I. Il silenzio e la parola

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I. Il silenzio e la parola
Il silenzio e la parola
I. Il silenzio e la parola
1. La debolezza del filosofo
La parola del filosofo fronteggia uno strano interdetto. Essa dice da sempre
ciò che non si può dire e parla di ciò che, come si espresse Wittgenstein,
sarebbe meglio tacere. Senonché, già nel dire e nel mostrare ciò di cui si
deve tacere, Wittgenstein ha detto troppo, vale a dire di più e oltre ciò che
lui stesso ha stabilito come limite del dire. Porre limiti non è infatti un gesto
neutrale o innocente: l’aldilà, non meno dell’aldiquà, vi si mostra, si fa segno
(zeigt sich) e fa segno, esprimendosi (come inesprimibile: Unaussprechliches)
proprio nel dire che lo interdice. Merleau-Ponty lo aveva compreso più e
meglio di altri:
Il filosofo parla, ma è una sua debolezza, e una debolezza inspiegabile: egli
dovrebbe tacere, coincidere in silenzio e raggiungere nell’Essere una filosofia
che vi è già fatta. Viceversa, tutto avviene come se egli volesse tradurre in
parole un certo silenzio che è in lui e che egli ascolta. La sua intera “opera”
è questo sforzo assurdo. Il filosofo scriveva per dire il suo contatto con
l’Essere: ma non l’ha detto, e non potrebbe dirlo, giacché questo contatto è
tacito. Allora egli ricomincia [ ... ]. Si deve quindi credere che il linguaggio
non è semplicemente il contrario della verità o della coincidenza, che c’è o
che potrebbe esserci – ed è ciò che egli cerca – un linguaggio della coincidenza,
un modo di far parlare le cose stesse. Si tratterebbe di un linguaggio di cui
egli non è l’organizzatore, di parole che egli non riunirebbe, che si unirebbero
attraverso di lui grazie alla connessione naturale del loro senso, al traffico
occulto della metafora, – ciò che conta non essendo più il senso manifesto
di ogni parola e di ogni immagine, ma i rapporti laterali, le parentele, che
sono implicati nei loro rivolgimenti e nei loro scambi. E proprio un linguaggio
!
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Carlo Sini
di questo genere che lo stesso Bergson ha rivendicato per il filosofo. Ma dobbiamo aver ben chiara la conseguenza: se il linguaggio non è necessariamente
ingannatore, la verità non è coincidenza: essa muta.2
Linguaggio e verità costituiscono la cifra della filosofia; la quale – sempre
stando a Merleau-Ponty – si sforza “di captare le parole sorde che l’essere
mormora”.3 Il progetto di Merleau-Ponty è stato quello di “ricominciare la
storia della parola, o piuttosto di strappare la parola alla storia”,4 risalendo
al grande silenzio del mondo nella e dalla cui “carne” la parola esplode:
La nostra visione dell’uomo rimarrà superficiale finché non risaliremo a
questa origine, finché non ritroveremo, sotto il brusio delle parole, il silenzio
primordiale, finché non descriveremo il gesto che rompe questo silenzio.5
Di questa via Merleau-Ponty ha percorso un buon tratto di cammino, sebbene troppo presto interrotto.
2. La parola del silenzio
Cerchiamo di fissare i risultati più importanti che Merleau-Ponty ha raggiunto
nella sua ricerca sul linguaggio, o quei risultati che oggi è importante rimeditare.
Anzitutto che la parola, “lungi dall’essere il semplice segno degli oggetti
e dei significati”, “abita le cose”.6 C’è in Merleau-Ponty la consapevolezza
che la concezione convenzionalistica dei segni linguistici, utile per la scienza
linguistica, è ingenua e insufficiente per la filosofia del linguaggio, cioè per
un’autentica riflessione pensante sul linguaggio. Scrive Merleau-Ponty:
!
2
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, trad. it. a cura di A. Bonomi, Bompiani,
Milano, 1969, pp. 148-149. Le “parentele” di cui parla Merleau-Ponty ricordano da vicino
l’“aria di famiglia” di cui parla Wittgenstein.
3
M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, trad. it. di M. Sanlorenzo, Editori Riuniti, Roma,
1984, p. 33.
4
Ivi.
5
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. it. a cura di A. Bonomi, Il
Saggiatore, Milano, 1972, p. 255.
6
Ivi, pp. 247 e 249.
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Il silenzio e la parola
Le convenzioni sono un modo tardivo di relazione tra gli uomini, presuppongono una comunicazione preliminare e si deve ricollocare il linguaggio in
questa corrente comunicativa.7
A questo proposito egli ha anche parlato di “senso emozionale della
parola”. Espressione ambigua, se intesa in termini di psicologia e di “mondo
interiore” (sia esso conscio o inconscio); apertura decisiva se l’emozione è
invece intesa nel senso degli “esistenziali” di Heidegger, cioè in termini di
ontologia o di cosmologia – e vi è più di un motivo per pensare che MerleauPonty intendesse appunto così.
È un fatto che Merleau-Ponty critica, una volta per tutte, la concezione
del linguaggio come fenomeno meramente differenziale:
stupisce che la parola, semplice potere di differenziazione delle significazioni
e non potere di offrirle a chi non le possiede, sembri tuttavia contenerle
e veicolarle.
