Claudia Dall`Aglio - Riflessioni sul suicidio nella pratica

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Claudia Dall`Aglio - Riflessioni sul suicidio nella pratica
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
Riflessioni sul suicidio nella
pratica clinica
Claudia Dall'Aglio
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«Non c'è nessun mistero da spiegare. È semplicemente
un mezzo attraverso il quale possiamo trasformare il
morire da una questione casuale a una questione di
scelta. (...) Il suicidio è una delle possibilità umane.»
(Hillman, 1997, trad. it. p. 10)
Questo articolo nasce dal desiderio di condividere conoscenze ed
esperienze su questa tragica esperienza umana con i colleghi. Non ha la
pretesa di essere esaustivo né tanto meno definitivo, quanto piuttosto di
accogliere l'invito che A. Stimolo ha lanciato in un precedente numero della
rivista (Stimolo, 2002) a riflettere sul tema del suicidio e la pratica
psicoterapeutica. Per questo motivo, mi soffermerò solo brevemente su
alcune possibili chiavi di lettura attraverso le quali può essere avvicinato
l'atto suicida, per concentrarmi sugli aspetti più prettamente clinici.
Possiamo, infatti, assumere diversi punti di vista (storico, epidemiologico,
filo-sofico, sociologico, medico, legale, teologico): tutti hanno in comune il
presupposto che il suicidio sia qualcosa da prevenire o curare o punire. Ma
ciò che il terapeuta può e deve soprattutto fare è comprendere cosa accade
nel mondo esperienziale della persona, interessarsi ai suoi motivi e ragioni
che vale la pena andare a cercare, prima ancora che porsi in una posizione di
chiusura ed emergenza. Come ogni altra azione umana, il suicidio ha a che
fare con la persona nella sua interezza e quindi necessita, prima che di una
spiegazione, di una comprensione. È difficile riuscire a mettersi in una tale
posizione che implica apertura a qualcosa di definitivo e inconoscibile come
la morte, ma è quello che ci viene chiesto dalla penosa esperienza dell'altro.
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Prospettiva storica
Il suicidio rappresenta una sfida dolorosa e affascinante insieme. Nel
corso dei secoli, l'atteggiamento della società e di chi in essa detiene il potere
è variato e tutt'oggi rimane diverso e complesso. Talvolta è stato interpretato
come atto di fedeltà o utilità (ad esempio i kamikaze durante la seconda
guerra mondiale), altre volte come "peccato mortale", contro di sé ma anche
contro la società, altre ancora come segno di insanità mentale, soprattutto
nelle culture occidentali.
La Chiesa Cattolica prese posizione contro il suicidio attorno al VI secolo,
scomunicando i suicidi negando loro i riti funebri e la sepoltura nei luoghi
consacrati.
Anche le tradizioni ebraiche proibivano di pronunciare orazioni funebri
per chi avesse commesso suicidio; i parenti non erano incoraggiati a portare
il lutto.
Nella legge islamica il suicidio è un crimine paragonabile all'omicidio.
Dante, nell'Inferno, condanna coloro che "presi da matta bestialitade" si
erano uccisi, al settimo cerchio e li trasforma in alberi sanguinanti, sottoposti
ad una continua agonia e divorati senza pietà dalle Arpie: gli unici peccatori
a cui era negata la forma umana.
A lungo, nel corso dei secoli, è stato possibile profanare i cadaveri dei
suicidi, seppellirli agli incroci in modo tale che il passaggio avrebbe
mantenuto sottoterra i corpi, trascinarli a testa in giù e poi appenderli ad una
forca, gettarli nelle fogne o nelle discariche, trafiggere i loro corpi con alberi
per impedire loro di camminare.
Attorno al XVII secolo, in Inghilterra prese piede l'idea che il suicidio
potesse essere ascritto tra i comportamenti patologici. Dietro questa visione
possiamo vedere la necessità di proteggere la famiglia del suicida dalla
perdita economica conseguente alla confisca di tutti i beni del suicida,
condanna che si aggiungeva alle già citate sanzioni religiose. Solo nel XVIII e
XIX secolo moltissimi Paesi europei depenalizzarono il suicidio, sebbene sia
stato considerato un crimine fino al 1961 in Inghilterra e fino al 1993 in
Manda. Attualmente, in California rimane un reato.
Ma il suicidio non è stato solo colpevolizzato o condannato nel corso dei
secoli: gli stoici e gli epicurei credevano fortemente nel diritto dell'individuo
di scegliere come e quando morire. Nella cultura giapponese, il seppuku è un
nobile gesto, prerogativa dei samurai, necessario per lavare l'onta di una
colpa o sfuggire ad una morte disonorevole.
Epidemiologia
II suicidio è definito come: «atto suicida con esito fatale (...) lesione
autoinflitta associata a vari livelli di intenzionalità letale» (WHO, 1968).
Non è sempre facile distinguere il suicidio dal tentativo di suicidio. Se
quest'ultimo, per una serie di circostanze, conduce alla morte della persona
può essere scambiato per un reale desiderio di morire. Viceversa, una sincera
determinazione a ricercare la morte può non riuscire ed essere, perciò,
ascritta tra i tentativi di suicidio. Molte persone hanno pensieri suicidi, ma il
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passaggio all'atto è ben altra cosa.
Inoltre, alcuni tentativi di suicidio vengono talvolta classificati come
"incidenti": cadute accidentali, errori nell'uso delle armi da fuoco, incidenti
stradali, ecc.
Infine, alcuni autori classificano il ripetersi di azioni quotidiane di
carattere autolesivo come "microsuicidi"; tra queste possiamo elencare l'uso
di droghe, ripetuti piccoli incidenti, pensieri sempre più negativi rispetto a sé
o alla realtà, ecc.
