L`essenza della natura umana nel pensiero di Rollo May
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L`essenza della natura umana nel pensiero di Rollo May
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 L’essenza della natura umana nel pensiero di Rollo May e Carl R. Rogers Marco Bosisio Premessa Rollo May è colui che ha introdotto l’esistenzialismo europeo nella psicologia americana e le sue teorie risentono profondamente dell’influsso di Soren Kierkegaard. Il suo pensiero è per certi versi simile a quello di fenomenologi quali Ludwig Binswanger o Roland Kuhn, anche se in May è evidente il tentativo di far convergere la psicologia esistenziale con quella umanistica. Mentre Carl Rogers è convinto della fondamentale bontà degli esseri umani, convinto del loro potere personale, persuaso della loro capacità di promuovere cambiamenti, fiducioso nella possibilità di realizzarsi in piena felicità e di interiorizzare valori positivi, in una prospettiva apparentemente più storicizzata, Rollo May non pare condividerne l’ottimismo. Nel suo scritto The Destiny of America1, ad esempio, analizza i principali eventi politici della recente storia americana giungendo a conclusioni piuttosto pessimistiche: “i decenni di disonestà, lo sfruttamento della natura e la repressione economica hanno fatto chiudere il cerchio ed ora siamo di fronte ad una crisi mondiale paragonabile al biblico diluvio universale. Molta della nostra moralità è solo mera ipocrisia, i nostri miti del progresso sono falliti ed il Sogno Americano è morto”. Queste due posizioni contrastanti, con le loro profonde e differenti implicazioni nella visione della natura umana, sono state l’importante preludio allo scambio diretto fra Carl Rogers e Rollo May in merito al rapporto fra bene e male, che rappresenta il fulcro di questo lavoro. La più rilevante differenza fra i due autori, secondo Rogers, è proprio “in merito alla natura dell’essere umano” ed è su questo specifico argomento, e non primariamente su tematiche politiche, che cercherò di circoscrivere l’analisi. 1 Contributo presente in MAY, ROGERS et al., American politics and humanistic psychology, Saybrook, Dallas (Texas - USA), 1986. 1 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 Introduzione Solo in apparente contraddizione con quanto appena affermato, tenterò di introdurre lo scambio epistolare che Rollo May e Carl Rogers ebbero nei primissimi anni Ottanta attraverso una, più o meno diretta, progressiva definizione del loro pensiero circa l’essenza della natura umana. “Lasciatemi riassumere la mia personale ideologia politica, se lo volete, in queste poche righe. […] Io sono molto soddisfatto dal punto di vista politico quando ogni persona è aiutata a diventare consapevole del proprio potere personale e della propria forza. Quando ogni persona partecipa in modo pieno e responsabile ad ogni decisione che la riguarda. Quando i membri di un gruppo imparano che la condivisione del potere è più appagante del suo utilizzo finalizzato al controllo altrui. Quando il gruppo trova modalità per prendere decisioni che concilino i bisogni ed i desideri di ogni membro. Quando ogni persona appartenente ad un gruppo è consapevole delle conseguenze di una decisione sia all’interno che all’esterno del gruppo. Quando ogni persona legittima la decisione di gruppo tramite il controllo del proprio comportamento individuale. Quando ogni persona si sente maggiormente forte e con un aumentato potere personale. Quando ogni soggetto ed il gruppo, come entità complessiva, è flessibile, aperto al cambiamento e capace di considerare le decisioni in atto sempre come ridiscutibili. […] Io suppongo che alcuni dei lettori considereranno tali dichiarazioni disperatamente idealistiche. Nella mia esperienza però, in modo particolare quando un clima di facilitazione è fornito ad un gruppo, i membri scelgono di percorrere le vie appena descritte. […] Sembra dunque essere vero, nella mia esperienza ma non solo, che le persone possiedano enormi capacità di apprendimento, di conseguimento degli obiettivi, di utilizzo della creatività nella risoluzione di problemi, di adoperarsi in vista del raggiungimento di un obiettivo prossimo”. Quanto emerge dalle precedenti righe è ciò che Carl Rogers ha maturato nella propria esperienza clinica e pare essere decisamente in linea con una considerazione positiva delle umane potenzialità e con la visone di uomo autonomo, agente di scelte, libero e responsabile, propria del filone umanistico. Il concetto di fiducia intride profondamente ogni affermazione e l’associazione con la teorizzata “tendenza attualizzante” è immediata. “È sempre stupendo sostenere il potenziale umano, discutere di nobili ideali e fare grandi piani per il futuro. Io mi chiedo se un possibile motivo del nostro interesse per questi nobili pensieri non sia la difesa contro la nostra disperazione personale nei confronti della possibilità di una guerra nucleare. […] Noi dimentichiamo che un gran numero di persone desiderano a livello subconscio la guerra poiché da sempre essa rappresenta un modo per convogliare l’odio, fornendo uno spazio ove dirigere la disperazione repressa. […] Abbiamo incontrato il nemico ed egli siamo noi stessi. Abbiamo bisogno di avere nuovi miti sui quali fondare la nostra nazione. […] Considero miti quelle strutture immateriali su cui la nostra società è basata e dalle quali traiamo i nostri valori morali. […] Noi abbiamo bisogno di 2 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 guardare più attentamente e vedere che molto di quello che chiamiamo onestà è in realtà mera ipocrisia. […] Ci sono segnali che noi, in America, stiamo entrando in una fase che rende più difficile mascherare o reprimere la disperazione e molti di noi sono preoccupati di questo. Ma noi sappiamo, dall’esperienza terapeutica, che i momenti di disperazione sono essenziali affinché il cliente possa scoprire le proprie capacità nascoste e le personali risorse di base. La funzione della disperazione è di ripulire progressivamente i nostri ideali di superficie, la nostra semplicistica moralità politica”. Rollo May non condivide dunque l’ottimismo di Carl Rogers sottolineando che non possiamo vivere a lungo senza fare i conti con la nostra disperazione repressa. Nei suoi scritti mette in evidenza le possibilità creative dell'inconscio ed il senso dell'angoscia annesso alla minaccia dei valori con cui l'uomo identifica la sua esistenza. In questa visione, le problematiche emotive vengono considerate semplicemente come un sintomo attraverso cui l'uomo tenta di esprimere una parte di sé. In altre