È infatti assurdo attribuire ex nihilo alla lingua un potere espressivo che
non pertiene ad alcuna delle sue parti.8
Di qui l’intuizione (che è tra le sue più profonde, ma anche meno svolte)
secondo la quale del linguaggio, della “paradossale impresa dell’esprimersi”,
non va descritto solo il lato sintattico e il lato empiricamente ostensivo (o
più in generale semantico); nel linguaggio va colta una dimensione ulteriore
e più originaria. Merleau-Ponty parlava, a questo proposito, di atto di parola,
cioè della necessità, circa tale atto, di “descrivere il senso d’evento in
opposizione al senso disponibile”.9 Si potrebbe dire: il carattere “pragmatico”
dell’evento della parola e del segno (purché il termine “pragmatico” non
venga ristretto alle banalità usuali, derivate da Morris, ma venga piuttosto
pensato nel senso profondo della semiotica pragmatica di Peirce).10
Per parte sua, Merleau-Ponty ha interpretato l’evento della parola sotto
il profilo del “gesto”. La parola si intreccia col mondo e con le cose del mondo
!
7
Ivi, p. 258.
M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, op. cit., p. 54.
9
Ivi, p. 35, nota.
10
Rinvio per tale questione (e anche per il riferimento al concetto di pragma in Heidegger, il
che comporta un apparentamento e un confronto tra semiotica ed ermeneutica) al mio Passare il
segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, Il Saggiatore, Milano, 1981, parte I.
8
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Carlo Sini
proprio come, e proprio perché, si intreccia anzitutto col corpo vivente e
percipiente del locutore. Come il corpo, anche il linguaggio è ambiguo: è
cosalità inerte ed è intenzionalità vivente e creativa, ha in sé la ripetizione
meccanica e l’innovazione inventiva (è “parola parlata” ed è insieme “parola
parlante”, come dice Merleau-Ponty). Corpo e linguaggio sono fenomeni
sovrabbondanti dei quali è essenziale il gesto, la capacità espressiva, ostensiva
e allusiva; cioè la capacità simbolica o endeictica, come aveva detto Creuzer.11
Corpo e linguaggio non sono mai semplici presenze, poiché nella loro natura
è iscritto il rimando, il rinvio ad altro, al non semplicemente presente, cioè al
senso di là dal fatto. Perciò si potrebbe, e anzi si dovrebbe dire che corpo e
linguaggio sono segni, relazioni segniche.
La parola è un autentico gesto e contiene il proprio senso allo stesso modo
in cui il gesto contiene il suo.12
In certo modo, “è il corpo a mostrare, è il corpo a parlare”,13 provenendo
e ricavando il suo senso dal mondo entro il quale e per il quale esso si
staglia. Analogamente, il significato di ogni parola “si forma per prelevamento
su un significato gestuale che, a sua volta, è immanente alla parola”.14 La
parola perciò deve già trovarsi “in un certo luogo del mio mondo linguistico
[...], far parte della mia costituzione”. Io devo potermi dirigere a essa, dice
Merleau-Ponty, così come mi dirigo con la mano a una parte del mio corpo.
L’articolazione della parola deve riguardarmi come “uno degli usi possibili
del mio corpo”.15 Come aveva detto Husserl, il linguaggio è letteralmente
“corpo vivente linguistico”, Sprachleib.16
!
11
Cfr. F. Creuzer, “Simbolica e mitologia. Descrizione generale dell’ambito simbolico e
mitico”, in A. Baeumler- F. Creuzer-J. Bachofen, Dal simbolo al mito, trad. it. a cura di G.
Moretti, Spirali Edizioni, Milano, 1983, voI. II, pp. 13 ss.
12
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, op. cit., p. 254.
13
Ivi, p. 270.
14
Ivi, p. 258.
15
Ivi, p. 251.
16
E. Husserl, “Appendice III” a La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale,
trad. it. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano, 1961. Com’è noto la posizione di MerleauPonty è però anche critica nei confronti di Husserl in cui si individua un’indebita e irrisolta
oscillazione tra fatto ed essenza a proposito del linguaggio. Sul problema generale della
“Appendice III” e l’interpretazione di Derrida cfr. C. Di Martino, “Derrida all’origine”,
prefazione a J. Derrida, Introduzione a Husserl, L‘origine della geometria, trad. it., Jaca Book,
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Il silenzio e la parola
Infine: l’io è il linguaggio. Come diceva Peirce,
la parola o il segno che l’uomo usa è l’uomo stesso [...], il mio linguaggio è
la somma totale di me stesso.
Merleau-Ponty perviene alla medesima conclusione.
Il linguaggio non è un impedimento per la coscienza; essa è nella sua casualità
[...]. L’atto di intenzione non è fuori della parola, ma con la parola.17
Ma il linguaggio che coincide con l’io, col suo corpo e col corpo del
mondo di cui l’io letteralmente è fatto (“Mentre aderisce al mio corpo come
la tunica di Nesso, il mondo non è solo per me, ma per tutto ciò che, nel
mondo, gli fa segno”), tale linguaggio non è un mero sistema di significazioni.
La lingua, che fa tutt’uno con l’io, è in tramata di “sottintesi”, di metafore
radicali perché originarie, come diceva Cassirer.18 Ancor più, tale linguaggio
è intramato col silenzio, con quell’esplosione originaria che non smette di
sorreggere e di dar senso alla parola (“L’originario esplode, e la filosofia
deve accompagnare questa esplosione, questa non-coincidenza, questa differenziazione” 19 ). Il linguaggio è intramato col silenzio di una distanza
costitutiva, cioè con la distanza che è costitutiva di ogni segno, in quanto
ogni segno è originariamente un gesto, una risposta che corrisponde: distanza
del mondo e provenienza dal mondo (“Nessuna domanda va verso l’Essere:
sia pure per il suo essere di domanda, essa l’ha già frequentato, ne ritorna”20).