Diviene molto importante riuscire a comprendere, per quanto possibile, le
motivazioni che hanno portato al gesto suicida, anche attraverso quella che
attualmente viene definita autopsia psicologica, effettuata dopo la morte
attraverso l'esame degli scritti e degli effetti personali del defunto e le
interviste con familiari, amici, colleghi, medico ecc.
Possono comunque essere evidenziate alcune caratteristiche che possono
essere utili nella maggiore comprensione del fenomeno. Ne riportiamo
alcune in forma schematica nella Tabella I.
Tabella I - Caratteristiche riscontrabili nel tentato suicidio e nel suicidio.
Caratteristiche
Tentato suicidio
Suicidio
Genere
Prevalentemente donne
Prevalentemente uomini
Età
Prevalentemente giovani
II rischio aumenta con l'età
Metodo
Farmaci, tagli
Più violento (colpo di pistola,
defenestrazione)
Circostanze
Possibilità di intervento
esterno
Precauzioni contro l'intervento
Diagnosi frequente Disturbi dell'umore, BPD
D. depressivo maggiore,
alcolismo, schizofrenia
Sentimento
dominante
Depressione con rabbia
Depressione con perdita di
speranza
Motivazione
Cambiare la situazione, grido
d'aiuto
Ricovero veloce
Morire
Ricovero
Atteggiamento
Sollievo, promessa di non
rifarlo
Resistenza e rabbia verso i
soccorritori
Dispiacere per essere
sopravvissuto
Qui di seguito, alcuni dati (Jamison, 1999):
- il 53% dei tentativi di suicidio delle donne in età fertile avviene nel
periodo premestruale;
- la maggior parte degli atti suicidi ha luogo fra le 7 di mattina e le 4 del
pomeriggio, in coincidenza del lunedì e a primavera;
- in Italia la punta massima di tentati suicidi avviene tra i 1 5 e i 25 anni,
oltre i 60 vi è la punta minima di tentativi e massima di suicidi;
- nei paesi occidentali il suicidio è la seconda causa di morte tra gli
adolescenti (dopo gli incidenti stradali) e nelle prime 10 per gli adulti;
- il 5-10% dei suicidi ha luogo negli ospedali psichiatrici. Per quello che
riguarda l'Italia, gli ultimi dati si riferiscono al 2004 (ISTAT) e sono
riportati nella Tabella II.
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Per dati più specifici rimando alla vastissima letteratura in bibliografia.
Quello che qui mi pare importante rilevare è la non rarità del fenomeno.
Spesso le persone si spaventano alla sola parola suicidio, ma in realtà si
tratta di un pensiero non infrequente e tanto meno di per sé folle.
Tabella II - Suicidi e tentativi di suicidio (valori assoluti e quozienti per 100.000 abitanti).
Valori assoluti
Tentativi di suicidio
Quozienti per 100.000 abitanti REGIONI Suicidi
Suicidi
Tentativi di suicidio
Piemonte
336
341
7,8
7,9
Valle d'Aosta
11
4
9
3,3
Lombardia
534
586
5,7
6,2
Trentino-Alto
Adige
Bolzano
84
93
8,6
9,5
45
74
9,4
15,5
Trento
39
19
7,8
3,8
Veneto
352
310
7,5
6,6
Friuli Venezia
Giulia
Liguria
118
160
9,8
13,3
146
224
9,2
14,1
Emilia Romagna
321
338
7,7
8,1
Toscana
164
265
4,6
7,4
Umbria
61
72
7,1
8,4
Marche
98
134
6,5
8,8
Lazio
228
167
4,3
3,2
Abruzzo
76
62
5,8
4,8
Molise
21
18
6,5
5,6
Campania
153
104
2,6
1,8
Puglia
131
156
3,2
3,8
Basilicata
18
24
3
4
Calabria
61
75
3
3,7
Sicilia
205
225
4,1
4,5
Sardegna
147
123
8,9
7,5
Italia
3265
3481
5,6
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Fattori di rischio
A lungo gli esperti si sono interrogati su come sarebbe stato possibile
prevenire il suicidio andando alla ricerca, nell'ottica di una prevenzione
primaria, di quelli che potevano essere i fattori di rischio e nell'ottica di una
prevenzione secondaria e terziaria, di come la società poteva farsi carico di
un atteggiamento o di comportamenti che riducessero al minimo la
possibilità di ripetere il tentativo o che altri potessero farlo. Vediamo più in
dettaglio i due filoni di interesse.
Uno dei primi autori ad occuparsi dei fattori di rischio, prettamente da un
punto di vista sociologico, fu Durkheim (1897) che propose una possibile
classificazione dei suicidi suddividendoli in "patologici", di competenza della
psichiatria perché compiuti da persone malate e "normali", non causati da
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turbe psichiche quanto dalla mancata integrazione della persona nelle
strutture familiari e sociali, dell'emarginazione ambientale, professionale,
culturale e socio-politica. In realtà i fattori socio-economici non sono
determinanti, ma è necessario valutarli sempre nel senso di una perdita:
diventare poveri, essere licenziati, divorziare possono essere eventi di vita
che precipitano l'individuo in un malessere che può apparire insolubile a tal
punto da desiderare la morte. Inoltre, l'ambiente rurale sembra essere meno
rischioso di quello urbano. Tutti questi fattori hanno a che fare con un
aumento delle condizioni di isolamento che, come vedremo in seguito,
rappresenta uno dei principali e più dolorosi vissuti legati al suicidio.
