MUSICHE dal MONDO

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MUSICHE dal MONDO
MUSICHE
dal
MONDO
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Da Capo Verde
al Brasile dei Dolci Barbari
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Da Capo Verde
al Brasile dei Dolci Barbari
Premessa
Con questo ciclo di video-incontri cercheremo di contestualizzare quel
processo di globalizzazione che da anni riguarda tutte le ‘Musiche dal
Mondo’, come abbiamo titolato, anche perché – come ci manda a dire
uno dei dolci barbari – senza incroci non ci sono fertilizzazioni.
Partiremo dall’Africa, il Continente da cui tutto nasce, anche se la
sua influenza nella storia della musica globale è ancora tutta da raccontare, riguardo innanzitutto al capitolo dell’interazione con l’Europa, il
più trascurato. Ad esempio, danze coma la sarabanda, la ciaccona, la
folia, la passacaglia, che hanno lasciato un marchio indelebile nella
musica colta, sono di origine africana. E questo vale anche per il samba,
il tango, il jazz, di cui ci occuperemo più approfonditamente.
Ho parlato di Africa come fosse un’entità unitaria. In realtà bisognerebbe usare il plurale per contrassegnare un grogiolo in continua
ebollizione dove sono visibili, meglio udibili, lontane radici da cui tutti
discendiamo, poi tracce vistose di un più recente passato coloniale e
le attuali misture prodotte nel processo di globalizzazione che ha dato
vita ai più diversi meticciati.
Paraiso de Atlantico / Mar Azul
Rispetto a questo universo variegato e variopinto, le isole di Capo
Verde rappresentano un caso sui generis, un mondo a parte. Innanzitutto perché, Capo Verde, non è come suggerirebbe il nome, un capo
allungato sul mare, e non è nemmeno verde come costateremo tra
un attimo. E allora, immagino vi sarete chiesti: che rapporto ci può
essere tra un piccolo arcipelago collocato di fronte al Senegal e un
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Musiche dal Mondo
immenso paese come il Brasile, che occupa un’inconsueta posizione
di centralità, “nel culo del mondo” dice una folgorante canzone di
Caetano Veloso?
Una quantità di ragioni. Oltre ad essere collocati alla stessa latitudine, al primo posto metterei la dominazione portoghese. Il nesso
si concretizza all’inizio del Seicento, quando i conquistadores del
Brasile si rendono conto che avere tra i piedi come schiavi i nativi
indios è molto meno conveniente che avere solo ed unicamente negri
(per usare la terminologia storica). Prende così avvio la tratta dalle
coste africane e come scalo per depositare la “merce” viene scelto
proprio Capo Verde. Perché per quel suo territorio impervio, arido,
vessato dalla sabbia che arriva dal deserto e dalla siccità e, per di più
circondato dal mare, rende impossibile la fuga.
Come è facile immaginare, per coloro che vi rimarranno dopo che
i colonizzatori portoghesi lo abbandoneranno a se stesso, quell’arcipelago ha una lunga storia di sofferenze e patimenti che la musica
riproduce e, spesso, amplifica. Insomma, prima ancora che una macchiolina infinitesimale sulla carta geografica, Capo Verde è un luogo
dell’anima, è un sentimento di lontananza estrema per tutti coloro che
sono stati violentamente allontanati dai loro cari.
Ogni foglia è un figlio amato che è andato lontano
in cerca di un futuro migliore e più dignitoso
dicono i versi di Paraiso de Atlantico, con cui mi è parso logico aprire
la straordinaria sequenza di video e per darvi, assieme al successivo
Mar Azul, una prima panoramica di terra e di mare di quei luoghi aspri,
che la voce struggente di Cesaria Evora rende più suggestivi.
Sodade
Ho pensato di dedicare a Cesaria Evora, uno spazio più ampio rispetto
allo straripante oceano di musicisti sfornati dal Brasile, innanzitutto
perché è meno nota di Tom Jobin, Vinicius De Moraes o Gilberto Gil,
poi per rendergli omaggio a poco più di tre anni dalla sua scomparsa
e, infine, perché in lei si riassumono gli estremi della condizione della
donna capoverdiana, un andirivieni di morte e resurrezione: la fatica
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logorante di sopravvivere alla sua amata isola e il fulgore del successo che fa spazio alle sue doti creative, traghettandola nell’universo
mondo.
La fatica logorante deriva non solo dalla memoria della schiavitù che
ha marchiato a fuoco quella popolazione, ma da un presente caratterizzato da condizioni estreme di sottosviluppo che, unite al problematico
contesto ambientale, culmina con la desicione di partire verso terre più
ospitali, alimentando quella folla di capoverdiani sparsi per il Pianeta
che è tre volte la popolazione residente. Anche quando la vita scorre
senza traumi, appare quella linea d’ombra ad avvertire che bisogna
dire addio al paese della gioventù ed a chi parte per altri lidi.
Si sono portati via la mia famiglia
e mi hanno lasciato sola
con la mia tristezza e la mia nostalgia
dicono i versi di un altro classico.
È la nostalgia per ciò che era e non può più essere, per la persona che
ti era accanto e che ha imboccato una via lontana. Il contrario di quello
che accade nel tango come verificheremo nel prossimo incontro. È,
per fare un altro paragone, come la proverbiale saudade brasiliana che
a Capo Verde si chiama sodade, il titolo di una delle più commoventi
e celebri canzoni di Cesaria. Sul finale, dopo forti dosi di nostalgia
balena un barlume di speranza.
Se mi scrivi ti scriverò
Se mi dimentichi ti dimenticherò
fino al giorno in cui ci reincontreremo.
Petit Pays
La diversità linguistica tra Saudade e Sodade evidenzia un elemento
molto significativo: i lirici testi che abbiamo ascoltato appartengono
ad una lingua diversa dal portoghese, una sorta di dialetto che fonde
assieme la tradizione lusitana e gli idiomi dell’Africa occidentale. È
quello che in gergo viene chiamato creolo o criollo. E lo stesso processo di creolizzazione – chiamiamolo così – riguarda anche la musica,
o meglio il rapporto tra il fado, cioè l’espressione più autentica dello
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spirito e della tradizione portoghese, e la morna, cioè quella forma di
espressione tipicamente capoverdiana: il lamento di una nazione in
fuga, così la potremmo definire.
Quando chiedono a Cesaria Evora la propria opinione sull’accostamento che spesso si fa tra morna e fado, lei risponde: “Sì, in effetti
le similitudini sono tante: un grande feeling nell’interpretazione,
argomenti che spesso trattano la perdita d’amore o la nostalgia della
propria terra. Rispetto però a quelle musiche, nella morna, oltre ai
frutti amari della colonizzazione, resta la priorità dell’idioma locale,
quello creolo”. Ed aggiunge: “Ho collaborato con molte persone da
ogni parte del mondo, ma resto fedele alle mie radici, la cosa più importante che ho”.
Vecchia di più di 150 anni, diffusa in modo capillare in tutte le isole
capoverdiane, la morna è un po’ come il blues, è memoria tormentata
e ricerca affannosa, cuore infranto e riso amaro, anime che si lasciano
e guai che ti seguono come un’ombra. È il gesto di prendere la propria
ferita in mano, mettersela davanti agli occhi, contemplarla e dichiararle
il proprio amore. Come fa Cesaria in Petit Pays:
Nel cielo sei una stella che non brilli
Nel mare sei la sabbia che non si bagna - eppure
Petit Pays Je t’ame beaucop.
Angola
I temi legati all’esodo biblico, a quella che potremmo chiamare la capoverdianità, prevalgono decisamente, con un’attenzione particolare
alla condizione femminile. Ma ogni tanto la dieta a base di sodade si
può spezzare per far prevalere altre tematiche ed altre forme musicali.
Non bisogna mai dimenticare che quel gruppo di isole à stato un luogo
di continui passaggi, dall’Africa alle Americhe e viceversa. E dunque
la musica ha assunto tanti sapori diversi, dove fanno capolino i ritmi
caraibici e brasiliani e, naturalmente, quelli di provenienza africana.
E bisogna aggiungere che Cesaria non eccelle solo nelle canzoni
nostalgiche e sentimentali ma padroneggia anche altri idiomi come
la più leggera e ballabile coladeira. Ne è un esempio Angola che ora
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ascolteremo e vedremo. Qui la musica assume quei tratti di fisicità e
di coinvolgimento corale, tipici di tante aree del continente africano.
In particolare quando si fanno feste
giorno e notte
senza niente ma con anima e saggezza.
Miss Perfumado
Dopo quanto visto ed ascoltato non ci sarebbe bisogno di aggiungere
che in lei (pur essendogli stato affibbiato il soprannome di Diva dai
piedi scalzi, abituata com’era a girare così per le strade di Mandelo
ed anche sul palcoscenico nei concerti dal vivo), non c’è alcuna posa
divistica o l’artificio della star e dell’attrice. Ed anche dalla sua voce
non traspare alcuna enfasi o teatralità.
Al pari di Billie Holiday, a cui è stata spesso paragonata, Cesaria è
un esempio illuminante di discrezione, di capacità di volgere in pregio
i propri limiti e le proprie peculiarità timbriche. Quelle di una voce di
grande intensità solcata da impurità che la rendono ombreggiata, ma
anche aperta al candore fragile che ha la consistenza del miele. È un
variare privo di retorica che rivela continuamente palpiti e tensioni
emotive oltre all’irrequietezza di una naturale, spontanea, intelligenza
musicale.
Anche i testi solo in qualche caso veicolano la protesta che vale
comunquue la pena citare perché ci tocca direttamente quando afferma
che
“Lui che può spesso può troppo / senza alcun riguardo per chi soffre. / Per gli umili ci sono briciole per sopravvivere / o forse un po’ di
carità per alleggerire le coscienze di chi vive di lusso”.
Più spesso però il tema della propria condizione echeggia attraverso
un dolore composto ed intimo come nella celebre Miss perfumado che
Evora afferma essere la sua canzone preferita.
“Lasciami distesa a sognare / a sognare di una donna gentile /
nell’ombra del suo triste sguardo e del suo corpo dolcemente profumato. Lasciami morire nell’ombra dei tuoi piccoli occhi / Lasciami
morire sognando come una colomba nel suo nido”.
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Cesaria & Gaetano
Nonostante le sue straordinarie qualità, a Cesaria per sbarcare a Parigi e
diventare ambasciatrice della morna c’è voluto un tempo lunghissimo,
impensabile per un artista europeo. Per fortuna nella sua vita si affaccia alla fine degli anni Ottanta il produttore José De Silva, anch’egli
originario di Capoverde, poi trasferitosi in Francia.
