientifico di sterminio delle menti. Quando tutte le televisioni del mondo saranno accese, tutti i cervelli cesseranno di colpo di esistere. Non vi sarà più alcun silenzio da colmare e tutto giacerà sotto la coltre di un rumore assordante. Solo la sordità consentirà paradossalmente l'ascolto, i sordi saranno gli unici a sentire. Anten Man sta distruggendo questo paese, le sue televisioni sono infarcite dei suoi lacchè, ma in realtà questo paese è già morto da molto tempo. In genere si compiange sempre chi è stato abbandonato, e si pensa che chi abbandona sia un carnefice, un criminale. Ma anche chi abbandona patisce... Ti amavo tanto, eri bella, libera, per me eri come un miraggio. La prima volta che ti ho accarezzato… quanto tempo è passato, e anche l'ultima volta è lontana l'epoca. L'idea di non averti dato un figlio…. Quante signore vedo per strada, nei giardini e in ogni posto, che hanno un bambino. E i matrimoni degli altri, e le case degli altri, arredate. E tu sei sempre nella mia memoria, mentre gli altri di te non parlano mai più. Non mi chiedono più. Ho cercato di stordirmi in tutti i modi; lavorando, mangiando. Camminavamo per i quartieri e guardavamo le case pensando se erano belle o brutte, e pensando in quale ci sarebbe piaciuto abitare. E d'estate andavamo a camminare sulle montagne, e quel silenzio incredibile delle nuvole chissà cosa nascondeva, ma qualcosa di sicuro nascondeva. E tu mi leggevi la tua tesi di laurea, e io mi distraevo o mi addormentavo, e tu ti arrabbiavi. E ricordo le mie mani sul tuo corpo. Sembra una fiaba il giorno che, in mezzo alla neve, ho attraversato la città e ho suonato al tuo campanello. E poi, tutte le mie *****: guardavo le altre donne con interesse. Alle una e mezzo precise il telefono suonava immancabilmente, ora non suona più, alle sei precise io suonavo a casa tua, ora non suono più. Eravamo in due a camminare per le strade e siamo entrati in tutti i bar della città, ora non più. Avevamo i nostri appuntamenti precisi, in posti precisi; per anni io sapevo esattamente quale numero di autobus precedeva il tuo autobus, e ogni volta che scendevi dall'autobus mi sorridevi. La tua stanza era bianca, verginale, mi ricordo le tue spalle coperte da un piccolo scialle. Per telefono ci raccontavamo cosa avevamo mangiato a mezzogiorno. Ora, tutto questo è scomparso, e il mondo è diventato più grande e più vuoto. Continuavamo a dirci che ci saremmo amati tutta la vita, e che saremmo morti l'uno per l'altra. Ma forse queste cose, che oggi sembrano così assurde, forse sono le cose più vere. E' facile dirlo, ma io oggi per te potrei morire. Ricordo i tuoi capelli quando erano corti, lunghi, medi, cortissimi. Ti ricordo con gli occhiali e senza. Solo oggi mi accorgo della bellezza della tua miopia. L'immagine impietosa di una mia nuova amica, che mentre parla con me occhieggia l'arte. Dopo averti lasciata andavo la sera sotto le tue finestre a spiare se tutto andava bene, e quando scorgevo la tua ombra o il tuo scialle mi accadeva di provare un profondo dolore. Telefonavo alle ore più impensate per sapere se stavi bene. Quando tornavo tardi da qualche lavoro, tu avevi sempre un piatto pronto per me a qualsiasi ora. Eri molto generosa. Se dovessi quantificare in danaro quanto ti sono costato…. Ma del resto era previsto: una zingara ti aveva letto la mano ai giardini, e ti aveva detto: “Stai attenta, non fidarti”. Ma tu mi riferisti la cosa con un sorriso. Dimagrivi, sentiva che il mio amore si stava spegnendo. Tu leggevi ogni mia cosa, mi correggevi. La sera andavamo a passeggiare senza meta, per la città. E discutevamo delle interminabili ore dentro l'abitacolo dell'auto anche quando fuori pioveva, e le gocce di pioggia bagnavano il parabrezza, e per effetto delle luci stradali sembrava che ci bagnassero anche i nostri vestiti. Così abbiamo trascorso insieme molti anni, senza mai pensare seriamente al futuro. Il mio attaccamento morboso, la mia gelosia, le mie ossessive abitudini le trasferii lentamente a te. Passavo interminabili ore ad aspettarti mentre tu eri in bagno, e passavo interminabili ore alle fermate degli autobus, prima per aspettare che tu prendessi il tuo autobus, e poi per aspettare che passasse il mio. Aspettavo, aspettavo sempre. Criticavo i regali che tu mi facevi ai miei compleanni al punto da farti piangere, e la sera, dopo averti salutata, mi attardavo in macchina per le vie della città. Eppure, quanta bellezza, quanta irresponsabile dolcezza vedo laggiù nell'isola della città. Ho perso due ore di tempo a guardare delle inutili penose cassette. Mi domando a cosa è servito il laborioso movimento della natura nel creare questa costellazione di cellule che sono me stesso, se poi tutto si esaurisce in un pomeriggio buttato a masturbarsi davanti a un televisore. Provo un senso di penosa vergogna per me stesso Vi sono alcuni miei ex allievi che quando mi incontrano per strada si sbracciano in mille saluti, e altri che fanno finta di non vedermi. I primi sono capaci di trascinarmi a bere nelle