Alice Munro Il cowboy della Walker Brothers

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Alice Munro Il cowboy della Walker Brothers
Alice Munro
Il cowboy della Walker Brothers
Dopo cena mio padre fa: – Scendiamo a vedere se c’è ancora il lago?
– Lasciamo mia madre a cucire sotto la lampada in sala da pranzo; mi fa
dei vestiti per l’inizio della scuola. A questo scopo ha disfatto un vecchio
completo e un vestito scozzese che erano suoi, e ora le tocca ingegnarsi
per tagliare e ricucire oltre a farmi stare in piedi a girare su me stessa per
interminabili prove mentre io, ingrata, sudo e mi lamento perché la lana
prude e mi viene caldo. Lasciamo mio fratello a letto nel piccolo portico
chiuso al fondo della veranda, e certe volte lui si inginocchia sul lettino,
preme la faccia contro la zanzariera e frigna: «Portatemi il gelato!», ma io
gli rispondo: «Tanto dormirai già», e non giro neanche la testa.
Poi io e mio padre ci avviamo per una lunga strada sconnessa, fiancheggiata da pubblicità dei gelati Silverwoods, sistemate sul marciapiede,
davanti a bottegucce illuminate. Siamo a Tuppertown, un paese sul lago
Huron, vecchio porto di granaglie. A tratti, la via è ombreggiata da aceri
le cui radici hanno sollevato e squarciato il marciapiede per poi crescere
come coccodrilli nei cortili vuoti. La gente è seduta fuori, gli uomini in
maniche di camicia e canottiera e le donne in grembiule: è gente che non
conosciamo, ma se qualcuno decide di fare un cenno e dire «Caldo, eh,
stasera?», mio padre di sicuro ricambia il saluto e fa un commento analogo. I bambini stanno ancora giocando. Non conosco neanche loro, perché mia madre tiene me e mio fratello nel nostro cortile sostenendo che
lui è troppo piccolo per uscire e io stargli dietro. Non mi fa tanta tristezza vederli, perché i giochi della sera sono bruschi, inconcludenti. I
bambini si separano spontaneamente, si appartano in isolotti di uno o
due sotto i grossi alberi, e si intrattengono con le stesse attività solitarie
delle mie giornate, tipo seppellire ciottoli, o scrivere per terra con un
bastoncino.
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Ci lasciamo subito alle spalle queste case e i cortili; superiamo una fabbrica con le finestre chiuse, un deposito di legname i cui cancelli altissimi
sono sprangati per la notte. Dopodiché il paese piano piano cede al degrado
di baracche diroccate e piccole discariche, il marciapiede si interrompe e
ci ritroviamo a camminare su un sentiero di sabbia costeggiato da lappe,
piantaggini e altre umili erbe anonime. Entriamo in un terreno vuoto, una
specie di parco, anzi, perché lo tengono sgombro dai rottami e c’è una panchina a cui manca una stecca di schienale ma su cui ci si può sedere a guardare l’acqua. Di sera solitamente è grigia, sotto un cielo un po’ coperto,
senza tramonti, con l’orizzonte sfumato. Si sente lo sciabordio lievissimo
dell’acqua sui ciottoli, a riva. Più giù, verso il centro abitato, c’è un tratto
di spiaggia, uno scivolo, le boe che delimitano la zona bal­nea­bile, il trono
vacillante del bagnino C’è anche un lungo edificio verde scuro, tipo veranda
con tettoia, chiamato il Padiglione, che la domenica si riempie di contadini e delle loro mogli paludati a festa. Quella era l’unica parte del paese
che conoscevamo quando abitavamo ancora a Dungannon e venivamo giù
al lago tre o quattro volte nella bella stagione. Quella, e il porto dove andavamo a vedere le barche da carico di granaglie, vecchie, arrugginite, traballanti, che ci lasciavano a chiederci come riuscissero a superare anche
solo i frangiflutti, altro che spingersi fino a Fort William.
Al porto girano i barboni; ogni tanto, in sere come questa, risalgono la
lingua di spiaggia provvisoria, si arrampicano reggendosi ai cespugli secchi su per il sentiero scivoloso tracciato dai ragazzi e dicono a mio padre
delle cose che la paura mi impedisce di capire. Mio padre risponde che è
piuttosto al verde anche lui. – Posso rollarle una sigaretta, se le va, – dice,
e scuote con precisione un po’ di tabacco nelle cartine sottili come ali di
farfalla, ci passa su la lingua, la chiude con le dita e consegna la sigaretta
al vagabondo che prende e se ne va. Mio padre se ne prepara un’altra,
accende e fuma.