parole, dal punto di vista esistenziale, la persona si avvierebbe verso la patologia quale mezzo per mantenere la massima coerenza possibile relativamente al proprio concetto di sé e l’angoscia rappresenterebbe dunque la lotta contro quanto tende a negarlo. Un’importante differenza rispetto al pensiero di Carl Rogers, pare essere l’assenza di un concetto assimilabile alla tendenza attualizzante, ovvero di una piena fiducia nei confronti delle positive ed autonome possibilità intrinseche di umano sviluppo. Il carteggio Carl R. Rogers “Commento critico a Rollo May”2 “Io penso a Rollo come al principale esponente della psicologia umanistica. Egli possiede una vasta cultura, è profondamente informato ed ha sviluppato una saggezza che emerge con evidenza dai suoi scritti. […] Io credo che la principale differenza fra me e Rollo sia relativa alla questione della natura dell’essere umano. Egli considera il demoniaco come elemento fondamentale della struttura umana ed il suo scrivere ruota attorno a questo tema. Da parte mia, penso di essere molto ben consapevole dell’incredibile quantità di comportamenti distruttivi, crudeli e malevoli presenti nel mondo d’oggi (dalle minacce di guerra all’insensata violenza nelle strade) e non ritengo che questa malvagità sia intrinseca alla natura umana. Non ho mai conosciuto un individuo che, in un clima psicologico sostenuto da opportunità di sviluppo e ricco di possibilità di scelta, scegliesse la via del male, quella crudele o distruttiva. Sembra che la scelta vada sempre nella direzione della massima socializzazione, migliorando le relazioni con gli altri. Così la mia esperienza mi porta a credere che sia l’influenza dei fattori 2 C.R. ROGERS, Notes on Rollo May, «Perspectives», 1981, 2 (1). 3 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 culturali ad essere la causa primaria dei nostri comportamenti malvagi3. Il brusco modo di nascere, la variegata esperienza infantile con i propri genitori, le costrizioni, l’influenza negativa del nostro sistema educativo, l’ingiusta distribuzione della ricchezza, i nostri radicati pregiudizi nei confronti degli individui diversi. Tutti questi elementi e molti altri, conducono l’organismo umano verso l’antisocialità. Considero dunque i membri della specie umana, così come quelli di altre specie, come essenzialmente contraddistinti dalla loro natura fondamentale, ma danneggiati dalle esperienze avute. La vita delle persone viene anche modellata dalle loro scelte e, come possiamo facilmente osservare, tali scelte possono portare a ferire l’altro o sé stessi. Ciò nonostante, se noi potessimo fornire un clima che promuova la crescita, le scelte dei soggetti dimostrano di andare, abbastanza liberamente e spontaneamente, in una direzione socialmente costruttiva. Io non posso ritenere che ciò sia possibile, nel caso in cui il male fosse un elemento intrinseco alla natura umana. Su questo punto, Rollo ed io continuiamo a divergere”. Rollo May “Il Problema del Male: Una Lettera Aperta a Carl Rogers”4 “[…] Hai anche cercato di delineare le principali differenze rispetto a me relativamente al problema del male. Come tu correttamente dici, al giorno d’oggi la presenza del terrorismo, di ostilità ed aggressioni è incalzante. Voglio aggiungere che l’importanza del nostro confrontarci in merito a questi temi è cruciale. Centrale tra queste forze distruttive è la possibilità (o la probabilità, come molte persone credono) di una guerra nucleare e dell’annessa minaccia radioattiva. Un recente sondaggio Gallup5 ha evidenziato che nella nostra nazione sette persone su dieci credono che ci sarà veramente una guerra nucleare e che esistano buone possibilità che ciò accada entro i prossimi dieci anni. Pare ovvio che se noi non riusciremo a rapportarci in modo costruttivo con la minaccia atomica e con il terrorismo annesso, la nostra civiltà morirà come quelle degli antichi Romani, Assiri, Egizi e Greci”. “Rollo, tu hai scritto, «considera il demoniaco come elemento fondamentale della struttura umana ed il suo scrivere ruota attorno a questo tema». Tu contrasti ciò con il tuo personale punto di vista, ovvero che «sia l’influenza dei fattori culturali ad essere la causa primaria dei nostri comportamenti malvagi. […] Considero dunque i membri della specie umana […] come 3 Quella di Rogers è una teoria del conflitto extrapsichico, che contempla la possibilità di costruire un modello non conflittuale di personalità. Il disfunzionamento psicologico di qualunque livello di gravità deriva da meccanismi alienanti relazionali che si instaurano durante lo sviluppo infantile. Nasce cioè dal fatto che in qualche modo l’ambiente non ha soddisfatto i bisogni del soggetto. Esso è, dunque, non strutturale ma contingente e primariamente psicologico. 4 R. MAY, The Problem of Evil: An Open Letter to Carl Rogers, «Journal of Humanistic Psychology», 1982, 22 (3). 5 «Newsweek» del 5 ottobre 1981, p. 35. 4 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 essenzialmente contraddistinti dalla danneggiati dalle esperienze avute»”. loro natura fondamentale, ma “Per prima cosa, io non ho mai usato il termine demoniaco, eccetto che per riferirmi a ciò che non intendevo dire. Il mio termine è daimon, che è criticamente diverso6. Cito da Love and Will, il libro nel quale ho scritto molto su questo tema: «il daimon è quella spinta presente in ogni essere ad affermare sé stesso, imporre sé stesso, perpetuare ed accrescere sé stesso. […] L’altra faccia di questa stessa affermazione è che cosa legittima la nostra creatività». Di conseguenza sto affermando che considero l’essere umano come un fascio organizzato di potenzialità. Queste potenzialità guidate dalla spinta del daimon rappresentano la fonte di entrambi gli impulsi, costruttivi e distruttivi. Se tale spinta è integrata nella personalità (che, nel mio pensiero, è lo scopo della psicoterapia) esita in creatività, che è costruttiva. Se il daimon non è integrato, può prendere il controllo dell’intera personalità, come accade nella rabbia violenta, nella paranoia collettiva dei periodi di guerra, nel sesso compulsivo o nei comportamenti oppressivi. L’attività distruttiva ne è quindi il risultato”. “Tu ed io abbiamo visto molti casi, nella terapia con adolescenti, di ragazzi che erano accusati dai loro genitori di essere distruttivi mentre in realtà stavano solo cercando di stabilire la loro propria indipendenza, di promuovere la loro personale affermazione e, in verità, il loro proprio benessere. Se spezziamo il daimon, come molti terapeuti fanno, noi rendiamo un disservizio ai nostri clienti. Io credo