osterie, gli altri girano l'angolo. Questa diversità crea le due forze: la centripeta e la centrifuga In ognuno di noi queste due forze convivono, ma tendenzialmente una delle due prevale. La TV commerciale è un genocidio di massa, è quella famosa bomba che uccide l'uomo lasciando intatte le case. La città in agosto è un deserto di cemento; è un fascino retroattivo, il mio, senza caldo. E' un filo sottile e rovente delle stagioni. Quando tornavo dalla montagna, in questo deserto credevo di impazzire, e un dolore profondo, atono, fisico si stemperava a poco a poco. Facevo fatica a partire, ma una volta schiodatomi dalla città e salito sulle montagne, faticavo a tornare e soltanto il tempo a poco a poco riassorbiva la depressione e la cicatrizzava per un altro anno. Adesso non so più come stiano le cose. A Roma è diverso, siamo al centro del diametro: una saturazione di tutte le forze, i protoni e i neutroni stretti in un unico drammatico abbraccio. La moda è diversa, è più “anatomica”, elefantesca, “tanta”. Un tuttotondo tra Bernini e Picasso. Il corpo e le vesti si abbracciano, si compenetrano, affondano, riemergono. Il passo è “felliniano”, le natiche discutono tra loro, i seni fasciati per non trasbordare in ********* bellissime, colorate e dolci tumefazioni. Roma, la **** di Scipione. La smunta padana, invece, è ossuta, secca. Qui l'estate è primavera. Ancora un po' e si vedono le Alpi. Qui son tutti alti, musi duri da limone. Appena appena le caviglie e il dorso del piede. Il portamento è più austero e bacchettone, e pensare che solo qualche mese fa ritenevo questa piazza il massimo delle perversioni. Chissà cosa mi accadrà quando sbracherò a San Paolo del Brasile. (Però, quei calcagni e le dita del piede mi fanno impazzire). Nella vita c'è sempre una possibilità di fuga, e questa è la morte. Ma sarebbe meglio lasciare quest'ultima alla biologia, al destino. Credo vi siano altre possibilità, e sono queste che noi dobbiamo o possiamo percorrere. Allora direi di sostituire alla parola fuga la parola “soluzione avanzata”, anche se l'occhio del Grande Fratello ci incute paura e vergogna per noi stessi. Ma la natura ci può aiutare, anche se a volte ci appare chiusa in una ***** imperturbabile identità. Ma la natura è in noi, ineluttabile assistente del tempo. L'uomo è un albero sradicato, dove sono le sue radici? Per distillare dei versi poetici ci vogliono lunghi anni o l'attimo folgorante. Per fare dei discorsi basta aver voglia di parlare. Per scrivere dei racconti ci vuole una struttura psicofisica notevole, e per editare dei romanzi bisogna essere dei pazzi. La poesia è trasformazione di energia psichica in materia linguistica. Per isolare ogni “neutrino” ci vuole il dispiegamento di un'enorme quantità di energia fisica. Vi sono delle volte in cui penso al passato e non vedo niente. Penso a cosa ho fatto durante l'inverno e non ricordo niente. Cara mamma, io ti capisco, l'ho fatta grossa, non puoi fingere. Il cinema è un'arte plastica, la poesia un'arte scultorea. La prima plana, la seconda penetra. Il cinema plasma, la poesia scava. Ma la poesia è rara, come quella di Mandel'stam, la cui assoluta grandezza non è stata e forse non sarà mai sufficientemente riconosciuta. Scavare vuol dire evocare con chiarezza ed incisività le immagini dalle ombre. Vivere è come scavare giorno dopo giorno la galleria del tempo: l'imbocco lo conosciamo, lo sbocco lo ipotizziamo. E' sempre bene riferirsi alle fonti, ma da dove vengono le parole? Sono sicuro che tra mille anni l'uomo, o ciò che lo avrà sostituito, comunicherà con i suoi simili e con le altre forme di vita, animali e vegetali, attraverso dei minimi segni delle dita, delle segnalazioni con le arcate sopracciliari, con le **** della bocca. Verrà adottato un linguaggio vicino a quello dei sordomuti, perché i suoni diventeranno azioni. Verrà inoltre riscoperto un senso che attualmente è stato sublimato dalle immagini: il tatto. La comunicazione tattile (ora riservata agli atti d'amore) diventerà importante. Nel tremila le carezze saranno importanti. E gli odori verranno quasi a sostituire i sapori. Tutte le parole, insomma, diventeranno danza e perderanno definitivamente la loro radice ritrovandola. Prima c'era l'ipocrisia, ora c'è solo cinismo. Prima vi era un'esuberanza di moralismo, oggi è di moda l'asciutto realismo, la fantasmagoria del capitalismo. Ieri il falso altruismo, oggi il greve individualismo. Ma ciò che conta davvero è il passato e il futuro, e il mio commento pertanto è questo: “Una volta sì che era cosi' come sarà domani!” Non sai quale dolore mi ha dato e mi dà la tua morte. Tutta la mia giovinezza è morta con te. Caro amico, i ricordi sono per me abbandono violento, come un esule che ha perso la propria terra. Con te ho sepolto la mia terra e la mancanza mi brucia. Anche il presente mi sembra passato e le persone care dei fantasmi, delle voci in agonia, delle materializzazioni del cervello. Tu non sai quanto io soffra veramente, mio caro amico, al punto che vorrei raggiungerti. Mi