Mi racconta come si formarono i Grandi Laghi. Dove oggi c’è il lago
Huron, dice, una volta era tutto piatto, una grande pianura. Poi arrivò il
ghiaccio che avanzava dal Nord e si depositava premendo sulle zone più
basse. Così, e mi fa vedere, con la mano aperta che schiaccia sulla terra
dura come roccia dove siamo seduti. Le dita non lasciano quasi il segno,
e lui commenta: – Devi sapere che la calotta glaciale aveva tanta più forza
di questa mano –. Poi il ghiaccio indietreggiò ritirandosi verso il Polo Nord
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da cui era venuto, e lasciò le sue dita di ghiaccio nelle fenditure che aveva
scavato, e il ghiaccio si trasformò in quei laghi che erano ancora lì al giorno
d’oggi. Erano giovani, per come va il tempo. Io mi sforzo di vedere la pianura davanti a me, con i dinosauri che ci camminano sopra, ma non sono
nemmeno in grado di immaginare la riva del lago quando c’erano gli
indiani, prima di Tuppertown. La minuscola frazione di tempo di cui
disponiamo mi spaventa, anche se mio padre pare tranquillo al riguardo.
Perfino lui, che certe volte mi sembra esserci da che mondo è mondo, in
realtà è vissuto su questa terra poco più a lungo di me, rispetto a tutto il
tempo che c’è stato da vivere. Anche lui, come me, non ha conosciuto un
tempo in cui perlomeno non esistessero le automobili e la luce elettrica.
Non era vivo quando è iniziato questo secolo. Lo sarò a malapena io, ma
vecchissima, quando finirà. Non mi piace pensarci. Vorrei che il lago rimanesse lago per sempre, con le boe a delimitare la zona balneabile, con i
frangiflutti e le luci di Tuppertown.
Mio padre ha un lavoro, fa il rappresentante per la Walker Brothers.
La sua ditta vende praticamente solo nelle campagne dell’interno.
Sunshine, Boylesbridge, Turnaround, sono tutte zone sue. Non Dungannon, dove abitavamo prima, e mia madre è contenta, perché Dungannon
è troppo vicina al paese. Vende sciroppi per la tosse, ferro ricostituente,
cerotti per calli, lassativi, analgesici per i dolori femminili, collutori, shampoo, pomate, impacchi, concentrati di arancia, limone e lampone per fare
bibite dissetanti, vaniglia, coloranti alimentari, tè verde e nero, zenzero,
chiodi di garofano e altre spezie, veleno per topi. Si è inventato una canzone di due versi, che fa così:
Ho pillole, pomate e impacchi
per tosse, calli, vesciche e pateracchi…
Non molto divertente, secondo mia madre. Una filastrocca da venditore ambulante, ed è questo infatti mio padre: un venditore ambulante
che bussa alla porta di cucina in aperta campagna. Fino all’inverno scorso
avevamo una ditta nostra, un allevamento di volpi. Mio padre allevava
volpi argentate e vendeva le pelli a gente che ne ricavava stole, manicotti,
pellicce. Poi i prezzi sono crollati, mio padre ha tenuto duro sperando che
le cose migliorassero l’anno dopo, e invece sono crollati di nuovo, e lui ha
resistito ancora un anno, e poi ancora uno, ma alla fine non è stato più
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possibile reggere; eravamo pieni di debiti con la ditta che ci forniva i mangimi. Ho sentito mia madre spiegare tutto questo più di una volta a Mrs
Oliphant, l’unica vicina di casa con cui parla. (Anche Mrs Oliphant non
ha avuto granché dalla vita, visto che è una maestra e ha sposato il bidello).
Ci siamo venduti tutto, dice mia madre, e non abbiamo ricavato un soldo.
Molti potrebbero dire lo stesso, al giorno d’oggi, ma mia madre non ha
tempo da perdere con la calamità nazionale, solo con la nostra. Il destino
ci ha scaraventati a vivere in un quartiere da poveri (il fatto che lo fossimo
anche prima non ha importanza, era una povertà diversa, quella), e l’unico modo per reagire alla disgrazia, a suo parere, è con amarezza, con
dignità e senza rassegnazione. Nessun bagno con vasca a piedini e water
con sciacquone la può consolare, e nemmeno l’acqua corrente e il marciapiede davanti a casa, e il latte in bottiglia, nemmeno i due cinematografi e
il ristorante Venus, e i grandi magazzni Woolworths, che sono una tale
meraviglia da avere uccelli vivi che cantano nelle gabbie rinfrescate dai
ventilatori e pesciolini grandi come un’unghia e luminosi come lune che
guizzano nelle vasche verdi. A mia madre non importa niente.
Di pomeriggio va spesso a piedi all’alimentari di Simon e mi ci porta
perché l’aiuti con le borse. Si mette il vestito buono, quello blu marina a
fiorellini, liscio, sopra una sottoveste dello stesso blu. Si mette anche un
cappellino estivo di paglia bianca, calzato sulle ventitre, e le scarpe bianche che io le ho lucidato sopra un foglio di giornale sui gradini dietro casa.
Mi ha appena pettinata a lunghi boccoli molli – che per fortuna l’aria calda
e secca disferà subito – e mi ha piazzato sulla testa un gran fiocco di stoffa.
Tutto ciò è completamente diverso dalle uscite con mio padre dopo cena.