“Fino a quel momento ero sempre stata imbrogliata dalla gente con
cui lavoravo” - ricorda Cesaria - “fu solo a partire dal 1987 che la mia
carriera diventò una cosa seria”. Ed è un trionfo quasi inatteso che
la porterà in tutte le capitali mondiali, dagli Stati all’Ucraina e poi,
come vedremo nel prossimo video, in Brasile, a Rio De Janeiro dove
incontra uno dei maggiori protagonisti della tappa successiva della
nostra rotta: Caetano Veloso.
Quarto Mundo
Ed eccoci sbarcati in Brasile, un paese che ha conquistato un ruolo
di primo piano nel processo di globalizzazione e dove la musica e i
musicisti hanno la stessa popolarità e suscitano l’identica travolgente
passione che ha reso leggendari – lo sappiamo bene – il calcio e i calciatori. Merito soprattutto, ecco il paradosso, della presenza africana,
a partire dagli schiavi depositati a Capoverde. Nel giro di tre secoli –
fine ’500 seconda metà dell’ottocento – ne vennero traghettati tra i 4
e i 5 milioni, molto più che nel Nord America nello stesso periodo.
Provenivano anch’essi da luoghi molto diversi con un ruolo predominante dell’etnia Bantù, originaria dell’Angola. Diffondono le loro
pratiche religiose, i loro strumenti, le loro tradizioni musicali in un
ambiente che consente di preservarle meglio ed anche più disponibile
al mescolamento ed alla fusione, senza che vengano cancellati pregiudizi, discriminazioni, forme di razzismo che si ritrovano in maniera
più strisciante nella stratificazione sociale.
A chiunque avesse messo piede in Brasile nel secolo scorso, sarebbe
parso immediatamente evidente che al livello più alto c’è una aristocrazia di bianchi. Gli stessi che per anni disdegnarono ed ostacolarono
il “fracasso” del samba preoccupati della loro rispettabilità.
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Scendendo nella scala gerarchica, troviamo un secondo mondo
estremamente vario e frastagliato di media borghesia, come viene
chiamata, spesso simboleggiata nelle favolose spiagge di Rio.
La ricchezza e il benessere convivono però con una realtà caotica,
caratterizzata da uno sviluppo urbano folle e incontrollato dove trovano
posto le favelas. La maggioranza che le abita è meticcia perché anche
in questo terzo mondo i matrimoni misti sono una regola, tant’è che
le sfumature della pelle in Brasile sono praticamente infinite.
C’è poi un quarto mondo confinato più che altro nel Nord-est, dove
si sono rifiugiati, fin nelle foresta amazzonica, indios e schiavi neri.
Adesso vi sarà chiaro perché ho scelto di concentrare l’attenzione
sul movimento tropicalista. Altrettanto interessante sarebbe stato affrontare, tempo permettendo, decine di altri soggetti. Ad esempio la
musica di tradizione nordestina a cui appartiene il brano emblematico
che ora ascolteremo corredato da una sequenza di immagini che vi
darà un’idea di quanto sia caparbia e tenace la volontà di libertà che
anima i suoi coloratissimi abitanti. Si intitola proprio Quarto Mundo,
un misto di arcaicità e raffinatezza realizzato da Egberto Gismonti.
Carnevale
Come è facile immaginare, il processo che vede mescolarsi diverse
tradizioni musicali è particolarmente complesso e frammentato anche
se, ad un certo punto della storia – parafrasando il simpatico frate di
Robin Hood – Dio creò il Samba e tutto cambiò. E, infatti, il samba
è molto più di un genere musicale, è una vera e propria cultura, un
linguaggio alimentato da un arcipelago ritmico nel quale è sedimentata
tutta la storia della musica popolare brasiliana. Per avere dimestichezza di questo armementario ritmico, dove i movimenti del corpo, dal
dondolio all’ancheggiamento, hanno un ruolo fondamentale, basta
frequentare una Escola de Samba che, in primis, è un luogo di aggregazione, un incrocio tra centro sociale, club sportivo, scuola di arti
e mestieri, giardino di infanzia, dopolavoro, atelier di scenografia,
cantiere meccanico, centro anziani. E, punto da sottolineare, nel suo
quartier generale sono presenti e rappresentate tutte le generazioni.
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Il risultato del lavoro di tutto l’anno svolto nella Escola diviene
visibile come per incanto durante la sfilata carnescialesca: una sorta di
meteora sfavillante e roboante la potremmo definire che lascia dietro
di sé un misto di euforia e di tristezza, di gioia e nostalgia. In queste
occasioni i poderosi percussionisti che martellano agogos, cuicas,
tamborin, pandeiros, surdos e così via sono letteralmente migliaia, che
coordinandosi tra di loro producono un effetto collettivo straordinario,
inaudito in primo luogo per la irresistibile qualità del ritmo.
Per questo conserva una forza che a noi sembra eccessivamente
frenetica, delirante. “Filmare un carnevale – ha scritto uno che se ne
intende, il grande regista Orson Welles che oggi avrebbe già compiuto
cento anni – è come filmare un uragano. Impossibile riuscire a coglierne l’essenza, la forza e l’emozione”. Lui, infatti, da genio audace
qual era, ci aveva provato nel 1942, quando Roosvelt l’aveva spedito
ambasciatore in Brasile, ricostruendo addirittura l’antica Praça Onze.
L’aveva dovuto fare perché la storica sede del Samba e del Carnevale
era stata spazzata via, qualche anno prima, assieme a tante abitazioni
popolari del quartiere per far fronte ad un trionfale stradone che prese
il nome del capo del governo in carica Getulio Vargas. In quell’occasione il poeta Herivelto Martins consegnò alla storia questi versi:
Addio, mia piazza, addio
Sappiamo già che scomparirai
porta con te il nostro ricordo
Ma resterai eternamente nel nostro cuore
e un giorno avremo una nuova piazza
e racconteremo il tuo passato.
Come voleva, appunto, fare Wells con il suo film che non riuscì
mai a portare a termine per le difficoltà frapposte dalla produzione. Si
sarebbe dovuto intitolare emblematicamente È tutto vero.
Rimangono però una quantità di sequenze veramente di culto da
cui sono state estrapolate e montate alcune scene per mostrarvele,
inclusi due simpatici personaggi che inscenano un samba alla scatola
di fiammiferi, a dimostrazione che il samba può letteralmente prescindere dallo strumento musicale. Basta un battito cadenzato delle
mani, magari con un sottofondo di berimbau, o anche una scatola di
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fiammiferi per inscenare la musica e la danza. Tanto per dimostrare
l’abilità raggiunta anche da chi non può permettersi altro.
Agua de Beber
“La musica serve a molte cose. Ad ascoltare, ad innamorarsi, a ballare,
a marciare, ad aggredire, persino ad uccidere. Il Problema è l’equilibrio”. Parola di Antonio Carlos Jobim, per gli amici Tom che non è il
diminutivo di Antonio, ma il sinonimo di suono, o meglio dell’equilibrio tra suono e parola. È lui il maggior protagonista, il grande genio
lo potremmo definire senza enfasi alcuna, che innova, all’inizio degli
anni Sessanta con quella che verrà chiamata bossa nova. Quando un
musicista faceva qualcosa di diverso, di originale e lo comunicava
in modo semplice, si diceva che aveva bossa. E quindi la bossa nova
nasceva in opposizione a tutto ciò che un gruppo di intellettuali considerava superato, vecchio, arcaico, fuori tempo, a partire proprio
dalla musica.
L’altro genio che affianca Tom in questa vera e propria rivoluzione si
chiama Vinicius De Moraes, che aveva due spiccate qualità: scegliere
collaborazioni perfette – la prima – intuire i mutamenti in corso, avvertendo anzitempo che quella stagione felice e creativa stava volgendo
al termine come ci spiega Corlos Lyra, all’inizio del prossimo video.
E con essa il sogno democratico del Brasile.
Con il golpe militare dell’aprile 1964 le aspirazioni, le effervescenze, le speranze alimentate e accompagnate dai movimenti culturali di
quel periodo, verranno infatti represse e soffocate. Per nostra fortuna,
la bossa nova, dopo aver cambiato la cultura musicale del Brasile,
era stabilmente entrata nel Dna dell’intero Pianeta Musica. Come ci
testimonia il prossimo video, una serata per la Tv svizzera di Lugano
con in primo piano i nostri protagonisti, Tom e Vinicius.
Tropicalia
Le intuizioni di Vinicius non tardano a diventare realtà e, infatti, con
il golpe del 1964 il Brasile si trova a vivere in un clima sempre più
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soffocante. È questo il periodo in cui inizia a svilupparsi, a prendere
corpo, un movimento che segnerà una nuova svolta storica nella vita
culturale e musicale: il tropicalismo.
Abbiamo appena il tempo di ascoltare due brani emblematici, ma
l’argomento meriterebbe un intero ciclo. Perché il tropicalismo è molto più di una connotazione geografica. Per intenderne il significato e
delinearne i caratteri dobbiamo innanzitutto fare riferimento ai nuovi
scenari della musica e non solo.
“La nostra generazione (potrei aggiungere la mia generazione) è
cresciuta – ricorda Gilberto Gil, uno dei leader del movimento – sotto
il segno di Hollywood, della Coca Cola, della società dei consumi,
della musica pop, del Chewing gum e ha sempre avuto un sogno. Il
sogno del mondo”.
Il sogno del mondo, musicalmente parlando, significa conoscere,
assimilare o, meglio, divorare Beatles, Rolling Stone, Bob Dylan, Jimy
Hendricks, tanto per fare qualche esempio illustre. Ma non si tratta
di pura e semplice americanizzazione. Al contrario è una chiave per
definire la loro identità di brasiliani, secondo un concetto, una metafora che aveva esplicitato anni prima lo studioso José Osvaldo de
Souza Andrade, riguardante la modalità di apprendimento culturale in
Brasile. L’aveva denominata antropofagismo. Riprendendo la storia
di un sacerdote colonizzatore divorato secoli prima dagli indios, De
Andrade aveva teorizzato che per i brasiliani moderni era necessario
divorare la cultura moderna, digerirla e farla propria. In questo modo
si poteva essere veramente brasiliani, acquistando dal nemico colonizzatore, come avevano fatto gli indios, la forza e la virtù.
Anziché limitarsi a coltivare la tradizione, l’artista doveva aprirsi a
360 gradi assimilando gli elementi stranieri usandoli come armi della
riscossa ideologica e musicale del Brasile e più in generale del Terzo
mondo. Questo è il Tropicalismo: un modo nuovo di ridefinire la propria identità. Un movimento musicale, ma anche culturale e politico.
Perché quella che può sembrare una battaglia fra conservatorismo e
voglia di novità in campo musicale, in realtà nasconde il disagio e le
difficoltà di chi vive in quegli anni difficili freschi di golpe.
