racconti di Canterbury

Transcript

racconti di Canterbury
Geoffrey Chaucer.
I RACCONTI DI CANTERBURY.
a cura di Ermanno Barisone.
Copyright 1981 Casa Editrice UTET, Torino.
Titolo originale dell'opera: "Canterbury Tales".
Indice.
Introduzione di Ermanno Barisone.
La vita e le opere di Geoffrey Chaucer.
I RACCONTI DI CANTERBURY.
Frammento Primo.
Prologo generale.
Racconto del Cavaliere.
Prologo del Mugnaio.
Racconto del Mugnaio.
Prologo del Fattore.
Racconto del Fattore.
Prologo del Cuoco.
Racconto del Cuoco.
Frammento Secondo.
Introduzione al Racconto del Commissario di Giustizia.
Prologo al Racconto del Commissario di Giustizia.
Racconto del Commissario di Giustizia.
Epilogo al Racconto del Commissario di Giustizia.
Frammento Terzo.
Prologo della Comare di Bath.
Racconto della Comare di Bath.
Prologo del Frate.
Racconto del Frate.
Prologo del Cursore.
Racconto del Cursore.
Frammento Quarto.
Prologo dello Studente.
Racconto dello Studente.
Prologo del Mercante.
Racconto del Mercante.
Epilogo al Racconto del Mercante.
Frammento Quinto.
Introduzione al Racconto dello Scudiero.
Racconto dello Scudiero.
Prologo dell'Allodiere.
Racconto dell'Allodiere.
Frammento Sesto.
Racconto del Medico.
Introduzione al Racconto dell'Indulgenziere.
Prologo dell'Indulgenziere.
Racconto dell'Indulgenziere.
Frammento Settimo.
Racconto del Marinaio.
Prologo al Racconto della Priora.
Racconto della Priora.
Prologo a Ser Topazio.
Ser Topazio.
Racconto di Melibeo.
Prologo al Racconto del Monaco.
Racconto del Monaco.
Prologo al Racconto dei Cappellano della Monaca.
Racconto del Cappellano della Monaca.
Epilogo al Racconto del Cappellano della Monaca.
Frammento Ottavo.
Prologo della Seconda Monaca.
Racconto della Seconda Monaca.
Prologo del Garzone del Canonico.
Racconto del Garzone del Canonico
Frammento Nono.
Prologo dell'Economo.
Racconto dell'Economo.
Frammento Decimo.
Prologo del Parroco.
Racconto del Parroco.
Congedo.
Introduzione.
A Máire.
I "Canterbury Tales" (che il Chaucer ideò intorno al 1387) costituiscono la vasta e multiforme epopea della
società medievale inglese, colta nel periodo in cui questa stava passando dal feudalesimo all'organizzazione
nazionale. Tale trasformazione, che aveva avuto inizio assai prima della nascita del poeta e si sarebbe
compiuta molto tempo dopo la sua morte, fu affrettata durante il corso della sua vita da profondi
rivolgimenti politici ed economici.
Mentre la guerra dei cento anni con la Francia (1337-1453), incominciata come guerra dinastica e feudale,
andava assumendo un carattere etnico e «imperialista», una spaventosa epidemia di peste colpiva
l'Inghilterra: in soli sei mesi (fra il 1349 e il 1350) la popolazione del regno venne ridotta da quattro a due
milioni circa. In una società in cui di solito il mutare delle condizioni di vita era molto lento, le conseguenze
economiche d'uno spopolamento così rapido si fecero sentire ancor più profondamente. L'improvvisa
scarsezza di mano d'opera rese i contadini esigenti e ribelli. I baroni, non potendo trovare operai per
lavorare sui loro feudi, cercarono di affittare le terre; molti rinunciarono all'agricoltura e si dedicarono al
commercio della lana e delle stoffe. Da un'economia fondata su locali costumi di servizi personali si passò
rapidamente a un'economia monetaria che si estendeva a tutta la nazione. Si crearono nel frattempo le
prime imprese capitalistiche e scoppiarono i primi scandali finanziari. Lo spirito corporativo delle
confraternite medievali, che imponeva precisi obblighi sociali e morali nell'impiego della ricchezza stava
ormai agonizzando, e col sorgere del capitalismo incominciava l'inevitabile collusione del potere economico
con quello politico. Mentre finanzieri senza scrupoli entravano da padroni nei parlamenti, la classe
contadina reclamava la propria emancipazione da ogni obbligo servile. La massa dei ribelli che nel 1381
s'impadronì di Londra non era costituita da gente affamata tratta alla violenza dalla disperazione: era gente
che stava progredendo rapidamente in ricchezza e indipendenza; non tanto rapidamente però, da veder
soddisfatte le sue nuove aspirazioni. Non fu difficile domare la rivolta, ma il ritmo dei mutamenti sociali,
accelerato dalla guerra e dalla «morte nera», non si arrestò. Il sistema dei manieri feudali si stava ormai
irrimediabilmente dissolvendo.
Durante questo periodo di grandi mutamenti nella struttura della società, ebbe inizio in Inghilterra un
movimento religioso precorritore della riforma protestante. La Chiesa, che aveva civilizzato il paese
insegnando ai ricchi la carità e ai potenti la moderazione, era stata a sua volta corrotta dalla ricchezza e
dalla potenza. Quanto più i vescovi e i monaci prosperavano, tanto più i preti delle parrocchie erano in
condizioni miserrime. Molti fra questi furono costretti, dopo la grande peste, ad abbandonare il proprio
ufficio e a venir meno alla propria missione. Quelli che mantennero fede ai loro ideali si fecero spesso
banditori di dottrine rivoluzionarie, come, ad esempio, John Ball, il più celebre dei preti nella rivolta del
1381. Ma il fuoco dell'entusiasmo religioso s'era quasi spento dovunque: le campagne inglesi erano
percorse da frati questuanti, indulgenzieri, cursori di tribunali ecclesiastici, contro cui le accuse di vendere
la giustizia si facevano sempre più insistenti. John Wycliffe, un dotto di Oxford, giunse alla conclusione che,
per ridare prestigio alla Chiesa, bisognava spogliarla dei suoi beni e ricondurla alla povertà primitiva.
Condannato, ripudiò l'autorità pontificia e, nei suoi ultimi anni, insegnò che la sola sorgente delle verità
cristiane era la Bibbia, che tradusse e fece tradurre per la prima volta in inglese, mandando i suoi discepoli,
i "lollards", a predicare nei villaggi la povertà e l'uguaglianza.
L'unità dell'Europa medievale, garantita dalle consuetudini feudali, dalla cavalleria e dalla cristianità
romana, si stava dunque spezzando, e l'Inghilterra era fra i primi paesi europei che andavano rapidamente
acquistando coscienza della propria autonomia nazionale. L'antica lingua anglosassone, che dopo la
conquista normanna (1066) aveva finito per diventare il gergo dei servi e dei villani, semplificata nella sua
struttura e arricchita di parole latine e francesi, si stava ormai affermando come lingua comune di tutte le
classi sociali. Edoardo Terzo e i suoi nobili, discendenti dei conquistatori normanni, parlavano ancora
abitualmente francese, ma con la guerra dei cento anni anche nell'ambiente di corte il francese andò
cadendo in disuso. Mentre il Wycliffe traduceva nel nuovo inglese la Bibbia, l'antica poesia allitterativa
rinasceva nel "Piers Plowman" di William Langland e in raffinate composizioni quali "Pearl" e "Sir
Gawayne", che tuttavia rimanevano legate a una tradizione ormai isolata e senza avvenire. Il grande merito
dei Chaucer fu quello di saper fondere in una nuova sintesi la cultura anglosassone con quella latinonormanna, dando all'Inghilterra il suo primo poema nazionale. La sua carriera poetica fu un costante atto di
fede nell'unica lingua ch'egli considerasse veramente viva: la lingua di Londra, il suo dialetto natale. Ma non
rimase chiuso entro i confini di tale dialetto. Tentò invece di arricchirlo, infondendovi la grazia e il vigore
che, al di sopra del nascente nazionalismo, egli continuò ad avvertire nella poesia e nella cultura d'Europa.
Curioso e aperto non solo al passato rivelato dai libri, ma anche ai problemi del suo tempo, il Chaucer ebbe
la fortuna di poter conoscere paesi stranieri e, nell'ambito della sua patria, tutte le classi sociali. Figlio di
mercanti educato a corte, fu più volte ambasciatore in Francia, nelle Fiandre, in Italia, giudice di pace e
deputato a Westminster, nonché funzionario delle gabelle nel porto di Londra, sopraintendente delle
costruzioni reali e viceintendente forestale. Era dunque straordinariamente preparato a dipingere un
quadro vivo e completo della sua epoca. La sua esperienza culturale era vasta quanto la sua esperienza
umana: conosceva Virgilio, Ovidio e Stazio, Boezio e San Gerolamo, le versioni medievali dei miti classici e il
complesso dottrinale della Chiesa, il "Roman de la Rose" e le cronache del Froissart, i trattati dei retori
francesi e le opere dei grandi trecentisti italiani. Né i suoi interessi si limitavano alla letteratura, alla
filosofia, alla storia, ma spaziavano nei campi dell'astronomia, della medicina, dell'alchimia (1).
Gli scrittori suoi contemporanei colsero tutti qualche aspetto della realtà del loro tempo: l'ignoto autore del
"Sir Gawayne", i riti del mondo cavalleresco; il Langland, lo sdegno della classe contadina di fronte agli
abusi dei governanti e alla corruzione del clero; il Wycliffe, l'ardore religioso che avrebbe aperto la via al
protestantesimo. Ma ognuno di essi aveva un obiettivo particolare, una passione polemica dominante, che
toglieva alla loro visione chiarezza e lungimiranza. Lo sguardo del Chaucer, invece, era limpido, imparziale e
aperto; sensibile al sarcasmo ma anche alla simpatia, alla grazia e all'umorismo. Unico fra i suoi
contemporanei, egli pose la sua arte al di sopra di ogni polemica e di ogni particolarismo. Riuscì in tal modo
a trasferire la realtà umana e sociale del suo tempo in una visione veramente «totale» nella sua
essenzialità.
La società che i "Canterbury Tales" ci presentano è ancora suddivisa nelle categorie feudali del "bellatores"
(coloro che combattono), degli "oratores" (coloro che pregano) e dei "laboratores" (coloro che lavorano),
corrispondenti alle tre classi della cavalleria, del clero e del popolo comune. Ma queste tre classi sono
riunite in un unico gruppo di pellegrini in viaggio verso Canterbury: la nazione inglese appare per la prima
volta nella sua unità di razza e di cultura. Nobili e borghesi, chierici e agricoltori parlano insieme
fraternamente e con i loro contatti modellano a un tempo la lingua e l'anima del giovane paese.
Fra questi pellegrini, gli echi della guerra, delle pestilenze e delle rivolte sembrano lontani: uomini e donne
indossano abiti di solide stoffe, spesso adorni di pelliccia; le insegne degli artigiani sono di puro argento. Ma
lo sguardo del poeta va oltre le loro apparenze di prodigalità e di sfarzo: e sotto il mondo dorato dei
cavalieri vede la violenza, vede la grettezza e la volgarità sotto la nuova potenza del denaro, e sotto la
religiosità degli ecclesiastici il dilagante materialismo. Eppure la sua non è la visione d'un misantropo: è
invece la visione del primo grande umorista inglese, in cui lucidità e irriverenza, ma anche pietà, si fondono
in un flusso costante d'ironia.
L'epopea del Chaucer non ha intonazioni eroiche o celebrative: ci presenta la verità senza convenzioni, la
verità che il poeta ha visto per tanti anni nelle strade, nelle chiese e nei tuguri di Londra. E' veramente la
poesia d'un mondo nuovo; non è più il canto del menestrello, che traeva i suoi motivi da un bel mattino di
maggio, da estenuate visioni di bionde dame e cortesi cavalieri: è la rappresentazione realistica degli
uomini nella loro esistenza quotidiana.
Il Chaucer non inventa, non altera nulla; descrive gli uomini così come sono, come li ha visti, come
generalmente si mostrano: deboli, volubili, libidinosi, qualche volta anche infelici, irresoluti e sentimentali,
soprattutto incapaci di «sopportare troppa realtà», come dice T.S. Eliot (2). Stanno viaggiando verso la
tomba-santuario di Canterbury, e cercano in tutti i modi di distrarsi e di dimenticarsene. In tutta la storia
della letteratura, sono pochi gli scrittori che abbiano saputo cogliere il vero aspetto della condizione umana
in modo così fedele e rappresentarlo in forma così sapiente.
Ridotto a puro schema, il poema (3) che forma i "Canterbury Tales" è molto semplice. Una trentina di
pellegrini, «gente d'ogni ceto», s'aduna, in una sera d'aprile, alla locanda del 'Tabarro' sulle rive del Tamigi,
per poi recarsi alla famosa tomba di San Tommaso Becket a Canterbury. L'Oste propone che ciascuno, per
ingannare il tedio del viaggio, racconti due novelle durante l'andata e due durante il ritorno. I pellegrini
accettano la proposta, e l'allegra brigata si mette in cammino.
A tale schema il Chaucer ha saputo infondere un carattere pluridimensionale, fornendolo, oltre che di un
senso letterale, anche di un senso morale e anagogico. Mentre infatti egli adegua il linguaggio alle esigenze
e all'indole di personaggi diversissimi, accogliendo con realismo e simpatia tutte le facce e le stranezze della
vita, le virtù sublimi e le ipocrisie, d'altra parte non esclude la solenne intensità d'una grande concezione
ideale, costituita dall'aperta sequenza del pellegrinaggio: un concreto pellegrinaggio a Canterbury, alla
tomba del patrono nazionale; ma anche un itinerario morale, il viaggio dell'uomo sulla via della vita.
Se nel suo "pèlerinage de la vie humaine" (4) il Chaucer non raggiunge la visione ultraterrena di Dante, non
per questo si ferma al valore letterale d'una descrizione naturalistica. Egli invece raccoglie in una sintesi (di
cui il pellegrinaggio alla tomba di Canterbury è condizione e simbolo) la realtà tutta del tempo, nelle sue
diverse stratificazioni e nelle sue contraddizioni interne, nell'intreccio delle sue ideologie e dei suoi ideali. E,
pur lontano da ogni intenzione spiegatamente allegorica e da ogni senso del meraviglioso, dà ordine, forma
e significato alla sua materia, componendola (secondo le convinzioni estetiche sue e dell'epoca) in un
disegno preciso, valido anche in senso metafisico.
A differenza delle clausole conchiuse proprie dei poemi delle letterature classiche e romanze, tale disegno
presenta un andamento aperto, sequenziale, lungo il quale il mondo interno di ciascun racconto si alterna
con quello esterno della cosiddetta «cornice»: (5) ora ci troviamo immersi nel tempo e nello spazio
dell'universo particolare di ciascuna narrazione, ora siamo richiamati ad assistere al progredire del
pellegrinaggio. All'interno di ciascun racconto possiamo anche dimenticarci della legge che governa
l'insieme, ma all'esterno ci troviamo di fronte a una chiara linearità, tipica d'una struttura gotica.
Si tratta, com'è noto, d'una linearità intermittente: mentre infatti certi racconti sono uniti fra loro in un
gruppo compatto, altri possiedono un legamento soltanto conclusivo oppure soltanto iniziale, sicché è
impossibile stabilire con precisione a quale gruppo collegarli o da quale farli seguire. I "Canterbury Tales" si
presentano così in dieci frammenti separati (6), ai quali, esclusi il primo e l'ultimo, il Chaucer non volle o
non fece in tempo a dare un ordine definitivo. Ma per quanto tale ordine possa variare, la linea della
struttura generale continua il suo moto: i racconti, con i loro intermezzi, segnano pur sempre le fasi e le
stazioni d'un viaggio.
Di tale viaggio rimangono fermi i due punti essenziali: quello di partenza e quello d'arrivo. Da una parte
(all'inizio del "Prologo generale"), l'immagine della primavera che, col suo senso di rigenerazione naturale e
spirituale, sollecita il pellegrinaggio; dall'altra (alla fine dei lunghissimo "Racconto del Parroco"), quella del
beato regno «dove la gioia non è contrastata da alcun dolore o dispiacere, dove tutti i mali di questa
presente vita son passati», seguita subito dal congedo del poeta pellegrino che, ormai idealmente
incamminato verso l'eternità, condanna tutti i valori mondani raffigurati nelle proprie opere. Compresa fra
questi due termini del più caratteristico "pathos" medievale, la linearità strutturale dei "Canterbury Tales"
viene ad essere investita da una seconda qualità tipicamente gotica: la polare tensione fra spirito e mondo,
immanentismo e trascendenza, che informa l'arte e il pensiero del tempo. Tale tensione non si riflette
soltanto nel contrasto fra l'atteggiamento laico o decisamente profano dei pellegrini e la motivazione sacra
del viaggio, ma si traduce anche stilisticamente nei racconti, col loro crudo naturalismo da una parte, e le
loro visioni così idealizzate, così trasfigurate fuori d'ogni tempo e d'ogni memoria dall'altra.
Linearità e tensione vengono preannunciate nel "Prologo generale" dall'ordine in cui si raggruppano e si
susseguono i pellegrini, riassumendo tutte le classi della società inglese del Trecento. Subito dopo il gruppo
della nobiltà (comprendente il Cavaliere, il giovane Scudiero suo figlio e il loro Arciere) vengono i
rappresentanti del clero (la Priora con la Suora cappellana e tre preti, il Monaco e il Frate), poi quelli della
borghesia (il Mercante, lo Studente di Oxford, il Commissario di Giustizia, l'Allodiere, i cinque cittadini
appartenenti al gruppo livellatore d'una stessa confraternita col loro Cuoco, il Marinaio, il Medico e la
Comare di Bath), seguiti da due personaggi umili e virtuosi (il Parroco di campagna e il Contadino suo
fratello) e infine da un gruppo, nel quale il poeta include ironicamente anche se stesso, composto di plebei
e di furfanti (il Mugnaio, l'Economo, il Fattore, il Cursore e l'Indulgenziere).
La linea che collega individuo a individuo e ciascun gruppo all'altro, in apparenza nitidissima, sottintende un
complesso dinamismo interno. Seguendo una duplice scala di valori sociali e morali, essa ha un andamento
decrescente, ma non rigidamente classificatorio: parte (col personaggio grave e idealizzato del Cavaliere)
dal grado più alto nella scala sociale, elevato anche in quella morale; e termina (con l'ambigua figura
dell'Indulgenziere) sul fondo della scala morale, e alquanto in basso anche in quella sociale.
In rapporto inverso con questo decrescere di valori è un tono satirico che, dapprima appena percettibile, va
sempre più aumentando. Il gruppo della nobiltà ne rimane appena sfiorato (nella raffigurazione dello
Scudiero, il tipico amatore della tradizione cortese), ma già i rappresentanti del clero ne sono chiaramente
contrassegnati: una satira indulgente e sottile per l'impenetrabile ambiguità della Priora, scherzosa e fine
per il Monaco disadatto alla vita conventuale, aspra e pungente per il Frate che commercia col peccato. Fra
i rappresentanti del complesso gruppo della borghesia, nessuno sfugge ad almeno un tocco satirico o
umoristico, anzi con la figura della Comare di Bath, la cui vasta esperienza mondana e sessuale stride
apertamente con la motivazione religiosa del pellegrinaggio, l'umorismo raggiunge il suo apice. La satira
tace completamente nella presentazione del Parroco e del Contadino, per poi colpire violenta e amara di
sarcasmo i pellegrini del gruppo finale, uniti dal denominatore comune della frode e significativamente
disposti secondo un ordine crescente di deformità fisica.
Lungi dall'essere meccanicamente manovrati dai fili di un abile artista, i personaggi che il "Prologo
generale" ci presenta sono colti nella loro interezza: anima e corpo, natura e spirito; essi vivono autonomi
nella china del loro temperamento, delle inflessioni del loro carattere; le loro qualità e i loro vizi non si
irrigidiscono nella fissità del tipo, ma obbediscono alla confusione delle loro cause e al disordine delle loro
contraddizioni. Ciascuno diventa un ritratto tipo solo nella misura in cui l'uomo, considerato come
individualità e come persona, possiede una sua verità morale e una sua dignità sociale. La loro
presentazione supera il doppio scoglio della personificazione allegorica e del trattato fisiognomico, e non si
limita soltanto a illustrare uno spiraglio di vita, come faranno poi i naturalisti. La descrizione si addentra nei
minimi particolari, ma in modo assai semplice e tranquillo; non pone accenti, non fa commenti: raggiunge il
suo effetto attraverso un ordine organizzativo e compositivo interno, che inquadra in senso ideale la realtà
intensamente osservata.
Dai ritratti del "Prologo generale" il Chaucer passa ai racconti non senza transizione, la quale è costituita da
un abbozzo di commedia che si svolge lungo tutta la sequenza del pellegrinaggio. In essa i personaggi,
dapprima presentati staticamente, si animano e parlano e agiscono, rivelando ulteriormente i loro interessi,
le loro attitudini, spesso il loro antagonismo. Basta una parola, un'allusione vera o supposta, per agitarne gli
animi: certi si adontano violentemente, altri ignorano qualsiasi provocazione o si chiudono nel più
impenetrabile silenzio. In genere si appassionano per quello che ascoltano come per quello che vogliono
narrare: ora si propongono di edificare con l'eloquenza di un apologo, ora di far ridere con una burla; a
tratti si mostrano insofferenti e troncano la narrazione dei loro compagni.
Il ruolo principale dell'azione scenica è affidato all'Oste, la cui figura, nel "Prologo" appena tratteggiata,
domina con ridevole prosopopea quasi tutti gli episodi lungo la strada. Guida della compagnia e arbitro dei
racconti, egli fa da intermediario fra il mondo concreto dei pellegrini e quello astratto delle loro idee e della
loro fantasia. La sua è la voce varia e tuttavia sempre uguale del senso comune, che s'inserisce come
elemento di continuità narrativa fra i contrasti e le stridule discordanze del pellegrinaggio, facendo da
«coro» alle vicende dell'umanità in cammino senza vera coscienza del viaggio.
E' il caso (e il senso di congruenza del poeta) a stabilire che il primo a narrare sia il Cavaliere, ma ben presto
le voci sguaiate del Mugnaio, del Fattore e del Cuoco hanno il sopravvento, e la decorosità del
procedimento iniziale viene irrimediabilmente spezzata. I buoni son messi a tacere. Si dilatano invece con
presuntuosa insolenza i monologhi dei filistei: quello carico di torpida sensualità della Comare di Bath,
quello denso d'untuosa abiezione dell'Indulgenziere.
Lungo la strada fangosa, mentre i mariti si lamentano delle mogli, e i padri dei figli, gli ecclesiastici
s'insultano a vicenda o vengono messi in ludibrio. Perfino la solennità contegnosa delle due monache,
risolta nella retorica fredda delle loro pie invocazioni, acquista un tono di contrappunto burlesco: quella
della Priora, a contrasto con la volgarità dei Marinaio; quella della Seconda Monaca, col cieco materialismo
del mondo alchimistico rappresentato dal Garzone del Canonico.
Anche il poeta partecipa, come pellegrino, alla commedia di questi esseri mediocri, sperduti in un mondo
più completo di quello che essi conoscono: fra tutti è colui che peggio sappia narrare, e la stucchevole
ballata su Ser Topazio viene bruscamente interrotta dall'Oste; si vendica allora con il lungo, pesantissimo
dialogo di Melibeo e madonna Prudenza, sovraccarico di citazioni, ma finalmente i suoi compagni lo
ascoltano senza protestare.
La mèta del pellegrinaggio non è che un simulacro lontano di cui tutti si dimenticano e al quale in effetti
nessuno arriva mai. Alla fine, quando l'Oste cede il suo posto al povero Parroco di campagna, la città di
Canterbury s'identifica con la Gerusalemme celeste e il traguardo del viaggio si sposta all'infinito. E' l'ultimo
atto della commedia chauceriana: ad esso seguirà un epilogo abnorme, in cui, mediante un'analisi
insistente, aggressiva, freddamente schematica, ogni peccato del pellegrinaggio e del mondo verrà
scomposto e annientato, ma cesserà con ciò anche ogni accadimento.
I racconti, che costituiscono per il Chaucer un mezzo per completare il ritratto dei suoi pellegrini, risalgono
alle più diverse fonti del Medioevo (7) e sono stilisticamente assai vari. Il poeta si vale appunto della loro
«mancanza di originalità» e della loro grande varietà stilistica per dare forza d'argomentazione obiettiva ai
ragionamenti, talvolta anche goffi e semipoetici, dei suoi narratori. La sua posizione di poeta e insieme di
pellegrino denota, verso i suoi compagni, un atteggiamento critico e comprensivo nello stesso tempo:
l'ironia che contrappone i loro errori e i loro sforzi obliqui all'ideale linea retta del pellegrinaggio, è anche
alla base dei loro racconti, ne costituisce l'etimo spirituale comune.
Tali racconti non sono dunque fine a se stessi, ma valgono in funzione dei pellegrini che li narrano, come
espressione del loro temperamento o dei pregiudizi della loro classe. Il poeta, sostituendo al suo punto di
vista il punto di vista dei suoi personaggi (e, in certi casi, di se stesso come personaggio), persegue un ideale
di impersonalità drammatica che non aveva precedenti nella storia della narrativa. Egli si limita ad essere
un semplice interprete, un cronista, che riferisce fedelmente le storie che ha sentito raccontare, le quali
vanno valutate non solo per le loro intrinseche qualità narrative, a volte comiche, a volte penetranti e
occasionalmente persino profonde, ma anche per la loro stravaganza e talvolta per la noia che ne deriva.
Quando, ad esempio, vuole bollare la vacuità di certi cantari cavallereschi o di certa lugubre letteratura
omiletica, non fa altro che farci ascoltare una ballata vacua e presuntuosa o una sequela di «tragedie»
lugubri e monotone.
Al Chaucer non interessa tanto stabilire fra narratore e racconto un rapporto rigorosamente naturalistico,
quanto piuttosto un rapporto tonale: assegna agli intellettuali e ai nobili uno stile elevato, modulato
secondo le più austere "artes rethoricae", ricco di termini astratti e immaginosi, di schemi e formule
indipendenti dai dati sensibili; ai plebei, un discorso in cui invece prevale l'esattezza materiale, una
terminologia concreta, spoglia e minuta, immagini sensibili, intuitive e vissute. Ma non sempre le due
tonalità vivono separate, anzi le loro combinazioni sono pressoché indefinite: nessun racconto di
predominante ispirazione ideale rifugge da qualche tocco realistico, né d'altra parte v'è racconto
d'intonazione realistica che non si componga d'una sua precisa struttura retorica.
Come i pellegrini riassumono la società inglese del Trecento, così i racconti ne riassumono la letteratura. Lo
schema primitivo dell'opera era vastissimo, ciascuno dei trenta pellegrini essendosi impegnato a narrare
due racconti all'andata e due al ritorno da Canterbury, il che avrebbe fatto un totale di centoventi. Ne
rimangono invece ventiquattro, di cui due (quelli del Cuoco e dello Scudiero) sono soltanto frammenti. (8)
Tuttavia, disposti dialetticamente lungo la linea sequenziale del pellegrinaggio, i racconti rimasti
rappresentano quasi tutte le forme e i generi letterari: dal "fabliau" umoristico e volgare, variamente
elaborato nei racconti del Mugnaio, del Fattore, del Cuoco, del Cursore e del Marinaio, all'"exemplum"
moraleggiante, affidato a due fra i più immorali personaggi della compagnia, il Frate e l'Indulgenziere; dalle
«tragedie» sacre e secolari del Monaco alla storia del "senex amans" narrata dal Mercante, che non si sa
bene che cosa sia, se farsa o commedia o "complainte" o elegia, così vario e modulato è il suo tono, così
scandaloso e divertente ma anche triste è il compromesso con cui si chiude; dall'autobiografia del Garzone
del Canonico alla favola dell'Economo; da sermone del Parroco al dialogo filosofico su Melibeo. Il romanzo
cavalleresco vi è poi rappresentato in tutta la sua varietà di toni: da quello austero e quasi sublime del
Cavaliere, a quello fantastico e sentimentale dello Scudiero, a quello ormai colorato di moralità borghese
dell'Allodiere, a quello calcolatamente perverso della Comare che se ne serve per un'ulteriore conferma e
illustrazione del proprio femminismo, a quello infine decisamente parodistico su Ser Topazio. Mentre nel
racconto del Cappellano della Monaca le forme eroiche vengono relegate al chiuso ambiente d'un pollaio, si
snodano col loro sentimentalismo e la loro astratta moralità le leggende pie: il «miracolo» dello scolaretto
ucciso dagli ebrei, ornato dalla Priora di diminutivi e frasette puerili e malcelata bigotteria; quello di Santa
Cecilia, avvolto dalla Seconda Monaca in un'atmosfera tutta conventuale; l'episodio di Virginio narrato dal
Medico; e infine le storie di Costanza e di Griselda, rispettivamente attribuite al Commissario di Giustizia e
allo Studente, in cui si sfiora la più pura allegoria.
Il punto di riferimento di questa vasta gamma di materiale narrativo non è la soggettività del poeta, ma la
comunità umana protesa, nel suo pellegrinaggio, in una conquista sempre nuova e irraggiungibile. Una
quotidianità calda di vita, magari grottesca e volgare, ma anche lo spirito e il sogno vi si alternano in un
gioco di opposizioni e di corrispondenze continue. Cavalieri in duello per la mano di una nobile dama, mariti
traditi e amanti sconciamente beffati, innocentissime mogli calunniate, la strega che si cambia in donna
bellissima: sono queste le immagini suscitate dagli uomini, le illusioni da loro create. Il poeta, incasellando
ciascuna nel suo linguaggio caratteristico, si limita a riferircele con un sorriso imperscrutabile, ingannatore,
ironico e pietoso insieme.
Tema dominante, anche se non unico, è l'amore: ora sottomesso a una specie d'istinto animale, ora
imbrigliato nel culto degli ideali cortesi e cavallereschi, ora rarefatto in un'astrazione impossibile. Ciascuna
visione si contrappone all'altra senza possibilità di soluzioni definitive: finché il pellegrinaggio continua, non
vi possono essere soluzioni. Ora è la donna che pretende il dominio assoluto sull'uomo, ora è l'uomo che
sottopone la donna a crudelissime prove; in certi casi matrimonio e amore si escludono a vicenda (come
aveva insegnato Andrea Cappellano, il grande teorico dell'amore cortese), in altri casi invece si
compenetrano in una idealità nuova. Ma sono soltanto «punti di vista», soluzioni provvisorie, che si
esauriscono nel frammento narrativo, ignorando il disegno e la finalità di cui esso fa parte.
Anche le visioni degli ecclesiastici, lontane dall'idealità cristiana da cui invece dovrebbero essere permeate,
rimangono nel relativismo dell'esistenza del pellegrinaggio: sia quelle del Frate e del Cursore, pervase di
reciproco astio e spirito vendicativo, che quella dell'Indulgenziere, col suo cinismo e la sua gretta cupidigia.
Mentre nei racconti della Priora e della Seconda Monaca il sentimento religioso scade in vacuo
sentimentalismo, in quello del Monaco la concezione tomistica e dantesca della Fortuna (non cieca
distributrice di venture buone o cattive, ma avveduto strumento, «general ministra», della Provvidenza e
della Giustizia divina) viene lamentosamente evocata in senso fatalistico e meccanico.
Soltanto il sermone finale del Parroco, pur con la sua esasperante insistenza su citazioni testuali anziché su
esperienze vive, riesce a porsi al di fuori e al di sopra della progressiva e indefinita dilatazione del
pellegrinaggio. Sulla via della penitenza, indicata dal più povero fra gli ecclesiastici, tutti i problemi si
risolvono, ma si dissolvono anche tutte le immagini e tutte le illusioni. E la poesia ormai si fa muta.
Ermanno Barisone.
Note dell'Introduzione.
Nota 1. Confer W.C. Curry, "Chaucer and the Mediaeval Sciences", New York, O.U.P., 1926.
Nota 2. "Four Quartets", I, vv. 44-45.
Nota 3. I ""Canterbury Tales"" sono scritti in versi (per lo più "heroic couplets"), tranne due, il "Racconto di
Melibeo" e il "Racconto del Parroco", che sono scritti in prosa.
Nota 4. In uno dei suoi primi esperimenti poetici, "An ABC", un poemetto in versi abbecedari, il Chaucer
aveva tradotto un componimento di Guillaume Deguilleville, intitolalo appunto "Le Pèlerinage de la Vie
Humaine".
Nota 5. In passato l'idea d'una «cornice» che racchiudesse una serie di racconti parve suggerita al Chaucer
dal "Decameron". Pur riconoscendo nei ""Canterbury Tales"" l'evidente influsso di alcune opere minori del
Boccaccio, oggi si tende ad escludere che poeta inglese conoscesse del novelliere italiano appunto il
capolavoro, animato peraltro da uno spirito completamente diverso.
Nota 6. Confer la più autorevole fra le recenti edizioni critiche del Chaucer, quella curata da F.N. Robinson
("The Works of Geoffrey Chaucer", London, O.U.P., Second Edition, 1957), che abbiamo seguito anche nella
nostra traduzione.
Nota 7. Si veda, all'inizio di ciascun racconto, la nota contrassegnata da (*) in cui, insieme con la data di
composizione, viene indicata la fonte da cui esso è tratto.
Nota 8. Anche la ballata di "Ser Topazio" e il "Racconto del Monaco" sono interrotti, ma la loro interruzione
rientra nello schema drammatico dell'opera.
La vita e le opere di Geoffrey Chaucer.
Nato a Londra fra il 1340 e il 1345 da una famiglia di prosperi commercianti di vino, Chaucer entrò ben
presto al servizio della corte, dapprima come paggio presso la famiglia d'uno dei figli di Edoardo Terzo
(1357) e quindi come valletto alle dirette dipendenze dello stesso re (1367). Nel frattempo, dopo aver
probabilmente completato gli studi presso uno dei collegi legali di Londra, partecipò ad alcune missioni
militari e diplomatiche in Francia e sposò Philippa Roet, damigella della regina. A questo primo periodo,
culturalmente saturo d'influsso francese, risale la traduzione (parziale) del famoso "Roman de la Rose",
epitome in forma di sogno d'una cultura cortese-cavalleresca ormai in declino. Al modello onirico di
quest'opera è legato "The Boke of the Duchesse" (1369), poemetto narrativo di tono elegiaco composto per
la morte della duchessa Blanche, nuora del re e moglie di John of Gaunt, alle cui dipendenze il poeta aveva
prestato servizio militare in Francia. Importante in questa prima opera l'invenzione chauceriana del
narratore come ingenuo sognatore a disagio nel mondo di sogno da lui stesso evocato.
Nel 1372-73 Chaucer venne inviato in Italia con l'incarico di stabilire un trattato di commercio con Genova e
di negoziare un prestito con i banchieri di Firenze. Durante la missione ebbe anche l'opportunità di
conoscere direttamente le opere dei nostri grandi trecentisti, Dante, Petrarca e Boccaccio (anche se pare
che di quest'ultimo non conoscesse il "Decameron" e gli altri scritti gli giungessero anonimi). Tornato in
patria, venne nominato nel 1374 ispettore delle dogane del porto di Londra, incarico che mantenne per
dodici anni, fino al 1386, salvo brevi interruzioni dovute a missioni diplomatiche e d'affari nelle Fiandre
(1376-77), ancora in Francia (1377) e di nuovo in Italia, presso la corte milanese di Bernabò Visconti, nel
1378. Durante i dodici anni d'impiego come «doganiere», Chaucer compose altri due poemetti imperniati
sulla figura dell'ingenuo sognatore-narratore, "The Hous of Fame" (incompiuto) e "The Parlement of
Foules", mentre nel più ampio e complesso poema "Troylus and Criseyde" il narratore è uno storico assai
fallibile alle prese con un'antica vicenda d'amore e di guerra. Contemporanee a queste tre opere principali
furono: "The Legende of Good Women" (che riprende lo schema onirico, ma costituisce anche il primo
tentativo chauceriano di narrazione «incorniciata»), alcune parafrasi e traduzioni, fra cui il "De
Consolatione Philosophiae" di Boezio, e diverse composizioni minori successivamente riprese nei
"Canterbury Tales".
Nel 1386 Chaucer si dimetteva dall'ispettorato delle dogane e si ritirava nel Kent, per la quale contea era
stato eletto l'anno prima giudice di pace e rappresentante parlamentare. Nacque in questo periodo l'idea
dei "Canterbury Tales", alla cui realizzazione il poeta si dedicò poi sempre, pur non trascurando gli impegni
pubblici che anche il nuovo re, Riccardo Secondo, continuò ad affidargli. Nel 1389 venne nominato
sopraintendente alle costruzioni reali nel palazzo di Westminster e alla Torre di Londra; l'anno successivo,
ispettore di muri, ponti e fossati lungo il Tamigi e sopraintendente ai restauri della Saint George's Chapel di
Windsor; infine, nel 1391, viceintendente forestale del parco di North Petherton nel Somerset. Pare che in
quella lontana contea Chaucer risiedesse fino al 1399, l'anno in cui salì al trono Enrico Quarto, figlio di John
of Gaunt, che concesse un'aggiunta allo stipendio del poeta. Il 24 dicembre di quell'anno Chaucer prendeva
in affitto una casa a Westminster, dove morì, secondo l'iscrizione che tuttora porta la tomba nell'abbazia, il
25 ottobre 1400.
I RACCONTI DI CANTERBURY.
Frammento Primo.
PROLOGO GENERALE.
Qui comincia il Libro dei Racconti di Canterbury.
Quando Aprile con le sue dolci piogge ha penetrato fino alla radice la siccità di Marzo, impregnando ogni
vena di quell'umore che ha la virtù di dar vita ai fiori, quando anche Zeffiro col suo dolce fiato ha rianimato
per ogni bosco e ogni brughiera i teneri germogli, e il nuovo sole ha percorso metà del suo cammino in
Ariete, e cantano melodiosi gli uccelletti che dormono tutta la notte a occhi aperti (tanto li punge in cuore
la natura), la gente allora è presa dal desiderio di mettersi in pellegrinaggio e d'andare per contrade
forestiere alla ricerca di lontani santuari variamente noti, e fin dalle più remote parti d'ogni contea
d'Inghilterra molti si recano specialmente a Canterbury, a visitare quel santo martire benedetto (1) che li ha
soccorsi quand'erano malati.
Un giorno, appunto in quella stagione, mentre sostavo alla locanda del 'Tabarro' in Southwark, (2) pronto a
mettermi devotamente in pellegrinaggio per Canterbury, ecco capitare verso sera una brigata di ben
ventinove persone, gente d'ogni ceto trovatasi per caso in compagnia e tutti pellegrini che intendevano
recarsi a cavallo fino a Canterbury. Camere e stalle erano grandi, e perciò fummo alloggiati nel migliore dei
modi. In breve, stava appena per tramontare il sole che già avevo parlato con tutti e anch'io ero ormai della
brigata, e combinammo dunque d'alzarci presto per proseguire il viaggio dove vi ho detto.
Tuttavia, considerato che ne ho il tempo e l'occasione, prima di procedere nel racconto, mi sembra
opportuno dirvi quanto potei capire della condizione di ciascuno di loro, chi fossero, a quale ceto
appartenessero e in che modo vestissero. Comincerò per primo da un cavaliere.
C'era dunque un Cavaliere, un valentuomo che fin da quando aveva iniziato ad andare a cavallo aveva
amato la cavalleria, la lealtà, l'onore, la liberalità e la cortesia. Valorosissimo in guerra per il suo signore,
s'era spinto nei più lontani paesi cristiani e pagani, facendosi ovunque onore con la sua prodezza. Era stato
alla resa d'Alessandria, (3) più volte aveva avuto il posto d'onore in Prussia fra i rappresentanti di tutte le
nazioni ed aveva guerreggiato in Lituania e in Russia più di qualsiasi altro cristiano del suo grado. (4) Era
stato anche a Granada all'assedio d'Algesir (5) e s'era spinto fino in Belmaria. Fu alla conquista di Layas e
Satalia, e in molte nobili armate sul Mar Grande. (6) Per ben quindici volte aveva partecipato a
combattimenti mortali, e a Tramissene tre volte era sceso in lizza per la nostra fede, sempre uccidendo
l'avversario. Questo prode cavaliere un tempo era anche stato col signore di Palatia a combattere contro un
altro pagano turco, ricevendo sempre sovrani onori. Benché fosse valoroso, era prudente e, negli
atteggiamenti, mite come una fanciulla. Non avrebbe mai detto in vita sua una parola scortese a nessuno.
Era un nobile cavaliere veramente perfetto. Quanto al suo equipaggiamento, i cavalli erano buoni, ma i suoi
abiti non erano sfarzosi: portava un giubbone di fustagno macchiato ancora dall'armatura, perché tornava
proprio allora da una spedizione e si recava a sciogliere un voto.
Era con lui suo figlio, un giovane Scudiero, un galante e gagliardo baccelliere, (7) con certi riccioli così crespi
che parevano appena usciti da una pressa. Avrà avuto una ventina d'anni; di statura media, ma
straordinariamente agile e robusto. Aveva già partecipato a una spedizione in Fiandra, nell'Artois e in
Piccardia, comportandosi assai bene per la sua età, nella speranza d'entrare in grazia alla sua bella. Andava
ricamato che pareva un prato tutto pieno di freschi fiori bianchi e rossi. Non faceva che cantare e zufolare
tutto il giorno, ed era allegro come il mese di maggio. Portava una casacca corta con maniche lunghe ed
ampie. In sella si teneva bene e cavalcava impeccabilmente. Sapeva inventare e comporre belle canzoni,
giostrare, danzare, scrivere e dipingere benissimo. Era sempre così ardentemente innamorato, che di notte
non dormiva più d'un usignolo. Era cortese, umile e servizievole: a tavola faceva sempre da scalco al padre
(8).
Costui al momento aveva con sé un servo solo, perché così gli era piaciuto mettersi in viaggio, un Arciere, il
quale era vestito di mantello e cappuccio verde, teneva un mazzo di frecce aguzze e scintillanti con penne
di pavone attaccate bravamente alla cintura (da buon arciere sapeva certo curarsi dei propri arnesi: non
c'era freccia che avesse una penna penzolante!) e reggeva in mano un poderoso arco. Aveva i capelli rasi e
il volto abbronzato. Sapeva tutto sulle usanze dei boscaioli. Portava una vistosa fascia al braccio, da un lato
la spada e lo scudo, e dall'altro un bel pugnale, ben decorato, aguzzo come la punta d'una lancia; sul petto
gli brillava un San Cristoforo (9) d'argento, e teneva a tracolla un corno legato a un nastro verde: credo
proprio che facesse il guardaboschi.
C'era anche una monaca, una Priora, dal sorriso semplice e modesto; il suo più gran giuramento non era
che per Sant'Eligio; (10) e si chiamava madre Eglantina. Cantava il servizio divino alla perfezione,
intonandolo con un leggiadro accento nasale, e parlava francese speditamente e con eleganza, secondo la
scuola di Stratford-at-Bow, (11) perché il francese di Parigi le era ignoto. A tavola era in tutto beneducata:
non si lasciava cadere una briciola dalle labbra, né intingeva troppo le dita nella salsa; sapeva recare il cibo
alla bocca facendo bene attenzione che nessuna goccia le cadesse sul petto. Le belle maniere erano la sua
gioia più grande. S'asciugava sempre il labbro superiore così bene, che nella sua coppa non si scorgeva la
più piccola traccia d'unto quando aveva bevuto, e si serviva dei cibi con moltissimo garbo. Certamente essa
amava anche conversare; piacevolissima e affabile nel portamento, si sforzava d'imitare le maniere di corte
e d'aver modi dignitosi per esser stimata degna di riverenza. Ma, per darvi un'idea del suo carattere, era
così caritatevole e pietosa, che si metteva a piangere se vedeva un topo preso in trappola, sia che fosse
morto o sanguinasse. Teneva alcuni cagnolini che nutriva di carne arrostita oppure latte e pan buffetto. Ma
piangeva a calde lacrime se gliene moriva uno o se glielo colpivano di mala grazia col bastone: era
veramente tutta cuore e sentimento. Aveva il soggólo finemente pieghettato, il naso ben profilato, gli occhi
grigi come il vetro, la bocca piccolina, rossa e morbida per giunta, ma soprattutto aveva una bella fronte,
alta, credo, quasi un palmo, e di certo non era bassa di statura. Il suo mantello, vidi, era di foggia molto
elegante. Portava al braccio un doppio rosario di piccoli coralli, con i grani più grossi tutti colorati di verde, e
ne pendeva un medaglione d'oro lucente, su cui spiccava una coronata e, più sotto, "Amor vincit omnia"
(12).
Aveva con sé un'altra Monaca, sua cappellana, e tre preti.
E c'era un Monaco, eccezionalmente bello, un ispettore di poderi che amava andare a caccia, un pezzo
d'uomo, proprio adatto a far l'abate. Aveva nella stalla molti cavalli di gran pregio e quando cavalcava, si
sentiva la sua briglia tintinnare nel sibilo del vento, chiara e squillante come la campana della cappella.
Siccome là nel piccolo convento di cui era guardiano la regola di San Mauro e San Benedetto (13) era
antiquata e un po' troppo rigorosa, questo Monaco tralasciava la roba vecchia per mettersi al passo col
mondo nuovo. Non avrebbe dato una gallina spennacchiata per quella massima secondo la quale i
cacciatori non sono santi e un monaco fuor di clausura, ossia un monaco fuori del chiostro, è come un
pesce fuor d'acqua. Per lui quella massima non valeva un'ostrica, ed io gli dissi che aveva ragione. Perché
avrebbe dovuto mettersi a studiare e diventar matto sempre col naso sui libri nel chiostro, o lavorar di mani
e sfaticare come aveva comandato Agostino? (14) Il mondo allora chi l'avrebbe servito? Si tenesse pure la
fatica per sé Agostino! Egli perciò faceva il battitore: aveva certi levrieri ch'erano veloci come uccelli in volo,
e tutta la sua passione era spronare e andare a caccia della lepre, senza mai badare a spese. Vidi che aveva
le maniche profilate ai polsi di pelliccia grigia, della più fine che si trovasse nel paese; e per allacciare il
cappuccio sotto il mento, aveva un curioso, spillo d'oro lavorato, che formava al più grosso dei capi un nodo
d'amore. Aveva la testa calva, lucida come uno specchio, e così il viso, tanto che pareva unto. Era un
signorotto bello grasso e ben pasciuto, con certi occhi sporgenti e roteanti che ardevano come la brace
sotto il paiuolo, stivali morbidi e il cavallo bardato splendidamente. Era insomma un gran bel prelato, non
certo pallido come un'anima in tormento. Un cigno grasso era per lui il miglior arrosto; il suo palafreno era
nero come una mora.
C'era poi un Frate, sbarazzino e allegro, un questuante, un tipo molto cerimonioso: in tutt'e quattro gli
ordini (15) nessuno più di lui sapeva far tante moine e belle chiacchiere, e più d'una volta aveva dovuto
combinare a sue spese il matrimonio di qualche bella ragazza. Era proprio un nobile sostegno per il suo
ordine! Eppure era molto ben voluto e in confidenza con tutti i possidenti del suo paese e con valenti dame
cittadine, perché aveva autorità di confessore, diceva lui, superiore a quella d'un curato, per via della
licenza avuta dal suo ordine. Ascoltava con gran dolcezza la confessione, e soave era la sua assoluzione;
quando poi sapeva di poterne ricavare qualcosa, andava molto adagio con la penitenza. Far doni a un
povero ordine di frati era segno di buona confessione: se un uomo dà, aveva il coraggio di dire, significa che
s'è pentito; c'è gente così dura di cuore che non riesce a piangere, neppure se viene ferita a sangue: e
allora, invece di tanti pianti e orazioni, dia dei soldi ai poveri frati! La sua cocolla era piena zeppa di
coltellucci e spilli da distribuire alle belle donne. E aveva pure una gran bella voce: sapeva cantar bene e
suonare la viola; nelle romanze poi era insuperabile. Aveva il collo bianco come un giglio, ma era forte come
un guerriero. Conosceva le taverne d'ogni città e ogni oste e cantiniera, molto meglio dei lebbrosi o dei
mendicanti; perché non stava bene che una persona come lui, con la sua posizione, avesse a che fare con
lazzari ammalati. Non gli faceva onore e non gli serviva a niente trattar con certi poveracci, invece che coi
ricchi e coi mercanti di cibarie. Dove credeva di poter trarre qualche profitto, si faceva cortese e umilmente
servizievole. Nessuno al mondo era più abile di lui. Era il miglior elemosiniere della sua casa (pagava perfino
un certo cànone per il privilegio che nessuno dei suoi confratelli invadesse la sua riserva), perché,
quand'anche si trattasse d'una vedova senza neppure una scarpa, così suadente era il suo "In principio",
(16) che almeno un quattrino l'otteneva sempre prima d'andarsene. Questi suoi guadagni superavano di
gran lunga ogni sua prebenda. E sapeva darsi d'attorno come un cagnolo. Nei giorni di transazione (17)
sapeva essere di grande aiuto: allora non pareva davvero un conventuale con la tonaca logora da povero
studente, ma somigliava a un dottore o a un papa. La sua mantellina era di doppio filato di lana e piombava
tonda come una campana appena fusa. Talvolta egli bisbigliava vezzosamente per rendere più dolce
l'inglese sulla sua lingua; e mentre arpeggiava, dopo aver cantato, gli occhi gli brillavano in fronte come
stelle nella notte fredda. Questo valente elemosiniere si chiamava Uberto.
C'era un Mercante con la barba forcuta e la veste variopinta, alto in groppa sul cavallo; cappello di castoro
alla fiamminga in testa, stivaletti con belle fibbie finemente lavorate. Sapeva farsi bene sue ragioni, ogni
qualvolta c'era da guadagnare. Voleva a tutti i costi che si sorvegliasse il mare tra Middelburg e Orwell. (18)
Sapeva lui come cambiare a interesse i suoi scudi. Era un brav'uomo che si valeva ottimamente del suo
ingegno: nessun s'era mai accorto che avesse debiti, riservato com'era nei suoi affari e nei contratti. Era
insomma una persona certamente in gamba, ma, a dir proprio la verità, non so neppure come si chiamasse.
C'era anche uno Studente di Oxford, che da un bel pezzo aveva finito d'almanaccare con la logica. (19) Il suo
cavallo era secco come rastrello, e anche lui grasso non era, ve l'assicuro, ma aveva aspetto smunto e
austero. Il suo gabbano era tutto logoro perché non usufruiva ancora d'alcun beneficio e non era così
mondano da procurarsi un impiego. Preferiva avere a capo del letto venti libri, rilegati in nero o in rosso, su
Aristotele e la sua filosofia, invece di ricchi abiti o un violino o un bel salterio. Ma, per quanto fosse filosofo,
aveva ben poco oro nello scrigno: (20) tutto quello che poteva ottenere dai suoi amici lo spendeva in libri e
per istruirsi, e pregava assiduamente per l'anima di coloro che gli offrivano i mezzi per studiare. Dedicava
allo studio la maggior cura e attenzione. Non diceva mai una parola più del necessario, e anche quella in
forma corretta e rispettosa, concisa, svelta e piena d'alto significato; i suoi discorsi riguardavano sempre la
virtù morale, e con ugual piacere era disposto a imparare e a insegnare.
C'era anche un Commissario di Giustizia, (21) prudente e savio, colmo d'ogni eccellenza, che tante volte era
stato al Portico. (22) Persona discreta e di gran conto: almeno così pareva, a giudicare dalle sue sagge
parole. Veniva spesso nominato giudice alle assise con lettera patente e pieni poteri. Per via della sua
dottrina e del suo gran nome, parcelle e toghe ne aveva molte. Non c'era nessuno che sapesse comprar
terre meglio di lui: tutto diventava per lui proprietà svincolata e i suoi contratti erano incontestabili. Non
c'era uomo più affaccendato che tuttavia sapesse apparire più affaccendato di quel che fosse. Conosceva
accuratamente tutte le leggi e tutti i decreti emessi fin dal tempo di re Guglielmo. (23) E poi sapeva
comporre e stilare un atto in modo così perfetto, che nessuno poteva cavillare sul suo scritto; ricordava a
memoria qualsiasi statuto. Cavalcava alla buona con un abito brizzolato, cinto da una fascia di seta a piccole
strisce: sul suo vestiario non vi dico altro.
Era in sua compagnia un Allodiere, (24) che aveva la barba bianca come una margherita e la carnagione
sanguigna. A lui piaceva molto alla mattina inzuppar qualcosa nel vino. Era abituato a passarsela bene e, da
vero figlio d'Epicuro, riteneva che la perfetta felicità stesse nel pieno godimento del piacere. Era ospitale e
faceva le cose in grande: un vero e proprio San Giuliano (25) dalle sue parti. Pane e birra da lui erano
sempre di prima qualità, nessuno aveva il miglior rifornimento di vini. Timballi di pesce e di carne non
mancavano mai in casa sua, ma v'era di tutto, e in tale abbondanza, che in quella casa pareva proprio che vi
fioccassero i cibi e le bevande e tutte le leccornie che si possono immaginare. Il pranzo e cena variavano col
variare delle stagioni. Teneva nella stia molte grasse pernici, e molte carpe e molti lucci nel vivaio. Guai al
cuoco se la salsa non era piccante e forte e se tutto non era pronto! Esigeva che nella sua sala vi fosse
sempre tavola imbandita, tutto il santo giorno. Anche nelle assemblee si comportava da signore e padrone:
era stato diverse volte eletto rappresentante della contea. Dalla sua cintura, bianca come il latte del
mattino, pendevano una daga e una borsa tutta di seta. Era stato anche sceriffo e revisore dei conti. Da
nessuna parte esisteva un più degno valvassore.
C'erano poi un Merciaio e un Falegname, un Tessitore, un Tintore e un Tappezziere, e tutti indossavano il
costume d'una solenne e grande confraternita. (26) Il loro corredo, pulito e azzimato, era bello nuovo; i loro
spadini non avevano placche d'ottone, ma tutte d'argento; cinture e borse erano lucide e ben lavorate.
Avevano tutti l'aria di borghesi degni d'occupare un seggio nel palazzo di città: in quanto a saggezza
sarebbero stati ottimi consiglieri, e capitale e rendita ne possedevano abbastanza. Le loro mogli poi ne
sarebbero state felicissime: e chi avrebbe potuto biasimarle? E' così bello sentirsi chiamar «madama»,
poter passare avanti alle altre ai vespri e farsi reggere il manto come una regina!
Avevano con sé un Cuoco, per il caso che occorresse preparare il pollo con ossibuchi, salsa piccante e
galanga. Costui conosceva la birra di Londra alla perfezione. Sapeva arrostire, bollire, rosolare, friggere,
preparar stufati e cuocere al forno gustose torte. Peccato che sullo stinco avesse un'ulcera in cancrena!
Perché il pasticcio di pollo lo faceva squisitamente.
E c'era un Marinaio che veniva da lontano verso ponente: da quanto potei capire, era di Dartmouth. (27)
Cavalcava come poteva sulla groppa d'un ronzino, con una veste di fustagno che gli arrivava al ginocchio.
Aveva un pugnale attaccato a una corda che dal collo gli scendeva fin sotto il braccio, ed era ancora tutto
abbronzato dal gran caldo dell'estate. Certo era un bel briccone. Tornando da Bordeaux si trincava sempre
parecchi sorsi di vino quando i mercanti dormivano. Non era uno che si facesse scrupoli di coscienza. Se per
caso veniva alle mani e aveva la meglio, spediva sempre a casa l'avversario per via d'acqua, di qualunque
paese fosse. Ma quanto ad abilità nel tener conto delle marce, delle correnti, dei pericoli a lui vicini, dei
porti, della luna e del pilotaggio, non c'era nessuno che gli stesse alla pari da Hull (28) fino a Cartagena: (29)
era nelle sue imprese ardito e prudente nello stesso tempo, giacché ormai la sua barba era stata scossa da
parecchie tempeste. Conosceva tutti i porti da Gottland (30) fino al capo di Finisterra, (31) e ogni insenatura
della Bretagna e della Spagna. La sua barca si chiamava la "Maddalena".
Era con noi anche un Dottor Fisico: nessuno al mondo s'intendeva di medicina e chirurgia al pari di lui,
perché egli conosceva a fondo anche l'astrologia. (32) Curava il suo paziente seguendo attentamente le ore
celesti, secondo la magia naturale, e dai segni astrologici sapeva determinare con esattezza la costellazione
favorevole all'ammalato. Conosceva la causa d'ogni malattia, fosse il caldo o il freddo, l'umido o il secco, e
dove si fosse prodotta, e da quale umore generata. Era davvero un ottimo medico. Stabilita la causa e la
radice del male, ne indicava subito il rimedio. E prontamente si faceva mandare medicamenti e farmaci dai
suoi speziali, giacché l'uno faceva far soldi agli altri, essendo tutti amici di vecchia data. Ben conosceva
l'antico Esculapio, Dioscoride e Rufo; il vecchio Ippocrate, Alì e Galeno; Serapione, Razis e Avicenna;
Averroè, Damasceno e Costantino; Bernardo, Gatisdeno e Gilbertino (33). Era misurato nella sua dieta, che
non era affatto esorbitante, ma nutriente e di facile digestione. La Bibbia non la studiava molto. Aveva un
vestito rosso sangue e azzurro, con fodere di taffetà e zendalo; eppure era tutt'altro che prodigo nelle sue
spese: metteva tutto da parte quel che guadagnava in tempo di pestilenza. E siccome l'oro in medicina è un
cordiale, ecco ch'egli amava l'oro sopra ogni cosa.
E c'era una brava Comare dei dintorni di Bath, ma, peccato, era un po' sorda. A tessere il panno era così
pratica, da battere quelli di Ypres e di Gand. (34) In tutta la parrocchia non c'era donna che avesse il
coraggio di passarle avanti a far l'offerta: se mai qualcuna s'arrischiava, a lei veniva una tal bile, che usciva
fuori d'ogni grazia. I suoi fazzoletti erano di tessuto finissimo: giurerei che pesavano dieci libbre quelli che si
metteva in capo la domenica. Le sue calze erano d'un bel rosso scarlatto, ben attillate; le scarpe
morbidissime e nuove. Aveva un volto impertinente, bello, di colorito acceso. Era una donna ricca di meriti,
che in vita sua aveva condotto ben cinque mariti sulla porta di chiesa, (35) senza contare altre amicizie di
gioventù... ma non è il caso di parlarne proprio ora. Tre volte era andata a Gerusalemme, e di fiumi stranieri
ne aveva attraversati molti: era stata a Roma, a Boulogne, a San Giacomo in Galizia e a Colonia. Aveva
insomma parecchia pratica di viaggi: i suoi denti infatti erano radi. (36) Sul cavallo sedeva comodamente,
ben avvolta da un soggólo, con un cappello in testa largo come un brocchiere o uno scudo; una gualdrappa
intorno ai larghi fianchi, e ai piedi un paio di speroni aguzzi. In compagnia sapeva ridere e chiacchierare; e
doveva intendersene di rimedi d'amore, poiché di quell'arte conosceva certo l'antica danza.
E c'era un buon religioso, un povero Parroco di campagna, che tuttavia era ricco di pensieri e d'opere sante.
Era anche una persona istruita, un dotto, che il vangelo di Cristo predicava fedelmente, mentre
ammaestrava con devozione i suoi parrocchiani. Era benevolo e pieno di zelo, pazientissimo nelle avversità,
malgrado fosse di frequente provato. Gli ripugnava ricorrere alla scomunica per farsi dare le decima:
preferiva piuttosto distribuire ai parrocchiani poveri parte delle elemosine e della sua stessa sostanza. A lui
bastava poco. La sua parrocchia era estesa, le case sparse, eppure non tralasciava, con la pioggia o col
tuono, nella malattia o nel dolore, di visitare coloro che stavano più lontano, grandi o piccoli che fossero, e
sempre a piedi, col bastone in mano. Dava al suo gregge il nobile esempio d'operare prima che d'insegnare.
Le parole le prendeva dal vangelo, e vi aggiungeva quest'immagine: se arrugginisce l'oro, che dovrebbe fare
il ferro? Se non è puro il prete di cui ci fidiamo, nessuna meraviglia che il laico arrugginisca! E' davvero
vergognoso, se il prete ci pensa, che il pastore sia infangato e la pecora pulita. Un prete dovrebbe dar
l'esempio, con la sua purezza, di come dovrebbe vivere il suo gregge. Lui non cedeva in affitto il suo
beneficio, non lasciava le sue pecore nel pantano, per correre a Londra a San Paolo a procurarsi una
prebenda cantando messe per i defunti, o una confraternita in cui sistemarsi. Ma se ne stava a casa, a
occuparsi del suo gregge, perché il lupo non ne facesse strage. Era un pastore lui, non un mercenario. E
benché fosse virtuoso e santo, coi peccatori non era sprezzante, né violento e arrogante nei suoi discorsi,
ma discreto e affabile quando li ammoniva. Indirizzare la gente al cielo con garbatezza, col buon esempio,
ecco la sua preoccupazione. Ma se qualcuno era ostinato, ricco o povero che fosse, allora lo strigliava a
dovere. Credo proprio che da nessuna parte esistesse un prete migliore. Non si curava né di pompe né di
onori, né per essi si faceva scrupoli di coscienza, ma insegnava la dottrina di Cristo e dei suoi dodici apostoli,
ed era il primo a seguirla.
Era con lui un Contadino, suo fratello, abituato a caricare dei gran carri di letame: un vero lavoratore (37),
un galantuomo, che viveva in pace e in carità perfetta. Amava Dio sopra ogni cosa, con tutto il cuore, in
ogni circostanza lieta o triste, e poi il suo prossimo come se stesso. Quando poteva, andava a battere il
grano, a zappare e a vangare, in nome di Cristo, per quei poveri che non potevano permettersi di pagare.
Rendeva le sue decime onestamente e per intero, sia lavorando che in moneta. Avvolto in un tabarro,
marciava in groppa a una cavalla.
C'erano ancora un Fattore e un Mugnaio, un Cursore e un Indulgenziere, un Economo, e infine c'ero io.
Il Mugnaio era un robusto pezzo d'uomo, grosso di muscoli e di ossa: lo provava il fatto che dovunque
andasse nelle gare di lotta, vinceva sempre il montone. Era tarchiato e tozzo, duro come un ceppo d'albero.
Non c'era porta che non avrebbe scardinata o rotta, andandoci a cozzar contro con la testa. Aveva la barba
rossa come il pelo d'una scrofa o d'una volpe, e larga per di più come una pala. Proprio sulla punta del naso
aveva una verruca, con un ciuffetto di peli sopra, rossi come le setole nell'orecchio d'una troia; le sue narici
erano larghe e nere. Portava al fianco una spada e uno scudo. Aveva una bocca grande come una fornace,
ed era ciarliero e buontempone, se si trattava soprattutto di peccati e di ribalderie. Rubava sul grano e si
prendeva il triplo di quanto gli spettava; eppure, perdio, aveva un pollice d'oro! (38) Portava un pastrano
bianco col cappuccio turchino. Sapeva suonare bene la cornamusa, e con quella ci accompagnò fuori della
città.
C'era il garbato Economo d'un collegio d'avvocati, dal quale la gente al mercato avrebbe dovuto imparare a
far la spesa giornaliera: pagasse o prendesse a credito, era così accorto nelle sue compere, da esser sempre
il primo a concludere buoni affari. Non è forse una gran bella grazia di Dio che l'acume d'un uomo così
insipiente dovesse sorpassare in avvedutezza un mucchio d'uomini istruiti? Aveva più di trenta maestri,
tutti esperti e studiosi di diritto, dei quali una dozzina almeno in quel collegio eran capaci d'amministrare le
rendite e le terre di qualsiasi nobiluomo d'Inghilterra, così da farlo vivere del suo, onorevolmente e senza
debiti (a meno che non fosse matto), oppure modestamente, se così gli fosse piaciuto; capaci di mettere in
sesto tutta una contea, qualunque cosa potesse insorgere o accadere. Eppure quest'Economo li metteva
tutti nel sacco.
Il Fattore era un uomo smilzo e collerico: si radeva la barba più vicino alla pelle che poteva; aveva i capelli
tagliati in tondo attorno alle orecchie è il cucuzzolo pelato sul davanti come un prete; gambe lunghissime e
molto magre, che parevano stecchi senza polpa. Sapeva lui come va tenuto un granaio o una cantina, e non
c'era revisore dei conti che lo superasse. Calcolava alla perfezione quel che avrebbero reso, col secco e col
bagnato, il grano e la semente. Le pecore, i bovini, il latte, i maiali, i cavalli, il raccolto e il pollame del
padrone, tutto era nelle mani di questo Fattore, il quale ne rendeva conto per contratto fin da quando il
padrone aveva compiuto vent'anni, e mai una volta venne sorpreso in arretrato. Non c'era domestico, né
mandriano o altro garzone di cui non conoscesse i trucchi o gl'imbrogli: lo temevano tutti come la morte.
Abitava sulla brughiera, in un bel posto ombreggiato dal verde degli alberi. Sapeva spendere il suo denaro
meglio del padrone e s'era messo segretamente da parte un bel gruzzolo: così poteva far dei piaceri al suo
signore cedendogli o prestandogli del suo, guadagnandosene in questo modo la riconoscenza e magari un
mantello col cappuccio. Aveva imparato in gioventù un buon mestiere: era un ottimo artigiano, un
falegname. Ed ora questo Fattore cavalcava un magnifico stallone, tutto grigio pomellato, di nome Scott.
Indossava una lunga tunica azzurra e portava al fianco una lama arrugginita. Era di Norfolk, questo Fattore
di cui parlo, dei dintorni d'una città chiamata Baldswell. Teneva la tunica rimboccata alla vita come un frate,
e cavalcava sempre in coda alla compagnia.
C'era con noi anche un Cursore, (39) con una faccia da cherubino rossa come il fuoco (40), piena di sfogo, e
con gli occhi ravvicinati. Era ardente e lascivo come un passero, con nere sopracciglia tignose e la barba
spelacchiata. I bambini avevan paura della sua faccia. Non c'era mercurio, né ossido di piombo, né zolfo, né
borace, né cerussa, né olio di tartaro, nessun unguento che purifichi e bruci, che potesse alleviargli le
bianche pustole e i vespai troneggianti sulle sue guance. Gli piacevano molto l'aglio, le cipolle e i porri, e
bere vino forte, rosso come il sangue, per poi mettersi a chiacchierare e a gridare come un pazzo. Quando
aveva ben bevuto, non parlava che in latino. Ne conosceva due o tre parole che aveva apprese in qualche
decreto, e non c'è da meravigliarsi perché non sentiva altro in tutto il giorno: voi sapete che un pappagallo
può chiamar "Loreto" come un papa. Ma bastava saggiarlo su altri punti per vedere che aveva ormai
sborsato tutto quello che sapeva, e allora non faceva che ripetere "Questio quid iuris" (41). Era uno
scapestrato mite e accomodante: miglior compagno non si sarebbe potuto trovare. Per un quarto di vino
lasciava che un amico si tenesse per un anno una concubina, scagionandolo in tutto, ma intanto di nascosto
spennava il povero fringuello. Se s'imbatteva in un semplicione, gl'insegnava a non aver paura della
scomunica dell'arcidiacono: l'uomo non ha certo l'anima nel portamonete, e in fondo lì soltanto sarebbe
stato punito. «L'inferno dell'arcidiacono» diceva «è solo il portamonete.» Ma si sa benissimo che mentiva:
chi è in colpa deve temere la scomunica, perché la scomunica danna mentre l'assoluzione invece salva, e
bisogna stare attenti al "Significavit". (42) Aveva sotto la sua giurisdizione, a modo suo, i giovani e le ragazze
della diocesi, e conosceva i loro segreti ed era in tutto il loro consigliere. S'era messo in testa una ghirlanda
di frasche, grande come l'insegna d'una birreria, e portava per scudo una pagnotta.
Cavalcava con lui un mite Indulgenziere di Roncisvalle, (43) suo degno amico e compare, ch'era appena
tornato dalla corte di Roma. Costui cantava a squarciagola: «Vieni, vieni, amor, da me!». E il Cursore gli
faceva da accompagnamento, con una voce due volte più bassa e forte del suono d'un trombone.
Quest'Indulgenziere aveva i capelli gialli come la cera, che ricadevano giù molli come una matassa di lino; i
riccioli che aveva, a once, gli si allungavano fin sulle spalle e penzolavano radi, uno per uno, come straccetti.
Eppure per civetteria non portava il cappuccio, tenendolo ben chiuso nella bisaccia. Credeva d'andare
all'ultima moda, coi capelli sciolti e la testa coperta solo da un berrettino. Aveva gli occhi sporgenti come
quelli d'una lepre. Sul berretto s'era cucita una veronica. E teneva davanti in grembo una bisaccia piena
zeppa d'indulgenze, giunte calde calde da Roma. La sua voce era belante come quella d'una capra. Ma
barba non ne aveva e non ne avrebbe mai avuta, perché era pulito e liscio come uno appena raso. Credo
che fosse un castrone o una cavalla. Ma quanto al suo lavoro, non c'era mercante d'indulgenze pari a lui,
neanche a cercarlo da Berwick fino a Ware. (44) Teneva nella sua sacca una federa e sosteneva ch'era il
manto della Madonna; diceva anche di avere un brandello della vela di San Pietro quando ancora andava
per mare, prima che lo prendesse con sé Gesù Cristo. Aveva una croce d'ottone ornata di sassetti e, dentro
un vetro, alcune ossa di porco. Con queste reliquie, appena trovava qualche povero parroco di campagna,
faceva in un giorno più soldi lui che il parroco in due mesi. E così, con false lusinghe e trucchi, gabbava
parroco e fedeli. Però bisogna dire la verità: in chiesa alla fin fine era un egregio ministro del culto. Al
mattutino sapeva leggere magnificamente l'epistola o la leggenda d'un santo, ma meglio d'ogni altra cosa
cantava l'offertorio, perché sapeva che dopo quel canto c'era la predica, e bisognava sciogliere bene la
lingua per poi spillar quattrini, cosa in cui riusciva perfettamente. Ecco perché cantava allegramente con
quanto fiato aveva in gola.
Così in poche parole vi ho fedelmente riferito il ceto, l'equipaggiamento e il numero dei componenti la
brigata, ed anche il motivo per cui s'erano adunati a Southwark nell'ottima osteria del 'Tabarro', attigua a
quella della 'Campana'. Ma adesso è ora che vi racconti cosa facemmo la sera che arrivammo alla locanda,
per poi parlarvi della nostra partenza e di tutto il seguito del nostro viaggio.
Prima però vi prego, per piacere, di non accusarmi di malcreanza se di queste cose vi parlo schietto e se,
riferendovi le parole e i gesti di quella gente, ne uso anch'io le stesse espressioni. Voi lo sapete meglio di
me: chi vuol raccontare quel che ha sentito da un altro, deve ripetere più da vicino che può ogni parola che
lo riguardi, per rozza e sboccata che sia, altrimenti cade per forza nel falso e deve inventare le cose
cercando nuove parole. Si trattasse anche di suo fratello, non deve mai tirarsi indietro: bisogna che dica le
parole proprio come sono. Cristo stesso nel vangelo parla schietto, ma non mi direte che si tratta di
malcreanza. Anche Platone dice, a chi sappia leggerlo, che le parole devono corrispondere ai fatti.
Vi prego inoltre di perdonarmi se in questo racconto non ho disposto le persone nel giusto ordine, secondo
il rango a cui appartengono. Ma sono un po' corto di mente: ormai dovreste averlo capito.
Il nostro Oste, dunque, fece a tutti grandi accoglienze e, senza perder tempo, ci sistemò per la cena,
servendoci le pietanze più squisite; il vino era forte e noi lo bevemmo volentieri. Era proprio affabile con
tutti, questo nostro Oste, degno di fare il maggiordomo di palazzo. Era un uomo grande e grosso, con gli
occhi sporgenti, il miglior cittadino che esistesse a Cheapside: (45) franco nel parlare, saggio, ben istruito,
non mancava certo di virilità, ed era per di più un vero bontempone. Dopo cena cominciò scherzando a
parlare di passatempi e fra l'altro, dopo che avevamo sistemati i conti, disse:
«Benvenuti, signori, veramente di cuore! Vi do la mia parola, non vi racconto storie: quest'anno non avevo
ancora visto, in questa locanda, una compagnia di gente così simpatica. Se mi riuscisse, vorrei trovare il
modo di farvi divertire. Ecco, m'è venuta un'idea che vi potrà piacere e non vi costerà nulla. Voi andate a
Canterbury... bene, che Dio vi protegga e il martire benedetto vi faccia la grazia! Immagino che, cavalcando
per via, vi racconterete storie e novelle, perché non c'è davvero gusto né piacere a far la strada muti come
pietre. Voglio perciò suggerirvi, come dicevo, un modo di passare il tempo piacevolmente. Se poi, tutti
d'accordo, vorrete seguire il mio consiglio e domani in viaggio farete come vi dirò, giuro per la buon'anima
di mio padre che mi farò tagliare la testa se non vi divertirete! Ed ora basta con le ciance: chi approva alzi la
mano.»
Il nostro consenso non si fece aspettare: pensammo che non valesse la pena di stare a tergiversare, e
senz'altro ci affidammo a lui, pregandolo d'esporci il suo progetto, a suo piacere.
«Ebbene, signori, ascoltate,» disse «ma non prendetela alla leggera, vi prego. In breve, ecco il punto:
ciascuno di voi, per ingannare il lungo cammino, dovrà raccontare due novelle durante l'andata a
Canterbury, questa è almeno la mia idea, e durante il ritorno ne dovrà raccontare altre due, tutte
d'avventure accadute in passato. Chi di voi si comporterà meglio di tutti, cioè in questo caso racconterà le
novelle più significative e divertenti, riceverà una cena a spese di noi tutti, qui in questa locanda, seduto in
questo posto, appena ritorneremo da Canterbury. Sperando di tenervi più allegri, verrò anch'io volentieri
con voi, a spese mie naturalmente, e vi farò da guida. Chi si rifiuterà di stare ai patti dovrà pagare le spese
del viaggio a tutti gli altri. Se siete d'accordo, ditemelo subito, senza tanti discorsi, e io, domattina presto,
mi farò trovare pronto.»
La cosa fu subito sistemata: ben lieti d'accettare il patto, richiedemmo che anche lui vi si attenesse facendo
da moderatore, giudice e censore dei nostri racconti, e fissasse pure un certo prezzo per la cena, giacché
noi ormai ci saremmo in tutto assoggettati alle sue regole. E fu così che seguimmo d'accordo la sua
proposta. Concluso il patto, si prese dell'altro vino: bevemmo e poi, senza perdere più tempo, andammo
tutti a riposare.
L'indomani, cominciava appena ad albeggiare che il nostro Oste si alzò e, cantandoci la sveglia come fosse il
nostro gallo, ci chiamò tutti a raccolta; e così, cavalcando poco più veloci che a passo d'uomo, partimmo in
direzione dell'abbeveratoio di San Tommaso. (46) Là il nostro Oste, fermando per la prima volta il cavallo,
disse:
«Signori, ascoltatemi, vi prego. Sapete quali sono i patti, ricordate. Ebbene, se il canto della sera va
d'accordo con quello della mattina, vediamo ora chi deve dire il primo racconto. Ch'io non possa mai più
bere né vino né birra, se chi si rifiuta d'obbedirmi non pagherà tutte le spese del viaggio! Via, tirate le paglie
prima che si proceda oltre: dovrà incominciare chi pescherà la più corta. A voi, messer Cavaliere, mio
padrone e signor mio! Su, tirate questa paglia, eravamo d'accordo! Avvicinatevi, reverenda madre Priora! E
voi, messer Studente, via quella vostra timidezza, smettetela di almanaccare! Su, fatevi tutti avanti!»
Ognuno si mise allora a tirare a sorte, e insomma, per farla breve, fosse avventura, destino o caso, il fatto è
che la paglia più corta toccò al Cavaliere, con gran gioia e contentezza di tutti. A lui dunque, com'era giusto,
spettava ora narrare il suo racconto secondo il patto e l'accordo che sapete. Occorrono altre parole?
Quando questo galantuomo vide che così stavano le cose, da persona assennata e ligia a mantenere un
impegno liberamente accettato, disse:
«Dal momento che devo incominciare il gioco, ebbene sia lodato Iddio ch'è toccato proprio a me!
Mettiamoci in cammino, e voi statemi a sentire.»
A queste parole riprendemmo a cavalcare, ed egli attaccò subito di buon animo il suo racconto, narrandoci
quanto segue.
Note del "Prologo generale".