Da un punto di vista fenomenologico, potremmo descrivere la persona ad
alto rischio di suicidio come un individuo che, prima di una perdita recente
in termini concreti o da lui vissuta come tale, non ha potuto o saputo
sviluppare sufficienti capacità di coping a tal punto da avere un
funzionamento generale scarso (da un punto di vista pratico o emotivo), uno
stile di vita instabile e poche persone veramente intime o alle quali non può
ricorrere nei momenti difficili della propria vita. Se si tratta di una persona
che già è stata in trattamento psichiatrico o psicologico, questo non è andato
a buon fine. Potrebbe trattarsi di un malato cronico da un punto di vista
medico, anche se nessuna malattia di per sé provoca il ricorso al suicidio. Se
si tratta di un nostro cliente, possiamo valutare il livello di pianificazione del
suicidio: ha scelto il metodo ed è veramente letale? Se ha bisogno di un
mezzo, può procurarselo? Ha deciso un luogo e un tempo prendendo
precauzioni affinché non lo trovino? Ha l'opportunità di fare tutto questo?
Ha regalato oggetti personali importanti o ha scritto qualcosa? Questo anche
se poche persone lasciano qualcosa di scritto e, generalmente, si tratta
prevalentemente di brevi messaggi di istruzioni o, soprattutto negli
adolescenti, note che hanno la finalità di discolpare i parenti. Le ragioni che
cercano di spiegare il suicidio sono vaghe e generiche.
Come possiamo notare, si tratta di indicazioni che possono essere
smentite da situazioni che ognuno di noi ha vissuto, personalmente o
attraverso la tragedia di altri. I motivi reali del suicidio sono altri e altrove,
molto spesso in conoscibili a chi non può o non riesce ad entrare nel mondo
dell'altro, un mondo fatto di dolore, ambiguità, vergogna, disperazione,
rabbia e ambivalenza che si attorciglia su se stesso fino a confondersi col
nulla. Si tratta, infatti, di una descrizione basata su statistiche e come tale ha
in sé la probabilità della smentita. Infatti, l'unico fattore veramente
determinante rimane l'aver già tentato il suicidio almeno una volta. La
persona che ha oltrepassato quel limite invisibile tra la vita e la morte,
arrischiandosi a visitarlo, ha già infranto un tabù che ora è più facile ripetere.
A lungo si è discusso, e ancora lo si fa, per stabilire se le persone che
tentano di suicidarsi o lo fanno veramente sono malati psichici oppure no.
Credo si tratti di una questione di poca importanza, dal momento che la
sofferenza umana può essere letta attraverso diverse lenti, tra cui quelle
spesso reificanti della nosografia psichiatrica. Non tutte le persone che si
uccidono sono depresse o psicotiche, nessuno può dire questo. È però
interessante vedere le possibili assonanze tra i disturbi psichiatrici e il
suicidio.
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I disturbi dell'umore (depressione, sindrome maniaco-depressiva) sono i
disturbi più spesso associati al suicidio (circa il 30-70% delle persone che si
suicidano). In particolare, i sentimenti più frequenti tra queste persone sono
la mancanza di speranza nel futuro (hopelessness) ed il credere che nessuno,
tanto meno loro stessi, sarà in grado di aiutarli (helplessness). Per questo
essi cercano veramente di porre fine alla propria vita, perché non esiste
alcuna possibilità di stare meglio. Per questo, si tratta di tentativi letali e
violenti. Un miglioramento della depressione può aumentare il rischio di
suicidio: può trattarsi di un falso miglioramento, dovuto in realtà alla paradossale serenità di aver fatto una scelta che metterà fine a tutte le
sofferenze. Ma si può trattare anche della consapevolezza che la malattia ha
irrimediabilmente rovinato la vita precedente: infatti, i periodi di maggiore
rischio sono quelli in cui la persona viene dimessa da un ricovero in
particolare dopo il primo episodio depressivo.
La schizofrenia (circa il 10% degli schizofrenici si uccide, il 30-40% tenta di
farlo) è la seconda patologia per frequenza nei casi di suicidio. Spesso, la
spinta delle allucinazioni visive o delle voci che incitano alla morte, porta a
mettere in atto comportamenti letali in modi bizzarri, violenti e
automutilanti. Non si può parlare pienamente di desiderio di morire, quanto
di una compulsione.
I disturbi di personalità borderline (5-10% di suicidi, anche se almeno ¾ lo
tentano) utilizzano frequentemente il suicidio come mezzo di comunicazione
o di controllo sulle persone intime. In questi casi, il suicidio si configura, la
maggior parte delle volte, come un agito che non è stato pianificato e che,
come tale, ha la funzione di comunicare una complessità di sentimenti che
non possono essere percepiti oppure di mantenere vicine le persone care.
Raramente è presente il desiderio di morire: i metodi utilizzati non sono
fortemente letali, le condizioni permettono il ritrovamento della persona
ancora in vita o avvisano loro stessi di ciò che hanno fatto.
Un cliente con questa diagnosi, dopo esser stato per due volte rassicurato
dalla guardia medica che l'aspirina non l'avrebbe ucciso, sciolse due blister
del farmaco nell'acqua, mi telefonò per raccontarmi ciò che aveva appena
fatto e andò al pronto soccorso per farsi vedere. "Ho fatto una sciocchezza,
ma ha visto che finalmente i miei genitori si sono preoccupati?", ha
commentato in seguito. E purtroppo aveva ragione: il suo gesto è stato
l'unico in grado di scalfire l'indifferenza del padre e della madre.
Di per sé la dipendenza da sostanze non costituisce un fattore
predisponente al suicidio, anche se in alcuni casi l'alcol o le droghe possono
essere ricercate per il loro effetto disinibente e diminuire la paura legata al
mettere in atto condotte suicide.
La sola condizione "protettiva" sembra essere la gravidanza e il primo
anno dopo il parto, a meno che non ci sia stato un pregresso malessere,
anche non diagnosticato, per cui viceversa aumenta il rischio nel periodo
post-partum.