che Rilke avesse ragione quando scrisse «Se i miei demoni stanno per abbandonarmi, sono dispiaciuto che i miei angeli prenderanno il volo anch’essi»7”. “È vero che il concetto di daimon fornisce un fondamento logico all’attività demoniaca, così come succede per la creatività. Ciò potrebbe essere il motivo 6 Per approfondire la differenza di senso sottolineata da May fra i termini inglesi daimon e demon, propongo una riflessione etimologica dei lemmi demone e demonio che paiono porsi in modo simile nella stessa diversità di significato: demone, s. m. ‘demonio’ (av. 1306, Iacopone), ‘nelle antiche religioni politeiste, essere in forma umana, animale o mista, di natura quasi divina’ (1594, T. Tasso), ‘nel pensiero socratico, voce interna che richiama l'uomo al suo compito e lo ammonisce su ciò che deve fare o non fare’ (av. 1673, O. Rucellai Ricasoli), ‘passione sfrenata’ (1798-1817, U. Foscolo). Derivati: demonico, agg. ‘di demone’ (av. 1535, Leone Ebreo), demonismo, s. m. ‘tendenza d'alcune religioni primitive e superiori a spiegare i fenomeni naturali come manifestazioni di forze demoniache’ (1892, Gar.), demonologia, s. f. ‘studio delle credenze religiose sui demoni e sul demonio’ (1820, Bonav.). Vc. dotte, lat. daemone(m), col der. tardo daemonicu(m): dal gr. dáimon, forse der. del v. dáiesthai ‘distribuire, ripartire’ (il demone sarebbe un ‘dispensatore’). Demonologia è comp. con –logìa; demonio, s. m. ‘spirito maligno, che incita l'uomo al male’ (av. 1292, B. Giamboni), ‘persona abietta, capace d'ogni infamia’ (av. 1321, Dante), ‘ragazzo molto vivace’ (1875, Rigutini-Fanf.). Derivati: demoniaco, agg. ‘del demonio’ (sec. XIV, Scala del Paradiso), ‘diabolico, perverso, infernale’ (1881, G. Carducci). Vc. dotte, lat. tardo daemoniu(m), daemoniacu(m), dal gr. daimónion, originariamente ‘forza divina del demone’ (V. dèmone), daimoniakós. Definizioni tratte dal DELI - Dizionario Etimologico della Lingua Italiana (sec. ed.), M. CORTELLAZZO e P. ZOLLI, Zanichelli, Bologna, 1999. 7 R.M. RILKE, On withdrawing from psychotherapy after learning the goals to which it aspired, Letter 74, Briefe aus den Jahren, 1907 (bis 1914). 5 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 per cui tu mi descrivi (io credo erroneamente) come se io mi riferissi al demoniaco”. “Nella tua lettera ammetti che il male ci circonda […] ma affermi che è «l’influenza dei fattori culturali ad essere la causa primaria dei nostri comportamenti malvagi». Ciò fa della cultura il nemico. Ma chi crea la cultura se non persone come te e me? […] La cultura non è qualcosa di determinato dal destino ed impostoci dall’alto. […] La cultura crea il sé ed il sé crea la cultura. Tali elementi sono lo yin e lo yang dell’essere umano. Non esiste un sé se non in interazione con una cultura e non c’è cultura che non sia costruita sulla base dei sé. […] Io suggerisco che il male nella nostra cultura possa essere considerato anche come il riflesso del male presente in noi stessi e vice versa”. Rollo May arriva dunque a sottolineare come le “persone di domani”, descritte con fiducia da Carl Rogers, non siano altre che quelle stesse che temono fortemente il possibile scoppio della terza guerra mondiale, non aderendo certamente ad una visione ottimistica del futuro: “Tu dipingi un allettante ed attraente quadro e chiunque vorrebbe crederci. Io però ricordo le parole di Warren Bennis8, nel filmato di voi due, quando definiva il tuo punto di vista come maledettamente innocente”. “Come concili il mondo da te predetto con il fatto che il tasso di suicidi in questo paese è salito del 171% negli ultimi trent’anni? […] Mi chiedo come tu faccia a conciliare le tue affermazioni con il famoso esperimento che Milgram fece ad Yale […] [o] con l’esperimento della prigione che Philip Zimbardo realizzò a Stanford. […] Si, la cultura ha certamente degli effetti potenti su di noi. Ma non avremmo tali effetti se queste tendenze non fossero già presenti dentro di noi poiché, lo ripeto, noi creiamo la cultura. Quando proiettiamo le nostre tendenze negative sulla cultura (come facciamo quando reprimiamo il daimon) il male diventa una falla della cultura, non nostra. In tal modo noi non percepiamo quel colpo al nostro narcisismo che il riconoscimento del male come nostro potrebbe comportare. Se tu concludi che nei fatti gli esseri umani sono così soggetti all’influenza della loro cultura, così obbedienti agli ordini che gli vengono impartiti, così arrendevoli al loro ambiente, allora stai emettendo il più devastante di tutti i giudizi relativamente al male negli esseri umani. In tal caso saremmo tutti pecore, dipendenti da chiunque si trovi nel ruolo del pastore, e Fred Skinner avrebbe ragione. Ma io non penso che tu creda questo e non lo credo neanche io. […] Non voglio convincere del fatto che noi esseri umani siamo solo malvagi. Io sto considerando che noi siamo un insieme di entrambe le potenzialità, malvagie e virtuose”. Rollo May desidera spostare il ragionamento sulla tematica del male in chiave più prettamente psicoterapeutica. Lo spunto di partenza deriva dall’esperienza avuta come giudice, insieme ad altri undici esperti professionisti, nell’ampio studio sull’efficacia della Terapia Centrata sul Cliente con soggetti schizofrenici, che Carl Rogers ed altri svolsero al 8 Reflections: With Carl Rogers and Warren Bennis (1976). 6 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 Veterans Administration Hospital di Madison (Wisconsin)9 e che si concluse nel 1967. Ascoltando i nastri dei colloqui, che avrebbe dovuto commentare, May avvertì la sensazione di una buona relazione globale ma con un problema per lui molto rilevante: la difficoltà o addirittura l’impossibilità, per i terapeuti rogersiani10, di fare i conti con i sentimenti di “rabbia, ostilità e negatività” dei loro clienti. Ovvero con il loro male. Pare dunque che la contrapposta visione della natura umana e quindi il diverso paradigma di persona, apra a delle critiche mirate a ciò che dai modelli discende, come la concezione del processo terapeutico: “[…] Io ritengo importante che durante la terapia il paziente sia in grado di prendere posizione contro di me, il terapeuta. Questo è in accordo con quanto affermò Raskin11, che sentì che stava portando via qualcosa al paziente quando era «eccessivamente affabile, troppo identificato con qualcun altro». Ciò che stava portando via al paziente era la di lui possibilità di diventare indipendente. La rabbia dei pazienti è una parte essenziale della loro motivazione nel muoversi verso l’auspicata salute psicologica. La rabbia del terapeuta può anche essere un potente ausilio nell’aiutare i pazienti a sperimentare gli effetti del loro comportamento sulle relazioni in generale”. “Ciò significa che gli aspetti del male (rabbia, ostilità verso il terapeuta, distruttività) hanno bisogno di emergere in terapia. L’autonomia personale non sopravviene scansando il male, ma confrontandosi direttamente con esso. I terapeuti devono essere in grado di rendersi conto e di ammettere il loro proprio male (ostilità, aggressività, rabbia) se vogliono diventare capaci di vedere ed accettare questi sentimenti nei clienti”. “Io sono assolutamente pronto a credere che sarebbe impossibile per chiunque fare un’ora di terapia con te senza essere influenzato da ciò in modo determinante. Ma ogni paziente deve avere la possibilità di distruggere sé stesso, ed alcuni pazienti distruggeranno sé stessi senza dare importanza a quanto o a come tu ed io stiamo lavorando con loro […]”. 