Nota 1. San Tommaso di Canterbury, al secolo Thomas Becket, arcivescovo, teologo e uomo politico,
cancelliere di Enrico Secondo, col quale entrò poi in conflitto, onde fu costretto a esulare in Francia:
richiamato in Inghilterra, fu ucciso dai mandatari del re (1170). Diventò in seguito il santo nazionale.
Nota 2. Sobborgo di Londra sulla riva meridionale del Tamigi.
Nota 3. Alessandria d'Egitto fu sottratta ai Saraceni da Pietro di Lusignano, re di Cipro, nel 1365.
Nota 4. Le campagne alle quali il Cavaliere ha preso parte si possono distinguere in tre gruppi: quelle contro
i pagani della Prussia, della Lituania e della Russia, con l'esercito internazionale dei cavalieri dell'Ordine
Teutonico; quelle contro i Mori nella Spagna e nell'Africa nord occidentale (Granada, Algeciras, Belmaria e
Tramissene); e quelle contro i Saraceni in Egitto e in Asia Minore (Alessandria, Layas, Satalia e Palatia).
Nota 5. Il porto spagnolo d'Algeciras.
Nota 6. Il Mediterraneo.
Nota 7. Giovane che aveva conseguito il primo grado nella milizia medievale.
Nota 8. Nelle case signorili uno dei compiti degli scudieri era appunto quello di scalcare le vivande, di
trinciarle cioè secondo certe regole.
Nota 9. San Cristoforo era allora venerato come protettore dei pellegrini e dei boscaioli.
Nota 10. Patrono degli orefici.
Nota 11. Località presso Londra dov'era un celebre convento.
Nota 12. Il motto "Amor vincit omnia" si riferiva tanto al l'amore terreno quanto a quello divino: tale
ambiguità s'addice perfettamente al carattere della Priora che non riesce a staccarsi da certe mondane
frivolezze.
Nota 13. San Benedetto unificò per la prima voltala vita claustrale con la regola della preghiera e del lavoro
("ora et labora") e coi tre voti della costanza, dell'ubbidienza e della castità. San Mauro, suo discepolo,
organizzò la vita monastica in Gallia.
Nota 14. In certe sue lettere e sermoni Sant'Agostino aveva aspramente criticato la vita monastica che fu
appunto riformata, in seguito, da San Benedetto.
Nota 15. Francescano, domenicano, agostiniano e benedettino.
Nota 16. Andando alla questua di casa in casa, i frati ripetevano come formula le prime parole del vangelo
di San Giovanni: "In principio erat verbum..."
Nota 17. Erano giorni fissati in cui le parti contendenti rimettevano la decisione d'una controversia a un
arbitro (di solito un ecclesiastico), senza ricorrere al magistrato o alla violenza.
Nota 18. Middelburg, città dell'Olanda, nell'isola di Walcheren, e il porto inglese di Orwell, vicino a Harwich,
erano due centri commerciali, importanti soprattutto per il mercato della lana. Il tratto di mare che li univa
era infestato dai pirati.
Nota 19. Il «curriculum» universitario medievale comprendeva, com'è noto, le sette arti liberali:
grammatica, logica e retorica, che costituivano il "trivium"; aritmetica, geometria, astronomia e musica, che
formavano il "quadrivium". In particolare, ad Oxford e a Cambridge, allo studio del "trivium" corrispondeva
il grado di B.A. ("Bachelor of Arts"), mentre allo studio dei "quadrivium" corrispondeva il grado superiore di
M.A. ("Master of Arts"), avendo conseguito i quali lo studente poteva procedere ad altri diplomi di
medicina, legge e teologia. Questo Studente, «che da un bel pezzo aveva finito d'almanaccare con la
logica», stava probabilmente completando gli studi superiori di "Master of Arts".
Nota 20. "Filosofo" voleva dire anche "alchimista": e qui appunto il poeta gioca sul doppio senso della
parola.
Nota 21. Commissario di Giustizia era un impiegato legale del re, scelto fra gli avvocati con sedici anni
d'esercizio professionale: poteva fare il giudice dei tribunali regi e aspirare a diventare perfino Barone dello
Scacchiere.
Nota 22. Gli avvocati s'incontravano coi loro clienti sotto il portico della chiesa di San Paolo a Londra.
Nota 23. Guglielmo il Conquistatore.
Nota 24. Libero possidente di terre, che tuttavia non era di nobile casato.
Nota 25. Il santo protettore dell'ospitalità.
Nota 26. Compagnia di laici che si proponeva opere pie e religiose.
Nota 27. Nel Devon.
Nota 28. Porto dello Yorkshire.
Nota 29. Nella Spagna meridionale, sul Mediterraneo.
Nota 30. Isola nel Mar Baltico, presso la costa svedese.
Nota 31. In Galizia (Spagna).
Nota 32. La medicina medievale era ancora essenzialmente basata sulle teorie greche dei temperamenti e
degli umori (collerico, malinconico, sanguigno e flemmatico) che venivano condizionati dal freddo o dal
caldo, dall'umidità o dall'arsura. Importante era lo studio dell'astrologia, perché si credeva che l'equilibrio
di tali umori fosse influenzato anche dagli astri, il cui effetto si poteva prevedere attraverso il calcolo degli
oroscopi e modificare mediante l'applicazione della «magia bianca», o «naturale», di quelle scienze, cioè,
che noi oggi chiameremmo fisiche e chimiche, da distinguersi dalle evocazioni diaboliche, dagli scongiuri e
dai venefici, che invece costituivano la «magia nera».
Nota 33. Delle autorità mediche citate, cinque appartengono al mondo dell'antica Grecia (dal leggendario
Esculapio a Ippocrate, Dioscoride, Rufo e Galeno), sette sono di origine araba (Alì, Serapione, Razis,
Avicenna, Averroè, Damasceno e Costantino Afro) e tre sono inglesi (Bernard Gordon, professore di
medicina a Montpellier intorno al 1300; John of Gaddesden, morto a, Oxford nel 1361; e Gilbertus anglicus,
vissuto nella seconda metà del tredicesimo secolo).
Nota 34. Queste città, l'una nella parte occidentale, l'altra in quella orientale delle Fiandre, furono celebri
nel Medioevo per l'industria e il commercio dei panni di lana.
Nota 35. La celebrazione dei matrimoni avveniva allora sulla porta della chiesa, non all'interno.
Nota 36. Si pensava che i denti radi, oltre a indicare il temperamento amoroso di una persona (come si
vedrà più avanti nel prologo al racconto della stessa Comare di Bath), fossero un segno di buona fortuna nei
viaggi.
Nota 37. Gli scrittori medievali per «lavoratori» intendevano coloro che lavoravano nei campi, i contadini.
Vale la pena di notare che, prima del sorgere della borghesia, la struttura sociale consisteva principalmente
di coloro che combattevano (i "bellatores"), coloro che pregavano (gli "oratores") e coloro che lavoravano (i
"laboratores"), corrispondenti alle tre classi della cavalleria, del clero e dei contadini.
Nota 38. Sapeva ottimamente distinguere al tatto un grano dall'altro; ma anche: era fin troppo onesto per
essere un mugnaio, riferendosi ironicamente a un ambiguo proverbio che diceva: «Il mugnaio onesto ha il
pollice d'oro».
Nota 39. Usciere o messo di tribunale ecclesiastico, alle dirette dipendenze di un arcidiacono.
Nota 40. Secondo l'iconografia tradizionale i cherubini erano rappresentati con il volto rosso.
Nota 41. Formula che ricorreva, dopo l'esposizione d'un fatto, in tutti gli scritti giuridici.
Nota 42. Con questa parola cominciava la formula: "Significavit nobis venerabilis pater", con la quale veniva
annunciata ai colpevoli la scomunica.
Nota 43. Del pio istituto di Santa Maria di Roncisvalle a Londra.
Nota 44. Dal nord al sud dell'Inghilterra.
Nota 45. Uno dei più popolari quartieri di Londra.
Nota 46. A poche miglia da Londra, sulla strada per Canterbury.
RACCONTO DEL CAVALIERE (*).
Qui comincia il Racconto del Cavaliere.
Una volta, narrano le antiche storie, c'era un duca di nome Teseo. (1) Egli era signore e governatore di
Atene, e ai suoi tempi non esisteva sotto il sole maggior conquistatore. S'era infatti impadronito di molti
ricchi paesi ed aveva vinto col suo valore e con la sua cavalleria tutto il regno d'Amazzonia, anticamente
detto di Scizia, sposandone la regina, Ippolita, che poi condusse con sé in patria gloriosamente e con gran
pompa, insieme con la giovane sorella Emilia. E appunto ora, fra inni di trionfo, questo nobile duca stava
cavalcando verso Atene, scortato da tutto il suo esercito in armi.
Certo, se non fosse stato troppo lungo, mi sarebbe piaciuto descrivervi minutamente il modo in cui il regno
d'Amazzonia venne vinto da Teseo e dai suoi cavalieri, e la grande battaglia che appunto in tale occasione
ebbe luogo fra Amazzoni e Ateniesi, e come fosse presa d'assedio Ippolita, la bella e coraggiosa regina di
Scizia, e la festa che ci fu alle loro nozze, e la tempesta che li sorprese durante il viaggio di ritorno. Ma devo
per ora far a meno di raccontare tutte queste cose. Dio sa che gran campo ho ancora da arare e con che
deboli buoi attaccati all'aratro! Già il seguito di questo racconto è lungo abbastanza, e non voglio ostacolare
nessuno della compagnia. Narri ciascuno a turno la sua storia, e poi vedremo chi vincerà la cena.
Riprendiamo perciò da dov'eravamo rimasti.
Questo duca di cui parlavo stava dunque per entrare in città in tutta la sua gloria e il suo trionfo, quando,
girando per caso lo sguardo, vide lungo la strada un corteo di donne vestite di nero, inginocchiate a due a
due, l'una dietro l'altra, che piangevano e gridavano come a questo mondo non s'era mai sentito, e non la
smisero finché non gli si aggrapparono alle briglie del cavallo.
«Chi siete voi, che al mio ritorno turbate la mia festa piangendo in questo modo?» disse Teseo. «Invidiate
dunque la mia gloria, che vi mettete a piangere e a lamentarvi? Chi vi ha offeso o maltrattato? Ditemelo,
perché, se posso, voglio rimediarvi, e spiegatemi anche perché siete vestite così di nero.»
Parlò la più anziana di tutte, che, essendo prima svenuta, era così smorta, da far pietà a guardarla e a
sentirla. Disse: «Signore, a voi la fortuna ha concesso di vincere e di vivere da conquistatore, ma non è
davvero la vostra gloria e il vostro trionfo che ci fanno dispiacere: noi siamo qui soltanto per chiedervi
misericordia e aiuto. Abbiate pietà del nostro dolore e della nostra sventura! E nella vostra nobiltà, lasciate
almeno cadere una goccia di compassione su di noi, povere disgraziate. Pensate, signore, non c'è nessuna
fra tutte noi che una volta non fosse duchessa o regina. Ora, come vedete, non siamo che schiave, e tutto
per merito della fortuna che con la sua ingannevole ruota non lascia vivere in pace nessuno. Ecco, signore,
per potervi vedere, vi abbiamo atteso per quindici giorni qui, nel tempio della dea Clemenza. Aiutateci
dunque, signore, voi che lo potete. Io, disgraziata, che piango e mi lamento in questo modo, ero una volta
la moglie di re Capaneo, morto a Tebe (ah, sia maledetto quel giorno!), e tutte noi che così vestite ci
lamentiamo tanto, tutte perdemmo il marito in quella città durante l'assedio. Ed ora, ahimè, il vecchio
Creonte, padrone ormai della città di Tebe, gonfio di rabbia e d'iniquità, per dispetto e prepotenza, in
oltraggio alle salme dei nostri morti, ha fatto trascinare i corpi di tutti i nostri mariti barbaramente uccisi in
un'unica catasta, e non vuole per nessun motivo che siano sepolti o bruciati, ma per disprezzo li dà in pasto
ai cani!».
A queste parole, si prostrarono senza più alcun ritegno a terra, mettendosi penosamente a gridare:
«Abbiate pietà di noi, povere disgraziate, e aprite il vostro cuore al nostro lutto!».
Il nobile duca, commosso da tali lamenti, scese da cavallo, e gli parve che il cuore gli si spezzasse nel vedere
quelle donne ridotte dalla nobiltà d'una volta a tanta miseria e a tanto avvilimento. Le aiutò ad alzarsi egli
stesso, cercando con ogni mezzo di confortarle, e giurò solennemente, da vero cavaliere, che avrebbe fatto
il possibile per vendicarle contro Creonte, e che tutti in Grecia avrebbero presto parlato della sua vittoria e
della meritata morte del tiranno. E senza perdere tempo, spiegò le insegne e si diresse a Tebe con tutto il
suo esercito. Non volle nemmeno entrare in Atene per riposarsi una mezza giornata, ma proseguì la marcia
accampandosi per quella notte lungo la strada. Prima, però, mandò la regina Ippolita, con la giovane e
radiosa sorella Emilia, ad alloggiare entro la città, e poi via senz'altro a spron battuto. Nel suo ampio
stendardo bianco la rossa immagine di Marte, con lancia e scudo, era così splendente, che perfino i campi
intorno ne riflettevano i bagliori; e accanto allo stendardo veniva l'insegna, d'oro purissimo, su cui era
impresso il Minotauro da lui ucciso a Creta.
E così, cavalca cavalca, questo duca e conquistatore, le cui schiere comprendevano il fior fiore della
cavalleria, giunse finalmente a Tebe e, sceso accortamente in un campo, si preparò ad attaccar battaglia.
Per farla corta, affrontò quel Creonte che adesso era re di Tebe e, da valoroso cavaliere, lo uccise in aperto
combattimento, mettendone in fuga gli uomini. Poi prese d'assalto la città, squassandone mura e pennoni e
travi, e restituì alle donne i resti dei loro mariti, ai quali dessero sepoltura secondo le usanze. Ma sarebbe
troppo lungo descrivere il gran clamore e i pianti che fecero quelle alla crematura dei cadaveri, e quali onori
Teseo, da nobile conquistatore, rese alle dame quando si congedarono da lui. Bisogna ch'io sia breve.
Ucciso dunque Creonte e conquistata in questo modo Tebe, il nobile duca, Teseo insomma, riposò tutta la
notte ancora al campo, padrone ormai di far quel che voleva del paese intero.
I soldati, intanto, andavano rovistando con diligenza e cura nel mucchio dei cadaveri, per spogliarli, dopo la
battaglia e la sconfitta, delle armi e dei vestiti. E così accadde che nel mucchio essi trovassero, coperti da
orribili ferite sanguinanti, due giovani cavalieri che giacevano l'uno accanto all'altro, con armature
identiche, riccamente lavorate. L'uno si chiamava Arcita e l'altro Palemone. Erano tra la vita e la morte, ma
dalle insegne e dall'equipaggiamento gli araldi li identificarono come appartenenti alla famiglia reale di
Tebe, e figli di due sorelle. I soldati allora li estrassero dal mucchio e li trasportarono con precauzione alla
tenda di Teseo, il quale invece li mandò subito ad Atene perché fossero rinchiusi per sempre in prigione,
senz'alcuna possibilità di riscatto.
Fatto questo, il nobile duca radunò il suo esercito e se ne tornò in patria con la corona d'alloro del
conquistatore, a trascorrervi i suoi giorni in felicità ed onore. Che volete di più? Il peggio era per Palemone
e per il suo compagno Arcita, i quali, nell'angoscia e nel dolore, erano ormai per sempre rinchiusi in una
torre, e non c'era oro che potesse riscattarli.
Così di giorno in giorno passarono gli anni, finché una volta, in un mattino di maggio, Emilia, che a guardarla
era più bella del giglio sul suo verde stelo e più fresca di maggio con i suoi fiori novelli (tanto che se la rosa
avesse gareggiato in colore con lei, non avrei saputo chi fosse più bella), secondo il solito si alzò e si vestì
prima che fosse giorno. Maggio infatti non lascia poltrire a letto: è la stagione stessa che punge l'animo
gentile e lo scuote dal sonno dicendogli: «Alzati e fa' il tuo dovere!». Per questo appunto Emilia si ricordò
d'alzarsi e di far gli onori a maggio. Per darvene un'idea, vi dirò che indossava abiti freschi e che aveva i
biondi capelli uniti in una lunga treccia che le scendeva sul dorso. Mentre il sole a poco a poco sorgeva, lei
si mise a passeggiare qua e là per il giardino, raccogliendo fiori tutta contenta, un po' bianchi e un po' rossi,
per farne una sottile ghirlanda per la fronte, e intanto cantava che pareva un angelo del paradiso.
Accanto proprio al muro del giardino dove Emilia stava passeggiando, c'era la gran torre, massiccia e forte,
che costituiva la prigione principale del castello (quella dov'erano rinchiusi i cavalieri di cui vi parlavo e vi
parlerò ancora). Splendeva il sole e il mattino era sereno. Anche Palemone, povero prigioniero, s'era alzato
e, col permesso del carceriere, era salito in una cella dalla quale si vedeva tutta la nobile città ed anche il
giardino, pieno di rami verdeggianti, dove la radiosa e fresca Emilia era a passeggio e si spostava qua e là.
Quel povero prigioniero di Palemone, camminando avanti e indietro per la cella, non faceva che deplorare
la sua disgrazia e lamentarsi d'essere al mondo. Ora il caso o destino volle che attraverso una finestra,
chiusa da una massiccia inferriata a fitte sbarre grosse come travi, egli posasse gli occhi proprio sopra
Emilia, e subito si trasse indietro mandando un grido come se fosse pugnalato al cuore.
Scosso improvvisamente da quel grido, Arcita disse: «Cugino mio, cos'hai che sei così pallido e smorto?
Perché hai gridato? Chi t'ha offeso? Se è a causa della prigione, per amor di Dio, sopporta con pazienza,
perché intanto non c'è rimedio. E' il destino che ci ha mandato questa sventura; dev'essere stato l'influsso
maligno di Saturno o di qualche altra costellazione, benché noi avessimo fatto gli scongiuri. Ad ogni modo
così ha voluto il cielo fin da quando siamo nati, e a noi tocca solo rassegnarci, ecco tutto».
Palemone invece gli rispose: «Veramente, cugino, questa volta ti sbagli. Non è per la prigione che ho
gridato, ma perché proprio ora, trafiggendomi gli occhi, m'è scesa una tale fitta al cuore che mi farà morire.
E' la bellezza di quella donna che vedo laggiù passeggiare avanti e indietro in quel giardino, ecco qual è la
causa dei miei lamenti e del mio dolore! Non so neppure se sia una donna o una dea, ma per me quella è
Venere in persona».
Così dicendo, cadde in ginocchio ed esclamò: «Venere, se è per tua volontà che appari così in questo
giardino, davanti a me, misero essere infelice, aiutaci a fuggire da questa prigione. Se invece è stabilito
dall'irrevocabile parola del destino che in prigione dobbiamo morire, abbi almeno compassione della nostra
stirpe, trascinata così in basso da un tiranno».
A questo punto anche Arcita si mise a scrutare nel giardino dove la donna continuava a passeggiare avanti e
indietro. E appena la vide, rimase anche lui così colpito dalla sua bellezza, che, se Palemone era stato
gravemente ferito, ora Arcita lo era altrettanto, se non di più. E, sospirando penosamente, disse: «Ah, mi
sento improvvisamente morire a guardare la fresca bellezza di quella donna che sta laggiù a passeggiare! Se
non avrò la pietà e la grazia di poterla almeno vedere, senz'altro sarò spacciato!».
Sentendo queste parole, con aria impermalita Palemone replicò:
«Ma parli sul serio o scherzi?».
«Sul serio, e come!» fece Arcita. «Dio m'aiuti, non ho davvero voglia di scherzare!»
Questa volta, aggrottando tutt'e due le ciglia, Palemone disse: «Non ti farebbe molto onore essere sleale e
traditore con me che sono tuo cugino e per te come un fratello, dopo che solennemente ci siamo giurati
che neanche a costo di morire sotto tortura, e ad ogni modo finché la morte non ci avesse separati, noi non
ci saremmo mai ostacolati in faccende d'amore o altro, fratello mio caro; ma che, anzi, in ogni caso tu mi
avresti sinceramente aiutato, come io avrei aiutato te. Questo era il nostro giuramento, non puoi negarlo.
Ecco perché mi sono confidato con te. Ed ora tu, mancando alla tua parola, t'incapricci della donna di cui
sono e sarò innamorato sempre, finché il mio cuore avrà vita. No, Arcita, non puoi essere così sleale! Io l'ho
amata per primo, e ti confesso la mia pena come ad un confidente, ad un fratello che, ti ho già detto, aveva
giurato d'aiutarmi. Se veramente sei un cavaliere, devi fare il possibile per aiutarmi, altrimenti posso ben
dirlo che sei un traditore».
Arcita, colpito nel suo orgoglio, rispose: «Tu piuttosto sarai un traditore, non io. Anzi, lo sei, e te lo dico
apertamente! Io me ne sono innamorato prima. Come puoi parlare tu? Non sai nemmeno se si tratti d'una
donna o d'una dea! La tua è una forma d'infatuazione, mentre il mio è vero amore: ecco, anch'io adesso
t'ho detto tutto, a te che sei mio cugino e hai giurato d'essermi fratello. Ma ammettiamo pure che tu
l'abbia amata per primo; ebbene, non ti ricordi di quel vecchio saggio che diceva: «Chi può dettar legge
all'innamorato»? L'amore, credimi, è la legge più grande che possa mai toccare a un uomo su questa terra,
e per amore s'infrangono ogni giorno dappertutto le leggi e i giuramenti più assoluti. Un uomo deve per
forza amare, è inutile che si metta a ragionare; non può farne a meno, neanche a costo di rischiare la vita,
sia lei vergine, vedova o maritata. Per te poi è impossibile rimaner sempre nelle sue grazie, e lo stesso vale
per me, perché sai benissimo che, purtroppo, siamo condannati a vita, e non c'è riscatto che possa liberarci.
Siamo come quei due cani che litigavano per un osso: lottarono per un giorno intero senza nessun risultato,
finché poi, mentre stavano a ringhiare, calò in mezzo a loro un nibbio e l'osso se lo portò via. Alla corte del
re, fratello mio, ognuno pensa per sé. Tu ama per conto tuo, che per conto mio io amo ed amerò sempre.
Questo è tutto, caro fratello. Dovendo tutti e due rassegnarci a questa prigione, segua ognuno la sorte che
gli tocca».
Grande e lunga fu ancora la discussione fra quei due, ad aver tempo di parlarne, ma passiamo oltre. Per
farla corta, un giorno un illustre duca, di nome Piritoo, compagno di Teseo fin da quand'erano bambini,
venne ad Atene a trovare l'amico e a svagarsi un po' con lui com'era solito fare ogni tanto, giacché si
volevano tutti e due il più gran bene del mondo. Si volevano tanto bene, che, secondo certi antichi libri,
quando uno morì, l'altro andò a cercarlo giù negl'inferi, davvero. Ora, però, non vorrei mettermi qui a
descrivere questo episodio. Il fatto è che il duca Piritoo, era anche molto amico di Arcita, che per anni aveva
conosciuto a Tebe, e così alla fine, su richiesta e preghiera appunto di Piritoo, senza bisogno d'alcun
riscatto, il duca Teseo lo lasciò uscire di prigione, libero di andare dove volesse, ad una condizione, però:
che se per caso Arcita fosse mai stato trovato d'ora in poi, sia di giorno che di notte, anche per un solo
istante, in qualsiasi territorio di Teseo, una volta catturato, ci avrebbe rimesso la testa. Questi erano i patti,
non c'era altro rimedio o altra via di scampo. Così Arcita se ne partì dirigendosi al più presto verso casa, e di
là doveva ormai badar bene di non muoversi se voleva aver salva la vita.
Che dispiacere provava ora Arcita! Si sentiva nel cuore la morte e non faceva che piangere, disperarsi e
gridare da far pena, pensando fra sé d'uccidersi. Diceva: «Maledetto il giorno che sono nato! La mia
prigione ora è peggiore di prima. Eccomi ormai per sempre condannato, e non al purgatorio, ma all'inferno.
Ah, non avessi mai conosciuto Piritoo! Così almeno sarei rimasto da Teseo, incatenato sì nella sua prigione,
ma felice e non in questo tormento. A me sarebbe bastato vederla, la donna che amo, anche se non ne
avessi mai potuto meritar grazia. Ah, cugino mio Palemone, in questo caso sei tu che hai vinto! Beato te che
sei ancora in prigione... In prigione? Ma no, tu sei in paradiso! La fortuna ha fatto il tuo gioco, e così Emilia
tu almeno puoi vederla, mentre io ne sono a miglia di distanza, E può ancora darsi, ora che le sei vicino, tu
che sei un valoroso e nobile cavaliere, che per un qualunque caso tu riesca, visto che la fortuna è così
mutevole, a ottenere proprio ciò che desideri. Ma io, che sono esiliato, destituito d'ogni grazia e così
disperato che non c'è terra, né acqua, né fuoco, né aria, nessuna creatura al mondo che possa aiutarmi e
darmi conforto, io non posso far altro che languire nella disperazione e nello spasimo. Addio vita, piaceri e
felicità! Ah, perché la gente si lamenta della divina provvidenza o fortuna che spesso e volentieri, in un
modo o nell'altro, dà molto più di quanto si riesca ad immaginare? Uno desidera la ricchezza, e questa gli
provoca la morte o una grave malattia; un altro vuol uscire di prigione, e viene assassinato dai suoi stessi
servi in casa sua. Infiniti sono i mali che noi stessi ci procuriamo. Non sappiamo neppure noi che cosa
vogliamo: ci comportiamo come tanti sorci ubriachi, sappiamo d'avere una casa, ma non troviamo mai la
via giusta per arrivarvi e continuiamo sempre a ruzzolare. Ecco come ci comportiamo a questo mondo.
Corriamo dietro alla felicità, ma quasi sempre ci sbagliamo. Tutti quanti dobbiamo ammetterlo, e
specialmente io, che mi credevo ed ero certo che, se solo avessi potuto fuggire di prigione, avrei toccato la
gioia e la felicità perfetta: e invece eccomi esiliato dal mio bene. O Emilia, se non posso più vederti, sono
spacciato e per me è finita!».
D'altra parte Palemone, come seppe che Arcita se n'era andato, si abbandonò a una disperazione tale, da
far risuonare tutta la torre dei suoi lamenti e delle sue grida; perfino i ferri che stringevano le sue grosse
caviglie erano bagnati d'amare lacrime salate. «Ahimè» diceva «Arcita, cugino mio, Dio sa che in questa
nostra lite tu hai avuto il sopravvento! Ormai te ne vai per Tebe in libertà e poco t'importa dei mio dolore.
Con la tua astuzia e furberia sei capace d'adunare tutta la gente della nostra stirpe e attaccar guerra contro
questa città, riuscendo poi, con un po' di fortuna e di maneggi, a prenderti per tua signora e moglie la
donna per la quale io devo invece rimetterci la vita. Tu almeno sei libero, lontano dalla prigione e padrone
di te stesso: ecco il tuo vantaggio; mentre io sono qui a morire rinchiuso in una gabbia. Finché avrò vita,
non mi resterà che piangere e lamentarmi per le sofferenze della prigione, alle quali s'aggiungono i
tormenti dell'amore che raddoppiano i miei patimenti e le mie pene.»
D'improvviso gli si accese in petto il fuoco della gelosia e lo prese così furiosamente al cuore, ch'egli diventò
pallido come il bosso o la cenere quand'è spenta e fredda. Allora disse: «O dèi crudeli, che governate il
mondo col vincolo della vostra parola eterna e scrivete su tavola di diamante le vostre leggi e le vostre
eterne concessioni, che cos'è per voi il genere umano più del gregge accovacciato nell'ovile? L'uomo viene
scannato come una qualsiasi bestia, arrestato, messo in prigione, soggetto a malattie e a grandi avversità, e
spesso, perdio, senz'averne colpa! Quale criterio esiste in questa prescienza che tormenta a torto
gl'innocenti? Ma ciò che più ancora accresce questa mia pena è che l'uomo sia costretto, per amor di Dio, a
rinunciare alla propria volontà, mentre una qualunque bestia può dar sfogo a tutti i propri istinti; e quando
una bestia è morta non soffre più, mentre un uomo deve continuare a piangere e a tribolare anche dopo la
morte, come se a questo mondo non vi fossero già abbastanza pene e preoccupazioni. Proprio così. Il
perché lo spieghino gl'indovini: io so soltanto che a questo mondo c'è molto da soffrire. Ahimè, si vedono
serpenti, oppure ladri che hanno derubato parecchia gente, andarsene liberamente dove a loro pare e
piace. Io invece devo starmene in prigione, e tutto per colpa di Saturno e di quella gelosa pazza di Giunone
che ha sterminato quasi tutta la stirpe di Tebe diroccandone perfino le vaste mura; e per giunta Venere mi
fa morire di gelosia e di timori a causa d'Arcita».
Ma smettiamola un po' con Palemone, lasciandolo nella sua prigione, e proseguiamo invece appunto con
Arcita.
Passata l'estate, le notti s'allungarono raddoppiando le amare pene sia dell'amante che del prigioniero. Non
so proprio chi dei due avesse la peggior sorte: Palemone era condannato a perpetua prigione e a morire in
catene e ceppi, ma anche Arcita, esiliato com'era sotto pena di morte e lontano da tutti, non avrebbe mai
potuto rivedere la sua donna. Lo chiedo perciò a voi che siete innamorati: chi dei due aveva la peggio,
Arcita o Palemone? L'uno poteva vedere la sua donna tutti i giorni, ma era condannato a rimaner per
sempre in prigione; l'altro poteva spostarsi a cavallo o a piedi dove gli pareva, ma la sua donna non avrebbe
mai più potuto rivederla. Giudicate un po' come vi garba, voi che di queste cose ve ne intendete, intanto io,
ormai che ho incominciato, proseguo il mio racconto.
EXPLICIT PRIMA PARS.
SEQUITUR PARS SECUNDA.
Arcita dunque, tornato a Tebe, non faceva che languire e lamentarsi tutto il giorno, perché ormai non
avrebbe più potuto rivedere la sua donna. A dire in breve tutto il suo dolore, non c'era mai stato, né ci sarà
mai, essere al mondo che soffrisse tanto. Dormire, mangiare, bere, tutto gli era impossibile, sicché diventò
magro e asciutto come uno stecco, con certi occhi infossati che facevano impressione, e un colorito terreo,
smorto come cenere spenta. Se ne stava sempre solo e appartato, e di notte non faceva che piangere e
disperarsi; se poi per caso sentiva qualcuno cantare o suonare, si metteva a piangere senza riuscire più a
trattenersi. Di spirito era così debole, così abbattuto ed alterato, che, sentendolo parlare, non si
riconoscevano neppure più le sue parole o la sua voce. E se ne andava in giro con l'aria non solo d'uno
spasimante malato d'amore, ma d'un maniaco colpito dall'umor malinconico proprio nel lobo frontale del
cervello. Tutto insomma era sottosopra, consuetudini e inclinazioni, nell'infelice innamorato messer Arcita.
Ma perché parlarvi sempre dei suoi mali? Trascorsi un anno o due in questo crudele tormento, fra tante
pene e tanti dolori, mentre, come vi dicevo, Arcita se ne stava a Tebe, nella sua patria, una notte, mentre
dormiva, gli parve di vedere in sogno Mercurio, il dio alato, che gli diceva di farsi coraggio. Teneva ritta in
mano la verga che concilia il sonno e portava sulle sue chiome luccicanti un cappello. Era vestito, questo
dio, almeno così gli parve, proprio come quando aveva addormentato Argo, e gli diceva: «Devi tornare ad
Atene, perché è là che avrà fine il tuo dolore».
A queste parole Arcita si svegliò con un sussulto. «Ora basta» disse «costi quel che costi, partirò subito per
Atene, e non sarà certo la paura della morte ad impedirmi di vedere la donna di cui sono innamorato. Pur di
rivederla non m'importa di morire.»
Mentre così diceva, gli capitò fra le mani un grande specchio e s'accorse che aveva mutato aspetto e che il
suo viso era completamente trasformato. Gli venne allora subito in mente che, col volto così sfigurato dalla
malattia sofferta, avrebbe potuto, camuffandosi da pezzente, vivere per sempre sconosciuto in Atene e
vedere tutti i giorni la sua donna. Si cambiò immediatamente gli abiti travestendosi da povero operaio e
tutto solo, eccetto uno scudiero suo confidente che conosceva tutta la sua storia, vestito anche lui
miseramente, prese la via più breve per Atene.
Là si presentò un giorno a palazzo, offrendosi presso il portico a questo e a quello come uomo di fatica per i
lavori più pesanti. Insomma, per non farla troppo lunga, capitò al servizio d'un ciambellano addetto proprio
all'appartamento di Emilia, perché, furbo com'era, aveva saputo subito distinguere chi fra tutti i servi
lavorasse presso di lei. Spaccava legna e trasportava acqua senza fatica, perché era ancora giovane e
robusto, massiccio e ben piantato, capace di reggere a qualsiasi lavoro che gli venisse comandato.
Rimase così a servizio per un anno o due come garzone di palazzo presso Emilia la radiosa, dicendo di
chiamarsi Filostrato (2). Ma nessuno degli altri servitori a corte era benvoluto come lui: aveva certi modi
così distinti, che tutti a corte ne parlavano. Dicevano che Teseo avrebbe fatto un'opera di carità a
promuoverlo di grado, assegnandogli un lavoro decoroso nel quale potesse mettere in pratica le sue doti. E
così, in breve tempo, tanto si sparse la fama dei suoi modi e del suo ben parlare, che Teseo lo volle accanto
a sé, e lo nominò scudiero al suo servizio, assegnandogli naturalmente la paga adatta al grado. C'era per
giunta chi di nascosto, ogni anno, gli portava dal suo paese le rendite dei suoi beni; egli però era così retto e
cauto nelle spese, che mai nessuno s'accorse dei suoi introiti.
Per tre anni se la passò in questo modo, e seppe comportarsi così bene, in pace come in guerra, che
nessuno fu mai più caro di lui a Teseo. Ma lasciamo per ora Arcita in questa sua beatitudine, e torniamo un
po' a parlare di Palemone.
Palemone, dunque, da ormai sette anni languiva nell'oscurità dell'orribile e massiccia prigione, macerato
dal patimento e dalla tristezza. Chi mai soffrì doppiamente tante pene e dolori? L'amore lo tormentava fino
a farlo impazzire dal dispiacere e, come se questo non bastasse, egli era condannato a rimanere in carcere,
e non per un anno, ma per sempre. Chi mai saprebbe degnamente descrivere il suo martirio? Non io di
certo, e perciò al più presto passiamo oltre.
Nel settimo anno, la notte del tre di maggio (questo dicono certi antichi libri che raccontano la storia in tutti
i suoi particolari), fosse il caso o il destino - tanto, quando una cosa è stabilita, deve per forza accadere - il
fatto è che subito dopo la mezzanotte, con l'aiuto di un amico, Palemone riuscì a sfondare la prigione e a
darsela a gambe, lasciando al più presto la città. Al carceriere aveva dato da bere una specie di chiaretto,
composto di vino, narcotici e puro oppio tebano, che l'avrebbe fatto dormire tutta la notte (neppure a
scuoterlo si sarebbe svegliato!), e poi via al più presto di corsa. Ma la notte era corta e il giorno ormai
vicino: bisognava ad ogni costo che Palemone si nascondesse. Ed eccolo infilarsi di soppiatto in un
boschetto proprio là vicino. Pensò infatti di rimanere nascosto in quel boschetto tutto il giorno, per poi
riprendere durante la notte la strada di Tebe e andare a pregare i suoi amici d'aiutarlo a far guerra contro
Teseo. Ormai aveva deciso: o perdere la vita o prendersi come sposa Emilia.
Ma torniamo di nuovo ad Arcita, che non sognava neppure quanti guai gli stessero per capitare, finché la
fortuna non lo riprese al laccio...
Affaccendata l'allodola, messaggera del giorno, salutava col suo canto l'alba cenerina, e Febo incandescente
sorgeva così fulgido, che tutto l'oriente sorrideva della sua luce, mentre coi suoi raggi egli asciugava nei
boschi le gocce d'argento che pendevano dalle foglie. Arcita, dunque, primo scudiero nella reggia di Teseo,
alzandosi vide ch'era un bel giorno: allora, per rendere gli onori a maggio, ricordandosi in quel punto del
suo desiderio, sopra un cavallo guizzante come il fuoco, partì correndo per un miglio o due nella campagna,
lontano dalla corte. E si diresse per caso proprio verso quel boschetto di cui vi dicevo, per farsi una
ghirlanda di rami di caprifoglio o biancospino, cantando a voce alta nella luce del sole:
«Maggio verde pien di fiori,
che tu sia ben tornato,
Maggio fresco, aggraziato,
nel tuo verde anch'io spero!»
Scendendo con animo allegro da cavallo, entrò lesto nella boscaglia e si mise a girovagare per un sentiero,
proprio dove Palemone, trepidando morto di paura, stava nascosto in un cespuglio, e non credeva di sicuro
che quello fosse Arcita; Dio sa che non se lo sarebbe mai immaginato! Ma dice bene un antico proverbio:
«Perfino i campi hanno occhi per vedere, e i boschi orecchi per sentire». Bisogna perciò comportarsi
sempre bene, perché tutti i giorni s'incontra l'imprevisto. Neppure Arcita s'immaginava che il suo
compagno, accovacciato immobile in un cespuglio, gli fosse così vicino da sentire ogni sua parola!
Ad ogni modo, quand'ebbe ben girovagato, cantando allegramente il suo ritornello, Arcita cadde
improvvisamente in preda alla malinconia, come succede agli innamorati coi loro strani umori: ora sono in
alto sulla vetta, ora in basso in mezzo ai rovi, su e giù come un secchio dentro il pozzo. Com'è vero che di
venerdì un po' piove e un po' c'è il sole, così la capricciosa Venere muta il cuore degli amanti: come il suo
giorno è variabile, così lei è volubile. E' raro, infatti, che il venerdì sia come gli altri giorni della settimana...
Arcita, dunque, aveva appena terminato di cantare che subito si abbandonò a sedere, incominciando a
sospirare: «Ahimè» diceva «maledetto il giorno che sono nato! O Giunone, fin quando ti accanirai con la tua
crudeltà contro la città di Tebe? Ahimè, estinto è ormai il sangue reale di Cadmo e di Anfione, di quel
Cadmo che per primo costruì Tebe, per primo ne tracciò le fondamenta e ne fu per primo incoronato re! Ed
io che sono della sua stirpe, diretto discendente di sangue reale, eccomi, prigioniero e schiavo, a far
miseramente da scudiero a chi mi è nemico a morte. Ma questa mia vergogna non basta a Giunone, perché
non posso neanche più usare il mio nome: una volta mi chiamavo Arcita, ora invece Filostrato, cioè buono a
nulla. Ahimè, terribile Marte! Ahimè, Giunone! La vostra ira ha distrutto tutta la nostra stirpe, all'infuori di
me e di quel povero Palemone che Teseo tormenta ancora in prigione. E per colmo di sventura, per darmi
proprio il colpo di grazia, ecco che amore m'ha conficcato il suo dardo rovente in questo mio sincero e
povero cuore; si vede che a me la morte fu messa addosso prima ancora della camicia. O Emilia, tu mi
uccidi con i tuoi occhi, sei tu che mi fai morire! Di tutto il resto dei miei guai non m'importerebbe nulla, se
soltanto potessi far qualcosa per piacerti!». Così dicendo cadde svenuto, ma dopo qualche istante si
riprese.
Palemone si sentì come se una fredda lama gli trapassasse improvvisamente il cuore: tremava di rabbia e
non riusciva a star fermo. Dopo aver ascoltato i discorsi di Arcita, balzò fuori come un pazzo dal folto dei
cespugli, con la faccia pallida d'un morto, e disse: «Arcita, falso traditore malefico, eccoti sorpreso
finalmente! Prima t'innamori della mia donna, per la quale io già soffro pene e dolori, tu che pure sei del
mio sangue e mio amico giurato, come ti ho già detto e ripetuto, e poi eccoti qui a ingannare il duca Teseo
sotto falso nome! Ch'io possa morire subito se non t'ammazzo! Tu non amerai Emilia la mia donna; io
soltanto l'amerò e nessun altro; sono io, Palemone, tuo mortale nemico! Anche se qui mi trovo senz'armi,
per fortuna sono libero dalla prigione, e ti giuro che morirai o la smetterai d'amare Emilia. Scegli tu, intanto
ormai non ti rimane scampo!».
Con animo infuriato Arcita, riconoscendolo e sentendo le sue parole, fiero come un leone trasse fuori la
spada e disse: «Per Dio che sta nei cieli, se non fosse che sei malato e impazzito per amore e in questo
momento anche disarmato, non usciresti più da questo bosco, perché ti ammazzerei con le mie mani! Ritiro
ogni promessa o impegno che, tu dici, ho fatto con te. Balordo che sei, ricordati che l'amore è libero e che
di lei io sarò sempre innamorato, a dispetto di tutta la tua arroganza! Se poi ti rimane ancora un po'
d'onore di cavaliere, e vuoi decidere la questione al duello, ti do la mia parola che domani, senza dir nulla a
nessuno, anch'io da cavaliere non mancherò di trovarmi qui, e porterò armi abbastanza pure per te; anzi tu
sceglierai le migliori, e lascerai le peggiori a me. Stasera intanto ti porterò da mangiare e da bere, e coperte
per dormire. E se capiterà che tu vincerai la mia donna uccidendomi in questo bosco dove mi trovo, allora,
per me, potrai tenertela!».
Al che Palemone rispose: «Va bene, d'accordo». E così si lasciarono fino all'indomani, dopo che ciascuno
ebbe dato la sua parola all'altro.
Ah, Cupìdo, sei proprio senza carità! Sei un sovrano che accanto a sé non vuole aver nessuno! E giusto quel
che si dice, che amore e prepotenza non vogliono saperne di stare insieme, ed era questo quel che Arcita e
Palemone scoprirono.
Arcita dunque se ne tornò subito in città, e l'indomani, prima che fosse giorno, procuratesi di nascosto due
armature con tutto il necessario e l'occorrente per decidere la questione al duello, se ne ripartì tutto solo
tenendosi le armature davanti sul cavallo. E fu così che nel bosco, a tempo e luogo stabiliti, Arcita e
Palemone si ritrovarono. E subito impallidirono, come certi cacciatori del regno di Tracia, i quali, appostati
al varco con la lancia, durante la caccia del leone o dell'orso, appena lo sentono venire frusciando per il
bosco e spezzando rami e fronde, pensano: 'Ecco, s'avvicina il nemico! Ormai uno di noi deve morire: o io lo
uccido subito, oppure, se manco il colpo, lui uccide me!' Questo era anche ciò che pensavano quei due,
impallidendo già a vedersi da lontano.
Non si scambiarono alcun buongiorno o altro saluto, e tuttavia, pur senza parole né complimenti,
s'aiutarono a indossare l'armatura buoni come due fratelli. Poi, con poderose lance acuminate, si
scagliarono l'uno contro l'altro e incominciarono a suonarsele. Avresti detto che nella lotta Palemone fosse
un leone impazzito e Arcita una tigre feroce: si pestavano tutt'e due il grugno come verri selvaggi, con la
bocca biancheggiante di bava per la gran rabbia e immersi ormai nel sangue fino al collo del piede. Ma
lasciamoli pure lì a combattersi e passiamo invece a parlare di Teseo.
Il destino, quel ministro generale (3) che attua sulla terra la provvidenza di Dio e che tutto prevede, ha un
tale potere che, se anche il mondo intero si mettesse a far scongiuri contro qualcosa, pure, prima o poi
succede in un giorno quello che non succederebbe in mille anni. Difatti quaggiù i nostri desideri, siano di
guerra o di pace, d'odio o d'amore, vengono tutti regolati da quell'occhio che sta lassù in cielo.
Dico a questo proposito del gagliardo Teseo, che aveva sempre tanta voglia d'andare a caccia (specialmente
in maggio a quella del cervo adulto), che non spuntava giorno nel suo letto senza che lui non fosse già
vestito e pronto a cavalcare, con tutto il suo seguito di cacciatori coi corni e i cani. Tanta era la sua passione
per la caccia, che uccidere il cervo era ormai tutta la sua gioia e contentezza, ora che dopo Marte s'era
messo a servire Diana.
Era, come vi dicevo, una bella giornata, e Teseo, tutto felice e contento, con la sua bella regina Ippolita ed
Emilia, vestita di verde, se ne partì maestosamente per la caccia, dirigendosi verso il bosco più vicino dove
gli era stato detto che s'era rifugiato il cervo. E andò subito difilato nella radura, perché di solito era là che il
cervo fuggiva e doveva attraversare un ruscello prima di poter procedere nella sua corsa; fu il duca stesso a
volerlo inseguire per una pista o due con certi bracchi che a lui piaceva comandare.
Ma, giunto alla radura, guardando in direzione del sole, il duca vide invece Arcita e Palemone che, infuriati
come due verri, continuavano a combattere; le loro spade luccicanti guizzavano così paurosamente di qua e
di là, che al minimo colpo pareva dovessero abbattere una quercia. Non sapendo chi fossero quei due, il
duca spronò il cavallo e in un balzo fu in mezzo a loro, e sguainando la spada gridò: «Ehi, basta, se non
volete rimetterci la testa! Per il potente Marte, il primo che in mia presenza lancia ancora un colpo, sarà
spacciato! Ditemi piuttosto chi siete, che vi mettete qui a combattere senza nemmeno un giudice o un
arbitro, come se foste in un torneo di re!».
Rispose subito Palemone e disse: «Sire, a che servono tante parole? Ci meritiamo tutt'e due la morte.
Siamo due poveri disgraziati, due prigionieri stanchi di vivere; e tu che sei nostro signore e giudice non
avere per noi pietà o misericordia. Uccidimi per primo, fammi questa carità, ma con me uccidi anche il mio
compagno. Oppure uccidi prima lui, perché, se ancora non te ne sei accorto, si tratta d'Arcita, tuo mortale
nemico, bandito dalle tue terre sotto pena di rimetterci la testa, e che perciò ben merita d'essere ucciso: è
lui che venne alla tua porta dicendo di chiamarsi Filostrato, ormai da anni ti tradisce, tu lo hai perfino
nominato tuo primo scudiero, ed egli è innamorato d'Emilia. Ma è venuto il giorno che devo morire, e
perciò ti confesso apertamente anch'io d'esser quel Palemone sventurato che con inganno fuggì dalla tua
prigione: sono anch'io tuo mortale nemico, ma così innamorato della bella Emilia, che ormai vorrei soltanto
morire qui davanti a lei! Ecco perché ti chiedo la mia condanna a morte; ma uccidi anche il mio compagno,
perché nessuno è ormai degno di continuare a vivere».
Il valente duca replicò dicendo: «E' presto fatto; vi siete condannati da soli, per bocca vostra e con la vostra
confessione: a me non resta che prenderne atto. Non c'è neanche bisogno di mettervi alla tortura, e giuro
per il potente dio rosso Marte che morirete!».
La regina allora, molto femminilmente, scoppiò in lacrime, e con lei Emilia e tutte le dame del seguito,
impietositesi al pensiero che dovesse accadere una tal disgrazia a due gentiluomini d'illustre stirpe, che
soltanto per amore si trovavano a combattere; vedendo poi le loro orribili ferite sanguinanti ancora aperte,
tutte gridarono, dalla prima all'ultima «Pietà, signore, di noi che siamo donne!» e prostrandosi a terra in
ginocchio, fecero l'atto di baciare i piedi al duca, il cui umore alla fin fine si placò, giacché a cuor gentile
pietà corre veloce... (4) E benché subito egli fosse scosso e infiammato d'ira, si mise poi a riflettere sulla
colpa che quei due avevano commesso e sul motivo che li aveva spinti; e se prima nel furore li avrebbe
condannati, ora invece con la ragione li scusava tutt'e due: pensò che chiunque per amore avrebbe fatto lo
stesso, cercando a ogni costo di fuggire di prigione, e in cuor suo provò anche compassione di tutte quelle
donne che continuavano a piangere. E così, pieno di nobili pensieri, fra sé disse: 'Guai a quel sovrano che
non vuole aver pietà, e fa la voce e la parte del leone sia con chi ha timore e si pente, come con chi è
superbo e sprezzante e persiste in quanto ha iniziato! Dimostrerebbe ben poco giudizio il sovrano che in un
simile caso non sapesse distinguere, e valutasse nello stesso modo orgoglio ed umiltà'. Insomma, quando
l'ira in questo modo gli fu passata, sollevando da terra i suoi accesi occhi, disse a voce alta queste precise
parole:
«Ah, "benedicite", che potente e gran signore è il dio dell'amore! Non c'è davvero ostacolo che resista alla
sua potenza! Egli può veramente chiamarsi dio per i suoi miracoli, giacché d'ogni cuore può fare a suo
modo tutto ciò che vuole. Ecco, guardate Arcita e Palemone: erano finalmente liberi di prigione e
avrebbero potuto vivere a Tebe come due re, sapevano che io ero il loro nemico e che avrei potuto
condannarli a morte, eppure ecco che l'amore li ha ricondotti come due ciechi proprio qui a morire. Non vi
pare che ciò sia follia pura? Ma chi è più pazzo d'un innamorato? Guardate, per amor di Dio che sta nei cieli,
guardate come sanguinano! Non vi sembrano abbastanza mal ridotti? Ecco come il loro padrone, il dio
dell'amore, li ha pagati e compensati per il loro servizio! Eppure credono d'aver ragione loro, a voler servire
amore a tutti i costi... Ma il più bello è questo: che la donna per la quale hanno fra loro questo bel
divertimento, può ringraziarli giusto quanto me, perché di tutta questa gran caldana, perdio, non ne sa più
di quanto ne sappia un cuculo o una lepre! E' proprio vero che, focosi o frigidi, dobbiamo tutti esser messi
alla prova e, prima o poi, bisogna che l'uomo perda la testa: questo lo so, perché anch'io ai miei tempi sono
stato servo d'amore. Ed ora, siccome appunto conosco le sue pene e so quanto possano straziare un uomo,
proprio per esser stato preso al laccio anch'io, ecco, vi perdono ogni vostra mancanza, anche perché la
regina è qui che me lo chiede in ginocchio, con la sua cara sorella Emilia. Voi due, però, dovete qui subito
giurarmi che non cercherete mai d'insidiare il mio paese attaccando guerre, ma rimarrete sempre alleati
miei. Eccovi dunque completamente assolti!»
Subito e apertamente quelli prestarono il giuramento richiesto, pregando il duca di concedere a tutt'e due
la sua pietosa protezione. Ed egli, promettendo loro tutto il suo favore, proseguì:
«Quanto a nobiltà e ricchezza, ciascuno di voi è senza dubbio degno di sposare un giorno anche una regina
o una principessa. Riguardo però a mia cognata Emilia, per la quale è sorta tra voi tutta questa contesa e
gelosia, voi capite che non può sposarvi tutt'e due, neppure se voi continuaste a combattere per sempre.
Uno di voi, voglia o non voglia, dovrà per forza mettersi l'animo in pace, giacché, per quanto siate gelosi e
infuriati, non potrete mai ottenerla in due! Facciamo dunque in modo che ognuno di voi abbia la sorte che
si merita... Sentite come avrei pensato di risolvere una buona volta la questione, senza che poi vi siano
repliche: si tratta ad ogni modo d'un consiglio, voi potete regolarvi come credete. Ognuno di voi se ne vada
liberamente dove gli garba, senza bisogno d'alcun riscatto o svincolo, ma fra cinquanta settimane a partire
da oggi, non un giorno prima o uno dopo, ciascuno ritorni portando qui cento cavalieri armati di tutto
punto, pronti ad entrare in lizza e a decidere in battaglia ogni contesa. Vi do la mia parola di cavaliere che a
chi di voi due si dimostrerà più forte, sarà cioè capace, con i cento cavalieri di cui vi dicevo, d'uccidere
l'avversario o di metterlo fuori combattimento, a lui darò Emilia in moglie, a chi cioè tal grazia otterrà dalla
fortuna. Qui stesso farò costruire lo stadio, e Dio non perdoni l'anima mia se come giudice non sarò
imparziale e retto! La battaglia non avrà termine finché uno dei due non resti ucciso o sia fatto prigioniero.
Se vi pare che quanto ho detto sia giusto, esprimete il vostro giudizio dandomi la vostra approvazione.
Ecco, ho concluso e terminato.»
Chi c'era più contento di Palemone? Chi se non Arcita poteva far salti di gioia? Chi mai saprebbe descrivere
o rappresentare tanto gaudio dopo che Teseo ebbe concesso una così bella grazia? Tutti gli
s'inginocchiarono davanti, ringraziandolo fervidamente di cuore, specialmente i due giovani tebani, i quali
poi, con l'animo pieno di speranza e contentezza, presero commiato e se ne partirono a cavallo verso Tebe,
la loro città dalle antiche ed ampie mura.
EXPLICIT SECUNDA PARS.
SEQUITUR PARS TERCIA.
Mi si potrebbe accusare di negligenza, se ora tralasciassi di parlarvi della prodigalità con cui Teseo
s'affaccendò a far costruire lo stadio, ma vi assicuro che non vi fu mai al mondo anfiteatro più nobile e
maestoso. Misurava circa un miglio di circonferenza, con mura di macigno e fossato tutt'intorno, formando
un circolo così perfetto, che pareva tracciato direttamente col compasso; le gradinate all'interno arrivavano
a un'altezza di sessanta piedi, ed erano disposte in modo che chi fosse seduto davanti non impedisse agli
altri dietro di vedere. Aveva una porta di marmo bianco rivolta verso oriente e un'altra, perfettamente
simile, nella direzione opposta, ad occidente. Non vi fu insomma sulla terra edificio più grandioso, costruito
in minor tempo, giacché quanti esperti di geometria o arte metrica, pittori o scultori vi fossero da quelle
parti, tutti vennero mantenuti e stipendiati da Teseo per costruire e decorare l'anfiteatro. Egli volle che
sulla porta ad oriente fosse innalzato un oratorio con un altare per la celebrazione di riti e sacrifici, in onore
di Venere, la dea dell'amore; sopra quella ad oriente, ne volle un altro perfettamente simile, in memoria di
Marte, e gli costò di sicuro un bel carro d'oro; infine a nord, dentro una piccola torre sul muro, ne fece
edificare un terzo in onore della casta Diana, magnifico, tutto d'alabastro bianco e di rosso corallo, uno
splendore di ricchezza. E ancora non v'ho descritto le splendide incisioni e le pitture, con l'espressione e
l'aspetto delle figure che si vedevano in questi tre oratorii...
Innanzi tutto nel tempio di Venere si vedevano dipinti sulla parete, in un commovente quadro, i sonni
interrotti e i freddi sospiri, le sacrosante lacrime e i lamenti, e gli atroci colpi di passione che soffrono in
questa vita gli schiavi d'amore, e i giuramenti che suggellano i loro patti, e il Piacere, la Speranza, il
Desiderio, l'Audacia, la Bellezza, la Gioventù, la Ruffianeria, la Ricchezza, la Civetteria, la Violenza, la
Menzogna, l'Adulazione, la Prodigalità, l'Intrigo e la Gelosia con una gialla ghirlanda di calendule ed un
cuculo appollaiato sulla mano, e poi banchetti, strumenti musicali, carole, danze, libidine e lusso: insomma,
dipinte in ordine su quella parete, c'erano proprio tutte le consorterie d'amore, quelle che v'ho citato e vi
citerò, e molte più di quante io possa menzionare. Da una parte, ad esempio, si vedeva dipinto tutto il
monte Citerone, dove Venere ha la sua principale dimora, con tutto il giardino delle delizie. Nessuno era
stato dimenticato: l'Ozio a guardia delle porte, Narciso, una volta famoso per la sua bellezza, Salomone con
le sue follie, Ercole con la sua forza meravigliosa, Medea e Circe con i loro incantesimi, Turno con il suo fiero
coraggio e il ricco Creso posto in catene. Essi stavano a rappresentare che non c'è né sapienza, né ricchezza,
né bellezza, né astuzia, né forza, né coraggio, che possa in qualche modo competere con Venere, la quale
da sola governa il mondo come vuole: tutta questa gente infatti era presa nei suoi lacci e non faceva che
lamentarsi per il dolore. Potrei citarvi un esempio o due, ma là ce n'erano più di mille!
L'immagine di Venere, invece, in tutta la sua gloria, fluttuava nuda in mezzo al gran mare, e dall'ombelico in
giù era tutta coperta da onde verdi e cristalline. Aveva nella mano destra una cetra, e sul capo, bellissima,
una ghirlanda di rose fresche e profumate, mentre in alto volavano le sue colombe. Le stava dinanzi suo
figlio Cupìdo, che aveva due ali alle spalle ed era cieco, come tutti sanno, e armato d'arco e di frecce lucide
e acuminate.
Ma perché non parlarvi anche delle pitture che stavano sulla parete nel tempio di Marte, il potente dio
rosso? Quella parete era dipinta tutta quanta come l'interno di quell'orrido edificio ch'è il gran tempio di
Marte in Tracia, in quell'aspra regione gelida dove il dio ha la sua reggia.
Si vedeva innanzi tutto una foresta, abbandonata dagli uomini e dagli animali, con certi vecchi alberi nodosi
e spogli dai tronchi mozzi e orribili, che parevano percorsi da brontolii e sibili come se un uragano ne
schiantasse i rami. In basso, sotto il fianco d'un colle, sorgeva il tempio del bellicoso Marte, tutto d'acciaio
brunito, con un'entrata lunga e stretta che metteva paura, dalla quale si scatenava una tempesta così
violenta, che faceva tremare tutte le cancellate. Filtrava attraverso le porte una luce boreale, mentre sui
muri non c'erano finestre dalle quali si scorgesse un lume. L'ingresso era tutto di puro diamante, rinsaldato
per lungo e per traverso da durissime sbarre di ferro, e di ferro bruno lucente erano rinforzate anche tutte
le colonne che, larghe come tinozze, sostenevano il tempio.
Subito si distingueva la cupa immagine del Tradimento con tutte le sue consorterie: l'Ira spietata, rossa
come un tizzone; il tagliaborse e la pallida Paura; l'uomo che ride col pugnale sotto il mantello; la stalla in
fiamme tra nuvoli neri; l'insidia del delitto dentro il letto; la Guerra aperta con le ferite sanguinanti; la bieca
Rissa minacciosa con un coltello sporco di sangue. E c'era dappertutto un cupo frastuono, in quel luogo di
dolore. Si vedeva poi il suicida, coi capelli intrisi nel sangue che gli sgorgava dal cuore; nella penombra il
chiodo conficcato in una tempia; e la fredda morte che levava in alto la bocca spalancata. In mezzo al
tempio sedeva, con espressione afflitta e sconsolata, la Sventura. Si vedevano inoltre la Pazzia ghignante di
rabbia, l'Insurrezione armata, il Clamore e il furioso Oltraggio; in un cespuglio il cadavere con la gola
spezzata; e poi mille, tutti uccisi di morte violenta; il tiranno col bottino estorto; la città distrutta dove non
era rimasto nulla. Si vedevano navi bruciare danzando; il cacciatore sgozzato dagli orsi inferociti; la scrofa
che divora il bimbo nella culla; il cuoco ustionato con tutto il suo lungo ramaiolo. Nulla riguardante il
sinistro influsso di Marte era stato dimenticato, neanche il carrettiere travolto dal suo carro, lungo disteso
sotto le ruote. C'erano anche, fra le schiere di Marte, il barbiere, il macellaio e il fabbro nell'atto di forgiare
aguzze spade sull'incudine. E molto in alto, dipinta in una torre, si vedeva la Vittoria seduta in gran trionfo,
con una spada tagliente che da un sottile filo doppio le pendeva sopra il capo. V'era dipinta l'uccisione di
Giulio (5), del grande Nerone e di Antonio: essi allora non erano ancora nemmeno nati, eppure già si
vedeva, fedelmente raffigurata, la fine alla quale Marte li avrebbe destinati. Si poteva così apprendere da
quel quadro, chiaramente come dalle stelle in cielo, chi sarebbe stato ucciso e chi invece sarebbe morto per
amore. E basti quest'esempio d'antiche storie, perché, anche volendo, non potrei citarli tutti...
S'ergeva sopra un carro l'immagine di Marte, armato e come stravolto da un lampo di furore, e gli
splendevano sul capo le figure di due stelle, chiamate nelle scritture l'una "Puella" e l'altra "Rubeus". (6)
Ecco com'era raffigurato il dio delle armi. Gli stava ai piedi un lupo con gli occhi rossi, nell'atto di divorare
un uomo: si trattava d'un episodio dipinto per celebrare Marte e la sua gloria, ed era veramente un fine
lavoro di pennello.
Ma passiamo ora più in fretta che possiamo al tempio della casta Diana, per darne una rapida descrizione.
Qua e là sulle pareti erano dipinte scene di caccia e di pudica ritrosia. Si vedeva la povera Callisto quando
dalla furente Diana venne mutata di donna in orsa, e diventò poi la stella polare (così almeno stava dipinto,
non so che dirvi; ma anche suo figlio (7) è una stella, chiunque può vederlo ... ). C'era poi Dafne trasformata
in albero: non Diana la dea, ma Dafne, la figlia di Peneo. E si vedeva Atteone mutato per vendetta in cervo,
per avere guardato Diana quand'era nuda; si vedevano i suoi cani che, non avendolo riconosciuto, lo
sbranavano vivo. Un po' più oltre era dipinta Atalanta a caccia del cinghiale, e Meleagro, e molti altri ai
quali Diana procurò affanni e pene; e si vedevano ancora altri meravigliosi episodi, che non sto qui a
rammentare...
La dea stava seduta in alto sopra un cervo, con alcuni cagnolini intorno ai piedi; e sotto i piedi una luna
crescente, ma ormai prossima a calare. La figura era vestita di verde azzurro, con l'arco in mano e le frecce
nella faretra, ed aveva gli occhi rivolti in basso, verso il cupo regno di Plutone. Le stava innanzi una donna in
doglie la quale, poiché il bambino tardava a nascere, pareva invocare pietosamente Lucina e dire: «Aiutami,
tu che fra tutti puoi aiutarmi!». Sapeva veramente dipingere dal vivo chi aveva fatto questo quadro, e di
fiorini doveva averne speso con tutti quei colori...
Lo stadio, dunque, ormai era pronto, e Teseo, che con tanta profusione di denaro aveva fatto ornare
anfiteatro e templi, quando tutto fu finito, ne rimase enormemente soddisfatto. Ma tralasciamo per ora
Teseo, e parliamo invece di Palemone e Arcita.
Per loro s'avvicinava ormai il giorno del ritorno, il giorno in cui, come vi ho detto, ciascuno avrebbe dovuto
portare cento cavalieri per decidere in torneo la foro discussione: e infatti ciascuno, mantenendo i patti,
con cento cavalieri armati di tutto punto e pronti alla battaglia, partì alla volta di Atene. C'era da credere
veramente che da che mondo era mondo, dovunque Iddio avesse creato terra o mare, per un'impresa
cavalleresca non si fosse mai adunata in così breve tempo una più nobile compagnia. Chiunque infatti
amasse la cavalleria e volesse in essa farsi un nome, aveva chiesto di poter far parte di quel torneo, e
fortunato chi fu scelto! Sapete bene che se domani capitasse un'occasione simile, qualsiasi valido cavaliere,
gagliardo e amante d'imprese amorose, inglese o di qualsiasi altra terra, vorrebbe a tutti i costi
parteciparvi... Combattere per una donna, "benedicite", è pur sempre un gran bello spettacolo!
Questo almeno è ciò che pensavano quanti erano con Palemone. Venivano con lui cavalieri diversissimi:
alcuni armati di gazzerini, piastroni e casacche leggere, altri d'un paio d'ampi cosciali; chi portava uno scudo
di Prussia o una targa, e chi invece era ben riparato sulle gambe e impugnava una scure o una mazza
d'acciaio... E proprio vero che non c'è moda nuova che non sia stata antica! (8) Ciascuno, insomma, s'era
armato come aveva voluto. Accanto a Palemone si vedeva avanzare Licurgo in persona, il gran re di Tracia:
barba nera e volto maschio; il bulbo degli occhi che in fronte mandava bagliori fra il giallo e il rosso, mentre
lui si guardava attorno come un grifone, con ispidi peli sulle grosse sopracciglia; membra enormi, muscoli
duri e forti; spalle larghe, braccia tonde e lunghe. Secondo il costume del suo paese, stava in piedi alto
sopra un carro d'oro, con quattro tori bianchi alle tirelle. Sull'armatura portava, invece dell'insegna, una
pelle d'orso, diventata col tempo nera come il carbone, con certi artigli gialli che luccicavano come l'oro.
Aveva i capelli lunghi, pettinati indietro sulle spalle, lucidi e neri come piume di corvo; in testa portava una
corona d'oro grossa come un braccio, di peso enorme, tempestata di pietre preziose, rubini e diamanti
finissimi. Intorno al carro camminavano più di venti alani bianchi, grossi come manzi, adatti alla caccia del
cervo e del leone, e lo seguivano stretti nella museruola e con l'anello d'oro del collare ben limato. Aveva al
seguito cento baroni, perfettamente armati, dal cuore saldo e forte.
Insieme con Arcita, sta scritto nelle storie, simile a Marte il dio delle armi, veniva cavalcando il grande
Emetrio, re dell'India, sopra un cavallo baio con bardature d'acciaio, coperto d'un drappo tutto d'oro. La sua
cotta era di panno tartaro, guarnito di candide perle grosse e rotonde; la sella d'oro brunito appena
battuto. Aveva le spalle ricoperte da un mantello tempestato di rossi rubini, scintillanti come il fuoco; i
crespi capelli gli scendevano a cerchietti, biondi e brillanti come il sole. Aveva il naso dritto, gli occhi chiari
color del cedro, le labbra tonde e la carnagione sanguigna, con alcune efelidi sparse sul viso, d'un colore fra
il giallo e il nero, e lanciava sguardi da leone. Avrà avuto venticinque anni: la barba gli era incominciata a
crescere ormai da tempo, e aveva una voce squillante come una tromba. Portava in testa una ghirlanda di
verde alloro, così fresca che a guardarla era una bellezza. Reggeva in mano, per suo diletto, un'aquila
ammaestrata, bianca come un giglio. I cento cavalieri che aveva con sé erano tutti armati sfarzosamente e,
tranne l'elmo, nella maniera più svariata: pensate infatti che riuniti in quella sua nobile brigata, per amore e
spirito di cavalleria, c'erano duchi e conti e re. E attorno al condottiero correvano d'ogni parte leoni e
leopardi addomesticati.
Così, una mattina presto di domenica, tutti quanti questi signori arrivarono ad Atene: entrati in città,
smontarono da cavallo.
Il duca Teseo, da nobile cavaliere qual era, dopo che li ebbe condotti a palazzo ed ebbe a ciascuno dato
alloggio secondo il grado, tanto li festeggiò e s'adoperò per metterli a loro agio e render loro tutti gli onori,
che non si riesce neppure a immaginare come un altro, di qualunque rango fosse e per quanto ingegno
avesse, avrebbe potuto far meglio. Non sto qui ora a rammentarvi le musiche, il servizio a tavola, gli
splendidi doni offerti a tutti dal primo all'ultimo, i fastosi paramenti del palazzo di Teseo, chi occupasse a
mensa i posti d'onore, quali fossero le più belle dame e quali danze le migliori, chi fra tutti sapesse meglio
danzare e cantare, e chi parlar d'amore con maggior sentimento, quanti falchi fossero appollaiati fra le
pergole o quanti levrieri accucciati sul pavimento... Credo piuttosto che sia meglio andare avanti. Ora viene
il bello: ascoltatemi, vi prego.
La domenica notte, prima che spuntasse il giorno, appena Palemone sentì cantare l'allodola (e già cantava
che mancavano due ore all'alba), Palemone, dicevo, col cuore pio e l'animo fiducioso, s'alzò per andare a
rendere omaggio alla beata Citerea benigna, a Venere insomma, gloriosa e degna. E proprio nell'ora a lei
sacra, si recò allo stadio dove sorgeva il tempio e, inginocchiandosi umilmente, con animo sommesso, così
le disse:
«Bella fra le belle, madonna Venere, figlia di Giove e sposa di Vulcano, tu che allieti il monte Citerone, per
l'amore che provasti verso Adone, abbi pietà delle mie cocenti lacrime amare e prendi a cuore la mia umile
preghiera. Ah, non ho parole per esprimere le pene e i tormenti del mio inferno, il mio cuore non sa più
reggere a tanto male ed io sono così confuso, che non posso chiederti altro che di avere misericordia,
luminosa dea, tu che ben conosci i miei pensieri e vedi quanti affanni provo! Considera tutto questo ed abbi
pietà della mia pena, ed io ti prometto che fedelmente mi metterò con tutte le mie forze al tuo servizio, e
farò sempre guerra alla castità. Io te lo prometto, ma tu aiutami! Non m'importano le imprese militari, io
non ti chiedo di darmi domani la vittoria, né l'onore di questo torneo o la vanagloria d'un premio d'armi
strombazzato da tutte le parti: vorrei soltanto che Emilia fosse mia, per poi morire al tuo servizio. Trova tu il
mezzo o la maniera: non m'importa se sia meglio ch'io vinca o perda, purché io possa avere la mia donna
fra le braccia. Anche se Marte è il dio delle armi, la tua potenza è così grande su in cielo che, se tu vorrai, io
avrò certamente l'amor mio. E allora onorerò per sempre il tuo tempio e, ogni volta che uscirò a cavallo o a
piedi, verrò a far sacrifici e ad accendere il fuoco sul tuo altare. Se però tu non vuoi, dolce mia signora, ti
prego allora, fa' che Arcita domani con la sua lancia mi trafigga il cuore. Così, una volta che avrò perduto la
vita, non mi preoccuperò più che Arcita se la conquisti e faccia sposa. Ecco, ho terminato la mia preghiera.
Oh, dammi il mio amore, beata signora cara!»
Compiuta l'orazione, Palemone offrì subito il suo sacrificio, molto devotamente, secondo ogni regola. Ma
non starò ora a descrivervi tutte le sue cerimonie. Alla fine l'immagine di Venere si mise a tremare e fece un
segno, dal quale egli capì che per quel giorno la sua preghiera era stata accolta. Anche se in realtà il segno
accennava a un ritardo, era chiaro che la grazia gli sarebbe stata concessa. E tutto contento, se ne tornò
veloce alla sua stanza.
Tre ore dopo che Palemone era stato al tempio di Venere, si levò il sole, ed anche Emilia s'alzò, e svelta si
recò al tempio di Diana. Andarono con lei anche alcune ancelle che avevano con sé pronto il fuoco,
l'incenso, i lini e tutto l'occorrente per il sacrificio, perfino i corni pieni d'idromele, proprio tutto insomma.
Mentre il tempio veniva avvolto nel fumo e ornato di bei drappi, Emilia, con animo puro, si lavò il corpo con
acqua di fonte; come però compisse questo rito non m'azzardo a dire se non così genericamente: sarebbe
ben bello spiegare tutto, tanto più che non si può accusare chi sia in buona fede, ma in questo caso forse è
meglio tenersi alla larga... Col pettine le furono sciolti i luminosi capelli, e le fu posta in capo, con molta
grazia, una ghirlanda di verde quercia. Lei allora accese due fuochi sull'altare e compì le sue pratiche (tutte
cose che si possono leggere nella "Tebaide" di Stazio (9) e simili antichi libri), e mentre il fuoco ardeva, si
rivolse devotamente a Diana, così, sentite:
«O casta dea dei verdi boschi, tu che vedi il cielo e la terra e il mare, regina del regno tetro e profondo di
Plutone, dea delle vergini, che ormai da anni conosci il mio cuore: risparmiami la tua vendetta e la tua ira,
per le quali ha già crudelmente sofferto Atteone. Casta dea, tu sai bene che desidero rimanere vergine per
tutta la vita, e che non vorrò mai innamorarmi o sposarmi. Sono ancora, tu lo sai, della tua schiera, vergine:
amo andare a caccia e camminare per boschi selvaggi, non fare la moglie e avere bambini. Io non voglio
conoscere compagnia d'uomo. Aiutami dunque, signora, tu che nella tua triplice forma (10) tutto puoi e
conosci. E quanto a Palemone, che prova per me tanto amore, e ad Arcita, che mi ama così
tormentosamente (ti chiedo soltanto questa grazia e basta), fa' che tutti e due si trovino in pace e
d'accordo, e distogli da me i loro cuori, così che tutto il loro ardente amore e il loro desiderio, tutto il loro
affannoso tormento e il loro fuoco, si spengano o siano rivolti altrove. Se però non vuoi farmi questa grazia,
o è destino ch'io debba proprio sposare uno di loro, mandami allora quello che più mi desidera. Guarda,
purissima dea della castità, le amare lacrime che scendono sulle mie guance! Tu che sei vergine e nostra
protettrice, proteggi e conserva la mia verginità, e allora io, finché vivrò, vergine rimarrò al tuo servizio.»
I fuochi ardevano chiari sull'altare, mentre Emilia se ne stava così in preghiera. Ma ad un tratto ebbe una
strana visione: all'improvviso uno dei fuochi si spense e si riaccese, subito dopo si smorzò l'altro fuoco, e si
spense completamente, e spegnendosi mandò un sibilo, come fanno certi tizzoni umidi quando bruciano, e
all'estremità del tizzo si misero a scorrere numerose gocce che parevano sangue. Emilia ne fu così atterrita
che per poco non si sentì impazzire, e si mise a gridare, non comprendendo che cosa tutto ciò volesse dire;
e presa dal terrore gridava e piangeva da far pietà a sentirla. All'improvviso apparve Diana con l'arco in
mano, proprio come una cacciatrice, e disse: «Calmati, figlia mia. Gli eccelsi dèi hanno stabilito, scritto e
confermato con parole eterne, che tu dovrai sposare uno di quei due che per te soffrono tante pene e tanto
dolore: ma chi fra loro non ti so dire. Addio, non posso rimanere più a lungo. Prima che tu te ne vada, te lo
chiariranno i fuochi che ardono sul mio altare, quale sia l'esito di questa tua avventura d'amore». E a queste
parole, le frecce nella faretra della dea si scossero risuonando, e lei s'allontanò e scomparve. Emilia,
sbalordita, disse: «Ahimè, che cosa significa questo? O Diana, io mi metto sotto la tua protezione e a te mi
affido!». E se ne tornò subito difilato a casa. E questo fu tutto, non rimane altro.
Infine, nell'ora consacrata a Marte, fu Arcita a recarsi al tempio di questo fiero dio, offrendo sacrifici
secondo i riti d'usanza pagana. Con umile cuore e con profonda devozione, rivolse a Marte questa
preghiera:
«Dio della forza, che nei freddi regni della Tracia sei onorato da signore, tu che hai in mano le redini di tutti
gli eserciti e ne amministri le fortune come vuoi, accetta questo mio devoto sacrificio. Se la mia gioventù ha
qualche merito, se la mia forza mi rende degno di stare al servizio della tua divinità come uno dei tuoi,
allora, ti prego, abbi pietà della mia pena! Per quella tua pena, per quell'intenso fuoco che tutto ti arse di
desiderio, quando godesti le smaglianti grazie di Venere bella e giovane e fresca, e la stringesti a tua voglia
fra le braccia (quantunque una volta ti andasse male, quando Vulcano ti colse al laccio e ti sorprese mentre,
ahimè, giacevi con sua moglie!...), per quel dolore che tu provasti al cuore, abbi pietà delle mie cocenti
pene! Io sono giovane e inesperto, lo sai, e più colpito da amore di quanto non credo lo sia mai stata anima
viva: e colei che mi fa tanto soffrire non si cura ch'io affondi o galleggi. So che le sue grazie devo
conquistarmele sul campo con la forza; ma so anche che, senza il tuo aiuto e il tuo favore, la mia forza non
serve a nulla. E allora domani nella mia battaglia aiutami, signore: per quel fuoco che una volta ti arse e che
ora arde me, fa' che domani io abbia la vittoria. A me la fatica e a te la gloria! Io poi onorerò il tuo sovrano
tempio più d'ogni altro luogo, e mi eserciterò sempre più nel tuo duro mestiere pur di farti cosa gradita.
Appenderò nel tempio l'insegna e tutte le armi della mia schiera e sempre, fino al giorno della mia morte,
manterrò acceso davanti a te un fuoco perenne. Anche questo voto ti faccio: la mia barba, i miei lunghi
capelli spioventi, non mai sfiorati dalle forbici o dal rasoio, li sacrificherò a te e, finché vivrò, sarò sempre il
tuo servo fedele. Signore, abbi pietà del mio acuto dolore, e concedimi la vittoria: non ti chiedo altro.»