Nel brano che ora ascolteremo, introdotto dallo stridio del violoncel-
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lo e accompagnato dalle percussioni suonate da un gruppo di ragazzi
energici e vigorosi, Caetano Veloso la dice lunga sulla risposta da
dare. E infatti alla seconda strofa esclama:
Io organizzo il movimento
io oriento il Carnevale
Io inauguro il monumento
Nell’altopiano centrale del Paese.
Si tratta di un brano emblematico già nel titolo oltre che nelle parole:
Tropicalia, denominazione ripresa da un quadro dell’artista e grafico
Helio Oiticica e divenuto in seguito, quando il movimento ha bisogno
di un’etichetta, tropicalismo.
Douces Barbaros
La versione originaria di Tropicalia è del 1967, ma la distanza dalla
bossa nova è veramente epocale. Niente più atmosfere dolci e solari o
belle ragazze che frequentano le spiagge di Ipanema, ma una musica
spesso spigolosa con chitarre che stridono, testi sprizzanti ironia quasi
surreale, una presenza scenica a dir poco devastante: capelli lunghi,
vestiti strampalati, movimenti ai limiti della provocazione.
È quanto avviene, ad esempio, con la tournée del 1977 dei Doces
Barbaros – i dolci barbari – che ricompatta il clan baiano composto
da Veloso, Gil, Maria Bethania e Gal Costa, i quali sono particolarmente stimolati dal piacere di ritrovarsi tutti assieme sul palco che da
sempre considerano il più coerente al loro messaggio, in alternativa
alle seduzioni televisive.
I dolci barbari altro non sono, nelle fervide menti dei quattro amici, che i Barbari che invasero Roma, traslati in un gruppo di baiani
pronto ad invadere tutte le città del Brasile. Un’invasione indolore,
dolce appunto, che ambisce solo alla creazione di una sorta di paradiso
dionisiaco. Spinti dall’amore universale tipico degli hippie, i dolci
barbari, invocano le divinità Yoruba. Per l’occasione Gil si presenta
– come ora vedremo nelle immagini storiche che si alternano a quelle
recenti in questo straordinario video – con completo bianco e panno in
testa come un super Xango, famoso per essere il Dio del tuono e della
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Musiche dal Mondo
giustizia. Ad aprire lo spettacolo è una sorta di Ouverture a tempo di
marcia scritta da Caetano:
Tutto è ancora tale e quale
E intanto nulla è uguale
Noi cantiamo la verità
Ed è sempre l’altra città vecchia.
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* BUENA VISTA SOCIAL CLUB *
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Buena Vista Social Club
Premessa e Guantanamera
Quando abbiamo proiettato il film di Win Wenders, nell’ultima puntata
del primo Videoforum, durando più di un’ora e mezzo, l’introduzione
è stata molto sintetica anche se, come dicevamo, Cuba avrebbe meritato un’ampia approfondita analisi trattandosi del luogo in cui sono
maturati tutti quei sincretismi musicali ramificatisi in ogni angolo del
Pianeta. Abbiamo cercato di rimediare ampliando l’analisi storica e
culturale così da avere un quadro più organico di quest’isola che oltre
ad essere un luogo isolato, dai confini netti e non modificabili, è anche
un luogo esposto a tutte le rotte, grandi stazioni simboliche di percorsi
attraverso i mari, e dunque abituato ad accogliere l’elemento straniero,
ad assorbirlo, a metabolizzarlo, a trasformarlo.
Cuba anche da questo punto di vista è un caso esemplare perché
vi si è sviluppata un’originale dialettica tra l’invasione esterna che
ha alimentato sempre nuovi idiomi e la ricerca costante, indomabile
di una identità. Tutto ciò ha creato le condizioni che hanno fatto di
Cuba una sorta di laboratorio all’aria aperta dove la musica – come
vedremo – è dappertutto: strade, cortili, scuole, locali da ballo. È una
musica strutturata per raccogliere energia e per comunicarla, per dividerla e restituirla attraverso il corpo e la danza, non separando mai
il divertimento dall’impegno. E proprio perché legata alla vita di tutti
i giorni è musica che si rinnova.
Di più. Possiamo dire che Cuba riesce da sola a rappresentare l’intero universo latino-americano proprio perché all’interno delle sue
contraddizioni, delle sue passioni, dei suoi sogni, della sua ricerca di
identità, si sono incontrati, scontrati e mescolati quei tratti peculiari
che hanno invaso nel tempo l’intero Pianeta. Si potrebbe scegliere
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Musiche dal Mondo
addirittura una sola canzone come Guantanamera, per mettere assieme questa realtà continentale. Perché anche se la canzone di Joselito
Fernandez è cubana, è diventata anch’essa una sorta di inno internazionale. Nel fatidico ritornello, guajra è da intendersi non come il
genere di appartenenza ma come femminile di guajro, un termine con
cui si chiamano i contadini cubani. Guajra Guantanamera celebra,
dunque, le contadine di Guantanamo e per estensione le donne, come
suggeriscono anche le immagine riprese in diretta nell’isola dalla nostra
esperta. Sarà allora il caso dedicare a loro, alle donne, questo classico
che non ha concorrenti come ambasciatrice di Cuba.
Santeria: Babalù Aye
Immagino che a molti sarà capitato e continua a capitare, magari
appena pranzato, di sorseggiare un caffè ben zuccherato e poi di accendere una sigaretta o un sigaro. Bene, d’ora in poi sappiate che così
facendo vi state relazionando con i personaggi più importanti della
storia di Cuba, che sono essenzialmente due: lo zucchero e il tabacco.
Tabacco e zucchero che, come ha argutamente annotato lo storico e
scrittore Fernando Ortiz, domandando una quantità opposta di manodopera, bassa il tabacco, elevata lo zucchero, dando poi vita ad una
serie di paradossi cromatici. Scuro, da nero a mulatto – come scrive
Ortiz – il tabacco richiama a Cuba coltivatori bianchi, molti dei quali
provenienti dalla Canarie; chiaro “da mulatto a bianco”, lo zucchero
mette in moto l’immane razzia di uomini neri che dall’Africa vengono
massicciamente deportati nell’isola. Per l’isola è una svolta epocale.
Gli schiavi che arrivano a partire dal 1762 l’anno in cui si conclude
una lunga fase di scontri tra conquistadores spagnoli e colonizzatori
inglesi con la restituzione dell’isola alla Spagna, presentano una grande varietà etnica. Ma la stessa immigrazione bianca è tutt’altro che
omogenea: andalusi, canari, galiziani e così via.
Ma il processo di mescolamento di questi mondi lontani e così
sfaccettati non obbedisce affatto ad uno standard culturale già definito, ad una progressiva integrazione nell’ideologia dominante, com’è
nella nostra concezione di integrazione. Produce cambiamenti sia
Buena Vista Social Club
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nella cultura originaria che in quella ricevente: è un dare e un avere o
per dirla con un neologismo coniato da Bronislaw Malinowsky è una
transculturazione. Una dimostrazione esemplare la fornisce la Santeria,
cioè la principale corrente di culto che si afferma a Cuba come risultato
del fondersi della tradizione africana, in particolare quella dell’etnia
Yoruba, con la religione cattolica. Diversamente da quanto accade nel
Nord America, il sistema cubano, consente agli schiavi di avere proprie
istituzioni di riferimento. Sono i Cabildos de nacion, specie di società
gerarchizzate che si sforzano di conservare la memoria e praticare i
loro riti, di partecipare a quelli dei bianchi come il carnevale, di dedicarsi alla musica. È una transculturazione facilitata dall’associazione
dei santi cattolici alle divinità del Pantheon yoruba.
E allora Changò, emblema della forza incontrollata, si identifica
con la guerriera Santa Barbara, dalla fede incendiaria. Ma assieme a
tale sovrapposizione ecco comparire l’ascia, il sigaro e i tamburi di
cui Changò è signore e padrone. Babalù Ayè è invece San Lazzaro.
Le leggende lo descrivono come un esule, costretto ad abbandonare
la terra d’origine, il Dahomey, perché responsabile di aver offeso le
divinità più anziane che lo puniranno con il vaiolo. La sua salivazione
può produrre terribili epidemie ma anche guarigioni e prosperità. Egli
è, in sostanza, il riflesso della bontà e della malvagità di noi uomini.
Che il riferimento ai santi cattolici non cancelli il proprio credo
religioso trova conferma nel ruolo che svolgono la possessione e la
trance e una quantità di formule rituali che assolvono a precise funzioni terapeutiche o a risolvere una quantità di problemi quotidiani.
Facciamo un esempio concreto: volete attrarre una persona? Ecco la
ricetta: anice stellato, melissa, menta, basilico fine. Bollire il tutto a
lungo e utilizzare il decotto per sette bagni, durante i quali è consigliabile ascoltare musica di grande impatto rtmico e percussivo.
Percussioni
Immagino che vi avrà colpito di questa autentica rappresentazione di
un rito tipico della Santeria, oltre alla lingua africana, lo yoruba, la
presenza determinante della percussione. Bene, se volessimo indivi-
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Musiche dal Mondo
duare un simbolo unificatore dell’identità culturale cubana (e caraibica
più in generale), un simbolo tale da rappresentare secoli di resistenza
allo sradicamento e base dei successivi sincretismi culturali, questo è
il tamburo. La parola tamburo, per uno yoruba, non designa solo uno
strumento musicale, ma anche un rituale, una festa, una riunione tra
i membri di una comunità che, come nel nostro caso, si aggrappa ai
propri valori per sopravvivere.
Nella Santeria il veicolo fondamentale di comunicazione con le
divinità è costituito proprio dalle percussioni, dai tamburi che suonati
in combinazione fra loro, si rivolgono a tutti i santi dell’olimpo yoruba,
gli Horishas. Sono cruciali perché non si limitano ad assolvere ad una
mera funzione ritmica, ma guidano essi stessi il canto e la preghiera.
Scrive Ortiz: “La musica di questi tamburi negri è un linguaggio che
sfruttano i valori tonali caratteristici delle lingue parlate delle popolazioni africane che furono portate a Cuba. La loro combinazione molto
complessa costituisce una vera e propria conversazione a più mani”.
Ora ampliate questo discorso ad una quantità di altre etnie come
quelle provenienti dal Benin, dal Dahomey, dall’Angola, dal Congo,
dallo Zaire che hanno altre tipologie di tamburi. Considerate poi che
nella tradizione africana non esiste il tamburo in astratto, ma il tamburo
che ciascuno personalizza in base alle proprie esigenze espressive.
Immaginate infine le combinazione, gli incroci, gli adattamenti ai
contesti più vari prodottisi in seguito: avrete così un’idea di quanto
vasto e caratterizzante sia questo universo percussivo. A me fa venire
in mente le parole di un classico del jazz che si intitola All Africa.
