L`italiano, lo spagnolo e l`America

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L`italiano, lo spagnolo e l`America
L’italiano, lo spagnolo e l’America
Gabriel Valle
Quale sarebbe stata la sorte dello spagnolo senza l’italiano? La lingua nata
mille anni fa in suolo castigliano deve la propria musicalità alle vicende storiche che
la forgiarono, ma deve all’italiano una proporzione immensa del suo lessico
musicale.
In virtù del «prestito» (termine adoperato dai linguisti per riferirsi a una cosa
che non viene mai restituita) la lingua della Spagna conobbe il piano e il violín, il
violonchelo e il contrabajo; plasmò pure dúos o tríos, cuartetos o quintetos. I
cantanti si divisero in tenores e barítonos, in sopranos e altos. Óperas, cantatas,
serenatas e molti altri generi accrebbero questo retaggio. L’italiano ha inondato di
melodie lo spagnolo! Ma non l’ha lasciato abbandonato alla sua sorte. Affinché
regnasse l’ordine musicale, gli diede pure una batuta (la bacchetta del direttore). Ce
ne vuole una, sembrava questo il suggerimento tacito, per determinare il senso della
misura. Senza misura, sentenzierebbe un vecchio filosofo, non v’ha ordine, e senza
ordine non v’è bellezza.
Quasi un centinaio di italianismi musicali si contano nello spagnolo, che non
si è limitato ad attingere dall’arte sonora. Anche l’architettura, la scultura e la
pittura si trasferirono dalla penisola italica a quella iberica, lasciando un’impronta
sull’idioma di Cervantes.
La cupidigia portò lo spagnolo a volgere lo sguardo altrove, alla ricerca di
altre ricchezze di cui disponeva la lingua sorella. Ne trovò a iosa, molte nell’ambito
bellico. Da allora, in spagnolo le murallas si difendono o si atacan. Le battaglie
alternano con escaramuzas. La guardia di una fortezza è affidata al soldado che fa
da centinela, e la conduzione delle operazioni è spesso incaricata al coronel. Sul
campo di combattimento si usavano, oltre alle armi, le parole che le designavano.
Lo spagnolo impugnò allora la escopeta e il mosquete.
Tuttavia il viaggio delle parole non fu di sola andata. Lo spagnolo
contraccambiò la cortesia del parente che l’aveva arricchita. Riconoscente, lo
spagnolo alimentò il galateo italico. Così, l’italiano conobbe i complimenti e i
baciamani, l’etichetta e la creanza. Imparò a dare del signore a tutti, in un’epoca in
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cui signore era solo chi esercitava la signoria. Adottò anche il pronome Lei come
forma alternativa al tradizionale voi. Ma, storicamente, i regalos non si sono
esauriti nelle belle maniere. Lo spagnolo era stato il ponte attraverso il quale
giunsero in italiano alcuni arabismi, come almanacco, algebra o alchimia. Molto
tempo dopo aprì la porta a molti americanismi che i conquistatori avevano raccolto
nelle Antille, come canoa, huracán o chocolate, che oggi conosciamo con veste
italiana.
Lo scambio reciproco tra lo spagnolo e l’italiano è una storia di solidarietà tra
lingue sorelle. L’una e l’altra erano state partorite dal latino, madre provvida, più o
meno nello stesso periodo. Le lingue non hanno atti di nascita, è vero. Ma se ne
avessero uno, esso sarebbe il più antico documento noto che attestasse uno stadio
embrionale. A detta di molti, il Placito Capuano certifica la nascita dell’italiano e le
Glosas Emilianenses ne certificano quella dello spagnolo. Il primo testo risale al
960, il secondo al 978. Il gioco retorico permette di concludere che la lingua
spagnola sarebbe la «sorella minore».
Molte cose hanno in comune le sorelle. La similitudine del lessico è la più
evidente, non l’unica e tantomeno la più profonda. La somiglianza interessa la
sintassi, che è l’ossatura dell’idioma. Inoltre l’italiano e lo spagnolo possiedono un
patrimonio proverbiale comune e condividono molte locuzioni idiomatiche. Anche
l’influenza straniera che hanno subìto li accomuna: entrambi sono stati, per secoli,
sotto l’egemonia del francese e del provenzale. Non tutti sanno che furono i
provenzali i primi a chiamare spagnoli gli spagnoli e italiani gli italiani. Nella storia
dei nostri forestierismi, il contributo della Francia è stato impareggiabile.