Non abbiamo ancora passato due case e già ho la sensazione che siamo
diventate per tutti oggetto di ridicolo. Perfino le parolacce scritte col gesso
sul marciapiede ridono di noi. Mia madre sembra non farci caso. Incede
imperturbabile come chiunque vada a fare la spesa, anzi no, come una
signora che vada a fare la spesa, passando davanti alle massaie del paese
nei loro vestitoni larghi e scuciti sotto le ascelle. Con me, la sua creazione,
accanto, con questi riccioli atroci e il fioccone tra i capelli, le ginocchia
strofinate e i calzini bianchi: tutto quello che non voglio essere, insomma.
Detesto anche il mio nome quando mi chiama in pubblico, con la sua voce
alta, fiera e squillante, volutamente diversa da quella di tutte le altre madri
nella via.
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Certe volte, per farci un regalo, mia madre porta a casa una mattonella
di gelato vaniglia cioccolato e fragola; e dato che non abbiamo il frigorifero, svegliamo mio fratello e lo mangiamo subito nella sala da pranzo sulla
quale fa ombra il muro della casa accanto. Io lo mangio a cucchiaini piccoli, lasciandomi il cioccolato per ultimo, sperando di averne ancora un
po’ quando mio fratello avrà già il piatto vuoto. Mia madre cerca di imitare le nostre conversazioni di una volta, a Dungannon, ai bei vecchi tempi,
prima che nascesse mio fratello, quando mi metteva in una tazza come la
sua un goccio di tè e tanto latte e ci sedevamo sui gradini davanti alla
pompa e al lillà, con i recinti delle volpi in lontananza. Non ce la fa proprio a non tirare in ballo quei tempi. «Te lo ricordi quando ti mettevamo
sulla slitta e Major ti tirava?» (Major è il nostro cane, che abbiamo dovuto
lasciare ai vicini di casa quando siamo venuti qua). «Ti ricordi la sabbiera
davanti alla finestra della cucina?». Io faccio finta di ricordarmi molto
meno del vero, per evitare di sentirmi intrappolata nella pena per lei o in
altre emozioni indesiderate.
Mia madre soffre di mal di testa. Spesso si deve coricare. Si sdraia sul
lettino di mio fratello nel piccolo portico chiuso, ombreggiato da rami carichi di foglie. – Guardo quell’albero e mi sembra di essere a casa, – dice.
– Quello che ti ci vuole, – le dice mio padre, – è un po’ di aria fresca e
una gita in campagna –. Vuole dire che potrebbe accompagnarlo nel suo
giro per la Walker Brothers.
Non è l’idea che ha mia madre di una gita in campagna.
– Posso venirci io?
– Magari tua madre ha bisogno di farti provare i vestiti.
– No, oggi non ce la faccio a cucire, – dice lei.
– Allora la porto. Me li prendo tutti e due, così tu ti riposi.
Che cosa avremo noi due che fa stancare la gente? Non importa. Sono
contenta di andare a cercare mio fratello e portarlo a fare pipì e poi ci mettiamo in macchina, con le ginocchia sporche e i capelli senza riccioli. Mio
padre esce di casa con le due grosse valigie marroni piene di flaconi e le
sistema sul sedile posteriore. Addosso ha una camicia bianca che brilla al
sole, cravatta e pantaloni del completo estivo (l’altro completo è nero, da
funerale, ed era di mio zio quando era ancora vivo) e paglietta chiara. Il
suo costume da rappresentante, con le matite infilate nel taschino della
camicia. Rientra un’ultima volta, forse per salutare mia madre e chiederle
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se è sicura di non voler venire con noi, e sentirle dire: – No. No, grazie,
preferisco starmene sdraiata qui a occhi chiusi –. Subito dopo usciamo dal
vialetto a marcia indietro, con dentro la speranza crescente di qualche
avventura, giusto quel moto di speranza che si verifica quando l’auto si
immette nella via con un sobbalzo, l’aria calda incomincia a muoversi e a
trasformarsi in brezza, le case si fanno a poco a poco sconosciute lungo la
scorciatoia che conosce mio padre, la strada più breve per uscire dal paese.
Eppure, che cosa ci aspetta, se non l’intero pomeriggio, ore e ore di caldo
in cortili derelitti, e magari una tappa in un negozio di campagna e tre coni
gelato o tre bottiglie di gazzosa e le canzoncine di mio padre? Quella che
ha inventato su di sé ha anche un titolo, si chiama Il cowboy della Walker
Brothers e comincia così:
Il vecchio Ned Fields ormai è morto
e tocca a me il giro di orto in orto…
Chi sarà questo Ned Fields? Di sicuro il tizio di cui ha preso il posto
e in tal caso è morto davvero; eppure mio padre ha una voce triste-allegra, come se quella morte fosse un’assurdità, una disgrazia comica. «Sul
Rio Grande vorrei tornare, nella sua sabbia scura mi vorrei tuffare». Canta
quasi sempre, mio padre, quando guida. Anche adesso che usciamo dal
paese, attraversiamo il ponte e svoltiamo bruscamente sulla statale, canticchia qualche cosa, accenna una canzone tra sé e sé, solo per accordare
la voce, prepararla a improvvisare, perché quando superiamo il campeggio battista, o Campeggio biblico estivo, lui spara:
Dove sono i battisti, dove sono i battisti,
dove se ne sono andati?