Terminata la preghiera del forte guerriero, i cardini e i battenti che pendevano alla porta del tempio
tremarono così violentemente, che lo stesso Arcita ne fu atterrito. Divamparono i fuochi sull'altare, e tutto
il tempio incominciò ad illuminarsi, mentre dal suolo s'andava spandendo un dolce profumo. Allora Arcita,
levando in alto la mano, gettò, con altri riti, nuovo incenso sul fuoco. Alla fine l'armatura di Marte si mise a
risuonare, e insieme a quel suono s'udì una voce, bassa e cupa, che mormorò: «Vittoria!». E di ciò Arcita
rese onore e gloria a Marte. E pieno di gioia e di speranza, se ne tornò in fretta al suo alloggio, lieto come
un uccello quando splende il sole.
A questo punto, tra Venere, la dea dell'amore, e Marte, il fiero e potente dio delle armi, scoppiò su nel cielo
una gran lite a causa delle promesse che ciascuno aveva fatto. Invano Giove s'affannò a metter pace; alla
fine dovette intervenire il pallido e freddo Saturno: costui sapeva tante vecchie storie e, con la sua antica
esperienza, trovò ben presto il modo di conciliare le due parti. E' proprio vero che la vecchiaia ha i suoi
vantaggi: con l'età s'acquistano insieme saggezza ed esperienza, e un vecchio potrà esser vinto nella corsa
ma non nel buonsenso... Così Saturno, per calmare ogni contesa e ogni timore, per quanto ciò fosse
contrario alla sua natura, si mise a cercare un rimedio per tutta questa controversia.
«Mia cara figlia Venere» disse Saturno «il mio corso, che compie un giro così lungo, ha più potere di quanto
non si pensi! Sotto il mio influsso la gente annega miseramente in mare, viene rinchiusa sottoterra in
prigione, strangolata e appesa per il collo; son opera mia i mormorii e le ribellioni dei contadini, (11) i
brontolii e i segreti avvelenamenti; son io che, quando mi trovo nel segno del Leone, vendico e castigo tutti
i torti, e mando alla rovina alti castelli, e faccio crollare torri e muraglie su minatori e falegnami! Perfino
Sansone ho ucciso sotto il peso della colonna! E son opera mia le fredde malattie, gli oscuri tradimenti e
tutte le vecchie congiure; basta il mio sguardo a generare pestilenza... Perciò non piangere: ci penserò io a
fare in modo che Palemone, il tuo cavaliere, ottenga la sua donna, come gli hai promesso. Anche se Marte
deve aiutare il suo protetto, dovrete pur fare la pace una buona volta: voi due non avete lo stesso
carattere, ecco perché oggi vi trovate in lite. Io però sono il tuo avo, e sono pronto al tuo volere: non
piangere più ora; vedrai che ogni tuo desiderio verrà appagato.»
Ma lasciamo gli dèi su in cielo, e Marte e Venere dea dell'amore, e passiamo invece al grande evento per il
quale in effetti abbiamo cominciato.
EXPLICIT TERCIA PARS.
SEQUITUR PARS QUARTA.
Ci fu gran festa quel giorno in Atene: la bella stagione di maggio rese la gente così allegra, che tutto quel
lunedì venne trascorso fra giostre e danze e nel nobile servizio di Venere. Siccome però sarebbe stato
necessario alzarsi presto per assistere al torneo, appena fu notte tutti andarono a riposare.
L'indomani, non era ancora neppure giorno che già dappertutto nelle locande si sentiva un gran scalpiccìo e
tintinnìo di cavalli e armature, e su destrieri e palafreni diverse schiere di baroni incominciarono ad avviarsi
a palazzo. Si vedevano bizzarre e fastose armature d'ogni tipo, tutte lavorate con fregi in oro e in acciaio;
scudi scintillanti, testiere e bardature; elmi dorati, usberghi e cotte stemmate; baroni in parato sui loro
corsieri, cavalieri del seguito e scudieri che inchiodavano lance e affibbiavano elmetti, mettevano
bandoliere agli scudi e allacciavano cinghie (dovunque occorresse qualcosa non restavano davvero in ozio);
cavalli che mordicchiavano sbavando le briglie d'oro e svelti armaioli che correvano avanti e indietro con
martelli e lime; militi a piedi e popolani armati di bastoni, così accalcati che a stento riuscivano a muoversi;
e poi zufoli, trombe, nacchere e chiarine che suonavano come in una sanguinosa battaglia.
Il palazzo era ormai pieno da cima a fondo di gente, tre qui, dieci là, a questionare e a far scommesse su
questo o quello dei cavalieri tebani; chi sosteneva che sarebbe andata in un modo e chi in un altro; chi
parteggiava per quello dalla barba nera, chi per il calvo e chi per quello dai capelli folti; questi dicevano che
il tale era d'aspetto fiero e si sarebbe battuto a fondo, quelli che il talaltro aveva un'ascia d'almeno venti
libbre... E continuarono così a far previsioni per un bel pezzo dopo che il sole era spuntato.
Il grande Teseo, svegliato dalle musiche e dal frastuono, rimase nelle stanze del suo splendido palazzo
finché non gli furono condotti, con uguali onori, i due cavalieri tebani. S'affacciò allora a un balcone, vestito
che pareva un dio in trono, mentre la gente ammassandosi accorreva per vederlo e rendergli omaggio e
ascoltarne gli ordini e le disposizioni. Un araldo da un palco ordinò con un «olà!» di far silenzio e, quando
ogni rumore fu cessato, annunziò così la volontà del potente duca:
«Il signor nostro, nella sua alta discrezione, ha pensato che sarebbe un inutile spargimento di nobile sangue
battersi in questo torneo come in una mortale battaglia: per impedire quindi che vi siano morti, ha deciso
di modificare il suo primo proposito. Nessuno dunque, pena la vita, potrà scagliare o portare dentro lo
stadio frecce, pugnali o stiletti; nessuno potrà estrarre o recare al fianco corte spade aguzze per
stoccheggiare; né, alcuno con lancia affilata potrà fare a cavallo più d'una corsa contro il suo avversario:
potrà battersi se vorrà, ma a piedi, e soltanto per difendersi. Chi avrà sfortuna verrà preso e non ucciso, ma
portato nel recinto appositamente collocato ai due lati, e dovrà rimanere fuori combattimento. Se per caso
cadrà prigioniero o rimarrà ucciso il capo d'una delle due parti, il torneo verrà subito sospeso. Dio sia con
voi! Presto, andate, ricordando che soltanto con spade lunghe o mazze potrete battervi... Ai vostri posti
ora! Son questi gli ordini del duca.»
Si levò al cielo un gran clamore e tutti esultando gridarono: «Dio salvi il buon duca che non vuole
spargimento di sangue!».
Poi, fra suoni di trombe e canti, il corteo s'avviò ordinatamente allo stadio, attraversando la grande città
parata non di poveri panni, ma di drappi d'oro. Innanzi, da gran signore, cavalcava il nobile duca con i due
tebani ai lati, e dietro venivano la regina ed Emilia, seguite dalla compagnia del tale e del talaltro secondo il
grado.
Attraversata dunque la città, essi giunsero per tempo nello stadio; non era ancora trascorso il primo
mattino che già tutti erano ai loro posti: Teseo seduto in alto nella sua magnificenza con la regina Ippolita,
poi Emilia ed altre dame intorno sulle scalinate, mentre tutto il seguito andava accalcandosi verso il resto
dei sedili. Intanto da occidente, attraverso la porta sotto il tempio di Marte, ecco entrare Arcita e i suoi
cento cavalieri con lo stendardo rosso; e nello stesso istante ecco Palemone sotto il tempio di Venere,
portare baldanzoso l'insegna bianca. Due schiere così perfettamente pari non si sarebbero mai trovate al
mondo, neanche a cercare in lungo e in largo; nessuno, per osservatore che fosse, avrebbe mai potuto dire
che l'una avesse sull'altra vantaggio di valore, d'età o di rango, tanto erano state accuratamente scelte. E si
disposero in due perfette file. Quando ad uno ad uno furono letti tutti i nomi, affinché sul numero non vi
fossero dubbi, vennero chiuse le porte e tutti a gran voce gridarono: «Fate ora il vostro dovere, giovani e
prodi cavalieri!».
Ecco, gli araldi smettono di trottare avanti e indietro. Squillano forte trombe e claroni. Da ponente e da
levante ferme s'abbassano le lance in resta, gli speroni pungono: ora si vede chi, giostrando, sa tenersi a
cavallo! Cozzano le aste, tremando contro i massicci scudi; qualcuno sente una punta penetrargli nello
sterno. Volano spuntoni in alto fino a venti piedi; le spade balzano con bagliori d'argento e scheggiano e
spaccano gli elmetti, il sangue sgorga a violenti fiotti rossi e sotto i colpi di poderose mazze le ossa si
spezzano. Qualcuno qui si caccia dove più ferve la mischia; là inciampano forti destrieri e tutto precipita,
mentre uno vi ruzzola sotto gli zoccoli come una palla; questo combatte a piedi col suo troncone e quello gli
si abbatte addosso col suo cavallo, mentre un altro è ferito e preso e trascinato a forza nel recinto, dove,
secondo i patti, è costretto a rimanere. Lo stesso accade ad uno dall'altra parte. Ogni tanto Teseo fa
riposare i combattenti, perché si riprendano e bevano se vogliono. I due tebani si sono ormai scontrati
ferendosi più d'una volta, e l'uno ha già smontato l'altro da cavallo: eppure, non c'è tigre nella valle di
Galafa che, derubata del suo piccolo tigrotto, si scagli contro il cacciatore con la ferocia con cui la gelosia
spinge ancora Arcita contro Palemone; e non c'è leone in Belmaria che, inseguito o reso furente dalla fame,
sia tanto avido del sangue della preda, quanto lo è Palemone d'uccidere il suo avversario Arcita! (12) Colpi
di gelosia mordono gli elmi, e il sangue sgorga rosso lungo i loro fianchi...
Ma, prima o poi, tutto a questo mondo finisce. Così, non era ancora tramontato il sole che il forte re
Emetrio abbrancò Palemone, mentre lottava con Arcita, e gli affondò la spada nelle carni; ma lui non volle
arrendersi, e in venti dovettero afferrarlo per trascinarlo fuori combattimento! Perfino il prode re Licurgo,
accorso in aiuto di Palemone, venne gettato a terra, ed anche re Emetrio, pur con tutta la sua forza, venne
scagliato di sella alla distanza d'una spada, tale fu il colpo che Palemone gli vibrò prima d'esser preso! Ma
tutto invano: venne ugualmente portato allo steccato; a nulla gli servì il suo valore e, una volta preso,
dovette per forza e secondo i patti rimaner fuori. Chi mai fu più infelice del povero Palemone ora che non
poteva più tornare a combattere?...
Ciò veduto, a quanti stavano ancora lottando Teseo gridò: «Oh, basta! E' finita! Intendo essere un buon
giudice, non un favoreggiatore. Emilia toccherà dunque al tebano Arcita, che per sua ventura ha lealmente
vinto».
La folla esplose allora in un clamore di gioia, così potente e alto, che lo stadio parve dovesse crollare.
Che poteva fare lassù in cielo la bella Venere? Che poteva dire ormai? Che cosa restava alla regina
dell'amore, non avendo ottenuto ciò che voleva, se non pianger tanto da far cadere le sue lacrime fin nello
stadio? E intanto diceva: «Ah, che vergogna!».
Disse Saturno: «Figliola, sta' tranquilla! E' vero che Marte ha ottenuto quel che voleva e il suo cavaliere
tutto ciò che aveva chiesto, ma, vedrai, anche tu sarai presto accontentata!».
I trombettieri che suonavano forte le trombe, gli araldi che urlavano e gridavano a gran voce, tutti erano
pieni di contentezza per la gioia di messer Arcita. Ma basta col chiasso; sentite piuttosto che prodigio
accadde improvvisamente.
Il fiero Arcita dunque, toltosi l'elmo per mostrare il volto, attraversava a cavallo la vasta arena guardando in
alto verso Emilia, ed ella volgeva a lui il suo sguardo amico (le donne, si sa, fan presto ad adattarsi ai favori
della fortuna...) dimostrando apertamente d'appartenere ormai tutta al suo cuore. Quand'ecco sbucar fuori
dalla terra una furia infernale, mandata da Plutone su richiesta di Saturno: il cavallo [di Arcita] terrorizzato
si mise a volteggiare e a far balzi e, così balzando, stramazzò su un lato: prima ancora che potesse
rendersene conto, Arcita venne scagliato a capofitto a terra, dove giacque come morto, col petto
squarciato dall'arcione, diventando ben presto nero come un carbone o un corvo, per il gran sangue che gli
affluiva al viso. Venne subito raccolto e trasportato, fra il cordoglio generale, al palazzo di Teseo: qui venne
estratto dall'armatura e deposto al più presto a letto, perché era ancora vivo e in sé e non faceva che
invocare Emilia.
Il duca Teseo intanto, con tutto il suo seguito, se ne tornò entro la città di Atene in tutta tranquillità e con
gran pompa. Benché fosse accaduta questa disgrazia, egli volle che tutti stessero allegri, tanto più che i
medici dicevano che Arcita non correva alcun pericolo e che presto sarebbe guarito del suo male. E c'era
poi un'altra cosa di cui esser contenti, che fra tutti nessuno era rimasto ucciso, anche se alcuni erano
malamente feriti e uno in particolare aveva lo sterno spezzato da una lancia; ma per curarsi le ferite e
rimettersi a posto le braccia rotte, ognuno aveva i suoi unguenti e i suoi amuleti, e tutti, pur di salvare la
pelle, si bevevano ogni sorta di decotti e perfino acqua di salvia... Il nobile duca dunque confortò e rese
onori a ciascuno nel migliore dei modi, e intrattenne in festa per tutta la notte i baroni stranieri, com'era
giusto, perché, trattandosi d'una giostra, d'un torneo, nessuno doveva ritenersi sconfitto. Non era una
disfatta: cadere da cavallo non è che un incidente; essere poi condotto a viva forza nel recinto
senz'arrendersi, abbrancato da venti cavalieri, un uomo solo, senza nessuno, trascinato per braccia, piedi e
dita, col cavallo spinto via a mazzate da fanti, arcieri e servitori, non si può imputare a disonore e tanto
meno si può chiamare vigliaccheria. Perciò il duca Teseo, per stroncare ogni eventuale rancore o invidia,
fece subito proclamare il pari valore dell'una e dell'altra schiera, essendo le due parti simili fra loro come
due gemelli; e distribuì doni a tutti secondo il grado, e per tre giorni proseguì la festa. Alla fine scortò i re
fuori città per un buon tratto di marcia, coi dovuti onori; e ciascuno se n'andò per la sua strada... addio,
buon viaggio! Basta dunque col torneo: torniamo invece a Palemone e Arcita.
Gonfio era il petto d'Arcita, e il male gli cresceva sempre più intorno al cuore. Il sangue raggrumato,
nonostante tutte le cure, corrompendosi gli rimaneva in corpo, e non c'erano né salassi, né ventose, né
decotti d'erbe che potessero essergli d'aiuto: la forza espulsiva o animale, detta appunto perciò forza
naturale, non riusciva a cacciar fuori ed espellere il veleno. Cominciarono ad enfiarsi i lobi polmonari, ed
ogni muscolo, dal petto in giù, venne infestato di veleno e corruzione. Non c'erano emetici né lassativi che
gli servissero a riacquistar vigore. E quando non può più far nulla la natura, addio medicina, portate pure il
malato in chiesa! Arcita, insomma, doveva morire. Egli perciò mandò a chiamare Emilia e il suo caro cugino
Palemone, e così disse, sentite:
«Ho un tale struggimento al cuore, che non posso neppur minimamente dirvi quanto io soffra, signora mia,
ma vi amo, e a voi, sopra ogni altra creatura al mondo, affido la cura dell'anima mia: ormai la mia vita non
può durare più a lungo... Ah, quanto dolore, quante atroci pene ho sofferto per voi, e per quanto tempo! Ed
ora, la morte... Ahimè, Emilia mia, ahimè, com'è duro lasciarsi! Ahimè, regina del mio cuore! Ahimè, mia
sposa, signora del mio cuore, unico scopo della mia vita! Cos'è mai questo mondo! Che cosa può volere
l'uomo? Ora è felice col suo amore, ed ora eccolo nella fredda tomba, solo, senza nessuno. Addio, mia
dolce nemica, Emilia mia! Prendetemi un poco fra le vostre braccia, per amor di Dio, e ascoltate ciò che sto
per dirvi. A lungo ho portato odio e rancore contro questo mio cugino Palemone, per amor vostro e gelosia.
Ma sia Giove guida all'anima mia, com'è vero che quanto a nobili qualità... vale a dire, lealtà, onore,
cavalleria, saggezza, umiltà, rango e nobile casato, liberalità, tutte insomma le qualità del cavaliere... salvi
Giove l'anima mia dicevo, non ho mai conosciuto al mondo nessuno più degno di essere amato di
Palemone, il quale vi è devoto e sempre lo sarà per tutta la vita. Perciò, se un giorno doveste mai sposarvi,
non dimenticate quel gentiluomo che è Palemone!»
Ciò detto, cominciò a mancargli la parola, e dai piedi fino al petto l'avvolse il freddo della morte, che ormai
l'aveva vinto; anche alle braccia la forza venne meno e la vita a poco a poco scomparve. Allora lo spirito che
albergava nel suo animo malato e dolorante cominciò a venir meno, e la morte gli arrivò al cuore. Gli si
velarono gli occhi e gli mancò il respiro, ma volse ancora lo sguardo alla sua donna, e le sue ultime parole
furono: «Pietà, Emilia!». E la sua anima cambiò dimora, e se ne andò... non vi saprei dire dove, perché io
non ci sono mai stato. Perciò mi fermo, non sono un indovino; d'anime non me ne intendo, e non mi piace
riferire le opinioni di coloro che descrivono dove esse abitano. Arcita intanto ormai è freddo, e Marte
accompagni l'anima sua! Torniamo ad Emilia piuttosto...
Emilia singhiozzava accanto a Palemone che gemeva, e Teseo dovette affrettarsi a sorreggere la cognata
che stava per svenire e accompagnarla via dal morto. A che serve sciupare la giornata per dirvi come lei
piangesse sera e mattina? In simili casi, quando cioè il loro uomo se ne va via per sempre, le donne si
disperano tutte più o meno allo stesso modo, o ne fanno una malattia tale, che poi finiscono per andarsene
anche loro.
Ma anche in tutta la città infiniti furono i pianti e i lamenti per la morte di questo tebano. Giovani e vecchi,
uomini e bambini, tutti per lui piangevano: tanto pianto non vi fu nemmeno quando Ettore, appena ucciso,
venne portato a Troia. Ah, quanti ne provarono pietà e si graffiarono le guance e si strapparono i capelli!
«Perché sei morto?» gridavano le donne. «Tu eri ricco e avevi la tua Emilia!»
Teseo, poi, nessuno sarebbe riuscito a confortarlo se non fosse stato per il suo vecchio padre Egeo, il quale
conosceva bene le vicende di questo mondo e ne aveva visti di mutamenti in vita sua, la gioia che s'alterna
al dolore e il dolore alla gioia, e lo dimostrava con i suoi esempi e i suoi paragoni. «Come non è mai morto
nessuno» diceva «senza che almeno sia vissuto per qualche tempo su questa terra, così nessuno è mai
vissuto al mondo senza dover prima o poi morire. Questo mondo non è che una via di passaggio piena di
dolore, e noi siamo pellegrini che vengono e che vanno. Soltanto la morte può metter fine ai nostri guai.» E
tante altre cose diceva ancora a questo proposito, esortando tutti saggiamente alla rassegnazione.
Il duca Teseo si mise allora a pensare dove meglio si potesse seppellire il buon Arcita, nel modo più
onorevole per il suo rango. Alla fine decise che proprio dove prima Arcita e Palemone s'erano combattuti
per amore, in quel bosco tranquillo e verde dove per amore Arcita aveva provato tanti desideri e affanni e
cocenti ardori, s'innalzasse ora il rogo per la celebrazione del rito funebre. Diede subito ordine d'abbattere
e tagliare antiche querce e di disporle in file e in cataste, pronte per bruciare; e i suoi ufficiali, via di corsa al
suo comando.
Teseo mandò poi a prendere una bara e la ricoperse tutta con un drappo d'oro, il più sontuoso che avesse;
e della stessa stoffa rivestì Arcita: gli mise i guanti bianchi, una corona di verde alloro in testa, e in mano
una spada lucida e aguzza. E lo depose, a volto scoperto, sulla bara, piangendo molto pietosamente. E
affinché tutti potessero vedere il prode cavaliere, appena fu giorno lo fece trasportare nella gran sala, che
già risuonava di grida e di lamenti.
Giunse allora, sconsolato, il tebano Palemone con barba arruffata e gl'ispidi capelli coperti di cenere e gli
abiti neri cosparsi di lacrime; e, superando tutti nel pianto, giunse Emilia, la più dolente del corteo. Affinché
la funzione riuscisse più solenne e degna, il duca Teseo fece condurre tre cavalli bardati d'acciaio
scintillante e coperti delle armi di messer Arcita; su questi cavalli, ch'erano enormi e bianchi, fece montare
tre uomini, dei quali uno recava lo scudo, un altro reggeva in mano la lancia e il terzo portava l'arco turco
con faretra e bardature d'oro brunito. E tutti, cavalcando mestamente al passo, s'avviarono verso il bosco
come ora sentirete.
Portavano a spalla la bara i più nobili fra i greci presenti, procedendo a passi lenti, con gli occhi umidi e
rossi, per la via principale della città ch'era tutta parata di nero e ricoperta dello stesso colore fin sul
selciato. Avanzava sul lato destro il vecchio Egeo, sull'altro il duca Teseo, portando in mano vasi d'oro
finissimo, pieni di miele, latte, sangue e vino; veniva poi Palemone con un gran seguito, e dietro di lui la
dolente Emilia che recava in mano, secondo gli usi del tempo, il fuoco per la celebrazione del rito funebre.
Fervevano ormai i preparativi per la funzione; la catasta con la sua verde cima toccava il cielo e s'estendeva
in larghezza per venti braccia tanto si spandevano i rami. Prima vennero sistemati diversi carichi di strame...
Ma ora non starò a raccontarvi come venisse innalzata quella catasta, e quali fossero i nomi degli alberi che
vennero spaccati oltre la quercia, l'abete, la betulla, il tremolo, l'ontàno, il leccio, il pioppo, il salice, l'olmo,
il platano, il frassino, il bosso, il castagno, il tiglio, l'alloro, l'acero, il pruno, il faggio, il nocciolo, il tasso e il
còrniolo; né come le divinità corressero di qua e di là, private delle loro abitazioni dove vivevano in
tranquillità e pace, ninfe, fauni e amadriadi; né come le bestie e tutti gli uccelli fuggissero atterriti quando il
bosco fu abbattuto; né come il terreno stesso, non abituato a veder la luce del sole, fosse sgomento da
tanto chiarore; né come il fuoco fosse attizzato prima con strame e poi con tronchi secchi spaccati in tre, e
poi con legna verde e spezie, e poi con drappi d'oro e pietre preziose, e ghirlande pendule di molti fiori,
mirra e incenso dal forte profumo; né come Arcita fra tutto ciò giacesse o quanta ricchezza ne circondasse il
corpo; né come Emilia, secondo le usanze, accendesse il fuoco del servizio funebre, né come svenisse
quando s'accese il fuoco, né ciò che disse o quale desiderio esprimesse; né quali gioielli fossero gettati
allora nel fuoco, quando il fuoco ormai era alto e divampava; né come alcuni vi gettassero lo scudo, altri la
lancia o le stesse vesti che indossavano, e coppe piene di vino, latte e sangue, che bruciavano come fossero
legno; né come i Greci, in vasto corteo, tre volte cavalcassero attorno al fuoco partendo da sinistra con gran
clamore, tre volte facendo risuonar le lance, o come tre volte le donne si mettessero a gridare; né come
Emilia fosse condotta a casa; né come Arcita fosse ridotto a un po' di cenere fredda; né come la veglia
funebre continuasse tutta la notte. Non starò a descrivervi come i Greci celebrassero i funebri ludi: chi nudo
e unto d'olio meglio lottasse o meglio si comportasse in altre gare; né mi dilungherò su come, terminati i
ludi, tutti se ne tornassero ad Atene... Ma è veramente ora ch'io venga al punto e metta fine a questo mio
lungo racconto!
Col tempo e col passar degli anni cessarono dunque il lutto e le lacrime dei Greci. Fu allora mi pare, che si
tenne ad Atene un parlamento per trattare di certe faccende e questioni, fra le quali l'alleanza con certi
paesi e la completa sottomissione dei tebani. E perciò il nobile Teseo mandò a chiamare il gentile
Palemone, senza tuttavia avvertirlo di che si trattasse, ed egli, ancora in lutto e vestito di nero, accorse
pronto al suo comando. Teseo intanto aveva fatto venire anche Emilia. Quando tutti si furono seduti e
intorno si fece silenzio, prima che dal suo saggio petto uscisse qualche parola, Teseo attese un poco
volgendo intorno a sé lo sguardo, e mesto in volto sospirò silenziosamente, ed esprimendo finalmente il
suo volere disse così:
«Quando il Motore Primo lassù in cielo creò all'inizio la bella catena d'amore, raggiunse nel suo nobile
intento un grande risultato; ben sapeva quel che faceva e a qual fine operava: con quella bella catena
d'amore egli univa insieme fuoco, aria, acqua e terra con legami indissolubili che non si sarebbero più
potuti infrangere. Ebbene, quello stesso Principe e Motore ha stabilito un certo numero di giorni e una
certa durata a tutto ciò che viene generato quaggiù in questo misero mondo: oltre quel limite non si può
andare, anzi il numero di tali giorni può benissimo abbreviarsi! Non occorre che vi citi testi autorevoli,
perché ciò è provato dall'esperienza. Ma lasciate ch'io spieghi meglio il mio pensiero. Dall'ordinamento di
tutte le cose si capisce chiaramente che quel Motore è immutabile ed eterno; e si vede benissimo, a meno
che non si sia stolti, che ogni parte proviene dal tutto, perché la natura non può aver avuto origine da una
parte o porzione di cosa, ma da qualcosa di perfetto e stabile, degradando poi fino a diventar corruttibile.
Egli perciò, nella sua saggia provvidenza, ha disposto che ogni specie e progressione di cosa duri per un
certo tempo e non in eterno: che ciò sia vero si può comprendere e veder coi propri occhi. Guardate la
quercia: dal momento in cui spunta è così lenta a crescere ed ha così lunga vita, ma alla fine anche
quest'albero soccombe. Pensate alla dura pietra sotto i nostri piedi, sulla quale calchiamo i passi e
camminiamo: anch'essa si consuma sul selciato; così il vasto fiume talvolta si dissecca improvvisamente, e si
vedono città intere declinare e scomparire: tutto, come vedete, ha una fine. Lo stesso accade all'uomo e
alla donna: prima o poi, in gioventù o in vecchiaia, tutti devono morire, re o schiavi che siano; chi nel suo
letto, chi in fondo al mare, chi in aperta campagna. Non c'è scampo, tutto va in quella direzione, ed ogni
cosa deve per forza perire. E chi determina tutto ciò se non Giove sovrano, principio e causa di tutte le
cose, che tutto trasforma secondo il suo volere da cui tutto in effetti deriva? Non c'è creatura al mondo che
possa opporsi a questo. Allora tanto vale far di necessità virtù, e accettare volentieri ciò che comunque non
si può evitare e che prima o poi spetta a tutti. Pazzo è chi si lamenta o crede di potersi ribellare
all'inevitabile! Per un uomo è più onorevole morire nel fiore della propria integrità, quand'è sicuro di poter
lasciare un buon nome e di non aver recato ignominia a sé o all'amico; e l'amico dovrebbe rallegrarsi della
sua morte, molto più ora che onorato esala l'ultimo respiro, che non più tardi quando il suo nome sarà reso
sbiadito dal tempo e il suo valore dimenticato. Meglio dunque è morire quando migliore è la fama. Opporsi
a ciò è pura ostinatezza. Perché dunque ci lamentiamo e siamo afflitti se il buon Arcita, quel fiore di
cavaliere, seguendo virtù e onore se n'è andato da quest'orrida prigione che è la vita? Perché suo cugino e
la sua sposa si lamentano se colui che li amava sta meglio di loro? Dovrebbe ancora di ciò ringraziarli? No,
perdio, no di certo, perché essi offendono la sua anima e se stessi se ancora non riescono a modificare i
loro sentimenti... Che posso dunque concludere da questo lungo discorso? Soltanto questo: che dopo tanto
dolore dobbiamo ormai cercare d'esser contenti, ringraziando Giove per tutti i suoi doni. E prima che di qui
ce n'andiamo, propongo che di due dolori facciamo una sola gioia completa e duratura. Incominciamo
dunque da dove il dolore è maggiore...» E rivoltosi a Emilia disse: «Sorella, a voi andrebbero tutto il mio
plauso e l'approvazione unanime di questa mia corte, se il nobile Palemone, vostro cavaliere rimasto a voi
devoto col cuore e con tutte le sue forze dal primo giorno che lo conosceste, ottenesse finalmente la grazia
della pietà vostra e voi lo prendeste per vostro sposo e signore. Via, porgetemi la mano, vi prego, e
mostrateci la vostra pietà di donna... E' figlio d'un fratello di re, perdio! Ma se anche fosse soltanto un
povero baccelliere, v'è rimasto devoto per tanti anni ed ha sofferto per voi tante avversità, che un po' di
considerazione dovrebbe meritarla, mi pare; e la pietà vera dovrebbe saper andare oltre le convenienze...».
E al cavaliere Palemone disse: «Credo che per voi non occorrano sermoni per farvi acconsentire.
Avvicinatevi, dunque, e prendete per mano la vostra donna».
Fra loro fu dunque stretto quel patto che si chiama sposalizio o matrimonio, davanti alla corte e a tutta la
nobiltà. E così finalmente, fra allegria e canti, Palemone ottenne in moglie Emilia, e Dio creatore di
quest'immenso mondo gli concedette quell'amore che davvero s'era guadagnato. E tutto andò a finir bene
per Palemone, che visse in letizia, prosperità e salute: Emilia prese ad amarlo così teneramente e lui verso
di lei fu così devoto, che fra loro non vi fu mai una parola di gelosia o altro cruccio. Così termina la storia di
Palemone ed Emilia, e Dio salvi tutta questa bella compagnia! Amen.
Qui termina il Racconto del Cavaliere.
Note del Racconto del Cavaliere.
(*) "Il Racconto del Cavaliere", liberamente adattato dal "Teseida" del Boccaccio, fu composto prima ancora
che l'idea dei "Canterbury Tales" prendesse corpo, probabilmente tra il 1382 e il 1387.
Nota 1. Il Medioevo s'appropria dei grandi personaggi dell'antichità e, privo com'è del senso della
prospettiva storica, li trasforma secondo i modi medievali. Così il mitico eroe Teseo diventa «duca».
Nota 2. «Filostrato» (= «vinto d'amore») è tolto direttamente dall'omonima opera dei Boccaccio, ben nota
al Chaucer come fonte del suo "Troylus and Criseyde".
Nota 3. L'immagine del destino, ministro generale della divina provvidenza, richiama alla mente la «general
ministra e duce» di Dante ("Inferno", VII, 78). Si tratta dello stesso concetto medievale della fortuna,
assolutamente opposto a quello umanistico-rinascimentale, che si svilupperà da Pico della Mirandola a
Machiavelli.
Nota 4. Richiamo alla nota dottrina dei poeti del "dolce stil novo": «Al cor gentile ripara sempre Amore»
come dice la famosa canzone di Guido Guinizelli.
Nota 5. Giulio Cesare.
Nota 6. "Puella" e "Rubetis" sono, in geomanzia, i nomi di due figure che rappresentano due costellazioni
celesti. La prima significa "Marte retrogrado", la seconda "Marte diretto".
Nota 7. Arturo, presso la costellazione dell'Orsa Maggiore.
Nota 8. Il Cavaliere fa questa osservazione, essendosi accorto che il suo inventario di moderne armature è
anacronistico per i tempi di Teseo.
Nota 9. In realtà il sacrificio di Emilia è descritto dal Boccaccio ("Teseida", VII, 76 segg.), e non da Stazio. Il
silenzio del Chaucer nei riguardi dei certaldese è stato molto discusso dagli studiosi, ma rimane ancora un
enigma per i critici.
Nota 10. La dea della castità e della caccia era venerata come Luna in cielo, come Diana sulla terra e come
Proserpina negli inferi.
Nota 11. Accenno alla famosa ribellione dei contadini del 1381.
Nota 12. Ritornano le immagini della tigre e del leone, già incontrate nel primo duello fra Arcita e
Palemone, prima che Teseo li dividesse.
Prologo del Mugnaio.
Qui seguono le parole scambiate fra l'Oste e il Mugnaio.
Quando il Cavaliere ebbe così narrato il suo racconto, non vi fu giovane o vecchio in tutta la compagnia,
specie se appartenente alla classe gentilizia, il quale non dicesse che quella era una nobile storia, degna
d'essere ricordata. Il nostro Oste se la rise e disse: «Finché andiamo così, va benone! Il sacco dunque è
aperto. Vediamo a chi tocca narrare un altro racconto ora che il gioco è incominciato così bene. Sentiamo
un po' voi, messer Monaco, se siete capace di contraccambiare il racconto del Cavaliere...».
Ma il Mugnaio, tutto pallido per il gran bere, a mala pena reggendosi a cavallo, senza togliersi né il
cappuccio né il cappello e senza star dietro per deferenza a nessuno, si mise con voce da Pilato (1) a
strepitare e a bestemmiare: «Per le braccia, il sangue e le ossa (2)... lo so io un nobile racconto adatto
all'occasione, col quale contraccambiare ora quello del Cavaliere!».
Il nostro Oste, vedendo che aveva bevuto troppa birra, gli disse: «Aspetta, mio caro fratello Robin, prima ce
ne racconterà uno, una persona più importante. Aspetta, facciamo le cose con ordine».
«No, per l'anima di Dio!» fece quello. «Adesso parlo io, altrimenti me ne vado per la mia strada!»
«E allora al diavolo, parla!» rispose il nostro Oste. «Sei proprio pazzo, hai perduto la testa ...»
«Ecco, state tutti quanti a sentire!» disse il Mugnaio. «Ma prima voglio farvi una dichiarazione: io sono
sbronzo, lo sento dalla voce; perciò, se parlo o m'esprimo male, prendetevela con la birra di Southwark, vi
prego... Vi racconterò dunque la vita e la pia storia, d'un falegname e di sua moglie, e come uno studente
facesse becco quell'artigiano.»
Lo rintuzzò il Fattore (3) dicendo: «Piantala con i tuoi discorsi! Lascia stare le tue sconcezze da ignorante
ubriacone! Peccato e gran follia è ingiuriare o diffamare un uomo, trascinando nella stessa infamia donne
sposate. Faresti meglio a parlare d'altro».
Il Mugnaio ubriaco ribatté subito e disse: «Mio caro fratello Osvaldo, solo chi non ha moglie è sicuro di non
essere cornuto! Con ciò non dico che tu lo sia... d'ottime mogli ce ne son tante: contro una cattiva, mille ce
ne sono sempre buone; e tu dovresti saperlo, se non sei matto. Perché allora te la prendi tanto col mio
racconto? Anch'io, perdio, ho una moglie, come ce l'hai tu: eppure, per i buoi del mio aratro, non voglio
mica prendermela più del necessario, fino al punto di credermi... uno di loro! Non voglio neppure pensarci.
Un marito non deve ficcare il naso nei segreti di Dio, e neppure in quelli di sua moglie: purché trovi il suo
ben di Dio, non c'è bisogno che stia a fare tante inchieste».
Che dire di più? Il Mugnaio non volle per nessun motivo moderare le parole, ma narrò il suo racconto da
villano pari suo. Ed io credo che sia mio dovere ripeterlo qui tale e quale. Non vorrei però, per amor di Dio,
che qualche gentil persona mi ritenesse in mala fede, perché i racconti devo proprio riferirli tutti belli o
brutti che siano, altrimenti in parte falserei il mio scopo. Chi perciò non vuol sentire questo, volti pagina e
ne scelga un altro: potrà trovarne ancora certi, lunghi o brevi a piacimento, che invece trattano di nobiltà,
mora
le e religione. Non prendetevela dunque con me se scegliete male! Il Mugnaio era un villano, questo lo
sapete, e così fra gli altri pure il Fattore, e tutt'e due raccontarono ribalderie. Siete avvisati, non date a me
la colpa, e poi, via, non bisogna prendere uno scherzo sul serio!
RACCONTO DEL MUGNAIO (*).
Qui comincia il Racconto del Mugnaio.
Viveva una volta a Oxford un ricco gaglioffo che teneva ospiti a pensione e di mestiere faceva il falegname.
Abitava appunto presso di lui un povero studente, il quale aveva fatto studi da letterato, ma aveva una gran
passione per l'astrologia e sapeva con certi suoi calcoli dar risposta a qualsiasi quesito: gli si chiedesse in
quali ore il tempo sarebbe stato asciutto e in quali bagnato, o gli si domandasse quel che sarebbe accaduto
di tante cose che non sto ora a elencarvi.
Questo studente veniva chiamato Nicola il cortese. Conosceva infatti tutti i segreti dell'amore e del piacere,
ma era così cauto e riservato, che a vederlo pareva timido come una verginella. Aveva in quella casa una
camera tutta per sé, senza bisogno di spartirla con altri, pulitissima e adorna d'erbe odorose; egli stesso era
profumato come un tubero di liquirizia o zenzero! Ben sistemati su alcune scansìe alla testa del letto aveva
il suo "Almagesto" (4), con altri libri piccoli e grandi, il suo astrolabio, (5) a lui utilissimo, e le sue tavole
numeriche. La cassapanca era ricoperta d'una stoffa rossa, e sopra c'era posato un bel salterio col quale alla
sera egli cantava così dolcemente, che tutta la stanza ne risuonava: cantava l'"Angelus ad virginem", (6) e
poi cantava l'inno del re... insomma, aveva mille benedizioni il suo allegro gargarozzo! E così si passava
beatamente il tempo, quello studente, vivendo della sua retta e dell'aiuto di amici.
Il falegname aveva da poco sposato una donna che amava più della propria vita e che aveva diciott'anni.
Gelosissimo, la teneva chiusa stretta in gabbia, perché lei era una giovane scavezzacollo, mentre lui era
vecchio e temeva di restar cornuto. Balordo di mente com'era, non conosceva di sicuro Catone, il quale dice
che bisogna sposarsi fra pari e che sposandosi bisogna tener conto delle proprie condizioni, giacché spesso
gioventù e vecchiaia non si combinano. Ma ormai c'era cascato, e doveva perciò sopportare i propri guai,
come fanno tutti.
Bella era la mogliettina, con il corpo snello e agile come un furetto. Portava una cintura a strisce, tutta di
seta, e sui fianchi un grembiule pieghettato, bianco come il latte fresco del mattino. Anche la sua camicetta
era bianca, e tutta ricamata, davanti e dietro e intorno al colletto, di seta nera come il carbone, sia
all'interno che all'esterno. Le orlature della sua cuffia bianca erano della stessa foggia del colletto, con un
grosso fiocco di seta bello alto. Certo aveva l'occhio vanerello, con due sopracciglia sottili e ben speluzzate,
inarcate e nere come una prugnola. A vederla, era più gaia d'un giovane pero in fiore e più morbida della
lana d'un agnello. Le pendeva dalla cintura una borsa di cuoio, con tasselli di seta e palline d'ottone che
sembravano perle. Nessuno al mondo, neanche a cercare da tutte le parti, avrebbe mai potuto immaginarsi
una pupa così graziosa o una donnina come quella. La sua carnagione era più splendente della moneta
uscita fresca fresca dal conio della Torre (7). In quanto a voce, la sua era acuta e armoniosa come quella
d'una rondine posata sul granaio. E inoltre sgambettava e giocava come un capriolo o una manzetta che
corre dietro alla madre. Aveva la bocca dolce come il rosolio o il miele, oppure come le mele distese sul
fieno o nella paglia. Era bizzosa come una vispa cavallina, lunga come un albero maestro e dritta come un
fuso. Portava in basso sul colletto una spilla grossa come la borchia d'uno scudo; le scarpe affibbiate in alto
lungo la gamba. Insomma era una mammola, una pupillina, degna di stare nel letto d'un signore e di
sposare un ricco possidente.
Ebbene, messeri e signori miei, volle il caso che un giorno il cortese Nicola si mettesse a scherzare e a
trastullarsi con questa donnina, mentre il marito si trovava ad Osney. (8) Gli studenti, si sa, son birbe e
furbacchioni... Ad un certo punto quello, quatto quatto, l'acchiappò per quella cosa e le disse: «Presto, se
non me ne tolgo la voglia, con tutta questa mia passione nascosta, amor mio, io scoppio!». E stringendola
forte alle cosce, soggiunse: «Amami subito, amore, altrimenti muoio e che Dio mi salvi!».
Lei spiccò un salto come un puledro chiuso in un recinto e, voltando via velocemente la testa, disse: «Non ti
bacerò mai, parola mia!
Basta, smettila... smettila, Nicola, altrimenti griderò e chiamerò aiuto! Via, togli le mani, per cortesia!».
Nicola allora incominciò a chiederle scusa, e le parlò così abilmente e fu così efficace nelle sue proposte,
che lei alla fine gli promise il suo amore e gli giurò, per San Tommaso di Kent, (9) che si sarebbe messa a sua
disposizione appena avesse trovato il momento buono. «Mio marito è così geloso, che se tu non sai
aspettare e te ne fai accorgere, io sono spacciata» disse; «bisogna che tu sia molto prudente in questa
faccenda.»
«Non preoccuparti» disse Nicola; «uno studente avrebbe speso piuttosto male il suo tempo, se non
riuscisse a darla da intendere a un falegname!»
E si misero dunque d'accordo, ripromettendosi, come vi ho già detto, d'aspettare il momento buono.
Avendo così stabilito tutto, Nicola la palpeggiò bene per le anche e dolcemente la baciò, poi prese il suo
salterio e attaccò a suonare e a cantare.
Accadeva poi che alla festa questa brava moglie si recasse in parrocchia per le sue pratiche cristiane, con la
fronte che le risplendeva chiara come il giorno, tutta lavata dopo il lavoro... Ebbene in quella chiesa c'era un
sagrestano che si chiamava Assalonne. (10) Aveva infatti i capelli ricci che brillavano come l'oro, slargati a
forma di grosso ventaglio aperto, con la sua bella riga dritta e precisa; la carnagione rossa, e gli occhi chiari
come quelli delle oche. Sulle scarpe portava intagliato il rosone di San Paolo (11) e andava elegantemente a
spasso in brache rosse. Era sempre tutto lindo e attillato, con una tunica di color chiaro e una fila bella
spessa di occhielli, e sopra, una leggera cotta, bianca come un fiore sul ramo. Che Dio m'abbia in gloria, era
un ragazzo sempre allegro! Sapeva inoltre praticar salassi, tagliare i capelli o fare la barba, e compilare un
contratto di terreni o una ricevuta. Era capace di ballare alla moda di Oxford in una ventina di maniere,
dimenando le gambe per tutti i versi; suonava canzoni col ribechino, accompagnandosi talvolta con una
vocetta acuta, e sapeva suonar bene anche la chitarra. Non c'era in tutta la città birreria o bettola dove lui
non bazzicasse con piacere, specie se la locandiera era una donna allegra. Ma, a dir proprio la verità, gli
facevano un po' schifo le scoregge, e di parlare non gli andava tanto...
A parte ciò, Assalonne era un tipo vivace e gaio, e alla festa andava con l'incensiere a dar l'incenso alle
donne della parrocchia, lanciando a tutte sguardi amorosi, specialmente alla moglie del falegname. Solo a
guardarla, la vita gli pareva bella: era così attraente, dolce e appetitosa... vi assicuro che se lei fosse stata un
topo e lui un gatto avrebbe fatto presto ad acchiapparla! Così vivo era il desiderio nel suo cuore, che ad un
certo punto quest'allegro sacrista, Assalonne insomma, non volle più saperne delle offerte di altre donne e
cortesemente disse di no a tutte.
Una notte che la luna splendeva bella chiara, Assalonne si prese la chitarra e pensò di stare a veglia del suo
amore. Tutto felice e innamorato, se ne andò in giro finché non arrivò alla casa del falegname, poco dopo il
canto del gallo, e si appoggiò vicino ad un balcone contro il muro. Poi incominciò a cantare col suo vocino
delicato:
«Bella signora,
Se questa è la tua volontà,
Abbi, ti prego, di me pietà!»
E intanto s'accompagnava con la chitarra. Il falegname si svegliò e, sentendolo cantare, si rivolse subito alla
moglie e le disse: «Oh! Alison! lo senti Assalonne che canta sotto il muro di casa nostra?».
E lei pronta replicò al marito: «Sì, Giovanni, perdio se lo sento!».
La cosa passò liscia... meglio di così, come volete che andasse?
Da allora l'allegro Assalonne si mise a corteggiarla senza più darsi pace: rimaneva sveglio tutta la notte e
tutto il giorno, si pettinava i suoi grossi boccoli facendosi bello, le mandava dietro mezzani e terze persone
giurando che sarebbe stato suo schiavo, cantava gorgheggiando come un usignolo, le inviava vin dolce,
idromele, birra aromatica e cialde tolte croccanti dai tizzoni e, siccome lei era in città, le offriva anche dei
soldi perché si comprasse qualcosa. A questo mondo c'è chi si vince con la ricchezza, chi con le botte e chi
con la gentilezza... Una volta, per dimostrarle la sua destrezza e la sua bravura, salì perfino in cima a un
palco a recitare Erode. (12) Ma a che gli serviva tutto questo? Lei era talmente innamorata del cortese
Nicola, che Assalonne poteva giusto suonare il corno del caprone... Con tutto il suo da farsi, non riceveva
che scherno: lei lo trattava da gonzo e tutta la sua serietà prendeva in ridere. Eh, non sono storie, ha
ragione quel proverbio che dice: «Chi è astuto e vicino, riesce sempre a fare odiare chi è lontano». Infatti
per quanto Assalonne impazzisse e infuriasse, trovandosi lontano dagli occhi di lei, Nicola a lei vicino lo
metteva in ombra. Ed ora, forza, cortese Nicola! Assalonne intanto può giusto frignare e cantar lamentele!
Un sabato capitò che il falegname fosse di nuovo ad Osney. Allora il cortese Nicola e Alison, mettendosi
d'accordo, stabilirono che Nicola avrebbe organizzato uno scherzo per prendere in giro quel balordo marito
geloso: se la burla fosse riuscita bene, lei avrebbe dormito tutta una notte fra le braccia di lui, giacché in
fondo era questo il desiderio di tutt'e due... E subito, senza tante parole e senza perdere tempo, Nicola
quatto quatto si portò in camera sua da mangiare e da bere per un giorno o due. A lei raccomandò che, se
mai il marito le domandasse di lui Nicola, gli dicesse che non sapeva dov'era, che non lo aveva visto
apparire in tutto il giorno e che anzi credeva fosse ammalato, perché la serva, per quanto avesse chiamato,
non l'aveva sentito e non c'era stato verso di farlo rispondere.
Per tutto quel sabato le cose andarono lisce: Nicola se ne rimase zitto in camera sua, mangiando e
dormendo e facendo gli affari suoi fino alla domenica al tramonto.
Quel balordo di falegname ebbe allora una gran preoccupazione per Nicola o per ciò che poteva essergli
accaduto, e disse: «Per San Tommaso, ho paura che Nicola non stia bene davvero... Dio non voglia che
improvvisamente sia crepato! Certo, a questo mondo non c'è mai nulla di sicuro: proprio oggi ho visto
portare morto in chiesa uno che lunedì scorso avevo visto al lavoro...». E ad un tratto disse al suo garzone:
«Va' un po' su dalla porta a chiamarlo, e picchia con un sasso: guarda che succede e poi corri subito a
dirmelo».
Il servo andò su difilato e, piantandosi davanti alla porta della stanza, si mise a gridare e a bussare come un
matto: «Ehi, ehi, che cosa fate, mastro Nicola? Come potete dormire tutto il santo giorno?».
Tutto inutile, non ebbe una parola di risposta. Però giù in fondo a un'asse della porta trovò il buco dove di
solito passava il gatto e, mettendosi a guardare intentamente da quel buco, alla fine riuscì a vedere Nicola,
il quale stava seduto con la bocca spalancata per aria, come se dovesse scrutare la luna nuova. E allora
scese giù di corsa a dire al suo padrone in che stato aveva trovato quel cristiano!
Il falegname si fece il segno della croce e disse: «Aiutaci tu, Santa Frideswide! (13) Non si sa mai che cosa ci
deve capitare. Questo qui, con la sua astronomia, è diventato matto o è caduto in delirio... lo sapevo che
sarebbe andata così! Gli uomini non dovrebbero mai indagare i segreti di Dio: beato l'ignorante che
conosce solo il Credo! Già un altro studente andò a finire così con la sua astronomia: camminava per i
campi per vedere, dalle stelle, quello che sarebbe successo, e andò a finire in un pozzo, perché quello non
l'aveva visto! Ma adesso, San Tommaso benedetto, mi rincresce proprio per il cortese Nicola. Bisogna che
gliene dica due, per via di tutti questi suoi studi, ma chissà se farò ancora in tempo, Cristo re del cielo!...
Robin, cercami un bastone: io farò leva sotto, e tu tirerai su la porta... Vedrai che la smetterà di
almanaccare!». E andò di corsa alla porta della camera.
Il garzone era un pezzo d'uomo, proprio quello che ci voleva, e in un attimo sollevò dai cardini la porta, che
in quattro e quattr'otto sbatté per terra. Nicola era ancora là seduto, fermo come un sasso, sempre con la
bocca in aria, spalancata.
Il falegname, pensando che fosse spiritato, lo afferrò di peso per le spalle e si mise a scuoterlo forte e a
gridare a squarciagola: «Ehi Nicola, ehi, ehi! Ma via, guarda un po' giù! Svegliati e pensa piuttosto alla
passione di Cristo... Io ti segno col segno della croce contro le streghe e gli spiriti maligni!» E andò di corsa
intorno ai quattro canti della casa e sugli scalini della porta, a recitare lo scongiuro della notte:
«Gesù e San Benedetto
liberate questo tetto
dagli spiriti maligni!
E tu, sorella di San Pietro,
la nera notte manda indietro
con un bianco Paternoster!» (14).
Alla fine il cortese Nicola si mise a sospirare penosamente e disse: «Ohimè! Ma proprio tutto il mondo
dev'essere improvvisamente sterminato?».
Il falegname gli rispose: «Ma che dici? Ehi, pensa piuttosto a Dio, come facciamo noi che lavoriamo!».
Nicola continuò: «Portami da bere... poi voglio dirti in segreto una certa cosa che riguarda me e te... non ne
parlerò con nessun altro, sta' tranquillo!».
Il falegname andò giù e ritornò portando un litro abbondante di birra, di quella forte; e quando ognuno
ebbe bevuta la sua dose, Nicola chiuse ben bene la porta e si fece sedere il falegname vicino. E gli disse:
«Giovanni, mio caro amato padrone di casa, tu mi devi giurare, sul tuo onore, che a nessuno rivelerai
questo segreto; perché quello che ti dico è un segreto di Cristo e, se vai a raccontarlo in giro, sei perduto.
Difatti, se mi tradisci, la punizione che avrai sarà quella di diventar matto!».
«No, Cristo, per il suo santo sangue, me ne liberi!» fece quell'insensato. «Io non sono un pettegolo e ti
assicuro che non mi piace andare in giro a far chiacchiere. Dimmi pure quello che vuoi... non andrò certo a
riferirlo a delle donne o dei bambini, in nome di Colui che discese all'inferno!»
«Dunque, Giovanni» disse Nicola «non ti racconto storie, ma con la mia astrologia ho scoperto, mentre
scrutavo la luna chiara, che lunedì prossimo, passato il primo quarto della notte, verrà un acquazzone, ma
così furioso e scatenato, che sarà come due volte il diluvio di Noè! Sarà un rovescio così terribile, che in
meno di un'ora il mondo intero verrà sommerso e tutto il genere umano annegherà e perderà la vita.»
Fece il falegname: «Oh, povera moglie mia! annegherà anche lei? Ahimè, mia povera Alison!». E per poco
non cadde a terra per il dispiacere, e soggiunse: «Ma non c'è proprio nessun rimedio?»
«Sì, perdio che c'è!» disse il cortese Nicola «basta che tu voglia agire con cognizione e con giudizio, senza
metterti a fare di testa tua. Anche Salomone, ch'era così sapiente, dice: 'Agisci con giudizio e non te ne
pentirai'. Se dunque avrai buon senso, ti assicuro che anche senza trinchetto e senza vela riuscirò a mettere
in salvo lei e te e me. Non hai mai sentito raccontare come si salvò Noè, quando nostro Signore lo avvertì
che il mondo intero sarebbe stato distrutto dall'acqua?»
«Sì» fece il falegname «tanti anni fa.»
«Non hai mai sentito parlare» disse Nicola «della fatica di Noè e dei suoi compagni, prima di riuscire a far
entrare nell'arca sua moglie? (15) Ci scommetto che in quel momento avrebbe dato via tutte le sue belle
pecore con la lana nera, purché lei avesse avuto una barca per sé sola. Sai perciò qual è la miglior cosa? Far
presto; e per far presto non si può stare a predicare e a far chiacchiere... Cerca dunque per la casa una
tinozza o un barile per ciascuno di noi, ma bada che siano belli grandi, in modo che vi si possa galleggiare
come in barca, e che c'entri da mangiare almeno per un giorno... al diavolo tutto il resto! Intanto il mattino
dopo l'acqua farà presto a calare e ad andar via... Ma di tutto questo il tuo garzone Robin non deve saper
niente, e neppure posso mettermi a salvare la tua serva Gille: non chiedermi perché, tanto, anche se me lo
chiedi, non ti dirò mai ciò che è un segreto di Dio. A meno che tu non sia matto nel cervello, dovrebbe
bastarti d'aver ricevuto una grazia grande come quella di Noè... Sta' tranquillo, tua moglie la metterò in
salvo io: tu va' dove devi andare e sbrigati. Quando hai trovato queste tre tinozze, una per lei, una per te e
una per me, appendile al soffitto, bene in alto, ma senza che nessuno s'accorga dei nostri preparativi,.
Quando hai fatto come t'ho detto e in ciascuna hai messo ben bene da mangiare, ficcaci dentro anche una
scure: con essa, appena verrà l'acqua, taglieremo in due la corda e ce n'andremo, aprendoci un varco in
alto sul tetto, dalla parte del giardino, sopra la stalla. E appena il grande acquazzone cesserà un po', via
liberi per la nostra strada! Vedrai, navigherai allegro come l'anitra bianca che corre dietro al maschio! Allora
mi metterò a chiamare: 'Ehi, Alison! Ehi, Giovanni! State allegri, la piena passerà presto!'. E tu risponderai:
'Salute, mastro Nicola, buon giorno! Ti vedo benissimo, è già chiaro...'. E per tutta la vita saremo ormai
padroni del mondo intero, come Noè e sua moglie!... Ma di una cosa ti devo mettere bene in guardia: la
notte che saliremo a bordo delle nostre barche, nessuno di noi potrà dire una parola, né chiamare o far
schiamazzi, ma ciascuno dovrà starsene in preghiera; bada che questa è la sacrosanta volontà di Dio! Tu e
tua moglie dovrete stare ben separati l'uno dall'altra, affinché fra voi, come dice il comandamento, non vi
sia peccato, non soltanto con gli atti, ma neppure con gli occhi... Ora va', e che Dio t'accompagni! Domani
sera, quando tutti dormiranno, noi c'infileremo dentro le nostre arche e ce ne staremo là seduti ad
aspettare la grazia di Dio. Va', dunque, non ho più tempo di star qui a predicare. Dice il proverbio: 'Datti da
fare e non chiacchierare...'. Tu comprendi, non c'è bisogno che ti spieghi. Va', salvaci la vita, ti supplico!»
E quello stupido d'un falegname, gemendo in continuazione «ahimè» e «povero me!», se ne andò di corsa a
spifferar tutto a sua moglie, la quale, già informata, sapeva meglio di lui che cosa volesse dire tutta quella
strana storia. Tuttavia, facendo finta d'aver una paura da morire, gli disse: «Povera me! Va' subito dove devi
andare e aiutaci a filar via, altrimenti siamo tutti perduti... io sono la tua fedele e legittima moglie... va', mio
caro sposo, e aiutaci a mettere in salvo la pelle!».
Eh, sì, gran cosa è la fantasia! Uno può talmente impressionarsi, da morire per solo effetto
d'immaginazione... Quel balordo falegname incominciò a tremare credendo di vedere veramente il diluvio
di Noè, che, a ondate come il mare, veniva a sommergere la sua dolce e cara Alison; e si mise a piangere e a
lamentarsi e a far la faccia triste, senza mai smettere di sospirare. Andò poi a comprare una tinozza, un
barile e una botte; di nascosto li mandò a casa e, sempre in gran segreto, li appese al soffitto. Costruì con le
proprie mani tre scale, in modo da poter salire per mezzo dei loro staggi e piuoli dentro i tre recipienti
appesi ai travi, e rifornì tinozza, barile e botte di pane, formaggio e un buon boccale di birra, più che
sufficienti per un giorno. Ma prima di mettere in atto tutto questo, aveva mandato il garzone e la serva a
fargli alcune commissioni a Londra...
Il lunedì, cominciò appena a far notte ch'egli chiuse la porta di casa e, senza neppure accendere la candela,
sistemò ogni cosa al suo posto. Subito dopo salirono tutti e tre ai loro posti. Rimasero per un bel po' seduti
senza muoversi, poi Nicola disse: «Ora, un "Paternoster" e... silenzio!».
«Silenzio!» ripete Giovanni.
«Silenzio!» replicò Alison.
Il falegname disse la sua orazione rimanendo fermo accovacciato; recitata la preghiera, si mise in ascolto
aspettando che arrivasse la pioggia. Ma verso l'ora del coprifuoco, (16) credo, o poco più tardi, sfinito dalla
stanchezza, fu preso da un sonno mortale e, avendo l'animo tutto in subbuglio, si mise a russare
lamentandosi... anche perché stava con la testa storta. Allora Nicola se ne scese per la scala, e svelta lo
seguì Alison in silenzio. E senza una parola se ne andarono a letto, proprio in quello dove di solito dormiva il
falegname. E là vi furono feste e canti... Insomma, Alison e Nicola se ne rimasero coricati insieme fra sollazzi
e allegrezze finché non suonò la campana del mattutino e i frati non si recarono nel coro a cantare.
Nel frattempo quello scaccino cascamorto di Assalonne, che in amore era sempre così sfortunato, proprio
quel lunedì si trovava ad Osney per stare allegro e distrarsi un po' in compagnia; e gli capitò di chiedere in
segreto notizie di Giovanni il falegname ad un monaco. Costui lo tirò in disparte fuori della chiesa e gli disse:
«Non so, qui non l'ho più visto a lavorare fin da sabato. M'immagino che sia andato a prendere del legname
per commissione del nostro abate. Ci va spesso per legname, e si ferma nella masseria per un giorno o due.
Se no dev'essere a casa, senz'altro. Ma di preciso non so dove sia».
Assalonne fu contento e sollevato di sentir ciò, e fra sé disse: 'E' la volta che potrò stare a veglia tutta la
notte, perché da stamattina non l'ho visto aggirarsi intorno alla porta di casa... Che bellezza! Al canto del
gallo andrò quatto quatto a bussare alla finestra di camera sua che è bassa sul muro; dirò ad Alison tutto il
mio desiderio d'amore, e se non altro non perderò l'occasione per lo meno di baciarla... insomma, qualche
soddisfazione l'avrò. E' tutto il giorno che mi prude la bocca, e questo è un segno che indica baci; ho anche
sognato tutta la notte d'essere a una festa... Andrò dunque a dormire un'oretta o due, così poi stanotte
starò su a spassarmela!'.
Appena il primo gallo si mise a cantare, Assalonne, felice e innamorato, s'alzò e si fece tutto bello. Per
prima cosa, prima ancora di pettinarsi i capelli, masticò alcuni granelli di liquirizia per profumarsi l'alito; poi,
per rendersi ancora più piacente, si mise sotto la lingua una fogliolina d'amor sincero. S'incamminò così
verso la casa del falegname e, appostandosi sotto il balcone (era tanto basso, che gli arrivava al petto), si
mise tutto mite a tossicchiare a mezza voce: «Che fai, bocca di miele, mia dolce Alison? Mio vago
uccelletto, mia dolce cirillina, svegliati, amoruccio mio, e parlami! Ben poco tu pensi al mio dolore, mentre
dovunque io vada mi sciolgo d'amore per te. E per forza mi sciolgo e mi consumo: piango sempre come un
agnello dietro alla poppa! Sì, amor mio, il mio desiderio è così forte, ch'io gemo come una tortorella e non
mangio più d'una fanciulla!».
«Vattene dalla finestra, Checco balordo!» rispose lei. «Dio me ne liberi, non ti dirò mai di venire a baciarmi!
Io amo un altro (se no, starei fresca ... ) che, per Cristo, è molto meglio di te, Assalonne! Vattene per la tua
strada o ti prendo a sassate, e lasciami dormire, corpo di venti diavoli!»
«Ahimè» disse Assalonne «ahimè, l'amore sincero è sempre stato trattato male!... Se non posso aver niente
di meglio, almeno dammi un bacio, te lo chiedo per amor mio e per amore di Gesù!»
«Ma poi te ne andrai per la tua strada?» gli chiese lei.
«Ma sì, certo, amore!» rispose Assalonne.
«Allora preparati» disse lei «io vengo subito.» E sottovoce disse a Nicola: «Ora zitto, avrai da ridere fin che
vuoi!».
Assalonne si mise in ginocchio e disse: «Ormai sono un signorone, perché, dopo questo, verrà dell'altro!
Amoruccio mio... la tua grazia, il tuo favore, mio dolce uccellino!».
Lei aprì in fretta la finestra e disse: «Tieni, via, e sbrigati, che non ti vedano i vicini!».
Assalonne s'asciugò per bene la bocca. La notte era buia come la pece o il carbone: lei si sporse col sedere
dalla finestra e Assalonne, senza rendersene conto, la baciò saporitamente con la bocca né più né meno
che in mezzo alle chiappe nude.
Ma subito sobbalzò indietro, pensando che qualcosa non andava: sapeva di certo che una donna non ha la
barba, e invece lui aveva sentito un affare tutto ruvido e peloso. «Puh, puh!» disse «ohimè, che cosa ho
combinato?»
«Ah, ah!» fece lei, e chiuse la finestra, mentre Assalonne s'allontanava tutto avvilito.
«Una barba! una barba!» si spanciava il cortese Nicola. «Corpo di Dio, questa è stata bella davvero!»
Quel poveraccio di Assalonne, sentendo tutto questo, si morse con rabbia le labbra e disse fra sé: 'Me la
pagherai!'. E si mise a fregarsi e a strusciarsi le labbra con la polvere, con la sabbia, con la paglia, con pezze
e con trucioli, e intanto non faceva che ripetere:
«Ohimè... ohimè... Darei l'anima a Satana anche senz avere in cambio tutta questa città, purché mi
vendicasse di questa beffa! Ohimè» continuava a dire «ohimè, mi fossi girato dall'altra parte!». Tutta la sua
ardente passione ormai s'era raffreddata e spenta: dall'istante che le aveva baciato le chiappe, non
gl'importò più un fico della sua bella... ormai era bell'e guarito del suo male! E continuava a imprecare
contro tutte le ragazze e piangeva come un bambino che, le ha buscate.
A passi lenti attraversò la strada finché non arrivò da un fabbro che si chiamava mastro Gervasio e che nella
sua fucina costruiva arnesi per arare. In quel momento era tutto indaffarato ad affilare vomeri e lame.
Assalonne bussò piano e disse: «Aprimi, Gervasio, presto!».
«Perché, chi sei?»
«Sono io, Assalonne!»
«Ma come, Assalonne! Per la santa croce di Cristo, perché mai ti alzi tanto di buon'ora, eh? "Benedicite!"
Cos'é che non va? Eh sì, lo sa Dio che qualche donnina allegra ti ha mandato qui di premura! Per San Neot,
(17) sai bene quello che voglio dire!»
Ad Assalonne non importava un cavolo di tutte quelle burle e neanche gli rispose. Aveva molto più filo da
torcere di quanto Gervasio credesse, e gli disse: «Mio caro amico, prestami quel ferro rovente che hai lì
dentro il fornello: ne ho bisogno un momento e te lo riporto subito».
Gervasio rispose: «Certo, neanche fosse oro o una borsa di soldi ancora da contare... certo che lo puoi
prendere, quant'è vero che faccio il fabbro! Ma, corpo di Cristo, che te ne vuoi fare?».
«Sia come sia» disse Assalonne «quel che me ne faccio, te lo dirò domani!» E, preso il ferro dalla parte
ch'era freddo, se la squagliò quatto dalla porta e se ne andò sotto il muro di casa del falegname.
Si mise prima a tossicchiare, e poi bussò alla finestra, come aveva già fatto una volta. Alison disse: «Chi è
che bussa a questo modo? Scommetto che è un ladro!».
«Oh, no!» disse lui «Dio non voglia, mio dolce tesoro, sono io, il tuo Assalonne, mia cara!» E soggiunse: «Ti
ho portato un anello d'oro. Che Dio mi salvi, è un dono di mia madre, ed è molto bello, tutto ben lavorato.
Se mi dai un bacio, te lo regalo!».
Nicola, che in quel momento s'era alzato per orinare, pensò che l'opera sarebbe stata davvero completa se
anche a lui, prima d'andarsene, quello avesse baciato il sedere. Salì in fretta sulla finestra, e al buio sporse
fuori il deretano, dai lombi fin sotto l'osso delle cosce.
Disse in quell'istante il sacrista Assalonne: «Parla, mio dolce uccellino, non so dove sei!».
E Nicola, svelto, gli mollò una gran scoreggia con uno schianto come quello d'un tuono... l'altro per poco
non rimase accecato dal rombo, ma pronto, col ferro rovente, colse Nicola proprio in mezzo alle chiappe! Il
ferro era ancora così infuocato, che gli portò via quasi una spanna di pelle, ed egli credette di morire dal
dolore e, come impazzito, si mise a gridare: «Aiuto! acqua! acqua! aiuto, per amor di Dio!».
Il falegname allora balzò dal sonno e, sentendo che qualcuno urlava «acqua!» come un forsennato, pensò:
«Ah, ecco che arriva il diluvio di Noè!». E senza dir altro saltò su, tagliò in due la corda con la scure, e tutto
precipitò: non fece davvero in tempo a liberarsi del pane e della birra prima d'arrivare a terra, sul
pavimento... e là rimase svenuto.
Alison e Nicola si slanciarono sulla strada gridando: «Aiuto! Accorrete!». E subito tutti i vicini, dal primo
all'ultimo, corsero a vedere quell'uomo che giaceva ancora in deliquio, pallido e smorto, perché nella
caduta s'era rotto un braccio. Ma il suo male dovette tenerselo: appena cercò di parlare, venne sopraffatto
immediatamente dal cortese Nicola e da Alison, i quali dissero a tutti che lui era impazzito e nella sua
fantasia s'era talmente fissato col diluvio di Noè, da comprare per scempiaggine tre tinozze, e le aveva
appese lassù al soffitto, pregando anche loro due d'andare, per amor di Dio, a sedersi nel solaio per fargli
compagnia! Tutti si misero a ridere di quella sua fantastica idea, e guardarono e contemplarono il soffitto,
prendendo tutto il suo male in burla.
Anche più tardi ebbe un bel dire quel falegname: nessuno volle mai sentire le sue ragioni; tanto si scalmanò
intorno a bestemmiare, che alla fine tutta la città lo credette davvero pazzo. Gli studenti poi, facendo lega
l'uno con l'altro, andavano in giro a dire: «Quello lì, mio caro fratello, è matto!». E tutti si mettevano a
ridere di quel baccano.
Così, pur con tutte le sue precauzioni e la sua gelosia, il falegname ebbe la moglie disonorata, a lei
Assalonne baciò l'occhio di dietro, e Nicola rimase col sedere scottato. Questa storia è finita, e Dio salvi
tutta la compagnia!
Qui finisce il Racconto del Mugnaio.
Note del "Racconto del Mugnaio".
Nota 1. Cioè con voce forte, prepotente, come quella degli attori che recitavano la parte di Pilato nelle
sacre rappresentazioni.
Nota 2. Di Gesù Cristo.
Nota 3. Anche il Fattore, come dice il "Prologo generale", era un artigiano e faceva il falegname.
(*). "Il Racconto del Mugnaio" appartiene al genere dei "fabliaux" francesi, ma non si può far risalire ad una
fonte precisa. Si tratta probabilmente della sovrapposizione e fusione di due di questi antichi "fabliaux"
andati perduti. Il "Racconto" si compone infatti di due episodi che procedono parallelamente: la burla d'un
vecchio credulone e la beffa d'un giovane innamorato. Riscontri e analogie si trovano anche in novelle
tedesche e italiane, ma non in data anteriore a quella in cui il "Racconto" fu composto intorno al 1390).
Nota 4. Famoso manuale d'astrologia, opera di Tolomeo.
Nota 5. Strumento che serviva a misurare l'altezza del sole e per altre osservazioni astronomiche. Sul suo
uso il Chaucer compilò un lungo trattato in prosa, "A Treatise on the Astrolabe.
Nota 6. La preghiera dell'angelo alla Vergine durante l'Annunciazione.
Nota 7. La zecca era allora nella Torre di Londra.
Nota 8. Nei dintorni di Oxford, dov'era un'abbazia di agostiniani,
Nota 9. Proprio il santo di Canterbury, alla cui tomba è diretto il pellegrinaggio.
Nota 10. Assalonne, il ribelle figlio di Davide, veniva ricordato, per i suoi biondi capelli, come l'uomo più
bello del mondo, accanto a Salomone il più sapiente e a Sansone il più forte. Subito dopo il nome, infatti, la
capigliatura è la prima cosa sulla quale si richiama l'attenzione, nel presentare la figura di questo gagà
rurale.
Nota 11. Gli intagli sulle tomaia delle scarpe erano di gran moda.
Nota 12. Spesso i sagrestani recitavano nelle sacre rappresentazioni e la parte di Erode era una delle più
ambite.
Nota 13. Patrona di Oxford.
Nota 14. Popolare formula di esorcismo, nella quale, accanto a Gesù e a San Benedetto, viene invocata
Santa Petronilla («sorella di San Pietro») che si riteneva avesse particolari poteri contro gli accessi di
quartana.
Nota 15. Allusione a una scena comica introdotta nelle sacre rappresentazioni, in cui la moglie di Noè, per
non lasciare a terra le sue comari, si rifiuta di salire nell'arca.
Nota 16. L'ora in cui la campana intimava ai cittadini di rincasare e di spegnere il fuoco e i lumi, verso le otto
di sera.
Nota 17. Santo venerato in Cornovaglia.
Prologo
DEL FATTORE.
Prologo al Racconto del Fattore.
Dopo che tutti ebbero molto riso della buffa avventura del sagrestano Assalonne e del cortese Nicola,
ognuno volle dire la sua, ma per la maggior parte sempre ridendo e scherzando. Nessuno, vidi, se la
sarebbe presa per quel racconto se non fosse stato per Osvaldo, il Fattore, il quale, essendo della
corporazione dei falegnami, ci rimase male, con un po' d'astio al cuore, e attaccò a crucciarsi e a brontolare.
«Mi venga un po' di bene» disse «se avessi voglia di raccontar canagliate, saprei io ripagarti con le beffe
d'un tronfione di mugnaio... Ma son vecchio, non ho più voglia di scherzare. Per me è finita la stagione
dell'erba, il mio foraggio ormai è diventato fieno. Questa cocuzza bianca porta scritti tutti i miei anni e,
come i miei capelli, anche il mio cuore incomincia a far la muffa. Speriamo che non mi succeda come alle
nespole, che più la tirano per le lunghe, più diventano aspre, e alla fine vanno a marcire sulla paglia o in un
letamaio. Ma ho paura che noi vecchi facciamo proprio così: fin che non siamo marci, non possiamo essere
maturi; e continuiamo a ballare finché al mondo c'è musica. Nella nostra smania sta sempre infitto un
chiodo: d'aver la testa bianca e la coda verde, come il porro. Pur se ci mancano le forze, abbiamo sempre
voglia di far follie. Quando non possiamo più far nulla, ci mettiamo a cianciare, ma pure sotto le vecchie
ceneri sta raccolto il fuoco. E vi dirò che abbiamo quattro tizzoni: superbia, impostura, collera e ingordigia.
Queste quattro scintille durano anche in vecchiaia. Le nostre frolle membra possono giusto essere stanche,
ma la voglia non ci manca di sicuro. Ancora adesso ho un dente da puledro, eppure d'anni ne son passati
tanti da quando il tappo della mia vita cominciò a scorrere. Come nacqui, la morte diede subito stura alla
vita e la lasciò andare: da allora il tappo ha buttato tanto, che il caratello è quasi completamente vuoto.
Ormai il rigagnolo della mia vita sgocciola sul fondo. La sciocca lingua può ben mettersi a dar fiato e
scampanare di follie passate del tempo antico, ma per noi vecchi, salvo il rimbambimento, non c'è più
nulla!»
Sentendo tutto questo quaresimale, il nostro Oste prese a parlare col tono sdegnoso d'un re. Disse: «A che
serve tutta questa saggezza? Perché dovremmo parlare tutto il giorno di sacre scritture? E' proprio vero che
il demonio sa trasformare un fattore in predicante, come un ciabattino in marinaio o in medico. Su,
racconta la tua storia e non perdere tempo. Ecco là Deptford! E siamo già a metà della mattina. Ed ecco
Greenwich, il paese delle canaglie! (1) Sarebbe ora che anche tu cominciassi il tuo racconto».
«Ebbene, signori» disse Osvaldo il Fattore «vi prego, non prendetevela, se a quello là io rispondo per le
rime e lo metto un po' a posto: alla forza si risponde solo con la forza. Quel Mugnaio ubriacone ci ha
raccontato ora in che modo fu gabbato un falegname, certo per farmi dispetto, perché anch'io sono di quel
mestiere. Adesso, col vostro permesso, voglio rendergliela pari e patta, parlando proprio da tanghero come
lui. Dio voglia che gli si spezzi l'osso del collo! Viene a cercarmi la paglia nell'occhio, ma non s'accorge che
nel suo c'è una trave.»
RACCONTO DEL FATTORE (*).
Qui comincia il Racconto del Fattore.
A Trumpington, non lontano da Cambridge, scorre un ruscello con sopra un ponte, e sul ruscello c'è un
mulino, nel quale (racconto la verità io!) abitava da parecchio tempo un mugnaio. Era un mugnaio tronfio e
vanitoso come un pavone. Sapeva suonare la cornamusa, andare a pesca, rabberciare le reti, costruire i
coppi al tornio, fare alla lotta e tirare con l'arco. Appeso alla cintura portava un trinciante bislungo con la
lama che tagliava come una spada, e in saccoccia si teneva un bel punteruolo. Non c'era pericolo che
qualcuno lo toccasse: perfino nelle mutande si teneva nascosto un coltello di Sheffield! (2) Aveva la faccia
rotonda, il naso camuso e il cranio pelato come una scimmia. Al mercato cercava sempre d'attaccar briga.
Bastava che uno con la mano gli sfiorasse una gamba, che lui subito giurava di volersi vendicare. Era in
realtà un ladro di grano e di farina, e uno di quelli matricolati, che sanno bene come truffare. Di
soprannome si chiamava Simoncino Boria.
Aveva una moglie che discendeva da nobile stirpe... Il padre di lei era il parroco del paese, il quale aveva
sborsato anche parecchie piastre di rame, affinché Simoncino si decidesse a imparentarsi col suo sangue.
Lei era stata allevata in un convento di monache, perché Simoncino (a sentir lui) non avrebbe mai voluto
per moglie una donna che non fosse beneducata e vergine, in modo da tutelarsi nella sua dignità di
possidente. E lei era arrogante e sfacciata come una cornacchia.