manchi, caro amico, ma se tu puoi farti sentire, se tu puoi metterti in contatto con me con un gesto, con un segno…La nostalgia, Lucio, la nostalgia mi brucia. Piccola, è nella tua natura vivere felice tra gli alti girasoli che come te sorridono. E prendere la vita tutta, che dal cielo si irradia a braccia aperte. Che destino lugubre in questa pianura che spegne gli entusiasmi, ipocrita e viscida, meschina, umida. Con un palloncino colorato volerai di nuovo in cielo e là da dove ti ha portato nel tuo grande giardino fiorito ritornerai piccina. Vi sono cose che conserviamo nel cuore come un tesoro prezioso. A volte le intuiamo, ma solo noi ne conosciamo l'essenza. La malinconia è una foto che evoca in un solo istante quel nucleo di tenerezza e abbandono che ci porteremo addosso per tutta la vita; quel mare nel quale lasciamo che si perda il nostro sguardo come un cane, come un cane d'appartamento al quale la sera sciogliamo collare e museruola nell'aiola, tra piani di case cementate e grigie. Quel cane che piscia in libertà è la mia anima davanti al mare. E per ogni onda che mi bagna i piedi, per ogni onda la memoria ricorda una carezza ricevuta in questo deserto di stelle, di stelle. In questo straziante suono di mare e nella rabbia che mi incalza. E in quel rosso vivo che ferisce il cielo. Ti amo, vita mia, e mi abbandono a una passeggiata da solo, visto dagli occhi grandi ma silenziosi, non di donna, non di uomo, né di bambino. Quegli occhi che sanno di labbra, quegli occhi ciechi di mia nonna e dell'ultimo suo forte abbraccio all'ospedale. La malinconia se ne andrà alla prima canzonetta di radio incontrata sulla spiaggia. Vorrei baciarvi tutti a lungo sulla bocca. Che bello se tutti potessero essere felici. L'arte immobilizza il divenire ma tutto è un divenire che si forma e si trasforma. Se entro nel tempo devo stare al suo passo, altrimenti:”Osservo”. Ma è un'altra cosa. La speranza è come una persona cara che attendi giorno dopo giorno. Lei è nel mondo, non ha dimora e tu non hai né il suo indirizzo né il suo numero di telefono. La speranza sola può bussare o meno alla tua porta. Il sonno è l'anestesia dell'attesa, il calmante affinché il desiderio della speranza non si tramuti in disperazione. E' un problema di inclusione o di esclusione. Ma nulla in questo universo viene escluso, tutto è accolto. Pertanto il problema, probabilmente, è la nostra capacità di intuire il nostro punto di appartenenza, il nostro punto di unione, la nostra dimora cosmica, altrimenti rischiamo di voler appartenere a mondi che nemmeno sanno della nostra esistenza, al pari di una testuggine che cerca una casa, inconsapevole di essere lei stessa la propria casa. Solo l'azione, il movimento possono ****** il nostro punto d'appartenenza, e la speranza, allora, diventa un sostegno psicologico al nostro lavoro concreto. Persino nella preghiera questo accade. Forse per questo un tempo si usava porre al cospetto degli dei delle vittime sacrificali: da qui il termine di “sacrificio”, cioè di azione faticosa motivata dalla speranza e destinata a porsi come una forma fatturale della preghiera. Oggi è magari più costruttivo dare una mano in casa, destinare del tempo alla cura della nostra persona ed evitare il più possibile di farsi servire dagli altri. La poesia è la capacità di resistenza che pone la costruzione di una frase alla forza contrapposta del tempo. E' un braccio di ferro tra la materia poetica e l'energia entropica del tempo. L'ossimoro poetico non è dato dal contrasto dei contrari dentro una lingua, ma dal tempo che cerca di forzare la materia. In fondo, che cos'è l'isola se non lo spazio ristretto in cui mi tocca vivere? L'oblio verso la storia non vuol dire dimenticare gli orrori, ma nemmeno far finta di ricordarsene. Una massa di ebeti inerti che ama fobicamente il calcio e si fa “pere” di televisione ha portato sulle vette del potere l'ignoranza in camicia nera. L'orrido fantoccio che la sinistra (ottusa e logorata nel **** schizoide dai propri sensi di colpa) vorrebbe scaramanticamente bruciare. Non so quale sia la più grottesca delle immagini, se quella del pupazzo impagliato o quella dei piromani che scambiano il pupazzo per cosa viva. In definitiva, questo Paese è statisticamente composto da una massa di teledipendenti che, come il sonnambulo “Cesare”, seguono ogni comando del “Pazzo giostraio omicida”. Mia madre dice che “noi giovani” siamo rammolliti e abbiamo perduto la forza, la volontà, l'azione delle piazze. E' vero; viviamo per modo di dire, stentando un'identità, un programma, uno sviluppo… Vi sono molte immaginazioni che si concretizzano e divengono realtà, ma quella più micidiale e insoluta è la guerra tra i popoli e nei popoli. Dove nasce la guerra, se non nell'incapacità di supportarci l'uno all'altro, nella frustrazione, nell'esaltazione, nell'ingordigia, in tutti questi vizi che sedimentiamo nel nostro vivere quotidiano? Abbandonate le cose del mondo e non abbiate timore: il mondo vi soccorrerà. Questa vecchia “piantina di Roma”, rispolverata