Per questo Merleau-Ponty si propose di
prendere in considerazione la parola prima che sia pronunciata, sullo sfondo
del silenzio che la precede, che non cessa di accompagnarla e senza il quale
!
Milano, 1987; cfr. anche di C. Di Martino, l’“Introduzione” a E. Husserl, Semiotica, trad. it.
Spirali, Milano, 1984. Per l’analogia tra corpo e linguaggio si ricordi poi la proposizione 4.002
del Tractatus di Wittgenstein (“Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano”).
17
M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, op. cit., p. 56.
18
Cfr. E. Cassirer, Linguaggio e mito, trad. it. di V.E. Alfieri, Il Saggiatore, Milano, 1961,
cap. VI. Per un’analisi di questa tematica e un raffronto con la posizione heideggeriana cfr.
A. Cazzullo, “Il linguaggio tra concetto ed esperienza: Cassirer e Heidegger”, in L’uomo, un
segno, nr. l, 1982, pp. 33-47.
19
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, op. cit., p. 144.
20
Ivi, p. 143.!
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Carlo Sini
essa non direbbe nulla; [si tratta di rendersi] sensibili a quei fili di silenzio
di cui il tessuto della parola è intramato.21
È nel silenzio e dal silenzio che io, mondo e linguaggio emergono nella
loro correlazione unitaria: poli enigmatici di un medesimo gioco linguistico, o
linguistico-segnico, maschere dello Stesso, distanze approssimate in cui,
come diceva Peirce, ognuno è, là dove funziona, cioè dove si annuncia e fa
eco. La parola del filosofo, quella parola che, come dice Merleau-Ponty,
deve “accompagnare” tale gioco eventuale, è così un’eco di mondo: sempre
distanziata dal suo medesimo punto di esplosione. Perché l’Essere (ha scritto
Merleau-Ponty) non è mai
davanti a me, ma mi circonda e in un certo senso mi attraversa [...], la mia
visione dell’Essere non si effettua da un altro luogo, ma dal cuore dell’Essere.22
Così la parola: essa non parla che dal silenzio del mondo, quel silenzio
che essa custodisce e reca con sé. Perciò non può dirlo (poiché parla e risuona
in un’eco senza origine, o la cui origine è appunto il silenzio da dire, il silenzio
del dire); perciò sempre lo dice, ricominciando ogni volta il rimbalzo dell’eco
che origina il mondo e segna la distanza.
3. L’evento del gesto
Il significato di ogni parola, ha detto Merleau-Ponty, si forma per prelevamento
su un significato gestuale che è a sua volta immanente alla parola. Indicazione
preziosa. Egli ha anche osservato:
la prima parola dell’umanità non si è stabilita in un nulla di comunicazione,
perché emergeva dai comportamenti che erano già comuni.
Al fondo della parola c’è una “familiarità primordiale”, una “significazione
trasferibile” di cui il corpo è il tramite essenziale: la lingua comune che
parliamo è qualcosa come la corporeità anonima che condivido con gli altri
!
21
22
!
M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, op. cit., p. 66.
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, op. cit., p. 137.
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Il silenzio e la parola
organismi”, “momenti di un solo sistema io-altri”.23 Ecco altre indicazioni
preziose, solidali con la prima; e tuttavia indicazioni ambigue, meri abbozzi
che, così come possono aiutare a trovar la via, possono anche sviare e condurre
in un vicolo cieco. Che significa “gesto”? Come intendere la “comunicazione”
primordiale? Come pensare l’intersoggettività originaria, il “sistema ioaltri”? I suggerimenti di Merleau-Ponty vanno forse intesi nel senso della
“conversazione di gesti” di cui parlava George Herbert Mead?
La scena immaginata sarebbe allora questa: sulla faccia della terra
stanno animali eretti che “accomodano” il loro comportamento mediante
gesti, cioè provocazioni e risposte; proprio come fanno certi animali nella
lotta, nel gioco o nell’amore: ognuno deve interiorizzare la risposta del
partner per poter effettuare con successo le proprie mosse, le proprie finte,
le proprie adesioni e ripulse. Ma l’uomo ha in più il gesto vocale. Dal silenzio
mimico esso emerge dapprima come mero urlo e grugnito espressivo, non
diversamente dalle espressioni facciali. 24 Senonché il gesto corporeo e
mimico è visto solo dall’altro, mai da colui che lo attua. Col gesto vocale,
invece, in quanto esso risuona nell’esterno e dall’esterno, l’emittente è reso
oggetto non diversamente dal ricettore. Io mi sento parlare (gridare) così come
mi sente l’altro. A partire da questo fatto, e con mirabili analisi empiriche,
Mead ha potuto ricostruire a suo modo il sorgere dell’autocoscienza (del
“Sé generalizzato”), del rapporto io-altri, e infine della parola significativa
e del linguaggio.
Resta però la problematicità inspiegabile della scena iniziale: immaginare
animali gesticolanti e vocianti sulla faccia della terra, il loro empirico
giocar di mano e di voce, è un’ingenuità prefilosofica che non si fa carico
del problema essenziale; anzi, lo dà già per risolto. La terra, gli animali, i
loro gesti vocali e corporei sono essi stessi oggetti del linguaggio e dei suoi
significati intersoggettivi già codificati; nel contempo, però, ne sarebbero
anche l’origine e la spiegazione genealogica, che in realtà è nulla più di una
mito-logia. Non si può parlare così semplicisticamente del “gesto”, osservandolo
empiricamente dall’esterno e alla luce di una concettualità linguistica già
!
