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iraQ
Il video choc e l’errore fatale dello Stato Islamico
Il filmato dell’uccisione di un secondo ostaggio americano, Steven Sotloff, e
l’annuncio di un terzo britannico, rappresentano una provocazione che verrà
probabilmente raccolta dagli USA
“Sono tornato, Obama, e lo sono di nuovo a causa della vostra politica estera arrogante
nei confronti dello Stato Islamico, nonostante i nostri avvertimenti […] Cogliamo l’occasione per mettere in guardia i governi che entrano in quest’alleanza del male dell’America
contro lo Stato islamico di fare marcia indietro e lasciare il nostro popolo da solo […] Proprio come i missili continuano a colpire il nostro popolo, il nostro coltello continuerà a recidere le gole del tuo popolo”.
Sono alcune delle frasi sconcertanti pronunciate dall’autore del presunto videomessaggio
da parte dello Stato Islamico, “intercettato” da Site intelligence, un gruppo privato americano che fornisce consulenze al governo e offre servizi come il monitoraggio su internet
delle attività jihadiste e dei possibili nemici dell’America.
Il presidente Obama non ha voluto rilasciare commenti e non lo farà prima che l’intelligence USA ne accerti l’autenticità. Il comandante in capo, chiamato in causa dallo stesso
boia di Steven Sotloff (la vittima dell’esecuzione), in queste ore è in Estonia per discutere
di un altro fronte caldo, quello dell’Europa orientale, dove la guerra civile ucraina si sta velocemente tramutando in un inatteso braccio di ferro NATO-Russia.
La storia si ripete
In termini crudi e distaccati, potremmo affermare che il copyright dei video scioccanti
contro l’America appartenga al gruppo terroristico Al Qaeda. Osama Bin Laden, che ben
conosceva il popolo americano, sapeva che per spaventarli e fare breccia nelle loro coscienze
serviva un po’ di “Hollywood”, pur restando nell’ambito della minaccia credibile e reale,
da avvalorare con il sangue.
Come noto, lo Stato Islamico (IS) ne tempo ha dirazzato da Al Qaeda e se ne è progressivamente allontanato. Ciò nonostante, dall’organizzazione terroristica internazionale ha ereditato alcune cose. Ad esempio, ha mutuato il concetto del “terrore” come forma di controllo
e dimostrazione del potere. Significativo, dunque, che IS oggi riprenda lo stile qaedista per
minacciare gli Stati Uniti: questa serie di video certifica che lo Stato Islamico si trova per la
prima volta in difficoltà e in sofferenza e, logicamente , gioca la carta della paura.
Il cambio di strategia di IS
Dalla conquista di porzioni di territorio in Iraq e Siria alla fondazione del Califfato Islamico sotto la guida di Abu Bakr Al Baghdadi e fino a che gli Stati Uniti non hanno bombardato in Iraq, nessun membro dello Stato Islamico si era minimamente preoccupato di
minacciare o anche solo considerare gli Stati Uniti come un nemico o un obiettivo da abbattere. Nel primo – e unico – discorso pubblico del Califfo nella Moschea di Mosul, non
v’è traccia di riferimenti agli USA e all’Occidente. Anche perché, al tempo, la guerra era
ancora un affare regionale, tra l’Islam sunnita cui appartiene Al Baghdadi e quello sciita di
Assad in Siria e del governo iracheno a Baghdad.
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I bombardamenti americani e le gole tagliate in tutta risposta, rappresentano invece una
novità e dimostrano un cambio di rotta nella politica degli jihadisti sunniti. Ormai, infatti,
la loro minaccia non è più rivolta solo agli sciiti e agli altri “infedeli” che occupano le terre
dell’Islam, ma coinvolge direttamente tanto l’America quanto il Regno Unito.
L’errore fatale dello Stato Islamico
Ed è proprio questo l’errore fatale appena compiuto dal Califfato, che prelude a un intensificarsi del conflitto e che presto potrebbe portare alla sua stessa fine. Tutti si sono stupiti
della rapidità e della capacità di IS nel muovere guerra a più nemici contemporaneamente
e conquistare enormi porzioni di territorio. Questo anche perché gli analisti occidentali ragionavano ancora in termini di Al Qaeda. Ma la sostanziale differenza tra Stato Islamico e
Al Qaeda è consistita sinora nel fatto che, mentre i secondi puntavano al terrore globale e
a compiere atti simbolici come le Torri Gemelle, lo Stato Islamico si è invece concentrato
sulla conquista territoriale.
Finché il conflitto è rimasto in questi termini, IS ha prodotto risultati tangibili e ha potuto
proliferare fino a creare uno Stato con tanto di capitale, Mosul. Ma l’aver rivolto i propri
sforzi anche verso il Kurdistan – che per parte sua lotta da sempre per avere uno Stato indipendente quale oggi non è – ha smosso le acque e gli interessi dei Paesi vicini.
La coalizione internazionale
Lo Stato Islamico sarebbe potuto essere considerato dai curdi come un nuovo alleato,
avendoli liberati dal giogo del governo iracheno. E l’IS avrebbe potuto riconoscere il Kurdistan e considerarlo come uno Stato-cuscinetto tra il Califfato e l’Iran. Ma il fanatismo e le
differenze settarie hanno prodotto invece l’apertura di un nuovo fronte, che IS non ha probabilmente la capacità di frenare. A ciò si aggiungano le insofferenze di Iran e Turchia. Con
la conseguente decisione di Obama di scendere in campo per limitare gli altri attori regionali e dimostrare – anche alla Russia – quanto Washington sappia colpire duro quando vuole, lo Stato Islamico ha forse dato il via alla sua sconfitta.