nel cassetto, è piena di te. E ora sono solo con lei, che strano, con questa vecchia carta in mano, e tu dove sei? Ho letto da qualche parte che vi sono spiriti che con la morte si ricongiungono. Vivere in questa macchina umana è un miracolo. Mi stupisco di essere vivo in ogni momento. Non vorrei essere presuntuoso, ma credo che questo modo di scrivere sia come un “frattale esistenzialista”; questa è una letteratura frattale, un esperimento tipografico scritto dentro le fasce dei King. Arriva un bel vento…l'aria è sporca, estate. Ho appena visto il cavallo azzoppato della RAI. Il palazzone di vetro, il luogo che ha invaso e bloccato la mente degli italiani per decenni; il monolito. E questi giardini, dove siedo e riposo, sono anonimi…Che nome avrà questo vento? Vorrei telefonare a casa, ripristinare il contatto, ma sono le cinque e venticinque del pomeriggio, un'ora troppo insensata per telefonare. Non vedo monumenti storici né chiese nei paraggi. Di porcellane attaccate, ricuciture nascoste sotto i vestiti, come la zuccheriera o uno appena uscito dall'ospedale. Ci piacciono le cose nuove, ma noi siamo vecchi. E se questa società fosse in grado di sconfiggere il dolore? Se la ruota del caos, l'eterna centrifuga metropolitana, la televisione, il cinema, i giornali fossero in grado di confondere il cervello atavicamente radicato nei dolori della civiltà agreste pagata e ripiegata e nella lacerazione della prima civiltà industriale? Ma io non credo realmente a questa possibilità…non so spiegare il motivo profondo di questo mio ateismo alla fede edonistica, ma mi sembra un piacere troppo percettivo e poco tattile. Le carezze sono ancora troppo poche in questo mondo. Ognuno può fare mille cose, visitare centinaia di posti, aizzare mille battaglie, ma in realtà è sempre in un posto solo. E io sono qui, sempre qui, nella penombra del tinello, davanti alla vecchia figura di mio padre che ascolta la radio. L'Europa è un luogo mistico e i suoi silenzi sono conservati sulle cime delle Alpi, nelle assolate giornate di mare e nel buio odoroso delle cattedrali. Credo che viaggiare sia un'esperienza meravigliosa; è diventare piccoli piccoli ed entrare nelle grandi carte geografiche che stendiamo sul tavolo, ma solo noi sappiamo quale struggente nostalgia e quanta tenerezza ci procurano gli oggetti insignificanti per sempre immobili nel nostro piccolo recinto, chiusi negli armadi, riposti nelle buste o appesi ai muri. A loro noi, come in un'eterna parabola, torniamo. Avvolti come in un fascio simultaneo di input che ci vengono dal passato, progettiamo un futuro dentro al sepolcro antico dei nostri cari oggetti inutili al mondo. Il paese sommerso è come la mia vita. Vi era un piccolo fiorente paese al centro di una vallata, ma il suo amore mi annoiava, la sua devozione, le sue fragili braccia, il suo essere reclinato sul piccolo fiume. Allora ho voluto seppellirlo e ho costruito una diga, un grande muro e l'ho sepolto dentro di me. Pensavo che questa diga mi avrebbe elevato, portandomi a trofeo l'energia dei vincenti. Mi ero finalmente liberato del mio piccolo radicato amore. Ma dopo un po' ho iniziato a sentire nostalgia di lui, ho perso il sonno, passavo le ore a cercare sull'acqua qualche segno della sua presenza. Lo udivo cantare, canzoni tristi d'abbandono e di morte. Allora ho fatto defluire tutta l'acqua del bacino lungo il fiume che porta a valle, e sotto al fango aspettavo riaffiorasse a poco a poco il mio piccolo amato amore, ma quando l'acqua se ne andò del tutto vidi spuntare sul fondo delle orrende e lugubri rovine ******. Resistere, resistere come la pietra solcata, scavata dall'acqua della vita ferita. Sono una proiezione del passato e questo mondo non mi desidera, non per cattiveria, ma come un'azienda che ha il personale al completo. La gente si domanda per quale motivo i ragazzi gettano le pietre sulle auto in corsa dal cavalcavia dell'autostrada. Ma che c'è da stupirsi? Non è forse una totale, radicale emulazione dei comportamenti mummificati dentro al tabernacolo multimediale che è la televisione? Ma se il popolino ha addirittura portato a braccia *** *** sul trono più alto del potere. Colui che ha introdotto in Italia la TV spazzatura, la cloaca americana della morte simulata. Ma che c'è da stupirsi se i ragazzi fanno a tiro a segno sui nostri cervelli? Chi mai ha infuso in loro la bellezza di un valore che non sia il denaro e la violenza? Poveri ragazzi! In loro vi è il desiderio inconscio di essere uomini–lupo in cerca di se stessi, e di punire la grettezza opaca delle nostre miserabili vite. In loro scorre sanguinosa la morte e il desiderio di “sparire” per esserci. Solo il pericolo e la morte sentono come vivi, e l'unico modo per apparire anch'essi dentro al sacro tabernacolo è quello di uccidere e di uccidersi. “Nulla si crea, tutto si distrugge”. La vita è un grande laboratorio sperimentale, e il corpo è la zavorra che tiene ancorata la mente alla terra. Ma non tutte le vite fioriscono e danno frutti. Io sto ancora sperimentando dei