America italiana
Quando l’America, come una dea botticelliana, emerse dalle acque davanti
agli occhi dell’uomo europeo, la lingua spagnola si espanse per il Nuovo Mondo sino
a diventare, con il passare del tempo, la madrelingua più diffusa nel continente. Si
portò appresso il suo bagaglio italiano, destinato a incrementarsi in diversi campi,
tra cui quello gastronomico. Così, dalla California alla Patagonia si mangiano gli
espagueti, i canelones e i ravioles, che addirittura fanno parte ormai del patrimonio
culinario di certe nazioni. Si consumano anche la pizza e la mozzarella, la grafia
delle quali è rimasta intatta.
Ma l’Italia entrò in America non solo tramite lo spagnolo, o tramite altre
lingue di conquista. No. L’America è anche opera dell’Italia. Accanto a un’America
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ispanica o un’America inglese, accanto a un’America francese o un’America
portoghese, c’è pure un’America italiana.
L’America è italiana per molti motivi. Anzitutto perché è l’unico continente ad
avere un nome italiano. Vespucci fu il primo ad intuire che le nuove terre non
facevano parte dell’Asia; tale intuizione fu premiata, nel 1507, da un cartografo
tedesco che diede al continente il nome del navigatore toscano.
Ma ci sono ragioni ben più profonde che puntellano la tesi dell’italianità
dell’America, ragioni che vanno oltre la crosta toponimica. Sotto la denominazione
geografica si cela un processo storico che riguarda nientemeno che la formazione
occidentale del Nuovo Mondo.
L’America è anche opera dell’Italia. Lo è perché l’Italia ha imposto il suo
magistero culturale in tutti i domini dell’Occidente, che ne risente l’influenza. Ma lo
è, sopra ogni altra cosa, perché il suo popolo emigrante cooperò all’edificazione
della moderna civiltà transatlantica. Furono milioni e milioni gli italiani che un
giorno salparono definitivamente per «fare l’America». Il faro di Genova e i moli di
Napoli contavano, sgomenti, il numero delle lacrime, versate da coloro che
rimanevano e da coloro che si congedavano, destinati sovente a seppellire le loro
ossa lontano dal primo focolare.
Negli ultimi due secoli, ma segnatamente tra la fine dell’Ottocento e la metà
del Novecento, gli italiani approdavano a frotte sulle rive che li attendevano dal lato
opposto dell’oceano che attraversavano.
Gli italiani, ovunque andassero, si mettevano al lavoro con alacrità. Creavano
le loro scuole, andavano ai loro circoli sportivi, costruivano i loro ricoveri, aprivano
le loro botteghe, fondavano i loro giornali. Ma le loro comunità di solito non erano
chiuse, erano piuttosto permeabili all’influsso circostante. Gli italiani erano, rispetto
ad altri gruppi stranieri, più atti all’inserimento, soprattutto nell’America Latina,
come si vedrà. Essi si davano da fare per sé stessi ma anche per il paese che li
accoglieva. Si spartivano tutti i mestieri, tutte le arti e tutte le professioni; inoltre
colonizzavano ogni attività economica. I loro figli servivano nell’amministrazione
pubblica e nelle forze armate, sotto nuove bandiere.
A mano a mano che ascendevano nella scala sociale, il loro ruolo comunitario
diveniva sempre più importante. Moltissimi italiani, e la stirpe che fondarono,
raggiunsero il culmine del successo in una varietà di settori. Non di rado, coloro
che, provvisti solo di un baule o di una valigia di cartone, avevano messo piede nella
patria adottiva, in capo a una vita erano in grado di esonerare la generazione
seguente dalle fatiche e dagli stenti che essi avevano patito.
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Diamo un’occhiata alla mappa, da nord a sud.
