una politica per gli esperantisti - Federazione Esperantista Italiana

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una politica per gli esperantisti - Federazione Esperantista Italiana
Andrea CHITI-BATELLI
UNA POLITICA PER GLI ESPERANTISTI
«Sua disianza vuol volar senz’ali...»
(DANTE, Paradiso, XXXIII, 15)
1.- Non essendo io un linguista, né un interlinguista, mi guarderò bene dall’interloquire sugli argomenti
relativi alle discipline in ordine alle quali sono maestri i professori Bertinetto e Piron, ma, sia pur molto
umilmente, vorrei permettermi di colmare una lacuna che rilevo nei loro ragionamenti.
Le discussioni teoriche sono certo fondamentali e costituiscono la premessa indispensabile per poi agire ex
informata conscientia: e cioè razionalmente e non a caso: «conoscere per deliberare», diceva Einaudi. Ma è poi
necessario passare, appunto, al campo pratico e decidere, proprio sulla base dei risultati di quelle discussioni,
se e come agire, considerando la situazione presente, il corso storico della nostra epoca, le forze in gioco e la
loro rispettiva consistenza.
2.- Ebbene: la situazione ci dice che è in atto una progressiva affermazione dell’inglese come lingua franca
internazionale; che ciò ha cause oggettive, che possono dispiacere e provocare reazioni anche violente contro
quello che viene da molti definito l’«imperialismo americano», ma che non possono esser negate (you cannot
fight against facts, they don’t mind at all, diceva Disraeli); che, se l’attuale tendenza continuerà, le altre lingue,
e in particolare quelle europee – anche le più importanti – saranno, nel corso del secolo appena iniziato,
degradate progressivamente al rango di dialetti, anticamera dell’estinzione. Fenomeno ulteriormente favorito,
in Europa, dalla presenza, in seno alla U.E., della Gran Bretagna – oltre all’Irlanda – che costituisce una sorta
di cavallo di Troia linguistico e non esita, in seno alle istituzioni comunitarie, a ricorrere a ogni mezzo per
imporre arrogantemente la predominanza della propria lingua, col consenso, e talora l’appoggio, di membri
autorevoli delle istituzioni europee appartenenti ad altri Stati.
3.- Ciò che rende particolarmente grave e apparentemente senz’alternative tale situazione è che la ricordata
affermazione dell’inglese risponde anche ad esigenze reali e crescenti, in un mondo sempre più «globalizzato»,
di una lingua franca unica che assicuri la «trasparenza» della comunicazione internazionale, dai livelli più umili
(il turista giapponese che fa acquisti – stavo per dire shopping – nei nostri Paesi, per salire fino ai più elevati,
come la comunicazione scientifica, passando per tutti i livelli intermedi: il traffico aereo, i commerci, l’alta
finanza, ecc.). Ed è una pia illusione – notiamolo di sfuggita – creder che un’alternativa valida sia il
plurilinguismo, importante certo per le élites ma irrealizzabile per le masse, e che ad ogni modo lascerebbe
insoluta l’esigenza di una lingua internazionale unica, che continuerebbe ad esser l’inglese1.
4.- Credere che a una situazione ormai così gravemente compromessa sia possibile contrapporre solo le
qualità dell’esperanto – senza dubbio infinitamente più adatto e più semplice dell’inglese (specie, ma non solo,
per i popoli parlanti in lingue non flessive e non indo-europee), e soprattutto non «glottofago», in quanto non
è la lingua viva di nessun popolo – è, secondo me, un’illusione contraddetta da tutta la storia, la quale mostra,
senza eccezioni, che la lingua franca internazionale affermatasi, in vari periodi storici e in vari ambiti geografici,
è sempre stata quella del Paese dominante. Da ciò la mia proposta di «rivoluzione copernicana» che non da ieri
rivolgo agli esperantisti: di darsi una politica capace di risponder alla domanda di Stalin, adattata al nostro caso,
«quante divisioni ha l’esperanto?», e di puntare come obiettivo essenziale e pregiudiziale allo sviluppo –
auspicabilmente il più rapido possibile, o sarà troppo tardi – dell’Unione Europea in un vero e proprio Stato
federale, che disporrà allora di forza e potenza comparabile, anche se non uguali, a quelle degli Stati Uniti, e
avrà un duplice interesse a una lingua franca neutra: interno, per metter tutti i suoi popoli su un piede di parità,
ed esterno, per combattere e soppiantare l’influenza dell’inglese: che non presenta solo i rischi di glottofagia
a cui si è fatto cenno; non solo minaccia, insieme alle nostre lingue, anche le nostre culture (rischio che quasi
tutti trascurano); ma ha anche gravi effetti di dominanza imperiale. Un’Europa che parli inglese non sarà mai
realmente indipendente, e probabilmente avrà sempre meno l’energia vitale per volerlo.
