Economia della celebrità
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Economia della celebrità
CARLO STRENGER Economia della celebrità Il terrore dell’invisibilità nell’era di Facebook Titolo originale: The Fear of Insignificance. Searching for Meaning in the Twenty-first Century Editore originale: Palgrave Traduzione dall’inglese di Nicola Gaiarin e Giovanna Tinunin Fotocomposizione: Officinalibri – Lodi ISBN 978-88-17-05307-5 Copyright © 2011 Carlo Strenger All Rights Reserved Copyright © 2011 RCS Libri S.p.A. Prima edizione italiana Rizzoli Etas: settembre 2011 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. 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Per Julia Sommario Introduzione L’attuale momento storico PARTE PRIMA LA SCONFITTA DELLA RAGIONE 1 Gli anni del vitello d’oro 2 “Just do it”: la cultura della celebrità e la costruzione del sé 3 La sconfitta della ragione: relativismo e spiritualità pop PARTE SECONDA DALL’IO-MERCE AL DRAMMA DELL’INDIVIDUALITÀ 4 Il dramma dell’individualità 5 Dal “Just do it” all’autoaccettazione attiva 6 Riportare la vita ai suoi elementi essenziali: una proposta epicurea IX 1 3 23 55 85 87 113 133 VIII ) Economia della celebrità PARTE TERZA RIAPPROPRIARSI DELLA RAGIONE 155 7 Fuggire dalla caverna platonica 8 Religione e scienza: sdegno civile e riso epicureo 9 Verso una cittadinanza globale e un’alleanza tra visioni del mondo aperte 227 Note 257 Indice analitico 271 157 197 Introduzione L’attuale momento storico Ci stiamo risvegliando da un periodo che Immanuel Kant avrebbe definito di profondo “sonno dogmatico”1. Ma a differenza dei sonni dogmatici dei secoli passati, dominati da credenze metafisiche e religiose demolite da Kant nella sua Critica della ragion pura (1781), gli ultimi decenni passeranno probabilmente alla storia come un’epoca di irrazionali fantasie di onnipotenza e di sconsiderata fede dogmatica nel libero mercato. Dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, i sostenitori del libero mercato, che avevano conquistato i regni dell’economia negli anni di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, assunsero un atteggiamento trionfalistico: il crollo del comunismo, la dissoluzione dell’Unione Sovietica e della sua sfera d’influenza venivano portati a dimostrazione di come ormai il vangelo del libero mercato fosse l’unica religione ad avere validità universale2. Il valore di ogni cosa – dalle aziende alle religioni, dai dischi alle idee – cominciò a essere definito in termini di graduatorie e classifiche: mercati azionari, agenzie di rating, liste di bestseller, numero di click sul Web. Era logico che questo sistema fosse esteso anche agli esseri umani3, e questo processo di riduzione a merce di ogni cosa fu accelerato dal nuovo sistema globale del cosiddetto X ) Economia della celebrità infotainment, che unisce informazione e intrattenimento. Una delle attività principali di questo sistema è classificare le persone in vista dei propri scopi: ha bisogno di creare celebrità globali per fini pubblicitari e di marketing. Il risultato è la promozione di due modelli di vita validi in tutto il globo: la celebrità (ovvero la quantificazione di quanto si è conosciuti) e il successo economico. I nuovi sistemi di classificazione hanno determinato il valore dell’individuo, calcolandolo in base a una serie di fattori che vanno dal numero di amici su Facebook a quello dei risultati delle ricerche su Google, fino alla posizione occupata nelle sempre più numerose liste delle persone più influenti, popolari, sexy, potenti o ricche di una città, di una nazione e, infine, del globo. È nata così una nuova specie: l’homo globalis, un’ampia classe di persone la cui identità viene definita perlopiù dal grado di inserimento nel sistema dell’infotainment globale. Ora che l’homo globalis è stato “commoditizzato”, non è più soltanto il possessore di un insieme di merci, ma è egli stesso una merce, scambiata in giro per il mondo all’interno del sistema dell’infotainment. La riduzione a merce del sé ha determinato