Il colpo di tamburo
ha una storia ricca e magnifica,
piena di avventura,
eccitante e misteriosa
in parte amara, in parte dolce.
Ma tutto è in questo colpo di tamburo.
Dicono che iniziò
da un canto e da un pianto
e una mano nera
si posò su un tamburo africano.
Buena Vista Social Club
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Carnevale
Il gruppo che nel precedente video inscenava la Santeria è uno dei
tanti che popolano il carnevale, cioè l’altra istituzione che segna la
storia di Cuba in quanto è vera e propria ragione di vita e non saltuaria
occupazione o passatempo ludico. Lo si evince dalla stessa articolazione cittadina. Il quartiere, o meglio il Barrio, non è per la gente di
Cuba una pura e semplice ripartizione amministrativa, ma un territorio
mobile, variabile, che coincide appunto con lo spirito del carnevale.
Ogni barrio si dà una variegata strumentazione associativa che, assieme
ad una quantità di funzioni di carattere religioso o assistenziale, ha il
compito di organizzare il Carnevale. Sono le Congas e le Comparsas,
dirette discendenti dei Cabildos.
Le prime sono costituite essenzialmente da un gruppo di percussionisti e da gente che segue liberamente il ritmo, il tutto guidato dal
suonatore della corneta, strumento a cinque note di tono stridulo e
festoso; le seconde sfilano improvvisando coreografie senza un rigido
canovaccio, ma solo seguendo i ritmi della prima. Questo tessuto di
cabildos, congas e comparsas, in cui si ritrovano tutte le componenti
etniche dell’isola, è lo specchio di quel vitalismo che rimescola continuamente tradizioni e innovazioni e che ha come cemento unificante
proprio la musica.
Non è un caso che le sedi delle comparsas vengono chiamati focos
culturales. Perché un foco cultural non è un semplice punto di appoggio della comparsa, ma un centro vivo di animazione culturale, di
conservazione dell’identità, è una scuola che trasmette ai più giovani
il senso di un’appartenenza, oltre alla musica ed alla danza.
Ecco spiegato perché quei quartieri, all’apparenza assopiti nella
calura con persone indolenti e svogliate, sono invece una sorta di
vulcano in sonno, ma sempre attivo, che si risveglia con una forza
incontenibile nell’eruzione del carnevale che rispetto alle sfilate di
Rio, è più spoglio, meno sontuoso.
Un ritrovarsi tra amici del quartiere pronti a rovesciare nelle strade
fiumi di lava agitandosi, ballando, riempendo per tutto il giorno le vie
del barrio.
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Musiche dal Mondo
Chan Chan
Fino ad ora abbiamo girovagato, con un’ottica antropologica, per le
aree urbane. Se ci spostiamo in campagna verso le montagne di Cuba,
possiamo scoprire altri elementi vitali il cui emblema è il Son, l’equivalente del blues nella cultura afro-americana. Il Son viene spesso
chiamato Son Montuno, perché arriva dalle montagne, come quei
musicisti di cui ci informa una famosa canzone del Trio Matamoros,
vero pioniere del Son che lo ha diffuso non solo in tutta l’isola ma in
tutto il continente americano. Si intitola Son de la loma e ci si chiede
da dove vengono, di dove saranno quei cantanti e quei musicisti:
De donde serán?
Seran de la Habana?
Seran de Santiago, tierra soberana?
La risposta è: No, Son de la loma, cioè delle colline e come la
musica sono scesi nella capitale e nelle regioni occidentali. Adesso
Cantano en lano, cioè in pianura.
Il brodo di coltura del Son sono proprio le zone montagnose, le
stesse in cui erano venuti rifugiandosi i cimarrones, in fuga dalla schiavitù. A differenza che in altri punti dell’isola, la nuova forza lavoro
nera si inserisce anche nella piccola agricoltura dei bianchi arrivati
dall’Andalusia e dalle Canarie: le condizioni di forte isolamento in
cui vivono queste piccole comunità rurali, isole nell’isola, favoriscono
la mescolanza.
Alla base del Son c’è, da un lato, il patrimonio spagnolo della chitarra e della strofa, un patrimonio già ampiamente influenzato, non
bisogna dimenticarlo, dalla cultura musicale e poetica araba. Questo
patrimonio si fonde con altri elementi di origine africana, dando origine
a qualcosa di sostanzialmente nuovo. Due in particolare: lo spazio riservato all’improvvisazione, sia vocale che strumentale; l’assortimento
strumentale e le percussioni segnatamente: clave, maracas, bongos per
ricordare le principali.
“Grazie al Son – scrive lo storico Alejo Carpentier – la percussione
afrocubana, confinata nelle baracche degli schiavi e nei barrio popolari, rivelò le sue meravigliose risorse espressive, innalzandosi ad una
condizione di valore universale”.
Buena Vista Social Club
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“Il Son – spiega ancora Carpentier – diede il senso della poliritmia
nell’ambito di una unità di tempo. Si era detto, fino ad allora, il ritmo
della contradanza, della guaracha, il ritmo del danzón, ammettendosi
la pluralità della successione. Il Son, invece, inaugurava categorie
nuove. Dentro un tempo generale, ogni elemento percussivo conduceva una vita autonoma”.
È anche per questo che il Son ha dato vita ad una quantità di nuovi
intrecci imparentandosi e fondendosi con altri generi. Ad esempio
dalla Contradanza, portata a Cuba dai francesi fuggiti da Haiti, nasce
il Danzon che a contatto con il Son darà vita al Mambo, al Cha Cha
Cha e poi alla Salsa. Questo per darvi un’idea approssimativa e semplificata del policromo intrico cubano.
E allora soffermiamoci un attimo sul Son, o meglio sul brano più
famoso e popolare (con Guantanamera) di tutta la musica cubana da
quando l’hanno rilanciato Compay Secundo e gli altri compari ottuagenari del Buena Vista Social Club: una tradizione che non da segni
di cedimento.
Da Alto Cedro vado a Marcané
Fino a Cueto e poi a Mayarì
L’amore che provo per te non posso negarlo
Se mi viene la voglia non posso evitarlo.
Sono i primi versi di una storia che viene sempre dalle campagne
della regione orientale: Juanica e Chan Chan, i due personaggi del
brano, erano protagonisti di favole già nell’Ottocento. L’amore di
Chan Chan per Juanita doveva essere veramente grande se per andarla a trovare doveva fare una trentina di chilometri dalla montagna al
mare.
Quando Juanita e Chan Chan / si strofinavano sulla spiaggia
i loro fianchi ondeggiavano /e Chan Chan si eccitava
Ma il duro veniva dopo, quando bisognava tornare indietro e Chan
Chan era costretto a procedere in salita su un sentiero coperto di foglie
secche.
Mi voglio sedere su quel tronco laggiù
Altrimenti non potrei farcela
dice lo spossato Chan Chan.
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Musiche dal Mondo
Dizzy
Gli arzilli vecchietti del Buena Vista – alcuni di loro scomparsi di
recente oltre i novanta – sono una dimostrazione, un caso esemplare
di come si possa riuscire a preservare – in un contesto molto problematico – un patrimonio ormai secolare che si tramanda di generazione
in generazione. Nel finale ci ritorneremo
Altrettanto sbalorditivo è come la musica cubana riesca a conquistare il mondo, come risultato di quella comunicazione multidirezionale
che è nel Dna dell’isola. Nell’immediato dopoguerra, ad esempio, la
vita notturna dell’Avana è al culmine, favorita dallo sviluppo rapidissimo del turismo statunitense con molti americani che stabiliscono a
Cuba la propria residenza nelle strutture ricettive, e gestiscono night e
casinò, con l’accento e senza accento. Ma proprio in quegli anni non
tutta la musica cubana ha per cornice l’isola: moltissimi musicisti la
lasciano per altri lidi, in un fenomeno migratorio, dall’andamento incostante ma complessivamente di proporzioni decisamente massicce,
una vera e propria diaspora.
Può succedere così che uno straordinario suonatore di Conga incontri nella New York del tempo, nel 1947 per la precisione uno dei
grandi protagonisti del nascente bebop, il trombettista Dizzy Gillespie
che ne rimane impressionato al primo ascolto. Chano Pozo Gonzales,
questo il suo nome, si era fatto da sé frequentando assiduamente la
Santeria, la manifestazioni del carnevale avanero ed anche luoghi ed
amicizie poco raccomandabili che gli sarebbero costate la vita. In fondo egli non faceva che proseguire, rivitalizzandola, quella tradizione
percussiva che affondava le radici nella notte dei tempi.
Ora, per merito della geniale creatività gillespiana, questo fossile
musicale vivente si fondeva con l’avanguardia più spregiudicata del
jazz, dando vita ad un corto circuito che produrrà eccellenti risultati
fino ad oggi con il talentoso concorso di musicisti dislocati in tutto
il Pianeta. Tant’è che la straordinaria formazione (ora la vedremo in
azione) ha la denominazione di Orchestra delle Nazioni Unite. Ciò
non impedisce a Dizzy di fare il burlone, salvo quando viene per lui
il turno di soffiare in quella sua tromba periscopica, con la campana
rivolta verso il cielo: allora si concentra intensamente, gonfia in modo
Buena Vista Social Club
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smisurato le gote e il collo e distilla quella sua musica inimitabile su
un tappeto ritmico inequivocabilmente afro-cubano. Le culture volenti
o nolenti si incontrano.
Conga / Mambo / Rumba
La scena dell’Afro-Cuban-Jazz è particolarmente nutrita con presenze
di prim’ordine da Machito a Tito Puente, da Mongo Santamaria a Chico
O’Farrill per citare i più conosciuti. Ma è indubbio che a conquistare
l’Europa e l’America, a partire dai Cinquanta fino ad oggi, è quella
straordinaria varietà di danze che hanno incontrato i gusti del pubblico mondiale ed anche quelli delle nostre sale da ballo. È un mondo
intero che si svela, aprendo il campo ad una dimensione liberatoria
che affranca le gambe di stampo europeo dall’ordine compunto di giri
e passi scivolati.
Irrompe la seduzione collettiva come nella conga in cui i partecipanti, ciascuno agganciato ai fianchi di chi lo precede, si snodano in
file a serpentina: una sorta di conquista e delimitazione del territorio
che rivela esplicite origini tribali.
Anche la rumba, nata nel contesto del carnevale con una forte connotazione africana, partecipa dei ritmi originari di Cuba che intraprendono l’avventura migratoria. Mambo e Cha Cha Cha, sicuramente i
più popolari, seguono qualche anno dopo.
Se volessimo indicare il massimo artefice della loro diffusione nel
mondo, fra i tanti si potrebbe fare il nome di Perez Prado che per assicurarsi il successo internazionale riveste i ritmi cubani in voluttuosi
arrangiamenti e orchestrazioni. Si racconta che Perez Prado abbia
derivato il ritmo del mambo dai tagliatori di canna da zucchero, poi
traducendolo in una versione sincopata.