9 Questo studio dimostrò che le attitudini di empatia ed accettazione positiva incondizionata proprie del terapeuta sono correlate al grado di miglioramento psicologico dei clienti, ma soltanto se questi ultimi riescono a percepirle (importante condizione necessaria del cliente). C.R. ROGERS, ET. GENDLIN, D. KIESLER e C.B.TRUAX, eds. (1967), The Therapeutic Relationship and its Impact: A Study of Schizophrenia, Madison, University of Wisconsin Press. 10 Anche Carl Rogers nel commentare i giudizi degli esperti si è chiesto se vi fosse una ragione al fatto che i terapeuti centrati sul cliente sembrassero meno aperti a contattare le parti negative, ostili o aggressive dei soggetti in terapia con loro. Mi pare realistico credere che questo interrogarsi sull’applicazione della teoria derivi da una constatazione tecnica e non punti a rimettere in discussione, quantomeno in prima battuta, i sottostanti principi teorici. Sento dunque una notevole differenza fra il concetto di “non riuscire” e quello di “non potere” entrare in contatto con certi vissuti dei clienti. Rileggendo May ho avuto la sensazione che la sua critica potesse giungere alla conclusione dell’impossibilità, con una secondo me molto significativa ripercussione teorica implicita: l’eccessiva identificazione con il cliente potrebbe privarlo dell’opportunità di sperimentarsi come soggetto legittimato in ciò che sente e capace anche di assumere una posizione contro il terapeuta, entrando in un mondo fatto di relazioni interpersonali. 11 N.J. RASKIN, Becoming – a therapist, a person, a partner, a parent, a..., «Psychotherapy: Theory, Research and Practice», 1978, 15(4). 7 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 “Voglio tornare alla questione dell’inevitabile trasformazione della cultura. Hai affermato che questo «nuovo mondo» da te descritto «giungerà inevitabilmente» e successivamente hai commentato che questo nuovo mondo «porterà inesorabilmente ad un cambiamento culturale». Come puoi essere così sicuro? Ci sono innumerevoli scenari che possono essere scritti come predizioni del nostro futuro. Le persone menzionate in precedenza, che commettono un suicidio, vivono e muoiono all’interno di scenari completamente diversi dai tuoi ed i sondaggi indicano che la maggioranza dei cittadini nel nostro paese ha anch’essa un’idea del futuro molto differente. Gli scenari che prendo sul serio sono quelli che, nell’evoluzione della specie umana, considerano la presenza del male tanto quanto quella del bene”. “A proposito del cambiamento culturale tu scrivi anche che «noi potremmo sceglierlo ma sia che lo scegliessimo oppure no, il cambiamento avrà luogo comunque». Tu intendi che si verificherà indipendentemente da ciò che noi facciamo? Questo è nuovamente in linea con il pensiero di Fred Skinner: l’ambiente ci costringerà ad entrare in questo splendido nuovo mondo, che lo si voglia oppure no! Così come dal punto di vista di Skinner, la tua affermazione relativa al fatto che ciò avverrà indipendentemente da cosa gli esseri umani fanno, tronca i nervi dell’azione sociale. Un pericolo di cui sono molto consapevole è che le persone, ipnoticamente sedotte dalle rosee previsioni circa il futuro, concludano che non sia richiesto loro alcun sforzo e si siedano senza far nulla. Questo, detto così bene da Edmund Burke, è il modo più veloce per far trionfare il male”. “Ci sono innumerevoli questioni che invocano la nostra consapevolezza e le nostre energie […] inclusi centinaia di migliaia di bambini che muoiono di fame ed altri milioni che vanno a letto affamati ogni sera […]. Se vogliamo raggiungere un nuovo mondo, potremo farlo solamente risolvendo, prima di tutto, questi problemi. Se non lo faremo, non avremo quel nuovo mondo che tu vedi arrivare: sarebbe troppo alto il prezzo in sofferenza umana”. “In Love and Will ho anche scritto che il daimon «costituisce un profondo colpo al nostro narcisismo. […] Mentre il daimon non può essere considerato maligno in sé stesso, esso ci confronta con il tormentoso dilemma del suo possibile uso con consapevolezza, senso di responsabilità e valorizzando la vita oppure ciecamente in modo sconsiderato… Quando il daimon è represso, esso tende ad emergere in qualche forma (le sue forme estreme sono l’assassinio […] ed altri orrori che in questo secolo abbiamo conosciuto fin troppo bene)»”. “Io sto invocando un approccio realistico al male umano. Un collega mi disse che durante il dibattito con Martin Buber12 in Michigan tu affermasti che «l’uomo è fondamentalmente buono» e Buber rispose che «l’uomo è fondamentalmente buono e cattivo». Sto dicendo che noi dobbiamo includere una visione del male nel nostro mondo e in noi senza badare a quanto tale male offende il nostro narcisismo. Noi potremo occuparci di questo male 12 Dialogue between Martin Buber and Carl Rogers, «Psychologia», 1960, vol. 3, pp. 208221. 