“Amleto a Gerusalemme” di Vacis e Paolini. Il

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“Amleto a Gerusalemme” di Vacis e Paolini. Il
“Amleto a Gerusalemme” di Vacis e Paolini. Il dubbio degli
orfani
Mercoledì 11 Maggio 2016
Recensione di “Amleto a Gerusalemme”, regia di Gabriele Vacis, con Marco Paolini e un
gruppo di attori del Palestinian National Theater, in scena al Teatro Alighieri fino al 13
maggio
Amleto a Gerusalemme
Ricordo che durante i Parlamenti d'Aprile dell'anno scorso, Gabriele Vacis se ne uscì con una frase che, sulle prime, fece
ammutolire la platea. “Diciamoci la verità, la guerra è bella, ci affascina”, disse. Fu una frase che turbò più di uno spettatore.
Ma non si trattava di una semplice provocazione, né di un vezzo artistico d'antan, in odore futurista.
Parlare di una bellezza estetica insita alla guerra, di una fascinazione profonda legata all'epos del combattimento, sarebbe
un'ovvietà. La teoria che intendeva esprimere Vacis, forse, era un'altra: che in stato di guerra siamo migliori; e che affrontare
la morte e combattere per qualcosa, ci rende più belli, più presenti a noi stessi.
Settant'anni di pace europea, scrive Gabriele Vacis, “sono una cosa straordinaria, da rivendicare e da difendere con ogni
mezzo. Ma sarà possibile difenderla senza la forza che viene dall’esperienza della violenza e del dolore?”
È questa la forza, la bellezza che Vacis ha letto nei corpi nei giovani attori del Palestinian National Theatre, i protagonisti di
Amleto a Gerusalemme. Sono presenti a loro stessi, “all'erta sulla scena” come voleva Grotowski, senza bisogno di alcuna
formazione: è la loro condizione naturale, il loro personale bagaglio “di violenza e di dolore”.
Si può essere d'accordo o meno con questa teoria, che in fondo non fa che tradurre in campo teatrale le riflessioni tardodecadentiste tipiche di un Lorenz o di un Pasolini: a fronte di una presunta e progressiva decadenza antropologica, si ricerca
un'età dell'oro in una condizione precedente, sia essa naturale o proletaria. Il meglio è comunque sempre alle spalle, ed il
miglioramento consiste in un anelito al ritorno, ad una restaurazione. Vacis non propone un ritorno ad uno stato guerresco, ciò
sarebbe semplicemente folle; ma forse, per usare una metafora, pensa alla guerra come a un vaccino: migliora le nostre
difese immunitarie, ci fortifica. In ogni caso, poco importa.
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Ciò che importa è l'effettiva potenza scenica di questi attori, senza bisogno di cercarne le cause remote: Alaa Abu Gharieb,
Ivan Azazian, Mohammad Basha, Nadal Jouba, Bahaa Sous riempiono il teatro delle loro urla, quasi schiacciano i loro
interpreti italiani (Giuseppe Fabris, Matteo Volpengo, Anwar Odeh, l'unica ragazza), stregano il pubblico mentre in coro
recitano passi di Shakespeare nella loro lingua così distante e aggressiva, o mentre raccontano le proprie storie personali,
drammatiche o comiche, agitandosi, interrompendosi a vicenda e distruggendo le scene.
La narrazione, infatti, non procede in modo lineare: si sovrappongono, qualche volta in modo un po' troppo discontinuo, quadri
diversi – le storie di tutti i personaggi – a una cornice generale, il pellegrinaggio teatrale di Marco Paolini a Gerusalemme,
andata e ritorno, dove deve recarsi per tenere un seminario sull'Amleto ai ragazzi del Palestinian National Theatre. Il tutto
sperimentando diverse soluzioni tecniche, come la simulazione di un'intervista a distanza, o la comparsa dei testi dell'Amleto
e l'uso di videoclip a mo' di didascalie della storia.