tipi di innesto. Mi hai detto fuori dai denti che sono un fallito, che non valgo niente, che non sono un autore e tantomeno un poeta: hai detto la verità. E poi hai sottolineato che mi credevo di essere chissà chi, e che non mi resta che spararmi. Mi ha fatto bene questa tua ramanzina, infatti mi ha fatto capire che io non sono in nessuno dei luoghi che tu conosci. Non ho soddisfazioni, meriti, vantaggi. Non ho soldi, non ho una posizione e, come dici tu, non ho nemmeno talenti. Insomma, sono un fallimento completo. Inoltre, sono ormai circondato, il lavoro che poteva salvarmi non è arrivato, i sogni di gloria scomparsi. Sono la vergognosa manifestazione di un fallimento, e persino tu mi hai ripudiato. E non ti sei accorta che ho già messo le ali. Dedalo costruì un labirinto per imprigionare chi lo imprigionò. Nell'infanzia ci adattavamo come gatti al mondo come a qualcosa di ineluttabile. Le case, la natura: la stessa cosa. Avremmo dovuto, invece, distruggere quel mondo e ricostruirlo con forme dettate dal cuore. Non avrei mai immaginato che anche Flaubert avesse avuto la mia medesima reazione davanti ad “Amore e Psiche” di Villa Carlotta. Il lago, la villa, il giardino pieno di fiori e quel marmo bianco malato come i miei ideali di bellezza. Le sintesi non sono mai fatte della stessa sostanza dei fenomeni: la loro composizione neurologica ci fa accarezzare il marmo come fosse pelle umana. Tiziano scalda del caffè con la fiamma ossidrica, vicino a lui squallidi palazzoni non ancora terminati, riparato da una siepe. Con il filo dell'attaccapanni ha fabbricato un piedistallo in ferro, sopra di questo la caffettiera e sotto la fiamma azzurra. Non avevo mai visto scaldare del caffè con la fiamma ossidrica. Tiziano, come sempre, riesce a stupirmi e a riempire il mio animo di un'inquietante consapevolezza, ma non so dire in che cosa. Oggi ho incontrato il quieto e desolato paesaggio di Casarsa della Delizia. E la desolazione sta ancora correndo dentro di me; si spiana orizzonti inconsueti, allarga le braccia, stira le gambe dentro di me. Un uomo solo con la sua macchina bianca, un motore e della benzina attraversò i deserti di un Friuli infelice come lui. Quest'uomo sono io, nel tentativo grossolano di imbastire una giornata che abbia un senso. Eppure, l'irradiazione del deserto mi resterà a vestito del cervello. Sono entrato nel piccolo cimitero di Casarsa e mi sono spinto fino alla chiesetta in fondo, all'altro capo. Guardavo le tombe cercando un volto e un nome a me caro. Ho trovato una signora, e l'ultimo grado della birra che avevo bevuto a Pordenone mi ha dato il coraggio di chiederle: “Scusi, signora, è qui che è sepolto Pasolini?”. “Sì, ma non sono queste le tombe”, disse l'anziana signora a capo chino, “Deve andare laggiù, dove c'è quella grande pianta: lui è lì”. Io l'ho ringraziata, ma mi sono fermato a metà campo perché anche lì c'è una grande pianta. “Non lì, le avevo detto più in fondo…dove ci sono quei fiori gialli…ha trovato?” Non c'è la foto, ma solo il nome e la data tra parentesi sopra una lastra squadrata di marmo, appoggiata sulla terra: una disarmante e aristocratica semplicità. Vicino a lui c'è la madre, morta nell'81. Non ci sono croci, ma due alberi cresciuti sopra la terra. Piante ancora giovani e tenaci che producono delle bacche rosse. Sono molto belle. La tomba di Pasolini sorge proprio a contatto con il muro di cinta del cimitero, e quei due arbusti ormai si vedono spuntare anche da fuori le mura. Che dolcezza quel posto. Non c'è proprio nessuno, ora. Sono in piedi davanti alla sua tomba e penso che tra me e lui c'è poco più di un'ora di pianura. (1922-1975): che bella tomba, quella di Pasolini. All'inizio mi era parsa distaccata dal piccolo popolo circostante, per la sua asettica semplicità distintiva. Poi invece ho capito che non fu tanto ***** degli amici romani, ma di quelli friulani e di un loro gusto che non poteva contravvenire alla vita di un poeta spesa ad amare, con tanto amore l'essere umano. La tomba di Pasolini non poteva essere che così. E mi dispiace soltanto di non saper dire il nome di quelle due giovani e rigogliose piante, il nome botanico intendo dire. E la presenza di quei fiori gialli mi dà la conferma che è costantemente guardato da chi in paese gli vuol bene. Pasolini è stato un evento epifanico; uscito dal ventre di sua madre e ritornato a lei. Ha fatto un giro per il mondo, e poi è ritornato a casa. Lo si è visto abbattere molte foreste durante la sua vita, per poi tornare a casa senza una gerla di legna e senza uno stecchino. Ha lasciato tutto come ha trovato, come un bambino disordinato, non ha messo in ordine e non ha imposto un ordine. Spargendo tracce di sé dalle Alpi alla pianura, lo incontreremo spesso durante le nostre escursioni; egli ci ha preceduto perché in lui viveva una scintilla messianica. All'inizio ho usato la parola "epifania", una parola che mi è sempre rimasta impressa perché da un lato ricorda la meraviglia magica dell'attesa dei doni, e dall'altro alcuni passi da adulto e