un’instabilità costante nell’autostima e nella sensazione di vivere un’esistenza piena di significato. Il risultato è un disagio esistenziale continuo, oggetto di cure inutili a base di farmaci psicotropi e facili consigli spirituali da parte di guru dell’auto-aiuto, che diffondono la convinzione che celebrità e ricchezza sarebbero solo una questione di forza di volontà e di coraggio. L’attuale crollo dei mercati finanziari ci ha risvegliati dal credo neoliberista che il capitalismo potesse cogliere l’essenza di ciò che significa vivere un’esistenza piena. Il fallimento di questo dogma è arrivato a compimento con la bancarotta di Lehman Brothers, che ha dimostrato anche ai più riluttanti che un periodo storico era giunto al termine4. Vittima dell’“Era del vitello d’oro” – ovvero dei decenni dominati dalla riduzione a merce di ogni cosa – non è stata solo l’economia, anche se la rovina che si è abbattuta sulla vita e sui mezzi di sussistenza di milioni di persone è stata tremenda. La vera vittima è l’idea di un mondo libero e di una società libera, che è stata distorta Introduzione ) XI nel dogma assurdo secondo cui ciò che conta veramente deve essere misurabile in termini economici. Questo ha causato gravi danni all’idea di fondo di una società aperta che si sviluppa a partire da un pensiero critico e incisivo, vera eredità dell’Illuminismo europeo5. Come si può curare il malessere dell’homo globalis? La tesi di questo libro è che le idee necessarie a ricostruire i valori fondanti di ciò che John Stuart Mill difendeva nel suo saggio Saggio sulla libertà6 vadano ricercate nella storia culturale e intellettuale dell’Occidente7. L’idea di partenza è che al centro della vita si ponga il dramma dello sviluppo umano e non la merce che ne è il frutto. Il sistema dell’infotainment ci ha fatto dimenticare che il vero dramma che vive l’uomo è il processo attraverso cui diventiamo individui, con un carattere, una voce e una visione del mondo. Tutto sta nel vivere un’esistenza che sia una nostra creazione e non una forma di adattamento alle richieste del mercato globale. L’esistenzialismo ha sviluppato questo concetto mostrando che la nostra vita è una tensione continua tra il nostro retaggio culturale e la capacità che abbiamo di criticarlo, tra i nostri desideri e le nostre possibilità, e il bisogno che abbiamo di trasformare le condizioni di base della nostra vita (che non abbiamo scelto) in un’esistenza che sentiamo davvero nostra. In questo senso, siamo un po’ come bricoleurs, artisti che creano le proprie opere con ciò che trovano nel giardino dietro casa anziché comprare i materiali in negozi che potrebbero soddisfare tutti i loro capricci. La nostra individualità è il risultato della lotta che combattiamo per far convivere queste tensioni e per viverle in modo fecondo, piuttosto che cercare di risolverle in un’armonia illusoria. La seconda idea è stata formulata per la prima volta nella Grecia classica. La convinzione secondo cui possiamo liberare la nostra mente e raggiungere una verità superiore ha rappresentato il fondamento, la pietra d’angolo, di tutta la tradizione filosofica. Il grandioso mito della caverna platonica, la sua rappresentazione degli esseri umani come creature guidate da circostanze casuali legate alla nascita, che scambiano l’illusione per realtà, è una potente allegoria del percorso che le filosofie di ogni cultura ci hanno invitato a XII ) Economia della celebrità seguire, e che consiste nel sottoporre a una verifica senza sosta i principi di fondo che regolano la nostra visione del mondo8. Si tratta di un’idea che ha avuto la sua formulazione definitiva nel corso dell’Illuminismo, definito da Kant come “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso”. Per essere veramente liberi, gli uomini devono rispondere alle domande fondamentali dell’esistenza attraverso un difficile processo di sforzo intellettuale. Queste domande vanno dalla natura di una vita degna e di una società giusta a come possiamo passare da una convinzione erronea alla vera conoscenza. Senza