Era uno spettacolo vedere quei due insieme nei giorni di festa: lui partiva con una mantellina intorno al
collo, e lei gli camminava dietro vestita di rosso; e della stessa stoffa erano le brache di Simoncino. Nessuno
s'arrischiava a chiamarla se non col nome di «madama». Non c'era nessuno che, passando per la strada,
osasse farle un complimento o uno scherzo, per non farsi accoppare da Simoncino col trinciante, col coltello
o lo stiletto, perché i gelosi son sempre tipi pericolosi... o, almeno, così essi vorrebbero far pensare alle loro
mogli. Lei, poi, essendo di nascita piuttosto torbida, era scostante come l'acqua d'una fogna, e piena di
boria e di disprezzo. Credeva che ogni signora la dovesse riverire, per via del suo casato e dell'educazione
avuta al convento.
Quei due non avevano che una figlia, di vent'anni, salvo un bambino di sei mesi, un bel maschietto che
stava ancora nella culla. La ragazza era soda e ben piantata, col naso camuso, occhi grigi come il vetro,
chiappe grosse, poppe tonde e sporgenti, ma soprattutto bellissimi capelli, non vi racconto storie.
Il parroco del paese, appunto perché lei era bella, aveva in mente di lasciarla sua erede, sia dei poderi che
della casa, e faceva il difficile per trovarle marito. S'era messo in testa di sistemarla in alto con qualcuno che
fosse di sangue nobile, perché i beni di Santa Chiesa vanno spesi per il sangue che di Santa Chiesa discende;
e lui voleva trattarlo bene, il suo santo sangue, anche a costo di divorarla, la Santa Chiesa.
Il mugnaio, intanto, faceva affari d'oro col grano e con l'orzo di tutta la campagna dei dintorni, e
specialmente con un grande collegio di Cambridge, chiamato Soler Hall, (3) il quale pure mandava a
macinare grano e orzo da lui. Un giorno, d'improvviso, accadde che l'economo di questo collegio
s'ammalasse gravemente, tanto che ormai la gente pensava che sarebbe morto. Allora il mugnaio si mise a
rubare farina e grano cento volte più di prima: se prima aveva rubato con una certa discrezione, ora faceva
il ladro senza ritegno, tanto che ad un certo punto intervenne a protestare anche il rettore. Ma il mugnaio
se ne infischiò, giurando che ciò non era vero.
Si fecero allora avanti due studenti, giovani e spiantati, che abitavano nel collegio di cui parlo. Costoro,
testardi e amanti di scherzare, si recarono, per puro spasso e divertimento, a implorare un permesso al
rettore, solo di poco tempo, per andare al mulino a veder macinare il loro grano: erano tutt'e due pronti a
scommettere il collo che il mugnaio a loro non avrebbe rubato neanche mezzo staio di grano, né con
l'astuzia né con la prepotenza... Il rettore alla fine li lasciò andare. Giovanni si chiamava l'uno, e l'altro Alan.
Erano nati tutt'e due nello stesso paese, Strother, su nel settentrione... non so dirvi precisamente dove (4).
Alan preparò dunque tutta la roba e caricò subito il sacco in groppa al cavallo. E così quei due studenti,
ossia Giovanni ed Alan, si misero in viaggio, con un brocchiere e una buona spada al fianco.
Giovanni sapeva la strada (non aveva bisogno di guide lui...) e, non appena giunse al mulino, scaricò il
sacco. Il primo a parlare fu Alan: «Ehilà, salute Simone! Come sta la tua bella figliola, e tua moglie?».
«Alan! Benvenuto!» disse Simoncino. «Caspita, c'è anche Giovanni! Che diamine fate da queste parti?»
«Perdio, Simone,» disse Giovanni «la necessità non ha leggi. Chi non ha servi deve servirsi da solo, se no è
uno stolto, come dicono i dotti. Il nostro economo... temo che a quest'ora sia bell'e morto, per il gran male
che dai denti molari gli ha preso tutta la testa. Ecco perché sono venuto io, insieme con Alan, a macinare il
nostro grano, e a riportarlo a casa. Ti prego di sbrigarci di qui più presto che puoi.»
«Sarà fatto,» disse Simoncino «parola mia! E voi che cosa volete fare intanto che io ci metto mano?»
«Perdio, mi piazzerò vicino alla tramoggia» disse Giovanni «a guardare come fa ad entrarvi il grano. Per
tutta la tribù di mio padre, non ho mai visto una tramoggia andare avanti e indietro!»
E Alan di rimando: «Tu Giovanni fai così? Allora io mi metto di sotto, con la mia capocchia, a vedere come fa
la farina a cadere giù nel trògolo: sarà il mio divertimento. Perché, parola mia, anch'io sono della tua razza,
e di mulini non me ne intendo, come te».
Il mugnaio sorrise a mezza bocca per questa loro fissazione, e pensò: 'Tutto ciò non ha che uno scopo. Loro
credono che nessuno riesca ad imbrogliarli, e invece io, mi venga un po' di bene, li metterò nel sacco con
tutta la loro astuzia e la loro filosofia. Più loro faranno i furbi, più io li deruberò quando sarà ora. Invece di
farina, avranno della crusca! 'Val più la pratica che la grammatica', come disse quella volta la cavalla al
lupo... (5) Di tutta la loro istruzione non m'importa un cavolo!'.
Aspettò il momento buono, e poi uscì quatto quatto dalla porta. Cerca di qua e cerca di là, trovò il cavallo
degli studenti legato dietro il mulino, sotto una pergola: s'avvicinò bel bello all'animale e in un attimo gli
slacciò la briglia. Appena il cavallo si sentì slegato, si mise a correre, e via... nitrendo per boschi e per radure
verso lo stagno, dove scorrazzavano libere alcune cavalle.
Senza dire una parola, il mugnaio se ne tornò in casa e si mise al suo lavoro scherzando con gli studenti sul
più e sul meno, finché il grano non fu bell'e macinato. Appena la farina fu insaccata e legata, Giovanni uscì e
trovò che il cavallo non c'era più: «Aiuto! poveri noi!» si mise a gridare «il nostro cavallo è sparito! Alan, per
le ossa di Dio, muoviti! Vieni, amico mio, presto! Ahimè, è sparito il cavallo del rettore!».
Alan si scordò di tutto, farina e grano, e tutta la sua economia gli passò di mente: «Ma come? da che parte
è andato?» si mise a gridare.
Saltò fuori di corsa la moglie del mugnaio. Disse: «Caspita! Il vostro cavallo se n'è andato correndo a più
non posso dalle cavalle laggiù allo stagno. Accidenti alla mano di chi l'ha legato... bisognava allacciare
meglio quelle redini!».
«Ahimè,» disse Giovanni «per tutti i triboli di Cristo, Alan, posa giù quella spada come faccio io! Dobbiamo
alzare i tacchi, perdio, come capretti! Corpo di Dio, vedrai che a tutti e due non ci scapperà! Anche tu,
perché non l'hai messa dentro la stalla, quella rozza! Diamine, Alan, sei proprio un lasagnone, perdio!»
E quegl'ingenui di studenti, tanto Alan che Giovanni, si precipitarono a tutta velocità verso lo stagno.
Appena se ne furono andati, il mugnaio si prese mezzo staio di fior di farina dal loro sacco e ordinò alla
moglie di impastarlo e farne una focaccia. E disse: «Credo proprio che quegli studenti non si fidassero. Pure,
un mugnaio sa farla a uno studente in barba a tutta la sua dottrina. Lasciali un po' correre ora! Guarda dove
s'è cacciato... e quei marmocchi gli giocano dietro a chiapparello! Per la mia capocchia, non lo prenderanno
tanto facilmente!».
E infatti quegl'inesperti di studenti correvano inutilmente su e giù gridando: «Dai! dai!... fermo! fermo!...
giù di qua, attento dietro... tu fischiagli e io gli do da questa parte!».
Per farla corta, finché non fu notte fonda, per quanto facessero, non riuscirono ad acchiappare il cavallo,
tanto quello correva forte, e finalmente l'andarono a raccogliere in un fosso.
Stanchi e bagnati come bestie sotto la pioggia, quei poveracci, Giovanni ed Alan, se ne tornarono indietro.
«Accidenti al giorno che son nato!» disse Giovanni. «Ci siamo cacciati proprio in mezzo alle beffe e allo
scorno. A quest'ora il grano è rubato, e tutti ci daranno del minchione, sia il rettore che i nostri compagni, e
specialmente il mugnaio... Che disastro!»
Così si lamentava Giovanni, rifacendo la strada per tornare al mulino, con Baiardo per la briglia. E trovò il
mugnaio seduto accanto al fuoco: siccome ormai era notte e non potevano mettersi per la strada, lo
supplicarono, per amor di Dio, di accoglierli e alloggiarli, anche perché denaro ne avevano.
Rispose il mugnaio: «Se v'accontentate, tale e quale com'è, avrete la vostra parte. In questa casa siamo allo
stretto, ma voi avete studiato arte: coi vostri argomenti saprete magari trasformare un buco di venti piedi
in una distesa larga un miglio. Vediamo un po' se questo spazio vi basta, se no, fatevelo più grande voi a
modo vostro, coi vostri discorsi».
«Bravo, Simone!» fece Giovanni. «Ben detto! Per San Cutberto, (6) tu sei proprio un mattacchione! Ho
sempre sentito dire che le cose, o si prendono come stanno, o bisogna farsele da sé. Ma ora ti prego, caro
ospite, dacci qualcosa da mangiare e da bere, e trattaci bene: noi ti pagheremo di tutto, come si deve. A
mani vuote, non volano neppure i falchi. Eccoti qui il nostro denaro, pronto per pagare.»
Il mugnaio mandò in paese sua figlia a comprare birra e pane, fece arrostire un'oca, e andò perfino a legare
il cavallo in modo che non potesse più scappare; poi in camera sua preparò per loro un letto con lenzuola e
coperte belle grandi, discosto dal proprio appena dieci o dodici piedi. Anche la figlia aveva un letto tutto per
sé là vicino, nella medesima stanza. Meglio di così non si poteva fare... in realtà non c'era posto per
alloggiare più nessuno!
Tutti cenarono e chiacchierarono allegri e contenti, continuando a bere birra forte della migliore. E verso
mezzanotte se ne andarono a riposare.
Il mugnaio s'era rimpinzato fino ai capelli, ed era così sbronzo, che di colore non era neanche più paonazzo,
ma bianco come un cencio lavato. Singhiozzava e parlava nel naso, come se avesse avuto la raucedine o un
gran raffreddore. S'infilò a letto, e sua moglie con lui; lei vispa e allegra come una gazza, dopo che s'era
bagnato ben bene il becco. La culla fu messa ai piedi del letto, in modo da poter ninnare il bambino e dargli
il succhiotto. E appena il boccale fu scolato fino in fondo, anche la figlia andò a letto; e altrettanto fecero
Alan e Giovanni: intanto non c'era altro da fare, e certo nessuno aveva bisogno d'un soporifero per
dormire.
Il mugnaio s'era lappata tanta birra, che nel sonno stronfiava come un cavallo, senza preoccuparsi della sua
coda dietro... Sua moglie gli teneva bordone ronfando così forte, che si sentiva a mezzo miglio di distanza; e
ronfava, in compagnia, anche la figlia.
Lo studente Alan, sentendo tutta quella melodia, diede di gomito a Giovanni e gli disse: «Ehi, dormi? Hai
mai sentito una musica come questa? Senti che razza di vespro hanno intonato fra tutti! Li prendesse la
rogna per tutto il corpo! Chi ha mai sentito una cosa simile? Eppure ci andranno alla malora una buona
volta! Stanotte ormai non c'è verso di dormire, ma, forse, sarà per il meglio... Ehi, Giovanni,» disse «mi
venga un po' di bene, se ci riesco, voglio montare la ragazza! Qualche risarcimento ci tocca anche per legge.
Sai, Giovanni, c'è una legge che lo dice: se uno è stato danneggiato in una cosa, può rifarsi con un'altra.
Insomma il grano c'è stato rubato, non c'è scusa che tenga, e c'è andata di traverso tutto il santo giorno.
Siccome risarcimenti non ne avrò contro la mia perdita, voglio almeno qualche beneficio... Per l'anima di
Dio, vedrai se non sarà così!».
Giovanni gli rispose: «Alan, stai attento! Il mugnaio è un uomo pericoloso. Se per caso gli passa il sonno, è
capace di rovinarci tutti e due».
«Per me lui non è che un moscerino!» gli ribatté Alan. E in un attimo saltò su e andò a infilarsi accanto alla
ragazza. La ragazza se ne stava sdraiata sulla groppa e dormiva sodo: prima che se ne rendesse conto, lui le
fu così vicino, che ormai era troppo tardi per gridare, e poi, insomma, fecero presto a mettersi d'accordo.
Ed ora, forza Alan! Noi intanto parliamo di Giovanni...
Giovanni se ne stava là coricato a uno o due passi, a frignare e a lamentarsi: «Ah, che brutto scherzo!»
sospirava «ormai posso ben dirlo d'essere un minchione. Il mio collega almeno si sta rifacendo del danno
con la figlia del mugnaio fra le braccia. S'è dato da fare e s'è tolta una voglia, mentre io me ne sto qui nel
letto come un sacco di loppa e, quando un giorno o l'altro si verrà a sapere questa storia, farò proprio la
figura d'un tonto e d'un lasagnone! Parola, ora mi alzo e mi do da fare anch'io! Chi non risica non rosica,
dicono ...». E balzò su e, zitto zitto, andò presso la culla: la prese fra le mani e, piano piano, la trasportò ai
piedi del proprio letto.
Poco dopo, la moglie del mugnaio smise di ronfare, si svegliò e uscì fuori a fare un po' d'acqua; poi ritornò,
si mise a cercare la culla annaspando qua e là, ma non la trovò più al suo posto. «Povera me!» disse «a
momenti sbagliavo strada: per poco non andavo a finire nel letto degli studenti. "Benedicite!" allora sì che
l'avrei combinata grossa!» E andò avanti finché non scontrò la culla. Sempre a tentoni, trovò il letto e, non
sospettando nulla di male, perché la culla c'era e lei non vedeva dove si fosse a causa del buio, s'infilò bella
bella nel letto dello studente, coricandosi tranquilla, disposta a farsi ancora una dormita. Dopo un po' lo
studente Giovanni balzò su e le fu addosso, a quella brava moglie. E lei godette come da anni ormai non le
accadeva, giacché lui pinzava duro e fondo come fosse ammattito.
Così tutti e due gli studenti si dettero alla bella vita fin quando il gallo non cantò tre volte.
Verso l'alba dunque, sentendosi frollo per aver lavorato tutta la notte, Alan disse: «Addio, Matilde, creatura
mia dolce! Ormai è giorno, non posso più fermarmi qui. Ma tu m'hai reso così felice, che, dovunque io mi
rechi a piedi o a cavallo, sarò sempre lo studente tuo!».
«Oh, amor mio caro,» disse lei «allora va', addio! Ma prima che tu parta, voglio dirti una cosa: quando
passerai dal mulino, proprio accanto alla porta dietro, troverai una focaccia da mezzo staio, fatta con la tua
farina, che mio padre, anche col mio aiuto, ti ha rubata. E ora, amor mio caro, Dio ti salvi e ti protegga!»
Così dicendo, quasi si mise a piangere.
Alan s'alzò pensando: 'Prima che diventi chiaro, è meglio che torni vicino al mio compagno'. E annaspando
con le mani, trovò la culla: 'Perdio!' pensò 'ho sbagliato completamente strada. Mi gira la testa per la fatica
di stanotte: non so neanche da che parte vado. Ma certo, se c'è la culla, ho sbagliato letto: qui ci dorme il
mugnaio con sua moglie!'. E tirò avanti, per la via dei venti diavoli, fin dentro il letto dove proprio stava
coricato il mugnaio. Credendo d'essersi infilato vicino al suo compagno Giovanni, lesto s'accostò al
mugnaio, lo prese per il collo e gli disse sottovoce: «Ehi, Giovanni, capocchia di porco, svegliati, per l'anima
di Dio, e ascolta che passatempo da gran signore! Per quel messere che si chiama San Giacomo, stanotte
per tre volte mi son goduta la figlia del mugnaio a ventre in su, mentre tu, vigliacco, stavi qui ad aver
paura!».
«Ah, brutto sporcaccione traditore,» disse il mugnaio «hai fatto questo? Ah, traditore ipocrita! studente
imbroglione disse. «Ti farò la pelle, quant'è vero Iddio! Come hai avuto il coraggio di disonorare mia figlia
che proviene da una famiglia come questa?» E acchiappò Alan per la gola: costui a sua volta lo abbrancò
tutto infuriato e gli mollò un gran pugno sul naso. Giù un ruscello di sangue sul petto! E per terra, col naso
rotto e la bocca spaccata, si rotolarono come due porci chiusi dentro un sacco. Ora s'alzavano, ora
ricadevano a terra, finché il mugnaio non batté contro un sasso e cadde riverso addosso a sua moglie, che
non sapeva niente di questa furiosa lotta, perché s'era un po' riaddormentata con lo studente Giovanni,
dopo ch'erano stati a far veglia tutta la notte. A quel colpo, lei sobbalzò dal sonno: «Aiuto! Santa croce di
Bromholm!» (7) si mise a gridare. «"In manus tuas!" (8) Signore, m'affido a te! Svegliati, Simone, m'è
cascato addosso il diavolo! Mi scoppia il cuore, aiuto, muoio! Qualcuno mi sta schiacciando il ventre e la
testa. Aiuto, Simoncino, questi studenti imbroglioni ora se le suonano!».
Giovanni balzò su più presto che poté, e si mise a raspare avanti e indietro per le pareti in cerca d'un
bastone. Saltò su anche la donna: lei conosceva i recessi della casa molto meglio di Giovanni e in un attimo
trovò un bastone appoggiato al muro, e scorse un barlume di luce, perché la luna splendeva chiara
attraverso un pertugio, e a quella luce vide due che si picchiavano, ma, senza poterli distinguere, rimase
abbagliata da qualcosa di bianco. Fissandosi su quella cosa bianca, pensò che lo studente avesse un
berretto da notte: s'avvicinò pian piano col bastone e, credendo di suonarle ad Alan, colpì in pieno sul
cranio pelato il mugnaio, che s'accasciò sul pavimento gridando: «Aiuto, sono morto!».
Gli studenti gliele suonarono ancora di santa ragione e lo lasciarono là per terra. Poi si vestirono, presero in
fretta il cavallo e la farina, e se ne andarono. Al mulino raccolsero anche la focaccia da mezzo staio di fior di
farina, tutta bella croccante.
Così quel tronfione di mugnaio le buscò sode, rimettendoci i soldi per la macina del grano e tutta la cena di
Alan e Giovanni, che per giunta lo picchiarono. Sua moglie fu disonorata, e così sua figlia. Ecco quel che
succede ai mugnai disonesti! Dice bene il proverbio: «Chi la fa, l'aspetti. L'imbroglione finisce sempre per
essere imbrogliato». E ora Iddio, dall'alto della sua maestà, protegga, dal primo all'ultimo, quanti sono in
questa compagnia! Io intanto, con questo racconto, l'ho resa al Mugnaio pari e patta.
Qui termina il Racconto del Fattore
Note del "Racconto del Fattore".
Nota 1. Deptford si trova sulla sponda meridionale del Tamigi, a nord rispetto alla strada che i pellegrini
stanno seguendo da Southwark a Canterbury, a circa cinque miglia dal loro punto di partenza. Greenwich,
dove forse il Chaucer trascorse un breve periodo della sua vita, si trova immediatamente a est di Deptford.
(*). Il "Racconto del Fattore" (composto intorno al 1390) appartiene, come quello precedente del Mugnaio,
al genere dei "fabliaux". La storia dei due studenti che si beffano di un illetterato era popolarissima nel
Medioevo. Una novella simile si trova anche nel "Decamerone" (IX, 6), ma è probabile che tanto il Chaucer
quanto il Boccaccio abbiano attinto a una comune fonte a noi sconosciuta.
Nota 2. Già allora la città di Sheffield, nello Yorkshire, era famosa per la fabbricazione dei coltelli.
Nota 3. Questo collegio, fondato nel 1337 da Edoardo Terzo, si chiamava anche "King's Hall", e fu in seguito
annesso al "Trinity College".
Nota 4. Il linguaggio del due studenti è, nel testo chauceriano, ricchissimo di colorazioni dialettali, del nord
d'Inghilterra appunto.
Nota 5. Si riferisce a una favola molto popolare nel Medioevo. Un lupo andò da una cavalla per comprare il
suo puledrino; lei gli disse che il prezzo stava scritto sotto uno dei suoi zoccoli: appena il lupo tentò di
leggere, lei naturalmente lo prese a calci, snocciolando poi diversi proverbi contro i letterati.
Nota 6. Da vero settentrionale, lo studente giura per San Cutberto, venerato appunto nel nord
dell'Inghilterra.
Nota 7. Località nella contea di Norfolk dove, secondo la tradizione, era conservato un pezzo della croce di
Cristo.
Nota 8. Parte d'una giaculatoria in latino tratta dal Vangelo («Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio»,
"Luca" 23, 46).
Prologo
DEL CUOCO.
Prologo al Racconto del Cuoco.
Mentre così il Fattore stava parlando, il Cuoco di Londra provò come un pizzicorino di gioia alla schiena.
«Ah! ah!» fece «per la passione di Cristo, bel risultato ottenne quel mugnaio con la sua ospitalità! Diceva
bene a suo modo Salomone: «Gente non portar per la tua casa!». Specialmente di notte è pericoloso dar
alloggio... bisogna stare molto attenti a chi si porta in famiglia. Dio mi mandi accidenti e affanni, quant'è
vero ch'io son Ruggero di Ware, (1) non ho mai sentito dire che un mugnaio fosse meglio conciato! Brutto
tiro gli giocarono là al buio! Ma Dio non voglia che ora sia finita qui... Se vi degnate d'ascoltare un racconto
da me che sono un poveruomo, vi narrerò un fatterello accaduto proprio nella nostra città.»
Il nostro Oste rispose dicendo: «D'accordo. Continua pure, Ruggero, ma bada che sia un buon racconto,
perché senza sugo lo sono già i tuoi timballi e le tue torte, che lasci sempre due volte a riscaldare e a
raffreddare. Ti sei già buscate le maledizioni di Cristo da più d'un pellegrino, che si risente ancora di quel
tuo prezzemolo mangiato con l'oca ripiena... anche perché ci sono troppe mosche nella tua cucina. Ad ogni
modo continua, gentil Ruggero, e fatti onore. Ma soprattutto, ti prego, non arrabbiarti se scherzo: ridendo
e scherzando si può dir anche la verità».
«Tu dici in pieno la verità,» fece Ruggero «parola mia! Ma, come dicono i fiamminghi, uno scherzo vero non
è più uno scherzo. Perciò, Herry Bailly, (2) dammi la tua parola che tu non ti arrabbierai, prima che ci
lasciamo, se il mio racconto parlerà di un oste. Per ora non attaccherò, ma, prima di separarci, vedrai che
anche tu avrai la tua parte.» E con ciò rise e si fece allegro, e narrò il suo racconto come ora sentirete.
RACCONTO DEL CUOCO (*).
Qui comincia il Racconto del Cuoco.
Abitava una volta nella nostra città un apprendista, che apparteneva alla corporazione dei negozianti
d'alimentari. Era vivace come un cardellino di bosco, bruno come una mora, Piuttosto basso e tarchiato,
con riccioli neri accuratamente pettinati. Sapeva danzare così bene e briosamente, che tutti lo chiamavano
Pietruccio il festaiolo. Era pieno d'amore e di galanterie, come un alveare è pieno di dolce miele: fortunata
la ragazza che poteva imbattersi in lui! Ad ogni sposalizio sapeva cantare e ballare; e certo amava più la
taverna che il negozio. Appena c'era un corteo a Cheapside, abbandonava la bottega e faceva un salto a
vederlo. Ma finché non aveva danzato ben bene e visto tutto lo spettacolo, non tornava. Riuniva sempre
con sé una brigata della sua risma per saltare e cantare, e altri simili divertimenti. Fissavano appuntamenti
per incontrarsi, per giocare a dadi in questa o quella strada. In tutta la città non c'era apprendista che
sapesse meglio di Pietruccio gettare un paio di dadi; e poi lui, nei luoghi d'intimità, era generoso nelle
spese. Se ne accorse il suo principale dagli affari, perché spesso trovava il cassetto vuoto. Si capisce che, se
in bottega c'è un apprendista festaiolo che si dà ai dadi, al chiasso e alle donne, chi ne fa le spese è il
padrone, che pur non prende parte alle baldorie. Furto e dissolutezza vanno d'accordo come la cetra col
ribechino. Sono i vizi e l'onestà che, come si sa, fra la povera gente fanno a calci tutto il giorno.
Quest'allegro apprendista rimase col suo padrone fin quasi alla fine del suo tirocinio, sebbene venisse
strapazzato mattino e sera, e qualche volta menato a suon di musica a Newgate (3). Ma alla fine il suo
principale, mentre un giorno scorreva le sue carte, pensò a quel proverbio che dice: «E' meglio togliere la
mela guasta dal mucchio prima che guasti tutte le altre». Così capita con un servo scostumato: è assai
minor male cacciarlo via, che lasciargli corrompere tutti i servi di casa. Perciò il suo principale gli diede il
benservito, e gli ordinò d'andarsene alla malora! Così questo giulivo apprendista fu licenziato. Almeno ora
poteva far baldoria tutta la notte come voleva!
E siccome non c'è ladro senza complice, che l'aiuti a sperperare e a far sparire la roba rubata o presa in
prestito, egli mandò subito il suo letto e i suoi indumenti da un compare della sua risma, che amava i dadi,
le feste e i divertimenti, e aveva una moglie che apparentemente teneva un negozio e per mantenersi
faceva la puttana...
Note del "Racconto del cuoco".
Nota 1. Nello Hertfordshire.
Nota 2. L'Oste è l'unico pellegrino di cui si conosca nome e cognome. Pare che un Herry Bailly facesse
veramente l'oste a Southwark intorno al 1380-81.
(*). Il "Racconto del Cuoco" è, nel testo originale, un frammento di appena cinquantotto versi: è certo che
sarebbe appartenuto alla stessa categoria del "Racconto del mugnaio" e di quello del "Fattore", ma la
brevità del frammento non consente ulteriori congetture.
Nota 3. In quei tempi, chi veniva condotto in prigione - famosa quella di "Newgate" (= Porta Nuova) a
Londra - era preceduto da una speciale banda musicale che ne proclamava l'infamia.
Frammento Secondo.
Introduzione
AL RACCONTO DEL COMMISSARIO DI GIUSTIZIA.
Parole dell'Oste alla compagnia.
Il nostro Oste notò che da più di mezz'ora il bel sole aveva oltrepassato la quarta parte d'arco del suo
giorno artificiale; (1) e pur non essendo un pozzo di scienza, sapeva ch'era il diciotto d'aprile, messaggero di
maggio; e vide chiaramente che l'ombra d'ogni albero aveva in lunghezza la stessa misura del tronco eretto
che la proiettava; e calcolò da quell'ombra che Febo, allora nel pieno del suo splendore, era salito di
quarantacinque gradi... e insomma concluse, tenendo conto del giorno e della latitudine, che in quel
momento erano le dieci. Perciò d'improvviso fece fermare il cavallo.
«Signori,» disse «io vi avverto, dico a tutta la compagnia, che la quarta parte del giorno se n'è già andata.
Su, per amor di Dio e di San Giovanni, non perdete tempo se potete! Signori miei, il tempo deperisce notte
e giorno, e se la fila via da noi, sia di nascosto quando dormiamo che quando rimaniamo svegli a poltrire;
proprio come fa il fiume che non si gira mai indietro, una volta che dal monte scende al piano. Non per
nulla Seneca e molti altri filosofi rimpiangono più il tempo che l'oro nello scrigno; perché la perdita delle
ricchezze può essere riacquistata, mentre la perdita del tempo ci manda alla rovina, egli afferma. Il tempo
non torna più, non c'è dubbio, come non torna più la verginità a Marietta, una volta che per sua leggerezza
l'abbia perduta. Dunque non stiamo qui in ozio a far la muffa... Signor Commissario di Giustizia, che Dio vi
benedica, narrateci un racconto secondo i patti stabiliti! Siete voi che in questo caso avrete deciso di
sottomettervi al mio verdetto. Toglietevi dunque l'obbligo della promessa; così almeno avrete fatto il
vostro dovere.»
«Oste,» disse lui «son d'accordo, "par dieu"! non ho alcuna intenzione di mancarvi di parola! Ogni
promessa è debito, e la mia promessa son disposto a mantenerla in tutto: meglio di così non so come dire.
Chi detta legge agli altri, deve per giustizia sottostarvi egli medesimo: ecco la nostra massima. Certo, però,
che ora qui sul momento non saprei narrarvi alcun proficuo racconto che già da tempo non sia stato
narrato da Chaucer, (2) che pur conosce poco l'arte del verso e della rima, malgrado quel suo inglese che,
come si sa, è quanto di meglio egli sappia fare... Ciò che non ha narrato in un libro, state pur sicuro, fratello
caro, che l'avrà narrato in un altro. D'innamorati ne ha minuziosamente parlato più lui, di quanti Ovidio ne
abbia appena citati nelle sue antichissime Epistole (3). Perché dovrei raccontarvi quel che lui vi ha già
raccontato?... Ha cominciato presto in gioventù con Ceice e Alcione, (4) e da allora non ha fatto che parlare
di donne famose e dei loro amanti. Chi avesse voglia di sfogliare quel suo grosso volume intitolato "La
leggenda delle Sante di Cupido", (5) vi potrebbe trovare, ancora aperte, le profonde ferite di Lucrezia e di
Tisbe di Babilonia; Didone trafitta dalla spada per colpa del traditore Enea; Fillide cambiata in albero per il
suo Demofonte; il lamento di Deianira e di Ermione, d'Arianna e d'Isifile; l'isola deserta che sorge in mezzo
al mare, da cui Leandro s'annegò per la sua Ero; le lacrime di Elena, il dolore di Briseide, e il tuo, Laodamia,
e la tua crudeltà, regina Medea, che appendesti per il collo i tuoi figli, per vendicarti di Giasone che ti tradì
in amore! O Ipermestra, Penelope e Alcesti, la vostra virtù egli loda fra le migliori!... Lui però non fa certo
parola di quell'esempio scellerato di Canace, la quale s'accese di peccaminoso amore per il fratello (che
disgusto fanno certe storie!), o di quell'episodio d'Apollonio di Tiro, orribile a leggersi, che narra come
l'empio re Antioco togliesse la verginità a sua figlia, dopo averla schiaffata sul pavimento. (6) Ora, se
neppure lui nelle sue prediche ha mai voluto descrivere simili aberrazioni contro natura, non mi metterò, se
permettete, a raccontarle proprio io... Ma come farò adesso col mio racconto? Certo, mi dispiacerebbe far
la fine di quelle muse, dette altrimenti Pieridi... sanno le "Metamorfosi" che cosa voglio dire! (7) Però,
insomma, non m'importa una fava d'andargli dietro con prugnole secche! lo parlo in prosa, e lascio a lui far
rime.»
Ciò detto, tutto contegnoso, iniziò il suo racconto come ora sentirete.
Prologo
AL RACCONTO DEL COMMISSARIO DI GIUSTIZIA (8).
O povertà, esecrabile sventura, angariata dalla sete, dal freddo e dalla fame! Nel tuo cuore ti vergogni di
chiedere aiuto, eppure, se non lo chiedi, il bisogno tanto ti esulcera, che alla fine ti costringe a mostrare
anche le tue piaghe più nascoste! Tuo malgrado, devi per indigenza rubare o mendicare o comprare a
prestito! Biasimi Cristo e, piena d'acredine, dici che non distribuisce equamente i beni di questo mondo.
Accusi con malizia il tuo prossimo, sostenendo che tu non hai nulla, mentre lui ha tutto: «In fede mia» dici
«giorno verrà che gli brucerà la coda fra i tizzoni, e allora dovrà render conto di non aver aiutato chi è nel
bisogno!». Ascolta qual è la sentenza dei savi: «Meglio morire piuttosto che essere nell'indigenza!». Se sei
povero, anche il tuo vicino ti disprezza e allora, addio rispetto! Impara quello che il savio ti dice: «I giorni dei
poveri son tutti maledetti». Attento, perciò, a non trovarti nella loro condizione! Se sei povero, perfino tuo
fratello ti odia e tutti i tuoi amici, ahimè, si dileguano!... Ma beati voi, mercanti facoltosi, voi sì che siete
gente stimata e accorta! A riempire le vostre borse non è mai un misero doppio asso, ma il cinque e il sei,
appena a dadi giocate con la sorte! Voi sì che a Natale potete ballare allegramente! Voi guadagnando
esplorate terra e mare, e conoscete da esperti le condizioni di qualsiasi paese: siete voi i padri dei racconti
d'avventure, sia di pace che di guerra!... Ora, infatti, di racconti sarei sprovvisto, se un mercante, partito
ormai da anni, non me ne avesse appunto raccontato uno, ascoltate.
RACCONTO DEL COMMISSARIO DI GIUSTIZIA (*).
Qui comincia il Racconto del Commissario di Giustizia.
Viveva una volta in Siria una compagnia di ricchi negozianti, gente seria e onesta, che spediva ovunque
spezierie, stoffe dorate e seta dalle splendide tinte. Tale era la bontà e la novità della loro merce, che tutti
avevano piacere a trattare e a far scambi con loro.
Un bel giorno quei maestri mercanti decisero d'andare a Roma, non so se soltanto per affari o anche un po'
per loro svago. Il fatto è che quella volta, senza mandarvi altri, si recarono a Roma proprio loro di persona.
E, dopo aver preso alloggio dove ritennero che fosse più conveniente per il loro scopo, s'intrattennero a
piacer loro in quella città per un certo tempo.
E così accadde che a questi mercanti siriani giungesse, arricchita di giorno in giorno d'ogni particolare,
l'eccellente fama della figlia dell'imperatore, (9) madonna Costanza. La gente infatti non faceva che dire: «Il
nostro romano imperatore (Dio lo protegga!) ha una figlia che, da che mondo è mondo, quanto a bontà e
bellezza è senza pari! Dio la mantenga in gloria, e voglia un giorno che diventi regina dell'Europa intera! In
lei è una bellezza eccelsa, senza orgoglio; una giovinezza senza immaturità o follie; in ogni sua azione, virtù
è la sua guida, ed umiltà ha vinto in lei ogni superbia. Ella è lo specchio d'ogni cortesia; il suo cuore è il
tempio stesso della pietà; la sua mano, generosa ministra di beneficenze».
E tutto ciò era vero, com'è vero Iddio. Ma torniamo all'argomento. Per farla breve, dunque, questi
mercanti, dopo aver veduto anche loro quella beata fanciulla, ricaricarono le loro navi e se ne tornarono
tranquillamente in Siria, dedicandosi come prima ai loro negozi e passandosela bene.
Si dava ora il caso che questi mercanti fossero in grazia di colui ch'era il sultano della Siria: ogni qualvolta
tornavano da qualche paese straniero, egli, pieno d'affabile cortesia, dava loro un grande ricevimento,
chiedendo e domandando con fervore notizie dei vari stati e di tutte le meraviglie che potevano aver visto o
udito. Questa volta, fra le altre cose, essi gli parlarono di Costanza, ma con tale nobiltà di toni e così
minuziosamente, che alla fine il sultano, provando già un immenso piacere semplicemente a figurarsela
nella sua mente, non ebbe altro desiderio e aspirazione che di poterla amare per tutta la vita.
Purtroppo, però, in quel gran libro che gli uomini chiamano firmamento, dal momento della sua nascita era
stato scritto che l'amore, ahimè, sarebbe stato la sua morte! Dio sa infatti che fra le stelle, per chi vi sappia
leggere, sta scritta senza equivoci, più chiara che in uno specchio, la fine a cui ciascuno è destinato. Così, ad
esempio, anni prima che accadesse, fra le stelle era stata scritta la morte dì Ettore, e quella di Achille, di
Pompeo e di Cesare, ancor prima che nascessero; e la distruzione di Tebe; e la morte di Ercole, di Sansone,
Turno e Socrate... Ma la mente degli uomini è così ottusa, che nessuno in quel libro sa leggervi chiaro.
Il sultano, dunque, convocò il suo consiglio privato e insomma, per farvela breve, manifestò il suo desiderio
ai consiglieri, dicendo francamente che, se non avesse ottenuto presto la grazia di possedere Costanza, ne
sarebbe sicuramente morto: gli trovassero dunque in fretta qualche rimedio per la sua vita.
Ognuno allora disse la sua, argomentando e sentenziando per ogni verso, adducendo sottilissime ragioni e
parlando perfino di magia e d'impostura. Ma alla fine, per venire a una conclusione, non seppero trovar
altro mezzo o altra via d'uscita che il matrimonio. S'accorsero però subito d'una grave difficoltà (e con
ragione, a dire il vero), dovuta all'enorme differenza fra le due legislazioni, e glielo dissero: «Nessun
principe cristiano sarebbe mai contento di maritare sua figlia secondo i soavi precetti a noi insegnati dal
nostro profeta Maometto».
Ed egli rispose: «Piuttosto che perdere Costanza, mi farei cristiano senza esitazione! Io devo essere suo,
non mi rimane scelta. Perciò, vi prego, lasciate in pace i vostri argomenti: salvatemi la vita e non trascurate
di trovare colei che la mia vita ha in suo potere, perché in questo dolore io non posso più durare a lungo».
A che serve indugiare oltre? Basti dirvi che per mezzo di trattative e d'ambasciate, con la mediazione del
papa, di tutta la Chiesa e di tutta la nobiltà, fu stabilito, a detrimento del maomettismo e a vantaggio della
diletta legge di Cristo, quanto segue: che il sultano e i suoi baroni e tutti i suoi sudditi si sarebbero fatti
cristiani, ed egli avrebbe avuto Costanza in matrimonio, con non so quanto in dote, ma tanto certamente
da costituire una sufficiente contropartita. Il patto fu giurato da ambedue le parti, ed ora, bella Costanza, ti
guidi Dio onnipotente!
Qualcuno s'aspetterebbe, immagino, che descrivessi minutamente i preparativi che l'imperatore, nella sua
magnificenza, fece per sua figlia madonna Costanza. Ben si comprende, però, come non sia possibile riferire
in breve tutto quel che si fece in occasione d'un tale avvenimento. Certo è che ad accompagnarla furono
mandati vescovi, baroni, dame, cavalieri di gran nome ed altri illustri personaggi; e fu annunziato per tutta
la città che ognuno, con gran devozione, avrebbe dovuto pregare Cristo, affinché accogliesse nella sua
grazia quel matrimonio e proteggesse per viaggio la spedizione.
Giunse quindi il giorno della partenza; giunse, dico, il triste e fatale giorno in cui non c'era più da indugiare,
e ognuno e tutti erano pronti a mettersi in cammino. Costanza, affranta dal dolore, s'alzò pallidissima e si
preparò a partire, ben vedendo che ormai non le restava altro. Ah, c'è da stupirsi che lei scoppiasse a
piangere, dovendo andare in un paese straniero, lontano dagli amici che le volevano tanto bene, e legarsi in
soggezione a un uomo di cui non sapeva nulla? Non per dire, mariti buoni ve ne sono, e ve ne sono sempre
stati, ma le mogli devono almeno prima conoscerli!
«Padre,» disse lei «l'infelice tua piccola Costanza, la tua giovane figlia, teneramente cresciuta nel tuo
affetto, e tu, madre mia, che, dopo Cristo lassù, su tutte le cose sei la mia gioia sovrana... ecco Costanza,
vostra figlia, si raccomanda a voi per sempre, ora che deve andare in Siria e che forse non vi rivedrà mai più.
Ahimè, devo ormai partire per quel barbaro paese, giacché così voi volete, ma almeno Cristo, che morì per
la nostra redenzione, mi conceda la grazia di poter adempiere al suo comando! A me, sventurata donna,
non importa morire. Le donne sono nate in soggezione e penitenza, e per rimanere sotto il dominio
dell'uomo.»
Credo che nemmeno a Troia, quando Pirro ne abbatté le mura o quando Ilio andò in fiamme, né a Tebe,
quando la città cadde, e neppure a Roma, fra le stragi d'Annibale che per tre volte vinse i Romani, s'udisse
un pianto commovente e pietoso come in quella camera al momento della partenza! Ma piangesse o meno,
lei ormai doveva partire.
O primo mobile, (10) crudele firmamento, che col tuo moto quotidiano spingi e scagli, da oriente a
occidente, tutto ciò che per natura seguirebbe un altro corso! La tua spinta in tal modo dispose il cielo, che,
fin dal principio di quell'orrendo viaggio, il crudele Marte aveva ormai distrutto quel matrimonio. O
malaugurato tortuoso ascendente, per cui Marte, ahimè, irrimediabilmente cadde dal suo angolo giù nella
tetra casa dello Scorpione! O tu Marte, malefico "Atazir"! (11) O fragile Luna, che con infelice moto invano
ti congiungi con chi non ti vuole, ben potevi rimanere invece d'andar via!... Ahimè, imprudente imperatore
di Roma! Non c'era un astrologo in tutta la città? Non un periodo migliore per questa circostanza? Non
c'era forse scelta per il viaggio, specie per gente di così alto rango, una volta saputo l'oroscopo natale?
Ahimè, troppo ignoranti siamo, o troppo lenti!
Ecco dunque che l'infelice bella fanciulla venne solennemente accompagnata alla nave, con tutti gli onori.
«Ebbene, Gesù Cristo sia con tutti voi!» disse lei.
E quelli: «Buon viaggio, bella Costanza!» e fu tutto, mentre lei si sforzava d'apparire tranquilla. Così
lasciamola salpare e intanto proseguiamo col racconto.
La madre del sultano, ch'era un vero pozzo di vizi, avendo spiato il fermo proposito di suo figlio
d'abbandonare l'antica religione, convocò subito il consiglio, e tutti vennero a sentire che cosa volesse.
Quando l'assemblea fu radunata, lei si mise a sedere e incominciò a parlare.
«Signori,» disse «voi sapete tutti che mio figlio è sul punto d'abbandonare le sante leggi del Corano, dettate
dal messaggero di Dio, Maometto. Ebbene io faccio voto al gran Dio che mi strapperò la vita dal corpo,
piuttosto che la legge di Maometto dal cuore! Che può venire a noi da questa nuova religione, se non
schiavitù e penitenza corporale? E perché essere poi trascinati all'inferno per aver rinnegato a Maometto la
nostra fede? Dunque, signori, volete assicurarmi d'approvare il mio parere ed avere con me salvezza
eterna?»
Approvarono e giurarono tutti quanti che, sia da vivi che da morti, sarebbero sempre stati dalla sua parte, e
ciascuno s'impegnò a fare il possibile per convincere anche i propri amici a sostenerla. Allora lei, ormai
decisa a por mano all'impresa di cui vi parlerò, si rivolse loro con queste parole: «Subito fingeremo di
ricevere il battesimo... non ci farà gran male un poco d'acqua fredda! Poi io darò una gran festa, in modo
che il sultano non sospetti nulla. E allora, povera la sua immacolata moglie cristiana... ne avrà di rosso da
lavare, quand'anche con sé avesse una fontana!»
O sultana, ceppo d'iniquità! Virago, Semiramide seconda! (12) O serpente sotto forma di donna, simile al
serpente incatenato negli abissi dell'inferno! O femmina ingannatrice, tutto ciò che ammorba virtù e
innocenza, per tua malizia, alligna in te, covo di tutti i vizi! O Satana, gonfio d'invidia dal giorno che fosti
escluso dal nostro lascito, tu conosci bene l'antica via per giungere alla donna! Tu che inducesti Eva a
trascinarci in schiavitù, ora infrangi questo cristiano matrimonio. Ahimè, per sempre ahimè, della donna ti
fai strumento per le tue scelleratezze!
La sultana, che così rampogno e maledico, lasciò intanto che di nascosto il suo progetto prendesse corso...
ma perché farla tanto lunga? Un giorno si recò a cavallo dal sultano, e gli disse che aveva deciso di abiurare
la sua fede e che voleva ricevere il battesimo dalle mani del sacerdote, pentita d'esser rimasta pagana per
tanto tempo. E lo pregò infine di concedere a lei l'onore di festeggiare gli ospiti cristiani, dicendo: «Farò
tutto il possibile per compiacerli!».
Rispose il sultano: «Sia come volete ...». E la ringraziò in ginocchio per quella sua richiesta, senza saper
neppure più che cosa dire per la gran gioia. Lei baciò il figlio e fece ritorno a casa.
EXPLICIT PRIMA PARS.
SEQUITUR PARS SECUNDA.
I cristiani intanto toccarono terra in Siria, con un grandioso corteo solenne, e il sultano mandò con premura
l'annunzio, prima a sua madre, e poi intorno per tutto il regno, notificando che finalmente la sua sposa era
giunta, e pregando tutti d'andare incontro alla nuova regina e di renderle omaggio. Immensa fu la folla e
splendido lo sfarzo dei siriani e dei romani al momento dell'incontro. La madre del sultano, fastosa ed
elegante, accolse la giovane fingendo una gioia pari a quella che una madre proverebbe per la propria figlia.
E cavalcando a lenti passi il corteo s'avviò solennemente alla città vicina. Non credo che il trionfo di Giulio,
(13) che Lucano esalta tanto, fosse più maestoso o splendido di quell'adunanza di popolo felice! Mentre la
sultana, quello scorpione, quello spirito malefico, pur con tutte le sue cerimonie, andava sotto sotto
preparando il suo aculeo mortale, il sultano giunse poco dopo, in tutto lo splendore della sua regalità, e
salutò la sposa pieno di gioia e d'esultanza... E così lasciamoli in quella gioia e in quel tripudio; ciò che conta
è il succo della vicenda. Insomma, giunta l'ora, si pensò bene d'interrompere il sollazzo e tutti se ne
andarono a riposare.
Venne poi il giorno in cui la vecchia sultana ordinò, come aveva promesso, una gran festa, e a quella festa i
cristiani si recarono in massa, giovani e anziani. Bisognava vedere che splendore e che sfarzo, e quante
squisitezze, assai più di quante vi potrei descrivere io! Ma pagarono tutto a caro prezzo, prima d'alzarsi da
quel banchetto...
O dolore improvviso che subentri ad ogni gioia, sempre cosparsa a questo mondo di amarezze! Tu mèta
d'ogni gaudio nei nostri affanni quotidiani!... Ogni nostra felicità ha per fine l'afflizione: ricordatevene, per il
vostro bene, e nel vostro giorno felice tenete a mente il dolore o il male inatteso che vien dietro.
Insomma, per farvela corta, il sultano e tutti i cristiani vennero fatti a pezzi e pugnalati mentre sedevano a
tavola, tutti all'infuori di madonna Costanza! La vecchia sultana, maledetta strega, commise con i suoi amici
quell'orribile scempio, perché voleva governare lei tutto il paese. Non vennero risparmiati neppure i siriani
che, seguendo il consiglio del sultano, s'erano convertiti, ma prima che si muovessero furono trucidati tutti.
Costanza, invece, venne presa e messa in gran fretta sopra una nave senza timone, alle mercè di Dio, e che
s'aggiustasse da sola a ritornare dalla Siria in Italia. Le diedero certi gioielli che s'era portata dietro, viveri (a
dire il vero) in gran quantità e gli abiti che aveva, e poi via, sul mare aperto! O mia Costanza, piena di bontà,
o cara giovane figlia dell'imperatore, il Signore della fortuna stia ora al tuo timone!
Lei benedisse tutti e si rivolse poi, con pietosissima voce, alla croce di Cristo: «O luminoso, o benedetto
altare, croce santissima, rossa del sangue del misericordioso Agnello che purificò il mondo dell'antica colpa,
salvami dal demonio e dai suoi artigli il giorno che dovrò andare a fondo! Vittoriosa pianta, rifugio dei
fedeli, tu sola fosti degna di sorreggere il Re del Cielo con le sue ferite vive, l'Agnello immacolato trafitto
dalla lancia! Tu che scacci i demoni da uomo o donna su cui la fede estenda i tuoi rami, proteggimi e dammi
forza di redimermi finché ho vita».
Per giorni e per anni questa creatura navigò per tutto il mare della Grecia fino allo stretto del Marocco,
dove voleva il caso. Quanti bocconi amari dovette mordere, quante volte s'aspettò di morire, prima che le
furiose onde la trascinassero dove doveva approdare!
Qualcuno potrebbe domandarmi: perché non venne uccisa il giorno della festa? chi ne protesse la persona?
Ed io rispondo ancora con una domanda: chi protesse Daniele nell'orribile spelonca dove tutti prima di lui,
signori e miserabili, furono divorati dai leoni senza poter fuggire? Nessuno all'infuori di Dio ch'egli si
portava nel cuore! Dio si compiace di mostrare in questo modo i suoi miracoli, affinché noi possiamo
vedere quanto sia grande la sua potenza. Cristo, che è rimedio contro ogni male, spesso con mezzi che
soltanto i dotti conoscono, opera secondo un fine che appare oscuro alla nostra intelligenza, sicché per
ignoranza nostra non arriviamo a comprendere quanto sia accorta la sua provvidenza. Se dunque Costanza
non fu uccisa nel giorno della festa, chi la salvò dall'affondare in mare?... Chi salvò Giona nelle viscere del
pesce che vivo lo rigettò a Ninive? Ben si sa che fu Colui che dalle acque protesse l'intero popolo ebreo
quando a piedi asciutti attraversò il mare!... Chi ordinò ai quattro spiriti della tempesta, che hanno il potere
di sconvolgere la terra e il mare, a nord e a sud, a est e ad ovest, di non soffiare «né sulla terra, né sul mare,
né sulle piante»? (14) Certamente fu Colui il quale sempre, nel sonno e nella veglia, dalla tempesta protesse
questa donna. Dove mai, questa donna, poté trovare cibi e bevande per più di tre anni? Come poté bastarle
la sua provvista?... Chi nutrì Maria Egiziaca (15) nella spelonca o nel deserto?... Certamente nessuno
all'infuori di Cristo. Fu cosa altrettanto portentosa sfamare cinquemila persone con cinque pani e due
pesci! Così al gran bisogno di Costanza Dio provvide con la sua profusione.
Ed eccola spingersi dentro il nostro oceano e poi su, attraverso il nostro selvaggio mare, finché ad un certo
punto l'onda non la gettò sotto un castello, di cui ora non ricordo il nome, nel Northumberland (16)
lontano. La nave s'arenò saldamente nella sabbia e non si mosse più per tutto il tempo della marea. Era
dunque volere di Cristo che lei finalmente si fermasse.
Il custode del castello scese a guardare quell'avanzo di naufragio e, rovistando sulla nave, trovò la donna
esausta, consunta dal dolore, e vide anche quei pochi gioielli che con sé portava. Lei lo implorò nella
propria lingua d'aver misericordia e di strapparle via la vita per liberarla dalla pena in cui si trovava; gli parlò
in un latino piuttosto corrotto, riuscendo tuttavia a farsi capire.
Il castaldo, quand'ebbe finito di rovistare, portò l'infelice donna a terra. Lei allora s'inginocchiò e rese grazie
a Dio; però non volle dire a nessuno chi fosse, né in bene né in male, neanche a costo della vita: disse
soltanto che sul mare era rimasta così stordita, da perdere completamente la memoria. Sia il castaldo che
sua moglie provarono per lei tanta pietà, che alla fine piansero di commozione.
Lei in seguito si dimostrò così zelante e sollecita a servire e a far piaceri a tutti, che chiunque la vedeva le
voleva subito bene.
Il castaldo e sua moglie, madonna Ermenegilda, erano ancora pagani, come tutti in quel paese. Ma
Ermenegilda voleva bene a Costanza come alla propria vita, e Costanza tanto pregò e pianse per l'amica,
che Gesù, con la sua grazia, la convertì, dico madonna Ermenegilda, la moglie del castaldo.
Da quelle parti non osava mai avventurarsi alcun cristiano; tutti erano stati cacciati via dai pagani che
avevano conquistato completamente le regioni del nord, sia per terra che per mare, e gli antichi bretoni
cristiani rimasti in quest'isola fuggirono tutti nel Galles e vi si rifugiarono per diverso tempo... Non proprio
tutti, però, questi bretoni cristiani: qualcuno infatti ancora si trovava che, in cuor suo, venerava Cristo di
nascosto al popolo pagano; e appunto tre di costoro vivevano vicino al castello. Uno era cieco e non ci
vedeva, se non con gli occhi della mente, con i quali anche chi è cieco può vedere...
Risplendeva dunque il sole come in un giorno d'estate, quando il castaldo e sua moglie, insieme con
Costanza, presero la strada che andava diretta al mare, per svagarsi un'ora o due passeggiando avanti e
indietro, e così accadde che incontrassero proprio quel vecchio storpio dagli occhi irrimediabilmente chiusi.
«In nome di Cristo» gridò il bretone cieco «ridatemi la vista, madonna Ermenegilda!»
La dama si sentì perduta a queste parole, per timore che il marito, venendo a sapere che s'era fatta
cristiana, volesse ucciderla. Costanza allora le fece animo, ordinandole di compiere la volontà di Cristo
come figlia della sua chiesa.
Il castaldo, sbalordito al veder ciò, chiese: «Che significa tutto questo?».
Rispose Costanza: «Signor mio, è la potenza di Cristo che salva gli uomini dalle insidie del demonio!». E
prese a parlargli della nostra fede con tanto fervore, che prima di sera convertì anche lui a credere in Cristo.
Il castaldo non era però il signore del posto di cui parlo, del posto cioè dove lui aveva trovato Costanza, ma
lo governava ormai da anni per conto di Alla, (17) re del Northumberland intero, il quale, come poi
sentirete, era un uomo molto savio e di prode mano contro gli scozzesi. Ma procediamo con ordine nel
racconto.
Satana, che sempre è in attesa per tradirci, notando in Costanza tanta perfezione, pensò subito a come
opporvisi, facendo in modo che un giovane cavaliere che viveva in quella città, s'infiammasse per lei di
tanta insana passione, da sembrargli veramente di morire se non fosse riuscito a dar sfogo alle sue voglie.
Costui dunque prese a corteggiarla, ma inutilmente: lei non avrebbe mai commesso alcun peccato. Alla
fine, per vendicarsi, tramò nella sua mente di farla condannare a morte per ignominia.
Aspettò che il castaldo fosse via, e una notte penetrò di nascosto nella camera d'Ermenegilda, mentre
dormiva. Stanca per aver vegliato a lungo in orazione, accanto a lei dormiva anche Costanza. Spinto dunque
dalla tentazione di Satana, il cavaliere s'avvicinò pian piano al letto e con un solo colpo spaccò in due la gola
ad Ermenegilda; quindi, posato il coltello sanguinante accanto a Madonna Costanza, se ne fuggì via di corsa
e... che Dio lo maledica!
Poco dopo tornò a casa il castaldo, insieme con Alla, il re di quella terra, e, trovando la moglie così
spietatamente uccisa, scoppiò in lacrime torcendosi le mani, e vide nel letto il coltello insanguinato accanto
a madonna Costanza... Ahimè, che cosa poteva dire lei? Per il gran dolore svenne.
Re Alla fu subito informato di tutta questa sventura, e gli fu anche riferito quando, dove e come la povera
Costanza fosse stata trovata sopra una nave, tutte cose che avete già udito. E il cuore del re si riempì di
compassione, nel vedere quell'amabile creatura prostrata nel dolore e nella sfortuna. Pareva proprio un
agnello che fosse condotto a morte, quell'innocente che ora stava davanti al re. Il cavaliere impostore, che
aveva commesso il delitto, spergiurava invece che lei sola poteva aver fatto una cosa simile. Ma allora si
levò un gran clamore fra la gente, e tutti dicevano che non riuscivano neppure a immaginarsi come lei
avesse potuto commettere una simile atrocità. L'avevano sempre vista così virtuosa, e affezionata ad
Ermenegilda come alla propria vita: tutti nell'aula lo testimoniarono, all'infuori di colui che Ermenegilda
l'aveva uccisa col coltello. Il nobile re tenne naturalmente gran conto di queste testimonianze e pensò
d'investigare più a fondo per accertare il vero.
Ahimè, Costanza, tu non hai campioni e non sai certo combattere, povera infelice! Ma Colui che morì per la
nostra redenzione e incatenò Satana (laggiù nel fondo dove ancora giace) sia oggi il tuo forte campione! Se
infatti non interviene Cristo con un miracolo, ormai, pur senza colpa, tu dovrai morire.
Lei dunque si prostrò in ginocchio e disse: «Dio immortale che salvasti Susanna (18) dalla calunnia, e tu
pietosa Vergine, Maria figlia di Sant'Anna, madre di Colui davanti al quale intonano osanna gli angeli, com'è
vero che sono innocente di questa turpe colpa, soccorretemi, altrimenti dovrò morire!».
Avete mai visto tra la folla il pallido volto di chi viene condotto a morte senz'aver ottenuto grazia, un volto
d'un colore così livido, che subito si riconosce, tant'è alterato, fra tutti gli altri volti del corteo? Ebbene così
era Costanza, mentre smarrita si guardava attorno.
O regine, che vivete in agiatezza, o duchesse, e voi tutte gentildonne, abbiate un poco di pietà per la sua
sventura! E' figlia d'un imperatore, ma ora è sola e non ha nessuno con cui piangere il suo dolore. O sangue
reale, raggelato nella paura, lontano da ogni amico proprio nel momento di maggior bisogno!
Lo stesso re Alla, che il cuor gentile aveva colmo di pietà, provò tanta compassione da non riuscire a
trattener le lacrime: «Su, presto, andate a prendere una bibbia» disse «e se ancora il cavaliere giurerà che
fu lei a uccidere quella donna, allora stabiliremo noi in che modo dovremo far giustizia».
Fu portato un libro bretone con i vangeli, e su quel libro il cavaliere giurò senza esitazione che lei era
colpevole. Allora, d'improvviso, una mano lo colpì così violentemente fra capo e collo, ch'egli cadde a terra
come un sasso e, alla presenza di quanti erano sul posto, gli schizzarono via gli occhi dalla testa. E tutti
udirono una voce che diceva: «Hai diffamato, alla presenza dell'Altissimo, l'innocente figlia della Santa
Chiesa: tanto hai osato, non dico altro». Di fronte a un simile portento, la folla rimase stupefatta, e tutti,
all'infuori di Costanza, furono atterriti dal timore di castighi. Grande fu questo timore, come pure il
pentimento di chi aveva ingiustamente sospettato la povera Costanza senza colpa. E finì che, dopo questo
miracolo, per intercessione di Costanza, il re e molti altri fra i presenti, grazie alla bontà di Cristo,
finalmente si convertirono. Il cavaliere spergiuro fu condannato per la sua impostura con una rapida
sentenza di re Alla, anche se poi Costanza fu molto addolorata per la sua morte. E dopo di ciò Gesù, nella
sua misericordia, fece sì che Alla sposasse solennemente questa santa donna, così radiosa e pura, la quale
in questo modo, per opera di Cristo, diventò regina.
A dire il vero, però, ci fu qualcuno che non rimase affatto contento di questo matrimonio, e chi, se non
proprio Donegilda, la prepotente madre del re? Pensò che il cuore le si sarebbe spezzato in due; mai
avrebbe voluto che suo figlio facesse una cosa simile; era un'onta per lei ch'egli prendesse in moglie una
donna forestiera... Ma non mi va di mettermi ora a fare con veccia e paglia una lunga biada di tiritere!
Dovrei forse dirvi chi della famiglia reale fu presente alle nozze o chi venne primo nel corteo, chi suonò la
tromba e chi il corno?... Intanto, ogni racconto si sa come va a finire: tutti mangiarono e bevvero, ballarono
e cantarono, e si divertirono. Poi se ne andarono a letto, com'era giusto e ragionevole. Le spose infatti, pur
con tutte le loro cose sante, di notte devono accettare con pazienza certe piccole necessità che tanto
piacciono a chi le ha maritate con l'anello, lasciando la santità da parte, almeno per il momento... non c'è
altro da fare.
Ed ecco che ben presto lui la rese incinta e, dovendo partire per la Scozia a combattere contro il nemico,
affidò la moglie alle cure d'un vescovo e del castaldo.
Così la bella Costanza progredì, umile e dolce, nel suo stato, finché un giorno dovette mettersi ferma in
camera sua ad aspettare la volontà di Cristo... Giunto il momento, partorì un figlio, che fu battezzato al
fonte col nome di Maurizio.
Il castaldo chiamò un messaggero e scrisse subito a re Alla come si fosse compiuto il lieto evento, insieme
ad altre rapide notizie. L'uomo prese la lettera e si mise immediatamente in viaggio.
Sperando in una ricompensa, quel messaggero passò prima dalla madre del re e, salutandola nel suo
linguaggio cerimonioso, le disse: «Signora, ben potete esser felice e lieta, e ringraziare mille volte Iddio!
Madonna la regina ha un figlio, a gioia e benedizione di tutto quanto il regno. Ecco, ho qui la lettera sigillata
dell'annunzio che devo al più presto consegnare al re. Se qualcosa desiderate per vostro figlio, io son
sempre, giorno e notte, il vostro servo».
Rispose Donegilda: «Per il momento, no; però fermati a dormire qui per questa notte. Ti dirò domani quel
che vorrò».
Il messaggero bevve birra e vino a sazietà e, mentre lui ormai dormiva come un porco, gli fu tolta di
nascosto la lettera dalla borsa. Venne poi imitata molto abilmente un'altra lettera, sempre diretta al re da
parte del castaldo, nella quale, come ora sentirete, l'annunzio fu alterato con gran malizia. Questa lettera
diceva, infatti, che la regina s'era sgravata d'una mostruosa creatura così orribile, che nessuno al castello
aveva il coraggio di guardarla: quella madre doveva certo essere una strega, capitata là per magia o per
qualche incantesimo, e che tutti ormai odiavano starle vicino.
Figuratevi il dolore del re nel vedere quella lettera, eppure, senza rivelare il suo grave dispiacere ad alcuno,
rispose scrivendo di suo pugno: «Sia sempre il benvenuto ciò che Cristo mi manda, ormai conosco la sua
dottrina! Signore, sia fatta la tua volontà come a te piace; ogni mio desiderio rimetto al tuo comando!
Abbiate cura del fanciullo, bello o brutto che sia, come pure di mia moglie, fin quando non sarò di ritorno in
patria. Cristo, quando vorrà, potrà mandarmi un altro erede che mi sia di questo più gradito». E, fra sé
piangendo, suggellò la lettera che fu subito portata al messaggero, il quale senz'altro se ne partì.
O messaggero riboccante d'ubriachezza, il tuo alito è pesante, le tue gambe tremebonde, tu ormai non tieni
certo più alcun segreto! La tua mente è svanita, la tua faccia ha mutato colore e tu sfringuelli come una
taccola! Quando in una compagnia comanda l'ubriachezza, non vi sono certamente più nascosti segreti... O
Donegilda, la mia lingua non basta a descrivere la tua malizia e il tuo sopruso! Perciò io t'abbandono al
diavolo: ci penserà lui a smascherare la tua frode! Bada, femmina... (ma, perdio, mi sbaglio!...) bada, spirito
diabolico, io t'avverto, anche se tu sei qui che cammini, la tua anima è già all'inferno!
Il messaggero, dunque, congedatosi dal re, sostò di nuovo alla corte della regina madre, la quale,
felicissima, fece il possibile per rimpinzarlo. Egli bevve e s'imbottì bene la cintura, e poi s'addormentò
russando, secondo il solito, tutta la notte, fino al sorgere del sole. Ancora una volta la lettera gli fu sottratta,
e scambiata con un'altra di questo tono: «Il re ordina immediatamente al suo castaldo, pena l'impiccagione
per alto tradimento, di non permettere in alcun modo a Costanza di rimanere entro i confini del regno per
più di tre giorni e un quarto di marea. Ma la ponga col bambino e tutta la sua roba sulla stessa nave in cui
un giorno la trovò, e la spinga lontano dalla riva, ordinandole di non farsi mai più vedere!».
O mia Costanza, a ragione la tua anima ebbe paura e, dormendo, in sogno sentì d'essere in pena, mentre
Donegilda macchinava tutta quest'infamia!
Il messaggero, la mattina quando fu sveglio, prese la via più breve per il castello e portò la lettera al
castaldo, il quale, vedendo quello scritto sventurato, si mise a gemere e a sospirare: «Cristo Signore,» disse
«come può durare questo mondo, pieno di creature così perverse? Dio onnipotente, se questo è il tuo
volere, e tu sei un giudice giusto, come puoi permettere che gl'innocenti muoiano e la gente abbietta regni
prosperosa? Ahimè, buona Costanza! E infelice me, che debbo farti da giustiziere o morire, senza scampo,
d'una morte infame!».
Piansero giovani e vecchi per tutto il regno, quando seppero che il re aveva mandato quell'odiosa lettera, e
Costanza, pallida in volto come una morta, il quarto giorno si diresse verso la nave. E tuttavia accettò di
buon animo la volontà di Cristo e, inginocchiandosi sulla spiaggia, disse: «Signore, sia sempre benvenuto ciò
che tu mi mandi! Colui che mi salvò dalla calunnia, mentr'ero fra voi sulla terra, potrà salvarmi dal male e
dall'infamia anche sul mare, sebbene ancora io non veda come. Egli è forte, e lo è sempre stato. In lui
soltanto io confido, e nella sua diletta Madre, che è la mia vela e il mio timone».
Il bimbo le si mise a piangere in braccio, e allora lei, reclinandosi, gli disse teneramente: «Taci, figliolino,
non ti farò alcun male».
E togliendosi di capo il fazzoletto, glielo pose sugli esili occhi e, cullandolo premurosamente fra le braccia,
sollevò lo sguardo al cielo: «Madre,» disse «radiosa Vergine Maria, è vero purtroppo che per istigamento
d'una donna il genere umano fu smarrito e condannato a morte e perciò tuo Figlio fu straziato in croce. Gli
occhi tuoi benedetti videro tutto il suo tormento, e non c'è confronto fra il tuo dolore e il dolore che
chiunque può provare. Tu ti vedesti trucidare il Figlio davanti agli occhi, mentre il mio bambino, almeno, è
ancora vivo. Però ti prego, fulgida signora, soccorso degl'infelici, tu gloriosa fra le donne, tu bel maggio, tu
porto di rifugio, stella splendida del giorno, abbi pietà del mio bambino, tu che nella tua benevolenza hai
pietà dei miseri nella sventura! Ahimè, povero bambino, che colpa puoi avere, in nome di Dio, se ancora
non hai commesso alcun peccato? Perché il tuo crudele padre ti vuole morto? Ah, buon castellano, almeno
tu abbi misericordia, e lascia che il mio bambino resti qui con te! E se per paura non osi salvarlo, almeno
bacialo una volta in nome di suo padre!».
E volgendo lo sguardo verso terra, disse: «Addio, sposo crudele!».
Poi si alzò e, scendendo lungo la spiaggia, s'avviò verso la nave. C'era tutto il popolo che la seguiva, e lei
intanto cercava di calmare il suo bambino. Salutò infine tutti quanti e, benedicendoli santamente, salì a
bordo. La nave, questa volta, era abbondantemente fornita di viveri, che le sarebbero durati a lungo; e
d'altre cose necessarie di cui avrebbe avuto bisogno, grazie a Dio, ne aveva abbastanza. Occorreva soltanto
che Dio onnipotente la provvedesse di vento e di tempo buono, riconducendola a casa! Non sto a dirvi
altro: eccola ormai in mare, che procede per la sua via.
EXPLICIT SECUNDA PARS.
SEQUITUR PARS TERCIA.
Subito dopo questo fatto tornò in patria re Alla, al castello di cui parlavamo, e chiese dove fossero sua
moglie e il suo bambino. Il castaldo si sentì gelare il cuore e gli raccontò con franchezza tutta la vicenda che
voi già conoscete (non sto a ripetervela ora), mostrando al re il suo sigillo e la sua lettera. «Sire,» gli disse
«io ho fatto esattamente come voi, sotto pena di morte, m'avete comandato.»
Fu allora messo alla tortura il messaggero, il quale dovette confessare e dire per filo e per segno in che
posti s'era alloggiato notte per notte. Così, per deduzione e con accurate indagini, venne scoperto da chi
scaturiva tutto il male. Si riconobbe anche, io però non so in che modo, la mano che aveva scritto la lettera,
spargendo tutto il veleno di quell'impresa scellerata. Fatto sta che Alla fece implacabilmente uccidere sua
madre (secondo quanto sta chiaramente scritto) per tradimento all'autorità sovrana. Ecco con che
ignominia finì la vecchia Donegilda! Ciò che invece nessuna lingua potrà mai descrivere è il dolore che,
giorno e notte, Alla soffriva per sua moglie e il suo bambino.
Ma torniamo ora a Costanza, che andò errando sul mare fra tormenti e pene per più di cinque anni, come a
Cristo piacque, prima che la sua nave si avvicinasse a riva. E alla fine ecco Costanza e il suo bambino,
sbalzati dalle onde proprio sotto un castello saraceno, di cui non sto ora a ricordare il nome. Ma Dio
onnipotente, che salvò tutto il genere umano, abbia cura di Costanza e del bambino, perché, essendo
caduti in mano dei pagani, sono di nuovo in pericolo di morte...
Erano in molti coloro che dal castello scendevano a far la guardia alla nave di Costanza. Ma una notte, dal
castello, scese l'intendente del sovrano (Dio lo maledica!), un brigante che aveva rinnegato la nostra fede:
salì a bordo da solo e disse alla donna che, volente o nolente, la voleva per amante. Ecco che stavano per
ricominciare i guai per quella povera donna! Il piccolo si mise a piangere, ed anche lei piangeva da far pena.
Ma subito la soccorse Maria benedetta e, mentre lei si difendeva bene e con coraggio, quel brigante sbalzò
improvvisamente fuori bordo e per castigo fu annegato in mare. E così Cristo mantenne Costanza
immacolata.
O turpe desiderio di lussuria, ecco, questa è la tua fine! Non solo tu consumi la mente dell'uomo, ma ne
logori anche il corpo. C'è da compiangere veramente il risultato dei tuoi maneggi e delle tue voglie cieche.
Quanti se ne trovano di uomini, i quali, non per altro motivo che per esser caduti in questo peccato,
vengono uccisi o rovinati! Come poté, quella grama donna, aver la forza di difendersi contro quel
rinnegato? O Golia, colosso smisurato, come poté Davide sconfiggerti, così giovane e con armi così fragili?
Come osò soltanto fissare il tuo tremendo sguardo? Ben si capisce che ciò fu solo per grazia di Dio. Chi
diede a Giuditta il coraggio e l'ardimento d'uccidere Oloferne nella sua tenda, salvando dalla miseria il
popolo dì Dio? Io dico che, come Dio mandò loro forza e coraggio salvandoli dal male, così mandò coraggio
e forza anche a Costanza.
La sua nave, uscita dallo stretto di Gibilterra e Ceuta, (19) venne spinta ora a occidente, ora a nord e a sud,
ora a levante, per lunghi tremendi giorni, finché la Madre di Cristo (che sia sempre benedetta!) non pensò
nella sua bontà infinita di porre fine a tutta questa sofferenza.
Ma tralasciamo Costanza per un poco, e parliamo invece dell'imperatore romano, il quale, per mezzo di
lettere dalla Siria, venne a sapere della strage dei cristiani e della condanna inflitta a sua figlia da una vile
traditrice, cioè da quell'empia sultana maledetta che alla festa aveva fatto uccidere tutti dal primo
all'ultimo. L'imperatore, dunque, mandò subito uno dei suoi senatori, con un seguito regale e Dio sa quanti
altri ottimati, a far vendetta contro la Siria. E quelli bruciarono, uccisero e per molti giorni recarono
sventura, ma infine, per farla breve, si prepararono a tornare a Roma.
Mentre appunto tornava vittorioso a Roma, navigando con gran pompa, il senatore s'imbatté, secondo
quanto narra la storia, proprio con la nave alla deriva su cui stava la misera Costanza. Egli non sapeva
affatto chi fosse lei o perché si trovasse in quello stato, né lei gli avrebbe mai parlato della propria origine,
neanche a costo di morire. Ad ogni modo la portò a Roma e l'affidò, insieme col piccolo, a sua moglie, con
la quale lei passò dunque a trascorrere la vita. Così Nostra Signora, ancora una volta, liberò dal dolore la
povera Costanza. E lei rimase a lungo in quella casa, sempre dedita a sante opere, com'era suo piacere. La
moglie del senatore era sua zia, anche se dopo quanto era accaduto non la riconobbe. Ora, però, non vorrei
più andare per le lunghe: torniamo a re Alla, di cui prima vi parlavo, che ancora piange e si dispera per la
moglie, intanto ormai Costanza è sotto la protezione del senatore.
Re Alla, che aveva fatto uccidere sua madre, fu preso da un tale pentimento, che un giorno, per farla breve,
pensò di recarsi a Roma a prendere il perdono e di rimettersi in tutto agli ordini del papa, implorando Gesù
Cristo d'assolverlo dall'infame azione compiuta. Lo precedettero gli araldi, e ben presto per tutta la città di
Roma corse voce che re Alla sarebbe giunto in pellegrinaggio. E perciò il senatore, insieme con molti altri
del suo grado, gli andò incontro a cavallo secondo le usanze, per dimostrargli la sua alta stima e rendergli
l'omaggio dovuto a un re. E fu veramente splendido il ricevimento che questo nobile senatore riservò a re
Alla, il quale, per non essere da meno, volle ricambiare all'altro il grande onore. Così, insomma, per non
farla troppo lunga, capitò che il senatore andasse a una festa da re Alla, insieme col figlio di Costanza. C'è
chi dice che fosse proprio per richiesta di Costanza, che il senatore condusse al banchetto il ragazzo: i
dettagli non posso mica saperli tutti, ma, comunque sia, là il ragazzo c'era. E il fatto è che, fosse o non fosse
per consiglio di sua madre, egli rimase in piedi di fronte ad Alla per tutto il tempo del banchetto, guardando
proprio in faccia il re.
Re Alla rimase assai colpito da quel ragazzo e ad un tratto chiese al senatore: «Di chi è quel bel bambino?».
«Per Dio e per San Giovanni, veramente non lo so!» fece l'altro. «Una madre ce l'ha, ma per padre non ha
nessuno, ch'io sappia.» E in poche parole raccontò ad Alla in che modo fosse stato trovato il ragazzo. «Ma
Dio sa» soggiunse il senatore «che in vita mia non ho mai visto una creatura più virtuosa di sua madre, né
ho sentito che vi sia al mondo una donna come lei, nubile o sposata. Vi assicuro che preferirebbe una
coltellata al cuore, piuttosto che far la donna disonesta, e non c'è uomo che possa indurla in tentazione.»
Il ragazzo somigliava a Costanza quant'è possibile somigliare ad un altro essere. E Alla, che di madonna
Costanza aveva sempre il viso impresso nel ricordo, prese fra sé a pensare se la madre di quel ragazzo non
potesse in qualche modo essere sua moglie e, sospirando senza farsene accorgere, s'allontanò dal tavolo al
più presto. 'In realtà' pensava 'è solo un fantasma della mia mente! Devo convincermi con la ragione che la
mia sposa è ormai morta in fondo al mare.' Ma poi fra sé obiettava: 'E non potrebbe invece darsi che
proprio mia moglie Cristo l'abbia condotta qui, come prima, abbandonata in mezzo al mare, la condusse al
mio paese?'.
Dopo pranzo Alla andò col senatore a casa sua per veder chiaro in questo sorprendente caso. Il senatore
rese ad Alla grandi onori e mandò subito a chiamare Costanza. Ma figuratevi che voglia avesse lei di ballare,
quando le dissero che questo era il motivo per cui si convocava: era già lì che si reggeva a stento in piedi...
Appena vide la sua sposa, Alla le andò incontro affabilmente e non riuscì a trattenere le lacrime per la
commozione, riconoscendola immediatamente al primo sguardo. Lei invece, per il dolore, rimase muta
come un albero, col cuore chiuso nella sua angoscia, pensando ancora alla crudeltà con cui l'aveva trattata.
Per ben due volte gli svenne davanti agli occhi, mentr'egli piangendo si scusava pietosamente. «Dio e tutti i
suoi radiosi santi» diceva «abbiano pietà dell'anima mia, quant'è vero che sono innocente del male da voi
sofferto, proprio come Maurizio mio figlio, che tanto vi somiglia. Se non è vero, che il demonio mi porti via
da questo posto!»
Singhiozzarono e penarono a lungo, prima che i loro cuori addolorati si calmassero. Che pietà sentirli
piangere e col pianto accrescersi il dolore!... Ma, vi prego, risparmiatemi questo strazio, non posso
continuare così fino a domani... sono ormai stanco di parlare di tristezze.
Riconosciuta dunque la verità (che Alla era innocente dei patimenti da lei sofferti), quei due finalmente
s'abbracciarono e si baciarono almeno cento volte, provando una felicità che, all'infuori della beatitudine
eterna, non ha e non avrà mai al mondo nulla di simile.
