riassunto cap. XXXI

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riassunto cap. XXXI
I promessi sposi – Capitolo XXXI
La peste: inizio e diffusione del contagio
La peste paventata era entrata davvero nel paese con le truppe dei Lanzichenecchi. Il narratore dichiara il
suo proposito di rievocare gli avvenimenti principali di quella calamità, non soltanto per rappresentare la
situazione nella quale verranno a trovarsi i personaggi del romanzo, ma per «far conoscere [...] un tratto di
storia patria più famoso che conosciuto». Le relazioni contemporanee - aggiunge - sono incomplete e
disordinate nella successione degli eventi: intende perciò, attraverso il diligente confronto di quelle
memorie, ricostruire lo svolgersi dei fatti e dare «una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel
disastro».
«Qualche cadavere» trovato nelle case o sulla strada in tutto il territorio percorso dall’esercito è la prima
avvisaglia del morbo; la gente poi comincia a morire «di mali violenti, strani», in cui gli anziani ravvisano i
segni della peste del 1576. Il più autorevole dei medici milanesi, Lodovico Settala, che aveva prestato la sua
opera in quella circostanza, il 20 ottobre 1629 informa il tribunale della sanità che «nella terra di Chiuso
(l’ultima del territorio di Lecco e confinante col bergamasco)» è scoppiato il contagio; ma non è preso alcun
provvedimento, come riferisce il Tadino nel suo Raguaglio. Altri avvisi allarmanti vengono da Lecco e da
Bellano. Un commissario e un medico di Como, incaricati di visitare quei paesi, attribuiscono i mali agli
«strapazzi» e ai disagi sofferti a causa del passaggio dei Lanzichenecchi. Ma altre notizie luttuose
convincono il tribunale a mandare altri due delegati, uno dei quali è lo stesso Tadino: i due percorrono il
territorio di Lecco, le coste del lago di Como e altri luoghi, trovando paesi pressoché deserti, gli abitanti
scappati in campagna, o dispersi, o inselvatichiti. Lo «spaventevole» numero dei morti, di cui i due delegati
danno notizia per lettera, persuade finalmente il tribunale della necessità di «prescriver le bullette», ossia i
certificati di sanità, necessari a chi dovesse spostarsi da un luogo all’altro.
Tornati in città, i due delegati informano della situazione il governatore Ambrogio Spinola, il quale mostra
«molto dispiacere», ma sostiene «i pensieri della guerra esser più pressanti» Per di più «due o tre giorni
dopo», il 18 novembre, emana una grida con la quale ordina pubbliche feste per la nascita del principe
Carlo, primogenito di Filippo IV. L’affluenza di gente contribuisce a diffondere ulteriormente il contagio.
Ambrogio Spinola, mandato a sostituire don Gonzalo e «incidentemente» a governare, dopo pochi mesi
morirà «di struggimento» per l’ingratitudine della corte di Madrid che egli aveva servito: la storia ne esalta
le imprese militari e politiche e ne loda l’attività, ma non si chiede che uso abbia fatto di queste qualità
quando la peste minacciava da presso la popolazione che egli doveva proteggere.
La peste in Milano
La gente peraltro accoglie con «beffe incredule» chi parla di peste, e il medesimo atteggiamento prevale
nelle magistrature; il tribunale della sanità, nonostante le pressioni di due suoi membri, Alessandro Tadino e
Senatore Settala, opera con lentezza, tant’è vero che la grida per le «bullette», decisa il 30 ottobre, viene
pubblicata solo alla fine di novembre, quando la peste è già entrata in Milano. Tadino e Ripamonti indicano
il primo portatore di peste in un fante italiano al servizio della Spagna; il tribunale ordina di bruciare i suoi
vestiti e il suo letto e queste cautele limitano il contagio, ma non impediscono che il morbo vada
serpeggiando per tutto il restante dell’anno 1629 e nei primi mesi del 1630. Molti medici si ostinano a
negare il male; la popolazione, per evitare la distruzione della roba e per il terrore dell’isolamento e del
lazzeretto, non denuncia i casi sospetti o accertati. L’odio della gente si appunta soprattutto contro
Alessandro Tadino e Senatore Settala, che vengono considerati «nemici della patria»; investe poi in generale
tutti i medici persuasi della realtà contagio. Anche Lodovico Settala, padre di Senatore, sebbene insigne per
dottrina e quasi ottuagenario, diventa oggetto di insulti e minacce: un giorno che andava in bussola a visitare
i suoi ammalati, è sottratto a stento dai suoi portantini alla pubblica furia.
Sul finire del mese di marzo, comincia ad aumentare anche a Milano il numero dei morti. I medici che
avevano negato il contagio sono costretti ad ammettere la presenza «di febbri maligne, di febbri pestilenti»:
miserabile «trufferia di parole». Il consiglio dei decurioni è pressato da richieste di danaro: dalla Sanità per
supplire alle crescenti spese del lazzeretto; dal Senato perché la città venga rifornita di viveri prima che, a
causa della peste, s’interrompano le relazioni commerciali con gli altri paesi; dal governatore, in aggiunta,
«ch’era andato di nuovo a metter l’assedio a quel povero Casale».
In una tale disperata situazione, per assicurare il servizio e la disciplina nel lazzaretto, i decurioni si
rivolgono ai cappuccini, che vi entrano il 30 marzo, guidati da padre Felice Casati,al quale è conferita
«primaria e piena autorità»; lo assiste padre Michele Pozzobonelli. I cappuccini in quel luogo di dolore sono
«soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardaroba, lavandai, tutto ciò che
occorresse». Padre Felice è infaticabile; prende la peste e ne guarisce; i suoi confratelli «ci lasciarono la più
parte la vita, e tutti con allegrezza». In sette mesi sono ricoverate al lazzeretto circa cinquantamila persone.
«Un celebre delirio»
Di fronte alla mortalità, la gente non può più negare la peste. Però i più cercano cause diverse da quelle
naturali e le trovano, secondo opinioni allora condivise in tutta Europa, in «arti venefiche, operazioni
diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe». E che tali mezzi
siano effettivamente usati, parte confermato da un dispaccio con cui l’anno precedente si avvertiva che erano
scappati da Madrid quattro francesi, sospettati «di spargere unguenti velenosi, pestiferi». Due fati
avvalorano i sospetti: la sera del 17 maggio 1630, si crede di vedere persone che andavano ungendo un
tavolato in Duomo; la mattina dopo, in ogni parte della città, si vedono porte e muri imbrattati di una
sostanza giallastra, come testimonia tra gli altri il Ripamonti. I medici della Sanità escludono la pericolosità
di quella «materia», ma la città è «sottosopra»: si fanno le congetture più varie, vedendo nelle unzioni ora
una vendetta di don Gonzalo, ora un ritrovato del cardinale Richelieu per spopolar Milano, ora il disegno di
altri mandanti; pochi credono a una burla. Quelli raccontati - osserva l’autore - sono particolari poco noti o
addirittura ignorati «d’un celebre delirio».
Poiché c’era ancora chi non credeva alla peste, il tribunale della sanità escogita «un espediente
sproporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi». Durante le feste della Pentecoste, i cittadini
usavano andare in folla al cimitero di san Gregorio a pregare per i morti del precedente contagio: nell’ora del
maggior afflusso, i cadaveri di un’intera famiglia sono condotti al cimitero suddetto «sur un carro, ignudi»,
affinché la folla possa vedere il marchio del terribile male. Da quel momento «la peste fu più creduta»,
anche se alla parola si è «attaccata» la sciagurata idea «del venefizio e del malefizio».