neofita nel mondo del sapere. Epifania vuol dire manifestazione della divinità. Una ragazza rannicchiata sulla strada. Anten Man vuole trasformare radicalmente questa società a propria immagine e somiglianza. Egli ha le carte in regola per riuscirvi. Trasformerà così questa nostra nazione in un inferno dantesco, dove ferocia e perversione sono i fondamenti su cui si regge la tele dittatura. Dopo aver trasfigurato questo paese in un grande televisore, e aver ridotto gli uomini alla grandezza di quelli che si muovono sullo schermo, esploderà in una risata talmente devastante che la sua grande maschera di plastica andrà in frantumi con l'intera nazione. Sarà allora, e solo allora, che i sopravvissuti pronunceranno ancora parole come “****” e “spiritualità”. Cercheranno del cibo ma si affrancheranno sempre più dalla proprietà, e avranno orrore dei ricordi e della voce del grande meccano. Abbracci qualcosa di vivo su cui appoggi l'orecchio bambino e senti caldo, respiro e la voce. E il distacco feroce della fanciullezza. Ti aggrappi sulle sponde del letto chiedendo asilo, voltando le spalle a tuo padre e allo schifo, rivendicando tua la carne di tua madre. E il distacco feroce dell'infanzia atroce senza più nessuno da abbracciare, né compagni né amici, inizia la solitudine e l'amore per una donna qualsiasi. Al Cairo una folla ha invaso i cimiteri. I vivi chiedono alloggio ai morti. Nelle tombe si ricavano monolocali con bagno, si tirano cavi di luce, si scavano i pozzi. I morti ospitanti stan zitti, e a chi non sa appaiono come risorti. E' la città questa volta che ritorna. Dopo aver allontanato per secoli seculorum gli avi, come un cane raspante si dà alle fosse con garage e televisione. La necessità li ha spinti, e tra un corteo funebre e l'altro questa umana società s'incunea abusiva sotto coperta e ****** s'accomoda. Meglio con i morti al coperto che sbattuti nelle fogne della metropoli. Perché campare di citazioni e farsi belli? Perché non vivere di pura carne, incarnare parole d'odore e desiderio. Frittura? Meglio un'indigesta colazione che la padella vuota. Meglio un transessuale con le tette al vento che la pura forma statica della città, e la solitudine feroce di tante strade fredde e vuote. Ho appena visto un tizio seduto nella propria auto, con la portiera aperta, posteggiato in una piazzola di sosta, tenere sulle ginocchia una macchina da scrivere e battere a due mani sulla tastiera. Se ci fosse un grande silenzio, ed azioni che lo modellano, sarebbe tutto più facile. Ma la confusione inconcludente, l'idiozia prepotente, il male incombente buttano ogni energia nel cesso, e ogni sforzo di libertà è perso. Se la parola fosse una casa…ma è solo un tranello. La mia parola marcia è un tranello! Troppe cose. Poca cooperazione: troppo eccessivo egoismo. Che spreco. E troppo lavoro per ritornare a una chiarezza. E' dura constatare che lo spirito s'è perso in un labirinto. Senza vita è il mio giorno. E le scorte della sopravvivenza si assottigliano. Il male non sta mai nella cosa in sé, ma nel tipo di relazione che intercorre tra noi e il resto del mondo. Il custode del tempio di Possagno è un uomo straordinario; di profonda generosità, di cuore aperto, di sacra disponibilità, di umile umiltà. E' il custode del tempio voluto dagli dei come un Ades a cielo aperto. (A lui una delle mie poesie). Tagliare i ponti significa farsi promotori in prima persona delle proprie azioni e smetterla di imputare a terzi i propri fallimenti, la mancanza di reali motivazioni e convinzioni. Il lievito era il veicolo dello scambio e non vi era televisione, ma mani ben pulite nell'ara di ceramica chiusa dal coperchio di legno vicino al fuoco o un cucchiaio di legno per rimestare. Il lievito era il pretesto dello scambio da una famiglia all'altra, e i bimbi dovevano stare alla larga dal sacro recinto dell'ara, e tutta la stanza sapeva di lievito. E quando il pane cuoceva non si poteva aprire la porta. Non c'era televisione e guai a toccarlo col ferro!. Ti amo e se non ci fossi tu la mia vita sarebbe senza colore. Anche il freddo ha una memoria. Sette ottobre: questo freddo mi ricorda Pieve di *****. E' come neve respirata, è come respirare i muri gelidi delle case di montagna. Tramontana mi accarezza come fossi anch'io una pietra. Il freddo ha una memoria e mi ritorna alla mente il freddo degli anni precedenti, il freddo subìto quando tu eri ancora vivo, quando tremavi. Il mio problema di oggi: come sopravvivere. Non va mai bene niente, e vengo quotidianamente umiliato perché non ho una sistemazione. L'onestà, la dedizione non pagano e non appagano. Devo togliermi di torno, togliermi di torno. Ho trovato molti furfanti lungo la via, molti furfanti, e devo introdurmi di nascosto per scrivere, per raccogliermi. Devo togliermi di torno, solo così potrò non piegarmi, non morire. Ogni mattina mi si dà un calcio sullo stomaco come a un cane bacato che non fa il suo dovere e mangia “a sbafo”. Indigenza, e adesso anche senza casa. Ma prima di ritirarmi sul romitorio vorrei fare