II secondo filone di intervento tendente alla riduzione del rischio di
suicidio riguarda la prevenzione primaria. In questa direzione vanno le
direttive di diversi organismi che si occupano di prevenzione del suicidio di
cui riportiamo una delle fonti più autorevoli (Swedish National Council for
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Suicide Prevention, 1997):
- trattamento più efficace dei disturbi mentali,
- controllo del possesso delle armi da fuoco,
- riduzione della tossicità del gas delle forniture domestiche,
- riduzione della tossicità dei gas di scarico delle automobili,
- controllo sulla disponibilità delle sostanze tossiche,
- minor risalto nei media alle notizie di suicidi.
Se il primo posto spetta al trattamento del disagio psicologico, la maggior
parte delle azioni mira a diminuire la disponibilità dei principali metodi
scelti dalle persone per uccidersi. Si è infatti visto che la disponibilità del
mezzo assieme alla percezione della sua letalità sono i principali elementi
che guidano la scelta dello stesso. Un ulteriore importante elemento di scelta
è dato dalla caratteristica suggestiva che alcuni luogo o maniere di uccidersi
hanno sulle persona. Si parla, infatti, di effetto Werther per indicare la
concentrazione nello spazio e nel tempo di suicidi simili, soprattutto tra i
più giovani. In seguito alla pubblicazione de "I dolori del giovane Werther" ci
fu un aumento esponenziale di giovani ragazzi che si uccisero allo stesso
modo e vestiti con lo stesso corpetto del protagonista. Per tale motivo anche
i media vengono chiamati in causa, spesso inutilmente, nel tentativo di dar
loro alcune linee guida (Center for disease control, 1994) per prevenire la
possibilità di un contagio emotivo e una reale messa in atto di
comportamenti suicidari. Di seguito è elencato ciò che dovrebbe essere
evitato.
- Spiegare l'evento in modo semplicistico: il suicidio non è mai dovuto ad
un'unica causa; ciò che i media riferiscono essere come "il motivo" non è
altro che l'evento precipitante.
- Riportare notizie di suicidi in modo ripetitivo e eccessivo, proprio per
non favorire l'effetto imitazione.
Trattare il suicidio in modo sensazionalistico, fornendo dettagli
drammatici attraverso i racconti o le foto.
- Riportare descrizioni del suicidio che possano fungere da istruzioni.
- Presentare il suicidio come strumento per ottenere determinati fini, al
fine di non proporlo come possibile strategia di coping.
- Glorificare il suicidio o le persone che vi ricorrono non esaltando il
dolore di chi rimane a tal punto da risultare un omaggio a chi si è
ucciso.
Concentrarsi sulle caratteristiche positive dell'individuo suicida
evitando di menzionare le sue difficoltà: l'idealizzazione favorisce
l'emulazione.
Alcuni tentativi di comprensione
Abbiamo già sottolineato la difficoltà a distinguere tout court la differenza
tra suicidio e tentativo di suicidio, soprattutto nelle circostanze in cui la
persona riesca veramente a darsi la morte. Tuttavia, esistono alcune
caratteristiche che si configurano essere maggiormente presenti nelle
persone che davvero desiderano morire da quelle che, pur vedendo nella
morte una soluzione attraente, desiderano altro.
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l primo insieme di persone ritroviamo prevalentemente le persone con
umore depresso e gli anziani. Questi ultimi soprattutto in seguito alla perdita
della funzionalità fisica (anche se è importante risottolineare che non tutti i
malati gravi sono a rischio di suicidio) e ai primi periodi del pensionamento.
Da un punto di vista psicologico, ritroviamo delle modalità di pensiero
prevalentemente di tipo dicotomico (tendenza a pensare per estremi) e una
marcata rigidità cognitiva, che può manifestarsi nell'incapacità di pensare a
diverse alternative, nell'inclinazione a ruminare su pensieri negativi. Il locus
of control ed il locus of evalutation sono prevalentemente esterni, togliendo
così ogni potere e valore alla persona, tanto che il suicidio può apparire come
l'unico ed ultimo atto autonomo. I sentimenti prevalenti, oltre all'isolamento,
al senso di solitudine e alla tristezza, fanno capo alla hopelessness e
helplessness che implicano un'assoluta mancanza di fiducia in sé, negli altri,
nella vita.
Nel secondo insieme di persone ritroviamo prevalentemente gli adolescenti
e i disturbi di personalità. In quest'ultimo caso, il suicidio viene considerato
un agito, un gesto che esprime un sentimento che non può essere pensato né
tanto meno vissuto. Non è presente un reale desiderio di morte, quanto il
bisogno di comunicare qualcosa a qualcuno o di risolvere una situazione
relazionale impigliata in un empasse. Di conseguenza, possiamo desumere
che le abilità di comunicazione, la capacità di tollerare le frustrazioni e
l'apertura all'esperienza, in particolare quella emotiva, sono molto limitate.
In adolescenza, il suicidio, o meglio il tentato suicidio (molto più frequente
in questa fascia d'età che tra tutte le altre) merita un discorso a parte che qui
potremo solo sfiorare in tutta la sua complessità. I suicidi tra gli adolescenti
rappresentano il 6% di tutti i suicidi e nei paesi occidentali è la seconda causa
di morte tra i giovani tra i 14 e i 24 anni.
Prima dei 12 anni il suicidio è molto raro: anche se gli studi sono
discordanti, possiamo affermare che i bambini hanno un'idea poco realistica
della morte (ad esempio fino ai sette anni circa credono si tratti di un evento
reversibile); inoltre, la progettazione e la messa in atto del suicidio, sono
molto complesse dal punto di vista cognitivo. In questa fascia d'età è
importante valutare la presenza di "incidenti" frequenti.
Secondo Laufer (1998), nell'adolescenza qualsiasi tentativo di suicidio
rappresenta una perdita, anche solo temporanea, di legame con la realtà e
perciò va visto come un episodio psicotico acuto, seppur transitorio.