23
M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, op. cit., passim.
Cfr. G.H. Mead, Mente, Sé e Società, trad. it. di R. Tettucci, Editrice Universitaria Barbera,
Firenze 1966. Mead sviluppava in chiave psicosociale e genetica l’evoluzionismo darwiniano. Lo
stesso Darwin, poi, studiò “l’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”. Per tali
problemi rinvio al mio Il pragmatismo americano, Laterza, Bari, 1972, cap. V.
24
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Carlo Sini
edificata e matura, se proprio nel gesto vogliamo ravvisare la matrice
della parola.
Ciò che nel gesto va, invece, tematizzata e pensata è la sua natura
profonda di segno, cioè la sua relazione essenziale con la distanza e con
l’assenza. Non, dunque, il gesto come questo intenzionale protendersi della
mano di un organismo compiuto e già dato nei confronti di una cosa a sua
volta già data e definita nel già costituito mondo oggettivo; questo insieme di
elementi e di relazioni ci sono già, sono osservabili e descrivibili, discriminabili e
nominabili, solo per un osservatore già pervenuto al linguaggio. Piuttosto:
l’aprirsi dello spazio sorgivo del gesto, il suo evento primordiale, cioè primordinale (primo nell’ordine delle condizioni).
Qui allora non è la mano (che letteralmente non c’è ancora) che si protende,
ma è piuttosto, e in generale, il mondo che si rivela in sembianza di afferrabile
e che così fa segno. La pietra, o il bastone, o il dito dell’adulto per l’infante,
si producono come afferrabili nella presenza, e allora anche la mano emerge,
con la sua gestualità che corrisponde. Essa è posta al margine estremo
dell’evento del mondo afferrabile come sua (del mondo) dislocazione e
compimento, come vuoto di quel pieno che la richiede e la incurva.
Ogni gesto è un rispondere e un corrispondere: così all’afferrabile come
al visibile, o come all’udibile e così via. Ma chi afferra è primariamente
afferrato, chi vede è guardato, chi ascolta è chiamato. Il gesto è una rivelazione
del silenzio in cammino verso il senso.
4. Il rimbalzo del gesto
Tra la mano che afferra e la cosa afferrata emerge, silenziosa, la distanza.
La distanza della presenza. Il gesto risponde e corrisponde, ma proprio per
ciò tiene a distanza. Se riconosce il bastone come afferrabile, la mano, che
rispondendo afferra, da un lato corrisponde al bastone (lo accoglie e vi si
adatta come sua appendice), dall’altro se ne distingue (divenendo solo ora mano,
organo corporeo). L’afferramento come risposta proviene dalla rivelazione
dell’identità mano-bastone: essi sono il medesimo, sono l’uno per l’altra in
una perfetta corrispondenza. Ma questa rivelazione, in quanto avviene nel
gesto e come gesto, cioè nella risposta, accade nella distanza e nella differenza,
cioè in un’originaria non-corrispondenza. Il gesto del rispondere è già
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Il silenzio e la parola
distanziato, nel suo accadere, dall’identità originaria, che non è mai data
(non è mai accaduta e non accade, poiché non c’è accadere se non come
segno e relazione, cioè come risposta distanziata e distanziantesi). L’identità
non è mai data, ma piuttosto è inseguita in ogni afferramento.
Per questo, come notava Husserl nelle sue analisi, il bastone “si adombra”,
sfugge alla presa in quanto e perché viene preso: lo afferro in alto e mi
sfugge in basso, lo stringo con due dita e lo perdo con le altre, lo serro forte
e allora svaniscono i contorni che aveva in un approccio delicato. La stessa
cosa, del resto, accadrebbe della mano, se per ipotesi la afferrassi con
l’altra: duplicità del corpo, che è corpo-mondo e quindi passibile di quella
ambiguità che già Husserl indicava come contemporanea presenza, nel corpo,
del corpo-cosa (Körper) e del corpo-vivente-percettivo (Leib).
Ma, soprattutto, un’impercettibile fessura si apre proprio là dove accade
il contatto e la corrispondenza. Perché il gesto, la risposta, rimbalza. Rimbalza
il mondo (in sembianza di bastone) e lo tiene a distanza; e nel contempo
rimbalza il corpo (in sembianza di afferramento gestuale) e lo sottrae (al
mondo). È nel gesto, o più esattamente nel suo duplice rimbalzo, che la
mano si disloca come mano, in quanto la risposta colloca e tiene a distanza
il bastone; allora anche il mondo, in sembianza di bastone, si colloca come
il di-contro del corpo così da lui dislocato. La rivelazione della corrispondenza
(cioè dell’essere il bastone afferrabile lo stesso della mano che lo afferra) è
insieme la manifestazione della distanza e della differenza. Ogni risposta,
corrispondendo nel suo rimbalzare, tiene a distanza il mondo (accogliendolo) e
tiene in serbo il Sé (differenziandolo).
L’evento della risposta getta allora il mondo (da cui proviene) nel nulla
dell’Oggetto sempre replicabile, ma mai raggiungibile. Ciò è lo stesso che
dire che la risposta getta il mondo nel segno, in una relazione di assenza e
di incolmabile distanza. La rivelazione prima nell’ordine (primordiale)
esibisce il mondo in sembianza di afferrabile, proprio in questa concreta
apparizione che suscita l’aprirsi e l’incurvarsi della mano come periferia
dell’afferrabile che emerge; ma, rispondendo, la mano distanzia (e, ancor
più, istituisce) il polo oggettuale dei suoi afferramenti come ciò che sempre
di nuovo può venire afferrato (in alto, in basso, con forza, leggermente... ) e
perciò rinviato in un percorso infinito. Il gesto ha così in sé il nulla dell’Oggetto, cioè il principio e l’origine di ciò che sarà “il bastone” (l’Oggetto in
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generale, e non questa o quella apparizione afferrabile): ciò che per principio
non si può afferrare, quel nulla di presenza cui ogni presenza allude per
essere ciò che è, vale a dire afferramento di mondo in sembianza, o in segno,
di bastone.