5.- Poiché però gli sviluppi dell’Unione Europea vanno a rilento, e quanto mai deludenti sono, nell’ottica
federalista che ho delineato, le prospettive della nuova «Costituzione» (con molte virgolette) progettata per il
nostro continente2, parrebbe che non vi fosse via d’uscita e che la partita debba considerarsi definitivamente
perduta. È questa, purtroppo, l’ipotesi più probabile. Ma finché c’è vita c’è speranza, e vi è ancora, secondo me,
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una possibile via di salvezza.
L’istituto di Cibernetica dell’Università di Paderborn, diretto dal professor Helmar Frank, ha da vari anni
dimostrato, con l’esattezza di quella scienza e con precisi modelli matematici, che insegnando per due anni ai
fanciulli l’esperanto, e passando poi all’insegnamento di una lingua viva, quest’ultima viene appresa da tali
alunni meglio e più rapidamente dei loro coetanei che abbiano iniziato subito con lo studio di quella lingua viva.
Se tale forma d’insegnamento – che può esser combinata con tutti i metodi messi a punto dalla glottodidattica
e può esser messa subito in atto – venisse adottata da tutti i Paesi europei (e intanto da qualcuno), non solo si
sarebbe facilitato e reso più semplice l’apprendimento di una, o di più lingue straniere, da molti, come si diceva,
auspicato; ma si sarebbe aperta la via per una successiva affermazione dell’esperanto non più soltanto come
strumento didattico propedeutico, ma come esso stesso lingua di comunicazione europea e mondiale (pur
restando aperte tutte le altre scelte, per chi – a mio avviso a torto – non accetti quella soluzione).
6.- È assai deludente che gli esperantisti trascurino interamente o quasi questa importantissima possibile
àncora di salvezza (sorprende molto meno, invece, che Paderborn sia interamente e intenzionalmente ignorato
dai glottodidatti, che ormai hanno scelto l’inglese e sono del tutto refrattari a prender in considerazione le riserve
che abbiamo formulato e i pericoli che abbiamo segnalati in ordine a questa lingua; ma tale ignoranza va
comunque stigmatizzata come prova di scarsa informazione, e ancor minore obiettività scientifica).
Tale indifferenza degli esperantisti si spiega con il fatto che ormai da molti anni la maggior parte di loro –
come è stato addirittura teorizzato vari anni addietro in un apposito manifesto, detto Manifesto di Rauma, dalla
città svedese in cui è stato siglato – hanno abbandonato l’obiettivo zamenhofiano «l’esperanto lingua
mondiale», per ripiegare sull’esperanto come hobby interno al mondo dell’esperantistaro (l’insieme degli
esperantisti). Una tendenza che, se continuerà a prender piede, vedrà rapidamente atrofizzarsi l’importanza di
questa lingua, il peso e il numero degli esperantisti, la stessa sopravvivenza dell’esperanto, come meglio dirò
al punto 10.
Una ragione di più per reagire energicamente a tale tendenza – stavo per dire trend – e mettere in opera quella
«rivoluzione copernicana» che ho auspicato per gli esperantisti: darsi una politica, o rassegnarsi ad una lenta
e ingloriosa decadenza, insieme alle lingue europee e non solo europee.