Gli italiani che si stabilirono nel Canada diffusero, nel paese che li ospitava,
un sport quasi sconosciuto in quelle terre di gelide distese: il calcio. Molti
connazionali gettarono radici nel Quebec. Altri preferirono l’Ontario, nel cui
capoluogo, Toronto, fondarono un festival del cinema italiano, di celebrità crescente
negli ultimi anni. Ai giorni nostri, stando a un’indagine, il reddito dell’italocanadese medio è superiore alla media nazionale.
Negli Stati Uniti si formò la colonia italiana più grande del mondo. Molti,
prima di mettere piede nel paese di Washington, in qualità di immigrati, dovevano
fermarsi a Ellis Island, un isolotto nella baia di Nuova York dove venivano
sottoposti ad accertamenti medici da parte delle autorità sanitarie. I discendenti di
quei viaggiatori che scappavano dalla povertà sono oggi ben integrati nella società, e
in essa occupano posti di rilievo. Abbondano gli statunitensi di sangue italiano nel
mondo della musica e del cinema, ma anche nella sfera della scienza o della tecnica,
per non parlare della politica. Ma l’adattamento dei loro avi fu tutt’altro che agevole,
in primo luogo per il divario culturale che li separava dalla popolazione dominante,
detta «wasp» (white, anglosaxon and protestant), e poi, disgraziatamente, per
l’ingiusta fama che adombrò un’intera comunità, il cui unico reato era stato
condividere nazionalità con certe organizzazioni illegali, attive a Chicago. La
Seconda Guerra Mondiale fu la nuova diga che arginò l’integrazione degli italiani
negli Stati Uniti, nemici dell’Italia fascista. È degno di nota che il paese che nel
proprio territorio aveva osteggiato gli italiani, salvò i loro compatriotti nella
madrepatria.
Se l’incorporazione fu ardua per gli italiani che radicarono negli Stati Uniti,
non lo fu così tanto nei paesi dell’area latina. Due circostanze favorirono
l’assimilazione di quelli immigranti nell’America iberica. La prima era la lingua che
si parlava nel paese ospite, strettamente imparentata con quella che lo straniero si
portava con sé, talvolta l’italiano, più spesso il dialetto. La seconda circostanza era
la religione: gli italiani professavano quella che era maggioritaria nelle nazioni in
cui prendevano la residenza. Torniamo alla mappa.
Fra tutte le comunità italiane che scelsero il Messico come paese di
destinazione, ce n’è una in particolare che non abbandonò mai la propria parlata.
Infatti, in alcune località del meridione messicano si parla, da un secolo ormai, una
varietà del dialetto veneto la cui persistenza è stata paragonata a un’altra varietà di
quel dialetto, parlata nel meridione brasiliano. Oggi buona parte della comunità
italo-messicana, di varia provenienza, è disseminata nei ceti medi e alti della
nazione. La famiglia Mastretta, per esempio, è doppiamente conosciuta all’estero:
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per aver creato una vettura sportiva omonima, progettata e prodotta nel Messico, e
per aver dato al mondo una notevole romanziera.
Dicono che il Venezuela sia, dopo l’Italia, il paese in cui si consuma più
pastasciutta al mondo. Il dato rivela la cospicua influenza esercitata da una colonia
straniera che si stabilì in quello Stato dopo la Seconda Guerra. Il flusso migratorio
fu talmente copioso che, negli anni sessanta, gli italiani costituivano la comunità
europea più grande della nazione. Qualche decennio più tardi, una statistica
calcolava che, fra tutte le industrie venezuelane non legate al petrolio, un terzo
erano in mano agli italo-venezuelani, oppure da loro gestite.
Alcuni dei migliori vini rossi del Brasile provengono da cantine italobrasiliane. Gigantesca è la comunità italiana di quel territorio gigantesco. Oggi i
suoi rampolli sono sparsi nelle grandi città del paese, ma la genesi
dell’immigrazione rimanda alle campagne. Nel loro esordio, gli italiani prestarono
manodopera al lavoro agricolo, specie nelle sconfinate piantagioni di caffè. Quando
la fortuna benedisse le loro famiglie, molti comprarono aziende agricole e poi i loro
interessi si ramificarono.
Sulla proverbiale italianità dell’Argentina si raccontano anche barzellette.