Il Cha Cha Cha, più lento e più delicatamente sexy del mambo,
deriva, invece, il suo nome dal suono strisciante provocato dalle ciabatte delle donne cubane.
Tanto per dire come musica e vita siano sempre strettamente intrecciati.
26
Musiche dal Mondo
Guaguancò
A fare da contraltare ai successi mondiali di Las Vegas, New York,
Parigi, Londra, per quel virtuoso dualismo a cui accennavo, rimane la
realtà popolare di Cuba che custodisce, fuori da logiche commerciali,
un vasto patrimonio culturale: senza la sua creatività, sia detto per
inciso, non ci sarebbero neppure esportazioni.
Le ragioni di questo rilassato fervore creativo sono esplicitate e
sintetizzate nel manifesto della Cubanìa. Com’è noto per citarne anche
solo pochi passi occorre ci si attrezzi e si degusti El Oro de Cuba: un
sigaro cubano. Solo allora possiamo dire senza equivoci di sorta:
SIAMO CUBANI!
Siamo calorosamente ospitali. Amiamo le parole solidarietà, garanzia, mulatta, ciboney, berbecue, solare, bicicletta.
Siamo bravi nelle nostre professioni e nei mestieri, e anche nell’arte dell’amore che viviamo con passionalità concedendo però tempo
all’incanto.
SIAMO CUBANI!
Apprezziamo la vita comoda. Viviamo sotto un cielo azzurro.
SIAMO CUBANI!
Torniamo spesso con la memoria al colore della pelle per discutere
le cause che hanno determinato tale mosaico.
Siamo spagnoli, africani, francesi. Ogni occasione è buona per fare
musica, quella con cui balla l’intero Pianeta.
Ce lo dimostra il prossimo video, girato nei quartieri popolari
dell’Avana, e che prende avvio con un parente prossimo della rumba,
il meno occidentalizzato guaguancò. Come spiega la voce fuori campo, l’uomo tenta di possedere la donna che si difende, ma lo fa con
movimenti sinuosi che coinvolgono il tronco, le spalle e soprattutto le
anche, provocando una maggiore intensità erotica. Si tratta di interpreti
di strada incredibilmente fantasiosi, aperti ad un alto contenuto di improvvisazione, intrecciando variazioni continue su un ritmo di base. È
la conferma di una “tradizione in movimento” che vive nel gioco, nel
flusso dei suoni, nel tatto, nella gestualità. Insomma, se la musica è la
forma principale di comunicazione, il ballo le respira accanto. “Chi
nasce a Cuba nasce ballando per la strada”.
Buena Vista Social Club
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Los Van Van
La rivoluzione cubana – non si può non farne cenno – ha prodotto
effetti storici e politici profondi su cui è ancora aperto il giudizio e
la discussione. Con un certo distacco, possiamo dire che ha fatto
nascere passioni e avversioni di segno contrario, generando di volta
in volta unità ed odi inestinguibili, riuscendo contemporaneamente a
dividere e rinsaldare il senso di collettività del popolo cubano forzatamente isolato dal resto del mondo da ormai mezzo secolo. Ha dato
un’ulteriore accelerazione al processo di definizione di una propria
autonoma identità, elevando e potenziando la battaglia per l’indipendenza culturale e al tempo stesso ha ampliato l’esodo di musicisti che
a vario titolo e per ragioni molto diverse hanno lasciato l’isola, con il
risultato di una sempre più vasta diffusione della musica cubana e di
sempre nuove contaminazioni.
La salsa, ad esempio, pur manifestando in modo evidente la propria
discendenza dal Son e dal Guaguancò, non disdegna affatto di fiorire
in tutta l’area caraibica qualificandosi come genere panamericano
per eccellenza. Il gruppo Los Van Van, fondato da Juan Formell, uno
dei musicisti cubani più influenti a partire dai primi anni Settanta, è
un esempio concreto di questa duplice valenza della Salsa. Perché la
Salsa, secondo Formell, è tanto una questione di sangue, di radici,
quanto un linguaggio comune, un prodigioso esperanto musicale. In
un classico testo Formel lo dice esplicitamente:
Questa musica che abbiamo ereditato
figli e nipoti degli africani
la amalgamiamo con la spagnola
la francese e la portoghese,
la misceliamo con quella inglese etc. etc./
ecco perché diciamo che è una sola”
(nel senso di universale).
Proprio per il loro carattere improntato all’amicizia ed alla solidarietà, Jean Formell e il suo gruppo, quando hanno saputo della nostra
iniziativa volevano venire a darci una mano. Purtroppo hanno perso
la coincidenza e sono stati costretti a far tappa a Rimini dove si sono
esibiti al Bandiera Gialla.
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Musiche dal Mondo
Buena Vista Social Club
In questo contesto così fecondo sinteticamente delineato, si situa a
partire dal 1997 un manipolo di ottuagenari musicisti che guidato da
un leggendario chitarrista americano, Ry Cooder, e poi da un grande
regista tedesco, Wim Wenders, compie – secondo le regole della Santeria – un vero e proprio miracolo: riporta la musica di Cuba in vetta
alle classifiche internazionali.
Così più di trent’anni dopo, il cha cha cha di Xavier Cugat, il mambo
di Perez Prado e la salsa di Celia Cruz, il mondo occidentale, come
verificheremo nel film, riscopre il fascino della vecchia Avana.
Tutto ciò avviene attraverso l’esuberante armonico di Cumpay
Secundo, il pianismo sofisticato di Rubén Gonzales, la voce vellutata
di Ibrahim Ferrer, le dolci melodie di Eliades Ochoa, per citare i più
famosi. La loro musica – il Son – è una suadente miscela di chitarre
acustiche, piccole percussioni e splendide armonie vocali che, di volta
in volta, può dar vita ad una canzone d’amore appassionata, ad una
ballata intrigante, ad una danza travolgente.
Di fatto, il Buena Vista Social Club diventa un marchio di qualità
che garantisce successo di pubblico e di critica: il disco ideato da
Ry Cooder vince un Grammy, il film diretto da Win Wenders viene
incensato dalla stampa e dai media: e i Concerti di questi arzilli vecchietti, si trasformano in eventi di culto contribuendo a diffondere il
verbo del Son e il fascino discreto della tradizione musicale cubana
in tutto il mondo, compresa la mitica Carnegie Hall newyorkese dove
si conclude la tournée e il film.
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un pensiero triste tra musica, danza e poesia
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Tango
un pensiero triste tra musica, danza e poesia
Da Tango di Saura - Gelosia
L’argomento che affrontiamo è certamente molto più noto della morna
capoverdiana o del son cubano, ma ha anch’esso una storia intricata e
particolarmente impegnativa da dipanare: il tango, appunto, un pensiero triste tra musica, danza e poesia: così abbiamo titolato.
Ho pensato di svolgere quell’impegnativo compito con l’ausilio di
alcune scene emblematiche, per il loro significato metaforico, tratte da
due apprezzati film sull’argomento: Tango di Carlos Saura e Lezioni
di Tango di Sally Potter; e, poi, dall’ascolto di celebri classici che ho
corredato con immagini che hanno più che altro un valore informativo
così da avere una sequenza di video che ci faciliterà anche il compito
tecnico.
Il chiarimento visivo – chiamiamolo così – è sicuramente utile, direi necessario, proprio perché il tango è particolarmente generoso di
combinazioni ardite e si avvale di una gestualità complessa, spigolosa,
tagliente, appassionante con fermate improvvise e riprese inaspettate.
Un esercizio, insomma, di concentrazione, di virtuosismo, a volte di
vera e propria acrobazia.
Direi allora di cominciare con una scena del film di Carlos Saura.
Com’è evidente fin dalle prime immagini con in primo piano la strumentazione per girare la pellicola, si tratta di un lavoro che mescola
continuamente finzione e realtà, rappresentazione e ricostruzione
scenica, memoria storica e memoria soggettiva, traducendo la danza,
il ballo, in immagini superbe come mai il cinema aveva fatto prima.
L’ho scelta anche perché mi è parsa una buona esemplificazione del
gettonatissimo aforisma attribuito a Enrique Santos Discépolo, che
definisce il tango come un pensiero triste che si balla.
32
Musiche dal Mondo
Il protagonista Mario Soares, mentre sta lavorando alla sceneggiatura del suo musical è attraversato, appunto, dal pensiero doloroso della
moglie ballerina che lo ha lasciato: un pensiero che si materializza
nella danza appassionata della donna e del suo nuovo compagno e che
si conclude tragicamente. Ma è solo di un sogno.
Da Tango di Saura - Scena emigrati
L’aforisma di Discépolo: il tango, un pensiero triste che si balla, coglie
solo un aspetto, perché il tango non è stato e non è solo un pensiero
triste, ma un aspetto particolarmente caratterizzante che differenzia
questo originale sincretismo, il tango, da altri generi maturati nel
Continente americano, con i quali condivide comuni matrici.
Ci serviremo proprio di analogie e differenze perché sono polarità
analitiche efficaci per intendere un processo molto complesso che,
com’è avvenuto in sostanza nelle Americhe, ha per protagonisti popoli,
etnie, culture di tutto il Pianeta.
Potendo fare solo qualche rapido cenno a questa storia affascinante,
si potrebbe partire con il dire che nel mix che già si andava producendo
tra eredità dei nativi, e le concezioni imposte dai conquistadores di diverse sponde europee, un ruolo significativo, in certi casi determinante,
viene svolto dalla crescente presenza della componente africana.
Al sottoscritto, appassionato di jazz fin dall’infanzia, viene spontaneo sottolineare le sorprendenti analogie tra tango e jazz perché
entrambe queste musiche, pur così diverse, condividono due aspetti
decisivi: la gestazione in città portuali e la componente nera.
Sul primo non occorre insistere più di tanto: Montevideo e Buenos
Aires, come New Orleans, si affacciano sull’estuario di un fiume importante dove la comunicazione via mare con l’esterno ha giocato un
ruolo decisivo nell’alimentare quel mix di culture a cui accennavo.
La componente africana, davvero pervasiva nel jazz, può apparire
meno rilevante nel tango. E invece si manifesta fin dal nome. L’etimologia della parola Tango, come sappiamo, è molto controversa, ma
l’opinione prevalente, come ad esempio quella del sociologo uruguayano Daniel Vidart, è che si tratti proprio di una parola africana (lo
Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia
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dicevamo sin dalla prima iniziativa dell’Audioteca) attestata a Cuba
– che è un po’ lo snodo del processo, il cardine della storia – fin dal
XVII secolo, dove il ritmo sincopato poi noto come habanera era
chiamato dagli schiavi tango-congo.