Pietropolli Charmet (2004) sostiene che il tentativo di suicidio ha sempre
un intento comunicativo, il destinatario del messaggio è criptato ma è
importante scoprirlo e spesso si tratta del genitore. Il gesto si ripeterà se non
si scopre questa comunicazione e per tale motivo è importante intervenire
tempestivamente e intensivamente, già al momento del ricovero al pronto
soccorso. Le motivazioni sono le più varie, ma secondo l'autore tre sono gli
aspetti caratterizzanti del suicidio in adolescenza, condizioni che creano un
terreno favorevole affinché un qualche evento scatenante possa portare poi
al tentativo di suicidio.
1. Una scarsa mentalizzazione del corpo come parte integrante di sé e
della propria identità, un corpo che può essere ferito, tagliato, violato come
se non appartenesse al ragazzo o alla ragazza. Un corpo che, in quanto tale,
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è segno di separazione ma porta in sé il legame inscindibile col padre e la
madre e che diviene il terreno su cui si gioca la propria crescita.
2. Una mancata riorganizzazione della personalità in base al processo di
separazione-individuazione, che porta l'adolescente ad una incapacità di
elaborare il proprio divenire adulto, separato dalle figure genitoriali.
3. Una spiccata fragilità narcisistica che richiama il totalizzante e
irrompente sentimento della vergogna a tal punto che l'adolescente, per
nascondere il proprio segreto umiliante e destrutturante, preferisce
scomparire con l'illusione che lo si possa fare senza morire veramente.
La relazione terapeutica
«Finché non possiamo scegliere la morte,
non possiamo scegliere la vita. Fino a quando
non possiamo dire di no alla vita, non le abbiamo
neanche realmente detto di sì, ma siamo soltanto
stati trasportati dalla sua corrente collettiva.»
(Hillmann, 1997, trad. it. p. 51)
Nella relazione terapeutica ci si ritrova spesso di fronte ad una
separazione fittizia tra gestione della crisi e terapia vera e propria. Mentre la
prima sembrerebbe appartenere alla dimensione del fare la seconda
afferirebbe alla dimensione dell'essere e dello stare con. Nella realtà della
pratica e del rapporto con l'altro, a mio parere, le due dimensioni si
compenetrano di volta in volta, a seconda del momento esistenziale del
cliente e di ciò che il terapeuta ritiene più opportuno in quel frangente.
Possiamo così dire che tale apparente contraddizione può risolversi nella
dimensione della relazione lo-Tu, così come Buber la descrive e come Rogers
la riprende per sottolinearne l'incontro tra due persone. Ancora più in questo
tragico istante dell'esistenza umana, non possiamo tirarci indietro dall'essere
veramente nella relazione con chi ci sta di fronte in tutta la nostra umanità,
oltre che professionalità. Riprendendo le parole di Hillman: «Un segreto può
essere condiviso solo tra due persone, non tra una persona e una professione»
(Hillman, 1997, trad. it. p.133). Ciò che la persona fa fatica a dire talvolta
persino a se stessa, può essere condiviso ed elaborato col terapeuta,
disponibile non solo ad ascoltare ma ad essere profondamente in contatto
con la totalità del modo di essere del cliente. Ed essere in contatto significa
potersi permettere di comprendere anche le ragioni della morte, oltre a
quelle della vita. Certo, questo non significa essere passivi nell'attesa che
miracolosamente qualcosa cambi, tutt'altro. Ci troviamo di fronte ad una
persona e non a un qualche tipo di malattia; abbiamo a che fare, prevalentemente, con esperienze, problemi, sofferenze, paure e assenze di significato.
Ciò che il cliente chiede, arrivando nel nostro studio e continuando a
frequentarlo, è di condividere la propria sofferenza e abitare lo stesso
mondo di esperienze.
La qualità della relazione è caratterizzata da un ancora più stretto legame
tra terapeuta e cliente. Questo ha come principale conseguenza un aumento
del rischio di confusione tra le due personalità e, di conseguenza, la
possibilità di un acutizzarsi nel terapeuta dei sentimenti o dei pensieri che
poco hanno a che fare col cliente ma ben più con se stesso, la sua storia, i
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suoi valori, i suoi vissuti. In altri termini, possiamo affermare che le
tematiche relative al controtransfert hanno in questa fase una rilevanza
ancora più significativa. La relazione che così si determina è rischiosa per il
terapeuta e i motivi sono molteplici. Cercherò di descriverli qui di seguito.
In primo luogo, proprio nella circostanza in cui abbiamo a che fare con la
vita o la morte dell'altro, ci troviamo prepotentemente di fronte ad una delle
tematiche che spesso (o, forse, potremmo dire sempre) riguardano la
motivazione ad intraprendere un qualsiasi tipo di relazione d'aiuto: il
desiderio, l'illusione, la speranza di poter "salvare" chi ne ha bisogno. Salvare
da cosa? In questo caso fa capolino il supremo salvataggio: quello dalla
morte. Il terapeuta può così trovarsi intrappolato nell'illusione di poter
salvare il cliente dalla morte o meglio, dal suo desiderio di morire. Quale
inganno! Il terapeuta non può prendersi, né accettare se questo gli viene
proposto, la responsabilità per la vita del cliente, non può colludere con la
fantasia di essere quella madre illimitatamente buona che il cliente non ha
avuto e che può far fronte ad ogni problema. Non è questa la soluzione ad un
dolore esistenziale che ha le proprie radici nella profondità della storia della
persona. Entrare in questo gioco pericoloso, prendere in mano il potere della
vita di un altro individuo è quanto più di folle ci possa essere. Noi non
abbiamo questo potere. Entrare in questo gioco implica rivestire, di volta in
volta, i panni dei tre ruoli di salvatore, vittima e carnefice che appartengono
al triangolo perverso delle relazioni. Proverò a spiegare meglio con un
esempio.