visioni del mondo coerenti, le nostre vite mancano di una struttura di senso, e senza criteri di valore non abbiamo modo di fondare queste visioni su qualcosa che vada oltre il valore economico delle idee sul mercato, che, come si sa, è un indicatore di qualità piuttosto variabile. Anche se non mi illudo sul fatto che riguardo alle domande più profonde sull’esistenza si possa raggiungere una qualche forma di consenso, spero almeno di dimostrare che è possibile discutere di tali questioni in modo articolato. Questo libro propone una riconsiderazione di ciò che vuol dire vivere un’esistenza significativa. Si tenta un riavvicinamento tra la sensibilità europea, caratterizzata da un amore per la profondità culturale e intellettuale, e la straordinaria energia intellettuale degli americani, che sono stati relegati ai margini della cultura prevalente durante gli ultimi decenni. Speriamo che ciò possa contribuire allo sviluppo di una cittadinanza globale9, nel senso più profondo del termine. Evitando facili forme di cosmopolitismo10, non si tratta di esaltare in modo superficiale il fatto di essere cittadini del mondo, quanto di rendersi conto che la globalizzazione è giunta a un punto tale che non si può più evitare una collaborazione che vada al di là dei confini religiosi e ideologici: un compito possibile solo se sapremo e vorremo considerare le nostre visioni del mondo come creazioni umane. Recuperare le idee centrali della nostra cultura richiede uno sforzo considerevole e questo libro illustra gli aspetti di quella disciplina mentale11 necessaria per vivere in un mondo libero come cittadini del mondo. Allarga la prospettiva anche a modelli di vita Introduzione ) XIII infinitamente più ricchi di quelli imposti nel corso dell’Era del vitello d’oro. Il libro cerca di fornire una diagnosi del malessere che ha colpito l’homo globalis, indicando due modi, distinti ma collegati tra loro, per guarirlo. Ecco una breve sintesi della struttura del testo e del suo contenuto. La Parte prima si concentra sulla disamina della condizione negativa in cui versa l’homo globalis. Il Capitolo 1 traccia un profilo dei cambiamenti culturali ed esistenziali provocati dal sistema globale dell’infotainment e descrive la posizione teorica del libro. Si mostrerà quanto sia profondo il nostro bisogno di sentire che abbiamo un senso e quanto ciò sia radicato nella nostra natura biologica, facendo riferimento in particolare a come questa tematica è stata trattata dalla filosofia esistenzialista, dalla psicologia e dal suo frutto più recente: la psicologia sperimentale esistenziale. Il Capitolo 2 si occupa delle due caratteristiche della cultura globale prodotta dal sistema dell’infotainment. Si analizza la campagna “Just do it” (Fallo e basta) di incredibile successo di Nike, che ha festeggiato nel 2008 il suo ventesimo anniversario, per mostrare come essa colga un aspetto essenziale dello spirito dell’epoca, ossia che tutto è possibile e che due sono le cose che bisogna desiderare: la fama e la ricchezza, entrambe misurabili e costantemente monitorate da classifiche e graduatorie in tutto il mondo. La tesi del capitolo è che l’apparente oggettività di queste classifiche porta gli appartenenti alla categoria dell’homo globalis a ritenere che il posto occupato in questi sistemi di classificazione determini anche il proprio valore, a scapito del 99,9% di noi, che in simili elenchi non figuriamo nemmeno. Quelli che invece ne fanno parte vivono nel terrore costante di perdere la propria visibilità all’interno della lista delle celebrità più ricche, sexy e desiderate del pianeta e questo genera la paura continua di essere poco importanti. Il Capitolo 3 analizza alcuni strumenti con cui gli esponenti dell’homo globalis cercano di tacitare la loro continua paura di non contare nulla: la cultura dell’auto-aiuto, sempre più diffusa, e la spiritualità pop. L’idea centrale di questo capitolo è che molti dei prodotti XIV ) Economia della celebrità di questi due fenomeni poggiano su basi teoriche fragili (a voler essere