Il duplice rimbalzo del gesto è la fessura in cui il mondo e il corpo si
fendono: bilico estremo dell’evento in cui il mondo si fa corpo e il corpo
ottiene un mondo. È questo rimbalzo l’“esplosione” silenziosa di cui parlava
Merleau-Ponty. È questo rimbalzo la spiegazione dell’enigma per cui, come
diceva Merleau-Ponty, il mondo non è, o non è solo, davanti a me, ma
ancor prima mi circonda e mi attraversa, sicché io lo ravviso dal cuore della
sua stessa carne.
Ma in principio non è né il mondo né il corpo; in principio è il gesto (che
risponde e corrisponde), e il suo rimbalzo.
5. Il gesto vocale
Quanto abbiamo detto del gesto in generale, pensato nella sua primordinale
“esplosione”, cioè nella sua natura di evento (evento di quell’avvertire che
risponde), pensiamolo ora in riferimento a quel particolare gesto che è il
gesto vocale.
Se il tatto nell’afferrare, o anche la vista nel suo mettere a fuoco, producono
un rimbalzo di mondo, la voce fa molto di più. Invasa dalla luce, dai colori,
dalle forme, la vista, rispondendo, mette in opera il suo rimbalzo: essa
rimbalza la sua prospettiva sul mondo circostante e così lo ordina a partire
da sé (un “sé” contemporaneamente dislocato dal rimbalzo medesimo),
determinando quelle distanze visive che sono appunto rimbalzi prospettici.
La voce, però, non si limita a ordinare l’udibile che proviene. Unico fra
tutti i gesti possibili, essa produce fenomeni che non esistevano; li fa venire
al mondo. Non è che, vedendo, la vista possa far apparire immagini; essa non
può produrre ex novo alcun visibile nel mondo; la voce, invece, produce
fenomeni che stanno nel mondo per tutti. Il mondo era dapprima silenzio
(di voce); esso era muto. Ora nel mondo si parla. La voce invade il mondo.
Certo, anche il tatto produce fenomeni nuovi, in quanto scalfisce un sasso o
disegna il fondo di una caverna, facendo apparire segni e immagini; ma il
tatto non va oltre la modificazione dell’esistente che si produce davanti. La
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Il silenzio e la parola
voce, invece, là dove era nulla fa apparire qualcosa, qualcosa di “inaudito”.
Il gesto vocale è così l’essenziale testimonianza autofonica della propria
sussistenza nel mondo.
Di qui quella funzione, già ricordata, che Mead, e poi anche Derrida,
hanno notato. Il gesto vocale rende affetto colui che parla come colui che
sente; raddoppio donde origina l’autocoscienza e quell’interiorizzazione
della voce che Platone chiamava il dialogo muto dell’anima con se stessa.
Col gesto vocale il corpo acquisisce un Sé che è auto-parlante e auto-parlato.
Sé che è comune a tutti e che è il fondamento stesso dell’intersoggettività
comunicativa. Queste osservazioni sono una traccia preziosa, che tuttavia
Mead e Derrida hanno solo avvistato in generale, senza svolgerla nella sua
reale portata e senza chiarirla nelle essenziali condizioni che la accompagnano
(Merleau-Ponty ne ha visto invece, per parte sua, qualcosa, senza peraltro
tematizzare espressamente la duplicità della voce); condizioni che emergono
solo in virtù di una riflessione pensante relativa alla natura segnica del gesto
in generale e del gesto vocale in particolare.
Il gesto vocale, dunque, fa emergere il Se stesso, cioè “me stesso”. Ma
come lo fa emergere? Già nel dire “me stesso” si esigono molte cautele.
Come abbiamo visto, il rimbalzo opera “esplosivamente” in due direzioni:
da un lato, tiene a distanza il mondo e, dall’altro, tiene a battesimo il Sé.
Ma il rimbalzo del gesto vocale è, per eccellenza, di natura autografica: io
non mi vedo vedere, ma mi ascolto parlare. Ciò significa che, nel gesto
vocale, da un lato io sono il risultato e l’origine del gesto, dall’altro ne sono
l’oggetto. Non c’è infatti un soggetto del gesto già costituito. Il bambino
infante strilla, ma lui non ne sa nulla; non può vivere tale esperienza nel
modo di un “io strillo”, poiché non c’è per lui alcun “io”. C’è solo una
sorgente di voce, un “si strilla”, un grido come insorgenza spontanea; cioè
un evento senza alcun sapere (dell’evento). Questo gesto vocale determina
però un rimbalzo per il quale la sorgente che lo ha emesso anche lo ode.
C’è un rispondere come avvertire il grido e sentirsi gridare. È così che si
determina il Sé come risultato, sebbene questo risultato sia il medesimo
dell’origine del gesto. Là dove si manifesta il risultato, proprio nello stesso
luogo c’è l’origine, poiché là dove il soggetto è avvertito anche è sorto.