Dal Tonchino a Pearl Harbour passando dall’11 settembre alle armi chimiche, storicamente agli USA serve sempre un casus belli per ottenere il consenso del popolo a smuovere
la loro gigantesca macchina bellica. Per il popolo americano, infatti, un conto è giustificare
la guerra in ragione di prove incerte come le armi chimiche (tanto in Iraq quanto in Siria),
un’altra è vedere un proprio connazionale vilmente sgozzato per ritorsione. Agli americani,
insomma, non piace proprio essere minacciati e questo episodio non farà altro che alimentare l’ira funesta di Washington, che non a caso ha annunciato di stare predisponendo una
coalizione internazionale per terminare il lavoro. Vi ricorda qualcosa?
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libia
La Libia si aggrappa ancora una volta ad Al Thinni
La Camera dei Rappresentanti ha affidato per l’ennesima volta ad Abudllah
Al Thinni l’incarico di formare un governo di transizione. Ma senza l’intervento
militare di una forza straniera riprendere il controllo di Tripoli non sarà semplice
Dopo i video disarmanti che nei giorni scorsi hanno mostrato sul web la devastazione dell’ambasciata americana di Tripoli da parte delle milizie islamiste di Fajr Libya (Alba Libica),
ieri il parlamento libico ha provato a rialzare la testa. Da Tobruk, dove da ormai oltre un mese
è confinata per motivi di sicurezza, la Camera dei Rappresentanti ha assegnato ad Abdullah
Al Thinni il difficile compito di formare un nuovo governo. Il portavoce del parlamento Faraj
Hashem, citato da Libya Herald, ha spiegato che Al Thinni ha due settimane di tempo per
mettere insieme un nuovo esecutivo che dovrà essere composto da 8 o al massimo 10 ministri.
Favorito della vigilia in una rosa di 5 candidati, Al Thinni avrebbe già pronta la lista dei nomi,
che però al momento non è stata diffusa.
Il 29 agosto, il governo ad interim guidato dallo stesso Al Thinni si era dimesso proprio per
consentire al parlamento di nominare un nuovo esecutivo di transizione in attesa delle prossime elezioni. Messo alle strette dall’avanzata delle milizie islamiste a Tripoli, il parlamento libico ha dunque deciso di affidarsi ancora una volta ad Al Thinni, che tra alterne vicende di
fatto continua a essere alla guida del Paese da quando lo scorso 11 marzo venne scelto per
prendere il posto dello sfiduciato Ali Zeidan. In questi sei mesi è uscito e rientrato nella scena
politica nazionale più volte, evitando anche di essere scavalcato dall’islamista Ahmed Maetig,
la cui nomina è stata giudicata irregolare a inizio giugno dalla Corte Suprema di Tripoli.
Dunque alla fine Al Thinni ha avuto ancora una volta la meglio. Ieri è stato votato da 64 parlamentari su 106. In attesa della nomina di un nuovo presidente, il mese scorso la Camera dei
Rappresentanti si è autoconferita i poteri presidenziali, passaggio che adesso gli permette di
nominare il primo ministro con un semplice voto di maggioranza.
Lo scenario che si presenta di fronte al nuovo premier non è affatto migliorato rispetto ai mesi
scorsi. Sul piano istituzionale, la Camera dei Rappresentanti dovrà in qualche modo fare i conti
con la presenza dell’ex Congresso Generale Nazionale, il cui reinsediamento è stato annunciato
una settimane fa dalle milizie di Misurata e il cui primo ministro, Omar al-Hassi, ha dichiarato
che insieme alle forze islamiste del Paese di formare un “governo di salvezza nazionale”.
Sul fronte della sicurezza bastano le parole dello stesso Al Thinni per inquadrare la situazione che si vive attualmente a Tripoli. Ieri il premier ha confermato che l’esecutivo uscente non
aveva più il controllo delle sedi dei ministeri e delle altre istituzioni governative della capitale.
Ed è difficile credere adesso che con una nuova squadra di ministri al suo fianco il primo ministro riuscirà in poco tempo a ristabilire l’ordine in città.
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Fajr Libya, l’alleanza in cui si sono raggruppate nelle ultime settimane diverse milizie islamiste, dal 22 agosto ha annunciato di aver preso il controllo dell’aeroporto di Tripoli respingendo almeno per ora le offensive delle milizie di Zintan. Bollata come gruppo terrorista al
pari di Ansar Al Sharia, che invece mantiene il predominio nella maggior parte di Bengasi, Fajr
Libya rappresenta in questo momento il principale ostacolo per il ripristino dell’ordine nella
capitale. Stando a una notizia dell’ultim’ora battuta dall’agenzia Mena violenti combattimenti
sono riesplosi nei pressi dell’aeroporto Benina di Bengasi. Il bilancio è di almeno 25 morti, 14
tra le forze fedeli a Khalifa Haftar, 11 tra le milizie di Ansar al Sharia e dei gruppi alleati.
Con gli USA e le altre forze occidentali che ormai da mesi hanno abbandonato il Paese
(fatta eccezione per l’Italia che mantiene la propria ambasciata), e con Egitto ed Emirati Arabi
scomparsi dai radar dopo i presunti raid aerei effettuati su Tripoli contro le milizie islamiste,
per Al Thinni si prospetta un nuovo mandato pieno di insidie. A meno che qualcuno non decida a breve di intervenire militarmente per salvare quanto resta di una nazione che dal giorno
della destituzione del Colonnello Gheddafi non ha più conosciuto un giorno di pace.
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alGeria
Epurato Belkhadem, uomo di fiducia del presidente
Bouteflika
Licenziato Abdelaziz Belkhadem, consigliere politico del presidente algerino.