gentili) e sostiene che è abbastanza improbabile che visioni del mondo del tutto incoerenti possano offrire un senso capace di mantenere intatto il proprio valore nel tempo. Viene poi descritta l’atmosfera relativista che ha reso la nostra cultura oltremodo tollerante nei confronti di costrutti intellettuali privi di coerenza. Da questo punto in poi, il libro prende due direzioni: la Parte seconda offre un’alternativa esistenzialista alla concezione del sé promossa dalla cultura del “Just do it” precedentemente descritta, mentre la Parte terza invita a recuperare una cultura del confronto ragionato come antidoto al relativismo irrazionale e all’anti-intellettualismo. Questa parte può essere letta indipendentemente dalla seconda ed è consigliata ai lettori interessati soprattutto a come potrebbe essere una cultura fondata sulla ragione. La Parte seconda sviluppa un quadro esistenzialista dell’individualità molto diverso da quello della cultura del “Just do it”: sostiene che il compito centrale dell’individuo è plasmare le proprie condizioni di base in una creazione coerente che è la vita stessa. Nel fare ciò, si contesta l’idea che l’essenza della persona sia predeterminata dall’appartenenza etnica, religiosa, razziale o di genere, come viene invece sostenuto dalla politica dell’identità ora tanto in voga. Di contro, viene sostenuto un individualismo riflessivo; ciascuno di noi deve decidere quali sono le tematiche centrali della sua vita e non accettare che questa sia determinata dal fatto di essere ebreo, musulmano, gay, donna o di colore. Il Capitolo 4 mostra come tutti noi siamo nati in una famiglia, in una cultura, in una comunità linguistica che non abbiamo scelto. Questo fatto implica il compito di scegliere che cosa accettare o rifiutare del nostro contesto di provenienza e della nostra educazione, facendo della vita una creazione soltanto nostra. Si tratta di un processo spesso difficile e segnato dal conflitto. La tesi centrale è che una vita ben spesa non è quella in cui queste tensioni sono eliminate, ma quella in cui sono vissute fino in fondo e in modo produttivo, come mostrano le vite di Barack Obama, dell’attivista e scrittrice di origini somale Ayaan Ali Hirsi e del romanziere ebreo Philip Roth. Introduzione ) XV Il Capitolo 5 sostiene che la cultura del “Just do it” ha reso impossibile strutturare la vita secondo la sua specifica logica interna, proprio perché ha dichiarato che tutto è possibile e che possiamo riuscire in qualunque cosa ci piaccia. Questo è palesemente falso e una delle cose che tutti noi dovremmo fare è affrontare la realtà e capire quali sono i nostri punti forti e le nostre debolezze. Contrariamente a quanto sostiene lo slogan di Adidas, “Impossible is nothing” (L’impossibile non esiste), tutti noi abbiamo dei limiti. Rendersi conto dell’esistenza di questi limiti non equivale a rassegnarsi. Quella che viene proposta è invece l’idea di un’autoaccettazione attiva delle proprie peculiarità soggettive, con i rispettivi potenziali e limiti. Il Capitolo 6 affronta la seguente questione: “Se non tutto è possibile, come faccio a stabilire qual è il tema attorno al quale ruota la mia vita? Come posso capire che cosa conta davvero per me?”. Questo processo è stato reso quasi del tutto impossibile da una cultura che ha messo al primo posto la giovinezza come valore supremo. Si dà per scontato che dobbiamo avere successo molto presto, per cui il processo di acquisizione dell’autoconsapevolezza viene eliminato quasi del tutto dal nostro orizzonte di vita. Per controbilanciare questo mito secondo cui la giovinezza sarebbe il periodo della vita in cui prendiamo le decisioni più importanti, il capitolo mostra attraverso alcuni esempi come gli uomini giungano all’autoconsapevolezza piuttosto tardi e quante siano le persone che raggiungono una maggiore realizzazione solo quando, attraverso la riflessione, arrivano a comprendere a cosa vogliono dedicarsi. La Parte terza lancia un attacco frontale al relativismo e all’antiintellettualismo delle diverse visioni