Questa parola/ritmo giunge nei paesi del Plata nella prima metà
dell’Ottocento. Certo, la presenza nera in quest’area, caratterizzata da
coltivazioni estensive, è stata sempre limitata rispetto alle grandi piantagioni di cotone o di zucchero che richiedevano un’elevata presenza di
manodopera. Ma ancora nel 1836, i neri di origine africana contavano
quasi un quarto della popolazione totale, e i loro riti festivi facilitavano
la diffusione di complicati poliritmi nella cultura musicale rioplatense,
esercitando un’influenza decisiva nella nascita del tango.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: perché, mentre quei riti e
quelle figurazioni ritmiche non rinunciano, in altre aree del Continente
latino-americano – pensate ai Caraibi o al Brasile – al loro vitalismo,
in certi casi persino sfrenato, il tango sembra preferire le atmosfere
tristi, elegiache, malinconiche, nostalgiche?
La ragione fondamentale di questa diversità sta nel fatto che in un
determinata fase storica, nell’intreccio che ha generato la formazione
di questo mondo espressivo, hanno avuto un ruolo determinante gli
emigrati, emigrati interni ed esterni. Sono loro ad imprimere al tango
quel senso di invincibile nostalgia, di dolente malinconia conseguente
allo sradicamento e al tentativo sempre problematico di ricostruire
una propria identità nell’incontro-scontro con altri modi di intendere
l’esistenza.
Ebbene, in quella che sul finire dell’Ottocento verrà chiamata ‘alluvione migratoria’ un ruolo di primo piano, quantitativo e qualitativo,
spetterà proprio agli italiani.
Come viene esemplificato magnificamente nella prossima scena del
film di Saura, la popolazione alluvionale si aggiunge a quella coloniale: un popolo carico di valigie avanza all’orizzonte tra il sole e la
luna, sulle note di Va pensiero dal Nabucco di Verdi, fino a sciogliersi
nel tango.
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Musiche dal Mondo
Carlos Gardel: Volver
Cerchiamo di precisare ulteriormente. Come raccontano le storie, il
tango nasce e diventa una pratica sociale, durante uno sconvolgente
fenomeno di inurbamento che si compie attorno al 1880 e che interesserà soprattutto le due capitali del Plata: Buenos Aires e Montevideo.
Come sempre accade in casi analoghi sono le periferie a crescere
rapidamente e disordinatamente.
È qui che confluiscono gli ‘uomini limitrofi’ come li chiamerà Catulo Castillo, uno dei grandi poeti del tango. Quelli che provengono
da correnti migratorie interne sono i gauchos decaduti. Decaduti perché hanno perso la cultura legata alla terra, hanno perduto l’uso delle
Baleadores, hanno perduto l’uso del cavallo. Gli altri, gli emigrati
europei, invece di trovare la terra agognata, ecco il paradosso, finiscono nei conventillos, in abitazioni povere a budello a far compagnia ai
discendenti degli schiavi, e non riescono, com’è facile immaginare,
ad andare a tempo con la città che cresce vertiginosamente.
Insomma, in uno spazio labile, mutevole, degradato, si insedia un
mondo incredibilmente vario, un crogiuolo di gente ed etnie, portatrici
di tensioni irrisolte, di identità claudicanti e compenetrabili.
L’uomo sceso da cavallo, il gaucho, già un misto di indio e spagnolo, a contatto con la città prova un acuto senso di estraneità, non
ha più lo spazio, come nella pampa, per praticare i suoi ritmi. Spesso
per reazione diventa un guappo o un bulletto di periferia.
In questo spazio mobile che sta prendendo forma, il gaucho incontra
l’altro, quello appena sceso dalla nave, il quale vive la nuova realtà
nel ricordo del paese lontano e con l’idea ossessiva di tornare.
Nasce un nuovo io. La nostalgia ramifica all’interno, incrina la gioia
di vivere. È una nostalgia moderna, che si compiace un poco di sé, un
sentimento di poveri e soli. Per renderla sopportabile, non rimane che
inscenare la propria vita, ricostruire la propria identità, esorcizzarla,
nutrirsi di essa.
Voglio essere dove non sono,
voglio trovare ora, intatto,
ciò che ho perduto.
Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia
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È una delle corde estenuate del tango, il Volver, il tornare, lo stesso
verbo degli emigrati.
Tornare con la fronte appassita:
le nevi del tempo hanno segnato le mie tempie.
Sentire che è un soffio la vita, che vent’anni non è niente
che febbrile lo sguardo errante nelle ombre
ti cerca e ti chiama
Vivere con l’anima aggrappata a un dolce ricordo
che piango ancora.
Sono alcuni versi dell’omonima canzone (che ora ascolteremo
corredata da immagini del protagonista) interpretata dal grande Carlos Gardel, il primo mito del tango e anche il primo grande cantante,
la cui voce riesce a comunicare un testo con totale aderenza ai suoi
contenuti.
La cumparsita
Vorrei tornare ancora sull’“italianità” del tango – se così la possiamo
chiamare. Nulla a che vedere ovviamente con Laggiù nell’Arizona,
il madornale abbaglio geografico con cui prende avvio il tango più
famoso della canzone italiana, quello delle Capinere. Vorrei piuttosto
porre l’accento sul concomitante formarsi di nuovi gerghi che andranno ad alimentare testi e titoli famosi e dove l’apporto italiano, degli
emigrati italiani è veramente determinante.
Il lunfardo, ad esempio, gergo caratteristico delle città rioplatensi
contiene termini provenienti dal gitano andaluso, dal francese, dall’inglese ma, per oltre l’ottanta per cento, è di derivazione italiana, soprattutto dei dialetti della penisola. Ebbene, questo nuovo sincretismo
linguistico viene accolto in quell’altra opera di sintesi che è il tango. È
un po’ lo scrigno del tango dove è custodita ogni sfumatura dell’emozione, del sentimento, dell’umorismo, dell’ironia, della rabbia.
Vengono fatti al proposito una quantità di esempi. Qui mi limito a
riproporre uno tra i più famosi. Come scrive l’esperta Meri Lao, “nel
dialetto siciliano è frequente che la o si pronunci u: furca al posto di
forca, cunto al posto di conto, cumparsa al posto di comparsa. Anche i
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Musiche dal Mondo
neri, per fare il verso al “gringo” adottavano quella pronuncia quando
andavano in giro a fare la colletta per la preparazione del Carnevale:
“una monedina pa’ la cumparsa”. Ecco spiegato il termine cumparsita che è vano cercare in un dizionario spagnolo e che, guarda caso,
quasi a simboleggiare il miscuglio di culture ed idiomi, diventa il re
dei tanghi, un vero archetipo insediatosi stabilmente nella memoria
collettiva di tutto il Pianeta.
Lo scrive, in due parti, per il carnevale di Montevideo del 1916, lo
studente Gerardo Matos Rodriguez. Ve la propongo eseguita dall’orchestra di Lalo Schifrin, l’autore della colonna sonora di Tango, corredata da alcune splendide immagini di Montevideo che un maestro
del tango e del bandoneon, Héctor Ulises Passarella mi aveva fatto
avere quando veniva nella nostra regione per dirigere il Festival Internazionale Tango Y Mas.
Da Tango di Saura - Passi di danza
Astor Piazzolla, uno che se ne intende, ha definito la Cumparsita ‘la
cosa più spaventosamente misera del mondo. Anche se, vestita bene,
cioè armonizzata e orchestrata a dovere, la Cumparsita, sempre secondo Piazzolla, può migliorare il suo aspetto”.
Ma allora perché La Cumparsita è diventato il tango di maggior
successo, quasi un inno nazionale del popolo dei tangueros? Probabilmente per il rapporto stretto che intrattiene con la danza. Infatti La
Cumparsita, come abbiamo ascoltato, possiede una linea melodica
dotata di una forte gestualità: già le sue prime quattro note hanno la
prerogativa di alludere al passo felino del Tango e ne suggeriscono
il movimento evocando la camminata del compadrito, del bulletto di
periferia.
Visto, allora, che siamo in argomento, che il corpo, diciamo così, è
entrato in scena, sarà bene approfondire velocemente le caratteristiche
del ballo, evitando possibilmente i luoghi comuni che lo circondano – il
tango danza sensuale, tanto per intenderci – concentrando brevemente
l’attenzione sulla sua diversità.
Il primo elemento che merita di essere evidenziato è che il tango è
Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia
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una danza libera, non risponde ad una coreografia fissa. Gli manca un
“passo base”, regolare ed uniforme, gli manca il “passo di cambio” che
serva a rilassarsi in attesa di passare a prestazioni più impegnative: nel
tango la concentrazione e l’impegno sono costanti anche da fermi.
Secondo elemento importante che rende il tango diverso dalle altre
danze: i ballerini nel tango invadono lo spazio del proprio patner, gli
bloccano e gli spingono un piede, lo sgambettano, lo costringono a
intrecciare le gambe o ad aprirle. Inoltre, senza sciogliersi del tutto
dall’abbraccio, possono trovarsi ad eseguire isolatamente delle figure
spaiati, in un continuo attirarsi e respingersi. Oppure restare fermi
mentre l’altro è al massimo della mobilità.
E ancora, le coppie del tango, indipendentemente da ciò che le
circonda, ballano concentrate sulla propria esecuzione secondo un
percorso originale fatto di accelerazioni che di colpo si arrestano,
di pause e mutamenti di direzione, di fermate improvvise e riprese
inaspettate.
Insomma nel tango non si tratta tanto di riprodurre un testo musicale ma di improvvisarlo. Come afferma Tulio Carella “nel tango
non c’è che una regola fissa: l’improvvisazione permanente”. Per chi
balla un valzer non fa molta differenza che si suoni Nel bel Danubio
blu o Sangue viennese. Invece chi balla il tango vuole rappresentare,
muovendosi nello spazio, quella data musica, come se dovesse ogni
volta inventare una coreografia diversa.
Il che, sia chiaro, non vuol dire casualità: improvvisazione non è
pressappochismo ma rigore, inventiva, creatività, preparazione. E
questo spiega la necessità di creare una tecnica. Non foss’altro che per
evitare di scontrarsi con gli altri ballerini, la coppia deve aver imparato
ad eseguire una quantità di figure, di passi: il voleo, il gancio, il doppio gancio, la fermata, etc. etc. etc. che nel prossimo video verranno
esemplificate durante le esercitazioni della scuola di ballo che è uno
degli elementi portanti del film di Saura.
Da Lezioni di Tango di Potter: La Yumba di O. Pugliese
Il tango non è solo un ballo affermano perentoriamente tutti gli studiosi.