Ma allora il Sé come risultato-origine è anche l’oggetto della voce. La
voce mira e intende “me”; la sua prima funzione oggettivante sono proprio
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io, o il Sé. Il primo oggetto del grido (che non è ancora in grado di rivolgersi
all’esterno, poiché non vi è alcun esterno, non essendovi ancora un interno)
è il Se stesso, il risultato-origine. Così la voce mi chiama alla presenza, pur
non incarnando essa, all’inizio, alcuna simile, o altra, intenzione. Bisogna
risalire a questo strato della gestualità pura, se vogliamo veder sorgere
pragmaticamente ciò che chiamiamo soggetto e poi intersoggettività.25
C’è il grido, abbiamo detto, e io sono la fonte e l’oggetto di questo grido.
Ciò che è tipico del gesto vocale è la sua duplicità; esso non è mai un semplice
gesto; esso infatti promana e proviene e in questo senso si auto-oggettiva.
In tal modo, il gesto vocale chiama ed evoca nella presenza, ancor prima
del linguaggio. Non c’è alcuna intersoggettività linguistica, ma già è aperta
la possibilità che, tramite questo gesto auto auditivo, l’emittente si riconosca
e si sappia come emittente; cioè che in qualche modo “si parli”.
Che accade però nel momento in cui il gesto vocale incontra una risposta “congenere”? Noi possiamo toccare il bastone, ma anche toccare una
mano che, a sua volta, ci tocca; possiamo guardare ed essere guardati. Che
accade quando l’emittente non è solo una vox clamans in deserto, ma il
deserto risponde?
6. La voce di tutti
Bisogna qui distinguere tra una risposta generica, al gesto vocale, e una
risposta specifica. Nel primo caso la risposta non è un altro gesto vocale.
Per esempio: il bambino piange e viene preso in braccio. Piangere allora
“vuol dire” esser presi in braccio. La risposta si ripercuote sull’emittente
che, solo ora e d’ora in avanti, “sa” di essere colui che, piangendo, viene
preso in braccio; ne profitterà ben presto. Il gesto vocale allora non nomina
e determina più soltanto me, l’emittente dapprima inconsapevole, ma nomina
ed evoca anche la risposta corrispondente. Si determina così la tensione
(l’intenzione) dell’emittente: per essere presi in braccio bisogna gridare. È in
!
25
È ciò che non accade né nella quinta delle Meditazioni cartesiane di Husserl, né in Essere e
tempo di Heidegger, dove il con-essere viene assunto in relazione all’ente difforme dall’esserci
(e con una evidente critica alla posizione solipsistica husserliana), ma non chiarito né indagato
in questo assunto e in quella relazione. Un’apertura al tema fondativo della voce è invece
presente in Jacques Derrida (La voce e il fenomeno, trad. it. a cura di G. Dalmasso, Jaca Book,
Milano, 1984), peraltro con intenzioni ed esiti diversi da quelli qui perseguiti.
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Il silenzio e la parola
intenzioni di questo genere che è da ravvisare la radice di quel significare
linguistico che nella langue, come osservava Merleau-Ponty, si trova sempre rinviato.
Che accade però nel momento in cui il gesto vocale suscita una risposta
specifica, e cioè un altro gesto vocale? In certo modo qui si intende il
medesimo, come quando nel guardare si vuol essere guardati o nel toccare,
per esempio nel porgere la mano, si vuol essere toccati. Ma ciò che,
all’interno di questi casi, caratterizza il gesto vocale è che esso ha una
peculiare natura “pubblica”. Il guardarsi e il toccarsi reciproco ha una
natura, per dir così, “privata”, che concerne in modo esclusivo i due poli in
relazione. Il gesto vocale è invece, di principio, pubblico, aperto a “tutti”;
esso è essenzialmente universale, oggettivo, anonimo. Il gesto vocale si
innalza al di sopra degli emittenti e rimbalza in essi, ma non solo in essi;
esso crea fenomeni per un Sé universale, cioè apre la via a una dislocazione
infinitamente possibile di poli autoriflessivi. Questo è il principio stesso della
intersoggettività. La voce ci oggettiva tutti insieme, in una contemporaneità
che nessun altro gesto possiede. Il gesto vocale arriva a tutti, è per tutti, è
oggetto di tutti. Più esattamente bisogna anzi dire: è il gesto vocale che pone
nella presenza il “tutti”, un Sé generalizzato, come diceva Mead, per il quale io
divengo appunto un “io”, un partecipe dell’intersoggettività comune, cioè di
una comune ed eguale possibilità di risposta.
Ma il gesto vocale ha, poi, anche un’altra contemporaneità, per la quale
esso si intrama, in modo peculiare, con tutti gli altri gesti. La voce, infatti,
non disturba gli altri gesti. Essa, come notava Heidegger a proposito del
linguaggio, parla sempre, nella veglia e nel sonno; l’uomo parla sempre o,
più esattamente, nell’uomo sempre “si” parla. C’è una voce che non tace e
non desiste dal suo gesticolare ora sonoro e ora silenzioso. In questo senso
l’uomo ha la sua dimora nel linguaggio (come ancora diceva Heidegger);
ciò significa: nell’essere. L’essere, infatti, è ciò che sta, senza impallidire,
nella presenza. Ma è il gesto vocale, appunto, che pone in presenza, che “fa
essere per tutti” (1’“è” della voce è, quindi, più primordiale dell’“io sono”,
che piuttosto ne deriva). È così che si dà per tutti un “logos a tutti comune”,
una “ragione” che ci fa tutti uguali, poiché ognuno è parlato dalla voce, è il
detto della voce e ha un essere perché ha l’essere della voce che lo parla.