Capo dell’opposizione all’interno del partito di governo Fronte di Liberazione
Nazionale, paga per la troppa ambizione e per i rapporti ravvicinati
con l’ex premier Ali Benflis
Cogliendo tutti di sorpresa, il 26 agosto il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika ha licenziato Abdelaziz Belkhadem, ministro di Stato e consigliere speciale della Presidenza della
Repubblica. Più che licenziato, sarebbe meglio dire che Belkhadem è stato cancellato dalla
scena politica algerina, segno che quello di Bouteflika non è stato un normale provvedimento disciplinare.
Classe 1945, membro del partito di governo FLN (Fronte di Liberazione Nazionale), Belkhadem deve al presidente Houari Boumediene il suo ingresso in politica. Nel 1972 inizia
la sua carriera con la nomina a direttore aggiunto alla Presidenza della Repubblica per le
relazioni internazionali. Alla fine degli anni Ottanta diventa vice-presidente e poi presidente
dell’Assemblea Popolare Nazionale. Ministro degli Esteri con Bouteflika (2000-2005), viene
poi eletto segretario generale del partito. Nel 2006 diventa capo di governo, poi rimpiazzato
nel 2008 da Ahmed Ouyahia per essere nominato ministro di Stato e rappresentante personale del presidente. Nuovamente alla guida del FLN dal 2010 al 2013, viene poi richiamato,
alla vigilia delle ultime presidenziali, nel gabinetto politico di Bouteflika.
Le ragioni della sua improvvisa epurazione non sono state rese note nel comunicato attraverso cui è stata ufficializzata la fine del suo mandato. Queste ragioni hanno però sicuramente a che fare con la crisi interna al FLN (Fronte di Liberazione Nazionale), il partito
del presidente Bouteflika al cui interno lo scorso anno si è registrata una profonda spaccatura tra i sostenitori dell’attuale segretario generale Amar Saadani e i seguaci di Belkhadem,
per il quale è stata rivendicato un ritorno alla leadership del movimento.
Belkhadem è stato sospeso da ogni attività legata al FLN e interdetto da ogni altra istituzione politica e statale, a dimostrazione della volontà di Bouteflika di “disfarsi” definitivamente del suo ex consigliere. Voci non confermate hanno fatto riferimento in questi giorni
alla presunta intenzione di Belkhadem di candidarsi alle ultime elezioni presidenziali, scelta
che evidentemente gli fu sconsigliata dal momento che poi non apparve nella rosa dei candidati che sfidarono Bouteflika. A tradirlo sarebbe stata dunque l’ambizione di considerarsi
il legittimo successore del presidente. Una convinzione motivata dal fatto che in questi anni
a lungo è stato al suo fianco, spesso facendone le veci a causa delle sue precarie condizioni
di salute.
Stando invece alle dichiarazioni dell’addetto stampa del FLN, Saïd Bouhadja, Belkhadem
avrebbe invece commesso una serie di imperdonabili errori sul piano politico e istituzionale,
errori che gli sarebbero valsi la definitiva “scomunica” da parte di Bouteflika. I primi passi
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falsi li avrebbe compiuti nel momento in cui ha cercato di sfruttare a proprio favore la crisi
interna al partito. Mentre la goccia che ha fatto traboccare il vaso sarebbe stata la sua partecipazione a una conferenza indetta dal Fronte del Cambiamento in cui erano riuniti i
maggiori gruppi di opposizione. In quell’occasione Belkhadem sedeva proprio a fianco del
nemico giurato di Bouteflika, il suo rivale alle ultime presidenziali Ali Benflis.
Mettendo da parte i retroscena, resta il fatto che sebbene il decreto presidenziale sia sufficiente per licenziare Belkhadem dal suo incarico istituzionale, lo stesso non può dirsi per
la sua permanenza all’interno del partito. Il Fronte di Liberazione Nazionale, come le altre
formazioni politiche, dispone di un regolamento interno e di uno statuto che prevedono
anche sanzioni disciplinari per i suoi membri, ma solo la commissione disciplinare può decretare la radiazione dal partito. Qualora la proposta di radiazione nei confronti di Belkhadem dovesse essere accettata (la direzione del partito dovrebbe riunirsi entro questa
settimana), si tratterebbe del primo caso nella storia del partito. Un caso che rischia adesso
di alimentare ancora di più il malcontento da parte di chi già vede in Bouteflika un ostinato
accentratore di potere. E che potrebbe suonare da campanello d’allarme per molti altri funzionari del governo, che pur di evitare l’epurazione presto potrebbero rivedere la loro posizione e pensare all’opportunità di tradire il presidente algerino.
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UCraina
Accordo per il cessate il fuoco. Putin spiazza Obama
e la NATO
Telefonata tra il presidente russo e Petro Poroshenko, trovata l’intesa per una
tregua permanente a Donetsk e Luhansk. Obama e la NATO potrebbero essere
costretti a rivedere il piano di rafforzamento militare ai confini con la Russia
Mettere in ombra il viaggio di Obama nei Paesi Baltici e assicurarsi la titolarità della risoluzione del conflitto nell’est dell’Ucraina. Con una telefonata al presidente ucraino Petro Poroshenko Vladimir Putin è riuscito poche ore fa a centrare entrambi gli obiettivi. Putin ha
chiamato il collega ucraino proponendogli un cessate il fuoco permanente nell’area del Donbass, polveriera dell’est dell’Ucraina dove si trovano le regioni separatiste filorusse di Donetsk
e Luhansk. Poroshenko ha accettato immediatamente l’offerta diffondendo tramite il proprio
ufficio stampa una nota dai toni conciliatori. “I due presidenti – si legge nel comunicato – hanno concordato reciprocamente i passi necessari da compiere per arrivare alla pace”.