Lei allora pregò timidamente il marito che, a sollievo della lunga e pietosa sofferenza, rivolgesse un invito a
suo padre affinché, pur nella sua maestà, si degnasse di desinare un giorno con loro; lo pregò anche di non
dirgli nulla di lei. Sostengono alcuni che fosse il piccolo Maurizio a recare questo messaggio all'imperatore,
ma io non credo che Alla fosse così dappoco, da mandare un ragazzo da colui che godeva il sovrano onore
d'essere il capo della cristianità. E' probabile invece, come sembra in realtà, che vi andasse lui stesso in
persona. L'imperatore accettò affabilmente d'andare al banchetto come gli fu chiesto (m'immagino che
allora vedesse il ragazzo e gli venisse in mente sua figlia...) ed Alla se ne tornò alla sua locanda a far
preparare ogni cosa nel miglior modo possibile.
L'indomani Alla si preparò, insieme con sua moglie, ad andare incontro all'imperatore; e felici e contenti
partirono tutt'e due a cavallo. Appena lei lungo la strada vide suo padre, balzò di sella e gli si prostrò ai
piedi: «Padre,» gli disse «vi ricordate della vostra giovane Costanza?... Eppure son io, vostra figlia Costanza,
che un giorno voi mandaste in Siria; son proprio io, padre, che in mezzo al mare fui abbandonata sola e
condannata a morire... Oh, buon padre, abbiate misericordia, non mandatemi mai più nel mondo dei
pagani, ma a costui ch'è mio marito rendete merito per la sua benevolenza...».
Chi può dire tutta la commovente gioia di quei tre al momento del loro incontro? Ma è ora ch'io metta fine
a questa storia, il giorno fa presto a passare ed io non voglio più annoiarvi. Alla fine, dunque, tutti beati, si
sedettero a pranzare, e lì a banchetto lasciamoli stare, mille volte più felici e contenti di quanto io possa
mai dire.
Il piccolo Maurizio fu creato in seguito imperatore dal papa e visse santamente, facendo grande onore alla
Chiesa di Cristo. Ma io tralascio la sua storia; (20) il mio racconto riguarda specialmente Costanza. La vita di
Maurizio la si può trovare nelle gesta dei romani antichi; io ora non l'ho in mente.
Re Alla, nel frattempo, insieme con Costanza, la sua dolce e santa moglie, se ne tornò in Inghilterra, dove
insieme vissero contenti e in pace. Ma la felicità dura ben poco a questo mondo, ve l'assicuro; il tempo non
si ferma mai e cambia dal mattino alla sera con la marea. Chi è che ha mai trascorso un giorno così
contento, da non aver l'animo turbato dall'ira, dal desiderio o da qualche lite, dall'invidia, dall'orgoglio,
dalla passione oppure da qualche offesa? Questo, per dirvi che nella gioia e nel piacere anche la felicità di
Alla con Costanza durò ben poco. Perché la morte, che riscuote il suo tributo da chi sta in alto come da chi
sta in basso, trascorso un anno o forse ancora meno, strappò da questo mondo re Alla, recando a Costanza
un altro gravissimo dolore. E per l'anima di lui a noi non resta ormai che pregare Iddio!
Finalmente, per concludere, madonna Costanza si mise in viaggio per la città di Roma. Ed ecco che giunta a
Roma, questa creatura santa ritrovò tutti quanti i suoi amici, libera ormai da tutte le sventure. Quando poi
ritrovò anche suo padre, si prostrò in ginocchio sulla terra e pianse col cuore pieno di gioia, lodando
centomila volte Iddio. E tutti vissero in virtù ed opere sante, senza mai più separarsi, e così camparono
finché la morte non li divise. Ed ora, statevi bene, il mio racconto è terminato. Gesù Cristo, che nella sua
potenza dopo il dolore manda la gioia, ci mantenga tutti nella sua grazia e ci protegga tutti quanti ci
troviamo in questo luogo. Amen.
Qui termina il Racconto del Commissario di Giustizia.
Epilogo
AL RACCONTO DEL COMMISSARIO DI GIUSTIZIA.
Il nostro Oste, rizzandosi d'un tratto sulle staffe, fece: «Ehi, buona gente, sentite... questo sì ch'era un
racconto che faceva al caso!». E soggiunse: «Messer Prete di Parrocchia, per le ossa di Dio, narraci anche tu
un racconto come ci hai promesso! Si vede proprio che voialtri che siete istruiti la sapete lunga, cospetto di
Dio!».
Il Parroco gli rispose: «"Benedicite"! Che prende a quest'uomo per bestemmiare così peccaminosamente?».
E il nostro Oste: «Ehi, Giovannino, dunque ci siamo?... Sento nell'aria il puzzo d'un lollardo! (21)... Ehi,
buona gente,» continuò sempre l'Oste «sentite, fermatevi un po', santa passione di Dio, perché ora ci sarà
una predica: questo lollardo qui ci vuole un po' evangelizzare ...».
«No, per l'anima di mio padre, questo proprio no!» intervenne il Marinaio; (22) «ora non si metterà qui a
predicare; non glosserà e non c'insegnerà proprio nessun vangelo! Noi ci crediamo tutti nel buon Dio»
continuò «e lui non farebbe che seminare complicazioni o spargere zizzania nel nostro grano pulito. Perciò,
Oste, t'avviso prima, narrerò io in persona un racconto allegro, e vi farò squillare una campana così festosa,
da svegliare tutta quanta la compagnia. Certo non si tratterà di filosofia, né di "sfisica" o di balordi termini
di legge. Io di latino ne ho ben poco sullo stomaco!»
Note del "Racconto del commissario di giustizia".
Nota 1. Il «giorno artificiale» è il tempo in cui il sole rimane al di sopra dell'orizzonte, e si distingue dal
«giorno naturale» che comprende ventiquattro ore.
Nota 2. Il Commissario di Giustizia non sa evidentemente che Chaucer, il poeta in persona, è uno dei
pellegrini.
Nota 3. Si tratta della raccolta di lettere d'amore, ventuno in tutto, comunemente nota col titolo di
"Heroides".
Nota 4. Alcione, figlia di Eolo, addolorata per la perdita di Ceice suo marito, si gettò in mare; gli dei
impietositi mutarono lei e suo marito in uccelli marini. Chaucer raccontò questa storia, tratta dalle
Metamorfosi di Ovidio, in una delle sue prime opere, "Il libro della duchessa" ("The Boke of the Duchesse",
1369).
Nota 5. Questo poema dei Chaucer è meglio conosciuto con il titolo "La Leggenda delle Donne Virtuose"
("The Legende of Good Women", circa 1386), dove si cantano le lodi di donne famose che furono fedeli in
amore.
Nota 6. Le storie di Canace e di re Antioco (la prima tratta da Ovidio, la seconda da un romanzo in prosa
notissimo nell'Europa medievale) si ritrovano in "Confessio Amantis", un prolisso poema in quarantamila
versi, composto dall'amico di Chaucer, John Gower, che qui probabilmente il poeta intende canzonare.
Nota 7. Le nove figlie di Pierio, re della Tessaglia, osarono un giorno sfidare le nove muse, e furono mutate
in altrettante gazze. L'episodio è narrato da Ovidio nelle sue "Metamorfosi" (libro V).
Nota 8. Questo prologo è in gran parte la parafrasi d'una dissertazione sulla povertà, trattata dal "De
Contemptu Mundi" (I, 16) di papa Innocenzo Terzo.
(*). La data di composizione del "Racconto del Commissario di Giustizia" si aggira intorno al 1390. (Gran
parte dei brani moraleggianti, inclusi nel racconto, si basano sul "De Contemptu Mundi", che il Chaucer
tradusse probabilmente tra il 1386 e il 1394.) Sua fonte primaria è la storia della «pulcele Constance», che
si trova nella "Cronaca Anglo-Normanna" di Nicholas Trivet, un frate domenicano inglese vissuto nella
prima metà del Trecento. Fonti secondarie si trovano nel secondo libro della "Confessio Amantis" del
Gower, contemporaneo e amico del Chaucer.
Nota 9. Tiberio Costantino, imperatore d'Oriente, la cui sede era storicamente Costantinopoli, non Roma.
Nota 10. Il nono cielo, secondo il sistema tolemaico, che si riteneva girasse intorno alla Terra e impartisse e
regolasse il movimento degli altri cieli.
Nota 11. "Atazir" o "atacir" è forma spagnola dell'arabo "al-tasir", che significa «influsso».
Nota 12. Regina dell'Assiria, moglie di Nino, a cui succedette avendolo fatto assassinare. Anche Dante la
ricorda nell'Inferno (V, 58-60).
Nota 13. Giulio Cesare.
Nota 14. Si riferisce a un brano dell'"Apocalisse" (7, 1-3): «... Dipoi vidi quattro angeli che stavano ai quattro
angoli della terra e tenevano i quattro venti della terra, affinché non tirasse vento "né sulla terra, né sul
mare, né sulle piante"».
Nota 15. Secondo la leggenda, questa santa, vissuta nel quinto secolo, dopo una giovinezza dissoluta,
trascorse quarantasette anni della sua vita, in solitudine e penitenza, nel deserto oltre il Giordano.
Nota 16. Regione dell'Inghilterra settentrionale, sul Mare del Nord.
Nota 17. Si tratta d'un personaggio storico (regnò infatti dal 560 al 567 dopo Cristo).
Nota 18. Susanna, moglie dei babilonese Gioacchino, calunniata da due vecchioni, fu difesa e salvata dalla
lapidazione da Daniele.
Nota 19. Porto del Marocco di fronte a Gibilterra.
Nota 20. Storicamente, l'imperatore Maurizio di Cappadocia governò dal 582 al 600 dopo Cristo, e venne
ucciso dal suo successore insieme con i suoi sette figli.
Nota 21. «Lollardi» o fannulloni (dal verbo "to toll" = andare in giro senza scopo, oziando) erano
soprannominati dai cattolici ortodossi i seguaci del teologo eretico John Wycliffe, a cui si deve l'ispirazione
e in parte l'esecuzione della prima versione compieta della Bibbia in inglese.
Nota 22. Incerti manoscritti è lo Scudiero che interviene, in altri è il Cursore. L'Epilogo al "Racconto del
Commissario di Giustizia" non s'allaccia, ad ogni modo, alla storia seguente.
Frammento Terzo.
Prologo
DELLA COMARE DI BATH.
Prologo al Racconto della Comare di Bath.
«Non ci fosse altra autorità al mondo, a me basterebbe l'esperienza per dirvi quanti guai ci sono nel
matrimonio. (1) Difatti, signori miei, di mariti alla porta di chiesa ne ho avuti cinque (tante sono invero le
volte che mi son sposata!), e tutti a loro modo erano uomini in gamba. Però, non molto tempo fa, m'è stato
detto che, siccome Cristo più d'una volta non sì recò a nozze, a Cana in Galilea, con quell'esempio
m'avrebbe avvertito che anch'io più d'una volta non avrei dovuto sposarmi. E sentite poi che aspre parole
disse Gesù, Dio e uomo, rimproverando la Samaritana presso il pozzo: 'Cinque mariti hai già avuto,' le fece
'ma l'uomo che ti ha sposato ora non è tuo marito!'. Proprio così le fece. Che cosa veramente intendesse,
non lo saprei dire. Ma, mi domando io, perché mai il quinto uomo della Samaritana non doveva essere suo
marito come gli altri? Era forse stabilito quanti mariti dovesse avere? In vita mia non ho mai sentito parlare
a questo proposito d'un numero definito. La gente può mettersi a discutere e a questionare fin che vuole,
ma io so, senza tante storie, che Dio ci ha espressamente comandato di crescere e di moltiplicare: è questo
che per me fa testo. So che ha pure detto che mio marito avrebbe dovuto lasciare il padre e la madre per
prendere me, ma non ha mai fatto menzione d'alcun numero, né di bigamia né di... ottogamia. E allora
perché accanirsi tanto? Ecco, pensate al saggio re messer Salomone: credo che di mogli ne avesse altroché
una! Dio volesse che anch'io potessi rinfrescarmi almeno la metà di lui! Quanta grazia di Dio con tutte
quelle mogli! Nessun uomo al mondo n'ebbe mai tanta... Dio solo sa quante volte questo nobile re,
m'immagino, marciasse allegramente all'attacco con ciascuna di loro la prima notte, gagliardo com'era! Ma,
grazie al Cielo, i miei cinque me li sono sposati anch'io! E benvenuto il sesto, quando capiterà! Infatti, dico
la verità, di far la verginella non me la sento proprio. Una volta che mio marito da questo mondo se ne sia
andato, posso benissimo sposarmi con qualche altro cristiano, perché allora, come dice l'apostolo, (3) sono
di nuovo libera, a Dio piacendo, di maritarmi con chi voglio. Non dice affatto che sia peccato sposarsi... anzi,
meglio sposarsi che ardere. Che m'importa se la gente parla male di Lamech e della sua bigamia? (4) ... So
benissimo che Abramo era un sant'uomo, e così Giacobbe, da quanto mi risulta: eppure ciascuno di loro
ebbe più d'un paio di mogli; e così molti altri uomini santi. Da che mondo è mondo, quando mai avete visto
l'Altissimo proibire espressamente il matrimonio? Avanti, ditemelo. E dove mai ha imposto la verginità? Vi
assicuro, lo so anch'io che, parlando di verginità, l'apostolo disse di non avere al riguardo alcun precetto. Si
può, sì, consigliare a una donna di rimanere casta, ma un consiglio non è mai un comandamento. Insomma,
Dio si fida del nostro buon senso. Se veramente avesse imposto la verginità, avrebbe con quell'atto
condannato il matrimonio. E allora, se non si spargesse nessun seme, anche chi è vergine come farebbe a
nascere? Paolo non se la sentì proprio d'imporre una cosa sulla quale dal suo Maestro non aveva nessuna
prescrizione. Ecco, mettiamola in palio, la verginità: l'acchiappi chi può, vediamo chi corre meglio. Non si
tratta di qualcosa che va bene per tutti, ma solo per chi, a Dio piacendo, ne abbia la forza. So bene che
l'apostolo era vergine; però, sebbene scrivesse e dicesse di voler che tutti fossero come lui, questo non era
altro che un consiglio alla verginità. E dato che con me è già stato così indulgente da permettermi di
diventare una moglie, non ci sarebbe niente di male se, una volta morto il mio compagno, mi risposassi;
non si tratterebbe cioè di peccato di bigamia. 'Meglio sarebbe non toccar donna ...' (5) però l'apostolo
voleva dire nel suo proprio letto, tra le sue coltri, perché mettere insieme fuoco e paglia è pericoloso... Voi
capite l'immagine di questo esempio. Insomma, lui riteneva la verginità più perfetta della fragilità del
matrimonio. Ma io di fragilità parlerei piuttosto se lui e lei vivessero casti tutta la vita. Dico francamente la
verità: a me la verginità non fa nessuna invidia, anche se sia preferibile alla bigamia. C'è a chi piace rimaner
puro di corpo e di spirito: io m'accontento del mio stato. Sapete, nella casa d'un signore non è che tutti i
vasi siano d'oro: ce ne sono anche di legno, eppure servono al padrone. Dio ci chiama a sé in diversi modi e
ciascuno ha da Dio il suo dono particolare: chi questo e chi quello, come a lui piace. Gran perfezione è la
verginità, e così pure la continenza unita alla devozione. Ma Cristo, che è fonte di perfezione, non a tutti
ordinò di andare a vendere quel che avevano per darlo ai poveri, seguendolo così sulla sua strada. Egli
parlava a quelli che vogliono vivere perfettamente. Però, signori miei, con vostra licenza, io non sono fra
questi. Il fiore dei miei anni io lo voglio dedicare agli atti e al frutto del matrimonio. E poi, insomma, ditemi:
a che scopo furono fatti gli organi della generazione? e perché in modo così perfetto? State pur certi che
per niente non vennero fatti. Disputi chi vuole, e dica il pro e il contro, che vennero fatti per depurar l'urina,
e che quelle due coserelle servono solo per distinguere una femmina da un maschio e basta... Ah, dite di
no? In pratica sapete bene che non è così! Ma tanto perché i chierici non se la prendano con me, dico
questo: che vennero fatti sia per una ragione che per l'altra, cioè sia per praticità che, a Dio piacendo, per
godimento di genitura. Se no, perché starebbe scritto nei libri che il marito deve pagare il suo debito alla
moglie? E con che cosa pagherebbe, se non usasse il suo bravo strumento? Vedete dunque che vennero
dati a tutte le creature sia per depurar l'urina che per procreare. Con ciò non dico che tutti quanti, avendo
l'arnese che vi ho detto, siano obbligati a usarlo solo per procreare, perché allora nessuno si prenderebbe
più cura della castità. Cristo era vergine, pur essendo un vero uomo. E così, da che mondo è mondo, ci sono
stati molti santi che hanno trascorso la loro vita in perfetta castità. Io, però, i casti non l'invidio. Loro
saranno puro seme di frumento, mentre noi maritate ci chiamano pan d'orzo: eppure dice Marco che, di
pan d'orzo, Gesù nostro Signore tolse la fame a parecchia gente. Insomma, io m'accontento dello stato in
cui Dio ci ha chiamate, e non sto a fare la preziosa. Da brava moglie, voglio usare quella mia cosa con la
stessa generosità con cui il Creatore me l'ha data. Dio me ne guardi dal fare la schifiltosa! Mio marito potrà
prendersela sera e mattina, ogni volta che avrà voglia di farsi avanti a pagare il suo debito. E voglio un
marito che non si tiri indietro, che mi sia sempre debitore e schiavo e, fin quando sono sua moglie, abbia le
sue tribolazioni nella carne (6). Fin che vivo, son io che ho diritto sul suo corpo, non lui. Così dice l'apostolo,
e ai nostri mariti raccomanda di amarci come si deve, raccomandazione che mi garba in tutto e per tutto...»
A questo punto saltò su l'Indulgenziere: «Signora,» disse «per Dio e per San Giovanni, voi sapete perorarla
bene la vostra causa! Povero me, ero lì lì per prender moglie: perché dovrei pagarla tanto cara con la mia
carne? Forse è meglio che per ora non mi sposi!».
«Eh, aspetta!» fece lei; «il mio racconto non è neanche incominciato. Dovrai sorbirtene un altro barile
prima ch'io abbia finito, ma altro che birra ti dovrai bere! Quando poi ti avrò raccontato la mia storia sui
triboli del matrimonio - io me ne intendo, perché ho passato tutta la vita sotto quella frusta -, allora mi dirai
se vuoi ancora bere dalla botte che spillerò. Attento, prima di fare quel passo: d'esempi te ne posso portare
a decine. Chi non approfitta dell'esperienza altrui, diventerà lui d'ammonimento agli altri. Queste precise
parole scrive Tolomeo: leggi il suo "Almagesto", (7) e le troverai.»
«Ma vi prego, signora,» disse allora l'Indulgenziere «se non dispiace a voi, come avete incominciato, finite
pure la vostra storia. E non state a far risparmi con nessuno: insegnateci con la vostra pratica, a noi che
siamo giovani.»
«Ben volentieri,» disse lei «se vi fa piacere. Prima però, vorrei pregare tutta la compagnia che, se qualche
volta parlo a vanvera, non se l'abbia a male per ciò che dico; ho solo intenzione di scherzare. Ed ecco,
signore, ora vi racconto la mia storia... Non vorrei poter più bere né vino né birra, se non dico la verità, ma
dei mariti che ho avuto tre erano buoni e due cattivi. I tre buoni erano ricchi e vecchi, e a stento riuscivano
a far fronte ai patti con cui s'erano vincolati a me. Capite bene che cosa voglio dire, perdio! M'aiuti il Cielo,
ma mi vien da ridere a pensare con che fatica di notte li facevo lavorare! Mentre a me, parola mia, non ne
importava niente. Ormai m'avevano dato terre e denaro: non c'era più bisogno che mi dessi da fare per
conquistarne l'amore o riverirli. Mi amavano già tanto, perdio, che non sapevo più che farmene del loro
amore! Una donna di giudizio, certo, fa di tutto pur d'ottenere l'amore quando ne sia senza. Ma siccome
quelli erano completamente in mano mia e mi avevano dato tutte le loro terre, perché avrei dovuto
preoccuparmi d'accontentarli più di quanto mi desse comodo e profitto? Li facevo già tanto lavorare, parola
mia, che spesso di notte cantavano il miserère! Non era per loro, ve l'assicuro, il prosciutto che certi uomini
prendono a Dunmow nell'Essex. (8) Me li governavo così bene a modo mio, che ciascuno era felice e
contento di portarmi gaie cose dalla fiera. Erano poi lietissimi se qualche volta li prendevo con le buone,
perché di solito Dio sa come li investivo malamente. Ecco, sentite come mi comportavo, soprattutto voi
sagge donne che mi capite. Così bisogna parlare e metterli nel sacco, tanto non c'è uomo che sappia
spergiurare e mentire neppure la metà di una donna. Non vi dico questo, pensando che le donne non siano
giudiziose, ma solo in caso che agiscano inavvertitamente. Ah, una donna di giudizio, che sappia il fatto suo,
riesce a fargli credere perfino che una cornacchia può impazzire, chiamando poi a testimone la fantesca che
con lei è d'accordo. (9) Ma sentite come dicevo io:
«'Messer vecchio cagnolone, è tutto qui il tuo corredo? Guarda com'è elegante la moglie del vicino! Lei fa
sempre bella figura dovunque vada, mentre io me ne sto chiusa in casa perché non ho uno straccio
decente. E tu che fai, sempre in casa della vicina? E', tanto bella? Ne sei tanto innamorato? Che hai da
parlottare sempre con la serva? "Benedicite", messer vecchio sporcaccione, devi piantarla coi tuoi sollazzi!
Quando poi io, senza colpa, ho un compare o un amico, tu ti metti a latrare come un demonio se solo vado
o m'intrattengo in casa sua! Torni sempre ubriaco come un sorcio ed hai il coraggio di far la predica dal
pulpito! Mi vieni a dire ch'è una gran disgrazia sposare una donna povera, perché costa; se è ricca e di gran
paraggio, allora dici che è una tortura sopportarne la superbia e le mattane; se poi è bella, brutto
mascalzone matricolato, dici che ogni vizioso la vorrebbe e che non può rimanere onesta una che viene
sempre assalita da ogni parte. Insomma, c'è chi ci vuole per la nostra ricchezza, chi per le nostre forme e la
nostra bellezza; questa perché sa cantare o ballare, quella perché è garbata e parla bene, quell'altra perché
ha mani e braccia graziose: così, a sentir le tue storie, tutte vanno al diavolo. Dici che non c'è muro di
castello che tenga, quando è così a lungo assalito da ogni parte. Se poi è brutta, dici che smania per ogni
uomo che le capita sotto gli occhi e gli salta addosso come una cagna, finché non trova qualcuno con cui
mettersi a contrattare. A sentir te, non c'è oca nel lago, per grigia che sia, che voglia starsene senza
maschio. Perché è difficile, dici, tenersi qualcosa che nessuno ti fa la grazia di volere. Ecco che cosa dici,
buono a nulla, quando vieni a letto; e aggiungi che nessun uomo di buon senso dovrebbe mai sposarsi, né
chi voglia andare in paradiso. Che un colpo secco di tuono e un lampo di fuoco ti spezzino quel tuo collo
raggrinzito! Mi vieni a dire che muri cadenti, fumo e moglie brontolona fanno scappare l'uomo di casa. (10)
Ah, "benedicite!" con un simile vecchio, come si fa a non brontolare? Dici che noi donne teniamo nascosti i
nostri difetti fin che non siamo al sicuro, e che poi li mettiamo bene in mostra: bel proverbio da spiritoso!
Dici che i buoi, gli asini, i cavalli e perfino i cani vengono messi alla prova diverse volte, e così i catini e le
bacinelle, prima di essere comprati, e cucchiai e sgabelli e altra simile roba. Ma delle mogli no, nessuno fa la
prova finché non si siano sposate; e dici che allora finalmente, vecchio maligno rimbambito, mettiamo in
mostra i nostri difetti. Dici anche che mi offendo se tu non ti metti a lodare le mie bellezze, e non mi guardi
negli occhi e non mi dici 'cara' di qua e 'cara' di là; o se non mi festeggi il giorno del compleanno con nuovi
abiti eleganti, se non porti rispetto alla balia e alla fantesca in camera mia, alla gente di mio padre e ai suoi
soci. Ecco che cosa dici, vecchio barile di fandonie! A proposito poi di Gioacchino, il nostro apprendista, solo
perché ha i capelli ricci che risplendono come l'oro, e mi fa qua e là qualche servizio, ti sei lasciato prendere
da tutti quei sospetti infondati. Io, quello, non lo vorrei neanche se tu morissi domani! Dimmi piuttosto:
perché, accidenti, mi nascondi sempre le chiavi dello scrigno? E' roba mia come tua, perdio! Vuoi far
passare madonna per un'idiota? Ah, no, per quel messere che è San Giacomo, se anche farai il matto, non
sarai mai padrone del mio corpo e della mia roba. O l'uno o l'altra: è inutile che mi guardi con quegli occhi.
Che bisogno c'è di star sempre a spiarmi e a sorvegliarmi? Sembra che tu voglia chiudermi nel tuo scrigno!
Invece dovresti dire: moglie, va' pure dove ti pare, divertiti, non permetterò a nessuno di far chiacchiere; so
che siete una brava moglie, madonna Alice. A noi non piace l'uomo che si dà cura e pensiero di dove
andiamo: vogliamo essere libere noi, Beato fra tutti gli uomini il saggio astrologo, messer Tolomeo, che nel
suo "Almagesto" dice questo proverbio: saggezza massima è di non curarsi mai di chi abbia in mano il
mondo. Che in altri termini vuol dire: quando tu hai abbastanza, che t'importa, che t'interessa se gli altri se
la spassano allegramente? A dire il vero, se permettete, vecchio babbione, di quella mia cosa ne avete ogni
notte a sazietà. Ed è proprio un gran meschino chi vuole impedire ad uno di accendere la candela alla sua
lanterna: non è che gli porti via la luce, perdio! Tu ne hai già abbastanza, e dunque smettila di lamentarti.
Appena poi ci agghindiamo con un vestito e qualche prezioso ninnolo, eccoti subito a dire che la nostra
castità è in pericolo; e, accidenti, ti fai forte citando le parole dell'apostolo. Voi donne vi acconcerete con
abiti fatti di castità e verecondia, diceva lui, senza trecce nei capelli né gioielli vistosi e perle, senza oro e
sontuose vesti. Ma per me il tuo testo e la tua rubrica non valgono più d'un moscerino. Anche questo hai
detto: che io sono come una gatta. A una gatta basta strinare un po' di pelo, e quella se ne sta
rincantucciata in casa. Però, se la gatta ha il pelo liscio e lustro, non rimane a casa neppure mezza giornata,
ma se ne scappa via prima dell'alba a mettere in mostra la sua pelliccia e a miagolare. Il che vuol dire che se
fossi elegante, messer farabutto, anch'io scapperei fuori a mettere in mostra la sottana. Messer vecchio
balordo, che ti serve spiarmi tanto? Anche se tu pregassi Argo coi suoi cento occhi di farmi da guardiacorpo
come meglio potesse, parola mia, non ci riuscirebbe se io solo volessi: caspita, saprei io fargliela in barba!
Dici anche che ci son tre cose che scompigliano questo mondo, e che nessuno potrebbe sopportarne una
quarta. (11) Ah, caro messer mascalzone, Gesù t'accorci la vita! Ancora predichi e dici che una moglie
odiosa è proprio una di queste disgrazie. Ma non ci sono altri esempi per le tue parabole, senza che c'entri
una povera moglie? Paragoni l'amore di una donna a un inferno, a una terra sterile senz'acqua. Lo paragoni
al fuoco greco, che più brucia più ha voglia di bruciare ogni cosa che s'incendi. Dici che, come i vermi
rodono una pianta, così una moglie a poco a poco distrugge suo marito; e che questo, lo possono sapere
soltanto quelli che si son legati a una moglie...»
«Così, signori, come avete sentito... facevo toccar con mano ai miei vecchi mariti d'aver detto proprio così
quand'erano ubriachi. Tutto era falso naturalmente, ma io avevo per testimoni Gioacchino e mia nipote. Oh
Dio, quante pene e quanti dolori davo a quei poveri innocenti, santa passione di Cristo! Mordevo e nitrivo
come una cavalla. Ero io che mi lamentavo, pur essendo in colpa; altrimenti chissà quante volte l'avrei
passata male. Chi per primo arriva al mulino, per primo macina. Io ero sempre la prima a lamentarmi, e così
cessava ogni nostra guerra. Subito dopo erano ben felici di scusarsi per colpe che in vita loro non avevano
mai commesso. Li accusavo di correre dietro alle ragazze, mentre, quelli, coi loro acciacchi, a stento si
reggevano in piedi. Eppure ognuno in cuor suo si sentiva solleticato, perché pensava che mi preoccupassi di
lui! Giuravo che tutte le mie uscite di sera erano per spiare con che ragazze si accompagnasse. E con quella
scusa ogni tanto me la godevo... Noi siamo nate con la furbizia addosso: in questa vita, inganni, piagnistei e
filo da torcere, Dio ne ha dati alle donne in grande abbondanza. D'una cosa io mi vanto: che con l'astuzia o
con la forza o in qualche altro modo, brontolando e grugnendo continuamente, alla fine avevo sempre
partita vinta. Soprattutto a letto se la passavano male perché li strapazzavo sempre senza lasciarli mai
godere. Appena sentivo che lui mi toccava i fianchi, non volevo più rimanere a letto, finché, per scusarsi,
non mi regalava qualcosa, e allora finalmente gli permettevo di sfogare il suo capriccio. Lo dico sempre a
tutti: guadagni chi può, perché ogni cosa ha il suo prezzo e a mani vuote non si acchiappa nessun falco. Pur
di avere qualche vantaggio, sopportavo tutta la sua fregola facendo finta d'aver appetito, anche se a me il
lardo stagionato non è mai piaciuto. Ecco perché avrei sempre preferito litigare. Ci fosse stato anche il papa
seduto accanto a loro, a tavola non li avrei mai risparmiati: vi giuro che ribattevo parola per parola. Mi aiuti
l'onnipotente e vero Iddio, se in questo istante dovessi far testamento, non avrei da lasciar loro neppure
una parola che già non sia stata resa. La facevo così lunga con le mie discussioni, che per loro era meglio
arrendersi, altrimenti non avremmo mai avuto pace. Perché, se anche si fosse messo a fare il leone
inferocito, era sempre lui che alla fine avrebbe dovuto cedere. E allora gli dicevo: 'Caro, venite a vedere
com'è mansueta Wilkin, la nostra pecorella! Venite qui, mio sposo, lasciate che vi dia un bacio sul
ganascino! Dovreste essere tutto paziente e buono, e aver coscienza tenera e scrupolosa, voi che tanto
predicate la pazienza di Giobbe. Siate sempre tollerante, voi che sapete così bene predicare, se non
dovremo insegnarvi noi come sia giusto lasciare in pace la moglie. Uno dei due deve per forza cedere: dato
che l'uomo è più ragionevole della donna, tocca a voi essere paziente. Che vi prende per lamentarvi e
brontolare in questo modo? E' solo perché volete quella mia cosa? Ma prendetevela tutta, ecco, e
tenetevela! Per San Pietro, accidenti a voi se non l'amate come si deve! Perché, se volessi venderla, la mia
"belle chose", potrei andarmene in giro fresca come una rosa, e invece voglio serbarla tutta per il vostro
dente. Veramente siete voi, perdio, che bisognerebbe biasimare!'. Questi erano i discorsi che facevamo. Ma
ora vi parlerò del mio quarto marito.
«Il mio quarto marito era un bagascione, ossia aveva un'amante... e pensare che io ero giovane e piena di
foga, caparbia e forte, e allegra come una gazza! E come ballavo al suono dell'arpa! Sapevo anche cantare
come un usignolo, appena avevo bevuto un sorso di buon vino. Neanche Metellio, quel lercio zoticone, quel
porco che ammazzò la moglie a bastonate perché beveva vino (fossi stata io sua moglie!), non sarebbe
riuscito a farmi smettere di bere. (12) E dopo il vino, dovevo subito pensare a Venere, perché, com'è vero
che il freddo genera la grandine, così a bocca buona corrisponde buona coda! E donna vinosa è senza
difesa, come in pratica sanno i lussuriosi. Ma, Cristo Signore! quando mi viene in mente la mia gioventù e la
mia allegria, mi sento solleticare il cuore alla radice. Ancor oggi mi fa bene al cuore pensare che ai miei
tempi me la son goduta. Ma gli anni, ahimè, che avvelenano tutto, mi hanno tolto bellezza e vigore... E che
vadano, salute! il diavolo se li accompagni! La farina è partita, non c'è che dire: non mi resta che vendere
come posso un po' di crusca. Eppure ho ancora intenzione di stare allegra... ma torniamo ora al mio quarto
marito. Come vi dicevo, avevo in cuore un gran dispiacere che se la spassasse con un'altra. Ma per Dio e per
San Giossa, (13) me la pagò. Gli feci una croce dello stesso legno: non che usassi del mio corpo in modo
sconcio, ma, veramente, lanciavo agli uomini certe occhiate, da farlo friggere nel suo stesso grasso di rabbia
e di cieca gelosia. Perdio, fui il suo purgatorio in terra, e perciò spero che la sua anima sia ora in paradiso!
Dio sa quante volte dovette mettersi a sedere e cantare con le scarpe che gli facevano male! (14) Nessuno
al mondo, all'infuori di Dio e di lui, seppe mai in quanti modi lo tormentassi senza pietà. Morì al mio ritorno
da Gerusalemme, e giace sepolto sotto l'arco del coro. La sua tomba, certo, non è preziosa come il sepolcro
di Dario, lavorato con tanta finezza da Apelle: non sarebbe stato che uno spreco, seppellirlo con tanto
lusso. Ma che stia in pace, e Dio lasci riposare l'anima sua, ora che è nella fossa dentro la bara!
«E passiamo a parlare del mio quinto marito. Dio voglia che la sua anima non vada mai all'inferno! Eppure
con me fu il più mascalzone: ne risento ancora lungo tutta la nervatura delle mie costole, e sempre ne
risentirò, fino al termine dei miei giorni. Ma a letto era così fresco e gaio, e per di più sapeva sollecitarmi
così bene, quando aveva voglia della mia "belle chose", che se anche m'avesse rotto tutte le ossa, avrebbe
saputo subito riconquistarsi il mio amore. Credo di averlo amato più di tutti, proprio perché era duro nel
suo amore per me. E' proprio vero che noi donne abbiamo strani capricci a questo riguardo: appena c'è una
cosa che non sia facile avere, vi piangiamo e strepitiamo dietro tutto il giorno; proibiteci una cosa, e noi
vogliamo proprio quella; teneteci strette e noi scappiamo; con renitenza tiriamo fuori la nostra mercanzia:
troppa gente al mercato fa salire il prezzo, e prezzo troppo modico fa scader la merce. Son tutte cose che
una donna di buon senso sa. Il mio quinto marito (Dio gli benedica l'anima!) quello che sposai per amore e
non per interesse, era stato per qualche tempo studente ad Oxford. Poi aveva abbandonato le scuole e
s'era messo a pensione in casa della mia comare, che viveva nella nostra città. Dio le protegga l'anima,
anche lei si chiamava Alice. E conosceva il mio cuore e le mie faccende private meglio del nostro parroco, vi
assicuro. A lei confidavo tutto. Sia che mio marito avesse fatto una pisciatina contro un muro o qualcosa
che avrebbe potuto costargli la vita, a lei, a un'altra donna fidata e a mia nipote, alla quale volevo molto
bene, avrei raccontato ogni segreto. Dio solo sa quante volte lo facevo: e lui diventava tutto rosso e si
accendeva in faccia di vergogna, rimproverandosi d'avermi fatto tante confidenze. Una volta, durante una
quaresima (andavo spesso dalla mia comare, dato che m'è sempre piaciuto mettermi in ghingheri e andare
verso marzo, aprile e maggio, a sentir chiacchiere da una casa all'altra) capitò che Giannino, lo studente, e
la mia comare madonna Alice ed io ce ne andassimo a passeggio per i campi. Mio marito era a Londra per
tutta la quaresima, e perciò avevo maggior comodo di svagarmi, di vedere e di farmi vedere da gente
allegra. Come sapere altrimenti in che modo o dove far dono delle mie grazie? Ragion per cui facevo le mie
visite alle vigilie e alle processioni, alle prediche e ai pellegrinaggi, alle sacre rappresentazioni e ai
matrimoni, sempre con le mie belle gonne scarlatte. Non c'era pericolo che i vermi, le tarme o i tarli me ne
rodessero un solo filo. E sapete perché?... perché le avevo sempre indosso! Ma ora vi dico che cosa mi
capitò. Dunque, camminavo per i campi, quando questo studente ed io ci trovammo in tale confidenza, che
col bel garbo gli parlai e gli dissi che se fossi rimasta vedova m'avrebbe avuta in moglie. Perché veramente,
lo dico senza nessuna vanteria, in fatto di matrimoni non ho mai mancato di previdenza, e neppure in altre
cose. Per me, cuor di topo non vale un fico quand'abbia un solo buco per scappare: se gli manca quello, è
rovinato!... Gli detti a intendere che m'aveva stregata (mia madre mi aveva insegnato quell'astuzia). Gli
dissi anche che avevo sognato di lui tutta la notte: che voleva uccidermi mentre giacevo supina, e che tutto
il mio letto era coperto di sangue; ma che pure speravo mi portasse bene, perché sangue vuol dire oro, a
quel che m'hanno insegnato. E tutto era falso: non avevo fatto nessun sogno. Solo che, in questa come in
tante altre cose, seguivo gl'insegnamenti della mia vecchia... Ma ora, signore, vediamo, che cosa stavo per
dire? Ah sì, perdio, ho ripreso il filo! Quando il mio quarto marito fu nella bara, naturalmente piansi, e feci il
viso triste come bisogna che facciano le mogli, dato che c'è l'usanza, e mi coprii la faccia col fazzoletto. Ma,
siccome m'ero già provveduta d'un compagno, non piansi granché, ve l'assicuro. L'indomani mio marito fu
portato in chiesa, seguito dai vicini che gli facevano il compianto: fra questi c'era anche Giannino il nostro
studente. Dio m'aiuti! ma quando lo vidi camminare dietro la bara, mi parve che avesse un paio di gambe e
di pieduzzi così netti e belli, che tutto il mio cuore gli diedi in signoria. Avrà avuto venti primavere, e io, a dir
la verità, avevo quarant'anni, ma conservavo ancora denti da puledra. Ed erano denti ben distanziati che mi
si addicevano: avevo così il marchio del suggello di Santa Venere. M'aiuti Iddio, ma ero calorosa e bella,
ricca, ancora giovane e ben fornita; e vi garantisco che, come dicevano i miei mariti, avevo la miglior
"quoniam" che si potesse trovare. Difatti io appartengo a Venere per il sentimento, ma il mio cuore è di
Marte: Venere mi ha dato passione e cuore, e Marte il mio trepido ardimento. Il mio ascendente era il Toro,
e Marte era nel Toro. Ahimè, ahimè, che amor fu mai peccato! Io ho sempre seguito la mia inclinazione per
virtù della mia stella: perciò non ho mai saputo rifiutare a un buon diavolo la mia camera di Venere. E poi
ho il segno di Marte sulla faccia e anche in un altro posto segreto... Dio mi perdoni, ma non ho mai saputo
amare con discrezione. Ho sempre seguito il mio appetito, corti o lunghi, neri o bianchi che fossero; purché
mi amassero, non stavo a guardare se erano poveri o di che rango. Che debbo dirvi? Alla fine del mese,
l'allegro studente Giannino, ch'era così garbato, mi sposò con gran solennità, e io gli diedi tutte le terre e le
rendite che prima erano state date a me. Ma dovetti subito pentirmene amaramente, perché non gli
andava nulla di quello che mi piaceva. Perdio, una volta, per avergli strappato una pagina da un libro, mi
diede una tale sberla, che per il colpo diventai completamente sorda da un orecchio. Testarda lo ero, come
una leonessa, e avevo la lingua d'una gran pettegola, e andavo sempre in giro da una casa all'altra, per
quanto lui me l'avesse proibito. E perciò spesso mi faceva la predica, citandomi le gesta degli antichi
romani; come quella d'un certo Simplicio Gallo che abbandonò la moglie e non ne volle più sapere, solo
perché un giorno l'aveva vista guardar fuori della porta a capo scoperto. Mi nominò anche un altro romano
che abbandonò la moglie, perché, a sua insaputa, una volta era andata ai ludi estivi. E poi cercava nella sua
bibbia quel proverbio del "Qoèlet" che proibisce e vieta severamente a un uomo di lasciar andare in giro la
propria moglie. Anzi, diceva esattamente così:
'Chi si costruisce la casa senz'alàri,
Chi spinge il cavallo cieco nel fossato
E lascia che sua moglie vada per santuàri,
Merita sulla forca d'essere impiccato!'
Ma era tutto inutile. Per me i suoi proverbi e i suoi antichi detti non valevano una gallozza, e non volevo che
mi trovasse a ridire. Odio chi mi viene a far vedere i miei difetti, e Dio sa che non sono là sola. Questo lo
mandava completamente in bestia, ma io non volevo cedere per nessun motivo. Ecco, per San Tommaso, vi
voglio veramente raccontare perché gli strappai la pagina dal libro e perché mi diede quel tal colpo che mi
fece rimaner sorda. Aveva un libro che si divertiva a leggere notte e giorno; lo chiamava "Valerio e
Teofrasto", e con quel libro rideva sempre a crepapelle. C'entrava anche un letterato di Roma, un cardinale,
detto San Gerolamo, con un suo trattato contro Gioviniano; c'erano pure Tertulliano, Crisippo, Trotula ed
Eloisa, quella che faceva la badessa non lontano da Parigi; e poi le parabole di Salomone, l'"Arte" di Ovidio e
molti altri testi, tutti rilegati in un unico volume. (15) Ogni sera e ogni giorno, appena aveva tempo ed era
libero da altri impegni, leggeva quel libro che parlava di cattive mogli. Sapeva su di loro più vite e miracoli di
quanti ve ne siano nella Bibbia su mogli virtuose. Certo, è impossibile che un letterato parli bene delle
donne, a meno che non si tratti della vita di qualche santa; ma mai di nessun'altra. Chi dipinse il leone,
ditemi, chi? (16)... Perdio, se le donne scrivessero storie, come fanno i chierici nei loro oratori, direbbero
degli uomini più male di quanto la razza d'Adamo possa mai riparare! I figli di Mercurio e quelli di Venere
agiscono in modo completamente opposto: (17) Mercurio ama la saggezza e la dottrina, Venere le spese e
le baldorie. E per la loro diversa disposizione, l'uno sale quando l'altra scende. Così, Dio sa perché, Mercurio
nei Pesci cala, mentre Venere ascende; e Venere tramonta quando Mercurio sorge. Ecco perché il chierico
non loda mai la donna. E quando è vecchio, non sapendo più compiere lavori di Venere che valgano una
ciabatta, allora il chierico si mette a sedere e, nel suo rimbambimento, scrive che le donne non sanno tener
fede al matrimonio!... Ma torniamo al punto, al perché, dicevo, venni percossa per un libro, perdio!... Una
sera dunque, Giannino, mio marito, si mise a leggere il suo libro, seduto accanto al fuoco, incominciando da
Eva, che col suo peccato portò alla rovina tutto il genere umano, motivo per cui fu ucciso lo stesso Gesù
Cristo, il quale ci redense col sangue del suo cuore; ed ecco che già qui si trovava espressamente detto
come la donna fosse la perdizione dell'umanità intera. Mi lesse poi come Sansone perdette i suoi capelli:
mentre lui dormiva, la sua bella glieli tagliò con le forbici, e in seguito a questo tradimento egli diventò
cieco da tutt'e due gli occhi. Poi, se non sbaglio, mi lesse di Ercole e della sua Deianira, la quale lo costrinse
a darsi fuoco. Non si scordò neppure delle pene e dei dolori sofferti da Socrate con le sue due mogli, né di
come Santippe gli buttasse la piscia in testa... quel poveruomo restò secco come un morto e s'asciugò il
capo senza dir altro che: 'Prima tuona e poi piove!'. Arrivò perfino a dirmi che per lui la storia di Pasifae,
regina di creta, era una soave storia... meglio non parlarne! è una cosa schifosa... quella sua lussuria e quel
suo innamoramento! (18) La storia di Clitennestra poi, quella che per libidine fece uccidere il marito a
tradimento, la lesse addirittura con devozione. (19) Mi raccontò anche in che circostanza Anfiarao perse la
vita a Tebe: mio marito tirò fuori una leggenda sulla moglie di costui, Erifile, la quale, per una spilla d'oro,
avrebbe di nascosto rivelato ai Greci in che punto si nascondesse suo marito, e perciò questi trovò a Tebe la
malasorte. (20) Mi raccontò di Livia e di Lucilla, due che uccisero il marito: l'una per amore e l'altra per
odio. Livia una notte avvelenò il marito perché non lo poteva più vedere. La lussuriosa Lucilla, invece, era
così innamorata di suo marito che, per costringerlo a pensare sempre a lei, gli diede da bere un certo filtro
d'amore che prima dell'alba lo fece morire. Ecco quale sarebbe il destino dei mariti! Mi raccontò poi come
un certo Latumio si lamentasse con l'amico Arrio perché nel suo giardino cresceva un certo albero, al quale,
disse, le sue tre mogli s'erano impiccate per cattiveria d'animo. 'Carissimo fratello,' gli disse Arrio 'dammi
un ramo di quell'albero benedetto, lo pianterò anche nel mio giardino!' Mi lesse casi più recenti di altre
mogli: chi aveva ammazzato il marito a letto e s'era poi fatta suonar tutta la notte dall'amante, mentre il
morto giaceva supino sul pavimento; chi lo aveva fatto fuori, conficcandogli un chiodo nel cervello mentre
dormiva; e chi gli aveva messo il veleno nelle bevande. Disse più male di quanto il cuore possa immaginare;
e per giunta sapeva più proverbi di quanti fili d'erba crescano al mondo. 'Meglio vivere con un leone,'
diceva 'o con un drago schifoso, che con una donna abituata a litigare.' Oppure: 'Meglio stare in alto sopra il
tetto che con una moglie stizzosa dentro casa: sono così malvagie da odiare per dispetto tutto ciò che il
marito ama'. Diceva: 'Una donna perde il pudore, appena perde la camicia'. E poi ancora: 'Una bella donna
che non sia casta, è come un anello d'oro nel naso d'una scrofa'... Chi può capire, o anche solo immaginare,
la pena e il tormento che avevo dentro il cuore? Vedendo che non la voleva mai finire di leggere tutta la
notte quel maledetto libro, all'improvviso gliene strappai tre pagine, proprio mentre leggeva, e gli azzeccai
un pugno così forte sulla guancia, che lui andò a finire riverso dentro il fuoco. Balzò su come un leone
impazzito e mi cacciò a sua volta un tal pugno in testa, che rimasi stecchita sul pavimento. Vedendo che
non mi muovevo più, si prese paura ed era lì per scappar via, quando all'ultimo ripresi i sensi: 'Ah, traditore
ladro, m'hai ammazzata?' dissi. 'E m'hai così assassinata per le mie terre? Ma prima di morire, voglio darti
un bacio'. Lui mi venne vicino, si mise in ginocchio, e disse: 'Licetta, sorellina cara, mi aiuti Iddio, non ti
picchierò mai più! Se ho fatto questo, la colpa è stata tua. Perdonami, te ne supplico!'. Ma io di scatto gli
diedi una botta sulla faccia e gli dissi: 'To', ladro, così almeno mi sono vendicata! Ora voglio morire, non
posso più parlare'. Ma alla fine, con gran pena e fatica, riuscimmo a metterci d'accordo. Lui mi diede tutta
la briglia in mano, lasciandomi il governo della casa e delle terre, come pure della sua lingua e delle sue
mani, ed io gli feci subito bruciare il libro. E dopo che con astuzia riebbi tutto il comando e lui mi disse: 'Mia
cara fedele moglie, finché vivi fa' come vuoi; abbi cura del tuo onore e dei miei beni'... da quel giorno non
facemmo più nessuna lite. M'aiuti Iddio, fui con lui gentile come nessun'altra moglie, dalla Danimarca
all'India, e anche fedele; e così fu lui con me. Prego Iddio che, dall'alto della sua maestà, gli benedica
l'anima con la sua dolce misericordia! Vi narrerò ora il mio racconto, se ancora avete voglia d'ascoltare.»
Eccovi ora le parole scambiate fra il Cursore e il Frate.
Il Frate scoppiò a ridere, quand'ebbe udito tutto questo: «Eh, signora,» disse «ch'io possa aver gioia e
beatitudine, se questo non è un lungo preambolo per un racconto!».
E il Cursore, sentendo il Frate sghignazzare, fece: «To', per le due braccia di Dio, un frate vuol sempre
intromettersi da tutte le parti! Guardate, buona gente, fa come la mosca che va a finire in ogni piatto e su
ogni faccenda... Cos'hai da dire sulla preambulazione? Ma va'! tu piuttosto ambula, trotta, cammina oppure
mettiti a sedere, guastafeste che non sei altro!».
«Ah, è così, messer Cursore?» disse il Frate. «Ebbene, parola mia, prima d'andarmene, racconterò una
storiella o due d'un cursore, da far ridere tutta la gente che è qui!»
«E invece, Frate, sia maledetta la tua faccia,» disse il Cursore «e maledetto me, se prima d'arrivare a
Sittingbourne (21) non racconterò io due o tre storielle di frati, che ti faranno crepare il cuore, visto che
pazienza non ne hai ...»
Gridò il nostro Oste: «Smettetela, e subito!». Poi soggiunse: «Lasciate che questa donna racconti la sua
storia. Vi comportate come gente ingozzata di birra. Su, madonna, narrate il vostro racconto, che è
meglio».
«Prontissima, messere,» rispose lei «come voi volete, se questo degno Frate lo permette...»
«Ma certo, signora,» fece costui «dite pure, sono tutt'orecchi!»
Qui termina il Prologo della Comare di Bath.
RACCONTO DELLA COMARE DI BATH (*).
Qui comincia il Racconto della Comare di Bath.
Ai vecchi tempi di re Artù, di cui i britanni dicono un gran bene, tutto questo paese era pieno di fate. La
regina degli elfi, con la sua allegra compagnia, andava spesso a ballare sui verdi prati: questo almeno,
stando ai libri, era quello che si credeva allora. Parlo di molte centinaia d'anni fa. Certo, al giorno d'oggi, gli
elfi nessuno più li vede, perché adesso la grande carità e le preghiere dei questuanti e degli altri santi frati,
che percorrono ogni terra e ogni corso d'acqua, fitti come moscerini in un raggio di sole, benedicendo sale,
camere, cucine, pergolati, città, borghi, castelli e alte torri, villaggi, granai, stalle e fattorie, hanno fatto
sparire le fate. Dove una volta passeggiava un elfo, ora cammina un frate questuante, il quale, sia di notte
che di giorno, recitando mattutini e orazioni sante, va a fare il giro della sua zona. Le donne ormai possono
proprio circolare al sicuro: in ogni cespuglio e sotto ogni albero non c'è altro incubo che lui, e da lui non
avranno che un po' di disonore...
Dunque, si dava il caso che questo re Artù avesse a palazzo un gagliardo baccelliere. Un giorno costui se ne
tornava a cavallo dal fiume, tutto solo, quando ad un tratto vide camminare davanti a sé una ragazza, e là
sul momento, per quanto lei resistesse, le tolse a viva forza la verginità. Quest'oltraggio sollevò un tale
clamore e tali proteste presso re Artù, che il cavaliere venne per legge condannato a morte, e già stava per
rimetterci la testa (così ordinava infatti allora lo statuto), quando la regina e diverse altre dame si misero ad
implorar grazia presso il re, finché costui non decise per il momento di concedergli salva la vita e di
rimetterlo al giudizio della sovrana, perché decidesse lei se ucciderlo o salvarlo.
La regina ringraziò come meglio seppe il re e parlò poi col cavaliere, quando un giorno le sembrò
opportuno. Gli disse: «Non puoi ancora esser sicuro d'averla scampata completamente... Io ti concederò
salva la vita, solo se saprai dirmi quale sia la cosa che più desiderano le donne. Pensaci bene, e nessun ferro
ti sfiorerà più il collo!... Se non sai dirmelo subito, ti do il permesso d'andare, per un anno e un giorno, a
cercar di trovare un'adeguata risposta a questa domanda; basta che tu m'assicuri, prima di partire, che
senz'altro farai ritorno».
Il cavaliere ci rimase male e sospirò tristemente... ma insomma, non poteva certo fare quel che voleva! Così
finalmente si decise a partire, promettendo che sarebbe tornato alla fine dell'anno con la risposta che Dio
gli avesse fornita. Prese dunque congedo e se ne andò per la sua strada.
Andò di casa in casa, dovunque avesse la pur minima speranza di poter scoprire che cosa amassero di più le
donne. Ma non riuscì mai ad arrivare in alcun posto dove vi fossero almeno due persone che su questa
faccenda si trovassero d'accordo. Chi diceva che le donne amano soprattutto la ricchezza, chi la buona
reputazione e chi il divertimento; questi dicevano i bei vestiti, quelli l'andare a letto e rimaner vedove
spesso per risposarsi... Qualcuno sosteneva che quel che più ci sta a cuore è l'essere adulate e
accontentate; ed era assai vicino al vero, non c'è che dire: l'uomo ci conquista soprattutto coi complimenti;
di fronte alle galanterie e alle premure, tutte, chi più chi meno, alla fine ci sciogliamo... Altri dicevano che ci
piace soprattutto sentirci libere di fare come vogliamo, senza che qualcuno venga a rinfacciarci i nostri
difetti, ma anzi dica che siamo giudiziose e per niente stupide. Se qualcuno infatti ci punge sul vivo, non ce
n'è una fra tutte che non recalcitri, a sentirsi dire la verità. Provate, e vedrete se non è vero! Per viziose che
siamo di dentro, vogliamo sempre esser considerate sagge e prive di peccato... C'era anche chi diceva che a
noi fa gran piacere esser ritenute costanti, riservate e ferme nella decisione presa, e incapaci di rivelar
qualunque cosa che ci venga confidata. Ma questa è una storia che non vale un manico di rastrello. Noialtre
donne, perdio, non sappiamo nascondere nulla! Pensate a Mida... volete sentirne la storia?
Fra gli altri fatterelli, racconta Ovidio che Mida aveva, sotto i lunghi capelli che gli crescevano in testa, due
orecchie d'asino; e nascondeva questo suo difetto agli occhi della gente come meglio poteva, con ogni
astuzia, tanto che, all'infuori di sua moglie, nessuno ne sapeva niente. Egli l'amava molto e, fidandosi di lei,
la pregò di non parlare ad anima viva di quella sua imperfezione. Lei gli giurò che mai, per nulla al mondo,
avrebbe commesso l'impertinenza o la mancanza di procurare un così cattivo nome a suo marito; sarebbe
stata una vergogna anche per lei! In seguito, però, le sembrò di dover morire a tener tanto nascosto questo
segreto; le parve proprio di sentirsi tutta gonfia intorno al cuore: almeno qualche parola doveva per forza
lasciarsi uscire... Non osando confidarsi con nessuno, corse là vicino a una palude (fin che vi giunse, il suo
cuore era tutto in fiamme!) e, come il tarabuso che gracida nella melma, lei mise la bocca dentro l'acqua:
«Non mi tradire, acqua, col tuo mormorio,» disse «lo dico soltanto a te e a nessun altro: mio marito ha due
lunghe orecchie d'asino!... Ah!... che sollievo al cuore! Ormai è fuori. Non potevo più tenerla, veramente».
Di qui si può vedere che, se anche per un po' resistiamo, dobbiamo poi per forza sfogarci e non riusciamo
proprio a trattenere alcun segreto. Se v'interessa come questa storia andasse a finire, leggete Ovidio (22) e
lo saprete.
Intanto quel cavaliere di cui vi parlavo, vedendo che non sarebbe mai riuscito nel suo intento (a scoprire,
cioè, che cosa amassero di più le donne), pur con l'animo profondamente oppresso, s'avviò a far ritorno. In
realtà non poteva più rimanere, era venuto proprio il giorno in cui doveva ritornare. E così strada facendo,
mentre tutto preoccupato cavalcava lungo il margine del bosco, vide a un tratto ventiquattro dame che
stavano danzando, o forse anche più... Spronò allora difilato verso quella danza, sperando d'ottenere
finalmente qualche saggio avvertimento. Ma ecco, prima ancora che vi arrivasse, la danza era svanita senza
che lui neppure s'accorgesse dove!... Là non c'era anima viva, all'infuori d'una megera che stava seduta tra
il verde, l'essere più lercio che si potesse immaginare.
Di fronte al cavaliere quella vecchia s'alzò dicendo: «Messer cavaliere, di qui la strada non va più avanti.
Sull'onor vostro, ditemi, che cosa cercate? Potrei forse esservi utile. Noialtri vecchi sappiamo tante cose...».
«Vecchia mia,» fece il cavaliere «sono spacciato se non riesco a sapere quale sia la cosa che le donne
desiderano di più... Se tu potessi aiutarmi, saprei io come ricompensarti!»
«Vi prendo in parola, qua la mano!» fece lei. «Se voi, potendo, farete la prima cosa che vi chiederò, io
prima di sera ve lo dirò.»
«Eccoti la mano» disse il cavaliere «accetto.»
«Allora,» proseguì lei «potete star tranquillo che la vostra vita è salva. Son pronta a scommettere la testa
che la regina dirà come dico io! Vorrei vedere se la più orgogliosa di quante portano in capo fazzoletto o
reticella (23) avesse il coraggio di negare quel che v'insegnerò io... Andiamo, senza far altri discorsi.» Gli
bisbigliò poi qualcosa all'orecchio, esortandolo a stare allegro e a non aver paura.
Appena giunsero a corte, il cavaliere annunciò che s'era attenuto al giorno fissato e che, come aveva
promesso, la sua risposta era pronta.
S'adunarono dunque per sentire questa risposta nobildonne e damigelle e vedove (queste, se non altro
perché hanno buon senso...) con la regina seduta al posto di giudice. E fu quindi fatto entrare il cavaliere.
Venne poi ordinato a tutti di far silenzio e che il cavaliere dicesse finalmente all'assemblea quale fosse la
cosa che le donne amavano di più al mondo.
Il cavaliere non rimase di sicuro là impalato come una bestia... ma rispose pronto alla domanda, a voce alta,
in modo che tutta la corte lo sentisse: «Mia sovrana signora,» disse «quel che le donne desiderano è poter
dominare il loro marito o innamorato ed essere nel comando superiori a lui. Questo è il vostro maggior
desiderio, uccidetemi pure se non è vero. Potete far come volete... io sono nelle vostre mani»,
In tutta la corte non vi fu dama, damigella o vedova che s'opponesse alle sue parole, ma tutte dissero che
veramente meritava d'aver salva la vita.
A questo punto, s'alzò la vecchia che il cavaliere aveva incontrata seduta fra il verde: «Pietà!» disse «mia
sovrana signora regina! Prima che la corte si sciolga, rendetemi giustizia. Sono stata io a dar la risposta al
cavaliere, e lui mi ha promesso che, potendo, avrebbe fatto la prima cosa che gli avessi chiesto... Ebbene»
soggiunse «davanti a questa corte io vi chiedo, messer cavaliere, che mi prendiate in moglie. Sapete
benissimo che v'ho salvata la vita. Sul vostro onore negatelo, se non è vero!».
Rispose il cavaliere: «Ah, me sventurato! so bene qual era la mia promessa... Ma, per amor di Dio, fammi
un'altra richiesta. Prenditi tutte le mie ricchezze, ma non la mia persona!».
«Ah no!» fece lei «piuttosto tutt'e due dannati! Per brutta, vecchia e povera che io sia, rifiuterei tutti i
metalli e le pietre preziose che sono sotto e sopra la terra, pur di essere vostra moglie e l'amor vostro!»
«L'amor mio?» fece lui. «No, la mia dannazione! Ah, che uno del mio grado dovesse mai finire così
malamente!...»
Ma tutto inutile. Il fatto è che alla fine egli fu costretto e dovette per forza accettare di sposarla, ed eccolo
prendersi la sua vecchia e andarsene a letto...
Qualcuno forse potrebbe accusarmi di negligenza perché trascuro di riferirvi l'allegria e il tripudio che vi
furono quel giorno alla festa. Ma è presto detto. Non vi fu né festa né allegria, ma soltanto una gran
tristezza e una gran mestizia: la sposò infatti di nascosto la mattina e se ne rimase intanato per tutto il
giorno come un gufo, tanto era avvilito per la bruttezza di sua moglie...
Ma la maggior pena che il cavaliere provò nel suo animo, fu quando con sua moglie venne condotto a letto!
Non fece che voltarsi e rivoltarsi da una parte all'altra. La vecchia sposa, sempre sorridente, si coricò e gli
disse: «"Benedicite", mio caro sposo! E' così che un cavaliere si comporta con sua moglie? E' questa la legge
della corte di re Artù? Son tutti così schizzinosi i suoi cavalieri?... Io sono il vostro amore e vostra moglie.
Son io che vi ho salvato la vita, e non vi ho davvero fatto mai torto. Perché dunque vi comportate così con
me fin dalla prima notte? Sembrate proprio uno che abbia perso la ragione! Che colpa ho commesso? Per
amor di Dio, ditemelo, che se posso cercherò di rimediarvi».
«Rimediarvi?» disse il cavaliere. «Ahimè, no, no, non c'è più nessun rimedio! Sei così ripugnante e vecchia,
e per giunta di così bassa schiatta, che non c'è proprio da meravigliarsi se mi giro e mi contorco. Dio volesse
che mi si spezzasse il cuore!»
«Tutto qui» fece lei «il motivo della vostra irrequietezza?»
«Sì, certo» rispose lui «ti sembra poco?»
«Ebbene, signore,» ella disse «se volessi, in tre giorni, io potrei rimediare a tutto... Però voi dovreste
comportarvi bene con me. Parlare invece di schiatta, di nobiltà che discende da antica ricchezza e in grazia
della quale si diventa gentiluomini, è una pretesa che non vale un pollo! Guardate, piuttosto, chi è sempre
onesto con sé e con gli altri, e cerca sempre di agire più nobilmente che può: quello è il più gran
gentiluomo. Cristo vuole che prendiamo da lui la nobiltà, non dai nostri antenati con la loro antica
ricchezza. Anche se ci hanno lasciato tutto in eredità e noi perciò ci vantiamo d'essere d'elevata condizione,
non possono in alcun modo averci lasciato la loro vita onesta, che è quella che li ha fatti diventar nobili,
invitandoci a seguirli per quella strada. Dice bene quel saggio poeta di Firenze che si chiama Dante, con
questa frase... Sentite in che tipo di rima è il motto di Dante:
'Rade volte risurge per li rami
L'umana probitate; e questo vole
Quei che la dà, perché da Lui si chiami.' (24).
Difatti dai nostri vecchi non possiamo pretendere che beni temporali, i quali si possono anche corrompere
o danneggiare. Questo, come lo so io, lo sanno tutti: se la nobiltà s'innestasse naturalmente nel sangue,
nessuno mancherebbe mai di fare con nobiltà il suo bravo dovere, sia in pubblico che in privato. Non
potrebbe commettere nessuna offesa, nessun peccato. Prendete il fuoco e portatelo nella casa più buia che
ci sia di qui fino ai monti del Caucaso, chiudete le porte e andatevene: quel fuoco continuerà
tranquillamente ad ardere, come se fossero in ventimila a guardarlo. La sua funzione naturale, ve lo
garantisco sulla mia vita, è quella di bruciare fino a spegnersi. Di qui si vede bene che la nobiltà non è legata
a possedimenti, perché la gente non sempre esegue naturalmente le proprie funzioni, come appunto fa il
fuoco. Dio sa quante volte si vede il figlio d'un gentiluomo commettere vergognosi atti da villano! Chi
pretende di essere nobile, solo perché è nato da una nobile famiglia con antenati aristocratici e virtuosi, se
non si mette anche lui a far qualcosa di buono, seguendo l'esempio dei suoi illustri antenati ormai defunti,
non sarà mai nobile, pur avendo il titolo di duca o di conte. Plebeo lo diventi comportandoti male. La
nobiltà non è semplicemente la rinomanza dei tuoi antenati con la loro gran bontà; questa è una cosa
estranea alla tua persona; la tua nobiltà proviene soltanto da Dio. E' dalla grazia che proviene la nostra vera
aristocrazia; non si tratta di qualcosa che ci vien lasciato in eredità con le nostre terre. Pensate, dice
Valerio, (25) quanto fu nobile Tullio Ostilio che s'innalzò a gran nobiltà dalla miseria! Leggete Seneca,
leggete anche Boezio: vi troverete chiaramente espresso che nobile è soltanto colui che compie nobili
azioni. Perciò, caro marito, concludendo, io vi dico che, anche se i miei vecchi erano plebei, io spero
soltanto che il buon Dio mi conceda la grazia di vivere onestamente; e allora sì che sarò nobile, quando
comincerò a vivere onestamente e senza peccato... In quanto poi al fatto che voi mi rimproverate perché
sono povera, io vi dico che anche il sommo Iddio, in cui crediamo, decise di trascorrere la sua vita in
volontaria povertà; e penso che chiunque, uomo, ragazzino o donna, riesca a comprendere che Gesù, re del
Cielo, non avrebbe mai scelto una vita immorale. Cosa certamente onesta è la povertà lieta: lo dice Seneca,
e con lui altri sapienti. Chi s'accontenta della propria povertà, secondo me, è ricco, anche se non avesse
nemmeno la camicia. Povero è chi smania per qualcosa che non può avere; ma chi non ha nulla e non
desidera nulla è ricco, anche se per voi non è che un miserabile. Chi è veramente povero è contento.
Giovenale dice a questo proposito: 'Mettendosi in viaggio, il povero può ridere e cantare se incontra i ladri'.
La povertà è un bene che a torto viene disprezzato e, secondo me, un grande stimolo all'operosità e anche
una grande apportatrice di saggezza, per chi sappia accettarla con pazienza. Ecco che cos'è la povertà: una
ricchezza che nessuno cercherà mai di derubarci. Spesso è povertà che insegna all'uomo, caduto in basso, a
ritrovare il suo Dio e se stesso. La povertà per me è come una lente che aiuta a distinguere i veri amici.
Perciò, signore, siccome non vi ho fatto alcun male, non rimproveratemi più perché son povera... Voi però,
signore, mi rimproverate anche d'esser vecchia. Eppure, come se già non fosse scritto in autorevoli libri, voi
gentiluomini onorati dite che un vecchio va trattato bene e chiamato per rispetto padre; potrei citarvi
diversi autori se volessi... Ma oltre che vecchia voi dite che son brutta: ebbene, allora non avrete paura
d'esser tradito; vi assicuro che bruttezza e vecchiaia son due grandi custodi della castità. Tuttavia, poiché so
che cosa a voi può far piacere, saprò adeguarmi al vostro appetito... Dunque scegliete, una delle due: o mi
tenete brutta e vecchia fino alla morte, ed io sarò per voi una moglie fedele e umile senza mai darvi
dispiaceri per tutta la vita; oppure mi volete giovane e bella, e accettate il rischio d'aver la casa sempre
piena di gente per causa mia e forse anche qualche altro luogo... Scegliete voi come vi piace.»
Pensa e sospira, il cavaliere alla fine disse: «Mia signora, amor mio e mia cara moglie, mi affido al vostro
saggio consiglio. Scegliete voi stessa quel che a voi e a me sia di maggior piacere e onore. L'uno o l'altro non
ha importanza: a me basta ciò che a voi piace».
«E' dunque mio il comando» chiese lei «se posso scegliere di far come mi piace?»
«Ma certo, moglie!» disse lui «credo che sia meglio.»
«Baciatemi» disse lei «non siamo più adirati, perché in fede mia voglio essere per voi l'una e l'altra cosa,
cioè sia bella che buona. Dio mi faccia morir pazza, se non sarò per voi buona e fedele come nessuna
moglie al mondo. E se domani non sembrerò anch'io una signora, una imperatrice o una regina d'oriente o
d'occidente, disporrete della mia vita e della mia sorte come vorrete. Alzate il lenzuolo e guardate ...»
E quando il cavaliere vide tutto questo, che in realtà lei era bella, giovane, se la strinse con gioia fra le
braccia, col cuore inondato di beatitudine. Mille volte di seguito si mise a baciarla, e lei gli obbedì in ogni
cosa che potesse dargli piacere e godimento.
E così vissero fino alla fine, in perfetta gioia. Cristo Gesù e ci mandi dunque mariti mansueti, giovani e
freschi a letto, e la grazia di sopravvivere a quelli che sposiamo; e inoltre prego Gesù d'accorciare la vita a
quelli che non vogliono lasciarsi governare dalle mogli; e ai vecchi rabbiosi, tirchi nello spendere, Dio mandi
subito una gran peste!
Qui termina il Racconto della Comare di Bath.
Note del "Racconto della Comare Bath".
Nota 1. Col terzo frammento incomincia una seria di sette racconti (da quello della Comare di Bath a quello
dell'Allodiere) che, sebbene non completamente amalgamati insieme, formano il cosiddetto «gruppo del
matrimonio». Essi trattano infatti un unico tema: a chi spetti il comando nella vita coniugale.
Nota 2. «... Ed ebbe settecento principesse per moglie trecento concubine» (1 "Re" 11, 3).
Nota 3. San Paolo.
Nota 4. Lamech, discendente di Caino, fu anch'egli omicida, ed ebbe due mogli, Ada e Zilla.
Nota 5. Si riferisce ancora alle parole di San Paolo: «Or quant'è alle cose delle quali m'avete scritto, è bene
per l'uomo non toccar donna» (1 "Corinzi" 7, 1).
Nota 6. «Se però prendi moglie, non pecchi; e se una vergine si marita, non pecca; ma tali persone avranno
tribolazione nella carne, e io vorrei risparmiarvela» (1 "Corinzi" 7, 28).
Nota 7. Il famoso trattato d'astronomia del Tolomeo diventò molto noto nel Medioevo anche per le sue
numerose massime morali.
Nota 8. A Dunmow, vicino a Chelmsford nell'Essex, veniva offerta una coscia di prosciutto all'uomo che con
sua moglie avesse formato la coppia più affiatata dell'anno.
Nota 9. Allusione alla storia del marito geloso che, partendo, lascia a guardia della moglie una cornacchia
(cfr. Ovidio, "Metamorfosi", II, 531-632, e la versione datane dallo stesso Chaucer nel "Racconto
dell'Economo"). Al suo ritorno, la cornacchia naturalmente fa la spia. Ma la donna, d'accordo con la
fantesca, riesce a convincere il marito della propria innocenza e gli fa uccidere l'uccello.
Nota 10. Proverbi di Salomone.
Nota 11. Ancora un'allusione ai proverbi di Salomone («Per tre cose la terra trema, anzi per quattro, che
non può sopportare ...» "Proverbi" 30, 21-23).
Nota 12. Allusione a un episodio di storia romana narrato da Valerio Massimo.
Nota 13. Santo bretone, fondatore d'un famoso monastero nella diocesi di Amiens. Questa parte della
Francia divenne molto nota agl'inglesi in seguito alle spedizioni compiute da Edoardo Terzo.
Nota 14. Far buon viso a cattiva sorte.
Nota 15. Il libro dello studente comprendeva testi che avevano tutti per argomento l'infelicità dello stato
matrimoniale: «Valerio» sta per un trattato storico in forma epistolare ("Epistola Valerii ad Rufinum de Non
Ducenda Uxore") composto da Walter Map intorno al 1200; Teofrasto era noto anche per una sua opera sul
matrimonio ("Liber de Nuptiis") e così San Gerolamo ("Epistola adversus Jovinianum") e Tertulliano ("De
Monogamia"). Crisippo, più che con il filosofo stoico, sembrerebbe identificarsi con un personaggio
menzionato appunto da San Gerolamo; mentre Trotula sarebbe una dotta ostetrica salernitana (undicesimo
secolo), autrice di trattati sulle malattie delle donne, la cura dei bambini e l'uso dei cosmetici; Eloisa, «che
faceva la badessa non lontano da Parigi», è senz'altro la sventurata amante di Abelardo.
Nota 16. Allusione a una favola di Esopo, in cui un artista, in quanto uomo, dipinse il leone come più debole
appunto dell'uomo, e venne perciò redarguito dall'animale.
Nota 17. «Figli di Mercurio» erano gli studiosi, che a quei tempi generalmente rimanevano celibi; «figlie di
Venere» erano invece le donne.
Nota 18. Come si sa, Pasifae, moglie di Minosse, invaghitasi d'un toro bianco, generò il Minotauro.
Nota 19. Con l'amante Egisto, Clitennestra uccise il marito Agamennone, e fu a sua volta uccisa dal figlio
Oreste.
Nota 20. Anfiarao, mitico re d'Argo e indovino; nella guerra contro Tebe cercò di sottrarsi alla morte
nascondendosi, ma fu tradito dalla moglie Erifile, che i figli uccisero per vendetta.
Nota 21: A circa quaranta miglia da Londra.
(*). La data di composizione del "Racconto della Comare di Bath", come quella di tutto il «gruppo dei
matrimonio», s'aggira intorno al 1393-94. Non se ne conosce alcuna fonte precisa. Ma la storia della
vecchia ripugnante, vittima d'un incantesimo, che diventa bella in seguito al bacio d'un cavaliere, è comune
alla letteratura popolare d'ogni paese. Se ne trova un esempio anche nella "Confessio Amantis" del Gower.
Nota 22. In realtà l'episodio narrato da Ovidio nelle sue "Metamorfosi" (XI, 174-193) si riferisce, non alla
moglie, ma al barbiere di Mida, il quale confessa il segreto ad una buca da lui scavata e ricoperta.
Nota 23. Ossia, la più orgogliosa delle donne.
Nota 24. "Purgatorio", VII, 121-123. (Raramente la nobiltà dell'uomo risorge su per i rami dell'albero, ossia
sale, in quanto i rami sono in alto rispetto al tronco, dai padri ai figli; e ciò vuole Dio, "Quei che la dà",
perché la nobiltà da Lui s'invochi e si riconosca che da Lui deriva.)
Nota 25. Lo storico Valerio Massimo.
Prologo
DEL FRATE.
Prologo al Racconto del Frate.
Il degno e nobile Frate questuante aveva continuato a tenere il muso al Cursore, ma, per esser onesti,
insolenze non gliene aveva ancora dette. Alla fine si rivolse alla Comare: «Signora,» le disse «Dio vi conceda
un'ottima vita! E anche a me venga un po' di bene, avete toccato argomenti assai difficili di dottrina e
v'assicuro che avete detto molte cose giuste. Però, signora, quando si è per la strada a cavallo, non
bisognerebbe parlar d'altro che di cose allegre, lasciando (per amor di Dio!) le citazioni a chi predica o ai
chierici che vanno a scuola. Se dunque la compagnia è d'accordo, io vi narrerò la burla d'un cursore... Oh
Dio, si capisce anche dal nome che d'un cursore non si può dir bene; ma vi prego, nessuno se ne prenda
offesa. Cursore è uno che corre sempre avanti e indietro a citare i colpevoli di fornicazione, e le piglia ad
ogni porta di città...».
Intervenne allora il nostro Oste: «Ehi, messere, un uomo della vostra condizione dovrebbe almeno essere
educato e cortese. Noi non vogliamo liti in questa compagnia. Raccontate la vostra storia e lasciate stare il
Cursore».
«No, no» disse il Cursore «lasciate pure che dica di me quello che vuole. Quando verrà il mio turno, perdio,
gliela farò pagare fino all'ultimo centesimo. Glielo dirò io che grande onore è fare il mendicante leccapiedi,
e molte altre scelleratezze che ora non è il caso di citare. Ah, glielo dirò io che mestiere è il suo!»
Ribatté il nostro Oste: «Silenzio, basta!». E poi rivolgendosi al Frate: «Su, avanti con la vostra storia, mio
amato caro maestro».
RACCONTO DEL FRATE (*).
Qui comincia il Racconto del Frate.