Tutti a bagno nel lago, nelle acque dell’Huron
a sciacquarsi i peccati.
Mio fratello lo prende alla lettera e si mette in ginocchio per cercare
di vedere il lago. – Non c’è nessun battista, – dice in tono di accusa. – Non
si vedono, – risponde mio padre. – Te l’ho detto, sono tutti in fondo al
lago.
Lasciata la statale, bisogna dire addio all’asfalto. Siamo costretti a tirare
su i finestrini per via della polvere. Il terreno è piatto, screpolato e deserto.
Macchie di alberi fanno ombra dietro le fattorie, l’ombra dei pini neri,
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simile a una pozza d’acqua irraggiungibile. Procediamo a scossoni su per
un lungo viottolo e arriviamo alla fine al luogo più inospitale e desolato
che si possa immaginare: una grossa cascina senza intonaco con l’erba che
ha invaso il cortile fino all’ingresso, le persiane verdi abbassate e al primo
piano una porta che si apre sul vuoto. Ce l’hanno tante case, quella porta,
e non ho mai saputo perché. Lo chiedo a mio padre e lui risponde che
serve per i sonnambuli. Cosa? Beh, se per caso sei sonnambulo e ti viene
in mente di uscire. Sono offesa, perché ho capito che stava scherzando
troppo tardi, come al solito, ma mio fratello interviene deciso: – Se ci provano, si rompono la testa.
Gli anni Trenta. Quel tipo di cascina, quel tipo di pomeriggio mi sembrano appartenere a quel decennio e basta, come pure il cappello di mio
padre, la sua cravattona vistosa, la macchina con il predellino largo (una
Essex che ha passato da un pezzo i suoi tempi migliori). Nei cortili di campagna ce ne sono parecchie di auto così, spesso più vechie, mai più sporche. Certe non funzionano più, sono senza portiere e i sedili sono stati tolti
e usati per sedercisi nelle verande. Non si vede essere vivente in giro, non
una gallina, una mucca. Soltanto cani. I cani ci sono, sdraiati ovunque trovino un po’ d’ombra, a sognare, alzando e abbassando i fianchi magrissimi in respiri corti. Quando mio padre apre la portiera si alzano, e bisogna parlarci. «Buono, bello, buono». Quelli si calmano, tornano nell’ombra. Se non lo sa lui come si calma una bestia, dopo aver trattenuto volpi
disperate per il collo, con le tenaglie. Una voce tranquillizzante per i cani
e una decisa, allegra per chiamare i clienti. «Signora? Ehi, di casa, mi
manda la Walker Brothers. Che cosa le può servire, oggi?». Si apre una
porta, lui scompare. Vietato seguirlo, vietato perfino scendere dalla macchina, possiamo soltanto aspettare e immaginarci la scena. Qualche volta,
per far ridere mia madre, fa l’imitazione di se stesso in una cucina di campagna, mentre illustra il suo campionario. «Dunque, signora, problemi di
parassiti? Mi riferisco alle teste dei suoi figli. A quelle centinaia di bestioline che per educazione non nominiamo, che scorrazzano sulle teste di
gente anche molto per bene? Il sapone da solo non basta, il petrolio non
ha un buon odore, ma io invece ho un prodotto…». Oppure: «Mi creda,
stando seduto in macchina tutto il santo giorno so bene quanto sono buone
queste pastiglie. È un sollievo naturale. È un problema che hanno anche
i vecchi, quando cessano di fare attività fisica. Lei che mi dice, nonna?».
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E a quel punto passa la scatola immaginaria di pillole sotto il naso di mia
madre che, suo malgrado, è costretta a ridere. – Non dice così davvero,
no? – chiedo, e lei dice no, figurati, è troppo educato.
Un cortile dopo l’altro, dunque, le vecchie auto, le pompe, cani, fienili
grigi, capanni sbilenchi e mulini fermi in lontananza. Gli uomini, ammesso
che siano al lavoro, non sono nei campi, per quanto ci è dato vedere. I
bambini saranno chissà dove, a risalire il letto dei ruscelli in secca, a raccogliere more, o nascosti in casa a spiarci dalle fessure delle imposte. Il
sedile della macchina è tutto lustro di sudore. Sfido mio fratello a suonare
il clacson, vorrei farlo io ma non ho voglia di prendermi la colpa. Lui non
ci casca. Giochiamo a Colori, ma non ce ne sono tanti in giro. C’è il grigio dei fienili e dei capanni, dei gabinetti e delle case, c’è il marrone dei
cortili e dei campi, il nero o il marrone dei cani. La ruggine foma sulle carrozzerie delle macchine chiazze arcobaleno, nelle quali mi sforzo di individuare il verde o il viola; sbircio anche le porte, sperando in un po’ di vernice scrostata, magari gialla o amaranto. Con le lettere non ci possiamo
giocare; sarebbe meglio, ma mio fratello è troppo piccolo e ancora non sa
scrivere. Il gioco comunque si esaurisce. Lui protesta, dice che baro sui
colori, vuole la rivincita.