Gli assi di questo Amleto a Gerusalemme sono dunque due, la città santa e il testo profano: l'Amleto, il testo del dubbio per
eccellenza, contrapposto a Gerusalemme, la città delle più solide certezze religiose, e le loro mutue interferenze. Muovendosi
liberamente all'interno di questo sistema di riferimento, i ragazzi ci raccontano aneddoti sulle loro vite: il cambiamento della
città, lo spaccio di droga e la dipendenza, gli innamoramenti, l'odio verso i genitori, i tradimenti, i lutti. Tutto è permesso,
perché non c'è argomento che rimanga fuori dal classico di Shakespeare, e non c'è vita che non sia stata graffiata dai dolori e
dalla bellezza della città santa – che, come vuole un antico midrash ebraico, ha ricevuto 9 parti su 10 di dolore e bellezza che
il Signore aveva riservato al mondo intero.
La città finisce per essere presente sulla scena, con le sue porte e le sue mura, con le chiese, le sinagoghe, le moschee, tutte
pazientemente costruite dagli attori con bottiglie di plastica vuota. Oggetti che, nella suggestiva intuizione registica, si caricano
di senso e rimandano alla povertà, alla sete, alla fragilità di un territorio, spazzato via dal primo calcio terroristico.
Il cupio dissolvi di questa città e dei suoi abitanti è infatti sempre presente, e torna più di una volta in questo spettacolo.
Perché è soprattutto il conflitto fra tentazione del nulla e rabbia irrisolta ad accomunare questi attori palestinesi al giovane
principe di Danimarca. Come lui, anche loro, davanti all'ingiustizia quotidiana, allo strapotere dei tiranni e agli insulti del
tempo, non sanno se contrapporre la “quiete del filo di un pugnale”, la fuga, o il desiderio di vendetta, di rabbia, di
combattimento. In Danimarca o in Palestina, Amleto è sempre Amleto: dubita, soffre, non si risolve, e allo stesso tempo freme
per la rabbia, sente la responsabilità della vendetta.
Questa tensione si traduce sulla scena in lotta incessante tra fratelli, in rissa continua; nel disfacimento auto-indulgente della
fatica fatta per assemblare questa grande mappa di plastica, mentre Paolini guarda la distruzione della sua casetta con lo
stesso pippio di un bambino in riva al mare, quando l'onda gli distrugge il castello; o ancora, nella pioggia di bottiglie vuote che
rovina come una piaga sulle teste degli attori, nel momento forse più toccante dello spettacolo.
La scenografia, insomma, accompagna il racconto con soluzioni sempre inaspettate e intelligenti, e da sola vale la serata.
Qualche lacrima è scorsa in platea, ad esempio, durante la scena topica “dell'essere o non essere”: quando un telo bianco,
calato dall'alto, ha diviso gli attori, alle prese con un'impossibile crocifissione a distanza, replicando poeticamente la stessa
assurda separazione che caratterizza quella terra.
Marco Paolini assiste a tutto con il contegno e il distacco del maestro, e interviene solo per bravi appunti, quando ce n'è
strettamente bisogno, o per stemperare con una battuta il pathos. Un po' arbitro e un po' turista, scandisce con un cenno della
testa i ritmi, separa le risse, introduce e conclude lo spettacolo raccontando della sua esperienza a Gerusalemme; spiega,
forse senza che ce ne sia davvero bisogno, il ruolo dei classici alla sua classe di attori raccolta attorno a lui, a fine spettacolo.
Viene anzi da chiedersi, senza alcun tipo di malizia, che cosa effettivamente ci faccia sul palco Paolini; ci si interroga sulle
ragioni che hanno spinto la regia a non fare di Paolini, come di Vacis, un fantasma che inquieta e che spinge all'azione,
magari trasferendolo su un video, presente-assente; e perché non lasciare i giovani attori del tutto soli, autonomi sulle scene,
presenti a se stessi. Come Amleto, senza padri; come Amleto, pervasi del dubbio degli orfani e della rabbia delle vittime;
come Amleto, carichi di un'eredità disperante.
Amleto a Gerusalemme
Palestinian Kids Want To See The Sea
di Gabriele Vacis e Marco Paolini
regia Gabriele Vacis
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con Marco Paolini
e con Alaa Abu Gharieb, Ivan Azazian, Mohammad Basha, Giuseppe Fabris, Nadal Jouba, Anwar Odeh, Bahaa Sous, Matteo
Volpengo
scenofonia, luminismi, stile Roberto Tarasco
video e foto di scena Indyca
assistente alla regia Marianna Bianchetti
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione
Internazionale
Visto il 10 maggio 2016 al Teatro Alighieri
Iacopo Gardelli
Cultura, Moderato Cantabile
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