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Carlo Sini
Infine, il gesto vocale è caratterizzato da una massima genericità. Anche
quando il gesto vocale chiede la risposta di un altro gesto vocale, esso però
intende sempre altro dal gesto vocale. La parola non ha in sé il proprio
oggetto, non se ne appaga e non vi si realizza; gli è infatti costitutiva una
caratteristica povertà e genericità di oggetti. Il tatto, il gusto, l’olfatto, ecc.
hanno i loro propri e non scambiabili oggetti, ma il gesto vocale non ha
oggetti specifici, e proprio così li ha genericamente tutti. Nella sua funzione
oggettivante il gesto vocale ha la massima povertà, ma anche, per contrappeso,
la massima estensione e autonomia. Esso è disponibile per tutti gli oggetti.
7. L’oggetto della voce
Dalla povertà e disponibilità deriva al gesto vocale la peculiare capacità di
evocare e nominare l’assente, che è poi un tratto essenziale del linguaggio.
Di tale tratto si fraintende però completamente il senso, quando si ritiene
che il linguaggio sia un sistema di segni convenzionali istituiti per la pratica
necessità di evocare l’oggetto assente. Poiché non posso portare un cavallo
in carne e ossa in questa stanza e indicarlo ostensivamente con la mano,
allora uso, d’accordo con gli altri, un suono convenzionale. Ecco come e
perché è nato il linguaggio. Salvo che per poter fare tutto ciò noi dovremmo
avere già il linguaggio.
Il punto essenziale è un altro, ed è che la cosa della parola è assente anche
quando la cosa stessa è presente. La presenza in questa stanza di un cavallo
non renderebbe meno assente l’oggetto della parola “cavallo”. La voce infatti
chiama da fuori e da altrove rispetto al dove in cui essa risuona e trova eco
e risposta. È quell’altrove che costituisce il mio dove autofonico e più in
generale autografico, nel suo Sé e nel suo essere.
È per questo motivo che l’anima è caratteristicamente assente, non sta in
alcun luogo e nessun bisturi potrebbe trovarla nel cervello, nel cuore o nel
fegato. Essa è invisibile e impalpabile, sebbene, a suo modo, sia udibile,
come “voce della coscienza” e simili. A questa essenziale assenza dell’anima,
in quanto rimbalzo sull’emittente della voce che risuona, corrisponde una
altrettanto essenziale assenza dell’oggetto della voce: il “di fuori” che risuona
da altrove è infatti un “per tutti”; non è né mio né tuo, e anzi “mio” e “tuo”
ne derivano come poli dell’esplosione della risposta rimbalzante. Perciò
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Il silenzio e la parola
Husserl poteva scoprire nella più riposta interiorità del “proprio” la presenza
degli “altri”, cioè del “noi”. Nella più profonda interiorità io sono, infatti,
come tutti (o, più letteralmente, sono un “tutti”). Nell’accarezzare, nel gustare,
nel vedere, il rimbalzo di queste risposte costituisce un dove che è solo mio
e che io non posso condividere con nessuno; ma l’io di cui parlo e che parla
siete anche voi, siamo tutti: tutti siamo quella soggettività “logica” o, come
si dice anche, spirituale che è il “per tutti”. Essa non sta in alcun luogo, non
si può né vedere né toccare, ma è evocata e risuona in ogni parola, in quanto
gesto aperto alla comprensione, cioè alla risposta, di tutti. Questo assente per
definizione è così la verità e validità per tutti. La parola proviene dall’assenza
ed è l’evocazione dell’assente perché è da altrove che chiama.
E così essa nomina: non perché il cavallo concreto non c’è, non è nella
presenza, ma perché non c’è mai quello che la parola evoca, anche quando
il cavallo c’è. La parola ha l’assente dentro di sé per sua natura e questo
assente non è diverso quando la cosa empirica sta lì davanti o quando sta
altrove; e anzi la cosa empirica può stare lì davanti solo perché la parola ha
nominato l’assenza, il per tutti. La voce parla per tutti anche quando parla
di me. Nella voce infatti non si tratta di me, se “me” vuol dire l’“unico”,
come diceva Stirner: ecco il punto.
Il gesto vocale opera così uno scarto rispetto a tutti gli altri gesti: esso,
per esempio, parla di questo mio vedere, toccare e gustare, ma in vista di un
sapere di tutti, cioè di una pura oggettualità ideale. Il linguaggio non tocca
nulla, non vede nulla, non odora nulla, ma rende invece disponibile per tutti
lo schema obiettivante di ogni risposta, quel rimbalzo che tiene il mondo
a distanza e tiene a battesimo il Sé, rimbalzo sollevato ora a validità intersoggettiva. Il linguaggio fa di questo rimbalzo la questione cardine, ponendo
in esso il punto di vista panoramico della verità e della voce pubblica che
risuona per tutti e sempre parla silenziosamente in tutti.
Per questa via la voce porta il mondo dentro di sé e, anzi, dentro il Sé.
Essa non porta materialmente il bastone nella “mente”, ma lo schema di
risposta per tutti, schema pubblico per il quale non c’è bisogno di alcun
accordo convenzionale; la fondazione di tale gesto sta infatti altrove ed è
già accaduta, nel risuonare della voce. Propriamente il linguaggio non è né
convenzionale né naturale; suo principio formale non è né l’accordo con il
supposto oggetto naturale (che è poi una pura formazione linguistica), né
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Carlo Sini
con l’intersoggettività dei parlanti (che è la voce a istituire); suo principio è
la conformità dello schema di risposta ai "tutti" che esso stesso determina.