In una delle case la porta non si apre, anche se c’è la macchina in cortile. Mio padre bussa e fa un fischio, poi grida: – Ehi, di casa! C’è l’uomo
della Walker Brothers! – ma nessuno accenna a rispondere. La casa è senza
veranda; ha solo una rampa di cemento nudo su cui è salito mio padre. Si
volta, va a dare un’occhiata al fienile che deve essere vuoto perché si vede
il cielo dall’altra parte; alla fine si china per riprendere le valigie. Proprio
in quel momento si apre una finestra al piano di sopra, sul davanzale compare un pitale bianco il cui contenuto si rovescia sul muro esterno. La finestra non è esattamente sulla testa di mio padre, che se la cava con qualche
schizzo di striscio. Prende su le valigie senza fretta e torna alla macchina,
rinunciando a fischiare. – Sai cos’era quella roba? – dico a mio fratello. –
Piscia –. E lui, giù a ridere.
Mio padre si rolla una sigaretta e se l’accende prima di mettere in moto.
Qualcuno ha chiuso di colpo la finestra, e tirato la tenda, ma noi non
abbiamo mai visto né una faccia né una mano. – Piscia, piscia! – canta
entusiasta mio fratello. – Hanno rovesciato giù la piscia! – Evitate di dirlo
a vostra madre, – commenta mio padre. – Dubito che la farebbe ridere. –
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C’è, nella tua canzone? – vuole sapere mio fratello. No, dice mio padre,
ma farà quel che può per aggiungerla.
Dopo un po’ mi rendo conto che non stiamo più imboccando viottoli
d’accesso, ma non mi sembra che siamo diretti a casa. – Di qua si arriva a
Sunshine? – chiedo a mio padre, e lui risponde: – Nossignore. – Siamo
ancora nella tua zona? – Lui scuote il capo. – Come andiamo forte, – dice
soddisfatto mio fratello, e in effetti sobbalziamo decisi su buche e fosse
asciutte, così tutti i flaconi dentro le valigie tintinnano e gorgogliano piacevolmente.
Ecco un altro viottolo, una casa, sempre senza intonaco, e inargentata
dall’arsura del sole.
– Credevo fossimo usciti dalla tua zona.
– Infatti.
– Allora, come mai entriamo qui?
– Ora vedrete.
Davanti alla casa, una signora piccola e robusta sta ritirando il bucato
che aveva steso sull’erba a sbiancare e asciugare. Quando l’auto si ferma,
la fissa un momento, si china a raccogliere altri due asciugamani da aggiungere al fagotto sotto il braccio, ci viene incontro e, con una voce né cordiale né ostile, fa: – Avete perso la strada?
Mio padre scende dall’auto senza fretta. – Non direi, – risponde. – Mi
manda la Walker Brothers.
– È George Golley il nostro rappresentante della Walker, – dice lei, –
ed è passato meno di due settimane fa. Oh, Dio benedetto, – aggiunge con
voce roca, – ma sei tu.
– Fino all’ultima volta che mi sono visto allo specchio, sì, – dice mio
padre. La donna raccoglie tutti gli asciugamani e se li stringe addosso, contro il petto, come se avesse male. – Ma pensa chi mi tocca rivedere. E te
ne arrivi dicendo che ti manda la Walker Brothers.
– Scusami, magari speravi fosse George Golley, – ribatte avvilito mio
padre.
– E io, guarda come sono conciata, stavo andando a pulire il pollaio. Ti
sembrerà una scusa, e invece è vero. Non giro sempre in questo stato –. In
testa ha un cappello di paglia che le lascia filtrare un po’ di sole in faccia;
ai piedi scarpe da ginnastica, e addosso un grembiule fantasia, lercio. – E
quelli in macchina chi sono, Ben? Non saranno tuoi?
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– Beh, credo e spero di sì, – risponde mio padre aggiungendo i nostri
nomi e l’età. – Ehi, potete scendere. Vi presento Nora, Miss Cronin. Scusa
Nora, dico bene, no?, sei sempre signorina, o hai un marito nascosto in
legnaia?
– Se ne avessi uno, Ben, non lo terrei lì, – dice lei, e scoppiano a ridere,
lei in modo un po’ brutale. – Oltre che una barbona, penserai che sono maleducata, – dice lei. – Venite, entriamo, leviamoci dal sole. Fa fresco in casa.