alcuni tentativi; gli ultimi. CAPPELLETTI GIUSEPPE, STORIA DI PADOVA 177 c.36.1-2. Testo fuori campo; il funerale di Antenore. Perciò, frammezzo alla densa nebbia di quei secoli remotissimi, non altro ci è fatto di scorgere se non il progressivo prosperamento di Padova. Il vescovo Gerardo degli Offredduzzi. Ad Ezzelino I il Balbo successe, circa il 1180, il figliolo Ezzelino II, detto il Monaco, da cui nacquero i due tiranni Ezzelino III, soprannominato il Feroce, che dominò in Padova, ed Alberico, al quale toccò il governo di Treviso. Università/Teatro Veneto. E ben poco ci voleva per quel tiranno ad immaginare pretesti. Engidizio Guidotto, nipote di Ezzelino, tolse di vita dei nobili cittadini perché reputati autori o complici di certi versi…contro Ezzelino. Cancellare i nomi dall'agenda. E pensare a un film in cui viene assunta da un vecchio pazzo, per trascrivere su un computer le sue memorie, una fanciulla pagata a ore. La fanciulla all'inizio resta fredda e distaccata, ma alla fine comincia a prestare attenzione alle parole del vecchio pazzo fino a farle nascostamente sue e a rimasticarle durante la notte. Come gli altri mi vedono? Solo attraverso l'immaginazione posso estraniarmi da me stesso per osservarmi in azione. Come agisco agli occhi degli altri, come appaio loro? Pensate a quanti occhi ci osservano; persino i nostri stessi occhi, ad un'altezza sufficiente per poterci vedere in figura intera, la proiezione dei nostri stessi occhi all'infuori di noi. Lo specchio, ecco l'invenzione suprema dell'uomo, non il fuoco, ma lo specchio. Una società che non è più in grado di specchiarsi nelle candide acque dei propri fiumi e dei propri laghi non è null'altro che un budello oscuro, un tentacolo senza cielo. E' la rottura dello specchio. Viviamo in un periodo in cui la poesia, la cultura e la bellezza dei sistemi aperti di comunicazione tra uomini e luoghi è negata. Per l'uomo contemporaneo, espresso per lo meno nella sua maggioranza, conta soltanto la materia. La cultura è quindi affrancata da questa concezione. La società gravemente compromessa irride alle massime dei filosofi. Gli artisti non hanno e non possono più avere un pubblico. Ognuno dovrebbe pertanto adattarsi, modellarsi a una “banda di sopravvivenza”, ad una propria setta, conformandosi a un qualche gruppo di appartenenza. L'idea dell'uomo libero è tramontata, esso risulterebbe come un suicida lasciato morire d'inedia in un angolo, abbandonato da tutti. Il problema è di difficile soluzione, perché la massa irridente è stregata dal “satanismo” del benessere. Massa allucinata e drogata dall'ideologia monetaria, dalla religione del puro esclusivo unico materialismo. Solo i ricchi entreranno nel regno dei cieli. Ai poeti, quindi, non restano che due alternative: o il manicomio/nosocomio o la RIVOLUZIONE ANTROPOCULTURALE organizzata su sistemi multimediali e interattivi valorizzati ed esaltati dalla mancanza di pensiero intellettivo e astratto dell'avversario, dalla fragilità, insomma, della massa. Bisogna agire sui recettori emotivi, forse, strappare i figli alle famiglie e trasformarli in antagonisti strutturali, riprogrammando quindi le loro esigenze, spingendo sulla sfera affettiva, multirazziale, sulla veicolazione di più lingue, degli *****, delle religioni più disparate, depoliticizzando il manicheismo con una abitudine frequente alla mescolanza e al viaggio. Incentivare le arti espressive e l'agricoltura biologica, gli studi teosofici. Non trascurare l'analisi delle teorie economiche ed elevare la cultura attraverso la diffusione polideologica di riviste internazionali. Non bastano le librerie di settore legate ai circuiti giovanili. Lo scopo non è quello di isolare il razzista, lo xenofobo, il cattolico, il fascista respingendoli verso la massa ma, al contrario, di trasformarli, riprogrammandoli, in cittadini capaci di intendere e di volere, e quindi capaci di personalizzare i dati in modo unico e creativo. Possiamo perdere tutto, ma non i ricordi. Io credo che essi ci sopravvivano anche quando perdiamo la memoria e la vita; anche quando colui che ricorda non ricorda più nulla e vede a malapena un presente sfuocato. Noi siamo fatti di ricordi: quando la nostra pellicola si polverizza e la nostra mente si smagnetizza, è come la foglia che, staccatasi dal ramo, vola leggera e libera verso la morte e sparisce dai viali e dalle strade. Perché i ricordi sono fatti di luce e di tenebre. Posso addirittura immaginare il futuro come un ricordo che mi precede, che mi sta aspettando. Non so spiegarmi meglio. Tutto quello che ho scritto è un ricordo che vi affido perché possiate amare non me, ma il mio passato e il mio futuro.. Strano, sfogliando la vecchia enciclopedia, quella della mia infanzia. Sempre la stessa, ho visto quante persone all'epoca erano viventi, nel giro di due pagine già tre: CHAGALL, CHANG KAI SHEK, CHAPLIN…E' incredibile, la mia vita s'è incrociata alla loro, abbiamo condiviso un pezzetto di secolo. Ora loro sono morti e io sono qui che scrivo. Nell'enciclopedia sono