8 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 quando e solamente quando ciò che diciamo a proposito delle nostre virtù avrà potere e capacità di persuasione. Allora potremo parlare in modi che autenticamente intacchino la nostra cultura, a differenza di quel minuscolo numero di persone che vediamo nei nostri studi”. “Tu ed io abbiamo spesso riconosciuto le capacità dell’essere umano di raggiungere un certo grado di autonomia, di prendere decisioni, di mantenere una certa libertà di scelta in interazione reciproca con il destino e la cultura. Il riconoscimento di tali capacità ci impone una quota ulteriore di responsabilità nell’affermare che realisticamente l’ansia intrinseca, l’incerta e ristretta natura della libertà e la nostra fiducia nell’essere umano possono agire per il bene solo quando l’individuo può guardare il mondo in tutta la sua implicita ed esplicita crudeltà, il suo fallimento e la sua tragicità”. “Il problema del male (o piuttosto, il problema dell’assenza di un confronto con il male) ha profondi, secondo me avversi, effetti sulla psicologia umanistica. Io credo che questo sia il più importante errore nel movimento umanistico. Perciò Yankelovich13 può dire […] che la psicologia umanistica rappresenta il narcisismo della nostra cultura. Io credo che egli abbia ragione. I narcisisti sono persone rivolte all’interno piuttosto che all’esterno, che sono così persi nell’amore per sé stessi da non vedere e dunque non relazionarsi con la realtà che esiste fuori di loro, compresi gli altri esseri umani. Alcune persone che appartengono al movimento umanistico e lo guidano fanno ciò con il fine di trovare un paradiso, un porto nella tempesta, una comunità di persone con la stessa mentalità che si fingono addormentate di fronte al nostro male. Io, per me, scelgo di essere parte di quella minoranza che cerca di fare dell’Associazione di Psicologia Umanistica un’organizzazione che si impegna attivamente nel confrontarsi con il problema del male e del bene in noi stessi, nella nostra società e nel nostro mondo. Nella mia esperienza le nostre umane avventure, dal nascere al morire, si caricano di un sapore, una sfida, una bellezza solo quando cogliamo e viviamo l’umana potenzialità, fatta sia di male che di bene. La felicità che proviamo avrà, come suo antipode, l’affermazione di sé, l’ostilità e le tendenze negative di cui sto parlando. Nella mia esperienza è questa polarità, questa interazione dialettica, questa oscillazione tra il polo positivo e negativo che imprime dinamicità ed intensità alla vita umana. La vita, per me, non rappresenta la richiesta di seguire un modello preordinato di virtù, ma una sfida attraverso i secoli che si esplicita con il fatto che ognuno di noi può girare la propria leva verso il bene o verso il male. Questo mi pare che richieda quelle antichissime verità proposte dalle religioni, come la misericordia ed il perdono e (su questo sono sicuro che sarai d’accordo con me) non lasci spazio ad una superiorità morale o ad un’aderenza a principi etici auto-referenziale”. “Mi ricordo che quando ero giovane, a metà degli anni Trenta, avevo un incarico di consulente presso un college nel Middle West. Una porzione molto significativa degli studenti di quella scuola era pacifista. Noi credevamo nella Lega delle Nazioni e ci sentivamo certi che avremmo avuto solo bisogno di bandire la guerra dal mondo per avere la pace. Ricordo che guardavamo ad 13 D. YANKELOVIC-H, New Rules, Random House, New York, 1981. 9 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 un professore che diceva che ci sarebbe stata un’altra guerra come se appartenesse ad una casta inferiore. Quanto eravamo in errore i miei colleghi ed io! Non avremmo potuto mai credere a ciò che leggevamo sui giornali circa le persecuzioni degli ebrei in Germania, così come le persone ai nostri giorni non possono credere a ciò che leggono nei giornali circa gli ordigni nucleari. Il punto più importante di questa storia è che Hitler capitalizzò sui nostri nobili ma irrealistici ideali ed io credo che questo contribuì, quanto meno, ad anticipare lo scoppio della II Guerra Mondiale. Questo è il motivo per cui in Love and Will io scrissi: «Il fatto di non riconoscere l’elemento daimon è esso stesso daimon e ciò ci rende complici delle possessioni distruttive»”. “Non sto predicendo la nostra fine. Ma sto affermando che se ignoriamo il male, noi ci avviciniamo alla nostro funesto destino e la crescita ed il trionfo del male stesso potrebbero esserne l’esito. Non sono un pessimista. Si, io credo nella tragedia, come nei drammi di Shakespeare, Eugene O’Neill ed altri che li hanno narrati, perché penso alla tragedia come opportunità per mostrare la nobiltà dell’esistenza umana. Senza questa, la vita sarebbe pallida, priva d’interesse e monotona. Sorrido quando, nelle conversazioni con qualcuno dei miei così chiamati ottimistici amici, osservo che arrivando a trattare tematiche fondamentali come la possibilità di una guerra atomica, l’imminente crisi alimentare o il fatto che questo pianeta sarà distrutto, con tutte le probabilità, in un numero finito di anni, il loro ottimismo si mostra come formazione reattiva alla disperazione ed io risulto essere più fiducioso di loro. Ciò perché, così mi sembra, una persona ha bisogno di una filosofia personale che possa mantenersi indifferente al fallimento delle nostre azioni o alla momentanea disperazione”. Carl R. Rogers “Replica alla lettera di Rollo May”14 “[...] Io non posso toccare tutti gli argomenti che hai sollevato. Mi piacerebbe per prima cosa trattare un paio di punti minori presenti nella tua lettera, quelli circa i quali le mie sensazioni sono chiare”. “Quando parli del narcisismo che è stato incoraggiato dalla psicologia umanistica e di come molti individui sono «persi nell’amore per sé stessi», sento la voglia di alzare la voce e dire «Ciò non è vero!». Mi sono poi reso conto che quello che stavo dicendo è che ciò non è vero nella mia esperienza, ma la mia esperienza è limitata ai clienti ed ai gruppi che hanno avuto a che fare con la mia personale branca della psicologia umanistica e della filosofia. In quei gruppi, semplicemente, non ho visto lo sviluppo di un pericoloso narcisismo e sicuramente neanche di un eccessivo amore per sé stessi. Se queste caratteristiche sono emerse in altre sfaccettature del movimento umanistico, io non sono stato in contatto con loro. Mi rendo conto che ciò è certamente possibile poiché io non sono strettamente a contatto con altre parti del movimento umanistico. Nei gruppi con i quali ho avuto un contatto 14 C.R. ROGERS, Replay to Rollo May’s letter, «Journal of Humanistic Psychology», 1982, 22 (4), , pp. 85-89. 