Viveva una volta dalle mie parti un arcidiacono, persona d'alto grado, (1) che indifferentemente infliggeva
punizioni contro la fornicazione, la stregoneria e il ruffianesimo, la diffamazione e l'adulterio, la corruzione
degli amministratori ecclesiastici, i testamenti e i contratti sacrileghi, l'astinenza dai sacramenti, l'usura e la
simonia... Ma coloro contro i quali s'accaniva di più erano i lussuriosi: se li acchiappava, sapeva lui come
farli strillare! Ed anche chi pagava scarse decime veniva duramente svergognato: bastava che un curato se
ne lamentasse, che lui subito interveniva, e allora per una piccola decima o una piccola offerta faceva
miseramente lamentare la gente. Tutti, infatti, prima che li pigliasse il vescovo col suo gancio (2), dovevano
passare nel registro di quell'arcidiacono, ed era lui che nella sua giurisdizione aveva il potere d'infliggere
qualsiasi pena.
Costui aveva sempre pronto sottomano un cursore, un tipo astuto come nessun altro in Inghilterra, il quale
si valeva abilmente di spie che lo informavano di tutto ciò che gli potesse interessare, ed era capace d'aver
riguardo d'un libertino o due, per poi pizzicarne più di ventiquattro... Non posso proprio fare a meno di
parlarvi delle sue scelleratezze, anche se il Cursore qui si mette a fare il matto. Noi per fortuna siamo fuori
dalle sue angherìe; (3) tipi come lui non hanno e non avranno mai in vita loro alcuna autorità giuridica su di
noi...
«Ma, per San Pietro, anche le donne di bordello son fuori di nostra competenza!» disse il Cursore.
«Silenzio!» fece il nostro Oste. «Per il malanno e la miseria, lasciagli narrare il suo racconto! E voi andate
avanti pur se il Cursore protesta e non tralasciate nulla, maestro mio carissimo!»
...Dunque, quel predone ipocrita, insomma quel cursore (continuò il Frate), aveva sempre pronti alla mano
alcuni ruffiani che, come tanti falconi da caccia inglesi, gli riportavano tutti i segreti che venivano a sapere;
erano infatti sue vecchie conoscenze, e perciò gli facevano da informatori clandestini. E lui ne traeva dei
gran guadagni, tanto che neanche il suo padrone, sapeva quanto in realtà intascasse: senza alcun mandato,
era capace di citare un povero analfabeta sotto pena della scomunica di Cristo, e questi era ben lieto di
riempirgli la borsa e di preparargli grandi feste alla locanda. E come Giuda teneva diversi borsellini e faceva
il ladro, così faceva il ladro anche lui: il suo padrone non riceveva che la metà di quanto gli era dovuto.
Insomma, per decantarvi proprio tutte le sue lodi, faceva il ladro, il cursore ed anche il ruffiano. Teneva al
suo seguito alcune sgualdrine, le quali, appena messer Roberto o messer Ugo o Gianni o Rufo o chi altri mai
fosse andato a letto con loro, subito glielo mandavano a dire. Così, d'accordo con la sgualdrina, lui arrivava
con un mandato falso e li citava in capitolo tutt'e due, ma mentre l'uomo lo spellava, la sgualdrina la
lasciava libera. Poi diceva. «Amico, ecco per il tuo bene ti cancello il nome dal libro nero... non preoccuparti
più di quest'affare. Fin dove posso, ti sono amico». Di truffe s'intendeva certo più di quanto non si possa
dire neppure in due anni. Non c'è cane da caccia al mondo che sappia distinguere il cervo ferito da quello
sano, meglio di quanto questo cursore non sapesse fiutare un astuto libertino, un adultero o un
innamorato; siccome infatti da ciò derivava tutto il frutto delle sue rendite, ci si metteva veramente con
tutto l'impegno.
E così accadde che un giorno questo cursore, sempre in cerca di preda, si recasse a citare una vecchia
vedova ribecona, che lui voleva truffare con un mandato falso. Cavalcando dunque lungo il margine d'una
foresta, raggiunse ad un tratto un elegante arciere: con arco e frecce scintillanti e aguzze, sulle spalle una
mantellina verde, e in testa un cappello a frange nere.
«Salve, messere!» disse il cursore «felice dell'incontro!»
«Benvenuto,» fece l'arciere «felice, della compagnia! Dove te ne stai andando all'ombra di questo verde
bosco?» E poi subito: «Vai lontano oggi?».
«No, no, qui vicino,» rispose il cursore «sto andando a ritirare una pigione che da un bel po' è dovuta al mio
signore.»
«Sei dunque un esattore?»
«Sì» rispose quello. E per pudore e vergogna non ebbe il coraggio di dire che faceva il cursore, per via del
nome...
«"Depardieux!"» disse l'arciere «anch'io faccio l'esattore come te, fratello caro. Però da queste parti sono
forestiero: ti prego, diventiamo amici, e se vuoi facciamo pure come se fossimo fratelli. Possiedo oro e
argento nel mio forziere: se ti capita di venire dalle nostre parti, sarà tutto tuo, quanto ne vorrai.»
«Caspita!» disse il cursore «io ti ringrazio!» E ciascuno diede la mano all'altro, giurandosi a vicenda di
rimanere come fratelli fino alla morte. Poi ripresero a cavalcare chiacchierando allegramente.
Il cursore, che cicalava come una taccola velenosa e metteva il becco da tutte le parti, chiese: «Fratello,
allora dov'è la tua casa, se un giorno dovessi venirti a cercare?».
L'arciere con voce dolce gli rispose: «Fratello,» disse «è assai lontana nel paese del nord, (4) dove un giorno
spero di vederti. Prima che ci lasceremo, te ne avrò parlato tanto, che non potrai mancare di trovarla, la
mia casa!».
«Ma ora, fratello,» disse il cursore «già che sei esattore come me, ti prego, mentre ce ne stiamo
cavalcando, insegnami qualche astuzia e dimmi francamente come potrei trarre maggior guadagno nel mio
mestiere. Non farti scrupoli di coscienza o di peccato, ma dimmi, da fratello, come fai tu?»
«Ebbene, parola mia, fratello caro,» rispose l'altro «a dir proprio la verità, il mio stipendio è assai magro e
scarso. Il mio padrone con me è duro e spilorcio, e il mio lavoro è molto faticoso: perciò mi tocca vivere
d'estorsioni. Sinceramente, prendo tutto quello che la gente mi dà. Insomma, con l'astuzia o con la forza,
d'anno in anno mi tiro fuori tutte le spese. Meglio di così non ti saprei dire, francamente.»
«Ma certo» disse il cursore «anch'io faccio così! Prendo tutto quello che posso portare, Dio lo sa... basta
che non sia troppo pesante o non faccia troppo caldo. Se qualcosa riesco a racimolare dando consigli di
sotterfugio, non mi faccio venire crampi di coscienza. Senza estorsioni, non potrei campare; e non vado
certo a confessarmi per queste scappatelle. Di pietà e coscienza non me ne intendo, e me ne infischio di
tutti i padri confessori!... Siamo proprio una bella coppia, per Dio e per San Giovanni! Ma ora, fratello caro,
dimmi almeno come ti chiami.»
A questo punto l'arciere fece un sorrisetto: «Fratello, vuoi proprio che te lo dica? Io sono un diavolo, e la
mia casa veramente sarebbe l'inferno... ma eccomi andare in giro per guadagnarmi da vivere, in cerca di
qualcuno disposto a darmi qualche cosa. Quel che mi guadagno è l'unica mia rendita. Vedi, anche tu hai lo
stesso scopo: far guadagno, non importa come! Così faccio io, che per una preda andrei in capo al mondo».
«Ah, "benedicite"!» fece il cursore «che vai mai dicendo?... Credevo proprio che fossi un arciere! Hai forma
d'uomo come ho io... Anche all'inferno, normalmente, hai un aspetto altrettanto definito?»
«No di certo,» rispose l'altro «là non abbiamo forma. Però, se vogliamo, possiamo assumerne una o per lo
meno farvi credere che l'abbiamo, ora d'uomo ora di scimmia ora... io potrei anche camminare o cavalcare
in forma d'angelo! Nessuna meraviglia che sia così: se riesce a illuderti un pidocchioso giocoliere, tanto più,
perdio, posso riuscirci, io!»
«Perché» chiese il cursore «cammini o vai a cavallo sotto forme diverse, invece di conservare sempre la
stessa?»
«Perché noi» rispose l'altro «ci diamo la forma che meglio ci consente di prendere la preda.»
«Ma perché tanta fatica?»
«Per moltissime ragioni, caro messer cursore,» disse il demonio «ma ogni cosa a suo tempo... La giornata è
corta: il mattino è già passato e non ho ancora guadagnato niente oggi. Devo badare ai miei affari, se
permetti, e non andare in giro a rivelare le nostre astuzie. E poi, fratello mio, per quanto io parli, il tuo
cervello è ancora troppo impreparato per capire. Però, giacché mi domandi perché ci affatichiamo tanto,
ebbene ti dirò... qualche volta noi siamo strumenti di Dio, mezzi mediante i quali, quando gli pare, egli
attua, in modi e forme diverse, i suoi disegni fra le creature; senza di lui non abbiamo infatti alcun potere,
tanto meno se lui ci si mette contro. Qualche volta, su nostra richiesta, otteniamo il permesso di
tormentare il corpo d'un uomo, ma non l'anima: pensa a quanti malanni combinammo a Giobbe! Altre
volte abbiamo potere su entrambi, cioè sia sul corpo che sull'anima. Altre volte ancora ci viene permesso di
tentare un uomo tormentandolo nell'anima, ma non nel corpo, e allora è molto meglio: resistendo alla
nostra tentazione potrebbe salvarsi, ma è proprio questo che noi non vogliamo e in genere riusciamo a
portarlo via! Talvolta è l'uomo che ha su di noi il sopravvento, come accadde con l'arcivescovo San
Dunstano, (5) io poi feci da servo perfino agli apostoli ...»
«Ma dimmi, francamente,» chiese il cursore «devi ogni volta mettere insieme gli elementi per crearvi un
corpo nuovo?»
«No» rispose il diavolo «a volte lo facciamo solo apparire, a volte ridestiamo sotto diversa forma dei
cadaveri (6) e parliamo in modo ordinato preciso e chiaro come Samuele con la Pitonessa. (C'è chi dice
infatti che non fosse lui, ma a me non interessa la vostra teologia...) (7). Ad ogni modo t'avverto d'una cosa
e non scherzo: tu saprai senz'altro in che modo siamo fatti; fra non molto, mio caro fratello, arriverai dove
non ci sarà più bisogno ch'io t'insegni! Per tua diretta esperienza diventerai in grado di tener cattedra in
materia meglio di Virgilio, menzionandolo da vivo, o meglio anche di Dante!... Presto dunque, andiamo,
continuerò a tenerti compagnia, a meno che tu non voglia abbandonarmi...»
«No» disse il cursore «questo non accadrà! Sono un galantuomo io, lo sanno tutti: manterrò la mia parola
anche questa volta. Anche se tu fossi il diavolo Satanasso, non verrei meno a una promessa fatta a mio
fratello: io ho giurato, come tu hai giurato a me, di agire in quest'affare da fratello sincero. Andiamo
dunque insieme a far bottino! Tu prenderai la tua parte, quello che gli uomini ti daranno, e io prenderò la
mia: così potremo campare tutti e due. E se per caso uno avesse più dell'altro, sia leale e lo divida con suo
fratello!»
«D'accordo» disse il diavolo «hai la mia parola.» Ciò detto, continuarono a cavalcare per la loro strada.
E proprio mentre stavano per entrare nella città in cui il cursore aveva deciso d'andare, videro un carro,
carico di fieno, che un carrettiere conduceva lungo la via. Ad un tratto il fondo della strada si avvallò e il
carro non si mosse. Il carrettiere si mise a picchiare e a gridare come un pazzo: «Su, brocco! su ronzino! Ma
come, avete paura delle pietre? Che il diavolo vi prenda in carne ed ossa, quant'è vero che vi ha figliato!
Con voi ne ho già passate tante!... E vada tutto al diavolo, cavalli, carro e fieno!».
Il cursore pensò: 'Qui ci divertiremo'. E, come se niente fosse, s'avvicinò al demonio e sottovoce gli sussurrò
all'orecchio: «Ascolta, fratello, ascolta, in fede tua! Non senti che cosa dice il carrettiere? Portagli via tutto.
Ti ha dato il fieno, il carro e perfino i suoi tre ronzini».
«No» disse il diavolo «nient'affatto, perdio! Non è questa la sua intenzione, credimi. Chiediglielo, se non ti
fidi di me, oppure aspetta un po' e vedrai.»
Ed ecco che il carrettiere diede una strigliata ai suoi cavalli e quelli, inarcando la groppa, si misero a tirare.
«Bravi, su!» disse. «Gesù Cristo benedica voi e tutte le sue creature dalla prima all'ultima!... Bella strappata!
bravo il mio leardo! Che Dio e Sant'Eligio ti proteggano! Ormai il carro è fuori dal pantano, perdio!»
«Guarda, fratello,» disse il demonio «che ti dicevo? Come vedi, fratello mio, quel bifolco diceva una cosa e
ne intendeva un'altra. Riprendiamo il nostro viaggio: qui non ci sono diritti da pretendere.»
Quando furono un po' fuori città, il cursore si rivolse a suo fratello sottovoce: «Fratello,» gli disse «abita qui
una vecchia ribecona che preferirebbe perdere il collo piuttosto che tirar fuori un quattrino dal suo
malloppo. A costo di farla impazzire, voglio farmi dare dodici soldi, altrimenti la cito in tribunale; anche se
Dio sa che di lei non conosco nessuna colpa. E tu, che da queste parti non sai neanche rifarti le spese,
prendi almeno esempio da me!».
Il cursore bussò alla porta della vedova. «Esci fuori,» disse «vecchia megera! Scommetto che con te c'è
qualche frate o qualche prete!»
«Chi è che bussa?» disse la vedova. «... Ah, "benedicite"! Dio vi protegga, messere, in che cosa posso
servirvi?»
«Ho qui» disse lui «un foglio di citazione: sotto pena di scomunica, cerca di trovarti domattina ai piedi
dell'arcidiacono per rispondere di questa faccenda in tribunale.»
«Oh, Signore!» disse lei. «Gesù Cristo Re dei Re m'aiuti, ma io non posso! Sono malata, e da parecchi giorni.
Non posso fare tanta strada a piedi, e neanche a cavallo: ne morirei, ho un dolore piantato qui nel fianco...
Non potrei chiedere copia dell'accusa, messer cursore, e far rispondere laggiù da un procuratore alle cose
di cui sono incolpata?»
«Ma certo» disse il cursore «mi paghi subito... vediamo un po'... dodici soldi, e mi occuperò io della tua
assoluzione. M'accontento di poco: chi si pappa tutto è il mio padrone, non io. Decidi dunque e lasciami
partire, ho fretta... E dammi questi dodici soldi, non posso perdere tempo!»
«Dodici soldi!» disse lei. «Madonna, Maria Santissima, liberami dal male e dal peccato! Non potrei mettere
insieme dodici soldi neanche per comprare il mondo quant'è grande. Sapete bene che sono povera e
vecchia: siate caritatevole con me, povera disgraziata!»
«Ah no!» disse lui «mi prenda il demonio laido se ti scuso: neanche se tu dovessi crepare!»
«Ahimè!» disse lei «Dio sa che non ho nessuna colpa!»
«Pagami!» fece lui «se no, dolce Sant'Anna, mi porto via questa tua padella nuova, per rifarmi di quel
debito che ancora mi devi dai vecchi tempi... Quando facesti becco tuo marito, pagai io la tua ammenda in
tribunale!»
«Tu menti!» fece lei «per mia fortuna, vedova o maritata, non sono mai stata citata in tribunale prima
d'ora, mai in vita mia! e non ho mai usato del mio corpo meno che onestamente!... Ma che il diavolo nero e
orrendo si prenda la tua carcassa oltre che la mia padella!»
Vedendo che così maledicendo s'era messa in ginocchio, il diavolo le disse: «Ma via, Mabel, cara mia
mammina, desiderate sul serio ciò che dite?».
«Sì» rispose lei «che il diavolo se lo porti via vivo, lui e la sua padella, se non si pente!»
«Ah no, vecchia stallona, non ho nessuna intenzione di pentirmi» disse il cursore «qualunque cosa io ti
posso aver preso! La camicia vorrei portarti via, e tutta la tua roba!»
«Ebbene, fratello,» fece allora il diavolo «non t'arrabbiare, ma ormai la tua persona e questa padella
appartengono di diritto a me! Stanotte tu sarai con me all'inferno, dove potrai conoscere i nostri segreti
meglio d'un professore di teologia!»
Così dicendo il demonio laido l'agguantò e se lo portò, anima e corpo, là dove hanno il loro lascito i cursori.
E Iddio, che ha creato l'uomo a sua immagine, ci salvi e ci protegga tutti quanti, e conceda a certi cursori di
diventar galantuomini!
Signori (concluse il Frate), se questo Cursore qui me l'avesse permesso, avrei potuto descrivervi, seguendo
il testo di Cristo, Paolo e Giovanni, pene da farvi rabbrividire il cuore, quantunque nessuna lingua possa mai
dire, pur narrando per mill'anni, le sofferenze dell'orrida dimora dei dannati. Per salvarci tuttavia da quel
luogo maledetto, vegliate e pregate Gesù che ci protegga con la sua grazia dal tentatore Satanasso;
ascoltate le mie parole e state in guardia, perché, appena può, il leone si mette in agguato per dilaniare
l'innocente... Disponete dunque i vostri cuori a resistere al demonio che vorrebbe farvi suoi servi e schiavi:
egli non può tentarvi oltre le vostre forze purché Cristo vi faccia da campione e cavaliere. E pregate che
certi cursori s'abbiano a pentire delle loro malefatte, prima che il demonio se li porti!
Qui termina il Racconto del Frate.
Note del "Racconto del Frate".
(*). Nessuna fonte sicura si può citare del "Racconto del Frate", che fu probabilmente composto subito
dopo quello della Comare (1393-94). La storia qui narrata a spese d'un cursore si trova, in altre versioni
contemporanee, rivolta contro altri funzionari. Anche l'intervento dei demonio e l'efficacia o meno delle
maledizioni umane sono temi popolari nella letteratura medievale.
Nota 1. Era infatti un giudice di tribunale ecclesiastico.
Nota 2. Il Frate allude al «pastorale» vescovile, per lo più d'argento, con manico ricurvo.
Nota 3. Gli ordini questuanti dipendevano soltanto dal loro superiore generale, non dal vescovo e neppure
quindi dall'arcidiacono.
Nota 4. Secondo la mitologia teutonica, anche l'inferno era situato verso nord.
Nota 5. Secondo la leggenda, San Dunstano riuscì a ficcar tizzoni ardenti nel naso del demonio.
Nota 6. Che il demonio assumesse forme di persone morte era opinione diffusa nel Medioevo. Anche
Amleto, dopo l'apparizione del fantasma del padre, dice: «Il fantasma che vidi può essere il diavolo; il
diavolo ha il potere d'assumere piacevoli forme...» ("Hamlet", II, 2, 594-599.)
Nota 7. La Pitonessa era la maga che fece apparire a Saul lo spirito di Samuele. Secondo alcuni teologi,
però, non si sarebbe trattato del vero spirito di Samuele, ma di sembianze fittizie assunte dal demonio.
Prologo
DEL CURSORE.
Prologo al Racconto del Cursore.
Il Cursore s'alzò dritto sulle staffe: aveva l'animo così infuriato contro il Frate, che fremeva di rabbia come
una foglia di tremolo.
«Signori,» disse «desidero una cosa soltanto. Vi prego, fatemi la cortesia: ora che avete sentito le fandonie
di questo Frate ipocrita, permettete che anch'io racconti la mia storia. Questo Frate si vanta di conoscere
l'inferno: sfido io, sa il Padre Eterno che tra frati e diavoli c'è ben poca differenza! Chissà quante volte,
perdio, avrete sentito parlare di quel frate che venne rapito in spirito all'inferno da una visione; e mentre
un angelo lo accompagnava su e giù, mostrandogli com'erano le varie pene, lui vide che in tutto quel posto
non c'era neppure un frate. Eppure di gente a soffrire ce n'era parecchia...
«Allora quel frate si rivolse all'angelo: 'Ma come, messere,' gli disse 'i frati hanno forse la grazia di non
venire mai in questo posto?'.
«'Oh sì'» rispose l'angelo «'ce ne sono a milioni!'
«E giù lo portò da Satanasso. 'Ecco, vedi,' gli disse 'Satana ha una coda più larga della vela d'una chiatta.
Tira su la coda, Satanasso!' fece 'scopriti il sedere e mostra dove i frati in questo posto fanno il nido!'
«In neanche cento metri di spazio, come tante api che sciamano da un alveare, dal pertugio del demonio
vennero cacciati in branco ventimila frati, che si misero a starnazzare intorno per l'inferno. Poi ritornarono
più veloci che poterono e gli rientrarono tutti nel foro: lui abbassò la coda e si coricò tranquillo.
«Quando il frate ebbe ben guardato i tormenti di quel misero posto, Dio con la sua grazia gli rimandò
l'anima in corpo, e il frate si svegliò. Ma tremava ancora di paura, pensando al pertugio dei demonio, ch'era
il lascito spettante a quelli della sua risma... Ed ora Iddio vi salvi tutti quanti, tranne questo Frate
maledetto! Ecco come voglio terminare il mio prologo...»
RACCONTO DEL CURSORE (*).
Qui comincia il Racconto del Cursore.
Signori, c'è una zona paludosa, mi pare nello Yorkshire, che si chiama Holderness, dove un frate questuante
andava sempre a predicare e, naturalmente, a mendicare...
Un giorno, predicando in una chiesa, questo frate, secondo il suo solito, si mise a esortare i fedeli in
particolar modo e soprattutto alla pratica dei trentali (1) e a fare elemosine, per amor di Dio, a coloro che si
preoccupano di fondare sante case in cui si onora il servizio divino, non a coloro che sperperano e divorano
tutto o non hanno bisogno di nulla, come i beneficiari (2) che, grazie a Dio, possono vivere in agiatezza e
abbondanza... «I trentali» disse «liberano da ogni pena le anime dei vostri cari, soprattutto quando siano
celebrati in fretta senza star lì a tener libero e riposato il prete che dica una sola messa al giorno (3)... Su,
liberate presto le anime! Dev'essere terribile farsi lacerare con ganci e arpioni, oppure bruciare e arrostire...
Non perdete tempo, per amor di Cristo!» E dopo aver detto quel che aveva in mente, con un "qui cum
patre" (4) il frate se ne andò per la sua strada.
Sempre così, appena la gente in chiesa gli aveva dato quant'era disposta a dargli, lui se ne partiva senza
fermarsi. Con la sua bisaccia e il suo bastone a punta, tirandosi su la gonna, andava a mettere il naso e a
curiosare in ogni casa, chiedendo farina, formaggio o grano. Il suo compare (5) aveva un bastone con la
punta di corno, un paio di tavolette tutte d'avorio e uno stilo finemente appuntito; e, stando sempre in
piedi, scriveva il nome di tutta la gente che dava qualcosa, come per dire che avrebbe pregato per loro.
«Dateci un moggio di grano, d'orzo o di segala, una pagnotta per il Signore o un pezzo di formaggio, oppure
quello che volete: non tocca a noi scegliere; mezzo soldo per la carità di Dio o uno intero per la messa,
oppure dateci un po' di prosciutto cotto, se ne avete; un lembo di coperta, buona signora, nostra cara
sorella - ecco, guardate! scrivo il vostro nome - cotechino o manzo, o quello che trovate.»
Avevano dietro con sé un robusto garzone, servo degli ospiti al convento, il quale portava un sacco e si
caricava in spalla tutto quello che gli davano. E appena uscivano dalla porta, quell'altro raschiava subito via
tutti i nomi che prima aveva scritto sulle tavolette. Ecco come li serviva, di balle e di fandonie!...
«Ah no, Cursore, in questo tu menti!» fece il Frate.
«Silenzio, Santa Madre di Cristo!» fece il nostro Oste. «E tu continua il tuo racconto e lascialo perdere!»
«Ma certo!» disse il Cursore «e come!...»
...Dunque, dopo esser andato per un bel po' da un posto all'altro, alla fine quello giunse in una casa dove di
solito si ristorava meglio che in cento altre messe insieme; il buon uomo che vi abitava era infermo e stava
sempre a letto su di un basso giaciglio.
«"Deus hic"! (6)... Ehi, Tommaso, amico, buon giorno!» disse cortese e dolce questo frate. «Dio ti benedica,
Tommaso, quante volte mi son riposato su questa panca!... e quanti bei pasti mi son mangiato!»
E dalla panca cacciò via il gatto, posò il bastone, il cappello e la bisaccia, e dolcemente si calò a sedere. Il
suo compare, intanto, se n'era andato in città col garzone, in un'osteria dove aveva deciso di passare la
notte.
«Oh caro maestro!» disse l'infermo. «Come vi è andata dai primi di marzo? Saranno quindici giorni o più
che non vi vedo!»
«Dio solo sa quanto ho sfacchinato» disse quello «e specialmente quante preziose orazioni ho detto per la
salvezza tua, e per gli altri nostri amici, Dio li benedica! Oggi poi sono stato nella vostra chiesa per la messa
e ho fatto una predica alla buona, così come mi veniva, senza basarmi troppo sul testo del vangelo, che,
secondo me, è troppo complicato per voialtri e ha bisogno di commento. Questo commento è una cosa
magnifica, altrimenti "la lettera uccide", (7) come diciamo noi teologi. In questo modo ho spiegato che
bisogna essere caritatevoli e spendere il proprio denaro quando sia ragionevole. Ho visto che c'era anche
madonna... a proposito, dov'è ora?»
«Fuori in cortile credo che sia» disse l'uomo «sarà qui a momenti.»
«Oh, caro padre! benvenuto a voi, per San Giovanni!» disse infatti la donna proprio allora. «Di grazia, come
ve la passate?»
Molto cerimoniosamente il frate s'alzò, se la strinse forte tra le braccia e la baciò dolcemente, cinguettando
a fior di labbra come un passero: «Benissimo, madonna,» le disse «son vostro servo umilissimo e ringrazio
Iddio che v'ha dato anima e vita! Oggi in tutta la chiesa non ho visto altra donna così bella, Dio mi salvi!».
«...E vi liberi dal peccato, messere!» disse lei. «Ad ogni modo, in fede mia, siete il benvenuto!»
«E sempre lo son stato, grazie a voi, madonna!... Ma per vostra gran bontà e con vostra licenza, vi prego
non l'abbiate a male, vorrei un momento parlare con Tommaso. I curati son troppo negligenti e tardi per
saggiare delicatamente una coscienza in confessione. La mia preoccupazione, invece, è di predicare e di
studiare le parole di Pietro e Paolo. Vado a pesca d'anime cristiane per rendere a Gesù Cristo quello che gli
appartiene: unico mio scopo è di diffondere la sua parola...»
«Allora, per favore, caro padre,» disse lei «rimproveratelo come si deve, perché, Trinità Santissima, è
sempre arrabbiato come una bestia, pur avendo tutto quello che può desiderare: io di notte lo copro e lo
tengo caldo, gli allungo addosso una gamba o un braccio, e lui grugnisce come il verro che abbiamo nel
porcile! Altri spassi da lui non mi posso aspettare: non riesco più a piacergli in nessun modo!»
«Ah, Tommaso, Tommaso! "je vous dis", (8) Tommaso! Questa è opera dei demonio; bisogna rimediarvi.
L'ira è cosa che il sommo Dio ha proibito, e su questo voglio dirti una parola o due.»
«Ma ora, padre,» disse la donna «prima che me ne vada, che cosa vorreste per desinare? Così poi vado a
prepararne.»
«Ecco, madonna,» disse «ecco, "je vous dis sans doute" che quando avessi soltanto un fegatino di cappone
con una fetta del vostro soffice pane e poi una testa di maiale arrosto (ma non vorrei che apposta per me si
uccidesse la bestia ...), questo sarebbe, qui con voi, più che sufficiente. Sono un uomo che si accontenta di
poco. Il mio spirito ha il suo nutrimento nella Bibbia, e il mio corpo s'è ormai sottoposto e abituato a tante
veglie, che il mio stomaco s'è rovinato... Vi prego, madonna, non vi offendete, se così amichevolmente vi
rivelo le mie cose. Perdio, son pochi coloro ai quali lo direi!»
«Ebbene, padre,» disse lei «una parola sola prima di andarmene. M'è morto il bambino due settimane fa,
poco dopo che lasciaste il nostro borgo ...»
«Lo sapevo ch'era morto» disse il frate «per una rivelazione avuta al convento nel nostro dormitorio. Direi
che non fosse passata mezz'ora dalla sua morte quando lo vidi in visione portato alla beatitudine: così mi
rivelò Iddio! Lo videro anche il nostro sagrestano e l'infermiere, che fanno onestamente i frati da
cinquant'anni e ormai, ringraziando Iddio per i suoi favori, possono celebrare il loro giubileo e andare in giro
da soli (9). Io subito mi alzai, e così fece tutto il convento, con le lacrime che mi colavano sulle guance,
senza chiasso o sbatacchiare di campane. Cantammo, il "Te Deum" e basta, solo che a Cristo recitai
un'orazione ringraziandolo per la sua rivelazione. Credetemi, messere e madonna: valgono più le nostre
orazioni e più vediamo nelle segrete cose di Cristo noi di quanto facciano i laici, quand'anche fossero dei re.
Noi viviamo in povertà e astinenza, mentre i laici se la passano nella ricchezza, nello sperpero di cibi e di
bevande, e in turpi sollazzi. Noi tutti i piaceri di questo mondo teniamo a vile. Lazzaro e Dives (10) vissero in
modo diverso, e diversa fu la loro ricompensa. Chi vuol pregare, deve digiunare e rimaner puro, nutrire
l'anima e far magro il corpo. Noi ci comportiamo come dice l'apostolo: cibo e saio ci sono sufficienti, anche
se non sono in tutto eccellenti... La purezza e il digiuno di noi frati rendono a Cristo accette le nostre
preghiere. Pensate a Mosè che digiunò quaranta giorni e quaranta notti, prima che il sommo Dio
Onnipotente gli parlasse sul Sinai. A stomaco vuoto, dopo giorni interi di digiuno, ricevette la legge ch'era
tracciata dal dito del Signore. Anche Elia, lo sapete bene, sul monte Oreb, prima di poter parlare col sommo
Dio, medico della nostra vita, rimase a lungo a digiuno e in contemplazione. E Aronne, che aveva il governo
del tempio, e tutti gli altri sacerdoti, dovendo entrare nel tempio a pregare e a celebrare il rito, non
bevevano mai alcuna bevanda che potesse ubriacarli, ma pregavano e vegliavano nell'astinenza per timore
di morire. Fate attenzione a quel che dico! Se chi prega per la gente non è sobrio, attenti a ciò che dico...
ma via, ora basta! Anche nostro Signore Gesù, come attestano le sacre scritture, ci ha dato esempio di
digiuno e di preghiera. Ecco perché noi questuanti, noi semplici frati, siamo sposi della povertà e della
continenza, della carità, dell'umiltà e dell'astinenza, della persecuzione per amore di giustizia, della
condoglianza, della misericordia e della purezza. E voi potete vedere che le nostre preghiere - parlo di noi,
frati questuanti - sono meglio accette al sommo Dio delle vostre, per via del vostro banchettare. In verità,
l'uomo fu scacciato la prima volta dal paradiso per la sua ingordigia, e in paradiso l'uomo era certamente
casto. Ma poi, Tommaso, ascolta bene quel che ti dico: anche se, come credo, non c'è testo che lo affermi,
non ci vuol molto a capire che Gesù nostro dolce Signore si riferiva proprio ai frati, quando diceva: 'Beati
quelli che sono poveri nello spirito!'. E così da tutto il vangelo si può vedere se esso sia più conforme alla
nostra professione o a quella di quanti nuotano nell'abbondanza. Questi dovrebbero vergognarsi del loro
lusso e della loro ingordigia! Non parliamo poi della loro ignoranza... Mi fanno venire in mente Gioviniano,
(11) grasso come una balena, dondolante come un cigno e avvinazzato come una botte in cantina... E poi
con che rispetto pregano, quando recitano il salmo di Davide per le anime! Sembra che facciano: buf! "cor
meum eructavit"! (12)... Chi segue mai il vangelo di Cristo e la sua orma, se non noi che siamo umili, casti e
poveri, praticanti, e non teorici, della parola di Dio? Ecco perché, come un falco che di slancio sale in aria, le
preghiere dei caritatevoli e casti frati operosi salgono a volo alle orecchie del Signore!... Ah Tommaso,
Tommaso, ch'io possa sempre camminare e cavalcare, per quel messere che si chiama Sant'Ivo, (13) se tu
non fossi nostro confratello, non t'andrebbe certamente tanto bene! Giorno e notte in capitolo non
facciamo che pregar Cristo che ti dia salute e forza, e che tu possa presto guarire!»
«Perdio» fece quell'altro «non me ne sono ancora accorto! Eppure, Cristo m'aiuti, di sterline ne ho spese in
questi anni, e con ogni sorta di frati; ma non sto mai meglio! Veramente, mi sono quasi rovinato... Difatti,
oro mio ti saluto, è ormai tutto andato!»
Rispose il frate: «Ma come, Tommaso, così ti comporti? Che bisogno c'è, per chi ha già un ottimo medico,
d'andare in città a cercarne altri? La tua incostanza è la tua rovina. Credi che io, o almeno il nostro
convento, non basti a pregare per te? Tommaso, questo è un capriccio che non serve a niente. Se tu sei
ancora ammalato, è perché ci hai dato troppo poco!... To', mezzo quarto d'avena a quel convento! To',
ventiquattro denari a quell'altro! To', un soldo a quel frate e che se ne vada!... No, no, Tommaso, così non
può andare! A che serve un quattrino diviso in dodici? Vedi, quando una cosa rimane unita vale più di
quando viene sparpagliata. Da me non aspettarti complimenti, Tommaso: tu vorresti tutta la nostra fatica
per niente. Ma il sommo Dio, che ha creato il mondo intero, dice che chi lavora ha diritto al suo salario.
Tommaso, non è ch'io voglia il tuo gruzzolo per me, ma per tutto il nostro convento che è sempre così
zelante nel pregare per te, e poi per edificare a Cristo la sua chiesa... Tommaso, se t'interessasse sapere
quanto sia buona l'opera di costruir chiese, potresti trovarlo nella vita di San Tommaso d'India. (14) E
invece eccoti qui coricato, pieno di collera e d'ira, con le quali il demonio t'infiamma il cuore, a tormentare
questa povera innocente di tua moglie, che è tanto mite e calma... Credi a me, Tommaso, cerca di non
litigare con tua moglie, per il tuo bene; e per tua fede porta con te queste parole che, proprio a questo
riguardo, dicono i saggi: 'Non fare il leone in casa, non opprimere chi dipende da te e non costringere gli
amici a fuggire!'. Mi raccomando, Tommaso, guardati da chi ti dorme in seno, guardati dalla serpe che
scaltra striscia nell'erba e morde a tradimento. Attento, figlio mio, e ascolta con pazienza: migliaia d'uomini
hanno perduto la vita per aver disputato con le loro amanti e le loro mogli. Ma dal momento che la tua è
una moglie così santa e mite, che bisogno c'è, Tommaso, di far liti? Attento, perché non c'è serpe, a cui
venga calpestata la coda, che sia più crudele e inesorabile d'una donna presa dall'ira: ogni suo desiderio
allora è la vendetta! L'ira è fra i più gravi dei sette peccati capitali, abominevole a Dio in cielo e perdizione
dell'uomo sulla terra. Qualsiasi ignorante parroco o curato te lo sa dire! L'ira provoca l'omicidio, l'ira è in
verità l'agente della superbia... potrei parlarti fino a domani dei malanni causati dall'ira! Solo prego Iddio
notte e giorno di concedere pochi poteri a un uomo iroso; è difatti un gran rischio e un gran peccato
mettere in alta posizione un iracondo...
«Narra Seneca che una volta c'era un magistrato collerico, e un giorno, mentr'egli era in carica, due
cavalieri se ne uscirono a cavallo, e volle il caso che poi uno ritornasse e l'altro no. Il cavaliere fu subito
portato davanti a quel giudice che gli disse: 'Sei tu che hai ucciso il tuo compagno e perciò io ti condanno a
morte!'. E comandò a un altro cavaliere: 'Va', conducilo a morte, è un ordine!'. Ma accadde che, proprio
mentre loro andavano al patibolo, incontrassero quel cavaliere che si credeva fosse stato ucciso. Pensarono
allora che la miglior cosa fosse ritornare insieme dal giudice, e gli dissero: 'Messere, questo cavaliere non
ha ucciso il suo compagno: egli è qui sano e salvo'. E quello allora: 'Mi venga un po' di bene, vi farò
ammazzare tutt'e tre, prima uno, poi l'altro e poi il terzo!'. E, rivoltosi al primo cavaliere, gli disse: 'Tu devi
morire perché ormai sei stato condannato... E tu pure devi rimetterci la testa, perché è per causa tua che il
tuo compagno muore'. E al terzo cavaliere disse: 'Tu poi non hai eseguito quel che t'avevo comandato!'. E
fu così che li fece ammazzare tutti e tre.
«Anche Cambise (15) era iracondo, ed era per giunta un ubriacone che si compiaceva d'essere un bruto. Un
giorno accadde che un gentiluomo del suo seguito, amante della virtù e della morale, così parlando, gli
dicesse: 'Il sovrano dissoluto scade; l'ubriachezza poi, che già è un vizio vergognoso per qualsiasi uomo,
tanto più lo è per un signore. Molti sono gli occhi e le orecchie che, a sua insaputa, sorvegliano un
sovrano... Per amor di Dio, bevete più moderatamente! Il vino fa perdere miseramente all'uomo il suo
intelletto e tutto il suo vigore...'.
«'E invece ti proverò subito il contrario!' disse quello 'e tu stesso farai esperienza che il vino non produce
affatto simili effetti. Non c'è vino che possa togliermi forza dalle mani o dai piedi e neppure vista dagli
occhi!' E si mise a bere per dispetto cento volte più di prima; poi, quel maledetto collerico scellerato, si fece
portare davanti il figlio del gentiluomo, ordinandogli di mettersi dritto di fronte a lui; e là sul momento,
preso l'arco in mano, tese la corda fino all'orecchio e al primo colpo ammazzò il bambino. 'Ecco, ho la mano
ferma o no?' disse allora. 'Ho forse perso tutto il mio vigore e il mio intelletto? Forse che il vino mi ha tolto
la vista dagli occhi?...' Che bisogno c'è di riferire la risposta del gentiluomo? Suo figlio ormai era stato
ucciso...
«Meglio, dunque, stare attenti a come si scherza con i potenti; e cantar "placebo" (16) e dir sempre di sì, a
meno che non si tratti d'un povero. A un povero bisogna dirglieli i suoi difetti, ma non ad un sovrano, pur se
dovesse andare all'inferno! Pensa all'iroso Ciro, quel persiano che, andando a conquistare Babilonia, fece
annientare il fiume Gysen perché un suo cavallo vi era annegato dentro; lo fece diventare così basso, che
perfino una donna avrebbe potuto attraversarlo a guado... Sai che dice chi veramente la sa lunga? (17) Non
fare amicizia con l'uomo iracondo e non andare con l'uomo violento, perché te ne pentiresti... Io non
aggiungo altro. Perciò, Tommaso caro, smettila d'essere sempre in collera; vedrai che ho ragione. Non
tenerti puntato al cuore il coltello del demonio, l'ira ti fa soffrire troppo, e invece confessa tutto a me...»
«No» disse l'infermo «per San Simone, oggi mi sono già confessato col curato! E gli ho detto tutto quello
che gli dovevo dire; non c'è bisogno di riparlarne... non è ch'io goda a farmi umiliare!»
«Allora dammi un po' del tuo denaro per costruire il nostro chiostro!» disse il frate. «Ci siamo ridotti a
mangiar solo cozze e molluschi mentre c'è chi se la gode beatamente, e tutto per poter costruire il nostro
chiostro. Ma per ora, Dio lo sa, siamo riusciti a stento a porre soltanto le fondamenta, e per il pavimento
non abbiamo nel recinto neppure un mattone... perdio, siamo in debito di quaranta sterline soltanto per le
pietre! Su, aiutaci, Tommaso, in nome di colui che discese all'inferno! Altrimenti dovremo vendere tutti i
nostri libri!... Pensa, se verrà a mancare la nostra predicazione, il mondo intero andrà in rovina. Togliere noi
da questo mondo, Dio ce ne liberi (pensa, Tommaso!), sarebbe come togliere il sole dalla terra. Chi
saprebbe ammaestrare e sfaticare come facciamo noi? E non è da ieri, ma dal tempo d'Elia e d'Eliseo (18)
che, come sta scritto, ci son frati di carità, grazie a nostro Signore! E dunque, per amor di carità, aiutaci,
Tommaso!» E così dicendo sì gettò in ginocchio.
L'ammalato era fuori di sé per la gran rabbia; avrebbe cacciato quel frate nel fuoco, lui e tutta la sua falsa
ipocrisia. «Più di darvi tutto quello che posseggo non posso fare...» disse. «Voi, però, mi assicurate che sono
della vostra confraternita?»
«Ma certo!» rispose il frate. «Fidati di me. Ho già consegnato a madonna la lettera col nostro sigillo.» (19)
«E va bene» disse l'altro «finché sono in vita, voglio dare ancora qualcosa al convento... anzi, l'avrete in
mano subito, a una condizione però, che voi, mio caro fratello, la distribuiate in modo che ciascun frate
abbia la sua parte come gli altri. Giuratelo sulla vostra professione, senza inganni o cavilli.»
«Lo giuro sulla mia fede!» disse il frate, porgendogli subito la mano nella sua. «Ecco, ti do la mia parola e
non vi verrò mai meno!»
«Va bene, allora mettetemi una mano sotto la schiena» disse l'uomo «e frugate bene: sotto il mio sedere
troverete una cosa che ho nascosto in segreto.»
«'Ah!' pensò il frate. 'Questa è roba che viene via con me!' E giù spinse la mano fino in fondo alla fessura,
nella speranza di trovarvi un dono. E appena l'infermo sentì il frate annaspare qua e là intorno al pertugio,
gli mollò una scoreggia proprio in mano... nessun brocco attaccato al carro avrebbe potuto mollare un peto
di tanto suono! Il frate balzò su come un leone inferocito: «Ah, sporcaccione ipocrita!» disse. «Per le ossa di
Dio l'hai fatto apposta per dispetto! Appena posso, me la paghi questa scoreggia!»
I servi di casa, sentendo tutto quel baccano, si precipitarono di corsa e cacciarono fuori il frate, il quale se
ne andò, con la faccia stravolta dalla rabbia, a cercare il suo compare che aveva con sé le provviste. Era
tanto imbestialito, che digrignava i denti come un verro selvaggio! E si diresse a grandi passi al castello dove
abitava un uomo di grande onore, al quale aveva sempre fatto da confessore. Il degno uomo era il signore
del villaggio. Il frate arrivò di gran furia, mentre il gentiluomo era a tavola, e quasi non gli riuscì di spiccicar
parola, ma alla fine disse: «Dio vi protegga!...».
Il gentiluomo si mise a guardarlo e disse: «"Benedicite"! Ma via, fra' Giovanni, in che mondo viviamo? E'
chiaro che qualcosa non va: dal vostro aspetto sembrerebbe che il bosco fosse pieno di briganti. Presto
sedete, e ditemi che dispiacere avete: se potrò, cercherò di rimediarvi».
«Dio ve ne renda merito...» disse lui; «sono stato così insolentemente offeso nel vostro villaggio... neanche
il più misero sguattero di questa terra sopporterebbe l'abominio di quanto ho ricevuto oggi nel vostro
borgo! Ma non c'è nulla che m'affligga tanto, quanto il fatto che quel vecchio screanzato dai capelli bianchi
abbia anche bestemmiato il nostro convento...»
«Ebbene, maestro» disse il gentiluomo «vi prego...»
«Macché maestro, signor mio!» fece l'altro. «Servo piuttosto, anche se a scuola ho avuto quel titolo... A Dio
non garba che ci chiamino "Rabbi", (20) né al mercato né qui ora nel vostro palazzo!»
«Va bene, va bene ...» fece quello «ma ditemi per intero che dispiacere avete.»
«Signor mio,» disse il frate «un odioso oltraggio è stato oggi recato al mio ordine e a me, e quindi "per
consequens" (21) a ogni grado della Santa Chiesa! Dio vi ponga subito rimedio!»
«Messere,» disse il gentiluomo «voi soltanto sapete quel che c'è da fare. Non divagate: siete il mio
confessore, sale e sapore della terra. Mantenete la calma, per amor di Dio, e ditemi di che cosa si tratta!» E
allora il frate gli raccontò quanto avete già udito, sapete bene che cosa...
La dama del castello rimase immobile a sedere finché non ebbe ascoltato quello che il frate aveva da dire.
«Oh, Madre di Dio» disse alla fine; «Vergine beata! c'è ancora dell'altro? ditemi francamente.»
«Signora,» disse lui «che ne pensate voi?»
«Che ne penso io?» disse lei. «Dio m'aiuti, ma quel villano s'è comportato proprio da villano. Che devo dire?
Dio non lo lasci mai prosperare! La sua testa malata è piena di aberrazioni; credo che sia in preda a qualche
frenesia.»
«Signora,» disse lui «non gliela perdonerò, perdio, e in qualche modo gliela farò pagare... lo diffamerò
dovunque mi troverò a parlare, quel bestemmione ipocrita che m'ha ordinato di dividere l'indivisibile in
parti uguali, alla malora!»
Il gentiluomo sedeva immobile come fosse in sogno, rimuginando in cuor suo questi pensieri: 'Come avrà
avuto quel villano l'idea di porre un simile problema al frate? Prima d'ora non avevo mai sentito una
faccenda simile. Gliela deve aver messa in testa il diavolo. Nessuno prima d'ora aveva mai trovato una
simile domanda d'aritmetica. E chi mai riuscirebbe a dimostrare il modo di dividere fra molti in parti uguali
il suono e il vapore d'una scoreggia? Ah, balordo insolente villano, dannata facciatosta!'. E disse il
gentiluomo: «Signori miei, guardate che maniere! Chi ha mai sentito una cosa simile prima d'ora?... in parti
uguali fra tutti? ditemi come!... E' impossibile, non può essere. Ah, villano balordo, Dio non ti lasci mai
prosperare! Il rombo d'una scoreggia, come di qualsiasi altro suono, non è che vibrazione d'aria e svanisce a
poco a poco. In fede mia, non c'è uomo che possa giudicare se si distribuisca in parti uguali. Eppure,
guardate un po' in che dannato modo questo villano è andato oggi a parlare al mio confessore! Dev'essere
certamente indemoniato! Ma ora mangiate la vostra carne e lasciate perdere quel villano; che s'impicchi e
vada al diavolo!».
Parole dello scudiero, scalco del gentiluomo, sulla divisione d'una scoreggia in dodici parti.
Ora accanto al tavolo lo scudiero del gentiluomo stava scalcando la carne, e udì, parola per parola, tutte le
cose che v'ho dette. «Signor mio,» disse «non vi dispiaccia se m'intrometto, ma, per il panno d'un mantello,
(23) volendo io saprei dire a voi, messer frate, sempre che voi non vi offendiate, come si potrebbe ripartire
quella scoreggia in parti uguali fra i frati del vostro convento.»
«Parla» disse il gentiluomo «e per Dio e per San Giovanni avrai subito il panno per il mantello!»
«Signor mio,» disse lo scudiero «appena il tempo è bello, senza vento o perturbazioni d'aria, fate portare
qui in questa sala la ruota d'un carro; ma guardate che abbia tutti i raggi: di solito una ruota ne ha dodici.
Poi portatemi dodici frati, e sapete perché? Perché ce ne vogliono tredici per formare un convento, mi
pare. E il confessore che è qui, per i suoi meriti, completerà il numero. (24) Poi dovranno mettersi giù in
ginocchio tutti insieme e, all'estremità di ciascun raggio, così, in questa maniera, ogni frate dovrà
appoggiare il naso senza muoversi. Il vostro nobile confessore (Dio lo protegga!) dovrà tenere il naso
all'insù proprio sotto il mozzo. A questo punto si porterà qui quel villano con la pancia gonfia e tesa come
un tamburo, lo si metterà a sedere nel mezzo della ruota, sul mozzo appunto, e gli si farà mollare una
scoreggia... Vedrete allora per prova lampante (son pronto a scommeterci la vita!) che il suono si sposterà
uniformemente, e così il puzzo, fino a raggiungere l'estremità di ciascun raggio, se non che il degno
messere, vostro confessore, ne riceverà a ragione la primizia, essendo uomo di maggior onore... Difatti, tra
frati, c'è la nobile usanza di servire i più degni per primi, e certamente egli l'ha ben meritato. Oggi stesso ci
ha insegnato tanto bene, predicando dall'alto del pulpito, che da parte mia vi posso assicurare meriterebbe
il primo profumo di perfino tre scoregge... e così vorrebbe ardentemente tutto il suo convento, dato che lui
si comporta così bene e santamente!»
Il gentiluomo, la dama e tutti i presenti, eccetto il frate, ammisero che Gioacchino aveva parlato
sull'argomento al pari di Euclide o di Tolomeo. Quanto al villano, dissero che sagacia e buon senso
l'avevano fatto parlare come aveva parlato, e che non era né sciocco né indemoniato. E fu così che
Gioacchino si guadagnò un mantello nuovo... Il mio racconto è finito, e noi siamo quasi arrivati in Città! (25)
Qui termina il Racconto del Cursore.
Note del "Racconto del Cursore".
(*). La beffa narrata nel "Racconto del Cursore" (composto probabilmente intorno al 1393-94) era un luogo
comune al tempo del Chaucer, ed è perciò impossibile indicarne una fonte precisa. Si può semplicemente
ricordare qualche racconto simile, come quello intitolato "Le Dis de la Vescie à Prestre" ("Storia della
vescica d'un prete") d'un certo Jakes de Basiu o Baisieux,
Nota 1. Si chiamava «trentale» uno speciale ufficio dei defunti, comprendente trenta messe da celebrarsi
per trenta giorni consecutivi in suffragio delle anime del purgatorio. Il termine indicava anche la somma che
per esso si pagava al sacerdote.
Nota 2. Gli ordini monastici e altre categorie ecclesiastiche che godevano di particolari benefici e prebende.
Nota 3. Sembrerebbe che occasionalmente si potessero celebrare le trenta messe in un solo giorno,
risparmiando così alle anime dei defunti ventinove giorni di purgatorio!
Nota 4. Ogni predica si concludeva con un'invocazione a Gesù Cristo, seguita dalla formula: «... qui cum
Patre et Spiritu Sacro Sancto vivit et regnat per omnia saecula saeculorum».
Nota 5. I frati andavano alla questua sempre in due, così che l'uno potesse controllare l'altro.
Nota 6. «Dio sia qui!»: formula d'augurio che s'usava entrando in casa di qualcuno.
Nota 7. «Dio ci ha anche resi capaci d'essere ministri di un nuovo patto, non di lettera ma di spirito; perché
la lettera uccide, ma lo spirito vivifica» (2 "Corinzi" 3,6).
Nota 8. «Ve lo dico io!» Era abbastanza comune infiorare il discorso di locuzioni francesi.
Nota 9. Al compiersi del cinquantesimo anno di servizio, un frate otteneva un certo numero di privilegi, tra
cui quello di poter uscire dal convento da solo.
Nota 10. Il ricco epulone.
Nota 11. Si tratterebbe del Gioviniano contro il quale San Gerolamo scrisse il suo trattato, "Adversus
Jovinianum".
Nota 12. Sono le parole con le quali inizia il Salmo 45: «"Cor meum eructavit verbum bonum"...» ('Mi ferve
in cuore una parola soave'). Qui però la citazione, dove "eructavit" è preso anche nel senso di «ruttare»,
acquista una pesante e volgare allusione.
Nota 13. Santo venerato in Cornovaglia, da dove probabilmente viene il frate.
Nota 14. Secondo la tradizione, l'apostolo San Tommaso andò a predicare in India dove costruì diverse
chiese.
Nota 15. Questo episodio su Cambise re di Persia è narrato, come il precedente, da Seneca in un suo
trattato sull'ira.
Nota 16. «Cantar "placebo"» significava «esser compiacenti».
Nota 17. Salomone, proverbiale per la sua sapienza.
Nota 18. Eliseo, profeta ebreo discepolo di Elia, continuò la lotta del maestro contro l'idolatria introdotta da
re Acab nel regno di Israele. Durante il Medioevo ci furono grandi dispute fra i vari ordini di frati per
stabilire quale fosse stato fondato per primo. I Carmelitani, che facevano risalire il loro nome al monte
Carmelo, pretendevano che il loro ordine fosse stato fondato dal profeta Elia, rifugiatosi appunto su quel
monte per sfuggire all'ira di Acab. E con questa fantastica pretesa, si assicuravano la priorità sugli altri.
Nota 19. Ai benefattori d'un convento veniva data una «lettera di confraternita» recante appunto il sigillo
dei convento.
Nota 20. «Non vi fate chiamar "Rabbi", 'Maestro', perché uno solo è il vostro maestro, e voi siete tutti
fratelli» ("Matteo" 23, 8),
Nota 21. Di conseguenza.
Nota 22. «Voi siete il sale della terra» ("Matteo" 5, 13).
Nota 23. Nel Medioevo il denaro era scarso,
Nota 24. Originariamente un convento si componeva di dodici frati e d'un superiore, a ricordo dei dodici
apostoli e del loro Maestro.
Nota 25. Si tratterebbe della città di Sittingbourne, citata prima dal Cursore durante la sua lite col Frate.
Frammento Quarto.
Prologo
DELLO STUDENTE.
Qui segue il Prologo al Racconto dello Studente di Oxford.
«Messer Chierico di Oxford!» disse il nostro Oste «voi cavalcate così peritoso e zitto, che sembrate una
verginella appena sposata seduta al banchetto. Oggi non ho ancora sentito una parola dalla vostra bocca:
scommetto che state almanaccando dietro a qualche sofisma; ma ogni cosa a suo tempo, dice Salomone.
Per amor di Dio, via quella faccia seria, non è questo il momento di studiare! Narrateci qualche racconto
allegro: diamine, quando si è in ballo bisogna ballare! E non mettetevi a predicare, come i frati in tempo di
quaresima, per farci piangere sui nostri vecchi peccati; e cercate anche di non farci venir sonno col vostro
racconto... Narrateci qualcosa di avventuroso, ma i paroloni, le coloriture e le immagini, teneteveli per
quando avrete bisogno d'uno stile elevato per scrivere a qualche re! Parlate alla buona per questa volta, vi
prego, in modo che si possa capire quello che dite.»
Il bravo Studente rispose affabilmente e disse: «Oste, sono ai vostri ordini, come dei resto qui lo siamo
tutti, e perciò eccomi pronto ad obbedirvi, entro i limiti della ragione, naturalmente. Vi narrerò una storia
che appresi a Padova da un letterato illustre, che tale si dimostrò a parole e a fatti... Adesso, pace all'anima
sua, è morto e inchiodato nella bara... Il suo nome era Francesco Petrarca, (1) il poeta laureato che con la
sua dolce retorica illuminò l'Italia intera di poesia, come fece il Legnano (2) con la filosofia, il diritto ed altre
speciali discipline. Ma ormai la morte, che non ci lascia star qui per più d'un batter d'occhio, li ha portati via
tutt'e due, come un giorno farà con noi... Però per ritornare, già che ho cominciato, a quell'uomo illustre
dal quale appresi questa storia, vi dirò che, prima d'attaccare il racconto vero e proprio, egli stende in uno
stile elevato un proemio, nel quale descrive il Piemonte e la terra di Saluzzo, e parla delle alte cime degli
Appennini che segnano il confine occidentale della Lombardia, soffermandosi particolarmente sul Monviso,
di dove, sgorgando da una piccola sorgente, prende origine e corso il Po, che si dirige quindi sempre più
ingrossandosi verso levante, verso l'Emilia, fino a Ferrara e a Venezia... Ma forse sarebbe troppo lungo
parlare di questo. E veramente, a mio giudizio, mi pare che la cosa qui non c'entri, mentre a lui serviva per
introdurre l'argomento. Ma ecco il suo racconto, se volete ascoltarlo».
RACCONTO DELLO STUDENTE (*).
Qui comincia il Racconto dello Studente di Oxford.
Proprio sul fianco occidentale dell'Italia, giù alle radici del freddo Monviso, c'è una pianura lussureggiante,
ricca di messi, dove si vedono molte torri e città, fondate in tempi antichissimi dai nostri padri, e paesaggi
bellissimi: questa nobile regione si chiama Saluzzo.
Signore di quella terra era una volta un marchese, discendente da illustri antenati, i cui vassalli, dal primo
all'ultimo, erano obbedienti e pronti al suo comando, sicché ormai da tempo egli viveva beatamente,
amato e temuto, col favore della fortuna, sia dai baroni che dalla plebe. Quanto poi a casato, egli era il più
nobile che fosse nato in Lombardia: bello d'aspetto, forte, giovane, pieno di dignità e di cortesia, ed anche
abbastanza moderato nel governo del suo paese. Eppure in certe cose anche lui era da biasimare. Si
chiamava Gualtieri, questo giovane signore. Ed era da biasimare, perché non si curava di quello che potesse
accadere nel futuro: pensava solo al piacere del momento sempre di qua e di là a caccia col falcone, senza
quasi badare ad altro, e (quel ch'è peggio) non voleva a nessun costo prender moglie. Ecco il punto che ai
suoi sudditi soprattutto dispiaceva, tanto che un giorno gli si presentarono in gruppo, e uno di loro, il più
istruito (o quello che il suo signore più volentieri avrebbe ascoltato esporre ciò che il popolo pensava, o che
altrimenti sapesse meglio presentare l'argomento) sentite che cosa disse al marchese:
«Nobile marchese, la vostra umanità ci rassicura e c'incoraggia, ogni volta che è necessario, ad esporvi le
nostre preoccupazioni permettete dunque, signore, per vostra cortesia, che col cuore rattristato noi vi
rivolgiamo una preghiera, e non sdegnate di dare ascolto alle mie parole. Sebbene io non abbia a che
vedere nella faccenda più di qualsiasi altro dei presenti, pure, dato che voi, mio caro signore, m'avete
sempre dimostrato favori e grazie, oso chiedervi di dare ascolto alla nostra richiesta; poi naturalmente voi,
signore mio, farete come credete. Ecco, signore, noi siamo, e sempre siamo stati, così contenti di voi e
d'ogni vostra opera, da non saper neppure immaginare come potremmo vivere più felicemente, salvo una
cosa, signore: che se voi vorreste compiacervi di prender moglie, allora il vostro popolo avrebbe il cuore
supremamente in pace. Piegate il collo a quel beato giogo di sovranità, non di schiavitù, che gli uomini
chiamano sposalizio o matrimonio; e pensate, signore, nei vostri saggi pensieri, che i nostri giorni in un
modo o nell'altro passano: sia che noi dormiamo o restiamo svegli, sia che passeggiamo o cavalchiamo, il
tempo vola e non si ferma per nessuno. Anche se voi siete ancora nel fiore della giovinezza, il tempo cala
sempre, inesorabile come un macigno, e la morte minaccia a qualunque età e colpisce uomini d'ogni
condizione, perché nessuno le può sfuggire; e come sappiamo per certo che dobbiamo tutti morire, così del
giorno in cui debba accadere siamo tutti ignari. Accettate dunque la buona fede di chi non s'è mai rifiutato
al vostro comando, e se volete, signore, vi scegliamo noi al più presto una moglie, nata fra le più nobili e le
migliori di questa terra, tale che, a parer nostro, faccia onore a Dio e a voi. Liberateci da questi inquieti
timori e, per amor di Dio, prendete moglie! Perché se capitasse, Dio non voglia, che con la vostra morte la
discendenza si estinguesse e la vostra eredità passasse a uno straniero, allora guai a chi di noi fosse ancora
vivo! Ecco perché insistiamo tanto che prendiate moglie.»
L'umile preghiera e gli sguardi imploranti impietosirono il cuore del marchese.
«Miei cari sudditi,» disse «mi costringete a far ciò che non avrei mai pensato di fare: mi godevo la mia
libertà, il che raramente accade nel matrimonio, ero dunque indipendente, e voi volete ridurmi schiavo.
Vedo però la vostra buona fede e, come sempre, m'affido al vostro buon senso; e vi prometto di mia
spontanea volontà che mi sposerò appena mi sarà possibile. Ma quanto all'offerta che m'avete fatto, di
scegliermi voi una moglie, ve ne dispenso e vi prego di non darvene cura. Dio sa quante volte i figli non son
degni dei loro genitori; la bontà deriva da Dio, non dalla stirpe da cui siamo generati e messi al mondo. E
poiché io credo nella bontà di Dio, a lui affido il mio matrimonio, la mia sorte e la mia pace: sia fatto
com'egli vuole! Solo lasciate che la moglie me la scelga io: questo è un carico che voglio addossare sulle mie
spalle. Ma vi prego di giurarmi, sulla vostra vita, che qualsiasi moglie io prenda, voi la onorerete fino al
termine dei suoi giorni, a parole e a fatti, qui e dovunque, come fosse la figlia di un imperatore. E dovete
anche giurarmi di non discutere o contraddire la mia scelta: sacrifico la mia libertà perché voi lo volete, ma
almeno intendo sposare quella che dirà il mio cuore. Se poi non volete accettare queste condizioni, vi
prego, non parliamo più di questa faccenda.»
Tutti però giurarono, accettando di buon grado la sua proposta, senza che nessuno si rifiutasse. Gli chiesero
soltanto, prima d'andare, ch'egli fissasse per favore un certo giorno per le sue nozze, il più presto possibile;
altrimenti al popolo sarebbe rimasto ancora un po' di timore, che il marchese non volesse decidersi a
prender moglie. Egli fissò di suo gradimento un giorno, in cui sicuramente si sarebbe sposato, dicendo di
volerli anche in questo accontentare. Essi allora, molto umili ed ossequienti, inginocchiandosi davanti a lui
con grande riverenza, tutti lo ringraziarono; e, avendo così raggiunto il loro scopo, se ne tornarono a casa.
Egli ordinò dunque ai suoi servi di provvedere per la festa, dando opportuni incarichi ai suoi scudieri e
cavalieri privati; e quelli, pronti ad ogni suo comando, si misero d'impegno per fare onore ai festeggiamenti.
EXPLICIT PRIMA PARS.
INCIPIT SECUNDA PARS.
Non lontano dallo splendido palazzo dove il marchese si preparava a nozze, sorgeva in una bella posizione
un borgo, dove la povera gente teneva le sue bestie e le sue masserizie e campava di lavoro, secondo
quello che dava l'abbondanza della terra.
Fra questa povera gente viveva un uomo ch'era considerato il più povero di tutti; ma talvolta il sommo Dio
può far scendere la sua grazia perfino in una misera stalla di buoi... Al villaggio quell'uomo lo chiamavano
Giannucole. Egli aveva una figlia, discretamente bella, e questa giovane fanciulla si chiamava Griselda.
Quanto però a bellezza virtuosa, era la più bella ch'esistesse sotto il sole, perché, essendo appunto
cresciuta poveramente, non aveva desideri impuri che le passassero per il cuore: era più facile che bevesse
dal pozzo che non dal tino e, siccome amava la virtù, sapeva bene che cosa fosse la fatica, ma non l'ozio.
Per quanto fosse ancora in tenera età, questa ragazza racchiudeva nel seno della sua verginità un animo
serio e maturo: era tutta amore e tenerezza verso quel povero vecchio di suo padre, conduceva al pascolo
le sue poche pecore e intanto filava; non stava mai ferma se non quando dormiva. Tornando a casa,
portava sempre con sé radici o altra verdura, che poi tagliuzzava e faceva bollire per desinare; si rifaceva il
letto, tutt'altro che soffice, e s'occupava del padre con tutta la cura e la diligenza con cui un figlio saprà mai
venerare il proprio genitore.
Passando a cavallo per andare a caccia, già più d'una volta il marchese aveva messo gli occhi su quella
povera creatura ch'era Griselda: ma non è che quando la vedesse, si mettesse a guardarla per lussuria, no,
ne contemplava invece il volto con serietà, ammirandone in cuor suo il carattere e la virtù, non comuni in
una ragazza tanto giovane sia d'aspetto che di contegno. E, per quanto in genere la gente non abbia grande
intuito per la virtù, egli rimase attratto proprio dalla sua bontà e decise che, dovendosi sposare, l'avrebbe
fatto soltanto con lei.
Arrivò il giorno fissato per le nozze, ma nessuno sapeva chi sarebbe stata la sposa. E perciò molti se ne
fecero meraviglia e, parlando di nascosto fra loro, dicevano: «Ma allora il nostro padrone non vuole ancora
rinunciare alla sua leggerezza... Che non voglia più ammogliarsi? Ahimè, ahimè, perché ingannare così se
stesso e noi?».
Il marchese, invece, nel frattempo aveva fatto fare per Griselda spille e anelli di pietre preziose, oro e
lapislazzuli annodati insieme; quanto agli abiti, ne aveva fatto prendere le misure su una ragazza di statura
uguale, e così per tutti gli altri ornamenti che servivano alle nozze.
Era ormai proprio il mattino del giorno fissato per le nozze, e tutto il palazzo era parato a festa, con sale e
stanze addobbate ciascuna in diverso modo; e si vedevano dispense colme d'ogni grazia, di tutte le vivande
più squisite che si possano trovare da un capo all'altro dell'Italia. Allora il marchese, sfarzosamente vestito,
accompagnato dai gentiluomini e dalle dame invitate alla festa e dal seguito dei suoi baccellieri, si diresse
con gran pompa e fra il suono di diverse melodie verso il villaggio di cui vi dicevo.
Griselda (Dio sa che non avrebbe mai immaginato che tutta quella festa fosse per lei!) era andata a prender
l'acqua dal pozzo e stava ora tornando a casa più in fretta che poteva, perché, avendo sentito dire che quel
giorno il marchese si sarebbe sposato, voleva poter vedere qualcosa anche lei. Fra sé pensava: 'Voglio
mettermi anch'io sulla porta con le altre ragazze, le mie amiche, per vedere la marchesa, e perciò bisogna
che sbrighi in fretta tutte le mie faccende di casa, così avrò tempo di vederla quando passerà di qui per
andare al castello...'.
Stava proprio per varcare la soglia, quando il marchese, avvicinandosi, la chiamò: lei posò subito a terra la
secchia, sull'uscio d'una stalla là vicino, e cadde in ginocchio, rimanendo tutta seria in attesa di sentire quel
che volesse da lei il padrone.
Il marchese, pensoso, si rivolse molto sobriamente alla ragazza e le disse: «Dov'è tuo padre, Griselda?».
E lei, con riverenza e umiltà, rispose: «E' qui in casa, signore». E senza perder tempo, entrò e accompagnò il
padre davanti al marchese.
Egli allora prese per mano il vecchio, lo condusse in disparte e poi gli disse: «Giannucole, io non so e non
posso più nasconderti un desiderio che ho nel cuore: se tu vi acconsenti, comunque vada, prenderò con me
tua figlia e lei sarà mia moglie per tutta la sua vita. Tu mi sei affezionato, io lo so, e sei mio fedele suddito
fin dalla nascita; son sicuro che sei pronto a tutto pur di farmi piacere: però nel caso che ti ho detto vorrei
che tu rispondessi liberamente, se cioè sei contento di accettarmi per tuo genero».
A questa inattesa proposta il pover'uomo rimase così sorpreso, che, facendosi rosso, vergognoso, tutto
tremante e parlando a stento, disse soltanto: «Signore... la mia volontà è la vostra, io non voglio nulla che
sia contro il vostro piacere; siete voi il mio amatissimo padrone, e perciò fate anche in questo come
credete...».
«Allora» disse il marchese affabilmente «vorrei che io, tu e lei avessimo un colloquio in camera tua, e sai
perché?... perché vorrei chiederle se veramente, diventando mia moglie, sarebbe poi sempre disposta a
ubbidirmi. E bisogna che tutto questo sia fatto in tua presenza: non voglio dir nulla che anche tu non
senta...»
E mentre loro se ne stavano in camera per combinare la faccenda, come poi sentirete, la gente girava
intorno per la casa, osservando con meraviglia con quanta cura e attenzione Griselda tenesse il suo caro
padre. Ma chi più di tutti provava meraviglia era proprio lei, che non aveva mai visto nulla di simile; ed è
naturale che fosse stupefatta di vedere un ospite così importante in casa sua: non era certo abituata a simili
visite, e perciò si guardava intorno tutta pallida. Ma insomma, per farvela corta, ecco le parole che il
marchese rivolse a quella buona, sincera e onesta ragazza:
«Griselda,» le disse «devi sapere che è desiderio di tuo padre e mio che tu divenga mia moglie, e spero che
anche tu ne sia contenta. Ma voglio prima domandarti alcune cose, alle quali, siccome ormai le nozze vanno
concluse senza perdere tempo, bisogna che tu mi dica subito se acconsenti... Ecco, sei disposta a piegarti di
buon animo a ogni mio piacere, in modo ch'io sia libero, come meglio credo, di farti ridere o soffrire, senza
che tu mai ti lamenti? Riusciresti a non dire mai di no a ciò che voglio, sia parlando che mostrandoti
offesa?... Promettimi questo, ed io giuro senz'altro concluso il nostro matrimonio!»
Stupita per queste parole e tremante di paura, lei rispose: «Signore, io sono indegna e immeritevole
dell'onore che mi fate, ma se questo è il vostro volere, ubbidirò. E vi giuro che di mia volontà non farò o
penserò mai cosa che vi dispiaccia, dovessi anche morirne e per terribile che fosse la mia morte!».
«Basta così, Griselda mia'» disse lui. E con aria molto tranquilla se ne uscì fuori sulla porta, seguito da lei, e
disse alla gente: «Questa che qui vedete è mia moglie. Vi prego, onoratela e amatela, se a me volete bene;
non aggiungo altro».
E affinché non portasse con sé al castello nulla che ricordasse la sua antica condizione, la fece subito
spogliare da alcune dame, le quali non è che fossero proprio liete di toccare gli stracci di cui era coperta...
Eppure la rivestirono da capo a piedi di nuovi abiti dai colori smaglianti, le pettinarono i capelli che portava
rozzamente senza trecce e con agili dita le acconciarono sul capo una corona, adornandola di bei fermagli
piccoli e grandi. Ma perché farvi un romanzo sul suo abbigliamento?... Trasformata da tutto quello sfarzo,
lei era diventata così bella, che la gente ormai a stento la riconosceva. Il marchese la sposò con un anello
che aveva appositamente portato con sé e, fattala salire su un cavallo bianco come la neve che sapeva
tenere elegantemente il passo, la condusse senza più indugi a palazzo, tra il popolo festante che li
accompagnava o veniva loro incontro. E così quel giorno fu trascorso in allegria fino al tramonto.
Insomma, per farla breve, vi dirò che a questa nuova marchesa Dio mandò tali favori e grazie, che non
parve neppure più possibile che lei fosse nata e cresciuta miseramente in una capanna o stalla di buoi, ma
educata invece nel palazzo d'un imperatore. Diventò a tutti così cara e benvoluta, che gli stessi abitanti del
villaggio dov'era nata, pur avendola vista crescere d'anno in anno fin da bambina, quasi non credevano ai
loro occhi: avrebbero giurato che non era davvero la figlia di quel Giannucole di cui vi dicevo, ma che si
trattava forse di un'altra persona. Per quanto fosse stata sempre virtuosa, dimostrava ora un fare così
squisito, un'indole così buona, così discreto modo di parlare e tanta benevolenza e dignità, da conquistarsi
a tal punto il cuore della gente, che chiunque la vedeva ne rimaneva affascinato. E non soltanto nella città
di Saluzzo s'era sparsa la fama delle sue virtù, ma anche in molte altre regioni: se questo ne diceva bene,
quell'altro subito lo riconfermava... era insomma così diffusa la voce della sua bontà, che da diverse parti
uomini e donne, giovani e vecchi, venivano apposta a Saluzzo per vederla.
Così Gualtieri, con umile eppur regale matrimonio, sposatosi per sua fortuna con l'onestà in persona, viveva
in casa tranquillamente in pace con Dio ed era fuori onorato da tutti: avendo infatti saputo scoprire tanta
virtù sotto così povere vesti, lo stimavano tutti persona saggia e fuori dell'ordinario.
Griselda non solo accudiva con diligenza alle faccende di casa, ma, se il caso lo richiedeva, sapeva anche
provvedere al bene pubblico: non c'era discordia, rancore o malanimo in tutto il paese, che lei non sapesse
placare, ricomponendo saggiamente tutto in pace e concordia. Se in assenza del marito c'erano litigi fra
nobili o altri della sua terra, era lei che ne stabiliva l'accordo: aveva parole così sagge e mature e tanta
equità di giudizio, che si pensava fosse stata mandata dal cielo per aiutare il popolo e rimediare a ogni
torto.
Non molto tempo dopo che fu sposata, Griselda ebbe una figlia: tutti avrebbero voluto un maschio, ma poi,
sia il marchese che la sua gente, si accontentarono, perché, sebbene fosse venuta prima una femmina, era
probabile che anche il maschio non si facesse troppo aspettare, dal momento che lei sterile non era.
EXPLICIT SECUNDA PARS.
INCIPIT PARS TERCIA.
Or accadde che, mentre la bambina era ancora una lattante, il marchese fosse preso in cuor suo da un tale
desiderio di tentare la pazienza di sua moglie, da non riuscire più a liberarsi da questa strana voglia, e pensò
(Dio sa quanto ingiustamente!) di farle paura. Già altre volte l'aveva messa alla prova e lei s'era sempre
dimostrata buona: perché dunque continuare a tentarla, e sempre con più dure prove? C'è chi crede che
questo sia segno di furbizia, ma, per conto mio, si fa male a tormentare senza ragione la propria moglie con
paure ed apprensioni.
Ecco che cosa pensò di fare il marchese. Una sera, mentre lei era a letto, le si presentò con la faccia seria e
un'aria molto preoccupata: «Griselda,» le disse «non avrai dimenticato, spero, che un giorno ti ho levata
dalla miseria per farti diventare una signora; insomma, Griselda, l'alta posizione a cui t'ho portato, conto
non t'abbia fatto scordare che t'ho preso molto in basso, ma anzi te lo rammenti sempre... Ascolta bene le
mie parole, non c'è nessuno che ci ascolti, siamo noi due soli... Tu sai, ti dicevo, in che modo non molto
tempo fa sei entrata in questa casa. Io ti voglio molto bene, ma la stessa cosa non vale per i miei baroni, i
quali dicono che per loro è una vergogna e un disonore star sottomessi e far da servi a te che sei nata in un
misero villaggio. Si sono espressi in questi termini specialmente da quando è venuta al mondo la bambina.
Ora, siccome desidero, come sempre ho desiderato, vivere con loro la mia vita in concordia e pace, non
posso fare a meno di preoccuparmene; e mi trovo costretto, a fin di bene, a fare di tua figlia... non certo
quel che desidero io, ma ciò che il mio popolo vuole! Dio sa quanto tutto questo mi sia odioso, ma non
voglio agire senza che tu lo sappia... anzi, desidero che anche tu ne sia d'accordo. E' ora che tu dimostri a
fatti quella pazienza che mi giurasti e promettesti al villaggio il giorno che fu celebrato il nostro
matrimonio!».
Pur udendo tutto questo, lei non mutò voce, né viso o atteggiamento, come se non fosse minimamente
turbata. Disse semplicemente: «Signore, tutto pur di farvi piacere! La mia bambina e io apparteniamo in
umiltà completamente a voi, e ciò che è vostro, voi potete tenerlo o buttarlo via: fate voi come volete.
Purché Dio salvi l'anima mia, non c'è cosa che, piacendo a voi, possa farmi dispiacere; io non desidero e non
temo di perdere nulla, tranne soltanto voi. E' questo che il mio cuore vuole e sempre vorrà: né il passare del
tempo né la morte potranno cancellare o rimuovere altrove questo mio proponimento».
Il marchese fu molto contento della risposta, ma, fingendo il contrario, mantenne un'aria e un'espressione
molto grave, finché non fu fuori della stanza. E poco dopo, trascorsi appena un minuto o due, confidò tutto
il suo piano a un suo uomo e lo mandò dalla moglie.
Quest'uomo fidato era una specie di sergente che più volte aveva dato prova di fedeltà in gravi faccende,
uno di quegli uomini capaci di prestarsi a tutto... Il marchese insomma sapeva bene d'esserne amato e
temuto. Appena infatti conobbe il volere del suo padrone, il sergente entrò nella camera senza fiatare.
«Signora,» disse, «dovete scusarmi per ciò che sono costretto a fare. Sarete abbastanza saggia da capire
che gli ordini dei padroni non si discutono: può anche far dispiacere, ma alla loro volontà bisogna ubbidire,
ed è quello che farò senza discutere... Ho l'ordine di portarvi via la figlia!»