Sapere o sospettare che un cliente possa desiderare di suicidarsi attiva nel
terapeuta il desiderio di fargli cambiare idea, può far colludere con l'illusione
di essere il possibile salvatore, se non l'unico in grado di farlo, in nome di
quella particolare relazione che si è creata tra i due. Metterà allora in atto
una serie di variazioni di setting che, inevitabilmente, vanno nella direzione
di una maggiore disponibilità in termini emotivi ma anche pratici. Quando il
limite personale a tale disponibilità viene superato, altrettanto
inevitabilmente il terapeuta inizierà a percepire sentimenti di invasione,
frustrazione, impotenza, paura, che facilmente si trasformeranno in rabbia
che potrà essere rielaborata ma anche agita nella relazione nei termini di un
ritiro di tale apertura. Viceversa, se il limite non è percepito, il terapeuta si
potrà sentire vittima di un cliente così difficile ma, al contempo, come potrà
essere "cattivo" di fronte al pericolo della morte? Non potrà e, rinunciando al
proprio potere, si metterà nelle mani di quello dell'altro, divenendo lui stesso
vittima della propria incapacità. Il fallimento dell'illusione di poter salvare
l'altro diventa strumento di ferita, ferita narcisistica.
Abbiamo parlato di potere e quindi di responsabilità, ma si tratta di una
responsabilità verso il cliente e non per lui. Questo significa che il cliente ha
una propria responsabilità, un proprio potere: scegliere se togliersi la vita o
tentare, assieme al terapeuta, di ritrovare il senso della propria esistenza, le
ragioni per continuare a vivere. Il terapeuta, dal canto suo, ha il dovere di
agire la propria professionalità che, in questa fase della terapia, possiamo
schematicamente racchiudere in tre momenti che si compenetrano l'un l'altro
ma che, per ragioni di comprensibilità, descriveremo separatamente: svelare,
agire, comprendere
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1) Svelare
«Entrare nella disperazione col cliente. (...)
Se la disperazione è profonda le fantasie
suicide tendono a diventare il contenuto principale
delle sedute. Tuttavia la situazione non è più
precaria di quando questi stessi contenuti erano
in agguato nel profondo. A questo punto l'analista
è costretto a scoprire perché vuole che l'altra
persona viva, perché questo individuo è per lui
personalmente importante.»
(Hillman, 1997, trad. il. p. 70)
Nominare una cosa, un sentimento, un evento lo rende reale, così
nominare l'idea del suicidio rende reale questa possibilità. E questo può
spaventare, ma chi? Chi già ne ha fatto oggetto dei propri pensieri, chi già ha
trascorso momenti pieni del senso di morte? Ciò è molto improbabile.
Piuttosto potrà spaventare chi dalla morte è spaventato, chi non l'ha mai
accolta tra i propri pensieri, chi ne fugge come se essa stessa non facesse
parte della vita. Con questo non intendo affermare che per poter stare nel
mondo dell'altro, quando questo è colorato dei colori della morte, sia
necessario aver pensato al suicidio a propria volta, quanto piuttosto che il
terapeuta deve aver avuto in sé lo spazio necessario ad una riflessione che
riguardi la morte, il morire e l'umana possibilità di sceglierne eventualmente
il tempo e il modo. A quali risultati abbia portato tale riflessione, se di
risultati si può parlare, non riguarda il presente articolo. Credo si tratti di
entrare nel mondo dei valori che ogni persona, e quindi ogni terapeuta, ha il
diritto di proteggere e coltivare assieme al dovere di rendere intelleggibile a
se stesso. Il suicidio ci chiama, infatti, ad una resa dei conti con i nostri
valori più profondi e intimi.
Qual è il valore che noi stessi diamo alla vita? E alla morte? Possiamo
ammettere che una persona possa scegliere di darsi la morte? Si tratta
davvero di una scelta? Crediamo di essere di fronte ad un gesto folle da
contenere comunque? Possiamo permetterci di contattare la disperazione di
chi non ha più alcuna speranza e farci toccare dall'angoscia del nulla?
Perché questa disperazione significa non aspettarsi più nulla dalla vita,
non sperare che qualcosa possa cambiare o possa muoversi da un'immobilità
che si prospetta eterna, proprio come eterna è la morte. La volontà è spenta,
il vuoto domina ogni pensiero e respiro. Spesso le sedute si riempiono delle
fantasie suicide, del come e quando, del dopo.
2) Agire
Una volta che sia chiaro quanto veritiera sia l'ipotesi di un possibile
tentativo di suicidio, il terapeuta ha il dovere di mettere in atto una serie di
comportamenti pratici che possano sostenere il cliente in questo momento
della sua vita. Oltre alle norme dell'art.13 del Codice deontologico degli
psicologi italiani («Nel caso di obbligo di referto o di obbligo di denuncia, lo
psicologo limita allo stretto necessario il riferimento di quanto appreso in
ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del
soggetto. Negli altri casi, valuta con attenzione la necessità di derogare
totalmente o parzialmente alla propria doverosa riservatezza, qualora si
prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o
di terzi.») che richiama un preciso dovere etico, vediamo cosa questo può
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significare nella pratica clinica.