del mondo in voga negli ultimi decenni. Auspica un ritorno ad argomentazioni di alto livello e invita coloro che fanno parte della categoria dell’homo globalis a investire tempo ed energia nella costruzione razionale della propria visione del mondo. L’obiettivo è quello di sviluppare una psicologia della cittadinanza mondiale, delle capacità mentali ed emotive necessarie a vivere in modo responsabile in un mondo interconnesso. Se noi, in quanto appartenenti alla specie dell’homo globalis, non cerchiamo di influenzare il nostro destino, l’umanità non po- XVI ) Economia della celebrità trà che autodistruggersi. Gettarci negli aspetti concreti del mondo e investire tempo ed energie nella loro comprensione è una base senza dubbio migliore per vivere un’esistenza piena di significato di quanto lo sia la tendenza ad accettare e abbracciare le varie forme di spiritualità pop. Il Capitolo 7 espone l’aspetto negativo del politically correct, ovvero l’idea per cui tutte le convinzioni vanno rispettate solo perché qualcuno le sostiene, non importa quanto irrazionali, odiose o incoerenti siano. Questa tolleranza ha fatto sì che nelle tre religioni monoteistiche si siano sviluppate derive fondamentaliste che hanno influito in modo catastrofico sugli eventi del modo. L’idea di Platone secondo cui non siamo condannati a credere in tutto ciò che ci è stato inculcato durante l’infanzia, ma possiamo invece elevarci al di sopra di queste convinzioni e usare la ragione per costruire la nostra visione delle cose, rimane valida ancora oggi. Il capitolo vuole essere un appello all’ideale dell’educazione liberale, quella parte dei nostri studi che oggi viene ritenuta solo una via per arricchirsi, affinché ci renda cittadini del mondo più preparati. Il Capitolo 8 affronta una delle motivazioni più profonde per cui l’homo globalis tende a fuggire la discussione sui problemi che riguardano le diverse visioni del mondo: litigare sulle questioni religiose non porta da nessuna parte, allora perché perdere tempo? Il risultato di questo atteggiamento è stato proprio l’idea del politicamente corretto: dobbiamo rispettare reciprocamente le nostre credenze. Ma questo, sostengo io, è impossibile da un punto di vista psicologico: come possiamo rispettare qualcosa che riteniamo vacuo, irrazionale o immorale? Al massimo, potremmo riuscire a tollerarlo. Ecco perché suggerisco un’alternativa all’ideologia del politicamente corretto, quello che io chiamo “sdegno civile”, intendendo con ciò una posizione che rispetti l’umanità di tutti, ma che consenta anche l’espressione del rifiuto che proviamo verso convinzioni che riteniamo inaccettabili. Il Capitolo 9, infine, si chiede in che direzione stiamo andando. La psicologia esistenziale ha dimostrato che gli esseri umani difficilmente rinunceranno alle loro credenze, non importa quanto distruttive o irrazionali esse siano. Siamo quindi condannati a di- Introduzione ) XVII struggere il pianeta facendolo precipitare nelle guerre, nel terrore nucleare o in disastri ecologici? Il capitolo presenta il principio della “somma diversa da zero”, che si ritrova nell’evoluzione biologica e culturale: le situazioni a somma diversa da zero presentano maggiori possibilità di adattamento di quelle a somma zero. È questo che ha dato vita a organismi e culture sempre più complessi. Alla fine, che cosa avrà la meglio, questa idea o la nostra irrazionalità? Non possiamo saperlo, e tuttavia il capitolo invita l’homo globalis a scommettere sul principio della somma diversa da zero, a unirsi a tutti coloro che vogliono essere cittadini del mondo assumendosi la responsabilità dell’intero pianeta e del genere umano. PARTE PRIMA La sconfitta della ragione Capitolo 1 Gli anni del vitello d’oro L’11 settembre del 2001 finirà probabilmente per essere considerato come il vero inizio del XXI secolo. Questo creerà non pochi problemi agli storici del futuro perché a lungo si è sostenuto che il secolo fosse finito con la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Come saranno allora classificati gli