rimasti vivi, di loro vi è solo la data di nascita, non quella di morte. Esuberante plasticità del pensiero. Nessuna macchina può fermarti, nessuna costruzione, fluttuante come un raggio inerte sul mare. Ma che cos'è la provincia se non il centro del mondo? La membrana connettiva della società? Anche se la campagna circostante ti guarda in cagnesco, che importa? Il mantello grigio dell'uomo non può ricoprire l'intero pianeta. Avrei voluto essere un monaco nei romitori dello spirito, Avrei voluto essere il padre di due o tre figli, Avrei voluto essere uno scienziato illuminato, un letterato, Avrei voluto essere un umile solitario un vagabondo felice Avrei voluto essere una Jaguar lanciata su strade mattutine Avrei voluto essere ciò che non sono Ci vuole tempo per ammalarsi; se uno non ha tempo, che ci si ammala a fare? Cara Armida, saluto con felicità il tuo matrimonio, avrei voluto che tutti fossero felici come te. Invece, ho conosciuto corpi muti, sguardi riflessivi e rabbuiati dalle delusioni, feroci, dalle lacerazioni atroci. E' bello saperti felice, ma la tua brillantezza rende ancor più bui, fino a farli scomparire, i volti della tristezza. E per i volti della tristezza non restano che i sogni ripetitivi e ossessivi delle persone scomparse. A noi falliti le spiagge e le onde, i quadri metafisici e i silenzi, tutto ciò che la felicità ti fa scordare…Ho conosciuto Andrée, la moglie vedova e ormai anziana di uno scrittore scomparso. Sono stato dentro la sua casa bianca sospinta sull'estremità occidentale del Piemonte… Ho visto l'acero giapponese del suo giardino, il Monviso inquadrato nelle vetrate e il Po piccolo come un cucciolo che ti passa sotto i piedi. Ho visto Andrée, la vedova del poeta, accarezzare i suoi cani e regalarmi gratis sguardi comprensivi e generosi, offrirmi ospitalità e baguette francesi. Ho conosciuto Andrée, che mi ha stretto la mano con gli occhi di chi ha davanti a se un'immagine conosciuta, direi quasi familiare, perché lei, con i suoi occhi, ha visto anche il mio stomaco sanguinare. Cara Armida, avevo già capito che ti stavi per sposare; così come io avrei dovuto sposare Lucia. Ma le cose sono andate in un altro modo, infatti io ho rinunciato per sempre alla mia felicità. Quando ero un ragazzino giocavo a pallacanestro nella squadra del patronato. Ad allenarci c'era Sergio. Io ero molto bravo e Sergio ci incitava e mi incoraggiava durante le partite. Poi Sergio se ne andò e cambiammo allenatore. Il primo giorno ci divise in due parti ben distinte: gli alti da una parte e i bassi dall'altra. Si capiva benissimo che lui aveva voglia di allenare solo gli alti. Io, tra i bassi, fui uno dei primi ad andarmene. Dove stiamo andando…Il Po è un aeroporto; un cielo immenso di nuvole minacciose. Il Po è arrabbiato con gli imbecilli, ma ha pena delle formiche che vivono a lato delle sue sponde, sotto gli argini. Il Po ha un cuore nobile come la gente che vive sotto quei campanili e che ha ancora tanta luce negli occhi. Il cantastorie davanti alla vetrina? E' finita? Il denaro è tutto e io non ne ho! E' insostenibile questa ripetitività e i problemi sono insormontabili. E pensare che è il castello immaginario a distruggere il castello immaginario. Sono l'unico rimasto a credere in me. Devo crederci, devo viverci. Mi devo bastare. Sono l'unico rimasto a credere in me. Non ho più parole di biasimo per nessuno. Mandel'stam Osip era un grand'uomo, perché una volta letto donava il suo libro a un altro, affinché la conoscenza potesse passasse di mano in mano, di voce in voce. Con una lungimiranza straordinaria, quell'uomo sottile fu l'uccello più libero della grande gabbia Russia. Liberatosi di ogni cosa, vagò nutrendosi soltanto dell'alfabeto sacro della memoria in un lungo Ricordo di ricordare. Noi invece, caro Maurizio, abbiamo le stanze e il cervello foderati di libri e carichi affondiamo con tutta la nostra “cultura” nel fango. Dovremmo liberarci e diventare anche noi sottili “Thins”. Tanto sottili da usare i polmoni come ali e non come portaceneri per le “Merit”. Sottili come ombre e come lettere d'amore, e non come spessi pacchi di Natale legati e imbavagliati da spago, piombo e calcio in culo. Noi non possediamo nulla; siamo cani di pezza in appartamento per signora. Devo essere sincero, la mia V Scientifico è splendida; i miei ragazzi hanno capito che il Mantegna sul soffitto della Camera degli Sposi non ha dipinto null'altro che il riguardante: noi, sposi senza tempo, sposi del tempo. Noi, immagine dell'immagine, proiettati in quel cielo come in un pozzo. Con scarsa considerazione della forza di gravità. Ci sono delle persone anziane che procedono con la bicicletta a mano lungo le salite dei nostri cavalcavia urbani. Non riescono a salire a pedali la salita del ***. Non so dirti il come o il perché, ma questa gente che si inerpica con le mani strette sul manubrio, a passi lenti, mentre il traffico spazientito accelera e decelera nelle code, mi piace; da questa gente, io credo, vi è sicuramente qualcosa di sacro da imparare.