10 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 la verità è del tutto opposta. Tali gruppi conducono ad un’azione sociale di natura realistica. Gli individui che entrano come fanatici sociali diventano molto più socialmente realistici, pur mantenendo ancora la volontà di agire. Le persone che non erano molto consapevoli delle tematiche sociali diventano molto consapevoli ed, ancora, optano per azioni realistiche in merito a tali temi. Noi abbiamo avuto abbondante evidenza di questo nei nostri gruppi d’incontro e seminari. L’ira irrazionale e la violenza sono a volte placate, ma aumenta l’azione di natura maggiormente realistica”. “Un divertente pezzetto di quanto ciò mi risulti evidente. Quando ho ricevuto una copia della tua lettera aperta, stavo apponendo le ultime correzioni ad una dichiarazione dai toni molto forti in merito alla guerra nucleare e a cosa dovrebbe essere fatto per prevenirla. Io sto prendendo una posizione contraria alle politiche del nostro governo, che ho la sensazione stiano rendendo la guerra nucleare maggiormente probabile. Questo è soltanto un esempio del fatto che noi ci troviamo d’accordo in così tante cose ed è difficile essere esattamente certi circa le nostre differenze. Io sono certo che tu ed io stiamo entrambi agendo per fare ciò che possiamo per prevenire questo mostruoso male che è la guerra nucleare”. “Tu parli a lungo del fallimento delle persone come me e della terapia centrata sul cliente nel riconoscere, accettare e rispondere ai sentimenti di rabbia, ostilità ed emozioni negative in generale, forse in modo particolare quelle dirette verso il terapeuta. Io penso che fino ad un certo punto ciò fosse senza alcun dubbio vero, nel remoto passato, sebbene ho anche pubblicato esempi del modo in cui ho gestito l’accanita ostilità verso di me durante la terapia. Io non sono mai stato completamente d’accordo con l’opinione dei giudici esterni nella nostra ricerca sugli schizofrenici, ovvero di noi come un gruppo che schiva o evita le reazioni negative od ostili. Devo riconoscere come possibile il fatto che i giudici avessero ragione. Sicuramente negli ultimi anni ho sentito di aver risposto molto più adeguatamente a simili atteggiamenti. Il film Carl Rogers Counsels an Individual: Anger and Hurt, di cui buona parte è stata pubblicata in The Comprehensive Textbook of Psychiatry15, dimostra che ero responsivo sia alla rabbia che al dolore che fu scoperto essere sottostante. Io credo di aver imparato ad essere accettante nei confronti della rabbia verso di me e verso altri. Potrebbe esserci una verità in ciò che dici, che i terapeuti centrati sul cliente hanno una tendenza a non accettare o a non rispondere a tali vissuti. Se è così, mi rammarico di ciò tanto quanto te”. “Ora mi piacerebbe ritornare all’argomento di maggiore rilevo. Non sei mai sembrato interessato al fatto che gli impulsi malvagi degli uomini siano genetici ed intrinseci o siano acquisiti dopo la nascita. Per te essi sono semplicemente li. Filosoficamente, la loro origine, per me genera una grossa differenza. Vorrei provare a chiarire le mie ragioni. Io sento che la tendenza attualizzante è intrinseca. In questo l’uomo è uguale a tutti gli altri organismi viventi. Io posso contare su ciò come qualcosa di costantemente presente. Ciò potrebbe assumere bizzarre ed inutili forme. Io diedi un esempio delle 15 H.I. KAPLAN, A.M. FREEDMAN E B.J. SADOCK, Comprehensive Textbook of Psychiatry III, (terza ed.), Williams & Wilkins, Baltimora (Maryland – USA), 1980. 11 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 patate in un deposito seminterrato, che estendevano i propri bianchi e deboli germogli all’insù in uno sforzo vano alla ricerca della luce. Io percepisco in modo simile i giovani svantaggiati dei ghetti il cui unico modo per rafforzare il proprio ego è quello di essere il miglior rapinatore o il più audace svaligiatore della propria gang. Il mio atteggiamento è simile verso lo psicotico in un reparto psichiatrico, che si crede Gesù Cristo. Ma la fondamentale tendenza attualizzante agisce verso la realizzazione”. “Nella mia esperienza non ho trovato altrettanta innata tendenza verso la distruzione, verso il male. Io non posso contare sulla certezza che la persona stia lottando consciamente od inconsciamente per soddisfare una natura malvagia. Io non trovo questo neanche negli animali. C’è, comunque, una rara eccezione che ha inceppato il mio pensiero. Vidi un programma televisivo sui cani selvaggi africani. C’era una femmina che era gelosa di un’altra. Quando la seconda femmina si assentò dalla sua tana, la prima vi entrò, tolse uno dei cuccioli e lo uccise. Ciò accadde un giorno dopo l’altro finché la cucciolata non fu totalmente annientata. Io posso ancora ricordare lo shock provato di fronte a ciò, poiché esso è così poco caratteristico del mondo animale. Loro uccidono, ma normalmente solo nell’interesse di realizzare loro stessi. Io deduco che tu cogli la tendenza centrale nella natura umana come duale, diretta simultaneamente verso una crescita creativa ed un male distruttivo. Con l’eccezione che ho appena menzionato, io non trovo che ciò descriva il comportamento animale, quello vegetale o quello umano. Se gli elementi necessari per la crescita sono presenti, la tendenza attualizzante si sviluppa in modi positivi. Negli esseri umani questi elementi di crescita non sono solamente l’alimentazione appropriata, eccetera, ma un clima derivante da un certo atteggiamento psicologico”. “Dunque, come posso rendere conto del comportamento malvagio che è così evidentemente presente nel nostro mondo? Nella mia esperienza, ogni persona ha la potenzialità di agire comportamenti malvagi. Io, ed altri, abbiamo avuto impulsi omicidi e crudeli, desideri di offendere, sentimenti di ira e collera, desideri di imporre la nostra volontà sugli altri. È bene tenere in mente che io possiedo anche la capacità di vomitare, per esempio. Se io o chiunque, dovessimo agire questi impulsi ciò dipenderà, a mio parere, da due elementi: condizionamento sociale e scelta volontaria. Forse possiamo usare Hitler come esempio. La sua precoce esperienza personale di vita e le circostanze sociali hanno sicuramente reso naturale il fatto che egli volesse tentare di soddisfare sé stesso tramite la possibilità di diventare un pezzo grosso, un leader pieno di odio verso ciò che lui percepiva come responsabile della propria umiliazione. Ma oltre a quello, in atti come la decisione di sterminare gli ebrei, la sua scelta personale rispetto a ciò fu anch’esso un fattore molto concreto”. “Io credo che, per lo meno speculativamente, ogni comportamento maligno sia originato da una variazione nei livelli di questi elementi”. “Devo ammettere che c’è molto che non capisco circa alcuni comportamenti malvagi. Gli esperimenti di Milgram e Zimbardo per me rappresentano un rompicapo terribile, così come fu per gli stessi sperimentatori. Certamente i soggetti di Milgram erano influenzati dalla nostra educazione al conformismo e quelli di Zimbardo dal nostro 12 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 allenamento al pregiudizio. Ma sono d’accordo con te che queste somigliano a malapena a spiegazioni adeguate”. “È interessante che nelle nostre decisioni circa che cosa fare nei confronti dei comportamenti cattivi e delle