Una di esse riferisce che un argentino, venuto in Italia per fare turismo, alloggia in
un albergo. Ad un tratto, dopo avere sfogliato l’elenco telefonico trovato in camera,
esclama: mamma mia, ma quanti argentini ci sono in Italia! A coloro che visitano
Buenos Aires si consiglia sempre di ammirare il quartiere La Boca. Situata
sull’imboccatura di un fiume, La Boca fu sviluppata dai genovesi e trasformata in un
pittoresco arcobaleno. Furono proprio i genovesi a fondare due superbe squadre di
calcio, Boca Juniors e River Plate, nei primi anni del Novecento. Ma La Boca vuol
dire anche tango, un ballo sensuale che ha fatto il giro del mondo. Nell’epoca
aurorale, i grandi compositori erano figli di italiani; i testi delle loro canzoni erano
costellati di lunfardo, un gergo ricco di voci dialettali italiane.
Rispetto alle grandi colonie atlantiche, quella del Perù appare piccolissima.
Poche migliaia di italiani fecero del paese andino la loro dimora, ma il loro
contributo alla nazione fu significativo. Erano per la maggior parte contadini e
pescatori liguri. I pionieri, per giungere a destinazione, facevano un percorso lungo
e non scevro da pericoli. Come qualificare altrimenti il passaggio attraverso il
temibile stretto di Magellano? Qualche decennio dopo, molti italiani erano già
proprietari terrieri e industriali. Oggi la banca privata più solida è quella da loro
fondata. In quella comunità qualche meridionale c’era. Uno di loro, un napoletano,
rese popolarissimo il suo cognome, perfino nelle più sperdute tribù amazzoniche
peruviane. La sua è la storia di un gelataio artigianale che diventò il barone del
dolciume.
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Praticamente non c’è nazione americana dove gli italiani non si siano
trasferiti. Molti dei loro cognomi hanno una presenza antica nel Nuovo Mondo.
Quei connazionali, con il loro ingegno e la loro opera, hanno dato un monumentale
contributo all’edificazione dell’America e hanno fatto onore all’Italia.
Quando, negli stadi di calcio, durante i campionati mondiali, si intona l’inno
nazionale delle squadre che stanno per sfidarsi, capita a volte di udire un inno
americano di compositore italiano. Ce ne sono almeno cinque! Ecco la ricomparsa
della musica, che è il vero basso continuo di questa storia, fatta di italianismi
lessicali, di strumenti cremonesi e di compositori del Bel Paese.
«America», «americano», «sudamericano»
Intorno al 1780 Gian Rinaldo Carli scriveva: «Certo è che l’America è paese
antico, quanto il nostro Emisfero, se non più». Si riferiva all’America meridionale.
Cent’anni dopo, Edmondo De Amicis apriva uno dei suoi racconti con queste
parole: «Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d'un operaio,
andò da Genova in America, da solo, per cercare sua madre. Sua madre era
andata due anni prima a Buenos Aires, città capitale della Repubblica Argentina».
Per America egli intendeva l’intero continente. Nel 1955 Antonello Gerbi, nella
prefazione al saggio La disputa del Nuovo Mondo, annotava: «Stabilitomi in
America nel 1938». Narrava in seguito le sue esperienze in Perù.
In che momento America è diventata sinonimo di Stati Uniti? Perché
statunitense è il senso eminente di americano? Da quando sudamericano vuol dire
ispanoamericano? In Italia la visione del Nuovo Mondo è cambiata: essa,
discostandosi dalla più antica e più tradizionale, incorre nell’errore, infonde
vaghezza, e sovente, tra gli altri americani, desta disagio.
L’origine di questa idea deformata va trovata proprio negli Stati Uniti. Gli
statunitensi, nella loro lingua, non hanno mai avuto un aggettivo di nazionalità per
designare se stessi. Si sono sempre chiamati americans, come molti altri popoli di
quel vasto territorio. Ma ciò che distingue gli statunitensi dagli altri è che sono gli
unici ad essersi impossessati del nome del condominio. Gli statunitensi per
«America» intendono il loro Paese. «America is a great nation», è un luogo
comune dell’orgoglio patrio. Sicuramente gli Stati Uniti sono una grande nazione,
lodevole per molte cose, ma non sembra altrettanto lodevole impadronirsi di un
nome che appartiene anche ad altri. America, in realtà, è una denominazione
condivisa da trentacinque stati. Chiamare America gli Stati Uniti è un’aberrazione,
scriveva José Moreno de Alba, un eminente linguista messicano al quale si devono
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opere fondamentali di dialettologia ispanica. Come dargli torto! E io aggiungerei
che tale aberrazione si rivela pure irriguardosa nei confronti degli altri paesi
americani.