Attraversiamo l’aia («Scusate se vi faccio passare di qua, ma secondo
me la porta d’ingresso non viene usata dai tempi del funerale di papà e ho
paura che potrebbe scardinarsi»), saliamo in veranda, entriamo nella
cucina che è davvero freschissima, coi soffitti alti e le imposte rigorosamente chiuse; è una stanza semplice, pulita, spoglia, con un vecchio pavimento in linoleum incerato, qualche vaso di geranio, il secchio dell’acqua
da bere con il mestolo, un tavolo rotondo coperto di tela cerata lustra. A
dispetto della pulizia di quelle superfici linde e strofinate, aleggia un vago
odore rancido: magari è lo straccio dei piatti, o il mestolo di latta, o la tela
cerata, o magari la vecchia, perché c’è una vecchia seduta in poltrona sotto
lo scaffale dell’orologio. Gira appena la testa dalla nostra parte. – Nora?
C’è qualcuno?
– È cieca, – spiega Nora a mio padre. E aggiunge: – Indovina chi c’è,
mamma. Prova a sentire la voce.
Mio padre si piazza davanti alla poltrona e, chinandosi, prova a dire:
– Buongiorno, Mrs Cronin.
– Ben Jordan, – commenta senza stupore la vecchia. – È un pezzo che
non ci vieni a trovare. Sei stato via?
Nora e mio padre si scambiano un’occhiata.
– È sposato, mamma, – dice Nora cordiale e aggressiva. – È sposato e
ha due bambini; eccoli qui –. Ci trascina davanti e ci fa toccare la mano
fresca e asciutta della vecchia, mentre le dice i nostri nomi. Cieca! È la
prima volta che vedo un cieco da vicino. Ha gli occhi chiusi; le palpebre
infossate non rivelano il bulbo oculare, ma soltanto due cavità. Da una di
queste fuoriesce una goccia di liquido argenteo, forse una medicina, forse
una lacrima miracolosa.
– Vado a mettermi qualcosa di decente, – dice Nora. – Voi chiacchierate con mamma, intanto. Le fa piacere. Non viene quasi mai nessuno,
dico bene, mamma?
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– Chi vuoi che venga fin qua? – dice la vecchia senza scomporsi. – E
quelli che c’erano, i vicini di una volta, se ne sono andati, alcuni.
– Succede così dappertutto, – commenta mio padre.
– E tua moglie dov’è?
– A casa. Non le piace il caldo, la butta giù.
– Ma sì –. È un’abitudine che hanno i vecchi in campagna, quella di
dire «ma sì», in tono particolarmente cortese e premuroso, come a intendere «davvero?».
Quando torna, scendendo le scale con passo pesante sui tacchi alti,
Nora indossa un vestito più a fiori di qualunque abito di mia madre; è
verde e giallo su fondo marrone, in uno svolazzante crespo di seta, e le
lascia le braccia scoperte. Ha le braccia grosse e ogni quadratino di pelle
è chiazzato di piccole efelidi scure, come puntini del morbillo. I capelli
sono corti e neri, spessi e ricci; i denti bianchi e forti. – Non sapevo che ci
fossero anche i papaveri verdi, – dice mio padre riferendosi al vestito.
– Eh, ce ne sono di cose che non sai… – ribatte Nora, che muovendosi
emana un ampio aroma di acqua di Colonia, e che, insieme all’abito, ha
cambiato anche voce assumendone una più affabile e giovanile. – E comunque non sono papaveri. Sono fiori e basta. Va’ a prendermi un po’ d’acqua fresca alla pompa, che preparo qualcosa da bere ai bambini –. E
intanto estrae dalla credenza una bottiglia di sciroppo d’arancia della
Walker Brothers.
– Mi hai raccontato che eri quello della Walker Brothers!
– È vero, Nora. Va’ a vedere in macchina il campionario se non ci credi.
Ho la zona a sud di questa.
– Per la Walker Brothers? Ma va’! Vendi per la Walker Brothers?
– Sissignora.
– Abbiamo sempre saputo che allevavi volpi su, dalle parti di Dungannon.
– Una volta, ma non mi è andata bene in quel campo.
– E così dove stai, adesso? Da quanto è che fai il venditore?
– Ci siamo trasferiti a Tuppertown. Saranno due o tre mesi che faccio
questo mestiere. Per tirare a campare. Non farsi mordere dalla fame.
Nora ride. – Beh, è già una fortuna avere un lavoro, secondo me. Il
marito di Isabel a Brantford è rimasto disoccupato per un mucchio di
tempo. A un certo punto ho pensato che se non trovava qualcosa da fare
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in fretta me li sarei visti piombare tutti qua, e ti garantisco che non morivo
dalla voglia. Ce la caviamo giusto io e la mamma, qui.
– Isabel si è sposata, – dice mio padre. – Anche Muriel?