Il terapeuta non deve assolutamente ritrovarsi solo nella relazione col
cliente. Questo significa, da una parte, ricercare il sostegno di colleghi e
supervisori che lo possano aiutare a condividere il peso dell'angoscia di
morte, oltre ad avere una più chiara visione dei fatti, non colorata dalle tinte
fosche del proprio timore. Dall'altra parte, significa utilizzare tutte le
persone e le agenzie disponibili per il cliente: familiari, centri crisi, medico di
base, psichiatra. Il consenso del cliente diventa perciò fondamentale e tutto
dovrà essere fatto per ottenerlo e poterlo così proteggere, fornendogli il
numero più alto possibile di referenti. Nella mia esperienza clinica, si tratta
di un momento molto delicato ed importante. Il sostegno esterno alla coppia
terapeuta-cliente è assolutamente necessario e tutto dovrà essere fatto per
ottenerlo, ma assieme al cliente. Sarà allora necessario prestare particolare
attenzione a non dargli l'impressione di volerlo scaricare in un momento così
delicato, far passare la certezza che, pur spaventati o preoccupati, siamo
disponibili ad esserci ma che siamo anche consapevoli dei nostri limiti e
anche noi abbiamo bisogno di aiuto, oltre a lui. Ad esempio, non avremo mai
la stessa disponibilità di un pronto soccorso o non potremo essere presenti
nella misura in cui lo è un familiare. Non mi è mai capitato che un cliente
rifiutasse queste altre opzioni, anche se talvolta è stata necessaria una lunga
discussione, i clienti hanno accettato i numeri di telefono che ho potuto
fornirgli o che io parlassi coi familiari. Talvolta, di concerto con lo psichiatra,
è stato necessario programmare un ricovero: non con lo scopo di spegnere
tutto il dolore che caratterizza il periodo suicidano, come polemicamente
sottolinea Hillman (1997), ma per tentare di proteggere la persona da un
momento fortemente depressivo.
Un'ulteriore possibilità che si presenta al terapeuta sono le variazioni di
setting. Come già accennato, trattandosi di una situazione di emergenza, è
necessario mettere in atto alcune variazioni che vanno nell'ordine di una
maggiore apertura, ma non totale. Ad esempio, può essere utile passare da
una a due sedute settimanali oppure dare una maggiore disponibilità
telefonica. Nella mia esperienza, non si è rivelato utile aumentare il numero
di sedute settimanali a più di due né aumentare la durata della seduta stessa:
credo che un limite vada mantenuto proprio in funzione di dare
contenimento ai vissuti più frammentanti. Ovviamente questi sono solo
alcuni esempi tratti dalla pratica clinica, diversi da persona a persona, sia per
quello che riguarda il cliente che il terapeuta.
Alcuni autori suggeriscono la possibilità di contatti a tempo: il cliente si
impegna a non suicidarsi per un determinato periodo di tempo durante il
quale potrà lavorare assieme al terapeuta alla ricerca di una buona ragione
per non farlo nemmeno in seguito.
3) Comprendere
Si tratta dell'ultima e più delicata responsabilità del terapeuta che riguarda
più strettamente la dimensione dell'essere e dello stare con. Questo significa
per la persona-terapeuta cercare di raggiungere un contatto autentico con la
persona-cliente, un contatto profondo fatto di comprensione, attenzione e
fiducia. Scopo principale di questo momento diviene il favorire il contatto
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anche del cliente con se stesso. Ritorna più volte la parola contatto perché è
proprio questo che manca nella profonda solitudine, esistenziale e non
necessariamente relazionale, della persona che ha in mente di togliersi la
vita.
Questo è vero se si tratta di un adolescente, prigioniero della propria
incapacità di separarsi dalle figure genitoriali e impossibilitato ad
individuarsi come persona adulta se non nel modo che altri hanno deciso,
che sente di essere arrivato al capolinea di una vita che chiede troppo per
essere vissuta. Ma è altrettanto vero per la persona depressa, che non vede di
fronte a sé un interminabile svolgersi di giorni tutti ugualmente vuoti ed
insignificanti, dove solo dolore e nulla fanno rumore. Ed infine, anche nel
disturbo borderline di personalità ci troviamo di fronte all'impossibilità di
comunicare qualcosa che non ha una forma, una continuità e che è il modo
stesso di essere della persona.
Il terapeuta può allora usare lo strumento più elementare e complesso, la
relazione, per cercare di attenuare questo senso di vuoto, incomunicabilità e
incomprensione che devasta l'anima con le sue ferite terribili e invisibili.
Rogers (1980), nell'analisi del caso di Ellen West, evidenziò due particolari
elementi che descrivono questo senso di solitudine: l'estraniamento da sé e
dalle esperienze del proprio organismo, non percepite come degne di fiducia
e quindi utilizzabili per la propria esistenza e la mancanza di una relazione
in cui poter comunicare l'esperire reale, il Sé autentico. "Guardo a me stessa
come ad un essere strano. Ho paura di me stessa. (...) lo grido, ma loro non
mi sentono." (Rogers, 1980, trad. it, p.146) Possiamo allora far sì che i nostri
clienti, al di là di ciò che decideranno per sé e la propria vita, abbiano di
fronte una persona disponibile alla relazione, all'incontro e alla condivisione,
così che non debbano sentirsi estranei nel mondo, almeno nella stanza della
terapia.
«La posizione che deve essere mantenuta è quella di un piede dentro e uno
fuori. Entrambi i piedi fuori è non coinvolgimento; entrambi i piedi dentro è
inconsapevolezza della responsabilità. Non siamo responsabili gli uni delle
vite o delle morti degli altri; la vita e la morte di ogni uomo è sua propria. Ma
siamo responsabili per i nostri coinvolgimenti» (Hilmman, 1997, trad. it. p. 64,
corsivo mio).
Come già affermato in precedenza, ciò che potremo ulteriormente cercare
di favorire sarà anche il contatto con altri significativi, sia per non essere noi
i soli a sostenere la persona, sia per promuovere nuove forme di
comunicazione anche con gli affetti più vicini.