In quella erronea concezione del continente, Sudamerica non vuol dire
l’America meridionale: vuol dire l’America ispanica, situata sotto gli Stati Uniti, a
sud di Río Grande, quel fiume lunghissimo che, nascendo nel Colorado e delineando
il Texas, segna il confine con lo Stato messicano.
Siamo di fronte a una confusione madornale. La divisione geografica
dell’America non coincide con quella linguistica.
L’America meridionale (Sudamerica) ha un’estensione ben definita,
determinata dalla sua storia geologica. Confina a nord con l’America centrale e con
il Mar dei Caraibi. L’America ispanica ha un’estensione meno definita, che varia in
concomitanza con le vicissitudini della lingua spagnola, in forte espansione negli
Stati Uniti. L’America ispanica, ufficialmente, è distribuita tra il Messico e il Cile.
Passa per quella striscia di terra chiamata America centrale e abbraccia qualche
isola delle Antille. Messico è un paese dell’America settentrionale, Cile lo è
dell’America meridionale.
America meridionale e America ispanica, ecco due denominazioni che non
hanno lo stesso significato né si riferiscono alla stessa realtà. Il corollario è duplice:
in quel continente, non tutti i sudamericani parlano spagnolo e non tutti i parlanti
di spagnolo sono sudamericani.
Par capire meglio questa deformazione, proviamo a fare un esperimento
mentale. Supponiamo che il tedesco sia la lingua più importante del mondo.
Supponiamo che, in quella lingua, Europa fosse un sinonimo di Germania e che
europeo lo fosse di tedesco. Supponiamo infine che, per i tedeschi, l’Italia e altre
nazioni fossero sudeuropee. La stupefacente conseguenza di questo fenomeno
sarebbe che, in altri luoghi del pianeta, per pressione del tedesco, si direbbero cose
come queste: «Europa è una grande nazione», «gli europei furono sconfitti
durante la Seconda Guerra», «i sudeuropei sono sotto l’impero culturale ed
economico dell’Europa».
Forse questo acuto dardo riesce a colpire il bersaglio. Ora il panorama sembra
più limpido: quando gli Stati Uniti imposero la loro supremazia, la loro immagine
dell’America colonizzò il pensiero di alcune società, l’italiana inclusa.
Come stanno le cose in spagnolo? In quella lingua non c’è altra America al di
fuori del continente. Nelle ventidue nazioni che la parlano, America è voce univoca.
Invece, sulla falsariga dell’inglese, l’aggettivo spagnolo americano ha calcato il
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senso più frequente dell’inglese american, senza disfarsi però del senso genuino che
aveva. Per amore di precisione, la Reale Accademia consiglia di evitare americano
come sinonimo di estadounidense. In un idioma sorvegliato, aggiunge, ogni
alternativa sarebbe equivoca. Ce ne sarebbero ben due: angloamericano e
norteamericano, ma l’Accademia sottolinea che l’una e l’altra sono ambigue. Infatti,
anche il messicano è nordamericano e anche il canadese è angloamericano.
Come stanno le cose in italiano? L’immane forza dell’inglese preme in molti
modi sulla lingua nazionale. America, americano e sudamericano hanno seguito,
senza prudenza, l’uso e l’abuso che gli Stati Uniti fanno di America, american e
southamerican. Ne deriva, per inciso, il contagio di una visione deviante del mondo
occidentale transatlantico.
Che cosa si può fare al riguardo? Consiglierei caldamente di adottare, in
italiano, le considerazioni fatte dagli accademici spagnoli per il loro idioma.
Pertanto, America recupererebbe la sua univocità tradizionale, e, in un italiano
sorvegliato, americano andrebbe sostituito da statunitense. Gli aggettivi
angloamericano e nordamericano, in italiano, come del resto in spagnolo,
andrebbero ritenuti alternative non scorrette ma meno precise.
Fonte: www.italianourgente.it
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