anni che vanno dal 1989 al 2001? Suggerisco che passino alla storia come un breve intervallo in cui l’Occidente ha ritenuto che i suoi valori e la sua cultura avessero trionfato. La tesi di Francis Fukuyama, secondo cui la storia stava per giungere alla propria conclusione, va intesa quindi nel senso che il controllo sul mondo da parte dell’Occidente si avviava a diventare completo1. Più di qualunque altra cosa, l’11 settembre rappresenta un indicatore della profondità del bisogno umano di senso e di identità. Osservando da un punto di vista psicologico al Qaeda e gli autori dell’attentato, si capisce quanto sbagliata fosse l’idea che riteneva capitalismo e democrazia sufficienti a sostenere l’essere umano su un piano esistenziale. Mohammed Atta e i suoi compagni non erano né poveri né analfabeti, si erano anzi conosciuti durante il periodo di studi trascorso nelle università occidentali. Ciò che li ha spinti a uccidere se stessi, insieme ad altre migliaia di vittime in- 4 ) Economia della celebrità nocenti, è stata una rabbia sorda per quella che vivevano come un’umiliazione inflitta all’Islam per mano della prepotente politica americana. L’Occidente li ha accolti nelle sue istituzioni scolastiche perché acquisissero conoscenze e sapere tecnologico, ma questo incontro ha prodotto risultati opposti rispetto a quelli che molti si sarebbero aspettati. Le uniche cose che provavano erano disprezzo e odio nei confronti della libertà e, per come la vedevano loro, del materialismo vuoto, senz’anima, e dell’edonismo tipici del mondo occidentale. Quando sentirono l’appello di Osama bin Laden a purificare l’Islam dalla putrida influenza dell’Occidente, trovarono finalmente un significato e uno scopo: avrebbero dimostrato al mondo che il predominio e la supremazia occidentali non erano altro che una mistificazione e che alla fine sarebbe stato l’Islam a trionfare. Sarebbe facile liquidare il terrorismo suicida come fenomeno marginale e indice di una forma estrema di psicopatologia, ma le ricerche2 mostrano qualcos’altro: interviste approfondite con attentatori suicidi che sono stati fermati in tempo non hanno portato alla luce alcuna psicopatologia in grado di predire un comportamento suicida. Se non altro, l’atto stesso di farsi esplodere è una manifestazione (benché estrema) del profondo bisogno di senso dell’essere umano. Più di ogni altra cosa, abbiamo bisogno di sentire che la nostra vita è importante. Le radici di questo desiderio vanno ricercate nella storia della nostra evoluzione. A un certo punto, la specie umana ha operato una transizione di grande importanza, compiendo probabilmente quello che è stato il passo decisivo che ci ha portato ad essere da animali un po’ più intelligenti degli altri a veri e propri esseri umani: la nostra specie ha acquisito l’idea della morte e la consapevolezza della mortalità3. Gli argomenti a sostegno del fatto che sarebbe stato questo passaggio a rendere la nostra specie pienamente umana sono molto forti. Filosofi di ogni epoca e cultura hanno sostenuto che la capacità di riuscire a convivere bene con l’idea della morte è essenziale per vivere un’esistenza soddisfacente. Inoltre, a differenza di molte altre tesi filosofiche che sopravvivono unicamente a livello teori- 1. Gli anni del vitello d’oro ) 5 co, nell’ambito della storia della cultura e del pensiero, l’idea che la consapevolezza della morte sia una delle caratteristiche distintive della nostra esistenza ha avuto importanti verifiche empiriche. La filosofia esistenzialista, soprattutto in opere come Essere e tempo di Martin Heidegger (1927) e L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre (1943)4, ha affermato per tutto il corso del XX secolo che fare i conti con la propria finitezza è il centro dell’esistenza umana. Heidegger e Sartre hanno analizzato le strutture fondamentali della vita umana. Heidegger lo ha fatto nel suo stile inconfondibile affermando che il Dasein (letteralmente l’“esserci”, termine da lui coniato per designare l’esistenza umana) si staglia contro il nulla. In