8. La parola del filosofo
Le rapide notazioni di questo scritto26 hanno delineato, molto sinteticamente
e per meri cenni, ma nella cifra ispirativa della ben nota e tuttavia ancora
rilevante eredità merleau-pontiana, una pragmatica del linguaggio. Essa ha
inteso di cominciare a descrivere quel “gesto che rompe il silenzio” di cui
parlava appunto Merleau-Ponty.
Su tale gesto, in quanto gesto vocale, si è fondata la metafisica, istituendo
quella verità del logos che si prolunga nel sapere moderno della scienza.
All’origine della filosofia e del pensare razionale sta infatti la caratteristica
scoperta di Socrate: che c’è, risuona, nel più intimo, una voce che parla e
dice il vero e il bene “in sé”, cioè universale, “per tutti”. È muovendo da
questo ascolto, da questo peculiare rimbalzo, che si è potuta perseguire
l’idea di un’oggettiva verità universale e pubblica, cui corrisponde l’idea
dell’uomo come membro di una società razionale senza confini in cui tutti
sono eguali e hanno egual valore. La verità di tale progetto poggia sulla
consistente gestualità della voce che la nostra cultura ha condotto e conduce
con efficacia, alle più estreme conseguenze.
Dichiarare questo gesto e questo progetto falsi, astratti o violenti è una
tentazione oggi ricorrente, il cui esito però è spesso quello di non poter più
né parlare né pensare, con la chiusura in un singolare autismo “logico”,
oppure in un’allucinata attesa di non si sa quale parola/non-parola simbolica
e salvifica; attesa, per esempio, di quel “linguaggio della coincidenza” capace
di far parlare “le cose stesse”, cui accennava Merleau-Ponty nel lungo brano
qui all’inizio citato (ma al quale linguaggio, giustamente, Merleau-Ponty
non ha mai creduto).27 Il gesto vocale non è falso; anzi, esso è proprio e per
essenza “vero”, poiché non c’è altra verità pubblica oltre la sua. Solo che la
verità pubblica non è il tutto di ciò di cui facciamo esperienza, così come il
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26
Notazioni che il lettore troverà più analiticamente approfondite nel capitolo immediatamente
successivo del presente volume.
27
Si vedano in proposito le ancora attuali osservazioni contenute in M. Merleau-Ponty, Elogio
della filosofia, trad. it. di C. Sini, Editori Riuniti, Roma, 1984.
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Il silenzio e la parola
gesto vocale (pur e proprio nella sua pretesa riassuntiva, nel suo scarto e
nella sua disponibilità traduttiva) non è l’unico senso della gestualità in
generale; il che significa: del corpo e del mondo, della loro relazione, stessità
e distanza. È qui allora, e propriamente, che la violenza accade, la violenza
dell’astrazione e del logos; essa non è iscritta nel gesto vocale in sé (poiché
gli uomini hanno parlato e parlano senza necessariamente incarnare il punto di
vista metafisico, la sua “cosmo-theoria”, come direbbe Merleau-Ponty), ma
nell’assolutizzazione e nell’esclusività che su di esso abbiamo fondato,
ricavandone un univoco concetto di verità.
Se però il linguaggio non è necessariamente ingannatore (diceva ancora
Merleau-Ponty alla fine del brano or ora richiamato), dobbiamo aver ben
chiara la conseguenza; essa è che la verità “muta”.28 Se si porta a fondo questo
pensiero, si perviene allora a comprendere che l’esperienza della verità fa
tutt’uno con l’essere in errore: stessità di verità e di errore, di segno e di
evento (del segno) che è propriamente ciò che né la metafisica né la scienza,
con la loro voce e sguardo pan-oramici, possono pensare.
La duplicità e stessità indicata chiama e reclama sempre più una risposta;
questa è quell’eco che la parola del filosofo deve oggi far risuonare, corrispondendo all’attuale accadere nell’esperienza delle sembianze di mondo in
cui siamo, e perciò anche nella consapevolezza di esser sempre, tale parola,
distanziata dal suo punto di esplosione, cioè dalla sua provenienza di mondo.
In questo senso va interpretata (e realizzata) la già citata osservazione di
Merleau-Ponty che dice:
L’originario esplode, e la filosofia deve accompagnare questa esplosione,
questa non-coincidenza, questa differenziazione.
Il filosofo parla (e parla da sempre) nella distanza oggettivante della
voce pubblica, e cioè nella “storia”, ovvero nella “semiosi infinita”. Ma è in
questo “errore” (e non altrove) che nel contempo si rivela, e “fa segno”, il
gesto silenzioso che, come auspicava Merleau-Ponty, strappa la parola alla
storia (e al segno) e la riconsegna al mondo donde essa proviene e promana.
La riconsegna cioè al silenzio significativo, e all’incanto, delle gestualità non
!
28
Merleau-Ponty pensò a lungo a una trattazione specifica sul tema della verità in senso
antimetafisico; cfr. C. Lefort, Avvertenza a M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, op. cit.
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Carlo Sini
vocali e non pubbliche che sono al fondo delle multiformi distanze delle
quali, solo che la osserviamo, è intramata l’esperienza.
La parola del filosofo risuona in significati pubblici; ma la sua eco e il
suo rimbalzo è il silenzio che apre la fessura dell’evento donde il mondo si
rinnova nel segno o, che è lo stesso, si perde nel linguaggio.29
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29
Su questo stare sul “limite” (e anzi sul “dentro-fuori-del limite” da parte del linguaggio),
in un senso che mi sembra vicino alla conclusione del presente capitolo, cfr. V. Vitiello,
“Heidegger/Rilke: un incontro sul ‘luogo’ del linguaggio”, in Aut Aut, 1988.
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