7.- Certo, la metanoia che io ritengo indispensabile alla sopravvivenza dell’esperanto non potrebbe esser
direttamente perseguita dalle attuali associazioni esperantiste, riunite nella U.E.A., ormai irreversibilmente
dedite – salvo il consueto innocuo omaggio verbale a Zamenhof (stavo per dire lip-service) – a coltivare gli
obiettivi indicati nel Manifesto di Rauma. Occorrerà un’organizzazione a parte, che potrebbe esser la già
esistente Unione Esperantista Europea, opportunamente rivitalizzata. Ma è certo – o almeno tale è la mia ferma
convinzione – che quanto propongo, e la sua realizzazione o insucesso, costituisce l’experimentum crucis per
la sopravvivenza, o meno, della lingua di Zamenhof: il cui fallimento segnerebbe la fine, ripeto, anche delle
lingue europee entro al massimo cento anni: un longum aevi spatum misurato sulla durata della vita individuale,
ma un «mover di ciglia», per dirla con Dante, in rapporto a quello dell’umanità e dell’Europa.
8.- Quella che ho esposto fin qui è però una strategia a lungo termine. Per l’immediato – e stante la scarsa
consapevolezza del problema e la refrattarietà dei più alle tesi prospettate – occorre una tattica che, accanto alla
proposta di Paderborn relativa all’insegnamento delle lingue nella scuola, suggerisca una generale politica
linguistica per tutta la società europea, e in particolare per le istituzioni dell’U.E.
A tal fine io ho proposto già qualche anno addietro, insieme ad Umberto Broccatelli3 (e sono lieto che ora
la mia proposta sia stata fatta propria dai radicali, e in particolare dalla loro «”Esperanto” Radikala Asocio»,
e, per loro iniziativa, accettata, almeno in linea di massima, dalle competenti autorità italiane) che venga
convocata, nell’ambito dell’U.E., una Conferenza europea permanente delle lingue, la quale si riunisca per una
settimana con cadenza annuale e in un luogo determinato, in modo da assumerne il nome (la Conferenza di
Perugia, o invece di Montpellier, o di Tubinga, ecc.) e in cui vengano discussi i problemi, i rischi e le possibili
soluzioni della comunicazione linguistica europea.
9.- Non mi nascondo però che questa – che pur mi sembra, hic et nunc, la sola iniziativa realistica – è pur
sempre una soluzione di ripiego, un pis aller, un faute de mieux. Se ci fosse chiaroveggenza e buona fede, e si
avesse il coraggio di andar contro interessi costituiti e routines inveterate, esiste già una letteratura sufficiente
per consigliare perentoriamente ed in piena consapevolezza le scelte che ho illustrato, e in particolare quella
dell’esperanto lingua franca europea (come primo passo, e decisivo, perché esso divenga poi lingua franca
mondiale), senza bisogno di ulteriori discussioni: che non convinceranno mai chi ha deciso di far orecchi da
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mercante: «non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire», dice il Vangelo.
Ma non si deve, ciò nonostante, disperare e occorre, malgrado tutto, insistere: «col tempo e con la paglia,
afferma un vecchio proverbio toscano, si maturan le sorbe e la canaglia».
10.- Ancora una parola sull’accenno, fatto al punto 6, sui rischi che corre anche l’esperanto, se non si attua
la scelta politica che ho detto.
Invero la lingua di Zamenhof ha avuto il successo, sia pur relativo, che ha conosciuto in più di un secolo
di vita non solo per le sue incontestabili qualità e conformità allo scopo, ma anche perché, specie al suo inizio,
la partita fra inglese, francese e tedesco (quest’ultimo fino alla prima guerra mondiale) era ancora tutt’altro che
decisa. Ma quando l’inglese avesse definitivamente trionfato – e non siamo lontani da questo esito, se non si
reagisce subito – è facile prevedere che anche l’esperanto subirà la stessa sorte che già minaccia le lingue
nazionali e sopravviverà, se pure, fra pochi irriducibili, e solo con le finalità del Manifesto di Rauma: un innocuo
passatempo, e la lenta estinzione anche come tale.