circostanze malvagie, noi sembriamo notevolmente simili. Noi intraprendiamo la migliore azione che possiamo vedere per opporci al male, per distruggerne le cause, per cercare di raggiungere le persone che stanno agendo in modi dannosi. Io sono lieto di avere avuto l’opportunità di lavorare con gruppi composti da individui ostili ed in antagonismo le cui intenzioni maligne verso un altro erano molto evidenti. In un gruppo proveniente da Belfast con cui abbiamo lavorato e che includeva sia Cattolici che Protestanti, tanto gli estremisti quanto i moderati, una giovane donna Protestante in una delle prime sessioni disse «Se un militante dell’IRA dovesse giacere ferito di fronte a me sulla strada, gli camminerei sopra!». Questo fu tipico di alcune delle amare emozioni espresse. Malgrado ciò in un clima di comprensione ed accettazione durante una breve relazione di sedici ore, queste persone cambiarono così tanto i loro atteggiamenti che quando tornarono a Belfast lavorarono in coppia per mostrare a dei gruppi un film realizzato nell’interesse della riconciliazione. Quindi non sono d’accordo neanche per un minuto col fatto che la psicologia umanistica, per lo meno il mio modello di psicologia umanistica, «tronchi i nervi dell’azione sociale». Essa intensifica l’azione sociale”. “Tu hai parlato abbastanza a lungo della trasformazione che io credo sia in arrivo nel nostro mondo. In questo io sono molto influenzato dai pensieri di uomini come Prigogine. Gli attuali sconvolgimenti nella nostra società e nel nostro mondo mi sembrano predire un’imminente inevitabile trasformazione. In chimica, ed io credo anche nella nostra cultura, questi picchi di disordine conducono ad una riorganizzazione, ad un livello di ordine più elevato. A proposito delle persone di domani, io penso che tu abbia del tutto frainteso la mia descrizione di quelle persone. Io stavo parlando della persona che vuole essere preparata a vivere in un mondo trasformato, non la persona media, e sebbene io creda che una trasformazione sia inevitabile, essa sicuramente non sarà una trasformazione socialmente costruttiva a meno che noi non gli si dedichi tutti i nostri sforzi. Penso che su questo possiamo essere d’accordo”. “Abbastanza curiosamente c’è un tema minore in merito al quale penso tu sia veramente troppo ottimista. Ti riferisci due volte alla nostra cultura in fase di deterioramento o disintegrazione come le culture Greca e Romana. Io penso che ciò possa essere uno scenario possibile, ma non è quello che accadrà se ci sarà una guerra nucleare. In quel caso, la nostra cultura sarà completamente annientata. Non sarà semplicemente deteriorata o disintegrata […]”. Commenti conclusivi Questo scambio epistolare mi sembra molto potente. Esso rende in pieno la posizione dei due autori nei confronti di una pluralità di temi correlati. Ogni singolo contributo è convincente anche se una lettura superficiale potrebbe indurre a considerare maggiormente realista colui che appare più 13 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 pessimista. Pur riconoscendomi tratti leopardiani, posso affermare che il “disperato idealismo” o la “maledetta innocenza” sono caratteristiche che associo più facilmente all’Alice di Lewis Carroll piuttosto che al pensiero di Carl Rogers. Didatticamente, prima di discutere le differenze, introdurrei i temi comuni. Rogers e May sono tra i più importanti esponenti della psicologia umanistica. È dunque ovvio ritenere che ne condividano i principali elementi del paradigma di riferimento, fra cui: La centralità e l’unicità della persona che, unica e peculiare, diventa il principale motivo d’interesse; Il riferimento alla fenomenologia; La fiducia nella capacità umana di autodeterminazione; L’importanza del concetto di libertà e dell’annessa responsabilità; Il principio olistico, che considera la natura di ogni organismo vivente come profondamente integrata, non dunque la mera somma delle singole parti; Il principio dinamico, ovvero l’importanza attribuita alla spinta a realizzarsi in base al proprio potenziale di crescita innato. Tema centrale è dunque la capacità evolutiva, propria di ogni organismo biologico, che Rogers definisce tendenza attualizzante. Insieme al principio olistico, con il quale si trova in un rapporto di stretta interdipendenza, il principio dinamico fonda un importantissimo assunto di base dell’approccio umanistico. Il dinamismo ha infatti senso solo se applicato ad un’entità con un buon livello d’integrazione, come diversi gruppi di cellule che operano e si sviluppano sinergicamente o come un individuo psicologicamente integrato in grado di assumersi le proprie responsabilità. Ma quali dunque, poggiando entrambi su questo comune terreno, le differenze? Una prima evidente differenza fra i due autori è relativa a come essi concepiscono la genesi dei comportamenti malvagi, sostanzialmente intesi al pari di un quadro psicopatologico. Rollo May è convinto che sia il mancato confronto con il male fisiologicamente presente nell’essere umano a favorire comportamenti di tale natura. Una posizione di questo genere non deriva necessariamente da una concezione della psiche come entità caratterizzata da un conflitto intrinseco tra istanze opposte (come nel modello freudiano), ma non esclude che alcuni elementi motivazionali presenti in essa, ovvero le due facce del daimon, possano generare quadri sintomatici. Il rapporto tra tali fattori diventa infatti disfunzionale quando essi non vengono sufficientemente riconosciuti e dunque integrati. Viceversa, secondo Carl Rogers, la mente non sarebbe formata da parti distinte e contrapposte a priori. Egli pensa invece che solo nell’esperienza si possano creare le specifiche condizioni che rendono ragione dei comportamenti malvagi. Per Rogers il conflitto è dunque assolutamente extrapsichico. Un’altra differenza, che ragionevolmente potrebbe conseguire da quanto appena descritto, è relativa al grado di fiducia nelle potenzialità umane. May non è infatti ottimista come Rogers nel pensare alle capacità dell’uomo di procedere autonomamente e in modo funzionale verso la realizzazione di sé. Egli concepisce l’uomo come un insieme di variegate potenzialità di differente natura. Tra queste trovano spazio sia quelle positive, in cui fida Carl Rogers, che quelle negative. Queste ultime, secondo Rollo May, sono già 14 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 presenti e non si pongono in essere esclusivamente sulla base di una frustrazione dei nostri bisogni da parte dell’ambiente. Volendo richiamare due delle figure citate come metafora del proprio