Il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha però tenuto a sottolineare che si è trattato solo di
uno scambio di opinioni tra i due presidenti nell’ottica di un possibile accordo sulle misure da
adottare per una rapida conclusione dei combattimenti tra l’esercito ucraino e le milizie ribelli
nel sud-est del Paese. Precisazione d’obbligo considerato che – ha evidenziato Peskov – il conflitto è una questione esclusivamente ucraina.
Dunque le parti evitano di sbilanciarsi eccessivamente almeno per ora, anche se appare ormai
chiaro che con questa telefonata una sterzata c’è stata. E pochi minuti fa sul sito della presidenza
ucraina la formula “cessate il fuoco permanente” è stata sostituita con “regime di cessate il fuoco”. In attesa di capire quali saranno i risvolti concreti dell’intesa, Putin porta a casa un risultato
importante rubando la scena a Obama. Il presidente americano era atterrato questa mattina a
Tallin per rassicurare i leader dei Paesi Baltici sul sostegno militare della NATO – a cui Estonia,
Lettonia e Lituania aderiscono dal 2004 – in caso di una possibile violazione dei loro confini
da parte dell’esercito russo. Se ne riparlerà domani e venerdì in Galles, dove è in programma
un vertice dell’Alleanza nel corso del quale si discuterà la proposta di organizzare una forza
militare di reazione rapida composta da 4.000 tra soldati e commandos, in grado di essere schierata entro 48 ore in qualsiasi Stato membro confinante con la Russia.
A questo annuncio ieri Mosca aveva reagito alzando i toni con il suo vice segretario del consiglio di sicurezza Mikhail Popov. Il Cremlino, aveva spiegato Popov, non esiterà a modificare
entro la fine del 2014 la propria dottrina militare per bilanciare il rafforzamento delle truppe
NATO ai confini con la Russia. “L’aumento di truppe e armamenti ai confini con la Russia rappresenta una reale minaccia militare per la Federazione Russa – sottolineava Popov -. Queste
azioni non fanno altro che causare un deterioramento delle relazioni con la Russia. Gli Stati
Uniti intendono rafforzare i propri presidi negli Stati Baltici. Hanno già deciso di trasferire
armi pesanti e attrezzature militari, tra cui carri armati e veicoli blindati, in Estonia. E tutto
questo accade vicino al confine con la Russia. Tutto ciò va a discapito dello sviluppo comune
di un sistema di difesa missilistica globale e dell’elaborazione di nuove armi”. Popov aveva poi
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analizzato anche i possibili scenari militari in Crimea. “Ogni aggressione contro la Crimea – ha
sottolineato – è un’aggressione contro la Russia. Le nostre unità militari in Crimea sono autosufficienti e perciò in grado di respingere un attacco da parte di potenziali aggressori”.
Le parole focose di Popov hanno in seguito lasciato campo libero alla strada del dialogo tracciata da Putin. L’accordo per un cessate il fuoco nel Donbass – area da preservare, è bene ricordarlo, perché è qui che pulsa il cuore dell’industria pesante del Paese ed è da qui che deriva
circa il 20% della produzione economica ucraina – dovrebbe gradualmente portare a uno stemperamento delle tensioni.
Negli ultimi giorni l’esercito di Kiev ha subito molte perdite nel corso delle offensive delle milizie ribelli in diversi punti delle regioni di Luhansk e Donetsk e più a sud nei pressi del porto
di Mariupol. Circa 100 soldati delle truppe regolari sarebbero stati uccisi mentre lasciavano la
città di Ilovaysk, traditi secondo Kiev dai separatisti che avrebbero violato un accordo di tregua
concordato lo scorso fine settimana. Mosca negli ultimi giorni ha più volte respinto le accuse di
aver inviato uomini, mezzi ed equipaggiamenti militari oltre il confine per sostenere i filorussi.
Per l’est dell’Ucraina un accordo per un cessate il fuoco permanente sarebbe pertanto ossigeno puro, dopo un conflitto che da aprile ad oggi ha causato quasi 2.600 vittime e costretto
più di un milione di persone ad abbandonare le proprie abitazioni e a riparare in buona parte
in Russia (circa 800mila). Il pallino del gioco adesso è nelle mani di Putin, mentre Obama e la
NATO dovranno stabilire in fretta come reagire a questa mossa: temporeggiare nella speranza
che la tregua entri in vigore, oppure andare a un rischioso scontro aperto con Mosca.
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mozambiCo
Il ritorno di Dhlakama. Accordo di pace tra FRELIMO
e RENAMO
Dopo due anni in clandestinità il leader dell’opposizione torna a Maputo
e firma l’accordo per il cessate il fuoco con il governo. Il premier Renzi:
"Gli italiani sono stati decisivi"
Svolta decisiva nel conflitto che da anni in Mozambico vede contrapposti il partito di governo FRELIMO (Fronte di Liberazione del Mozambico, formazione di ispirazione marxista) e i ribelli di RENAMO (Resistenza Nazionale Mozambicana). Dopo due anni di latitanza,
il 4 settembre il leader dell’opposizione Afonso Dhlakama (nella foto) è rientrato nella capitale Maputo e il 5 settembre ha firmato l’accordo per un cessate il fuoco permanente con
il presidente del Mozambico Arnando Guebuza, dando così continuità ai positivi colloqui
che si erano tenuti tra le parti nel mese di agosto.