base a ciò, Heidegger identificava due aspetti correlati del Dasein. In primo luogo, gli esseri umani (consciamente o no) operano continuamente delle scelte e ognuna fa sì che non si realizzino altre linee di azione o possibilità di vita; secondariamente, l’esistenza umana è caratterizzata dalla consapevolezza della propria finitezza: sappiamo che il tempo a nostra disposizione è limitato e che prima o poi moriremo. Questo accentua moltissimo il valore delle nostre scelte. Non solo non abbiamo reso possibili determinate opzioni scegliendo di agire come abbiamo fatto, ma la quantità finita di tempo che abbiamo a disposizione implica che non esiste la possibilità di tornare indietro nelle nostre vite e, per così dire, tentare altre strade. Una delle intuizioni decisive di Heidegger è stata che la consapevolezza della finitezza e della libertà genera inevitabilmente un’ansia esistenziale, talmente difficile da sopportare che la maggior parte di noi preferisce fare di tutto per nasconderla. Secondo Heidegger, viviamo per gran parte del tempo in uno stato di inautenticità. Invece di essere consapevoli della libertà e della finitezza, viviamo come se non avessimo scelta, come se la tradizione, le norme sociali, le aspettative nostre e degli altri, la nostra visione del mondo determinassero completamente il modo in cui viviamo. Questa forma di inautenticità è un meccanismo di difesa che ci consente di condurre le nostre vite senza essere sopraffatti dall’ansia5. L’esistenzialismo ha smesso di essere di moda negli ultimi decenni. L’accento che poneva sulla dimensione tragica dell’esistenza non si confaceva al vuoto ottimismo di una cultura basata sull’i- 6 ) Economia della celebrità dea che l’ansia fosse prerogativa di una mente debole e che fosse necessario curarla per via farmacologica. Per questo motivo, come altri grandi paradigmi del pensiero psicodinamico, l’esistenzialismo è stato relegato negli archivi della storia del pensiero, studiato da un numero sempre minore di studenti, per la maggior parte occupati più che altro a ottenere lauree che li aiutassero a conquistare carriere redditizie il più velocemente possibile. Mentre la cultura generale era impegnata in una sorta di fuga nella dimensione economica della realtà, la filosofia esistenzialista è ritornata a poco a poco in vita, partendo dai margini dell’ambiente accademico. Irvin Yalom6 ha dimostrato che l’esistenzialismo offre un modello prezioso per la pratica clinica. Le idee dell’antropologo Ernest Becker, in particolare quelle contenute nei suoi ultimi due libri – The Denial of Death (1973) e il postumo Escape from Evil (1975) – hanno riformulato alcuni concetti centrali dell’esistenzialismo in un modo più vicino alla biologia evoluzionistica. Becker sostiene che l’evoluzione abbia creato una situazione insostenibile per la specie umana. Come tutti gli altri animali, siamo terrorizzati da qualunque cosa possa portare alla nostra morte, ma a differenza delle altre specie siamo consapevoli della nostra morte. Tuttavia, non siamo in grado di sopportare il peso di questa conoscenza. Becker avanza un’ipotesi molto importante: la negazione della morte è uno dei fattori che motiva di più la nostra specie. Come facciamo però a negare qualcosa di cui siamo consapevoli? La risposta principale è che per non sentirsi in balìa del nudo terrore della morte, gli esseri umani sposano visioni del mondo che hanno due funzioni: la prima è quella di fornire un senso all’esistenza, spiegando perché siamo qui e come organizzare la nostra vita; la seconda è quella di proteggerci offrendo la possibilità di far parte di un insieme più ampio. L’appartenenza a un gruppo distintivo e speciale (religioso, nazionale o etnico), definito secondo i criteri di una visione del mondo, rende noi stessi speciali e aumenta così il nostro livello di autostima. Alla fine degli anni Ottanta, sono emersi un nuovo paradigma di ricerca della psicologia sociale e la teoria della motivazione e della personalità basate sulle idee di Becker: la psicologia sperimenta-