E senz'altro afferrò la bambina, ma così brutalmente, che parve volesse ucciderla prima ancora d'andare.
Griselda, rassegnata ormai da acconsentire a tutto, se ne rimase umile e zitta come un agnello, lasciando
che il crudele sergente facesse quello che voleva. Sospetta era la fama di quell'uomo, sospetta la sua faccia
e la sua parola, come sospetta era l'ora della sua venuta... ah, la bambina, a cui lei voleva tanto bene, pensò
proprio che stesse per uccidergliela sul posto! Eppure, senza una lacrima o un sospiro, si sottomise al volere
del marchese. Soltanto alla fine, rompendo il silenzio, pregò umilmente il sergente che, da vero gentiluomo,
le lasciasse baciare la bambina prima che fosse morta. E con tristissimo volto strinse al petto la piccolina e
la benedisse e, baciandola, si mise a cullarla. E le disse con la sua dolce voce: «Addio, bambina mia! Non ti
rivedrò più... ma segnandoti col segno della croce del Signore benedetto che per noi morì crocifisso, a lui
raccomando l'anima tua, povera piccina, che stanotte per colpa mia devi morire...»,
Credo che in un simile caso, perfino una balia non avrebbe potuto reggere alla commozione: figurarsi che
cosa avrebbe dovuto fare una madre! Lei invece, rimanendo fermamente salda, riuscì a sopportare tutto
con pazienza, e al sergente disse: «Ecco, tenete, la bambina è vostra. Ora andate e fate come il mio signore
vi ha detto. Solo vi prego di concedermi una grazia: a meno che il mio signore non ve l'abbia proibito,
seppellite questo corpicino in un luogo dove le bestie e gli uccelli non lo divorino!...». Ma quello, senza
nemmeno rispondere, prese la bambina e se ne andò.
Il sergente ritornò dunque dal suo padrone e gli raccontò punto per punto, chiaramente e in breve, ciò che
Griselda aveva detto e fatto, e gli consegnò la sua figliola. Il marchese provò a suo modo un senso di
compassione, ma, rimanendo fermo nel suo proposito, come fanno i prepotenti una volta presa una
decisione, ordinò al sergente che di nascosto coprisse e fasciasse delicatamente la bambina, con ogni
riguardo, e la mettesse in una cesta o l'avvolgesse in un panno; poi, senza che nessuno, pena la sua testa,
riuscisse a sapere da dove veniva o dove andava, la portasse così nascosta a Bologna da una sua cara
sorella, ch'era allora contessa di Panago, (3) e le spiegasse la faccenda, pregandola di prendersi cura
d'allevare con ogni attenzione la piccina, senza mai dire ad anima viva di chi fosse figlia, qualsiasi cosa
accadesse.
Il sergente partì ed eseguì ogni ordine... Ma torniamo al marchese, che ora andava fantasticando se mai
potesse scorgere nel volto della moglie, o cogliere dalle sue parole, un qualche mutamento. Egli non riuscì
mai a trovarla che costantemente affabile e gentile: sempre serena, sempre umile, sempre pronta a servire
e ad amare come prima, in tutto e per tutto immutata; e non diceva una parola di sua figlia: non ci scorgeva
in lei nessun segno di contrarietà, nessun cenno che, in bene o in male, richiamasse il nome della piccola.
EXPLICIT TERCIA PARS.
SEQUITUR PARS QUARTA.
Passarono in questo modo quattro anni, prima che lei fosse di nuovo incinta, ma, come Dio volle, questa
volta partorì a Gualtieri un bel maschietto: quando ne fu informato il padre, non lui soltanto, ma il paese
intero fu contento del bambino, e tutti lodarono e ringraziarono il Signore. Ma come appena dopo due anni
fu questo pure spoppato dalla nutrice, tornò un giorno al marchese l'idea di mettere sua moglie ancora alla
prova. Oh, sarebbe stato inutile!... Ma certi mariti non conoscono misura, appena trovano una poveretta
che sopporta.
«Moglie,» disse il marchese «tu sai che il mio popolo ha sempre visto di malanimo il nostro matrimonio: ma
da quando ci è nato questo figlio, le cose sono andate di male in peggio. Mi giungono alle orecchie certi
mormorii, che mi straziano l'anima e il cuore, voci così odiose, che mi lasciano allibito. Ecco che cosa dicono
ora: 'Una volta morto Gualtieri, gli succederà la stirpe di Giannucole a governarci, perché non abbiamo
altri'. Proprio così dice la mia gente. In qualche modo bisogna che io vi ponga rimedio, a queste
mormorazioni, perché, sebbene nessuno osi per ora parlare in mia presenza, la cosa tuttavia è
preoccupante. Io vorrei vivere in pace, finché fosse possibile: e perciò ho deciso di fare del bambino ciò che
una notte, senza che nessuno se ne sia accorto, ho fatto di sua sorella. Lo dico a te, perché dovendo agire
d'improvviso, tu non debba smarrirti, e anzi, ti prego, cerca d'aver pazienza...»
«Vi ho già detto» rispose lei «e sempre vi dirò che veramente io non voglio, né vorrò mai, se non quello che
piace a voi: non m'importa neppure che mia figlia e mio figlio siano uccisi, se ciò avviene per ordine vostro!
Intanto di mio, nei due bambini, non c'è stato altro che travaglio prima, e poi, dolore e pena. Siete voi il
nostro padrone, e dunque fate di ciò che è vostro come volete, senza chiedere consiglio a me: perché io,
come lasciai tutte le mie vesti a casa quando me ne venni via con voi, così vi lasciai il mio volere e la mia
libertà, indossando i vostri abiti; e perciò, qualunque cosa facciate, io obbedirò ormai sempre al vostro
desiderio. Vorrei anzi poter prevedere il vostro volere e il desiderio vostro, per adempierli ancor prima che
ne parliate, e tuttavia ferma e costante m'attengo sempre al piacer vostro, appena so quel che volete e
desiderate. Quand'anche sapessi che vi fosse cara la mia morte, sarei pronta a morire pur di compiacervi: a
tutto, anche alla morte, sovrasta il mio amore per voi!»
Vedendo tanta costanza in sua moglie il marchese abbassò gli occhi, sbalordito che lei potesse sopportare
con rassegnazione tante prove; e se ne uscì con piglio austero, e tuttavia pieno di contentezza al cuore.
L'orrido sergente, in quella medesima maniera che le aveva preso la bambina, o peggio, se peggio si può
immaginare, venne a portarle via anche quel figlio ch'era un amore. E lei, sempre con la sua pazienza, non
diede alcun segno di contrarietà, ma baciò e benedisse il suo bambino, pregando semplicemente l'uomo
che, potendo, glielo seppellisse nella terra, perché almeno le sue tenere delicate membra fossero al riparo
dagli uccelli e dalle fiere. Ma non ebbe risposta alcuna: come se a lui non interessasse nulla, quell'uomo se
ne andò per la sua strada, portando con ogni cura il bambino a Bologna.
Il marchese era sempre più sbalordito da tanta pazienza: se ormai da tempo non fosse stato più che certo
che lei voleva un gran bene ai suoi bambini, avrebbe quasi sospettato che sopportasse tutto con apparente
calma, per qualche astuzia, malizia o crudeltà di cuore. Ma in realtà sapeva bene che, dopo di lui, lei amava
i suoi figli sopra ogni cosa.
Ma ora ditemi voi (mi rivolgo alle donne) se queste prove non potevano bastare! Che cosa poteva ancora
escogitare un marito ostinato per provare la virtù e la costanza della moglie, persistendo nella propria
ostinatezza?... Eppure c'è gente che, una volta presa una decisione, non riesce più a staccarsi da quell'idea
e, come fosse legata a un palo, non sa più districarsi dal suo proposito: così era il marchese, ormai invasato
dal suo capriccio di mettere sua moglie alla prova.
Egli non faceva dunque che cercare se, dalle parole o dagli sguardi, lei si fosse rispetto a lui mutata d'animo,
ma non riuscì mai a notare alcun cambiamento. Era sempre la stessa, sul volto e dentro il cuore; anzi, col
passar del tempo, pareva, se possibile, ancor più schietta nel suo amore per lui e ancora più premurosa:
pareva insomma che fra loro due non vi fosse che una volontà sola, giacché tutto quello che piaceva a
Gualtieri era grato anche a lei. Grazie a Dio, dunque, tutto andava per il meglio, mentre lei col suo esempio
a tutti dimostrava come una moglie non dovrebbe mai, per nessun turbamento al mondo, voler cosa che
non voglia anche il marito.
Ma poi cominciò a spargersi la voce che Gualtieri, per crudeltà d'animo, avesse fatto morire di nascosto i
suoi due figli, pentito d'aver sposato una donna povera. Tale voce diventò ben presto comune a tutti, e
ormai alle orecchie della gente non giungeva altra parola che quella della loro uccisione. Così, mentre prima
il suo popolo lo amava, spargendosi ora quest'infamia, tutti presero ad odiarlo, sotto l'orrenda accusa
d'assassinio. Con tutto ciò egli non volle desistere dal suo crudele proposito, e tutto il suo desiderio era di
mettere ancora alla prova la moglie.
Quando sua figlia ebbe dodici anni, egli dunque mandò un suo messaggero alla corte di Roma,
segretamente informata delle sue intenzioni, con l'ordine di far stendere certe bolle adatte al suo crudele
scopo, dalle quali risultasse che il papa, per tranquillizzare il popolo, gli concedeva di sposare quando
voleva un'altra donna. Ordinò, insomma, che si falsificassero le bolle papali dicendo in esse ch'egli era
pienamente libero, per dispensa del papa, d'abbandonare la prima moglie, così da far cessare il rancore e il
dissenso sorti fra il suo popolo e lui. E così infatti diceva la bolla che poi venne per intero pubblicata.
Non fu difficile darla a intendere al popolo ignorante. Ma immaginate la pena che provò al cuore Griselda,
quando le giunse questa notizia! Eppure, perseverante come sempre, quest'umile creatura era ancora
disposta a sopportare ogni avversione della fortuna, pur di rispettare il desiderio e la volontà di colui al
quale aveva dato il suo cuore e tutta se stessa: come se ciò ormai al mondo le bastasse.
Nel frattempo, per farvela corta, il marchese scrisse e mandò segretamente a Bologna una speciale lettera
in cui esponeva tutto il suo disegno. In essa pregava vivamente il conte di Panago, marito di sua sorella, di
riportargli solennemente e senza più sotterfugi i suoi due figli a casa, raccomandandogli però di non
rivelare, a chiunque gli facesse domande, di chi fossero quei ragazzi; dicesse soltanto che la fanciulla
sarebbe andata sposa al marchese di Saluzzo.
Così infatti il conte fece. E nel giorno fissato, con la fanciulla e il giovane fratello che le cavalcava accanto,
scortati da una nobilissima compagnia di gentiluomini, si mise in cammino verso Saluzzo. La bella fanciulla
era vestita come se veramente andasse a nozze, tutta adorna di fulgide gemme; ed anche suo fratello, che
ormai aveva sette anni, era a suo modo molto elegante. Così, proseguendo il viaggio in gran pompa e
allegrezza, s'avvicinavano a Saluzzo cavalcando un po' per giorno.
EXPLICIT QUARTA PARS.
SEQUITUR PARS QUINTA.
Frattanto il marchese, sempre più deciso nel suo perfido proposito, per mettere all'estrema prova l'animo
di sua moglie ed esser così pienamente certo della sua pazienza, un giorno, in presenza di tutti, le tenne
brutalmente questo discorso: «Indubbiamente, Griselda, io mi ritengo abbastanza soddisfatto d'averti
preso in moglie, per la tua bontà, la tua fedeltà e la tua obbedienza, ma non certo per il tuo casato o la tua
ricchezza... Però, a ben pensarci, m'accorgo che anche chi comanda in certo senso è schiavo: io, per
esempio, non posso fare quel che fa un qualsiasi contadino; il mio popolo mormora sempre più ogni giorno,
ed eccomi... costretto a prendere un'altra moglie! Perfino il papa mi consente a farlo, perché cessi ogni
malcontento. Insomma, per dirti chiaramente come stanno le cose, la mia nuova moglie è già in viaggio e
sta per arrivare. Fatti dunque coraggio e lasciale il tuo posto, e riprenditi pure la dote che m'hai portata...
questo te lo concedo. Ma poi ritorna a casa da tuo padre: nessuno, in fondo, a questo mondo può stare
sempre bene... Mi raccomando, cerca di sopportare con serenità di cuore i colpi della fortuna e della
sventura!».
E lei, sempre con pazienza, rispose: «Mio signore, io lo sapevo, l'ho sempre saputo, che non può esistere
paragone tra la vostra magnificenza e la mia miseria. Io non mi sono mai creduta degna di essere, non dico
vostra moglie, ma neppure la vostra cameriera. E in questa casa, di cui m'avete fatto signora (ne sia
testimonio Iddio, che sempre allieta l'anima mia!) non mi sono mai stimata né signora né padrona, ma
vostra umilissima serva, e tale rimarrò per sempre finché avrò vita e sarò al mondo. Della bontà che avete
avuto, di tenermi così a lungo in tanto onore e nobiltà, quando invece n'ero indegna, ringrazio Iddio e voi,
pregando che ne siate rimeritato. E lieta ritorno dal padre mio, a vivere con lui per sempre. Là fui allevata
da bambina e là terminerò i miei giorni da vedova, casta nel corpo, nel cuore e in tutto. Ora che vi ho dato
la mia verginità e sono la vostra legittima moglie, non temete, Dio mi guarderà dal prendere un altro uomo
per marito o per compagno! E voglia Iddio concedervi prosperità e fortuna con la vostra nuova moglie! A lei
volentieri cedo il mio posto, dove un tempo ero felice; e poiché voi, signor mio, voi che prima eravate tutta
la gioia del mio cuore, ora desiderate ch'io me ne vada, me ne andrò come volete. Quanto alla concessione
che mi fate della dote che vi ho portato, capisco bene che vi riferite ai miei poveri, miseri stracci, che ora
non saprei neppure dove ritrovare... Buon Dio! come sembravate gentile e cortese, con le vostre parole e il
vostro sguardo, il giorno del nostro matrimonio! E' ben vero quel che si dice (ormai lo so per esperienza!),
che l'amore quand'è vecchio non è mai come quando è nuovo. Eppure vi assicuro, signor mio, che nessuna
avversità, neanche la morte, riuscirà mai a farmi pentire d'avervi dato tutto il mio cuore! Vi ricorderete,
signor mio, che in casa di mio padre mi faceste togliere di dosso le mie povere vesti, per rivestirmi tutta
d'abiti sfarzosi: a voi non portai altro che la mia fedeltà, la mia povertà e la mia purezza. Ebbene, eccovi ora
i vostri abiti e il vostro anello nuziale: ve li restituisco per sempre; tutti gli altri gioielli, posso assicurarvelo,
sono in ordine in camera vostra... Nuda uscii dalla casa del padre mio, e nuda debbo ritornarvi. Son dunque
pronta a far tutto quel che volete; soltanto spero che non vogliate farmi uscire di casa vostra senza neppure
la camicia. Non potete fare una cosa così indegna, costringendomi a mostrare nudo il grembo che portò i
vostri figli: vi prego, non cacciatemi per la strada come un verme; ricordate, amato mio signore, che, per
quanto indegnamente, sono stata vostra moglie! E in cambio della verginità che vi portai e che non posso
più riprendere, compiacetevi di lasciarmi almeno la camicia che ho indosso, almeno da coprire il grembo di
chi prima era vostra moglie. Ed ora, signor mio, vado, perché temo di disturbarvi...».
«La camicia che hai indosso tienila pure» fece lui «e portatela via...» E subito s'allontanò, perché la pietà e
la compassione gli impedivano quasi di parlare.
Lei dunque si spogliò di fronte a tutti e, in camicia e scalza e senza nulla in capo, s'incamminò verso la casa
di suo padre. La gente la seguiva piangendo per la strada e, camminando, imprecava contro il destino; lei,
invece, non diede una lacrima e non disse più neanche una parola.
Suo padre, che fu subito avvertito, si mise a maledire il giorno e l'ora in cui Natura l'aveva messo al mondo!
Il povero vecchio, infatti, aveva sempre sospettato di quel matrimonio; sempre aveva pensato, fin
dall'inizio, che quando il marchese si fosse tolto il suo capriccio, si sarebbe reso conto d'aver offeso il
proprio decoro ad abbassarsi tanto, e allora l'avrebbe subito cacciata via! Sentendo dal vocìo della gente
che ormai sua figlia stava arrivando, le corse incontro e, piangendo amaramente, cercò di coprirla alla
meglio con la sua antica veste; ma non riuscì a fargliela indossare: la stoffa era troppo mal ridotta per il
tempo ormai trascorso dai giorni del matrimonio.
Così quel fiore di pazienza coniugale tornò a vivere per qualche tempo col padre suo, senza mai mostrare
nelle sue parole o nel suo sguardo, sia che vi fosse o non vi fosse gente, un qualche cenno d'offesa: a
giudicare dal suo contegno, pareva che neppure più ricordasse il suo alto stato. E non c'è da farsene
meraviglia, perché, anche nella grandezza, lei sempre era rimasta umilissima: niente bocca schizzinosa o
cuore delicato, niente fasto o sussiego da sovrana... ma piena di paziente bontà, discreta e priva d'orgoglio,
rispettosissima, era sempre rimasta fedele e sottomessa a suo marito. Si parla tanto di Giobbe e della sua
pazienza... ma questo lo fanno soprattutto i chierici, che non sanno dir bene d'altro che di uomini. In realtà,
per quanto i chierici ben poche volte lodino le donne, non c'è uomo che riesca a superare in umiltà una
donna o che sia soltanto per metà fedele come lei (a meno che non sia accaduto proprio di recente...).
[PARTE SESTA].
Da Bologna stava ormai per giungere il conte di Panago, e la notizia s'era sparsa dappertutto; era anche
giunto alle orecchie della gente che lui portava con sé una nuova marchesa, con un fasto e una pompa tali,
quali nessun occhio d'uomo aveva mai visto in tutta la Lombardia occidentale.
Prima che il conte arrivasse, il marchese, che, avendo preparato tutto, era al corrente d'ogni cosa, mandò a
chiamare quella povera infelice di Griselda. E lei, accorsa subito al suo comando, con umile cuore e volto
sereno, senz'alcun rancore nel suo animo, gli s'inginocchiò davanti salutandolo cortesemente e con
riverenza.
«Griselda,» le disse lui «voglio assolutamente che questa ragazza che devo sposare sia ricevuta domani in
casa mia nel modo più splendido possibile, e che ognuno abbia il suo posto secondo il suo rango e sia
trattato e servito con tutti gli onori che gli convengono; tu sai che non ho donne capaci di mettere in ordine
le stanze a modo mio, e perciò vorrei che tu ti prendessi quest'incarico. Tu ormai conosci quello che voglio
e, sebbene il tuo abbigliamento sia povero e malandato, il tuo dovere almeno lo sai fare.»
«Non soltanto, signore,» disse lei «son lieta di farvi piacere, ma desidero servirvi per mio stesso
gradimento, in tutto e per sempre. Sia nella gioia che nel dolore, finché nel mio cuore avrò vita, non cesserò
d'amarvi con tutto il mio affetto più sincero!»
Ciò detto, si mise a preparare la cena, ad apparecchiare le tavole e a fare i letti... cercò, insomma, di far
tutto quel che poteva, raccomandando ai servi che, per amor di Dio, si sbrigassero a scopare e a spolverare;
mentre lei, la più operosa, mise in ordine ogni stanza e la sala.
Il mattino dopo arrivò a cavallo il conte coi due nobili ragazzi, e tutti corsero ad ammirare il ricco e
splendido corteo, e allora incominciarono a dire fra loro che Gualtieri era stato tutt'altro che sciocco a voler
cambiare moglie, giacché questa era assai migliore: intanto era più bella di Griselda, e poi più giovane, e gli
avrebbe dato perciò una migliore discendenza, più adatta al suo casato. Anche il fratello aveva il volto così
bello, che tutti lo guardavano con piacere, approvando in pieno la decisione del marchese.
«O popolo turbinoso! incostante e sempre infido, sempre scontento e volubile come una banderuola, ti
diletti d'ogni rumore che sia nuovo, e cresci e cali continuamente come la luna! Sei sempre largo d'applausi
che non valgono un soldo genovese! (4) Il tuo giudizio è falso, la tua costanza non regge mai alla prova...
gran balordo è chi di te si fida!» Così diceva in quella città la gente seria, mentre il popolo correva di qua e
di là a guardare esultando per la semplice novità d'avere un'altra sovrana nel paese. Ma lasciamo andare...
torniamo piuttosto a Griselda, e a parlare della sua costanza e operosità.
Griselda, dunque, era tutta affaccendata ad apparecchiare ogni cosa per la festa. Senza vergognarsi affatto
delle sue povere vesti, qua e là anche stracciate, corse con gli altri al cancello a salutare festosa la
marchesa, e poi se ne tornò alle sue faccende. E ricevette gli ospiti così cortesemente e con tale
competenza (ciascuno secondo il suo grado, in modo da non scontentare nessuno), che tutti si chiedevano
chi mai potesse essere una che, vestita così poveramente, s'intendeva tanto di onori e riverenze, e
giustamente ne lodarono la discrezione. Lei intanto non cessava d'ossequiare la sposa e il fratello, con tutto
il cuore e in perfetta buona fede, celebrandone le lodi come nessun altro.
Alla fine, proprio mentre tutti i nobili stavano per sedersi a tavola, il marchese chiamò Griselda che stava
affaccendandosi per la sala: «Griselda,» le disse in tono quasi di beffa «che ne pensi di mia moglie e della
sua bellezza?».
«Un gran bene, signor mio,» lei rispose «perché, in fede mia, un'altra non ho mai visto più bella di lei. Prego
Iddio di renderla felice, e spero voglia mandarvi tanta gioia da bastarvi fino al termine dei vostri giorni. Una
cosa soltanto vorrei chiedervi e consigliarvi: di non infliggere tormenti a questa tenera fanciulla, come
avete fatto con altri... perché lei è abituata per educazione a una maggiore delicatezza e non potrebbe,
secondo me, sopportare le avversità come una allevata nella miseria.»
Vedendo che nella sua pazienza, nel suo volto sereno, non c'era ombra di malizia e che, pur avendo
ricevuto tante offese, lei era sempre salda e ferma come una rocca e perseverante nella sua innocenza,
l'ostinato marchese Gualtieri si sentì il cuore mosso a compassione da tanta intrepidezza in una donna.
«Ora basta, mia Griselda,» le disse «basta con le apprensioni e i maltrattamenti. Ho avuto prova in te d'una
fedeltà e d'una benevolenza superiori a quelle di qualsiasi donna, sia nell'agiatezza che in misere condizioni.
Ormai conosco, mia cara moglie, la tua costanza.» E stringendola fra le braccia, la baciò.
Lei, per lo stupore, non comprese, non sentì neanche quel che lui le diceva, sembrandole di destarsi
improvvisamente da un lungo sonno... Ma poi, a poco a poco, incominciò a riprendersi dallo sbalordimento.
«Griselda,» le disse «per quel Dio che morì per noi, sei tu mia moglie. Io non ho e non ho mai avuto
un'altra, te lo giuro sulla mia anima! Questa che tu credi la mia sposa è tua figlia; e questo sarà il mio crede,
come da sempre avevo disposto: l'una e l'altro son nati dal tuo grembo, ed io li ho tenuti nascosti a
Bologna. Riprendili: ora non potrai più dire d'aver perduto i tuoi due bambini!... Sappia la gente, che
sparlava di me, che non ho fatto questo per malizia, e neppure per crudeltà, ma per mettere in te alla prova
la tua virtù; non ho ucciso i miei figli (Dio me ne liberi!), ma li ho tenuti nascosti, per poter veramente
conoscere il tuo carattere e la tua volontà.»
Sentendo questo, lei cadde svenuta per la gioia e la commozione, e appena rinvenne chiamò a sé i suoi due
figlioli e, piangendo da far compassione, se li strinse fra le braccia e li baciò con tutta la sua tenerezza di
madre e ne bagnò d'amare lacrime il volto e i capelli... Oh, scena pietosa, vederla svenire e udire poi la sua
voce sommessa! «Grazie, signor mio, Dio ve ne renda merito,» diceva «per avermi lasciato i miei cari
figlioli! Ormai non m'importerebbe di morire qui subito... ora che ho il vostro amore e la vostra grazia, non
ho paura della morte e sono pronta a rendere l'anima mia. Oh, teneri, cari, piccoli figli miei! La vostra
infelice madre vi credeva ormai divorati da cani rabbiosi o da orribili vermi; ma Dio, nella sua misericordia,
e il vostro buon padre, vi hanno teneramente protetti!» E così dicendo, cadde di nuovo svenuta. E
abbracciando nel deliquio i suoi due figli, tanto li strinse, che soltanto a fatica e con pazienza si poté toglierli
dalle sue braccia.
Col volto intenerito, rigato di lacrime, quanti le stavano intorno dovettero proprio farsi forza per poterle
rimaner vicino... Allora la consolò Gualtieri, scuotendola dal suo dolore: lei si alzò, confusa, dal suo
stordimento, e tutti cercarono di farle animo e festeggiarla, finché non tornò in sé completamente. E dopo
le affettuose attenzioni di Gualtieri, fu un piacere veder ricomparire la gioia fra quei due che erano ritornati
insieme!
Le dame, cogliendo l'opportunità del momento, la presero e la condussero in camera; la spogliarono dei
suoi poveri panni e, con una veste rifulgente d'oro e una corona di pietre preziose in capo, la condussero
nel salone, dove ricevette i dovuti onori.
Così quel triste giorno ebbe lieta fine, e tutti, uomini e donne, fecero del loro meglio per passare il tempo in
gioia e allegrezza, finché in cielo non brillarono le stelle... fu quella, agli occhi di tutti, una festa ben più
solenne e splendida di quanto non lo fosse stata la celebrazione delle nozze.
I due vissero per moltissimi anni in prosperità, pace e concordia; egli maritò solennemente la figlia a uno
dei più nobili signori d'Italia, e poi prese con sé a corte il padre di sua moglie, a trascorrere in tranquillità e
pace il resto dei suoi anni.
E in pace e tranquillità a Gualtieri poi successe il figlio, e fu anch'egli fortunato nel suo matrimonio, pur
senza dover sottomettere la moglie a tante prove...
Oggi il mondo, bisogna ammetterlo, non è più quello d'una volta, e a tale proposito dovreste sentire quanto
dice il poeta (5)... Non è che si racconti questa storia perché le mogli imitino l'umiltà di Griselda (ché
intanto, pur con tutta la buona volontà, non vi riuscirebbero), ma perché tutti, a seconda del grado,
imparino da Griselda a esser forti nella sventura. Ecco perché il Petrarca ha scritto questa storia, e lo ha
fatto usando uno stile solenne. Se riuscì una donna ad essere tanto paziente con un comune mortale, tanto
più dovremmo noi saper accettare di buon grado quel che ci manda Dio, che ha tutte le ragioni per mettere
alla prova le sue creature. Non è che egli tenti l'uomo che ha redento (lo dice San Giacomo, leggete la sua
"Epistola"), ma certamente ogni giorno lo mette alla prova... Egli ci affligge coi più aspri flagelli per
esercitarci alla pazienza e per renderci, in qualche modo, migliori; non lo fa di sicuro per conoscere il nostro
volere, perché sa già quanto siamo fragili prima ancora che nasciamo, ma tutto compie per il nostro bene.
Viviamo dunque in virtù e rassegnazione!
Ma ancora una parola, signori, poi ho finito. Sarebbe al giorno d'oggi assai difficile trovare, pur girando una
città intera, due o tre donne come Griselda, perché l'oro di cui queste son fatte è di così cattiva lega, che,
sebbene la moneta sembri bella a prima vista, messa alla prova, si spezzerebbe piuttosto che piegarsi... Se
dunque è così, permettete almeno che in onore della Comare di Bath (Dio la mantenga sempre al comando
con tutte quelle della sua risma, che altrimenti sarebbe una rovina!), io vi reciti, fresca e allegra, una
canzone che forse vi metterà di buon umore. Lasciamo stare le cose tristi, e ascoltate la mia canzone che fa:
LENVOY DE CHAUCER.
Griselda è morta con la sua pazienza,
entrambe in Italia giaccion sepolte;
lo dico a tutti, datemi udienza,
come Griselda non esiston molte,
e pur tralasci ogni sua speranza
chi vuole una moglie d'ugual costanza.
O nobili mogli, siate prudenti,
d'umiltà la lingua non v'inchiodate,
non dimostratevi troppo pazienti,
se no... una favola poi diventate!
Come Griselda non fate la sciocca,
o a Chichevache (6) finirete in bocca!
Seguite Eco che mai non si tace,
ma punto per punto sempre risponde.
Non siate vittime pur di far pace,
ma rimanete su in cresta alle onde.
Imparate a mente questa lezione,
potrebbe servirvi all'occasione!
Voi arcimogli, restate in difesa,
giacché siete forti come cammelli,
e da nessun uomo tollerate offesa!
E voi che deboli siete nei duelli,
qual tigri d'India mostrate i denti
e pur strepitate ai quattro venti!
Di tuo marito non aver rispetto,
pur se sia chiuso nell'armatura;
scaglia le frecce del tuo dispetto,
straziagli il cuore con la tortura;
di gelosia intreccia una maglia,
fallo star quieto come una quaglia!
Se poi sei bella, fatti guardare,
mostra il tuo viso e i vezzi tuoi;
se brutta sei, non ti crucciare,
e fatti amicizie quante più puoi.
Leggera sii come una foglia,
e che tuo marito crepi di doglia!
Ecco le soddisfatte parole dell'Oste.
Appena il bravo Studente finì il suo racconto, il nostro Oste bestemmiò e disse: «Per le ossa di Dio, darci un
barile di birra pur di far sentire questa storia anche a mia moglie a casa! E' proprio un bel racconto; se
sapeste, farebbe davvero al caso mio... Ma lasciamo perdere, non è cosa che si possa fare».
Qui termina il Racconto dello Studente di Oxford.
Note del "Racconto dello studente".
Nota 1. Il Petrarca effettivamente trascorse gli ultimi anni a Padova, e più spesso ad Arquà, sui Colli
Euganei, dove morì il 18 luglio 1374. Secondo alcuni critici le parole del Chierico avrebbero implicazioni
autobiografiche e il Chaucer avrebbe realmente incontrato il Petrarca in Italia nel 1372, ma secondo studi
più aggiornati il famoso incontro non sarebbe mai avvenuto.
Nota 2. Giovanni da Legnano, un tempo famoso, fu professore di diritto canonico all'Università di Bologna
dal 1363 al 1383, anno in cui morì.
(*). Si ritiene comunemente, secondo anche quanto è esplicitamente affermato nel Prologo, che la fonte
del "Racconto dello Studente" sia la versione latina data dal Petrarca, sotto il titolo di "De Obedientia ac
Fide Uxoria Mythologia ("Seniles", XVII, 3), dell'ultima novella del "Decamerone". Chi infatti conosce fa
novella del Boccaccio e la versione latina fattane dal Petrarca non coglie che pochi tratti di differenza nella
composizione chauceriana. La quale si fa generalmente risalire al periodo immediatamente successivo al
primo viaggio del Chaucer in Italia (intorno al 1373).
Nota 3. Località non bene identificata.
Nota 4. Nel testo, «"jane"», moneta genovese di scarso valore.
Nota 5. Il Petrarca.
Nota 6. Mostro leggendario che si nutriva solo di mogli pazienti e che perciò era sempre magro e affamato.
Nelle favole francesi veniva spesso messo a contrasto con Bicorne che era invece sempre grasso, poiché si
nutriva di mariti pazienti, assai più numerosi.
Prologo
DEL MERCANTE.
Prologo al Racconto del Mercante.
«Di lagni e piagnistei, preoccupazioni e guai, ne so abbastanza, sera e mattina» fece il Mercante «e questo
vale per molti altri che sono ammogliati. Almeno così credo, perché vedo quel che succede a me. Io però ho
la peggior moglie che possa esistere: se anche il diavolo si mettesse con lei, ci scommetto che lo
batterebbe. Ma a che serve starvi a raccontare quanto sia malvagia? E' una megera e basta!... Che abisso
fra la gran pazienza di Griselda e la perfidia massima di mia moglie! Se riuscissi a liberarmene, accidenti,
non ci cascherei più dentro la trappola! Noialtri sposati facciamo una vita di patimenti e dispiaceri: provi chi
ne ha voglia e, per San Tommaso d'India, vedrà che ho ragione... se non proprio in tutto, almeno in gran
parte. Dio volesse che non fosse così!... Ah, mio caro Oste, sono ammogliato da appena due mesi, perdio;
eppure, ci scommetto, uno che in vita sua non abbia preso moglie, quand'anche gli infilzassero il cuore, non
potrebbe assolutamente descrivere un tormento pari a quello che potrei descrivere io a proposito di quella
maledizione che è mia moglie!»
«Ebbene, Mercante,» disse il nostro Oste «Dio vi benedica, giacché v'intendete tanto di quell'arcano,
rivelateci qualcosa anche a noi, ve lo chiedo di tutto cuore!»
«Volentieri» disse l'altro «ma non vi parlerò proprio dei miei guai direttamente, per non farmi venire mal di
cuore...»
RACCONTO DEL MERCANTE (*).
Qui comincia il Racconto del Mercante.
C'era una volta in Lombardia un nobile cavaliere, che era nato a Pavia, dove ora viveva in gran prosperità.
Fino a sessant'anni era rimasto senza moglie, dandosi ai piaceri del corpo e alle donne secondo il suo
appetito, come fanno questi pazzi che sono uomini di mondo. Ma, compiuti i sessant'anni, non so se fosse
per contrizione o per rimbambimento, a questo cavaliere venne una tal smania di prender moglie, che
giorno e notte non faceva che guardarsi intorno in cerca d'una ragazza da marito, pregando nostro Signore
che gli concedesse di poter provare finalmente le gioie della vita che si conduce fra marito e moglie, e di
vivere nel sacro vincolo col quale Iddio unì la prima volta l'uomo alla donna. «Se no» diceva lui «non c'è vita
che valga una lava. Il matrimonio, semplice e puro com'è, a questo mondo è come un paradiso.» Così
diceva quel vecchio cavaliere, che di buon senso ne aveva tanto...
E certo, quant'è vero che Dio è nostro re, prender moglie è una gran cosa, specialmente quando l'uomo è
vecchio e stagionato, perché allora una moglie è appunto il frutto di tutti i suoi risparmi. E' allora che
bisogna prendersi una moglie bella e giovane, con la quale mettere al mondo un erede e spassarsela in
gioia e allegria, mentre gli scapoli non fanno che gridare "ahimè" ogni volta che incontrano qualche
intoppo, in amori che sono soltanto giochi da bambini. Ed è naturale che sia così, che gli scapoli abbiano
sempre fastidi e guai: fabbricano su un terreno franoso, e poi trovano frane dove si aspettano invece
solidità. Vivono come gli uccelli o come le bestie, in libertà e senza nessun impegno, mentre un uomo
ammogliato, per sua condizione, conduce una vita santa e regolata, legato al giogo del matrimonio: ecco
perché ha sempre il cuore che gli trabocca di felicità e di gioia... Chi, infatti, sa stargli sottomesso come una
moglie? Chi gli è fedele e si preoccupa di curarlo, malato o sano che sia, quanto la sua compagna? Sia nel
bene che nel male, lei non lo abbandona mai; lei non si stanca mai d'amarlo e di servirlo, neanche se lui
dovesse rimanere a letto fino alla morte. Eppure certi sapientoni dicono che non è vero: uno di questi è
Teofrasto. (1) Ma che importa se a Teofrasto piace raccontar balle? «Non prender moglie» dice «farai
economia, risparmierai nelle spese di casa: un servo onesto si curerà dei tuoi beni meglio d'una moglie, la
quale per tutta la vita pretende sempre di fare a metà. Se poi, Dio non voglia, ti dovessi ammalare, i tuoi
stessi amici o un fedele domestico ti curerebbero meglio di lei, che non aspetta altro tutto il giorno che
d'impadronirsi dei tuoi averi. Portati in casa una moglie, e lei con ogni probabilità ti farà cornuto!» Ecco che
roba scrive quell'uomo (Dio ne disperda le ossa!), senza contare cento altre cose peggiori. Ma non fate caso
a tutte queste fandonie: lasciate perdere Teofrasto e date retta a me. Una moglie è veramente un bene
mandato da Dio: tutti gli altri beni di questo mondo, come terre, rendite, pascoli, consorzi e denari, sono
tutti doni della fortuna, che passano come un'ombra sul muro. Ma con una moglie non c'è da aver paura,
perché lei si conserva a lungo, anzi, a dir proprio le cose come stanno, a volte ti resta in casa più a lungo di
quanto non vorresti... Ah, gran sacramento è il matrimonio! Chi non ha moglie, secondo me, è un
disgraziato: è uno che vive senza nessun aiuto e abbandonato da tutti. Parlo, s'intende, di chi rimane laico.
E poi, sentite, non per nulla si dice che la donna fu fatta per essere d'aiuto all'uomo: il buon Dio, dopo aver
creato Adamo, vedendolo tutto solo, a ventre scoperto, disse nella sua infinita bontà: «Diamogli un aiuto, a
quest'uomo, che gli sia convenevole». E gli creò Eva. Il che vuol far vedere e dimostrare che la donna è
l'aiuto e il conforto dell'uomo, suo paradiso terrestre e suo passatempo: lei è così virtuosa e remissiva, che
sembrano tutti e due fatti apposta per vivere uniti. Sono una sola carne, e una sola carne, a quel che ne so
io, non ha che un solo cuore, sia nella buona che nella cattiva sorte. Una moglie! Ah, Maria Santa,
"benedicite"!... Come può un uomo che abbia una moglie essere esposto all'avversità? Non lo saprei
davvero dire. La felicità che c'è fra loro due, non c'è lingua che sappia esprimerla, né mente che sappia
immaginarla. Se lui è povero, lei lo aiuta nel lavoro; lei tiene tutto di conto e non sperpera mai nulla, ogni
desiderio del marito è anche suo; lei non dice mai "no" quando lui dice "sì", «Fa' questo», dice lui... «Subito,
signor mio», dice lei. O beato e prezioso vincolo del matrimonio, tu sei così, pieno di gioia e di virtù, così
encomiabile e meritorio, che qualsiasi uomo che valga almeno un porro dovrebbe, per terra in ginocchio
tutta la vita, ringraziare Iddio d'avergli mandato una moglie, o altrimenti pregare Iddio di mandargliene una
che gli campi fino al termine dei suoi giorni. Perché allora la sua vita è al sicuro: nessuno lo può ingannare,
ve lo garantisco io, purché segua i consigli di sua moglie; allora lui può andarsene fiducioso a testa alta,
perché le donne sono fedeli e nello stesso tempo sagge. E se anche tu da saggio vuoi comportarti, fa'
sempre come loro ti consigliano. Ecco, pensa un po' a Giacobbe che, secondo quanto insegnano i sapienti,
seguendo il buon consiglio di sua madre Rebecca, si avvolse intorno al collo la pelle di capretto e si
conquistò così la benedizione di suo padre. Pensa a Giuditta, della quale parla anche la storia, che col suo
buon senso salvò il popolo di Dio e uccise nel sonno Oloferne. Pensa ad Abigail, che col suo buon consiglio
salvò suo marito Nabal, che correva il rischio d'essere ucciso. E guarda, anche Ester liberò dalla sofferenza il
popolo di Dio col suo buon consiglio e fece in modo che Mardocheo ricevesse gli onori di Assuero. Non c'è
cosa di grado superlativo, dice Seneca, che superi una buona moglie. Sopporta la lingua di tua moglie,
ordina Catone: lei deve comandare e tu devi aver pazienza, ma poi vedrai che anche lei avrà la cortesia di
ubbidirti. E' la moglie che si cura della sua economia: ha ben ragione l'ammalato a piangere e lamentarsi, se
non ha una moglie che gli mandi avanti la casa. Se tu dunque da saggio vuoi comportarti (ti do questo
consiglio), ama tua moglie come Cristo amò la sua Chiesa. Se tu ami te stesso, devi amare tua moglie;
nessuno al mondo odia la propria carne, ma anzi se ne cura tutta la vita, e perciò ti dico: cerca di voler bene
a tua moglie, altrimenti non vorrai bene neppure a te stesso. Marito e moglie, per quanto si rida e si
scherzi, seguono fra tutta la gente di questo mondo la via giusta: sono così uniti, che nessun male potrà mai
coglierli, e meno che mai per colpa della moglie...
Così questo Gennaro, di cui vi parlavo, andava considerando, nei giorni della sua vecchiaia, la bella vita e
l'onesta quiete che son riposte nel dolce miele del matrimonio. E un giorno mandò a chiamare i suoi amici
per informarli a quale effetto aveva portato le sue conclusioni.
Con volto serio tenne loro questo discorso. Disse: «Amici, ho i capelli bianchi e sono vecchio, e Dio sa che
sono quasi sull'orlo della fossa: devo dunque un po' pensare alla mia anima. Finora ho soltanto abusato
pazzamente del mio corpo, e sia dunque benedetto il Cielo se potrò farne ammenda! Ecco, ho deciso
d'ammogliarmi, e subito, quanto più presto sia possibile. Vi prego, aiutatemi a cercare una ragazza che sia
giovane e bella, ma in fretta, perché non voglio perdere più tempo; intanto anch'io, per parte mia, cercherò
di trovare con chi possa alla svelta ammogliarmi. Però, siccome voi siete più di me, è probabile che siate voi
a trovar prima quella che farebbe meglio al caso mio. Ma vi avverto di una cosa, miei cari amici: una moglie
vecchia io non la voglio per nessuna ragione. Non deve assolutamente avere più di vent'anni: a me il pesce
piace vecchio, ma la carne giovane; un bel luccio stagionato è sempre meglio d'un luccetto, ma la vitella
tenera vale più del manzo vecchio. Una donna di trent'anni non la voglio già più: è tutta stoppia di fagiolo e
strame. E anche certe mature vedovelle, Dio sa quante ne hanno imparate sulla barca di Wade (2)... e sono
così fastidiose quando ci si mettono, che con una di loro non avrei mai un momento di pace. Molta scuola
forma dei valenti dotti, ma una donna di molta scuola è una mezzatacca: invece, finché una è giovane, la si
può instradare, plasmare come cera calda fra le mani. Perciò, insomma, ve lo dico francamente: moglie
vecchia non è affar mio! Se infatti avessi questa disgrazia, non trovando in lei nessun piacere, finirei per
vivere in adulterio e, dopo morto, andrei dritto al diavolo. Figli da lei non ne potrei avere: e allora preferirei
darmi in pasto ai cani, piuttosto che veder cadere la mia eredità in mano d'estranei, ve lo dico io. Non sono
rimbambito, so per quali motivi un uomo si deve sposare e so anche che molti parlano di matrimonio senza
comprendere, neanche più d'un mio garzone, le ragioni per cui un uomo ha da prender moglie. Se uno non
può vivere casto tutta la vita, prenda devotamente moglie, per legittima procreazione di figli, a maggior
gloria di Dio che è in cielo, e non soltanto per passione o per amore; e per sfuggire alla lussuria, paghi il suo
debito quando va dovuto; nella disgrazia, poi, ciascuno aiuti l'altro, come fanno un fratello e una sorella,
vivendo santamente in perfetta castità... Ma, signori miei, se permettete, io non sono uno di questi. Perché,
grazie a Dio, posso dirlo forte, mi sento le membra vigorose e in grado di fare tutto quello che un uomo
deve fare: conosco le mie possibilità. Sebbene abbia i capelli bianchi, mi sento come un albero in fiore poco
prima che spunti il frutto; e un albero in fiore non è né secco né morto. Non mi sento bianco che nei capelli:
il mio cuore e tutte le mie membra sono come l'alloro che rimane verde per tutto l'anno. Ed ora che avete
sentito le mie intenzioni, vi prego d'esaudire il mio desiderio».
Ciascuno gli disse la sua, citando antichi esempi di matrimonio. C'era chi lo disapprovava e chi naturalmente
lo elogiava; ma alla fine, per farla corta, come sempre va a finire nelle discussioni fra amici, s'accese una
disputa tra i suoi due fratelli, di cui uno si chiamava Placebo e l'altro Giustino.
Placebo disse: «Fratello Gennaro, non occorreva certo che tu, mio signore amatissimo, chiedessi consiglio
ad alcuno dei presenti: ma tu sei così pieno di saggezza, che non vuoi, per tua somma prudenza,
allontanarti dalla parola di Salomone, il quale rivolse a noi tutti questo ammonimento: 'Consigliati in ogni
cosa, e non te ne pentirai'. Ma, caro mio fratello e signor mio, anche se questa è la parola di Salomone, io
ritengo (e Dio conceda pace all'anima mia!) che la miglior cosa sia consigliarti con te stesso. Ed eccotene,
fratello mio, il motivo: in vita mia sono sempre stato uomo di corte, e Dio sa che, per quanto
indegnamente, ho occupato alte cariche presso signori di nobilissima condizione, senza tuttavia mettermi
mai contro di loro. Non l'ho mai fatto, perché sono veramente convinto che un signore ne sappia sempre
più di me: quello che dice lui, per me è inoppugnabile e definitivo; a me non resta che dire lo stesso o
qualcosa di simile. Gran balordo è il consigliere che, trovandosi al servizio d'un signore d'alto grado, osi
credere, o soltanto pensare, che il proprio consiglio possa superare il buon senso del suo padrone! No, in
fede mia, i signori non sono stupidi. Tu stesso hai qui oggi dimostrato sentimenti così elevati, e li hai
espressi con parole così belle e sante, che io approvo e confermo pienamente ogni tuo detto e l'opinione
tua. Nessuno, perdio, in questa città o in tutta l'Italia, avrebbe saputo parlar meglio! Cristo stesso può
essere soddisfatto della tua decisione, perché veramente, uno che sia avanti con gli anni e tuttavia prenda
una moglie giovane, dimostra un bel coraggio... Per la stirpe di nostro padre, sei proprio un uomo in gamba!
Fa' dunque in questa faccenda come meglio credi, perché alla fine penso che sia la miglior cosa».
Giustino, che si era messo zitto ad ascoltare, così replicò a Placebo: «Adesso, fratello mio, abbi pazienza, ti
prego: ora che tu hai parlato, ascolta quello che dico io... Seneca, fra le altre sue sagge parole, dice che
bisognerebbe stare molto attenti a chi si affidano le proprie terre e i propri averi. Ora, se bisogna stare
attenti a chi si dànno le proprie sostanze, a maggior ragione bisogna badare a chi per sempre si dà il proprio
corpo. Io ti avverto, non è un gioco da ragazzi prender moglie senza pensarci. Secondo me, bisogna vedere
se lei abbia buon senso, se sia sobria o ubriacona, insolente oppure bisbetica, pettegola o spendacciona, se
sia ricca o povera, o se si tratti d'una furiosa virago... E' vero che a questo mondo non si può trovare
nessuno, né uomo né animale, che vada bene in tutto e per tutto come si vorrebbe; ma per una moglie
basterebbe almeno che avesse più buone qualità che brutti vizi; e per verificare tutto questo ci vuole
tempo. Dio solo sa quante lacrime ho pianto di nascosto, da quando ho preso moglie! Lodi pure chi vuole la
vita dell'uomo sposato: in realtà io non ci trovo che dispendio, preoccupazioni e impegni, senza nessun
piacere. Eppure, Dio sa perché, i miei vicini nei dintorni e soprattutto le donne, a schiere, dicono che ho la
moglie più retta e più mite che ci sia; ma so io dove la scarpa mi fa male. Per me, tu puoi fare come ti pare;
stai attento, però (ormai sei un uomo d'una certa età), al modo come entri nel matrimonio, soprattutto con
una moglie giovane e bella... Per Colui che creò acqua e terra e aria, anche il più giovane di tutta questa
compagnia ha il suo da fare a tenersi una moglie soltanto per sé. Credimi, non riuscirai ad accontentarla in
tutto nemmeno per tre anni, intendo a darle completo piacere. Una moglie esige moltissimi doveri. Non ti
offendere se te lo dico...».
«Bene» disse Gennaro «hai finito di parlare? Alla malora il tuo Seneca e i tuoi proverbi! Per me le frasi dotte
non valgono che un paniere pieno d'erba. Persone che hanno più buon senso di te, come hai sentito, hanno
approvato proprio ora la mia decisione. Che ne dici, Placebo?»
«Io dico» rispose «che chi si mette contro il matrimonio sarà dannato sicuramente!» E a queste parole, tutti
subito si alzarono, pienamente d'accordo che uno debba sposarsi quando gli pare e con chi vuole.
Di giorno in giorno, intanto, l'animo di Gennaro s'abbandonava ai sogni ed era in continua agitazione per il
matrimonio. Ogni notte gli passavano attraverso il cuore bellissime forme e visi graziosi: era come se uno
prendesse uno specchio bello lucido e lo mettesse in mezzo al pubblico mercato, guardando in questo suo
specchio sfilare una folla di persone; così Gennaro passava in rassegna col pensiero tutte le ragazze del
vicinato. Ma non sapeva su quale fermarsi. Se questa era bella di viso, quella era così ben vista per la sua
serietà e la sua virtù, che tutti la tenevano in considerazione; altre erano ricche, ma avevano cattiva fama.
Ad ogni modo, un po' sul serio e un po' per gioco, si decise finalmente su una e, scacciando dal cuore tutte
le altre, la prescelse d'impulso, perché l'amore è sempre cieco e non ci vede. E così, standosene a letto, se
la figurava, nel cuore e nel pensiero, con la sua fresca bellezza, la sua tenera età, il suo vitino snello, le sue
braccia lunghe e flessuose, il suo pacato modo di fare, la sua gentilezza, la grazia femminile del portamento
e la sua serietà. E una volta che si fu deciso su di lei, gli parve che la sua scelta non potesse essere migliore.
Perché, giunto a quella conclusione, gli sembrava che l'intuito di chiunque altro fosse così illusorio da non
poter contestare la sua scelta: questa almeno era la sua idea. Mandò subito a chiamare i suoi amici,
pregandoli di fargli il piacere di recarsi in fretta da lui, perché finalmente avrebbe tolto loro ogni incomodo.
Non c'era più bisogno che corressero per lui a piedi e a cavallo: ormai aveva trovato dove fermarsi.
Placebo e i suoi amici vennero subito, ed egli, prima d'ogni altra cosa, chiese a tutti un favore, di non
mettersi a discutere la decisione che aveva preso, perché, secondo lui era una decisione gradita a Dio e di
sicuro fondamento per la sua felicità.
Viveva nella loro città, disse, una ragazza che aveva gran fama di bellezza, pur essendo di modeste
condizioni; ma a lui gioventù e bellezza sarebbero bastate. Era questa la ragazza, disse, che avrebbe voluto
in moglie per trascorrere in santità e pace il resto della propria vita; grazie a Dio, sarebbe stato in grado di
tenersela tutta per sé, senza che nessuno dovesse dividere con lui la sua felicità... Li pregò dunque
d'occuparsi dell'affare, facendo in modo ch'egli potesse sbrigarsi in fretta, ora che finalmente, secondo lui,
il suo animo avrebbe trovato pace.
«Nulla allora potrà più farmi dispiacere...» disse «se non che mi viene proprio ora alla coscienza un
dubbio... Ecco, da anni sento dire che nessuno può essere completamente felice due volte, cioè una volta
su questa terra e una volta in cielo. Per quanto uno si tenga lontano dai sette peccati e da ogni altra
ramificazione di quell'albero, nel matrimonio si gode tuttavia una felicità così perfetta, un così grande
piacere e appagamento, che, mettendomi a vivere ora alla mia età una vita così beata, così dolce, senza
contrasti o lotte, ho paura che il mio paradiso dovrei già averlo qui su questa terra... Se infatti il paradiso
vero va guadagnato a caro prezzo, a forza di tribolazioni e grande penitenza, come farò allora io, vivendo
nel piacere che tutti gli uomini sposati godono con le loro mogli, a raggiungere la beatitudine eterna in cui
vive Cristo? Ecco qual è la mia paura... Vi prego, voi due che siete miei fratelli, liberatemi da questa
incertezza.»
Giustino, che pur detestava questa sua pazzia, gli rispose subito col suo tono scherzoso e, per non farla
troppo lunga, questa volta non citò l'autorità di nessuno. Disse soltanto: «Signor mio, se non c'è altra
difficoltà che questa, vedrai che Dio col suo potere miracoloso e con la sua misericordia farà in modo che
tu, prima di ricevere l'unzione di Santa Chiesa, possa pentirti d'aver voluto godere lo stato matrimoniale,
nel quale secondo te non esistono contrasti e lotte. Guai se Dio non concedesse almeno la grazia del
pentimento più all'uomo sposato che non allo scapolo! Perciò, signor mio, il miglior consiglio ch'io possa
darti è questo: non disperarti, e ricordati che una moglie potrebbe essere anche il tuo... purgatorio!
Potrebbe, cioè, essere lo strumento di Dio e il suo flagello, e allora sì che la tua anima salirebbe al cielo più
rapida d'una freccia scoccata dall'arco! Confido in Dio che col tempo riconoscerai che nel matrimonio non
c'è, e non ci sarà mai, felicità tanto grande da impedirti la salvezza eterna: basta che tu appaghi, com'è
giusto e doveroso, i desideri di tua moglie con temperanza, senza compiacerla troppo amorosamente, e
tenendoti lontano dal peccato... Ecco tutto, tanti discorsi io non li so fare. Non temere dunque, fratello mio
caro... ma lasciamo perdere quest'argomento. Sul matrimonio, di cui tanto stiamo a discutere, ha già
ottimamente parlato la Comare di Bath, come avrai sentito, e senza tante parole (3). Stammi bene, dunque,
e che Dio ti abbia in gloria!».
Con queste parole Giustino e suo fratello si salutarono, e così fecero gli altri. Vedendo che ormai non c'era
altro da fare, si adoperarono tutti, per mezzo di sagge e accorte trattative, a far sì che la ragazza, la quale si
chiamava Maggiolina, sposasse Gennaro al più presto. Credo che sarebbe veramente troppo lungo parlarvi
di tutti gli atti e di tutti i documenti con cui i terreni vennero a lei intestati, o descrivervi il suo ricco corredo.
Ma arrivò finalmente il giorno che andarono insieme alla chiesa a ricevere il santo sacramento: si fece
avanti il prete con la stola al collo ed esortò la sposa a essere come Sara e Rebecca in saggezza e fedeltà
coniugale; disse come d'uso le sue orazioni e li segnò col segno della croce, pregando devotamente Iddio di
benedirli e di assicurar loro tutto il necessario.
Così diventarono solennemente marito e moglie, e durante il banchetto sedettero insieme alla tavola alta,
con altre importanti persone. Il palazzo era pieno di gioia e d'allegria, pieno di musiche, e il cibo era quanto
di più squisito ci fosse in tutta Italia; di fronte agli sposi gli strumenti suonavano così dolcemente, che né
Orfeo né il tebano Anfione (4) avrebbero mai potuto uguagliarli; s'alzavano ad ogni portata squilli mai uditi
dalla tromba di Joab, né da quella di Teodamante, che non suonò a Tebe con neppure metà di tanta forza
quando la città si trovò in pericolo (5)... Girando intorno, Bacco mesceva il vino; e Venere sorrideva a tutti,
ora che Gennaro era diventato suo cavaliere e aveva voluto dar prova del suo coraggio, oltre che nella
libertà, anche nel matrimonio: e con la fiaccola in mano, la dea danzava davanti alla sposa e ai convitati. Vi
posso assicurare che neanche Imeneo, il dio delle nozze, vide mai in vita sua uno sposo più felice. Taci tu,
poeta Marziano, (6) che pure ci hai descritto le solenni nozze di Filologia con Mercurio e i canti intonati
dalle Muse! La tua penna e la tua lingua sarebbero troppo mediocri per un matrimonio come questo:
quando la tenera giovinezza va sposa alla ricurva vecchiaia, non c'è gioia che si possa descrivere!... Provate,
e vedrete se a questo proposito dico o non dico il vero.
Maggiolina sedeva con un'aria così dolce, che a guardarla era un incanto: mai la regina Ester guardò re
Assuero con occhio così mite!... E' veramente impossibile descrivervi tutta la sua bellezza; posso soltanto
dirvi che somigliava a un luminoso mattino di maggio, colmo d'ogni bellezza e d'ogni grazia.
Gennaro andava in estasi ogni volta che ne guardava il viso; e in cuor suo si prometteva di stringersela fra le
braccia, quella notte, ben più forte di quanto Paride non avesse mai stretto Elena! Provava tuttavia una
gran pena al pensiero che quella notte avrebbe dovuto farle un po' male... e fra sé diceva: 'Ahimè, tenera
creatura, voglia il cielo che tu possa sostenere tutto il mio intenso e focoso ardore! Ho paura che proprio
non ce la farai... Ma Dio mi guardi dal mettere in moto tutta la mia potenza! Ah, volesse il cielo che fosse
già notte e che la notte durasse eterna! Vorrei che tutta questa gente se ne fosse già andata...'. E infatti,
pur salvando le apparenze, fece quanto poté per affrettar tutti via dal banchetto con sottili accorgimenti.
Venne così il momento in cui bisognò alzarsi. E allora tutti si misero a ballare, a bere abbondantemente e a
gettar confetti per tutta la casa. Tutti insomma erano pieni di gioia e d'allegria, eccetto uno scudiero, di
nome Damiano, il quale da parecchio tempo faceva da scalco presso il cavaliere: costui s'era così invaghito
di madonna Maggiolina, che per il dolore gli pareva d'impazzire; per poco non svenne e cadde lì dove si
trovava (tanto l'aveva scottato Venere con la fiaccola che danzando portava in mano!), ed egli se ne andò
subito a letto. Per ora non parliamone più; lasciamolo a piangere e a lamentarsi, finché la fresca Maggiolina
non avrà pietà delle sue pene...
O fuoco pericoloso, che divampa nella paglia del letto! O famiglio nemico, che vien meno al suo dovere! O
servo traditore, domestico falso, che come la vipera tradisce chi l'accoglie in seno, Dio ce ne liberi! O
Gennaro, ubriaco di felicità per le tue nozze, guarda come Damiano, il tuo scudiero e il tuo uomo di fiducia,
si propone di recarti offesa... Dio ti conceda d'accorgertene in tempo, perché a questo mondo non c'è
maggior sciagura che vedersi sempre davanti il nemico in casa propria!
Il sole aveva ormai percorso il suo arco giornaliero: il suo disco non poteva più rimanere al di sopra
dell'orizzonte, a quella latitudine; e la notte, col suo fosco e buio mantello, cominciava ad avvolgere,
tutt'intorno, l'emisfero. L'allegra compagnia perciò prese commiato da Gennaro, ringraziandolo per tutto;
ed ognuno, partendo briosamente a cavallo, se ne tornò a casa, a fare un po' quel che voleva e mettersi poi
a riposare...
Subito anche il focoso Gennaro volle andare a letto, senza più perdere tempo. Bevve ipocrasso, chiaretto e
vernaccia (7) con un infuso di droghe, per aumentarsi lo slancio; e prese molti dei più fini lattovari che quel
dannato monaco, messer Costantino, (8) ha descritto nel suo libro "De Coitu", mandando giù tutto senza
riluttanza. Poi disse ai suoi più intimi amici: «Ora, per amor di Dio, con buone maniere fate sgombrare al più
presto tutta la casa». Ed essi eseguirono a puntino il suo desiderio; bevvero ancora e poi subito tirarono le
tende. La sposa venne portata al talamo, muta come un sasso; e appena il prete ebbe benedetto il letto,
tutti uscirono dalla camera.
E Gennaro, stringendo finalmente fra le braccia la sua fresca Maggiolina, il suo paradiso, la sua consorte, se
la cullò baciandola ripetutamente, e con le fitte setole della sua ispida barba, simile al cuoio d'un pescecane
e pungente come un rovo (raso di fresco come era, secondo il costume), le si strofinò contro il tenero viso e
le disse: «Ahimè, ora debbo abusare di te, sposa mia, e farti un po' soffrire, prima che venga il momento di
calarmi... Però devi considerare questo: non c'è artigiano, per bravo che sia, il quale possa fare un lavoro in
fretta e bene! Il nostro, poi, va fatto con la più perfetta tranquillità. Non importa quanto c'impieghiamo; noi
due siamo ormai congiunti col santo matrimonio, e sia benedetto il giogo che portiamo, perché nei nostri
atti non possiamo ormai commettere peccato. Un uomo non può peccare con sua moglie, come non può
ferirsi col proprio coltello... noi abbiamo per legge il permesso di sollazzarci!».
E lavorò così fino allo spuntar dell'alba; si fece poi una zuppa di buon chiaretto, e si mise a sedere dritto sul
letto e a cantare a voce spiegata e chiara, baciando sua moglie e facendo il matto... Era tutto puledrino,
pieno di libidine e di chiacchiere come una gazza maculata; e mentre cantava strillando e gracchiando a
quel modo, la pelle gli ciondolava flaccida intorno al collo. Dio solo sa che cosa pensasse in cuor suo
Maggiolina, vedendolo sedere in camicia, con la cuffia da notte e il collo grinzoso! A lei certo non
importavano un fico tutte le sue buffonate... Alla fine lui disse: «Voglio riposarmi; ormai è giorno, non ce la
faccio più a rimanere sveglio...». E buttò giù la testa, dormendo fino al mattino inoltrato. Poi, quando gli
sembrò che fosse ora, Gennaro sì alzò. La fresca Maggiolina, invece, se ne rimase in camera per quattro
giorni, com'è ottimo costume d'ogni sposa... ogni fatica deve ben avere il suo riposo qualche volta,
altrimenti a lungo andare nessuno vi resisterebbe! E questo vale per ogni essere vivente, sia esso pesce o
uccello, animale o uomo...
Torniamo ora al dolente Damiano che, come avete ormai sentito, stava languendo d'amore, e al quale,
perciò, io parlo e dico in questo modo: «Ah, povero Damiano, rispondi, infelice, a questa mia domanda:
come farai a rivelare le tue pene alla fresca Maggiolina, che ora è la tua padrona? Lei ti risponderà sempre
di no; anzi, se parlerai, denuncerà la tua passione. Dio t'aiuti: è tutto ciò che di meglio posso augurarti!».
Il povero Damiano dunque era talmente preso dal fuoco di Venere, che di desiderio stava ormai per morire:
tanto valeva mettere a repentaglio la vita, in questo modo non poteva più continuare! Si fece perciò
portare una penna, e in una lettera alla bella e fresca dama Maggiolina descrisse, in forma di lamento o
"lai", (9) tutto il suo dolore; poi mise la lettera in un borsellino di seta appeso alla camicia e se la tenne ben
stretta vicino al cuore.
La luna, che a mezzogiorno quando Gennaro aveva sposato la fresca Maggiolina si trovava nel secondo
grado del Toro, era ormai entrata nel Cancro; e per tutto questo tempo Maggiolina era rimasta in camera
sua, secondo l'usanza di tutte le nobildonne. Una sposa non deve pranzare in sala finché non siano passati
almeno tre o quattro giorni; soltanto allora può andare a banchetto. Compiuto dunque il quarto giorno da
un mezzodì all'altro, al termine della messa grande, Gennaro finalmente poté sedersi in sala con
Maggiolina, rigogliosa come una splendida giornata estiva.
Improvvisamente il brav'uomo si ricordò di Damiano, e disse: «Maria Santa, come mai Damiano non è qui a
servirmi? E' ammalato, o che altro è successo?».
Gli scudieri che gli stavano ai lati scusarono il giovane, dicendo che non stava bene e che questo gl'impediva
d'accudire ai suoi doveri: nessun'altra ragione avrebbe mai potuto trattenerlo!
«Mi dispiace» fece Gennaro «perché veramente è un nobile scudiero! Se dovesse mancarmi, sarebbe una
disgrazia... E' saggio, discreto e fidato come pochi che conosco del suo grado; e poi è coraggioso,
servizievole e abilissimo a far economia. Dopo pranzo, appena potrò, andrò a trovarlo con Maggiolina, per
recargli tutto il conforto che mi sarà possibile.»
E tutti lo benedissero per quelle sue parole, per la bontà e la squisitezza di voler confortare nella malattia il
proprio scudiero: si trattava d'un atto veramente cortese.
«Madonna,» disse poi Gennaro «abbiate cura, dopo mangiato, appena vi sarete ritirata dalla sala da pranzo
in camera vostra, di radunare tutte le vostre donne e di andare con loro a trovare Damiano. Fategli animo...
è un gentiluomo; e ditegli che gli farò visita, appena mi sarò un po' riposato. Fate presto, perché v'aspetto a
dormire stretta al mio fianco.» Detto questo, chiamò lo scudiero che era maresciallo della sala e gli parlò di
certe cose che desiderava...
La fresca Maggiolina dunque si recò, con tutte le sue donne, da Damiano; e sedendosi sulla sponda del
letto, cercò di confortarlo meglio che poteva.
Damiano, atteso il momento buono, le mise in mano di nascosto il borsellino con la lettera nella quale
aveva dato sfogo alla sua passione, e senza muoversi, esalando solo un sospiro straordinariamente
profondo e doloroso, le disse a bassa voce queste parole: «Pietà! Non traditemi, perché se si viene a sapere
questa cosa sono morto!».
Lei si nascose il borsellino in seno e se ne andò; non vi aggiungo altro. Ritornò da Gennaro, adagiato
mollemente sulla sponda del letto, il quale la prese, la baciò e la ribaciò, e poi si mise subito giù a dormire.
Lei allora fece finta di dover andare in quel posto dove sapete che han bisogno d'andare tutti e, letta la
lettera, la fece a pezzettini e di nascosto la buttò giù nel privato.
Chi fantasticava, ora, più della bella e fresca Maggiolina?... Si coricò accanto al vecchio Gennaro, che
continuò a dormire finché la tosse non lo svegliò. Allora la pregò di spogliarsi tutta nuda, perché aveva
voglia di sollazzarsi un po' con lei, disse, e le vesti gli davano fastidio... e lei, volente o nolente, obbedì. Ma
perché la gente a modo non se la prenda con me, non sto a dirvi quello che lui fece, né se a lei sembrasse
d'essere in paradiso o all'inferno. Io li lascio lì a sbrigarsela un po' come volevano, tanto poi suonò il vespro
e dovettero per forza alzarsi.
Fosse destino o puro caso, fosse un influsso misterioso o un effetto naturale, o dipendesse dalla
disposizione stessa delle stelle... proprio non vi saprei dire perché il cielo si trovasse in condizioni tanto
propizie alla consegna di biglietti d'amore alle donne; è vero che, come dicono i dotti ogni cosa ha il suo
tempo adatto, ma solo il gran Dio, che sta in cielo e sa che non c'è effetto senza causa, potrà giudicare; io,
per me, non parlo. Il fatto è che quel giorno la fresca Maggiolina rimase così commossa per il povero
Damiano, da non riuscir più a togliersi dall'animo il desiderio di recargli conforto. 'Non mi preoccupo certo'
pensò 'a chi possa far dispiacere questa cosa. Io so soltanto che l'amo più d'ogni altro essere al mondo,
quand'anche non avesse indosso che la camicia!' Ecco, vedete a cuor gentile pietà corre veloce! (10) Di qui
si può vedere quanta squisita generosità vi sia nelle donne, a guardarle bene da vicino. Un uomo, essendo
quasi sempre tiranno e avendo il cuore duro come una pietra, l'avrebbe lasciato là a morire piuttosto che
concedergli la propria grazia; anzi, avrebbe goduto della propria crudeltà e del proprio orgoglio, senza
preoccuparsi d'essere un omicida... La gentile Maggiolina, invece, piena di compassione, scrisse di suo
pugno una lettera, nella quale gli prometteva senz'altro i suoi favori: non mancavano che il giorno e il luogo
in cui lei avrebbe appagato ogni suo desiderio, ma tutto sarebbe stato come lui voleva.
Così un giorno, quando il momento le sembrò opportuno, Maggiolina andò a far visita a Damiano, e con
scaltrezza gli mise la lettera sotto il guanciale, perché con comodo la leggesse. Gli prese poi la mano e gliela
strinse forte di nascosto, senza che nessuno se ne accorgesse, esortandolo a guarir presto di tutto il suo
male, e non se ne andò finché Gennaro non la mandò a chiamare.
Il mattino dopo, Damiano s'alzò: tutto il suo male e il suo dolore erano scomparsi! Si pettinò, si pulì e si
lisciò, fece tutto, insomma, pur di piacere e di riuscir gradito alla sua dama; e poi si presentò a Gennaro,
mogio come un cane davanti allo scudiscio. E si mostrò in seguito così garbato (un po' d'astuzia è tutto, per
chi sappia farne uso!), che ognuno era sempre pronto a dirne bene, mentre lui era ormai completamente
nelle grazie della sua signora. Lasciamo così Gennaro alle sue faccende e proseguiamo nel racconto.
Sostengono alcuni dotti che la felicità consista nello star bene, ed ecco che il nobile Gennaro cercava con
tutte le sue forze, ma in modo onesto, come s'addice a un cavaliere, di passarsela meglio che poteva. Aveva
una casa e certi arredi che, rispetto al suo grado, erano splendidi come quelli d'un re; e fra le altre stupende
cose, aveva fatto fare un giardino, chiuso tutt'intorno da un muro di pietra, un giardino bello come al
mondo non s'era mai visto. Penso veramente che neppure chi ha scritto il "Romanzo della rosa" (11)
avrebbe saputo descriverne bene la bellezza; e non sarebbe bastato Priapo, (12) che pure dei giardini è il
dio, a dire lo splendore di quello, e della fonte che vi sgorgava sotto un alloro sempre verde... Si narra
perfino che molto spesso, intorno a quella fonte, andassero a divertirsi, suonando e danzando, Plutone e la
sua regina, Proserpina, con tutto il seguito delle loro fate. Il nobile cavaliere, il vecchio Gennaro, poi, era
così contento d'andarvi a passeggiare e a sollazzarsi, che non permetteva a nessuno di tenerne la chiave
all'infuori di lui; e portava sempre con sé una chiave d'argento piccolina, con la quale poteva aprirne il
cancelletto quando voleva. Così, quando nella stagione estiva aveva voglia di pagare il suo debito alla
moglie, andava là, con la sua Maggiolina, loro due soli, ed egli si affrettava a sbrigare, nel giardino, quelle
faccende che non aveva sbrigato a letto. In questo modo Gennaro e la fresca Maggiolina passarono molti
giorni felici. Purtroppo, però, la gioia di questo mondo non può sempre durare, per Gennaro come per ogni
altra creatura...
O sorte improvvisa, o instabile fortuna, insidiosa come lo scorpione, che con la testa lusinghi, quando
invece vuoi ferire, e nella coda porti la morte col tuo veleno! O fragile gioia, o dolce delirante veleno, o
mostro, che sai così abilmente dipingere i tuoi doni col colore della stabilità, e inganni invece tutti quanti!
Perché hai tradito in questo modo Gennaro, che prima avevi accolto come tuo amico? Ecco, gli hai
strappato tutt'e due gli occhi, ed egli per il dolore non desidera ormai che la morte!
Ahimè, il nobile e generoso Gennaro, in mezzo al piacere e alla prosperità, all'improvviso era diventato
cieco. Piangeva e si lamentava miseramente, mentre il fuoco della gelosia, il timore che sua moglie
commettesse qualche follia, gli bruciava talmente il cuore, che ormai lui non desiderava altro che d'essere
ucciso insieme con lei; non avrebbe mai voluto che dopo la sua morte, o mentre lui fosse ancora in vita, lei
diventasse la moglie o l'amante di qualcun altro; se mai avrebbe voluto che rimanesse per sempre vedova
in gramaglie, sola come la tortora che ha perduto il suo compagno... Alla fine però, dopo un mese o due,
cominciò in verità ad abituarsi al suo dolore: visto che non gli rimaneva altro, prese la sua disgrazia con
rassegnazione, senza cessare, naturalmente, d'essere sempre geloso nello stesso modo; anzi, la sua gelosia
diventò adesso così intensa, da non permettere a lei neanche di spostarsi per la camera, né di andare in
casa d'altri o in qualsiasi altro posto, sia a piedi che a cavallo, senza che lui la tenesse sempre per mano. E di
ciò spesso piangeva la fresca Maggiolina, la quale era sempre così innamorata di Damiano, che le pareva di
morire se non l'avesse avuto come desiderava, e s'aspettava che da un momento all'altro le si spezzasse il
cuore.
Damiano, d'altra parte, era diventato l'uomo più infelice che fosse mai esistito, perché non c'era notte né
giorno ch'egli potesse dire una parola alla fresca Maggiolina sui suoi progetti, senza che non sentisse anche
Gennaro, il quale le teneva continuamente una mano addosso... Però poi, un po' scrivendosi a vicenda e un
po' per mezzo di segni nascosti, lui riuscì a capire quali intenzioni avesse lei, e lei venne finalmente a sapere
quali piani avesse ideato lui.
O Gennaro, che ti servirebbe se tu potessi anche veder lontano fin dove può arrivare una nave? Un uomo
può essere ingannato quand'è cieco come quando ci vede. Pensa, Argo aveva cento occhi, eppure, per
quanto guardasse e scrutasse continuamente, venne accecato, e Dio solo sa quanti, pur essendo ciechi,
credono di non esserlo! Occhio non vede, cuore non sente... non aggiungo altro.
La fresca Maggiolina, proprio lei di cui tanto parlo, prese dunque con un po' di cera calda l'impronta della
chiave del cancelletto, che Gennaro portava sempre con sé e della quale si serviva per andare nel giardino.
Damiano poi, ormai al corrente delle intenzioni di lei, fece fare di nascosto una chiave simile a quella... E
per ora non vi dico altro, ma fra non molto questa chiave produrrà meraviglie: aspettate e sentirete.
O nobile Ovidio, Dio sa che tu hai ragione: quale astuzia, per lunga e complicata che sia, l'amore non è
capace d'escogitare? Impariamo da Piramo e Tisbe che, pur essendo rimasti prigionieri al chiuso per tanto
tempo, trovarono il modo di parlarsi perfino attraverso un muro, senza che nessuno s'accorgesse del loro
stratagemma! (13)
Ma veniamo al punto. Prima che fossero trascorsi otto giorni dei mese di giugno, accadde che Gennaro,
solleticato da sua moglie, fosse preso da tanta voglia d'andare a sollazzarsi nel giardino, loro due soltanto,
che una mattina a Maggiolina disse: «Alzati, moglie mia, amor mio, mia benefica signora! Senti la voce della
tortora, dolce mia colomba! Ormai l'inverno se n'è andato con tutto l'umidume delle sue piogge. Vieni fuori
coi tuoi occhi da piccioncina! I tuoi seni sono più prelibati del vino! Il giardino è chiuso tutt'intorno: vieni,
candida mia sposa! Tu mi hai proprio ferito al cuore, moglie mia! In vita mia non ho mai trovato nessuno
senza difetti come te... Vieni, spassiamocela: ti ho scelto appunto per moglie e per mia consolazione!».
Ecco che parole le disse quel vecchio libertino. Allora lei fece segno a Damiano di andare avanti con la sua
chiave. Damiano aprì il cancello ed entrò, senza farsi vedere o sentire da nessuno, e rapido s'acquattò sotto
un cespuglio.
Quindi Gennaro, cieco come un sasso, con Maggiolina per mano, entrò con lei sola nel suo fresco giardino e
chiuse subito il cancello.
«Ecco, moglie mia,» disse «qui non ci siamo che tu ed io, e tu sei la creatura ch'io amo di più al mondo. Per
Dio che sta su in cielo, preferirei morire d'una coltellata, piuttosto che fare un torto a te, mia cara e fedele
moglie! Tieni sempre presente, per amor di Dio, che t'ho scelta, non per lussuria, t'assicuro, ma solo per
l'amore che ti portavo. E anche se sono vecchio e non ci vedo, restami fedele; ti prego perché... perché
senz'altro ci guadagnerai tre cose: innanzi tutto l'amore di Cristo, poi il tuo onore ed infine tutta la mia
eredità, casa e terre comprese. A te lascerò tutto, prepara pure tu le carte come credi... anzi, Dio s'abbia in
gloria la mia anima, sarà fatto domani stesso prima che tramonti il sole!... Per prima cosa, intanto, suggella
il patto con un bacio, e non rimproverarmi se sono un po' geloso! Tu mi sei così profondamente impressa
nel pensiero, che, pur considerando la tua bellezza e insieme la mia eccessiva vecchiaia, ormai, a costo di
morire, non posso fare a meno della tua compagnia... e tutto per puro amore, ti assicuro. Su, moglie mia,
dammi un bacio, e poi passeggiamo.»