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Musiche dal Mondo
È anche e soprattutto musica. O forse meglio, tra musica e danza, tra
l’espressione corporea e quella sonora c’è un legame indissolubile,
un dialogo continuo dove i passi di danza servono ad allargare ed arricchire il discorso musicale che tuttavia conquisterà nel tempo una
sua autonomia.
Per rispondere alla primigenia finalità di una musica funzionale al
ballo, un agile trio di strumenti portatili era sufficiente. E in origine
era questa la formazione del tango: flauto, chitarra, violino od anche
clarinetto, arpa, violino.
È all’inizio del secolo scorso che il trio diventa più sedentario, come
le band di New Orleans che da marcianti si trasformano in gruppi
stabili per i locali notturni. Ed è proprio allora che fa la comparsa (la
cumparsa) uno strumento sbarcato dalla lontana Germania, portato da
un marinaio che lo avrebbe usato per pagare il conto in un’osteria di
Buenos Aires: il bandoneón.
La prima notizia della sua presenza al posto del flauto in un’orchestra tanguera è del 1908. È la data simbolica di una svolta epocale
che porterà il bandoneon a dare al tango la sua inconfondibile voce
lamentosa e sentimentale.
“Il bandoneón frigna, geme, piange, graffia, ruggisce, minaccia,
morde e prega” ha scritto Horacio Salas nel libro Il Tango.
La seconda svolta nell’evoluzione del genere (procedo ovviamente
per sintesi estreme) la potremmo collocare attorno alla seconda metà
degli anni venti, quando il positivo andamento dell’economia favorisce
il proliferare di cabaret, cinema, teatri, e nelle città rioplatensi si gode
di un clima più liberale.
Dopo aver trionfato anche all’estero, a Parigi innanzitutto, conquistando il mondo intero, il tango, potremmo dire si affina e si trasforma
in una musica a vocazione artistica, con tocchi lirici, arrangiamenti
ricercati, una coreografia più complessa, più sontuosa.
Se dovessimo indicare un musicista chiave di questa svolta si
potrebbe fare il nome di Julio De Caro, il quale traccia – diciamo
così – una linea di demarcazione tra una tradizione legata a schemi
di notevole semplicità di concezione musicale ed esecutiva, ad una
linea evolutiva carica di innovazioni destinata a produrre negli anni
Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia
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successivi – come ora vedremo sempre sinteticamente – alcune delle
esperienze più importanti e significative della storia del tango. Come
formazione strumentale si impone il sexteto, detto anche orchestra
tipica: due violini, due bandoneón, pianoforte e contrabbasso.
È questo il periodo in cui si afferma il tango-canzone e Carlos
Gardel sarà consacrato re del tango in tutto il mondo ed anche nella
sua Argentina. La morte di Gardel, nel giugno 1935 coinciderà con la
presa del potere da parte dei militari e l’avvio del cosiddetto “decennio
infame”, periodo in cui il tango, soppresso al pari di ogni altra vera o
presunta voce popolare, diventerà una musica da carbonari.
Bisognerà attendere la seconda metà degli anni ’40 perché il tango
accenni una ripresa assumendo nuovi significati. Tra i molti artisti che
contribuirono al rilancio, ne ricordo in particolare due.
Il primo è Anibal Troilo, grande virtuoso del bandoneon. Con lui il
tango da spazio agli umori del solista, alle sue capacità improvvisative,
potremmo dire.
L’altro maestro dal nome inconfondibilmente italiano, che contende
a Troilo il primato delle orchestre più famose ed imitate è Osvaldo
Pugliese. Con lui la fuoriuscita, il riscatto dal “carattere plebeo” – se
così possiamo definire il tango delle origini – fa un ulteriore passo
avanti. Un passaggio che nel suo caso, sia nel ruolo di pianista che
come orchestratore, riguarda in particolare il ritmo, che diviene un
vero e proprio elemento strutturale.
Un brano emblematico, da questo punto di vista, è la Yumba.
Yumba è una parola onomatopeica che sta ad indicare la particolare
articolazione e frammentazione ritmica, una vera e propria poliritmia
tra i diversi strumenti dell’orchestra. Un ritmo che a volte sembra
affievolirsi, inabissarsi, per riemergere con la forza di un’energia tellurica. La Yumba, orchestra di Osvaldo Pugliese: la interpretano, nel
film di Sally Potter, Lezioni di Tango, Pablo Veron, grande ballerino
rioplatense e la regista.
Da Lezioni di Tango di Potter: Libertango di A. Piazzolla
Possiamo tirare una sintesi, relativamente a questa prima parte del
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Musiche dal Mondo
discorso? In che cosa consiste l’originalità del tango? Certamente in
quella propensione a raccontare la nostra condizione di spaesamento,
di abbandono, di nostalgia, di senso di estraneità: gli argomenti su cui
ritornerò tra un attimo.
Dal punto di vista più squisitamente musicale, non c’è dubbio che un
fondamentale elemento che lo differenzia da altri generi legati all’humus popolare, sta nella straordinaria capacità del tango di mantenere
un forte legame con il passato, con le proprie radici, raccontando al
tempo stesso la contemporaneità. Per questo il tango è una musica
moderna, e non antica come lo sono rimaste tante espressioni del folclore. Il tango si è emancipato dalle sue origini folcloriche e quindi ha
potuto attraversare epoche e stagioni, anche quelle più drammatiche
a cui accennavo prima. Pensate che nella sola Argentina, dal 1955
con la caduta di Peron al 1976 le orchestre di tango si riducono da
600 a 10. Nonostante ciò il tango ha potuto risorgere conservando
la capacità di rinnovarsi senza che l’impianto di fondo ne risentisse
minimamente.
Viene subito in mente l’altro grande mito, una sorta di antitesi
rispetto a Carlos Gardel. Sto parlando di Astor Piazzolla. La musica
per lui non è in funzione delle parole e neppure della danza. Il tango
è un pensiero triste che si suona e come tale va giudicato, per il suo
valore intrinseco e universale. In questo modo Piazzolla ha demolito
molti pregiudizi e molti stereotipi come quello appunto che se il tango
non è fatto per ballare no es tango, attirandosi anche molte critiche dei
tradizionalisti. La sua, in effetti, è stata una vera e propria rivoluzione
che ha dato nuova dignità al tango e favorito un’ennesima rinascita. Insomma, c’è un tango prima di Piazzolla e un tango dopo Piazzolla.
Con Piazzolla, in definitiva, crollano le barriere tra i generi. E infatti
la nuova svolta è gestita all’insegna della contaminazione con altri
idiomi, con la musica colta europea e soprattutto con il jazz, che ha
portato musicologi e giornalisti a coniare la definizione di new tango,
sottolineando in questo modo la discontinuità generazionale e stilistica
che separa vecchio e nuovo.
La musica di Piazzolla è ricca di dissonanze; è una musica condotta
con un gusto particolare per la torsione melodica che ricorda quello
Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia
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degli improvvisatori jazz; è una musica la cui colonna portante sono
quei poliritmi di cui abbiamo detto, provenienti, in definitiva, dall’eredità africana. Insomma il discorso su Piazzolla potrebbe occupare un
intero ciclo di conferenze, che sarebbe bene dedicargli anche perché
ricorre il 20mo anniversario della sua scomparsa. Adesso abbiamo appena il tempo di ascoltare un suo classico liberamente coreografato
dai protagonisti di Lezioni di Tango: un classico che, già nel titolo,
esemplifica la sua grande apertura: Libertango.
Carlos Gardel: Mi Buenos Aires Querido
Dunque il tango, in special modo dopo l’avvento di Piazzolla, diviene un genere capace di rinnovarsi nel confronto con le avanguardie
musicali del XX secolo, rimanendo però – ecco il punto – la forma di
espressione con cui le città rioplatensi si identificano
Conseguentemente, dovendo ora soffermarmi, sempre molto succintamente, sui suoi contenuti poetici, il primo tema che tratterò è
proprio quello della città con tutte le sue contraddizioni: gioie, speranze, ricordi, drammi, tragedie, che animano da sempre i testi del
tango. Mentre una quantità di soggetti sono scomparsi assieme alla
realtà che li aveva prodotti, la città – costruzione di Caino, secondo
la narrazione biblica e sede della sua discendenza – è uno dei grandi
temi rimasti. Marciapiedi, strade, toponomastica in genere sono gli
spazi, gli oggetti di cui si nutrono i testi del tango.
Vecchio muro di periferia
la tua ombra è stata la mia compagna.
Della mia infanzia senza splendore
l’amico è stato il tuo caprifoglio.
dicono i versi di Caprifoglio scritti da Luis César Amadori. E ancora:
Il timido lampione della via in cui nacqui
fu la sentinella delle mie promesse d’amore
e alla sua luce serena io la vidi
la mia pupa luminosa come il sole.
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Musiche dal Mondo
Secondo Jorge Luis Borges, assomiglia all’idea platonica della città
moderna, ma è Buenos Aires. E infatti così prosegue:
Mia Buenos Aires terra in fiore
che vedrà la mia fine
Al tuo riparo non ci sono delusioni,
volano gli anni, si dimentica il dolore.
Come una carovana i ricordi passano,
con una scia dolce di emozione.
Voglio che tu sappia che già solo evocandoti,
scompaiono i dolori del cuore.
Mi Buenos Aires Querido, canta Carlos Gardel, accompagnato, in
questo caso, da immagini sue e della città, che danno conto della sua
enorme popolarità.
Da Tango di Saura: Desaparesidos
Contenitrice di ogni cosa, spesso magnanime e positiva, come nei
versi della canzone di Gardel, la città provoca al tempo stesso, come
ben sappiamo, sconvolgenti metamorfosi, spesso ti confina nell’anonimato, o confonde i tuoi ricordi distruggendo irrimediabilmente il
fiorito quartiere dell’infanzia.
Vicolo che il tempo ha cancellato
che un giorno ci ha visti passare assieme,
son venuto per l’ultima volta,
son venuto a raccontarti il mio dolore.
Vicolo, un tempo bordato di trifoglio
e di giuncaglie in fiore,
un’ombra ben presto sarai,
un’ombra come me.
Nei periodi bui, poi, la città conosce, in maniera ricorrente purtroppo, la vergogna della tortura e l’immane tragedia dei desaparesidos,
un vero e proprio olocausto. Il film di Saura, finzione e realtà che si
mescolano, lo denuncia con forza in una scena di grande espressività
che merita di essere vista. Non solo perché, come accennavo, la storia
del tango si dipana in un contesto caratterizzato da un alternarsi di
collassi, rapine, saccheggi, crudeltà e speranze di rinascita, ma anche
Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia
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perché da simili barbarie l’America Latina e l’umanità più in generale
son ben lungi dall’essersi liberate.