pensiero, ecco forse ciò che mi evoca l’inquietudine esistenziale, ed in parte anche la lacerazione, proprie di Rilke. Sul versante opposto, alla figura di Ilya Prigogine associo soprattutto il sentimento della speranza; la fiducia illuminista nelle scienze avvalorata dalla natura stessa delle teorie formulate. Ulteriore differenza riguarda il tema della responsabilità dell’uomo. La possibile assenza di libertà nel pensiero di Rogers, viene sollevato da May in relazione all’interazione dell’individuo con la propria cultura. La sua riflessione riguarda due livelli, uno relativo al fatto che la cultura è emanazione dell’uomo e dunque sono gli umani aspetti (tra cui quelli negativi) a riflettersi e sostanziarsi come elementi culturali (tra cui quelli negativi), l’altro inerente il nostro essere agenti attivi nei confronti dei possibili cambiamenti che non accadono indipendentemente dalla nostra azione, come pensa Skinner, relegandoci ad una posizione passiva. Rogers, pur ammettendo di non essere in grado di fornire una spiegazione esauriente ad esempio in merito agli esperimenti di Yale e Stanford, sottolinea che il suo attribuire importanza al contesto ambientale e dunque al clima facilitante e la sua fiducia nel fatto che la società evolverà verso scenari maggiormente salubri, non significa necessariamente scavalcare l’intenzionalità e l’annessa responsabilità dei singoli individui. Un’ultima differenza di pensiero che pare importante segnalare riguarda il piano teorico ed almeno una sua netta implicazione clinica. Rollo May rileva la presenza di atteggiamenti narcisisti nel movimento umanistico e di forte centratura sui bisogni individuali nei suoi leaders, cosa che Rogers respinge con fermezza facendo riferimento, anche come limite, alla sua personale esperienza. L’impossibilità o l’incapacità dei terapeuti rogersiani, a cui si riferisce May, di contattare le parti negative del cliente, rappresenta il risvolto clinico a cui accennavo prima. Carl Rogers ammette che in una prima fase di vita del suo approccio ciò rappresentasse un rischio effettivo, ma è anche con la consueta scientificità e dunque con dati oggettivi, che evidenzia la sua piena capacità responsiva. L’osservazione di May, dunque, non coglierebbe una qualità sostanziale dell’approccio terapeutico proposto da Rogers quanto un limite soggettivo e pratico introdotto da chi lo applica. Vorrei infine azzardare una riflessione critica. Nodo centrale intorno al quale pare articolarsi la sostanziale divergenza nel pensiero dei due autori mi sembra essere non tanto l’esistenza o meno di una qualità malvagia e negativa nelle azioni e nei pensieri dell’essere umano, quanto piuttosto l’interrogarsi circa l’origine prima di questa qualità del male che è evidente nella storia e nei fatti. È quindi intorno a questo quesito che i due autori paiono porsi su posizioni differenti, senza tuttavia esplicitare in modo manifesto l’interrogativo stesso. La posizione di May sembra essere quella di chi crede sia intrinseca alla natura umana una qualità duale di bene e male. Da qui si originerebbe e spiegherebbe l’esistenza del male tanto nei singoli quanto nelle culture da essi generate. Viceversa, Rogers pare non rispondere direttamente alla 15 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 questione dell’origine primaria del male, dichiarandone solamente l’attuale esistenza come una conseguenza della mancanza di alcune condizioni favorevoli allo sviluppo pieno ed armonioso dell’identità, che per sua natura tenderebbe esclusivamente al bene, cioè alla positiva autodeterminazione ed attualizzazione. Rollo May, osservando acutamente che la cultura è in primis un prodotto dell’uomo e che solo secondariamente contribuisce in modo circolare a determinarne lo sviluppo, sembra voler inchiodare Rogers sul terreno delle origini del male. Se l’uomo è sostanzialmente positivo ed è l’uomo e non altri ad aver per primo creato le condizioni del suo stesso sviluppo, da dove originerebbe il male? L’impressione è che su questo terreno Rogers non scenda, non dia cioè una risposta articolata ed esaustiva. Rogers cioè, non affronta la questione astratta e filosofica del perché la natura umana, intrinsecamente positiva, debba in origine far mancare a sé stessa le condizioni allo sviluppo della sua stessa qualità. Il percorso di pensiero che Rogers pare seguire sembra radicarsi in modo più forte alle proprie osservazioni esperienziali derivanti dalla prassi e queste gli dicono che l’uomo da lui incontrato e conosciuto tende naturalmente ad attualizzarsi positivamente in presenza di un preciso clima facilitante. Schivando il tema comune i due autori sembrano infine lasciarsi, con pieno rispetto, su posizioni reciprocamente differenti. Obiettivo di un futuro lavoro potrebbe essere l’analisi del perché gli autori non affrontino apertamente, nel loro scambio epistolare, tale domanda cruciale. Ascoltando le mie sensazioni ed azzardando intuitivamente una mia impressione personale potrei affermare, come iniziale traccia di risposta, che il loro muoversi su terreni di pensiero differenti potrebbe essere esemplificavo di due differenti posizioni epistemologiche e di genesi del pensiero. Conoscenza principalmente logico-filosofica quella di Rollo May, nonostante non lesini importanti esempi concreti, e fortemente connotata in senso esperienziale-pratico quella di Carl Rogers. Poggiando appunto su tali differenti terreni i due autori, nel breve e diradato spazio di questo carteggio, non si sono forse realmente incontrati. Bibliografia CIONINI L. (a cura di), Psicoterapie. Modelli a confronto, Roma, Carocci, 1998. DIAMOND S.A. (prefazione di R. May), Anger, Madness and the Daimonic: The Psychological Genesis of Violence, Evil and Creativity, Albany (New York USA), State University of New York Press, 1996. May Rollo intervistato da John M. Whiteley, Evil is a problem for all of us, documento ospitato sul sito web dell’Undergraduate Computing Facility, un’organizzazione dipendente dalla School of Information and Computer Science all’Università della California, Irvine (USA): www.ucf.ics.uci.edu/~zencin/peace2/interviews/may_rollo.html MAY R., ROGERS C.R. et al., American politics and humanistic psychology, Dallas (Texas - USA), Saybrook, 1986. 16 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 ROGERS C.R., Carl Rogers, dialogues: conversations with Martin Buber, Paul Tillich, B. F. Skinner, Gregory Bateson, Michael Polanyi, Rollo May, and Others, Boston (Mass. - USA), Houghton Mifflin, 1989. ROGERS C.R., La Terapia centrata-sul-cliente, G. Martinelli & C., Firenze, 1994. 17