In precedenza abbiamo parlato di fiducia. Non si tratta di un'astratta
affermazione valoriale, ma di una reale propensione alla vita. Desideriamo
veramente che quel cliente viva? Perché? Comprendiamo le ragioni per cui
desidera darsi la morte? E comprendiamo le ragioni per cui potrebbe, per lui
o lei, valere la pena vivere? La persona che tenta di uccidersi, come abbiamo
visto, ha perso tutte le speranze di un possibile cambiamento nella propria
esistenza, ma ancora di più ha perso la fiducia del proprio esperire come
base dell'esperienza. Ed è proprio qui che noi possiamo far leva per ritrovare,
assieme a lui, il senso del proprio vivere: «(...) se non esiste alcun significato
del suo vivere, una persona tende a togliersi la vita ed è pronta a farlo anche
se tutti i suoi bisogni, sotto ogni aspetto, sono stati soddisfatti» (Frankl, 1973).
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Ad esempio, nel disturbo borderline di personalità sarà utile sostenere il
cliente nel tentativo di dare un significato, di stabilire un legame, nel
presente, tra le sue azioni (in particolare quelle autodistruttive) e i suoi
sentimenti. Il suo agire non è altro che una difesa primaria che tende a non
far percepire sentimenti dolorosi e potenzialmente destrutturanti. Ma la
consapevolezza è fondamentale per potersi percepire come individui
autonomi e responsabili; sarà allora necessario favorire la presa di coscienza
e, di nuovo, il senso che nasconde l'agire così da implementare la capacità di
gestire gli impulsi.
Il terapeuta cercherà di avere un atteggiamento più attivo rispetto al solito:
aiutare il cliente a strutturare la propria vita tra una seduta e l'altra, proporre
attività alternative, argomenti che possano facilitare le capacità di coping
non hanno valore solo per il contenuto, ma anche perché sono utili a
sottolineare la presenza del terapeuta, ad ancorare il cliente alla realtà.
Tutto questo avviene però all'interno dello schema di riferimento del
cliente: entrare con lui nella sua solitudine, accompagnarlo in quella grotta
profonda e terrifica così che possa condividere questa parte della sua
esistenza. Questo può avvenire attraverso la trasparenza del terapeuta, ma
una trasparenza centrata sul cliente e il suo schema di riferimento ("Fuori da
lì, da quell'angosciate disperazione, c'è chi tiene a te").
Con una cliente che aveva già tentato due volte il suicidio e che aveva iniziato
la terapia durante il ricovero in clinica psichiatrica, ho avuto più volte forte la
sensazione che avrei avuto poche possibilità di aiutarla a vivere. Questo è
stato vero finché non ho detto a me stessa che questa scelta non dipendeva
da me, ma da lei; finché non mi sono sentita libera dalla responsabilità per la
sua vita e ho potuto essere, piuttosto, responsabile verso di lei. Questa sottile
ma fondamentale differenza, come George De Rita, allora mio supervisore,
mi ha aiutato a comprendere, mi ha permesso di chiarire le ragioni di tanto
mio interesse e per farlo ho avuto bisogno di tempo, il tempo di fare spazio
per lei dentro di me. Non uno spazio asettico e anonimo pronto per "il
cliente", ma uno spazio su misura per lei, che avesse le sue forme, i suoi
colori e i suoi suoni. Allora ci siamo potute dire questo.
T. «Cosa succede in quel momento?».
C. «Sono sola».
T. «E cosa c'è in questa solitudine?».
C. «C’è freddo».
T. «Allora io sarò lì con te e ti accenderò un fuoco».
Davvero avrei voluto poter fare questo per lei e non avevo altro modo di
dirlo se non attraverso le sue parole, i suoi sentimenti, i suoi pensieri, il suo
mondo, vale a dire il suo schema di riferimento. Forse, le mie parole,
avrebbero potuto esserle di compagnia nel momento in cui si sarebbe
ritrovata a pensare che valeva la pena farla finita e avrebbero potuto farla
sentire meno isolata e sola nel suo dolore. Si sarebbe trattato di parole calde,
utili per scaldare il freddo della morte.
Questo modo di lavorare, basato sulla costruzione di una trama
relazionale e di pensiero che si avvicina alla modalità del sincretismo
delirante, è ciò che più richiama l'incomunicabilità della morte, l'unica
esperienza che non può essere condivisa. Per questo motivo possiamo
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accostarci più efficacemente al mondo dell'altro grazie all'uso delle metafore,
dei paradossi e di tutto ciò che non è razionalizzabile. Stiamo cercando di
condividere un'esperienza che non ha parole e non possiamo verbalizzare
ciò che non lo è. Al contempo, è principalmente con le parole che possiamo
stare con, con-dividere. Allora possiamo richiamarci a quel significato altro
che le parole hanno, un significato che si colora di emozioni, sensazioni e
ricordi spesso non detti e non dicibili. E coi ricordi, con la memoria di ciò che
è stato, possiamo aiutare il cliente a ritrovare la propria storia, a fare i conti
con un passato che, deprivandolo di parti di sé reali e fantasmatiche, lo ha
portato ad essere ciò che è attualmente. Potrà, forse, elaborare il lutto di ciò
che non è stato e fare il funerale non a se stesso ma ai propri desideri e
bisogni mai soddisfatti, per poter rinascere ad una nuova vita, più reale e
veritiera che nulla ha a che fare con ciò che dovrebbe essere ma con ciò che
è.
Conclusioni
«Rispettiamo la sua capacità e il suo diritto di orientarsi da solo o pensiamo
che in fondo la sua vita sarebbe molto meglio guidata da noi?» (Rogers, 1970,
p. 83).
«Posso essere forte abbastanza, come persona, da essere profondamente
rispettoso dei miei sentimenti, dei miei bisogni, così come dei suoi?» (Rogers,
1970, p. 81 ).
«Nell'organismo c'è una tendenza fondamentale a realizzare, conservare e
sviluppare l'organismo stesso e la sua esperienza vissuta» (Rogers, 1951, trad.
it. p. 31 7).
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