– No, lei fa la maestra all’Ovest. Non torna a casa da cinque anni. Deve
avere di meglio da fare quando è in vacanza. Io ce l’avrei –. Tira fuori delle
fotografie dal cassetto del tavolo e comincia a fargliele vedere. – Questo
è il maggiore di Isabel; quest’anno va a scuola. E in carrozzina c’è il piccolo. Questi sono Isabel e suo marito. Muriel. Muriel con la ragazza che
abita con lei. Questo è un tipo con cui usciva una volta, e la sua macchina.
Lavorava in banca, laggiù. Ecco la scuola, ci sono otto aule. Lei insegna
in quinta –. Mio padre scuote la testa. – Non riesco a immaginarmela
diversa da com’era ai tempi della scuola, talmente timida che quando le
davo un passaggio venendo da te, non apriva bocca neanche per dire che
era una bella giornata.
– Beh, l’ha poi superata, la timidezza.
– Di chi parlate? – domanda la vecchia.
– Di Muriel. Ho detto che non è più timida adesso.
– È venuta qui l’altra estate.
– No, mamma, quella era Isabel. Isabel è stata qui con la famiglia l’anno
scorso. Murierl abita all’Ovest.
– Sì, volevo dire Isabel.
Poco dopo la vecchia si addormenta con la testa ciondoloni e la bocca
aperta. – Non fate caso ai modi, – dice Nora. – È la vecchiaia –. Le sistema
un plaid sulle ginocchia e dice che possiamo trasferirci in salotto per non
disturbarla chiacchierando.
– Voi due, – dice mio padre. – Non andate fuori a giocare?
A giocare, a cosa? E comunque, io preferisco restare. Il salotto è meglio
della cucina, sebbene ancora più spoglio. C’è un grammofono, un armonium e un quadro di Maria, la madre di Gesù, fin lì ci arrivo, disegnata
con celesti e rosa carichi, e con una fascia di luce a stella intorno alla testa.
So che roba del genere si trova a casa dei cattolici, perciò Nora deve essere
cattolica. Non abbiamo mai frequentato un cattolico, almeno non tanto
da andarlo a trovare a casa. Penso sempre a quello che dicevano la nonna
e la zia Tena, giù a Dungannon, per far capire che uno era cattolico. La
tale sta dalla parte sbagliata, ecco. Sta dalla parte sbagliata, così avrebbero
detto di Nora.
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Alice Munro Il cowboy della Walker Brothers
Nora prende da sopra l’armonium una bottiglia piena a metà e versa
un po’ del contenuto nei due bicchieri da cui si sono scolati l’aranciata.
– Lo tieni per quando non stai bene? – dice mio padre.
– Neanche per sogno, – risponde Nora. – Io sto sempre bene. Lo tengo
e basta. Con una bottiglia vado avanti un bel po’, comunque, perché bere
da sola non mi piace. Alla nostra! – Lei e mio padre bevono e io lo so cos’è.
È whisky. Una delle cose che mi ha detto mia madre durante le nostre
chiacchierate insieme è che mio padre non beve mai whisky. Ma a quanto
vedo, lo beve, invece. Beve whisky e parla di persone di cui non ho mai
sentito i nomi prima. Dopo un poco però, arriva al racconto di un episodio che conosco. Le racconta del vaso da notte che hanno versato fuori
dalla finestra. – Immagina la scena, – dice. – Io là sotto a sgolarmi. Ehi,
signora, mi manda la Walker Brothers, c’è nessuno in casa? – Imita se stesso
che urla, sorride come uno scemo, si mette a naso in su ad aspettare compiaciuto… e poi, si china coprendosi la testa con le braccia, con l’aria di
uno che chieda pietà (ma non hai mai fatto niente del genere, lo so, perché guardavo), e Nora ride, quasi quanto sul momento rideva mio fratello.
– Ma dài che non è vero! Non ci credo!
– E io ti dico di sì, signora. Ci sono degli eroi, sai, nei ranghi della
Walker Brothers. Ma sono contento di averti fatta ridere, – dice serio.
Gli chiedo tutta timida di cantare la canzone.
– Che canzone? Non ti sarai messo anche a cantare, per di più?
Mio padre è imbarazzato. Dice: – Ma no, è una canzoncina che ho
inventato per quando guido; cercare le rime mi tiene impegnato.
Ma dopo qualche insistenza, si mette a cantarla, fissando Nora con una
faccia buffa, come a scusarsi, e lei ride talmente tanto che in certi punti
lui si deve interrompere e aspettare che si riprenda e lo lasci continuare,
perché anche lei lo fa ridere. Dopodiché recita le varie parti della sua tirata
da venditore. Nora quando ride si preme con le braccia il grande petto. –
Tu sei matto, – dice. – Sei proprio tutto matto –. Poi vede mio fratello sbirciare il grammofono, salta in piedi e lo raggiunge. – Noi ce ne stiamo qua
a ridere e non ti degniamo di uno sguardo, che sciagurati, no? – dice. –
Vorresti un disco, ho ragione? Vuoi ascoltare un bel disco? Sai ballare?
Scommetto che tua sorella è capace, vero?