Per il suo arrivo a Maputo il leader di RENAMO è stato accompagnato da una delegazione
di diplomatici stranieri. Dhlakama era fuggito da Maputo accusando il governo di aver violato i termini del patto di pace del 1992 che aveva posto fine a 15 anni di conflitto che hanno
causato la morte di circa un milione di persone. In quel conflitto, scoppiato nel 1975 dopo
che FRELIMO aveva assunto il potere a seguito dell’indipendenza ottenuta dal Portogallo,
Dhlakama ha combattuto in prima linea. Rifugiatosi alla fine del 2012 tra le montagne Gorgosaurus, da qui ha guidato la resistenza degli uomini al suo comando contro le offensive
dell’esercito governativo. In questi anni l’insurrezione a bassa intensità dei miliziani di RENAMO ha tenuto in apprensione il governo centrale di Maputo, ostacolando il progresso
economico del Mozambico incentrato principalmente sullo sfruttamento dei suoi ricchi giacimenti petroliferi.
Al suo arrivo all’aeroporto di Maputo Dhlakama è stato accolto calorosamente da miglia
di suoi sostenitori, di fronte ai quali ha annunciato di essere pronto a candidarsi alle elezioni
presidenziali e parlamentari che si terranno a metà ottobre. “Il 15 ottobre voglio che questa
stessa folla voti per me”, ha affermato prima di recarsi al suo quartier generale. La corsa per
la carica di presidente si prevede però molto difficile per il leader di RENAMO, mai vittorioso alle elezioni dal 1994 all’ultima tornata del 2009, quando ha ottenuto il suo peggior
risultato fermandosi al 16%. Con Guebuza impossibilitato a ricandidarsi per aver effettuato
due mandati consecutivi, il candidato di FRELIMO per le presidenziali sarà l’ex ministro
della Difesa Felipe Nyusi. Per lui la strada verso la vittoria appare spianata. Il ritorno di Dhlakama dovrebbe permettere al Mozambico di avere elezioni pacifiche il mese prossimo, mentre per RENAMO le possibilità di vittoria restano molto ridotte.
Il ruolo dell’Italia in Mozambico
Chi ha seguito con particolare attenzione le vicende politiche del Mozambico è certamente l’Italia, da anni impegnata economicamente nel Paese africano.
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Da Newport, in Galles, dove il 3 e 4 settembre si è tenuto il vertice NATO, il premier italiano
Matteo Renzi ha affermato che “gli italiani sono stati decisivi” per far sì che l’intesa si concretizzasse. Renzi ha inoltre svelato che è stato il viceministro Carlo Calenda “ad andare in
moto nella foresta per incontrare gli esponenti del Renamo” in modo da favorire l’accordo.
Nel suo tour di incontri istituzionali in Africa a metà luglio il premier è partito proprio
con una visita a Maputo. Il Mozambico, d’altronde, è uno degli Stati africani con cui l’Italia
ha da anni ottimi rapporti diplomatici ed economici, dopo che nel 1992 fu proprio il nostro
Paese a condurre i colloqui di pace tra FRELIMO e RENAMO. Nonostante questo rapporto
consolidato, quella di Renzi è però stata la prima visita in Mozambico effettuata da un capo
di governo italiano. Nella capitale Maputo è stato accolto dal presidente del Mozambico Armando Guebuza, il quale ha definito eccellenti le relazioni tra i due Paesi definendosi soddisfatto per “il progressivo fiorire della cooperazione economica e per i legami d’affari tra
i due Stati”.
Il riferimento è rivolto a ENI, che qui da anni investe sull’esplorazione e sullo sfruttamento
di giacimenti di gas naturale, e che negli ultimi tre anni ha scoperto nuovi ricchi siti a largo
delle coste settentrionali del Paese. Il terreno per gli investimenti da parte delle imprese
energetiche italiane è dunque ancora molto fertile. Il Mozambico vanta infatti attualmente
alcune delle più grandi riserve di gas naturale al mondo, con circa 170 miliardi di metri
cubi sinora estratti. I riflettori in questo momento sono puntati sulle trattative in corso per
fissare l’inizio dei lavori che porteranno alla costruzione del primo impianto per lo sfruttamento di gas naturale liquefatto (GNL) entro il 2018. La partita è condotta da ENI e dalla
texana Anadarko, che attendono l’entrata in vigore delle nuove leggi che regoleranno il
settore per avviare l’opera. Il governo del Mozambico stima che solo nelle prime fasi sarà
necessario un investimento iniziale di 50 miliardi di dollari. “Siamo certi che questo investimento pagherà”, ha affermato in proposito il premier Renzi, aggiungendo che i “50 miliardi
di dollari verranno destinati non solo a questo progetto ma, più in generale, alla crescita
del Paese”.
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iraQ
Al Qaeda vs Is e il rebus delle alleanze
L’organizzazione terroristica di Al Zawahiri cerca affiliati nell’Asia popolata da
musulmani, mentre lo Stato Islamico combatte una guerra di posizione. L’Islam
sunnita è in guerra contro gli sciiti e contro se stesso
Tutti abbiamo visto i recenti video della decapitazione dei giornalisti americani James Foley
e Steven Sotloff, ad opera dello Stato Islamico (IS). Quelle immagini, terribili e potenti,
oltre ad aver turbato l’America e l’Occidente, hanno oscurato un altro video che, per contenuto e significato, non è meno preoccupante.
Non molta attenzione è stata posta dai media sul fatto che anche Al Qaeda ha prodotto un
video messaggio, destinato soprattutto alle popolazioni dell’Asia. Ormai antagonista del gruppo jihadista IS, dal quale si è pubblicamente discostata e che ormai gli contende la leadership
del “terrore islamico”, l’organizzazione responsabile degli attentati alle Torri Gemelle dell’11
settembre 2001 ha lanciato in rete un annuncio degno di nota.