Adriana Varela: Malena
Il violento blocco sinfonico-corale, composto da Lalo Schifrin per
questa scena, corrisponde più alla forma tradizionale della musica per
il cinema che al tango. E non potrebbe essere diversamente: il tango
in quelle tragiche situazioni, se c’era, era suonato a tutto volume per
impedire che si sentissero le grida dei torturati. Ma più in generale,
bisogna dire che il tango solo raramente assume i caratteri di esplicita
denuncia politica. Può essere invettiva sociale ma solo quando è “ribellione triste di uomini duri” – sentenzia il filosofo del tango Enrique
Santos Discépolo.
Il tango è altra cosa: è soprattutto un modo di sentire la vita, dove
la protesta, la ribellione, l’invettiva – anche quando sono assenti –
sono impliciti nelle pene, nelle sofferenze, nei ricordi, negli amori
tragicamente falliti che la singola persona – uomo o donna – confessa
nei testi del tango. “Un romanzo in tre minuti che riesce a raccontare
il problema di uno sofferto da tutti”. È un’altra efficace definizione
di Discépolo.
Un ruolo da protagonista nelle pagine di questi romanzi brevi spetta
alla donna, che possiamo considerare l’altra regina del tango assieme a
quello stato di spaesamento, di mancanza, di lontananza che abbiamo
chiamato nostalgia.
Anche la donna è lontana e distante, ma, paradossalmente, non
perché irraggiungibile, ma proprio perché già raggiunta. I corpi possono stare l’uno dentro l’altro ed essere a distanze siderali. Comunque sia, dentro ogni tango c’è una donna, il ricordo di una donna o la
rabbiosa parodia di una donna. Può essere la Mora, la più graziosa,
la più famosa del quartiere, o la Margherita alla quale è cambiato il
nome oltre che il destino e infatti si fa chiamare Margot, o una Mina,
la donna per antonomasia che fu in altri tempi la regina della notte.
E poi bacana, percanta, paica, grela, papirosa, milonguita, pebeta, e
molte altre ancora.
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Musiche dal Mondo
A volte la donna ha un comportamento ambivalente, è pronta al
tradimento, disponibile a nuove avventure. Ma anche in questi casi a
prevalere, in molte storie di tango, è la meraviglia di non essersi capiti anche quando si parlava fitto, lo stupore di essere stati soli anche
quando si era ininterrottamente in due. Sono quelle situazioni ricorrenti
in cui la donna soffre metaforicamente la pena del bandoneon. Come
Malena per via di quella storia che ha il coraggio di nominare solo
quando diventa triste con l’alcool.
I tuoi occhi sono scuri come l’oblio
le tue labbra, serrate come il rancore
le tue mani, due colombe infreddolite,
nelle tue vene scorre sangue di bandoneon.
I tuoi tanghi sono creature abbandonate
che si trascinano nel fango del vicolo,
quando tutte le porte sono chiuse
e latrano i fantasmi della canzone.
Malena canta il tango con voce rotta
Malena soffre la pena del bandoneon.
Sono gli stupendi versi di Homero Manzi, il primo grande poeta del
tango, che proprio per questo accompagneranno l’ascolto del brano.
Da Lezioni di tango di Potter: Sotto la pioggia
Se la donna è l’altra regina del tango, assieme alla nostalgia, tutta una
consolidata tradizione vuole che sia l’uomo a dominare nel rapporto
di coppia, e, sia chiaro, non solo nelle terre del Plata. In effetti è lui a
guidare nel ballo come nella vita; è lui a proporre una successione di
movimenti e di figure; è lui ad avere, sin dal principio, una coscienza
progettuale del tempo. È qui ci si potrebbe diffondere, tempo permettendo, su quel ricco campionario di luoghi comuni, di veri e propri
stereotipi che forzando questa impronta maschile, e confondendo
origini postribolari ed evoluzione cittadina e planetaria del tango, hanno cercato di far passare l’idea del tango come genere peccaminoso,
sensuale, trasgressivo, lascivo, scandaloso, persino ruffiano e chi più
ne ha più ne metta.
Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia
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Certo, essendo rito di corteggiamenti e lotte, di sfide ed abbandoni,
il tango è una celebrazione senza confronti del congiungimento dei
corpi. E la ballerina che spinge la gamba fra quelle dell’uomo e gli
resiste inarcandosi, contiene un’allusività potente, che può provocare
un’eccitazione percettiva senza precedenti in chi assiste allo spettacolo. È li che forse si trova l’erotismo del tango. I ballerini hanno
altre preoccupazioni, dice Vega. Diciamo piuttosto che il tango è una
metafora suggestiva della vita di coppia, dell’amore in particolare.
Con questa specificazione, se il tango racconta l’amore, nel tango la
felicità amorosa è il più delle volte un’insostenibile miraggio.
Anche quando la storia – o il romanzo breve – si conclude positivamente come nel film di Sally Potter, Lezioni di Tango, da cui ho
estratto la prossima breve scena; anche quando si torna a stare felicemente insieme, ciò è sempre il risultato di una continua conflittualità
che a volte sfiora il fallimento e il dramma.Al contrario di tanti idiomi
popolari, il tango scansa ogni euforia, ogni vitalistica esuberanza,
racconta piuttosto delusioni, ferite, tradimenti.
È la canzone degli amori fragili.
Più fragili del cristallo, cristallo del mio amore accanto a te
cristallo il tuo cuore, il tuo sguardo il tuo riso...
Amori sempre in ritardo, sempre sfasati, sempre incoincidenti.
Dio ti ha portato al mio destino
senza pensare che ormai è molto tardi
e non saprò come amarti
si conclude Uno! che è il titolo di un tango famoso.
L’uomo rimprovera spesso la donna di essere cambiata, di non essere
fedele al suo stesso passato. Ha sempre in mente le trecce paesane, il
percalle, la cotonina a buon mercato dei suoi vestiti, simboli di tempi
incorrotti, di una ricerca spesso fallimentare, della purezza. Anche
in Lezioni di tango, che riflette un’esperienza reale, autobiografica,
l’amore implica una menomazione, un cedimento nei confronti di se
stessi e degli altri, come quando Pablo Veron, nell’impartire lezioni
alla regista, abituata in questo ruolo ad esse padrona del destino altrui,
le rammenta perentorio: tu non devi pensare, non devi fare niente,
solo lasciarti guidare.
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Musiche dal Mondo
È dalla difficoltà di dare risposta a questo conflitto di ruoli che
nascono crisi a ripetizione. Quando entrambi capiscono che amarsi è
infierire uno sull’altro, la via d’uscita sta nel lasciarsi, nell’accantonare
il passato, almeno per un po’. È il solo modo per reincontrarsi ancora
una volta. Magari in uno scenario di strade di periferia, sotto la pioggia.
Vi domina il grigio, un colore spesso associato al tango: perché è un
colore di frontiera, impegnativo non più di tanto, il colore dei capelli
nell’età in cui si comincia ad essere propensi a voltarsi indietro, come
vedremo subito dopo.
Astor Piazzolla: Balada para mi muerte
In conclusione penso si possa dire che il tema che nel tango riassume
le problematiche di cui abbiamo sinteticamente parlato: la nostalgia,
la città, la donna, l’uomo, l’amore, è quello del tempo. Il tempo concepito come traiettoria irreversibile, il tempo che fugge, il tempo che
distrugge ogni cosa, il tempo scandito dalle partenze, dalle separazioni,
dalle ricongiunzioni, dalle perdite. Ricordate le parole di Gardel:
“un soffio la vita, vent’anni non è niente”.
Consapevoli della fine di ogni cosa si vive convalescenti del proprio passato. Ci si rifugia in una sorta di tempo assoluto dove l’oggi
coincide con l’ieri.
Oggi diventerai parte del mio passato,
del passato della mia vita,
e porta con sé tre cose l’anima mia ferita:
amore, dispiacere, dolore.
Tra i fatti che cambiano, deludono, tradiscono, uno dei peggiori è
il proprio decadimento biologico. Molti sono i tanghi che ci parlano
della vecchiaia improvvisa che piomba sulla donna riflessa negli occhi
dell’uomo, in contrasto con l’immagine di incontaminata freschezza
fissata nel ricordo.
Dura vendetta del tempo
che ti distrugge ciò che hai amato
e te lo mostra
dicono i versi di Questa volta mi ubriaco.
Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia
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Non resta che rinchiudersi nel bozzolo protettivo dei ricordi, anche
se il tempo arriva a chiudere il conto.
Morirò a Buenos Aires
sarà sul far dell’alba
le cose della vita con calma riporrò
l’umile mia poesia di addio e di spari
il mio tabacco, il mio tango, la mia manciata di spleen...
È la prima strofa della celebre Balada para mi muerte, scritta
dall’amico Horacio Ferrer per Astor Piazzolla che ha composto la
musica. Cinque minuti di grande poesia e di grande musica.
Da Tango di Saura: Finale
Qualcuno ha detto che l’uomo è l’unico animale capace di rendere
presenti le assenze. E il tango, in effetti, rito rimuginante, tenta di
riscattare dall’oblio le morte stagioni.
Si domanda non solo chi sono, ma dove sono?
In quali regioni?
Dov’è il mio rione, culla mia cara?
E i vecchi amici dell’infanzia, che ne è di loro?
Dove saranno?
Dove sarà il mio sobborgo?
E le voci che ieri arrivarono e passarono dove sono?
Per quali strade torneranno?
In tutti questi versi emerge chiaramente la vena dolente di chi aspira
a coniugare tempo e lontananza. Vena dolente, che non rinuncia però
a guardare al futuro, addirittura al 3001, quando
Rinasceremo e una grande voce extraterrestre
mi darà la forza antica della fede
per tornare, per creare, per lottare.
dice Piazzolla in uno dei suoi ultimi tanghi.
Vena dolente e al tempo stesso antidoto nei confronti di una società
che piuttosto fa l’apologia del presente, che considera il tempo come
una categoria soprattutto economica.
Il tango va invece consumato tra la mancanza e la pienezza, essendo
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Musiche dal Mondo
una forma di sopravvivenza, una maniera di riconoscersi e rappresentarsi, una maniera di esorcizzare la nostalgia, l’abbandono, il senso
di estraneità. Questo è il tango: una delle espressioni più stralunate
e poetiche della cultura latinoamericana, della cultura dell’oblio in
genere, della cultura pronta a mille ibridazioni e innovazioni, che
continua a compiere una sorte di resistenza umana, installandosi in
chissà quali sobborghi, vicoli, anfratti dell’anima. Insomma, tangare
humanum est. Proprio per questo mai dire ultimo tango, semmai di
nuovo tango. Siccome con noi c’è il maestro Carlos Nebbia – lo stesso
che dava lezioni ai giovani tangheri nel film di Saura – approfittiamo
della sua presenza per chiedergli di regalarci un tango per chiudere in
bellezza il nostro incontro.