Dico di no. – Una signorina già grande come te e così bella che non sa
ballare! – esclama Nora. – È ora che impari. Secondo me saresti brava.
Insegnare il racconto contemporaneo Palermo, 21-22 marzo 2016
G. B. Palumbo Editore
Ecco, vi metto su un pezzo che una volta ballavo io e che ballava anche
vostro padre ai bei tempi. Non lo sapevate, eh, di avere un padre ballerino? Beh, è un uomo pieno di talento, il vostro papà!
Abbassa il coperchio e mi acciuffa alla sprovvista per la vita, mi prende
l’altra mano e incomincia a spingermi all’indietro. – Si fa così, ecco, così.
Tu segui me. Con questo piede, guarda. E uno, e un-due. E uno, e un-due.
Benissimo, va bene, non guardarti i piedi. Segui me, così, visto com’è
facile? Diventerai una brava ballerina! E uno, e un-due. Ben, guarda tua
figlia che balla! – Whispering while you cuddle near me | Whispering where
no one can hear me…
Piroettiamo sul linoleum, io tutta seria e fiera, Nora ridendo e avvolgendomi con ampi movimenti nella sua insolita allegria, l’odore di whisky,
acqua di Colonia e sudore. Sotto le ascelle ha il vestito bagnato, e sopra il
labbro le si formano delle goccioline che si impigliano ai soffici peli neri
che ha agli angoli della bocca. Mi fa volteggiare davanti a mio padre, e io
inciampo, perché non sono affatto l’allieva prodigio che sostiene; poi mi
lascia andare, senza fiato.
– Fammi ballare, Ben.
– Faccio schifo come ballerino e tu lo sai, Nora.
– Non ho mai pensato una cosa simile.
– Adesso la penseresti, però.
Gli si è messa di fronte, con le braccia basse lungo i fianchi, piena di
speranza; i seni, che fino a un attimo fa mi imbarazzavano per volume e
calore, si alzano e si abbassano sotto il vestito largo a fiori e la faccia è
lustra di fatica, e di piacere.
– Dài, Ben.
Mio padre abbassa la testa e dice: – Non ce la faccio, Nora.
Non le rimane che andare a togliere il disco. – Da sola posso bere, ma
ballare no, – dice. – A meno di diventare ancora più matta di quel che
sono.
– Nora, – dice mio padre sorridendo. – Tu non sei matta.
– Fermatevi a cena.
– Oh, no. Non vogliamo dare disturbo.
– Nessun disturbo. Mi fa piacere.
– E la loro madre starebbe in pensiero. Penserebbe che siamo finiti in
un fosso.
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Alice Munro Il cowboy della Walker Brothers
– Ah già. È vero.
– Ti abbiamo fatto perdere un mucchio di tempo.
– Tempo, – ripete lei amara. – Tornerai a trovarci?
– Sì, se posso, – dice mio padre.
– Porta i bambini. Porta tua moglie.
– Sì, – ripete mio padre. – Se posso.
Quando lei ci accompagna alla macchina, le dice: – Vieni a trovarci
anche tu, Nora. Stiamo in Grove Street, sulla sinistra entrando in paese,
verso nord, terza casa su questo lato, cioè a est, di Baker Street.
Nora non ripete le istruzioni. Resta accanto alla macchina con quel suo
vestito morbido e sgargiante. Sfiora il parafango e traccia un segno indecifrabile nel velo di polvere.
Sulla via di casa mio padre non ci compra gelati né bibite, però entra
in un emporio a prendere un pacchetto di liquirizia che divide con noi.
Sta dalla parte sbagliata, penso io, e quelle parole mi sembrano più tristi
che mai, oscure, scandalose. Mio padre non mi dice di non parlare a casa
di quello che è successo ma lo so da me, mi basta vedere come è pensieroso, come esita quando ci passa la liquirizia, per sapere che di certe cose
è meglio non fare parola. Del whisky, forse del ballo, anche. Di mio fratello non c’è da preoccuparsi, perché lui non fa a caso a niente. Tutt’al più
potrebbe ricordarsi della cieca, del quadro di Maria.
– Canta, – ordina a mio padre, che però risponde molto serio: – Sai,
credo di essere a corto di canzoni. Tu guarda la strada e avvisami se vedi
dei conigli.
E così mio padre guida e mio fratello guarda la strada in cerca di conigli e io ho la sensazione che la vita di mio padre si sganci dall’auto e fluttui all’indietro nel tardo pomeriggio, sempre più scuro e strano, come un
paesaggio sotto un incantesimo che lo rende dolce e rassicurante mentre
lo guardi, ma per sempre sconosciuto appena gli volti le spalle, un luogo
esposto a tutti i tipi di intemperie e a distanze inimmaginabili.
Quando ci avviciniamo a Tuppertown il cielo si rannuvola gentilmente
come fa sempre, quasi sempre, nelle sere d’estate in riva al lago.
Insegnare il racconto contemporaneo Palermo, 21-22 marzo 2016
G. B. Palumbo Editore
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