In un video di ben 55 minuti postato online, Ayman Al Zawahiri, il terrorista egiziano che
ha raccolto l’eredità di Osama Bin Laden direttamente dalle sue mani, teorizza un nuovo
impegno di Al Qaeda in Asia meridionale, per “alzare la bandiera del jihad” nelle terre
d’Oriente.
Non a caso, il nome del gruppo di nuova formazione si chiama “Al Qaeda nel subcontinente indiano” e Al Zawahiri cita direttamente il Myanmar (Birmania), il Bangladesh e gli
stati indiani di Assam, Gujarat, Jammu e Kashmir, come luoghi di elezione delle nuove basi
qaediste nella regione. E lo fa esortando la Umma (comunità musulmana) a lottare “contro
i suoi nemici, per liberare la terra, ripristinare la sovranità e far rivivere il Califfato”.
Le motivazioni della svolta orientale
Il video messaggio cade in un momento storico di estrema difficoltà per Al Qaeda, ormai
oscurata dall’exploit dello Stato Islamico, che un Califfato lo ha teoricamente già costituito
a cavallo tra la Siria e l’Iraq e che oggi ha scalzato la formazione qaedista dal podio del “nemico pubblico numero uno” secondo la NATO e l’Occidente in genere. Ma questo non è
per forza vero in Oriente.
Si noti che l’India è il secondo Paese al mondo per presenza di musulmani (circa 177 milioni) insieme al Pakistan (circa 178 milioni) e al Bangladesh (circa 148 milioni), superati
solo dall’Indonesia (oltre 200 milioni). Ciò significa che Al Qaeda ha compiuto una scelta
strategica, consapevole e ragionata, dovuta tanto alla sua diminuita influenza in Medio Oriente quanto al fattore demografico.
Il bacino di potenziali jihadisti in Asia è, infatti, enorme. Soprattutto, se messo in relazione
con la crescita annuale della popolazione musulmana che, secondo alcuni studi (tra cui
l’americanoPew Forum on Religion and Public Life), nel 2030 crescerà del doppio rispetto
al resto degli abitanti del pianeta.
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A quella data, più di 6 musulmani su 10 abiteranno nell’Asia Pacifica (Cina, Australia e Sudest Asiatico), mentre il Pakistan - attuale base operativa di Al Qaeda e quasi certamente rifugio dello stesso leader Al Zawahiri - supererà l’Indonesia come nazione musulmana più
popolosa al mondo.
Con questa mossa, dunque, Al Qaeda dimostra di essere in aperta concorrenza con lo Stato
Islamico, il cui brand e la cui chiamata alle armi sono via via divenute più efficaci e attraenti
per una serie di ragioni, non ultima la concretezza nell’azione: IS al momento controlla interi
territori e città, mentre Al Qaeda vive nell’ombra, ha una rete impalpabile e il suo collante
principale resta l’ideologia.
Il linguaggio di Al Qaeda e di IS
Il modo di comunicare dello Stato Islamico attrae moltissimo i giovani, sempre più drogati
di tecnologia e avvicinati proprio grazie al web: il linguaggio di IS è chiaro, ammiccante, “social friendly” e “pop”, al punto che l’arruolamento cresce a livello internazionale anche in
Europa.
Anche questo va evidentemente a discapito di Al Qaeda, la cui leadership è ancora molto
anziana e teologicamente conservatrice. Motivo per cui l’emorragia di affiliazioni non si arresta e Al Zawahiri si vede per così dire “scippare” giorno dopo giorno le nuove leve funzionali a risollevare l’organizzazione.
Nel video diffuso ieri, il medico-terrorista parla in arabo e in Urdu - lingua nazionale in Pakistan e lingua ufficiale amministrativa in India - per due ragioni evidenti: farsi ben comprendere dal popolo dell’Islam che abita le regioni dell’Asia centrale e fargli sentire la propria
vicinanza. Nel suo discorso, inoltre, rinnova la fedeltà anche al leader afghano-talebano conosciuto come Mullah Omar: questo fatto sottolinea implicitamente una sfida diretta allo
Stato Islamico per le odierne e future alleanze orientali.
L’allarme terrorismo in Asia
I servizi d’intelligence e di sicurezza indiani stanno studiando il video di Al Zawahiri, definito “una questione di seria preoccupazione” che tuttavia non deve destare allarmi, almeno
secondo un portavoce dell’antiterrorismo.
È loro opinione che il video messaggio sia frutto anche degli ultimi accadimenti in Pakistan,
dove - abbiamo detto - si ritiene che il leader qaedista sia da anni rifugiato: laBBCriporta che,
in queste settimane, è emersa una frenetica attività da parte dei militanti pakistani legati allo
Stato Islamico, i quali stanno distribuendo opuscoli nelle lingue Pashto e Dari a Peshawar
(una sorta di “seconda capitale” del Pakistan), nei quali s’invita la popolazione a sostenere
la missione di IS per creare anche qui un Califfato Islamico.
Graffiti e adesivi di sostegno alla causa di IS, inoltre, hanno cominciato ad apparire anche
in periferia e in altri luoghi, insidiando così l’influenza e il potere di Al Qaeda persino in
questa zona, dove sinora la formazione di Al Zawahiri ha mantenuto un controllo capillare
e incontrastato.