Già oggi, del resto, se non il numero degli esperantisti, certo la consistenza e il peso letterario e culturale
dell’esperanto è assai inferiore a quello che tale lingua aveva, ad es., negli anni 30, quando erano attive persone
come Baghy, Kalocsay e Waringhien, e fu pubblicata l’Enciclopedia dell’esperanto (non a caso mai
aggiornata)4: enciclopedia che d’altra parte manifestava, già allora, la tendenza poi «esplosa», per dir così, con
il ricordato Manifesto di Rauma. Le premesse, e non recenti, per un rapido ed imminente declino, (motus in fine
velocior) ci sono tutte. «Chi ha tempo non aspetti tempo», diceva un altro proverbio, col quale mi piace
concludere.
Breve nota bibliografica – Aggiungo questa breve nota, che mi sembra indispensabile, perché le tesi che
ho sostenuto fin qui non sembrino improvvisate e dilettantesche.
Mentre i pregi dell’esperanto come lingua franca internazionale sono stati evidenziati da molti, e in modo
magistrale, tra gli altri, da Claude Piron nel vol. Le défi des langues, Parigi, L’Harmattan, 1994; invece la tesi
politica che ho sostenuto è soltanto mia (non sono finora riuscito a «venderla», si direbbe in inglese, a nessuno),
per cui mi vedo costretto a citar solo miei scritti sull’argomento. Ricorderò quello che considero più ampio e
completo (e contiene anche varie informazioni su Paderborn), e cioè il vol. L’insegnamento delle lingue nella
Comunità Europea: stato attuale e prospettive future, Roma, Armando, 1988; mentre ho dedicato all’illustrazione della mia proposta di Conferenza permanente europea delle lingue il mio vol. Europa della cultura e
Europa delle lingue, Manduria, Lacaita, 2000.
Ho invece illustrato il progressivo abbandono dell’ideale zamenhofiano da parte degli stessi esperantisti nel
mio vol. Il serpente e la colomba. È attuale, e come, l’hellelismo linguistico di Zamenhof?, Manduria, Lacaita, 1999.
L’essenziale sul metodo di Paderborn può trovarsi anche nel contributo di Helmar Frank al volume, di
Giordano Formizzi, La lingua internazionale nella storia della pedagogia, vol. II (Documenti), Verona,
Libreria Universitaria, 1986.
Sull’inesistenza di una vera politica europea delle lingue, e sulla pratica impossibilità d’imporre a tutti il
plurilinguismo (una, o addirittura due lingue straniere oltre l’inglese), si veda l’importante articolo, con molta
documentazione, di Walter Zelazny (docente universitario polacco), Mythes et réalité du savoir linguistique
des Européens, «L’Europe en Formation» (Nizza), 2003, n. 2, pp. 78-93. Ho dato un’ulteriore, assai ampia
bibliografia – soprattutto di opere recenti in tedesco e in inglese – sui rischi che corrono le lingue europee,
confermando le mie tesi, nel lungo articolo English as «tyrannosaurus rex», apparso nella rivista belga di
Bruxelles «Interface. Journal of Applied Linguistics», 15.2. (2002), pp. 75-90, che può richiedersi alla
Federazione Esperantista Italiana (Milano).
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Ho toccato meno sommariamente questo argomento ne «L’Esperanto», 2003, n. 6.
Ho prospettato tali perplessità nell’articolo, apparso ne «Il Pensiero Mazziniano» del gennaio-marzo 2003, dal titolo
Quali prospettive future per l’Unione europea? Considerazioni di un federalista deluso.
3
«L’Esperanto», 2000, n. 1. La proposta fu approvata quello stesso anno dall’Unione Esperantista Europea
(«L’Esperanto», 2000, n. 4).
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Ciò è probabilmente vero anche per l’Italia, dove si tenne, nel 1935, a Roma, il Congresso universale esperantista
(e in quell’occasione il Touring pubblicò un’ampia guida della Capitale) in esperanto, mentre già nel 1933 aveva pubblicato
in tale lingua quella di Venezia; cominciava a scriver versi in esperanto la poetessa Clelia Conterno-Guglieminetti; era attivo
e autorevole animatore del movimento Luigi Minnaja, fu pubblicata, nel 1930, la traduzione in esperanto, e la sola italiana,
di Pinocchio, dovuta a Mirza Marchesi, ecc.
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