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1-7 settembre 2014
La mappa delle alleanze
Per comprendere la mappa delle alleanze allo Stato Islamico e ad Al Qaeda, va tenuto conto
anzitutto di tre fattori: vi è un altissimo numero di formazioni jihadiste nel mondo, le cui dimensioni spesso sono molto ridotte; vi sono differenti condizioni politiche e socio-economiche tra Medio Oriente, Asia Centrale e Sudest Asiatico; sia Al Qaeda che lo Stato Islamico
appartengono all’Islam sunnita.
Ciò detto, la fragilità delle alleanze dipende in larga misura anche dalla volontà dei vari
leader jihadisti, i quali sono obbligati per prassi a prestare giuramento all’organizzazione di
appartenenza. Motivo per cui, morto un leader fedele ad Al Qaeda, il suo successore potrebbe
anche non seguirne le orme e scegliere di affiliarsi al “concorrente” Stato Islamico, facendo
una semplice dichiarazione pubblica di fedeltà. Cosa che è avvenuta in più occasioni, a cominciare proprio da ISIS, precursore dello Stato Islamico, sconfessato dallo stesso Al Zawahiri
per aver “disobbedito agli ordini”.
L’attuale elenco dei principali affiliati ufficiali ad Al Qaeda, su cui Al Zawahiri stima di
poter contare, si ritiene che includa: Al Qaeda nella Penisola Araba (AQAP, che opera soprattutto in Yemen), Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM, soprattutto nel Nord Africa),
Al-Shabab (soprattutto in Somalia), Jabhat Al-Nusra (operativo in Siria, ma attualmente alleato di IS nella lotta contro il regime di Assad), le formazioni talebane che rispondono al
Mullah Omar (in Afghanistan e Pakistan).
Gli affiliati allo Stato Islamico sarebbero, invece: Jemaah Islamiyah (Indonesia, dove l’influente leader Abu Bakar Bashir ha giurato fedeltà, tradendo la storica alleanza con Al Qaeda), gli scissionisti di Abu Sayyaf (o al-Harakat al-Islamiyya, nelle Filippine), Ansar Bayt
al-Maqdis (ABM, in Egitto, anche se non vi sono dichiarazioni formali in tal senso), Boko
Haram (Nigeria, dove il leader Abubakar Shekau farnetica di un Califfato indipendente).
Più complessa è la rete di alleanze nel resto dell’Africa, particolarmente in Libia e Tunisia,
dove Ansar al-Sharia non chiarisce la propria posizione, pur se afferma di puntare all’istituzione locale di un Califfato Islamico.
Conclusioni
Quello che occorre sottolineare, da ultimo, è che le due realtà dell’Islam sunnita divergono
nell’approccio: Al Qaeda si comporta come un’organizzazione terroristica, mentre lo Stato
Islamico agisce come un vero e proprio esercito, che intende vincere la guerra nella regione.
I recenti avvenimenti in Siria e in Iraq, infatti, dimostrano che l’IS più che un brand terroristico è una vera e propria forza armata con finanziamenti, logistica e strategie molto professionali. Il che porta a ritenere che, almeno nella sua parte irachena, il Califfato sia
costituito da una grossa base di ex militari ed ex membri del partito Baath iracheno.
Gli stessi che hanno combatutto contro gli Stati Uniti durante l’occupazione (provocando
oltre 5mila morti americani) e gli stessi che, dopo tre anni di governo a Baghdad a dominanza
sciita, hanno approfittato della crisi siriana per uscire allo scoperto e regolare i conti con
quella maggioranza sciita che, uscita vincente dalle elezioni, ha del tutto emarginato la parte
sunnita della popolazione abituata ai tempi di Saddam Hussein, a incarnare il ruolo di classe
dirigente del Paese.
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1-7 settembre 2014
La guerra di reclutamento, insomma, è al suo massimo storico e ciò potrebbe preludere
da un lato a nuove ondate di attentati dimostrativi, dall’altro a una saldatura e una radicalizzazione di numerose battaglie in altre parti del pianeta. Fatto assai preoccupante dal momento che, all’Islam sunnita in guerra aperta con se stesso, si sovrappone anche il massacro
senza quartiere tra sciiti e sunniti.
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1-7 settembre 2014
liberia
Ebola: ecco cosa sta realmente accadendo
in Africa Occidentale
Tutto ciò che c’è da sapere sul virus che ha provocato oltre 2mila vittime negli
ultimi mesi: le cause della diffusione della febbre emorragica e le precauzioni
da prendere in caso di soggiorno nei Paesi interessati
Da quando sul finire del 2013 sono stati via via segnalati casi di febbre emorragica provocata
dal virus Ebola in Africa Centrale e Occidentale (Guinea, Liberia, Sierra Leone, Nigeria e
da ultima Repubblica Democratica del Congo), sulla stampa internazionale sono comparse
analisi molto preoccupate circa la morbilità dell’epidemia e i suoi effetti potenzialmente devastanti sulle popolazioni africane interessate e sull’ampio numero di residenti stranieri nel
Continente.
È bene sottolineare che la tendenza al sensazionalismo della stampa occidentale, spesso
sollecitata da incauti comunicati stampa provenienti da quella stessa Organizzazione Mondiale della Sanità che nel 2009-2010 ha costretto l’Italia a spendere oltre 220 milioni di euro
per acquistare i vaccini contro un’influenza, la AH1N1, dimostratasi alla prova dei fatti meno
pericolosa di quanto stimato, ha indubbiamente fino ad oggi “gonfiato” il problema Ebola
dandone un’immagine molto più pericolosa di quanto non appaia nella realtà.
Cos’è Ebola
Con il termine di Ebola si definisce una febbre emorragica molto grave causata da un virus
scoperto nel 1967 e che ha causato nell’allora Zaire (l’attuale Repubblica Democratica del
Congo) la prima epidemia localizzata con contagio di esseri umani. Si ritiene che il virus viva
indisturbato nel sangue di alcune razze africane di pipistrelli (le volpi volanti), che potrebbero a loro volta aver infettato scimmie congolesi. Il primo contagio umano sarebbe avvenuto
a causa dell’abitudine di alcune popolazioni locali di cibarsi di scimmie che a posteriori si
sono dimostrate infette.
La febbre emorragica da Ebola è una malattia dal decorso molto rapido. Dopo un periodo
di incubazione variabile da 2 a 20 giorni (durante il quale il malato non è contagioso), si sviluppa in modo molto rapido determinando la morte di circa il 50% dei pazienti colpiti. I
primi sintomi sono quelli di un’influenza molto grave, con febbre, dolori muscolari, cefalea,
spossatezza. Con il progredire dell’infezione e il diffondersi del virus all’interno dell’organismo iniziano sintomi più specifici determinati dalle diffuse micro emorragie che colpiscono
quasi tutti gli organi del corpo umano come petecchie cutanee, emorragie gastrointeriche,
setticemia.
A differenza delle sindromi influenzali classiche, durante le quali il contagio si diffonde
prevalentemente attraverso le vie aeree con colpi di tosse o starnuti, nel caso dell’Ebola non
vi è trasmissione per via aerea. Il contagio si diffonde esclusivamente a seguito del contatto
diretto con fluidi corporei degli ammalati (muco, sangue, urina, feci, sperma, liquidi vaginali). Queste modalità di diffusione spiegano da un lato perché la febbre da Ebola si diffonda
in modo limitato e dall’altro perché tra le sue vittime figuri un’alta percentuale di personale
sanitario: fino ad oggi sono stati infettati nei focolai africani circa 240 medici e paramedici,
120 dei quali sono morti.
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1-7 settembre 2014
Uno dei principali motivi di diffusione dell’Ebola nelle comunità africane è dato dall’abitudine delle famiglie di compiere lavaggi rituali sui cadaveri dei deceduti per la malattia.
Questo porta a una frequente altissima contaminazione diretta di intere comunità famigliari.
Per limitare il contatto con gli ammalati il governo della Sierra Leone ha da qualche settimana emesso una legge che considera reato penale tenere in casa un ammalato di Ebola.
Ebola quindi può definirsi una malattia virale molto grave che uccide un’alta percentuale
di pazienti e rispetto alla quale ancora non esistono terapie specifiche. I dati epidemiologici,
visto che la malattia è presente in un’area abitata da diverse centinaia di milioni di persone,
non sembrano particolarmente allarmanti per quanto riguarda le sue capacità di diffusione.
Fino ad oggi si sono infatti registrati in Guinea, Sierra Leone, Liberia e Nigeria circa 3.950
casi di malattia con quasi 2.100 morti. Negli ultimi giorni di agosto sono stati segnalati alcuni
sporadici casi di febbre emorragica nel nord ovest della Repubblica Democratica del Congo,
a 1.200 chilometri dalla capitale Kinshasa. Il primo occidentale contagiato è un cittadino britannico colpito dalla febbre a metà agosto mentre lavorava in un centro per il trattamento
del virus nella città di Kenema, nella Sierra Leone.
In sostanza, la febbre emorragica da virus Ebola colpisce in grandissima percentuale chi
ha contatti ravvicinati di qualsiasi natura con gli ammalati e chi per motivi religiosi ne manipola i cadaveri. Ebola da un punto di vista epidemiologico è molto meno pericolosa quanto
a capacità di diffusione delle influenze stagionali, i cui virus diffondendosi per le vie aeree si
“muovono” con più rapidità e facilità di quello dell’Ebola. In pochi mesi l’influenza spagnola
del 1919 si diffuse in tutto il mondo causando oltre 50 milioni di morti. Dal 1976, anno della
sua prima comparsa, il virus dell’Ebola ha causato non più di 5.000 vittime senza varcare i
confini dell’Africa Centrale e Occidentale. Gli unici occidentali colpiti dalla febbre emorragica sono stati medici e infermieri operanti in Africa.
Precauzioni in caso di soggiorno nelle aree interessate
A differenza delle pestilenze che colpirono l’Europa nel 1.300 e nel 1.600 diffondendosi
rapidamente e uccidendo decine di milioni di persone, il virus Ebola come abbiamo visto
non ha un alto tasso di morbilità. Vivere e lavorare in aree nelle quali sono stati segnalati casi
di febbre emorragica non vuol dire essere esposti automaticamente al rischio del contagio.
Questo avviene soltanto con un contatto molto “ravvicinato” con gli ammalati e anche in tal
caso l’adozione di elementari misure di igiene rende più difficile l’esposizione alla malattia.
La quasi totalità degli oltre 3.000 ammalati dell’attuale epidemia è circoscritta a nuclei famigliari o tribali e a personale sanitario. Da ciò deriva che evitare il contatto diretto con gli
ammalati è già una misura di autotutela sufficiente ad evitare il contagio. L’adozione poi
delle regole di igiene che in Europa sono standardizzate può essere sufficiente a garantire
elevati margini di sicurezza rispetto alle possibilità di contagio. Queste possono essere ulteriormente ostacolate evitando di frequentare le comunità tribali e qualsiasi rapporto di natura
sessuale con cittadini locali.
In definitiva, Ebola è una malattia pericolosa che si può prevenire senza cedere all’allarmismo catastrofista della stampa occidentale ma alzando semplicemente la soglia delle misure
igieniche e di autotutela che ogni occidentale, viaggiatore o residente, deve adottare quando
si trova in Paesi del Terzo Mondo.
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