Sentendo queste parole, la fresca Maggiolina rispose affettuosamente a Gennaro, ma prima si mise a
piangere. «Anch'io» gli disse «ho un'anima da salvare come avete voi, e poi il mio onore, e quel tenero fiore
di femminilità che affidai alle vostre mani, quando il prete legò a voi il mio corpo; e perciò, col vostro
permesso, mio buon signore, risponderò così: prego Iddio che non spunti mai l'alba del giorno in cui debba
morire da svergognata, per aver recato oltraggio alla mia famiglia o per aver altrimenti macchiato il mio
nome d'infedeltà; se mai dovessi commettere una simile mancanza, spogliatemi nuda, mettetemi in un
sacco e annegatemi nel fiume più vicino. Ma io sono una gentildonna, non una sgualdrina... perché mi
parlate in questo modo? Son gli uomini che sempre sono infedeli... e a noi donne tocca ancora sopportare
le vostre sfuriate! Voialtri, credo, non sapete far altro che accusarci d'infedeltà e rimproverarci.»
Così dicendo, avendo visto il cespuglio dove Damiano se ne stava acquattato, si mise a tossire e a fargli
segno col dito d'arrampicarsi sopra un albero ch'era pieno di frutta, e lui vi salì. Infatti ormai lui
comprendeva ogni movimento o gesto che lei faceva meglio di Gennaro, suo marito, giacché in una lettera
lei gli aveva spiegato tutto ciò che all'occorrenza avrebbe dovuto fare... E così lasciamolo là in cima a un
pero, mentre Gennaro e Maggiolina continuavano a passeggiare.
Il giorno era splendido e il cielo azzurro; Febo mandava giù i suoi raggi d'oro a rallegrare ogni fiore col suo
calore: pare che allora egli fosse nel segno dei Gemelli, ma a poca distanza dalla declinazione del Cancro,
dove Giove ha il suo massimo potere. E così accadde, in quella radiosa mattinata, che nell'angolo più
remoto del giardino, Plutone, il re delle fate, accompagnato da molte dame ch'erano al seguito di sua
moglie, la regina Proserpina, che lui aveva rapito presso l'Etna mentre stava cogliendo fiori nel prato
(potete leggere nelle storie di Claudiano (14) in che modo la portasse via sul suo tremendo carro), accadde,
dunque, che il re delle fate si sedesse su una panchina di zolle fresche e verdeggianti, e d'improvviso così
parlasse alla sua regina:
«Moglie mia» le disse «nessuno lo può negare: l'esperienza ci dà ogni giorno prova dei tradimenti che le
donne commettono contro l'uomo. Potrei citare centomila storie sulla vostra incostanza e sulla vostre
fragilità. O saggio Salomone, ricco d'ogni ricchezza, colmo d'ogni sapienza e d'ogni gloria al mondo, le tue
parole meritano proprio d'essere ricordate a chiunque abbia intelletto e ragione. Ecco com'egli loda sempre
la bontà dell'uomo: 'Un uomo fra mille, l'ho trovato; ma una donna fra tutte, non l'ho trovata'. Ecco che
cosa dice quel re che certo doveva intendersene della vostra cattiveria!... E mi pare che anche Gesù, "filius
Syrak", (15) parli di voi con ben poco rispetto... Ma vi prendesse stanotte per tutto il corpo una gran vampa
e una schifosa pestilenza! Guardate là, quel nobile cavaliere: siccome, ahimè, è cieco e vecchio, sta per
essere fatto cornuto dal suo servo. Guardatelo, quel vizioso, là sull'albero! Ebbene, con la mia potenza, farò
in modo che quel vecchio e valoroso cavaliere cieco riprenda a vedere, proprio quando sua moglie starà per
disonorarlo... così si renderà conto di quanto sia spudorata, e con lei verranno beffate anche parecchie
altre!»
«Davvero?» fece Proserpina «farete questo? Ebbene giuro per l'anima del genitore di mia madre, (16) ch'io
fornirò a lei la risposta giusta, per amor suo e di tutte le donne dopo di lei; di modo che, anche se colte in
fallo, sappiano difendersi a viso aperto e demolire chi voglia accusarle. Nessuna morirà per non saper che
cosa rispondere. Anche se un uomo vede qualcosa con i suoi occhi, noi donne riusciremo sfacciatamente a
camuffarla, a piangere, a giurare e a contestare così abilmente, che voi uomini rimarrete ingozzati come
tante oche. Che m'importa dei vostri autori? So bene che quel giudeo di Salomone non trovò che insensate
fra noi donne. Ma se lui non riuscì a trovarne neppure una che fosse buona, ci sono stati molti altri uomini
che hanno trovato donne onestissime, ottime e virtuose. Prova ne siano quelle che vivono nella casa di
Cristo e che hanno confermato col martirio la loro costanza. Anche la storia romana serba ricordo di molte
mogli oneste e fedeli... Del resto, signor mio, non arrabbiatevi se le cose stanno così, perché, anche se
quello disse di non aver trovato una sola donna buona, cercate per piacere di capire in che senso
quell'uomo parlava: lui intendeva dire che di bontà sovrana non c'è che Dio, e nessun altro, uomo o donna
che sia. Ma andiamo, quant'è vero che Dio è unico e solo, perché v'infervorate tanto con Salomone? Che
importa se costruì un tempio per dare una casa al Signore? Che importa s'era ricco e glorioso?... Però
costruì anche un tempio per gli dèi che sono falsi. Come avrebbe potuto fare una cosa più empia?
Insomma, per quanto cerchiate di lustrarne il nome, lui non era che un libertino e un idolatra, e nella sua
vecchiaia rinnegò il vero Dio. E se Dio, come dice la scrittura, non lo avesse risparmiato per amore di suo
padre, avrebbe perduto il regno prima del tempo desiderato... Per me, tutte le calunnie che voialtri scrivete
sulle donne non hanno il peso d'una larva! Io sono una donna e devo parlare, altrimenti mi si gonfia il cuore
fino a scoppiare. Quello ha detto che siamo pettegole: ebbene, finché avrò trecce in testa, non potrò fare a
meno di dir male, senza nessun riguardo, di chi ha voluto recarci offesa!»
«Madonna,» disse Plutone «non siate più in collera: mi arrendo! Però, siccome ho giurato che gli avrei
restituito la vista, manterrò senz'altro la mia parola, io vi avverto. Sono re, e non sta bene ch'io racconti
frottole!»
«Ed io» disse lei «delle fate sono regina! e vi assicuro che lei avrà la sua risposta. Ed ora basta con le parole,
perché veramente non ho più voglia di discutere con voi»,
Torniamo dunque di nuovo a Gennaro, che cantava nel giardino con la sua bella Maggiolina, più allegro
d'un picchio: «Nessun altro amo e amerò più di te!...». E se ne andava a passeggio per i viali finché ritornò
presso quel pero su cui Damiano se ne stava beatamente seduto, in alto tra le foglie verdi e fresche.
La fresca Maggiolina allora, pur così splendida e radiosa, incominciò a sospirare e a dire: «Ah, il mio
fianco!... Ecco, messere» fece «non ne posso più, devo avere qualcuna di quelle pere che vedo, altrimenti
muoio dalla voglia di mangiarle... quelle piccole pere verdi. Aiutatemi, per amor di Colei che è regina del
Cielo! Vi assicuro che una donna nelle mie condizioni può anche morire dalla voglia di frutta, se non ne può
avere».
«Ahimè» fece lui «non ho qui neanche un garzone che possa arrampicarsi! Ahimè» si lamentò «che
disgrazia esser ciechi!»
«Eh, signore, non importa» disse lei «per amor di Dio... basterebbe che voi vi abbracciaste al pero, visto che
di me non vi fidate, e allora io potrei benissimo salire... mi basterebbe appoggiare un piede sulle vostre
spalle.»
«Ma certo» disse lui «non mancherò... darei via il sangue dal cuore pur di aiutarti!»
Lui dunque si chinò e lei, montandogli sulle spalle, s'attaccò a un ramo ed eccola salire, e poi... (vi prego,
gentili signore, non andate in collera: non so usare perifrasi, sono un uomo alla buona io!...) insomma, in un
attimo Damiano le tirò su la gonna e glielo cacciò dentro.
Appena Plutone s'accorse di questo affronto, subito ridonò la vista a Gennaro, che riprese a vederci meglio
di prima: nessuno era più felice di lui, ora che aveva riacquistato gli occhi! E, col pensiero sempre fisso sulla
moglie, sollevò immediatamente lo sguardo all'albero... e vide che Damiano gli aveva conciato la moglie in
un modo che non potrei descrivere senza parlare con poco rispetto. E allora mandò un ruggito e un grido
come d'una madre a cui sia morto un figlio: «Ah!... aiuto, ahimè, soccorso!» si mise a urlare «...che fai,
svergognatissima donna?».
E lei subito: «Signor mio, cosa gridate? Calmatevi, invece, e ragionate col cervello! Ecco che vi ho guarito
tutti e due gli occhi dalla cecità... A costo di dannarmi l'anima, non lo nascondo, mi fu detto che, per
guarirvi gli occhi, non c'era nulla di meglio, per farvi riacquistare la vista, che mettermi a lottare con un
uomo in cima a un albero. Dio sa che l'ho fatto a fin di bene!».
«Lottare!» disse lui «già, ma quello ti si era cacciato dentro! Dio vi mandi a tutti e due una morte infame!
Lui se la spassava con te, l'ho visto con i miei occhi: ch'io sia appeso per il collo se non è vero!»
«Ma allora» disse lei «la mia medicina non è servita, perché, se veramente foste in grado di vedere, non
verreste a dirmi queste cose. Voi soffrite d'allucinazione e non avete vista buona!»
«Ci vedo benissimo» disse lui «con tutti e due gli occhi, grazie a Dio! e, parola mia, mi pareva proprio che lui
facesse quel lavoro.»
«Pazzo, pazzo, signor mio!» disse lei «questo è il ringraziamento per avervi ridonato la vista. Ahimè!»
soggiunse «m'ero data tanto da fare!»
«E va bene, madonna» disse lui «non pensiamoci più. Scendete, mia cara, e se ho parlato a torto, Dio
m'aiuti, son pronto a pagare... Ma per l'anima di mio padre, avrei giurato d'aver visto che Damiano se ne
stava con te e la tua gonna gli arrivava fino al petto.»
«Certo, messere» disse lei «voi potete immaginarvi quel che vi pare. Ma, signor mio, un uomo appena si
sveglia dal sonno, non può afferrare immediatamente una cosa e vederla alla perfezione finché non è del
tutto sveglio. Così un uomo, che è stato per molto tempo cieco, non può improvvisamente, appena gli
torna la vista, veder bene, e questo per almeno un giorno o due... Finché gli occhi non si siano un po'
ristabiliti, potrebbero ingannarvi più d'una volta. State attento, vi prego: per il Re del cielo, molta gente
crede di vedere una cosa e invece ne vede un'altra. E chi male intende, peggio risponde!» E così dicendo,
saltò giù dall'albero.
Chi era adesso più felice di Gennaro? La baciò e l'abbracciò più volte e, accarezzandole dolcemente il
ventre, la ricondusse al suo palazzo, a casa... Ed ora, buona gente, vi prego di stare allegri; qui termina il
mio racconto su Gennaro, e Dio ci benedica, come pure sua madre Maria Santissima!
Qui termina il Racconto del Mercante su Gennaro.
Epilogo
AL RACCONTO DEL MERCANTE.
«Alt, divina misericordia!» disse allora il nostro Oste. «Dio mi guardi da una simile moglie! Pensate che
astuzie e che imbrogli combinano le donne! Quando si tratta d'ingannare noialtri poveri uomini, diventano
operose come api e non seguono mai il cammino della verità: lo dimostra chiaramente il racconto del
Mercante. Ma, per fortuna, io ho una moglie schietta come l'acciaio, anche se è povera; però, in quanto a
lingua, è una maledetta chiacchierona ed ha un mucchio d'altri difetti... Non c'è niente da fare; è meglio
lasciar perdere. Volete proprio saperlo? Sia detto fra noi, sono amaramente pentito d'essermi legato a lei.
Se stessi a farvi il conto di tutti i difetti che ha, sarei un minchione: sapete com'è, qualcuno della compagnia
andrebbe subito a riferirglielo; non c'è bisogno che vi dica chi, perché le donne riescono sempre a
smerciare questa roba, e poi non basterebbe il mio ingegno per raccontarvi tutto; e perciò, basta con le mie
chiacchiere!»
Note del "Racconto del Mercante".
(*). Il "Racconto del Mercante" (composto intorno al 1393-94) è uno dei più originali. Molto materiale della
prima parte si ritroverà più avanti nel "Racconto di Melibeo", ma qui occorre tener conto dell'umorismo
sottilmente demolitore con cui è trattato il tema del matrimonio. L'episodio finale, quello della beffa sul
pero magico, noto in molte versioni, appare anche nella nona novella della settima giornata dei
"Decamerone", non si può tuttavia parlare di derivazione diretta.
Nota 1. Non si tratta del famoso autore dei "Caratteri", ma di un altro Teofrasto, autore di un "Libro Aureo
sul Matrimonio" ("Liber Aureolus de Nuptiis"), già citato nel Prologo della Comare di Bath.
Nota 2. Eroe della mitologia anglosassone. Pare che sulla sua nave, chiamata "Guingelot", venisse insegnata
l'astuzia alla gente.
Nota 3. Evidentemente, in questa parentesi d'ironia, non parla Giustino, ma il Mercante.
Nota 4. Col suono della lira, il mitico re Anfione costruì le mura di Tebe.
Nota 5. Si sa che Teodamante fu un augure tebano, ma l'episodio a cui si fa cenno è oscuro.
Nota 6. Marziano Capella (quarto-quinto secolo), l'autore delle "Nozze della Filologia e di Mercurio" ("De
Nuptiis Philologiae et Mercuri"), silloge della cultura dell'epoca.
Nota 7. Questo vino italiano era evidentemente già famoso allora. Lo menzionerà più avanti anche il
Marinaio nel suo racconto.
Nota 8. Costantino Afro, il monaco di Cartagine che divulgò la scienza medica degli arabi presso la famosa
scuola salernitana. E citato anche nel "Prologo generale" durante la presentazione del Dottor Fisico.
Nota 9. Dal celtico "lay", canzone.
Nota 10. Ironico riferimento a uno dei concetti più diffusi nella poesia amorosa medievale (confer «Amor
ch'a cor gentil ratto s'apprende ...», Dante, "Inferno", V, 100).
Nota 11. Si tratta di Guillaume de Lorris, autore della prima parte del "Roman de la Rose". Il poema infatti,
completato poi da Jean de Meung, s'apre con la descrizione d'un bellissimo giardino.
Nota 12. Priapo, il dio greco della fecondità, a Roma era onorato anche come dio degli orti e dei giardini.
Nota 13. L'episodio è infatti narrato da Ovidio nelle sue "Metamorfosi" (IV, 55).
Nota 14. Claudio Claudiano, poeta latino di Alessandria d'Egitto, vissuto a Roma alla corte di Onorio,
compose un poema sul ratto di Proserpina ("De Raptu Proserpinae").
Nota 15. Non il Cristo, ma Gesù figlio di Sirak, autore del "Siracide", libro poetico didascalico del Vecchio
Testamento.
Nota 16. Saturno.
Frammento Quinto.
Introduzione
AL RACCONTO DELLO SCUDIERO.
«Scudiero, vogliate avvicinarvi e dirci qualcosa sull'amore, giacché voi sicuramente ve ne intendete più di
tutti...»
«Oh, non è vero, messere» fece lui «ma quel che so ve lo dirò di tutto cuore; non è ch'io intenda ribellarmi
al vostro desiderio, e un racconto voglio narrarlo anch'io. Soltanto vi prego di scusarmi se non so parlare
bene; ho buona volontà... ed ecco, questo è il mio racconto.»
RACCONTO DELLO SCUDIERO (*).
Qui comincia il Racconto dello Scudiero.
Viveva a Sarai, (1) nella terra dei tartari, un re che mosse guerra contro la Russia, per la qual causa perirono
molti uomini valorosi. Questo nobile re si chiamava Cambiscano, (2) ed ebbe ai suoi tempi una rinomanza
tale, che un sovrano in tutto così eccellente pareva non dovesse esistere da nessun'altra parte. Non gli
mancava effettivamente nulla che s'addicesse a un re: osservava le leggi della setta in cui era nato, sulle
quali aveva prestato giuramento; e poi era ardito, saggio e ricco; pietoso e nello stesso tempo giusto, fedele
alla parola, affabile e onorato; d'animo saldo come un perno; giovane, vigoroso e forte; desideroso di
maneggiare le armi come un qualsiasi baccelliere del suo palazzo. Aveva inoltre un bel portamento ed era
anche fortunato... nessuno, insomma, ricopriva bene la carica regale come lui.
Questo nobile re, questo tartaro Cambiscano, ebbe da sua moglie Elfeta due figli, il maggiore dei quali si
chiamava Algarsife e l'altro Cambalo. Ebbe veramente anche una figlia, questo valoroso re, ch'era la più
giovane e si chiamava Canace... ma a descrivervi tutta la sua bellezza, non basterebbe la mia lingua e
neanche il mio ingegno; non me la sento d'affrontare un argomento così delicato; mi mancano proprio le
parole. Ci vorrebbe un eccellente retore che conoscesse bene i colori (3) della sua arte, per potervela
descrivere in ogni particolare: io purtroppo non lo sono e devo perciò parlare come posso.
Si dava ora il caso che, dopo aver portato per venti inverni la corona, questo Cambiscano facesse
proclamare il suo anniversario (ma credo che lo facesse fare ogni anno) per tutta la città di Sarai. Era
l'ultimo giorno delle idi di marzo, stando al calendario: Febo, il sole, era radioso e allegro, perché ormai
prossimo alla sua esaltazione in Marte e nella sua mansione in Ariete, l'ardente segno della collera... Il
tempo, insomma, era buono e molto favorevole: gli uccelli, di fronte al bel sole, sollecitati dalla stagione e
dal fresco verde, cinguettavano a gran voce i loro amori, sentendosi ormai protetti contro la lama acuta e
fredda dell'inverno.
Questo Cambiscano, vi dicevo, seduto in veste regale al posto d'onore, in alto con la sua corona, diede nel
suo palazzo una festa così solenne e splendida, come non ce n'erano mai state al mondo... Se soltanto
dovessi descriverne l'adornamento, mi ci vorrebbe un giorno, ma di quelli lunghi d'estate. E non è neppure
il caso che vi dica in che ordine venisse introdotta ogni portata, né che vi parli delle strane salse, dei cigni o
dei teneri aironi, anche perché in quel paese, a quel che narrano antichi cavalieri, ci sono cibi ritenuti molto
pregiati che qui da noi la gente valuta ben poco. E poi non c'è nessuno che possa raccontare tutto: non
voglio annoiarvi, il mattino è già inoltrato, e non si tratterebbe che d'una perdita di tempo. Torniamo
dunque dove prima eravamo rimasti.
Ecco, dopo la terza portata, mentre il re se ne stava seduto a banchetto fra i suoi baroni, ascoltando la
dolce musica che gli suonavano davanti i suoi menestrelli, improvvisamente apparve sulla porta della sala
un cavaliere sopra un cavallo di bronzo, con un grande specchio di cristallo in mano, un anello d'oro al
pollice e una spada nuda che gli pendeva al fianco. E si diresse a cavallo fino alla tavola alta. Non s'udì più
una parola in tutta la sala, tale fu lo stupore per quel cavaliere; e giovani e anziani ebbero tutto il loro da
fare a guardarlo...
Questo misterioso cavaliere, giunto così all'improvviso, ricoperto tutto, fuorché sul capo, da una splendida
armatura, salutò il re, la regina e tutti i baroni, secondo l'ordine in cui stavano seduti nella sala, ma con tale
rispetto e tale ossequio di parole e portamento, che, se anche dal mondo delle fate fosse tornato Galvano
(4) con tutta la sua cortesia antica, neppure d'un verbo l'avrebbe superato. Poi, davanti alla tavola alta,
pronunciò con gagliarda voce il suo messaggio, secondo i modi usati nella sua lingua, ma senza sgarrare
d'una sillaba o d'una lettera; e perché il suo discorso riuscisse meglio, diede a ogni parola l'espressione
adatta, proprio come insegna l'oratoria (5) a chi la studia... Io non riuscirci ad imitare il suo stile, a superare
una barriera così alta, ma vi ripeterò, tanto per intenderci, quale fosse il senso del suo discorso, sempre
ch'io riesca a ricordarlo...
Disse: «Il re d'Arabia e d'India, mio signore e sovrano, vi porge, in questo solenne giorno, i suoi migliori
saluti e omaggi. E vi manda, in onore della vostra festa, per mezzo di me che son pronto a ogni vostro
comando, questo cavallo di bronzo, il quale, nello spazio d'un giorno naturale, vale a dire in ventiquattr'ore,
può benissimo trasportarvi dovunque vi piaccia, sia con la pioggia che col sole, in qualsiasi luogo abbiate in
mente d'andare, senz'alcun vostro pericolo, bello o brutto che il tempo sia. Se poi desiderate volare in alto
nell'aria fine dove arriva l'aquila, questo medesimo cavallo può trasportarvi senza rischio fin dove volete,
mentre voi potete dormire o riposarvi sul suo dorso. Per ritornare indietro, basta il giro d'una chiavetta! Chi
l'ha costruito, di congegni certo se ne intendeva, e aspettò diverse costellazioni prima di mettersi all'opera,
imparando scongiuri e sortilegi... Anche questo specchio, che ho in mano, ha un tale potere, che in esso si
può vedere quando stia per capitare qualche sventura al vostro regno o a voi, e distinguere chiaramente chi
vi sia amico o nemico; inoltre, se una radiosa dama avesse posto il cuore su qualcuno, e costui le fosse
infedele, lei potrebbe scoprirne il tradimento e riconoscerne la nuova amante ed ogni loro tresca, nulla
insomma le rimarrebbe nascosto... Avvicinandosi ora il tempo della gioiosa estate, questo specchio e
l'anello che vedete, li manda a madamigella Canace, l'eccellente vostra figlia qui presente. Ascoltate, la
virtù dell'anello è questa... se lei avesse la compiacenza di portarlo al pollice o nella borsa, non c'è uccello
che voli in cielo di cui lei non comprenderebbe perfettamente il verso, riuscendo a intendere tutto ciò che
dice e perfino a rispondergli nel suo linguaggio, saprebbe inoltre discernere ogni erba che mette radice e
guarire così chiunque fosse gravemente ferito... Questa nuda spada, che penda al mio fianco, ha una tale
virtù, che, chiunque con essa colpiate, lo squarcerà e morderà trapassando l'armatura, foss'anche spessa
come una nodosa quercia; e chiunque sia ferito da un tale colpo non guarirà mai, finché voi non gli farete la
grazia di colpirlo con la parte piatta proprio nel punto in cui è ferito... vale a dire che con la parte piatta
della lama dovrete colpirlo di nuovo sulla ferita, ed essa si chiuderà! Questa è la pura verità, senza
impostura; finché sarà in mano vostra, questa spada non vi tradirà!».
E appena questo cavaliere ebbe fatto così il suo discorso, se ne uscì fuori della sala e smontò di sella. Il
cavallo, che splendeva sfolgorante come il sole, rimase nel cortile fermo come un masso. E il cavaliere fu
subito condotto nella sua stanza, spogliato delle armi e accompagnato a tavola.
Quanto ai doni, cioè la spada e lo specchio, essi furono accolti con tutti gli onori, e trasportati subito nella
torre alta da certi dignitari apposta comandati; e l'anello fu consegnato ufficialmente a Canace, mentre
ancora stava seduta a tavola. Ma il cavallo di bronzo, v'assicuro, non vi racconto storie, quello non si poté
spostare: pareva proprio che fosse piantato a terra, e di là non ci fu verso di muoverlo, nemmeno per
mezzo di carrucole e verricelli; e sapete perché?... perché nessuno ne conosceva ancora il segreto! E perciò
venne lasciato dove stava, finché il cavaliere non spiegò il modo di manovrarlo, come ora sentirete.
Una gran folla si mise intanto a sciamare avanti e indietro, ammirando questo cavallo che stava là a quel
modo, ed era alto, massiccio e slanciato, così ben proporzionato e solido, che pareva proprio uno stallone
di Lombardia, un vero purosangue, dall'occhio così vivo, che assomigliava tutto a un nobile corsiero delle
Puglie (6)... Veramente, dalla coda fino alle orecchie, natura ed arte non avrebbero potuto migliorarlo d'un
solo grado; lo dicevano tutti. Ma la maggior meraviglia era che, pur essendo di bronzo, riuscisse a
camminare: doveva certo trattarsi d'un incantesimo, pensò la gente,. E ognuno si mise a dire la sua, perché,
si sa, tante teste, tante idee. Era proprio come il brusìo d'uno sciame d'api: chi faceva commenti
inseguendo la propria fantasia, chi citava poemi antichi; alcuni dicevano che assomigliava a Pegaso, il
cavallo che aveva le ali per volare, altri ch'era il cavallo del greco Sinone, che portò Troia alla rovina, come si
legge nelle antiche gesta (7)... «Ho il cuore in agitazione» diceva uno «temo Che là dentro ci siano uomini
armati, pronti a impadronirsi della città. Sarebbe meglio mettere in chiaro la cosa...» Un altro mormorava
sottovoce col compagno e diceva: «Quell'uomo mente, perché sembra piuttosto un'apparizione evocata
per opera di magia, di quelle con cui si divertono i giocolieri in certe grandi feste». Così tutti parlavano e
discutevano dei loro dubbi, come fa comunemente la povera gente, quando si mette a giudicare cose
congegnate troppo abilmente perché nella sua ignoranza possa comprenderle; e giungevano a cuor leggero
alle peggiori conclusioni... Qualcuno si meravigliava per lo specchio, ch'era stato trasportato nel torrione,
chiedendosi come mai si potessero vedere tante cose; rispondeva un altro dicendo che poteva benissimo
trattarsi d'un fatto naturale, di composizioni d'angoli e di riflessioni particolari, e sosteneva che anche a
Roma c'era uno specchio simile. (8) E parlavano di Alhazen, (9) di Vitello (10) e di Aristotele, che ai tempi
loro scrissero di strani specchi e di prospettive, come sanno quanti conoscono i loro libri... Altri poi si
meravigliavano per la spada, capace di trapassare qualunque cosa, e si mettevano a discorrere di re Telefo
e di Achille che con la sua prodigiosa lancia poteva sia ferire che guarire, (11) proprio come con la spada di
cui vi ho appena parlato; discorrevano delle diverse tempre di metallo, e parlavano pure di medicine, e di
come e quando bisognasse dare la tempra: tutte cose di cui però io non so nulla... Parlarono infine
dell'anello di Canace, e dissero tutti che una cosa così prodigiosa non s'era mai sentita dire sulla
fabbricazione degli anelli, se si escludevano Mosè e re Salomone, (12) che avevano fama d'intendersene di
quell'arte... Fatte le proprie osservazioni, ognuno si metteva poi in disparte. Ma c'era ancora chi si faceva
meraviglia che dalle ceneri della felce si potesse ricavare il vetro, perché il vetro non assomigliava affatto
alla felce... ma poi, siccome era cosa risaputa, la smetteva di chiacchierare e di meravigliarsi. E allora
incominciavano altri a questionare sull'origine del tuono, delle maree, del diluvio, delle ragnatele, della
nebbia e... di tutto, finché non ne scoprivano la causa. Così chiacchierarono, fantasticarono e considerarono
finché il re non s'alzò dal banchetto.
Febo aveva ormai lasciato l'angolo meridionale, e il re degli animali, il nobile Leone, con la sua Aldebaran,
(13) stava ancora salendo, quando il re dei tartari, Cambiscano, s'alzò da tavola, dove occupava il posto
d'onore. Preceduto dalle acute note dei menestrelli, venne accompagnato fino alla sala dei parati, dove
incominciarono a suonare altri strumenti, che a sentirli pareva d'essere in paradiso. E intorno danzarono i
diletti figli della gioiosa Venere, (14) ora che la loro signora sedeva al massimo del suo fulgore nella
costellazione dei Pesci e li guardava con occhi benigni... Ecco che il nobile re prese posto sul trono. A lui
venne subito condotto il misterioso cavaliere, che poi si mise a danzare con Canace. E vi fu tale festa e
allegria, che uno un po' ottuso non può neppure immaginare... Bisognerebbe conoscere proprio bene
l'amore e le sue pratiche, ed essere allegri e festaioli come il maggio per descrivere un simile sollazzo. Chi
potrebbe mai rappresentarvi le figure della danza, così bizzarre, e certi visi così giovani, e certi astuti
sguardi e sotterfugi per schivare gli occhi dei gelosi? Nessuno, all'infuori di Lancellotto, ma egli ormai è
morto (15)... A me non resta che passar oltre tutti questi piacevoli dettagli; e perciò non aggiungo altro,
lasciando ciascuno ai propri svaghi finché non fu l'ora di cena.
Il maggiordomo ordinò, in mezzo a tutta quella musica, che si portassero le spezie e il vino; servi e scudieri
uscirono, e con vino e spezie furono subito di ritorno. Tutti mangiarono e bevvero, e quando questo ebbe
fine, si recarono, com'era giusto, al tempio. Dopo la funzione, tornarono ancora a banchettare... Ma a che
serve ripetervi lo splendore della festa? Si sa, a un banchetto di re c'è abbastanza per tutti, dal primo
all'ultimo, e ci sono più delizie di quante io conosca. Finalmente, dopo cena, questo nobile re andò a vedere
il cavallo di bronzo, con tutto un seguito di dame e di baroni intorno.
E tutti ricominciarono a farsi meraviglia per questo cavallo di bronzo; certo, tante discussioni non c'erano
mai state fin dal tempo del grande assedio di Troia, quando pure un altro cavallo fece strabiliare la gente...
Insomma, finalmente il re chiese al cavaliere quali fossero le virtù e i poteri di quel puledro, pregandolo
d'insegnargli come governarlo.
Bastò che il cavaliere ponesse mano alle redini, che subito il cavallo si mise a scalpitare e a saltellare. «Sire,
non c'è da dir molto...» fece quello. «Quando volete cavalcare da qualche parte, non dovete far altro che
girare una chiavetta che sta qui nel suo orecchio, e di cui vi parlerò meglio quando saremo soli... Dovete poi
dirgli in che paese o località desiderate andare. E quando arrivate in un punto dove avete intenzione di
fermarvi, ordinategli d'abbassarsi girando un'altra chiavetta (tutto qui sta il segreto del congegno!), e lui
rimarrà immobile in quel punto, quand'anche il mondo intero gli si mettesse contro: di là non sarà possibile
né smuoverlo né trainarlo. Se poi volete ordinargli che se ne vada, girate questa chiavetta, ed esso
scomparirà subito alla vista di tutti, e ritornerà, giorno o notte che sia, quando voi lo richiamerete nel modo
che ora subito vi dirò, appena saremo soli. Non vi rimane dunque che provare a cavalcare.»
Come dunque fu informato ed ebbe bene impressi nella mente il modo e la forma di tutto il meccanismo,
lieto e soddisfatto, il nobile e valoroso re ritornò, come prima, alla sua festa. Le briglie vennero trasportate
nella torre e conservate fra i gioielli più preziosi e rari. Il cavallo, non so come, svanì per il momento alla
vista di tutti; non so dirvi altro... Ma intanto, nel piacere e nell'allegria, lasciamo Cambiscano con i suoi
baroni a festeggiare fin quasi allo spuntar del giorno.
EXPLICIT PRIMA PARS.
SEQUITUR PARS SECUNDA.
La sonnolenza, nutrice della digestione, si mise a un tratto a far l'occhiolino, avvertendo che tanto bere e
tanta fatica richiedevano riposo; e boccheggiando di sbadigli, baciò tutti quanti e disse ch'era ora di
coricarsi, perché ormai il sangue aveva il sopravvento. (16) «Abbiate cura del sangue, esso è l'amico della
natura!» disse. E tutti sbadigliando la ringraziarono e, a due o tre per volta, se ne andarono a riposare,
proprio come la sonnolenza comandava, pensando che fosse la miglior cosa.
Non starò ora a dirvi dei loro sogni: avevano tutti la testa piena di fumosità, e questa genera sogni che non
hanno importanza... Dormirono fino al mattino avanzato, quasi tutti, all'infuori di Canace. Lei, come ogni
donna, era stata sensata; e appena s'era fatto buio, aveva chiesto a suo padre il permesso d'andare a
riposare. Non le sarebbe piaciuto sentirsi illanguidita o apparire affaticata l'indomani. Dopo il primo sonno,
però, non riuscì più a riaddormentarsi: aveva al cuore tanta gioia per via del suo prodigioso anello e del suo
specchio, che per venti volte mutò di posizione e, appunto sotto l'impressione dello specchio, ebbe nel
dormiveglia una visione. Così, prima ancora che spuntasse il sole, chiamò a sé la governante e le disse che
desiderava alzarsi.
E la governante, come tutte le vecchie che fanno volentieri le giudiziose, subito le rispose dicendo:
«Madamigella, dove volete andare così di buon'ora, mentre la gente è ancora tutta a riposare?».
«Desidero alzarmi» disse lei «perché non ho più voglia di dormire, e desidero passeggiare.»
La governante chiamò allora un gran seguito di donne, e quelle s'alzarono, forse dieci o anche dodici...
Fresca s'alzò pure Canace, rosea e splendida come il giovane sole che aveva percorso appena quattro gradi
in Ariete (non era affatto più alto, quando lei fu pronta), e con agile passo, vestita come la dolce e lieta
stagione richiedeva per giochi e passeggiate, si mise a camminare con non più di cinque o sei delle sue
dame, inoltrandosi per un viale dentro il parco. Il vapore sfumante dalla terra faceva apparire il sole roseo e
vasto; ma era uno spettacolo così bello, che il cuore tutto le si accese, sia per l'ora mattutina e la stagione,
che per gli uccelli che lei udiva cantare, specie quando all'improvviso s'accorse che poteva seguire il senso
del loro canto e comprendere tutto quello che intendevano dire.
Ora, però, se il nodo d'un racconto si dilunga tanto da raffreddare il piacere di chi ascolta, perde a poco a
poco di sapore, per eccesso di prolissità; per questa ragione credo che anche a me convenga senz'altro
passare al nodo, tralasciando di parlare della passeggiata.
In mezzo a un albero disseccato, bianco come il gesso, mentre Canace si dilettava passeggiando, in alto
sopra il suo capo se ne stava appollaiata una falconcella, la quale incominciò a lamentarsi con una voce così
pietosa, da far echeggiare le sue grida per tutto il bosco. E intanto sbatteva così miseramente le ali, che il
sangue scorreva rosso lungo l'albero su cui stava. E strideva e si lamentava dilaniandosi col becco... ah, non
c'è nel bosco o nella foresta tigre o bestia così feroce che, se sapesse piangere, non avrebbe pianto di
compassione per lei, tanto erano alte le sue grida! Per quanto io sapessi descrivervi bene una falconcella,
nessuno al mondo riuscirebbe a figurarsene un'altra pari per bellezza di piume e per grazia di forme e per
ogni pregio che si possa considerare. Pareva una falconcella pellegrina giunta da terre lontanissime, ma ora,
stando là a quel modo, andava sempre più languendo per mancanza di sangue ed era quasi sul punto di
cadere dall'albero.
Canace, la bella figlia del re, che portando al dito il misterioso anello capiva chiaramente tutto ciò che un
qualsiasi uccello potesse dire nel suo linguaggio e in quello stesso linguaggio sapeva rispondergli, appena
comprese quanto diceva la falconcella, per poco non morì di compassione! Andò di corsa presso l'albero e,
contemplando pietosamente la falconcella, tese aperto il lembo della veste: la falconcella sarebbe ormai
caduta dal ramo, appena avesse perso ancora un po' di sangue. E rimanendo così in attesa, rivolse alla
falconcella queste parole, ascoltate:
«Per quale motivo, se è lecito, vi trovate in questa furiosa pena d'inferno?» chiese Canace alla falconcella
su in alto. «E per dolore di morte o perdita d'amore? Sono questi infatti, secondo me, i due motivi che per
lo più affliggono un cuore gentile; d'altri dispiaceri non conta neppur parlare... Siccome siete voi che
v'accanite contro voi stessa, è chiaro che dev'essere l'ira o il terrore a spingervi a tanta crudeltà; non vedo
nessuno infatti che vi tormenti... No, per amor di Dio, abbiatevi riguardo!... Ditemi piuttosto, che cosa
potrebbe esservi d'aiuto? Non ho mai visto al mondo prima d'ora uccello o altro essere accanirsi così
miseramente contro se stesso! Voi mi uccidete col vostro stesso dolore, tanta è la compassione che ho per
voi. Per amor di Dio, scendete da quell'albero! Quant'è vero che sono la figlia di un re, se soltanto riuscissi a
sapere la causa del vostro male, farei il possibile per porvi rimedio prima che fosse troppo tardi, così m'aiuti
il gran Dio dell'universo! Presto... andrò a cercare erbe per curarvi subito le ferite!»
La falconcella allora, gemendo più che mai pietosamente, cadde di colpo a terra, dove rimase svenuta,
morta, come una pietra : Canace la raccolse in grembo e ve la tenne finché quella non cominciò a
riprendersi; e tornando in sé dallo svenimento, ecco quel che disse nel suo linguaggio di falconcella:
«Che a cuor gentile pietà corra veloce sentendo i propri simili penare, come si vede, è dimostrato ogni
giorno dai fatti oltre che star scritto in autorevoli libri: cuor gentile emana dunque gentilezza... Ben
comprendo che voi abbiate compassione del mio dolore, bella mia Canace, per quella pura bontà di donna
che la natura ha posto in voi come precetto. Non è ch'io speri ormai di stare meglio, tuttavia per obbedire
al vostro cuore generoso e perché altri imparino da me come attraverso il cucciolo si metta in guardia il
leone, (17) per questo solo motivo e a questo scopo, finché ne ho tempo e occasione, voglio, prima di
morire, confessare la mia pena.»
E mentre costei diceva il suo dolore, l'altra piangeva come se stesse per tramutarsi in acqua. Pregandola
dunque di calmarsi, così, in un sospiro, la falconcella sfogò il suo animo:
«Appena nata (me sventurata, quel giorno!), venni allevata in una roccia di marmo grigio, teneramente e al
riparo da tutto: non sapevo neppure che cosa fossero le avversità, finché non imparai a volare in alto per il
cielo... Viveva allora accanto a me un terzuolo, che pareva la fonte stessa della gentilezza, pur essendo
pieno d'inganni e di tradimenti: sapeva ammantarsi così bene d'umiltà, sapeva tingersi così a modo
d'onestà, di piacevolezze e di premure, che nessuno avrebbe mai pensato che fingesse, intrisa com'era la
sua apparenza in tutti quei colori, proprio come un serpente che si nasconde sotto i fiori finché non gli pare
il momento di mordere, quest'ipocrita dio dell'amore faceva complimenti e cerimonie, osservando
esteriormente tutte le forme che si richiedono nel corteggiare. Come in una tomba, sapete, sopra tutto è
bello e sotto c'è il cadavere, così quest'ipocrita era focoso e freddo nello stesso tempo. E seguiva in questo
modo il suo scopo, senza che nessuno, all'infuori del demonio, riuscisse mai a sapere quel che voleva. Alla
fine, dopo tutti i suoi pianti e i suoi lamenti e dopo che per anni lui finse d'essermi devoto, il mio cuore
troppo pietoso e sciocco, completamente ignaro della sua suprema malizia, preoccupato anzi che potesse
morire, dopo tutte le sue promesse e i suoi giuramenti, gli concedette il mio amore, a condizione però che il
mio onore e la mia reputazione fossero sempre salvi, sia in pubblico che in privato. Insomma, credendo ai
suoi meriti, gli diedi tutto il mio cuore e ogni mio pensiero (Dio e lui stesso sanno che altrimenti non avrei
saputo fare!) e presi il suo cuore in cambio del mio per sempre. Ma dice bene il vecchio proverbio: il
galantuomo e il ladro non la pensano alla stessa maniera... Quando lui vide che le cose erano arrivate al
punto che gli avevo concesso tutto il mio amore, nel modo che vi ho detto, e che gli avevo dato il mio cuore
sincero con quella generosità con cui lui giurava d'avermi dato il suo, allora quella tigre colma d'impostura
si prostrò in ginocchio con tale devota umiltà e così profondo ossequio, che a vederlo pareva proprio un
cortese innamorato e fosse come in estasi per la gran gioia. Neppure Giasone (18) o Paride di Troia (19)
(...ma che dico Giasone? nessuno fin dai tempi di Lamech (20) che, come sta scritto, fu il primo ad
innamorarsi di due donne...), nessuno insomma da quando nacque il primo uomo, fu mai capace d'imitare,
nemmeno per la ventimillesima parte, i sofismi della sua arte; nessuno fu mai degno di slacciargli i sandali
in quanto a doppiezza, o di stargli vicino in quanto a finzione. E come sapeva dimostrarsi riconoscente! Le
sue maniere avrebbero mandato in visibilio qualsiasi donna, per saggia che fosse, tant'era la squisitezza con
cui sapeva dipingere e addolcire i suoi modi e le sue parole. E tanto io l'amavo, per quella sua devozione e
per la sincerità che credevo nel suo animo, che, qualunque cosa l'avesse rattristato, seppure leggermente,
appena lo sapevo, mi pareva di sentirmi la morte dentro il cuore. In somma, le cose arrivarono al punto,
che la mia volontà divenne strumento della sua; la mia volontà, cioè, obbediva ormai alla sua in tutto, fin
dove arrivava la ragione, naturalmente, sempre restando entro i confini dei mio onore. Non avevo mai
avuto nulla di più caro di più amabile di lui, e Dio sa che non l'avrò mai!... Questo durò per più d'un anno o
due, senza che di lui io non pensassi altro che bene. Ma alla fine, mentre ancora così stavano le cose, il caso
volle che lui dovesse partire dal posto dove abitavamo. Non chiedetemi quanto dolore provassi, perché
intanto non saprei descriverlo. Posso soltanto dirvi che imparai allora che cosa vuol dire dolore di morte,
perché è quello che provai quando lui non poté più rimanere. Così un giorno mi disse addio, e lo fece in un
modo così triste, che, vedendolo impallidire mentre parlava, credetti veramente ch'egli soffrisse quanto
me. Ma poi, sempre credendo che fosse sincero, pensai che in realtà non avrebbe potuto star lontano
molto, e ch'era giusto che partisse per farsi onore, come tanti altri: insomma, facendo di necessità virtù, mi
rassegnai, giacché così ormai doveva essere. Gli nascosi come meglio seppi il mio dolore e, prendendolo per
mano lo giuro per San Giovanni, così gli dissi: 'Ecco, sono completamente vostra; siate con me come io sono
stata e sempre sarò con voi!'. Non c'è bisogno che vi ripeta che cosa rispose. Chi meglio di lui sapeva
parlare, per poi agire nel peggior modo? Tanto, quand'ebbe ben parlato, fece come volle. Ah, dicono che ci
vorrebbe un cucchiaio molto lungo, per mettersi a mangiare con un demonio. Alla fine dunque se ne andò
per la sua strada, volando finché non arrivò dove a lui garbava. E appena poté riposarsi, scommetto che gli
venne in mente quel proverbio che dice: 'Chiunque torna a sua natura, gode...' così mi pare che dica. Gli
uomini, per loro natura, amano ciò che è nuovo, e questo vale anche per gli uccelli che si tengono in gabbia.
Anche se ti prendi cura di loro notte e giorno, e nella gabbia ci metti paglia pulita e soffice come la seta, e li
mantieni a zucchero, miele, pane e latte, pure, appena lo sportello rimane alzato, ecco che quelli
rovesciano subito la coppa con la zampa e se ne scappano nel bosco a mangiar vermi, tanto piace loro
cibarsi di cose nuove e a tal punto amano le novità; non c'è nobiltà di sangue che possa trattenerli... Così,
ahimè, fece il terzuolo quel giorno! Per quanto fosse di nobili natali, giovane, gaio, piacente da guardare,
umile e generoso, vide una volta volare una sparviera, e di questa s'innamorò improvvisamente tanto, che
tutto il suo amore per me era bell'e andato ed egli venne meno ad ogni sua promessa... Ecco dunque che il
mio amore è devoto a una sparviera ed io senza rimedio sono abbandonata!»
Così dicendo, la falconcella riprese a piangere e svenne di nuovo in grembo a Canace.
Immenso fu il dolore che provarono Canace e le sue donne per la sventura della falconcella, che ormai
nessuno avrebbe potuto consolare.
Ma poi Canace la portò in grembo a casa e dolcemente la fasciò con alcune bende nei punti in cui s'era
ferita col becco. Non fece che strappar erbe dal terreno e preparar nuovi e preziosi balsami dai bei colori,
con cui curare la falconcella. Dandosi dal mattino alla sera d'attorno il più possibile, costruì a capo del letto
una gabbietta e la ricoperse di velluto azzurro, simbolo della fedeltà che s'incontra solamente nelle donne;
all'esterno la gabbia venne dipinta di verde e vi furono rappresentati tutti gli uccelli traditori, come
scriccioli, terzuoli e gufi, e accanto a loro, per disprezzo, vennero dipinte gazze che stridevano e li
rampognavano...
Ma lasciamo così Canace a curare la sua falconcella. Non vi parlerò più per ora del suo anello, fin quando
non verrà a proposito per dire come la falconcella riavesse il suo amore pentito secondo quanto narra la
storia, per mediazione di Cambalo, il figlio del re di cui vi ho già detto. D'ora innanzi m'intratterrò invece a
parlare d'inaudite avventure e battaglie meravigliose. Vi dirò prima di Cambiscano, che conquistò ai suoi
tempi svariatissime città; vi parlerò poi di Algarsife e di come si guadagnasse in moglie Teodora, per la
quale si sarebbe trovato più volte in gran pericolo, se non fosse stato soccorso dal cavallo di bronzo; e vi
parlerò infine di Cambalo (21) che combatté in lizza coi due fratelli per Canace, prima di poterla
conquistare. Ricominciamo dunque da dov'eravamo rimasti.
EXPLICIT SECUNDA PARS.
INCIPIT PARS TERCIA.
Apollo scaglia in alto il suo carro, fin nella casa del dio Mercurio, l'astuto...
Qui seguono le parole dell'Allodiere allo Scudiero,
e le parole dell'Oste all'Allodiere.
«In fede mia, Scudiero, te la sei cavata bene e con onore. Mi congratulo per il tuo ingegno!» disse
l'Allodiere. «Considerando la tua età, messere, tu sai parlare, e come! Secondo me, non c'è nessuno qui
che, se tu continuerai, ti sarà pari in eloquenza... e Dio ti mandi buona fortuna e ti faccia proseguire sulla
via della virtù! M'ha fatto gran piacere sentirti parlare. Anch'io ho un figlio, ma, Trinità Santissima, non so
quanto pagherei (anche venti sterline di terreni che mi capitassero ora subito in mano...) purché fosse un
uomo della tua discrezione! A che servono intanto le terre, se all'uomo manca la virtù? Io l'ho
rimproverato, questo mio figlio, e chissà quante volte dovrò ancora farlo, perché non vuol saperne d'essere
virtuoso: non fa altro che giocare a dadi, spendendo e spandendo tutto quello che ha. E preferisce ciarlare
con un garzone qualsiasi, piuttosto che intrattenersi con qualche gentiluomo, da cui potrebbe imparare un
po' di maniere...»
«Accidenti alle vostre maniere!» disse il nostro Oste. «Ma via, Allodiere, perdio... sapete bene, messere,
che ciascuno di voi deve narrare almeno uno o due racconti, se non vuol mancare alla sua promessa.»
«Questo lo so bene, signor mio,» disse l'Allodiere «ma vi prego, non prendetevela se scambio una parola o
due con quest'uomo.»
«E invece narrate il vostro racconto senza far tante parole!»
«Va bene, messer Oste,» fece quello «obbedirò al vostro ordine. Ascoltate dunque quanto sto per dire...
non è ch'io voglia contrariarvi; soltanto spero d'esserne in grado, e prego Iddio che possa piacervi, perché in
tal caso saprei che qualcosa vale».
Note del "Racconto dello scudiero".
(*). Il "Racconto dello Scudiero" (la cui data di composizione dovrebbe aggirarsi intorno al 1393-94 o ancora
più tardi), pur nella sua incompiutezza, si può distinguere in almeno due parti. La prima, d'ambiente
orientale, sembra potersi far risalire ai "Viaggi di Marco Polo" (ma resoconti simili sull'impero mongolico
erano comuni nell'Europa occidentale nei secoli tredicesimo e quattordicesimo). L'episodio della falconcella
presenta, invece, una situazione analoga a quella già descritta dal Chaucer nel suo "Lamento della bella
Anelida e del falso Arcita" (1372-73), la situazione, tutt'altro che rara nella letteratura medievale,
dell'amante abbandonata.
Nota 1. L'attuale Tzarev, nella Russia sudorientale. Fondata da Batu Khan nel tredicesimo secolo, diventò
una fiorente capitale dell'impero dei tartari.
Nota 2. Questo nome è stato identificato da alcuni con quello di Gengis Khan, il fondatore dell'impero
mongolico; da altri con quello di Kublai Khan, suo nipote, che regnò a Cambaluc, l'attuale Pechino.
Storicamente, invece, dovrebbe trattarsi di un altro nipote di Gengis Khan, e cioè Batu Khan, il quale in
effetti mosse guerra contro la Russia ed ebbe la sua corte a Tzarev, di cui fu il fondatore.
Nota 3. Le figure retoriche.
Nota 4. Ser Galvano, nipote di re Artù, era il modello d'una cortesia cavalleresca che già ai tempi del
Chaucer era in declino e quindi «antica».
Nota 5. Che il contegno dell'oratore si dovesse accordare con le sue parole, era, fin dai tempi di Orazio ("Ars
Poetica"), uno dei precetti più comuni della retorica. Tale precetto venne ripreso da Geoffroi de Vinsauf,
maestro del Chaucer ("De Modo et Arte Dictandi et Versificandi").
Nota 6. La Lombardia e le Puglie erano famose per i loro cavalli: quelli lombardi per la loro forza quelli
pugliesi per la purezza della loro razza.
Nota 7. Al tempo dei Chaucer, i più noti cantori della guerra di Troia, oltre a Virgilio, erano Guido delle
Colonne ("Historia Destructionis Troiae", 1287) e Benoit de Sainte Maure ("Roman de Troie", dodicesimo
secolo).
Nota 8. Secondo la tradizione medievale ("Libro dei Sette Savi"), Virgilio stesso avrebbe ideato a Roma uno
straordinario specchio magico.
Nota 9. Alhazen è la forma latinizzata dei nome di Ibn al-Haitham (circa 965-1039), fisico, matematico e
astronomo arabo, famoso soprattutto per i suoi studi sull'ottica.
Nota 10. Vitello (o Witelo), fisico polacco dei tredicesimo secolo, tradusse di Alhazen il trattato sull'ottica
("Opticae Thesaurus").
Nota 11. Telefo, re di Misia, fu ferito da Achille e poi guarito con la ruggine della stessa lancia. La tradizione,
secondo la quale una ferita prodotta dalla lancia d'Achille non potesse essere guarita che con un altro colpo
della lancia stessa, si ritrova in Ovidio ("Tristium" V, 2, 15; "Metamorfosi", XII, 112) e in Dante ("Inferno",
XXXI, 4-6).
Nota 12. Nel Medioevo Mosè e Salomone erano considerati, soprattutto dagli Arabi, abili negromanti.
Nota 13. Stella di prima grandezza nella costellazione del Toro.
Nota 14. Gli amanti.
Nota 15. Col famoso cavaliere della Tavola Rotonda, amante della regina Ginevra, morte erano, per il
Chaucer, tutte le figure dei cicli cavallereschi.
Nota 16. Secondo la scienza medica del tempo, per sei ore dopo la mezzanotte prevalevano nel corpo gli
umori sanguigni.
Nota 17. Riferimento ad un comune proverbio inglese: «Picchia il cane per spaventare leone». Si ritrovano
le stesse immagini di Shakespeare ("Otello", II, 3, 275).
Nota 18. Giasone, dopo aver conquistato il vello d'oro con l'aiuto di Medea, l'abbandonò per Glauce.
Nota 19. Paride abbandonò Enone per Elena.
Nota 20. Lamech, discendente di Caino, ricordato anche dalla Comare di Bath nel suo Prologo, ebbe due
mogli, Ada e Zilla.
Nota 21. Dovrebbe trattarsi d'una persona diversa dal Cambalo già menzionato.
Prologo
DELL'ALLODIERE.
Prologo al Racconto dell'Allodiere.
Ai tempi loro, gli antichi e nobili bretoni componevano su varie avventure dei "lai", (1) rimandoli nella loro
lingua bretone primitiva, e cantavano questi "lai" accompagnandosi coi loro strumenti, oppure per
passatempo li leggevano: io ne ho in mente uno, che ora con tutta la buona volontà racconterò a voi...
Però, signori, siccome sono un uomo alla buona, vi prego subito fin da principio di scusarmi se parlo in
modo grossolano. Non ho mai studiato retorica, questo è certo; quel che dico dev'essere semplice e piano.
Non ho mai dormito sul monte del Parnaso, né imparato Marco Tullio Sciterone. (2) Di colori poi non me ne
intendo affatto, tranne di quei colori che crescono sul prato, ovvero di quelli con cui si tinge e si pittura. (3)
I colori della retorica per me sono strambi; è roba per cui il mio spirito non sente nulla. Ma, se vi fa piacere,
state a sentire il mio racconto.
RACCONTO DELL'ALLODIERE (*).
Qui comincia il Racconto dell'Allodiere.
Nell'Armorica che sì chiama ora Bretagna, c'era una volta un cavaliere che amava una dama e si dava pena
di fare del suo meglio per servirla, affrontando per questa sua dama molte fatiche e molte grandi imprese,
nella speranza di poterla conquistare. Lei infatti, oltre ad essere la più bella ch'esistesse sotto il sole,
discendeva da così nobile stirpe, che questo cavaliere, per timore, non osava confessarle il suo spasimo, la
sua pena e il suo tormento.
Ma alla fine, per via dei meriti che lui seppe acquistarsi, soprattutto con la sua umile obbedienza, lei fu
presa da tale pietà per il suo soffrire, che acconsentì a prenderlo per marito e suo signore, promettendogli
in segreto quell'autorità che gli uomini hanno sulle loro mogli.
Lui allora, affinché la loro vita trascorresse ancor più lietamente, di sua libera volontà le giurò, da vero
cavaliere, che mai in vita sua, né di giorno né di notte, le avrebbe imposto i suoi diritti di marito, né le
avrebbe dimostrato gelosia, ma l'avrebbe obbedita seguendo in tutto il suo volere, come ogni amante deve
fare con la sua dama; soltanto di nome avrebbe preteso autorità, semplicemente per non smentire il
proprio grado.
Lei lo ringraziò e con grandissima umiltà gli disse: «Messere, giacché per vostra nobiltà d'animo mi
concedete così libero comando, Dio non voglia che, per mia colpa, possa mai esserci discordia o contrasto
fra noi due. Messere, io sarò la vostra umile e fedele moglie finché avrà battiti il mio cuore, ve lo prometto
sinceramente».
E fu così che tutt'e due in pace si misero d'accordo...
Una cosa, infatti, signori miei, posso dire con certezza: che fra amici bisogna ubbidirsi a vicenda, se si vuole
a lungo rimanere insieme. L'amore non vuol essere costretto alla forza. Appena interviene la forza, ecco che
il dio dell'amore batte le ali e, addio, se ne va! L'amore è qualcosa di libero, come uno spirito. Le donne, per
natura, desiderano la libertà, e non essere vincolate come schiave; e così gli uomini, a dir proprio il vero...
Guardate in amore chi è più paziente: quello ha i vantaggi maggiori. Somma virtù è infatti la pazienza,
perché, come dicono i dotti, essa ottiene cose che l'intolleranza non otterrebbe mai. Non si può aggredire e
lagnarsi a ogni parola... Imparate a sopportare, altrimenti, vi assicuro, dovrete poi impararlo anche contro
voglia: perché non c'è nessuno, a questo mondo, che non faccia o non dica qualcosa di sbagliato. La rabbia,
i malanni, le costellazioni, il vino, il dispiacere o i cambiamenti d'umore ci fanno molto spesso agire o
parlare a sproposito. Non si può vendicare ogni torto. Chi vuol comandare, deve sapersi moderare secondo
le circostanze. Ecco perché quel saggio e valente cavaliere, per vivere in pace, le promise d'esser paziente, e
lei molto saggiamente s'impegnò a non farsi mai trovare in fallo. E' chiaro che quello fu un accordo d'umiltà
e di buon senso, mediante il quale lei ebbe in lui il suo servo e il suo signore: servo in amore e signore nel
matrimonio; e lui si trovò a un tempo in signoria e in servitù... servitù? no davvero, ma in suprema signoria,
perché la sua signora era anche il suo amore; sua signora, certo, ma anche sua moglie, secondo quanto
consente la legge sull'amore.
Trovandosi dunque in questa fortunata condizione, egli se ne tornò con sua moglie al suo paese, non
lontano da Penmarch, (4) dov'era la sua casa, e là visse felice e contento... Chi potrebbe mai dire, se non chi
è ammogliato, la gioia, l'agevolezza e la felicità che un marito gode insieme con sua moglie? Un anno e più
durò questa beata vita, finché il cavaliere di cui parlo, che si chiamava Arvirago di Kayrrud, (5) decise di
trasferirsi per un anno o due in Inghilterra, detta allora Britannia, per cercare nelle armi gloria e onore,
giacché in tali fatiche appunto egli riponeva ogni sua aspirazione. E vi rimase per due anni, questo almeno è
quanto sta scritto...
Ma lasciamo per ora questo Arvirago e parliamo invece di sua moglie, Dorigene, che amava il marito come
la vita stessa del suo cuore. Mentre lui era assente, lei piangeva e sospirava, come sanno fare queste nobili
mogli quando vogliono... Piangeva, non dormiva, gemeva, non mangiava e si lamentava sempre; aveva
tanta voglia di rivederlo, che non le importava più nulla del mondo intero! Gli amici, comprendendo i suoi
tristi pensieri, cercavano di confortarla come meglio potevano; la esortavano, le ripetevano notte e giorno
che lei, ahimè, si struggeva senza ragione; le porgevano, insomma, tutti i conforti del caso, per distoglierla
dalla sua pena.
A poco a poco, come sapete, a forza di battere, anche una pietra si lascia plasmare... Così essi tanto
batterono con i loro incoraggiamenti, che alla fine, spinta dalla speranza e dalla ragione, lei si lasciò
plasmare dal loro conforto, e il suo gran dolore incominciò a calmarsi. Non poteva continuare sempre in
quella disperazione!... Arvirago poi, in quel frattempo, qualche lettera a casa gliela mandava, dicendo che
stava bene e che presto sarebbe ritornato: se non fosse stato per questo, il dolore le avrebbe certo
spezzato il cuore... Quando videro ch'era meno disperata, gli amici incominciarono a pregarla in ginocchio
d'andare, per amor di Dio, a fare qualche passeggiata con loro per cacciare i suoi oscuri timori. E finalmente
cedette a questa richiesta, rendendosi conto ch'era per il meglio.
Ora il suo castello sorgeva vicino al mare, e spesso lei, per distrarsi, andava con gli amici a passeggiare sul
ciglio delle rupi, e di lassù vedeva far vela molte navi e imbarcazioni, che partivano seguendo ciascuna la
propria rotta... Ma poi anche questo diventò per lei motivo di dolore: 'Ahimè!' spesso fra sé diceva 'fra
tante navi che vedo, non ce n'è una che porti a casa il mio signore? Soltanto allora il mio cuore guarirebbe
di tutte le sue amare pene...'.
A volte, sedendosi a pensare, si chinava a guardare l'orlo delle rupi. Ma quando scorgeva le orrende rocce
nere, le tremava talmente il cuore di paura, che lei non aveva più la forza di reggersi. Allora s'abbatteva
sopra il verde e, guardando tristemente il mare, così diceva con gelidi sospiri di sconforto:
«Eterno Iddio, che con la tua provvidenza reggi il mondo e lo governi, si dice che tu non abbia creato nulla
invano... perché invece hai prodotto un'opera senza ragione come queste orribili infernali rocce nere, le
quali sembrano più il risultato d'uno spaventoso pandemonio che la bella creazione d'un Dio così perfetto,
saggio ed equilibrato? Non c'è infatti a sud, a nord, a ponente o a levante, nessun uomo, uccello o altro
animale, che da quest'opera tragga vantaggio: essa non serve a nessuno, ch'io sappia, anzi è causa di
sventura. Non vedi, Signore, quanta gente ne viene sterminata? Centomila esseri umani sono morti fra
quegli scogli, anche se ora nessuno più se ne ricorda, esseri umani che formano la miglior parte della tua
creazione e che tu facesti a tua immagine e somiglianza... Sembrò allora che tu provassi grande amore per il
genere umano... ma perché tu poi creasti questi mezzi di distruzione, questi mezzi che non recano alcun
bene, ma soltanto male? I dotti coi loro argomenti possono sostenere come vogliono che tutto è per il
meglio in questo mondo, io però non comprendo come... Ma quel Dio che fece i venti perché soffiassero,
protegga ora il signor mio! Questo soltanto in fondo io chiedo. Si tengano i dotti le loro dispute, ma Dio
voglia che tutte queste nere rocce sprofondino per amor suo nell'inferno! Esse mi fanno morire il cuore di
paura...» Così diceva con molte pietose lacrime.
Gli amici, vedendo che quelle passeggiate lungo il mare non erano per lei uno svago, ma un tormento,
pensarono di portarla a distrarsi in qualche altro posto. La condussero presso fiumi e sorgenti e altri
incantevoli luoghi; e danzarono e giocarono a scacchi e a dama.
Così un giorno, di buon mattino, andarono in un giardino dei dintorni, dove avevano fatto preparare cibi e
provviste d'ogni sorta, per rimanervi a ricrearsi fino alla sera. Era il sesto mattino di maggio, e maggio con le
sue lievi piogge aveva dipinto tutto il giardino di foglie e fiori, e la mano maestra dell'uomo l'aveva
adornato così splendidamente, che non vi fu mai di sicuro un altro giardino di tanto pregio, all'infuori dello
stesso paradiso. Il profumo e la fresca visione dei fiori avrebbero rallegrato qualsiasi cuore al mondo, che
non fosse oppresso da qualche grave malattia o da qualche grave dispiacere, tanto quel giardino era pieno
di bellezza e d'ogni grazia... Dopo il pranzo quelli incominciarono a ballare e a cantare, tutti all'infuori di
Dorigene, che invece si tormentava e si crucciava, perché fra coloro che danzavano non vedeva il suo sposo
e il suo amore. Ma una buona volta doveva pur aver tregua anche lei, e lasciar correre il dolore alla
speranza!...
Durante il ballo, fra gli altri, s'era messo a danzare proprio di fronte a Dorigene uno scudiero, che, a parer
mio, d'aspetto era più gaio e fresco del mese di maggio. Egli cantava e ballava meglio di chiunque fosse mai
vissuto al mondo. Ed era veramente, a doverlo descrivere, uno degli uomini più attraenti che fossero mai
esistiti: giovane, forte, virtuosissimo, ricco, saggio, ben voluto e tenuto di gran conto... Insomma, per dirvi
proprio come stavano le cose, senza che Dorigene se ne fosse mai accorta, questo piacente scudiero, servo
di Venere, che si chiamava Aurelio, da più di due anni (guarda il destino!) l'amava sopra ogni altra creatura
al mondo, ma non aveva mai osato confessarle il suo tormento, inghiottendosi così tutta quanta la sua
pena. Pur nella sua disperazione, non aveva mai avuto il coraggio di parlare di nulla: soltanto nei suoi canti
aveva talvolta dato sfogo al suo dolore, in un generico compianto, dicendo d'amare senza essere riamato;
anzi, su questo tema aveva composto "lai", canzoni, lamenti, rondelli e ballate, in cui diceva come non
osasse dichiarare il suo tormento, ma soffrisse le furiose pene di un'anima all'inferno, costretto ormai a far
la fine di Eco che morì per Narciso, senza riuscire a confessargli le proprie sofferenze. (6) Diversamente, con
lei non s'era mai arrischiato ad accennare alla propria passione, eccetto talvolta ai balli, quando i giovani si
danno alle galanterie: può darsi benissimo che in simili occasioni lui l'avesse fissata negli occhi come
qualcuno che chiede una grazia, ma lei non s'era mai resa conto delle sue intenzioni.
Questa volta però, prima che la festa fosse terminata, trovandosi tutt'e due vicino, e lei conoscendolo
ormai da anni come uomo di merito e d'onore, accadde che si mettessero a conversare. E così
avvicinandosi sempre più al suo scopo, appena il momento gli parve opportuno, Aurelio le disse:
«Madonna, io vi giuro, per quel Dio che ha creato il mondo, che se avessi saputo di far contento il vostro
cuore, il giorno in cui il vostro Arvirago se ne partì oltremare, io, Aurelio, me ne sarei andato senza mai più
tornare indietro. Capisco infatti che tutta la mia devozione per voi è inutile; non mi rimane altro compenso
che lo strazio del mio cuore... Signora, abbiate pietà delle mie atroci pene: con una parola voi potete
uccidermi o salvarmi! Non posso dirvi di più per ora... Ma abbiate pietà, dolce signora, o mi farete morire!».
Lei guardò stupita Aurelio: «E' questo che volete ...» disse «e me lo dichiarate in questo modo? In passato
non avevo mai capito le vostre intenzioni, ma ora, Aurelio, so qual è il vostro scopo. Ebbene, per quel Dio
che m'ha dato l'anima e la vita, non sarò mai una moglie infedele, mai, finché mi rimarrà la ragione! Sarò
sempre di colui al quale mi son legata: questa è la mia ultima risposta».
Ma poi, quasi per gioco, così seguitò: «Aurelio, via, mi fa pena vedervi afflitto in quel modo... Ebbene, per il
sommo Dio del cielo, vi prometto che sarò il vostro amore il giorno che farete sparire da cima a fondo della
Bretagna, pietra per pietra, tutte le rocce che impediscono alle navi e ai bastimenti di navigare! Vi assicuro
infatti che se ripulirete la costa di tutti gli scogli in modo che non si veda più neppure un sasso, allora
v'amerò più di qualsiasi altro uomo al mondo, vi do la mia parola!».
«Non mi concedete proprio nessun'altra grazia?» fece lui.
«Nessun'altra» disse lei «lo giuro su Dio che mi ha creato! So bene infatti che questo non accadrà mai.
Toglietevi dal cuore simili follie. Che soddisfazione può avere in vita sua un uomo ad amare la moglie d'un
altro, il quale può possederla quando vuole?»
L'infelice Aurelio sentendo questo, sospirò più volte penosamente e col dolore nel cuore rispose: «Certo,
madonna, questo è impossibile! A me non rimane dunque che morire subito di morte orrenda...». E così
dicendo, se ne andò via immediatamente.
A lei intanto s'unirono diversi altri amici, e insieme passeggiarono su e giù per i viali, senza che alcuno
s'accorgesse di quant'era accaduto, e presto incominciarono nuovi divertimenti fin quando il sole non perse
il suo colore. L'orizzonte infatti gli aveva portato via la luce (il che equivale a dire ch'era notte!), e allora
tutti se ne tornarono a casa allegri e contenti, salvo, ahimè, l'infelice Aurelio.
Costui a casa se ne tornò con l'animo sconvolto, sicuro ormai di non poter scampare alla morte, il cui gelo
gli pareva già di sentirsi al cuore. Con le mani al cielo e le ginocchia sulla nuda terra, si mise delirando a
recitare le sue orazioni, completamente fuori di sé per il dispiacere. Non sapeva neppure lui quel che
dicesse; tuttavia ecco come parlava, rivolgendo col cuore affranto il suo lamento agli dèi, e prima d'ogni
altro al sole: «Apollo, dio e sovrano d'ogni pianta, erba, albero e fiore, tu che nella tua declinazione dai a
ciascuno di loro il suo tempo e la sua stagione semplicemente mutando in alto o in basso la tua sede, Febo
signore, rivolgi il tuo occhio misericordioso all'infelice Aurelio, a me che altrimenti sono perduto! Ecco,
signore, la mia donna ha giurato che pur senza colpa io debba morire... ma la tua bontà abbia compassione
del mio morente cuore! Io so, Febo signore, che se soltanto vuoi, a parte la donna mia, tu puoi aiutarmi
meglio di chiunque. Ecco, lascia che ti spieghi come e in che modo puoi recarmi soccorso... Come ben sai,
signore, la tua beata sorella, Lucina la radiosa, che del mare è prima dea e regina (sebbene sia Nettuno il
dio del mare, lei di lui è imperatrice!) desidera sempre esser rianimata e accesa dal tuo fuoco, e ti segue
perciò avidamente; e così il mare, per sua natura, desidera seguire lei che è nello stesso tempo dea del
mare e di tutti i fiumi... Ebbene, Febo signore, ecco la mia preghiera (e tu fammi questa grazia o spezzami
altrimenti il cuore!): quando nella tua prossima opposizione ti troverai nel segno del Leone, pregala di
sollevare una marea così grande da ricoprire di almeno cinque tese la più alta roccia che ci sia nell'Armorica
Bretone, una marea che duri per due anni, in modo che con certezza io possa dire alla mia donna: 'Mantieni
la tua promessa, le rocce sono sparite!'... Febo signore, fammi questa grazia! Pregala di non correre più
rapida di te; prega tua sorella, dico, di non correre per due anni più rapida di te, ma di rimanere nel pieno
del suo splendore a mantenere notte e giorno l'alta marea... Se poi a lei non piace concedermi in questo
modo la dolce mia sovrana, pregala allora di sprofondare ogni roccia nella sua stessa regione sotterranea,
dove abita Plutone... altrimenti io non potrò mai conquistare la mia donna! Ti prometto che a piedi scalzi
andrò fino al tuo tempio di Delfo... Febo signore, guarda le lacrime sulle mie guance, abbi pietà del mio
dolore!».
Così dicendo cadde svenuto e rimase a lungo in deliquio. Suo fratello, il quale era al corrente delle sue
vicissitudini, lo prese e lo portò a letto. Ma lasciamo per ora quest'infelice in preda ai suoi tormenti e ai suoi
pensieri: per me, era lui che doveva decidere se vivere o morire...
Arvirago, intanto, sano e salvo e con grandi onori, dopo aver preso parte a molte imprese cavalleresche,
tornò in patria con altri valorosi. Oh, finalmente tu sei beata, Dorigene, ora che hai fra le braccia il tuo
intrepido marito, quel giovane cavaliere, quel prode uomo d'armi che t'ama come la vita stessa del suo
cuore!... A lui non venne neppure in mente che qualcuno, durante la sua assenza, avesse potuto farle
proposte d'amore; non aveva dubbi di questo genere. Senza dunque minimamente sospettare di nulla,
partecipò in compagnia di lei a danze e a tornei, mostrandosi sempre allegro. E così lasciamoli in questa
gioia e beatitudine, per tornare ad Aurelio che invece era malato.
Per più di due anni l'infelice Aurelio rimase a languire a letto fra atroci sofferenze, prima di poter mettere
un piede a terra. E in tutto questo periodo non ebbe altro conforto che quello di suo fratello, uomo assai
dotto, il quale era l'unico che comprendesse la sua pena e il suo tormento, anche perché a nessun altro egli
avrebbe mai osato parlare della faccenda. La teneva chiusa nel suo petto più segretamente di quanto
Panfilo (7) non nascondesse il suo amore per Galatea! Dall'esterno il suo petto appariva intatto, ma c'era
sempre nel suo cuore una freccia acuta... E voi sapete bene quanto sia difficile in chirurgia la cura d'una
ferita rimarginata solo in superficie, senza che si possa giungere a toccare la scheggia e a rimuoverla.
Suo fratello di nascosto piangeva e si crucciava, finché una volta non gli venne di pensare ai tempi in cui era
stato studente a Orléans, (8) in Francia, dove come tanti altri giovani, avidi di conoscere le arti occulte, s'era
dato a cercare in ogni angolo e per ogni dove il modo d'imparare strane scienze... e si ricordò che un giorno,
appunto a Orléans, aveva visto nello studio un libro di magia naturale, che un suo compagno, allora
studente in legge (il quale tuttavia si trovava là per fare tutt'altri studi...), aveva per caso dimenticato sul
tavolo. Questo libro parlava diffusamente delle operazioni relative alle ventotto mansioni della luna e
d'altre simili stramberie che al giorno d'oggi non valgono un moscerino, giacché la nostra fede nella Santa
Chiesa non ci permette d'essere ingannati da certe illusioni... Non appena si ricordò di questo libro, col
cuore che dava palpiti di gioia, disse fra sé: 'Mio fratello sarà presto guarito, perché sono sicuro che ci sono
scienze per mezzo delle quali si possono evocare apparizioni d'ogni genere, basta qualche abile
prestigiatore... Ho spesso sentito dire che in qualche festa questi prestigiatori hanno fatto apparire, in un
gran salone, uno specchio d'acqua con una barca, e si son messi a remare avanti e indietro fra le quattro
mura; talvolta hanno fatto comparire un feroce leone; tal altra hanno fatto spuntare fiori come in un prato;
ora, una vite con grappoli d'uva bianca e rossa; ora, un intero castello di calce e pietra. E quando vogliono
loro, tutto subito scompare, o almeno così sembra agli occhi della gente!... Insomma, penso che se potessi
trovare a Orléans qualche vecchio compagno che abbia in mente queste mansioni della luna o qualche altra
magia naturale ancora superiore, dovrebbe essere facile per lui far ottenere a mio fratello il suo amore. Con
l'illusione, infatti, un esperto potrebbe far sparire agli occhi della gente tutte quante le nere rocce della
Bretagna, permettendo alle navi d'andare e venire lungo la costa, e far durare tale apparenza per una
settimana o due... Mio fratello guarirebbe allora subito del suo male, perché lei sarebbe costretta a
mantenere la sua promessa, altrimenti lui potrebbe per lo meno svergognarla!».
Ma perché farla ancora tanto lunga? Costui si recò al letto del fratello e tanto lo pregò d'andare a Orléans
con lui, che quello s'alzò e si mise subito in viaggio, nella speranza di liberarsi delle sue pene.
Erano quasi giunti in quella città, a una distanza di due o tre miglia, quando incontrarono un giovane dotto
che passeggiava tutto solo, il quale li salutò cortesemente in latino e fece poi questa sorprendente
affermazione: «Conosco esattamente il motivo della vostra visita!». E lì su due piedi specificò tutto quello
che loro avevano in mente. Il dotto bretone chiese infine notizie dei compagni che aveva conosciuto ai
vecchi tempi e, quando seppe ch'erano morti, sbottò più volte in lacrime...
Aurelio scese intanto da cavallo e s'avvio con questo mago a casa sua, dove tutti si sistemarono
comodamente. Non vi mancavano i cibi più squisiti: era certo la casa meglio fornita che Aurelio avesse mai
vista in vita sua! Prima di cena il mago gli mostrò foreste e parchi pieni di caprioli selvaggi, dov'egli vide
cervi dalle lunghe corna, i più grandi che occhio umano avesse mai veduto, cento ne vide uccisi dai cani, ed
altri a colpi di freccia con crudeli ferite sanguinanti. E quando questi cervi furono scomparsi, vide alcuni
falconieri lungo un bel fiume, che coi loro falchi uccidevano l'airone. Vide poi dei cavalieri che giostravano
in una pianura. Quel mago gli procurò perfino il piacere d'intravedere la sua donna in una danza, alla quale
ebbe l'illusione di prender parte anche lui... operate tutte queste magie, visto che ormai il momento era
opportuno, quel maestro batté le mani e, addio, ogni incantesimo era sparito! Eppure nessuno s'era mosso
di casa per assistere a tutto questo spettacolo meraviglioso, ma ognuno era rimasto tranquillamente a
sedere nello studio, dov'erano parecchi libri e nessun altro all'infuori di loro tre.
Il mago chiamò allora il suo scudiero e gli disse: «E' pronta la nostra cena? E' passata quasi un'ora, mi pare,
da quando questi signori sono venuti qui con me nel mio studio dove sono i miei libri, e t'avevo ordinato di
preparar da mangiare...».
«Messere,» fece lo scudiero «quando volete, tutto è pronto... anche subito, se credete.»
«Allora andiamo a tavola» disse quello «è meglio. Anche gl'innamorati hanno qualche volta bisogno di
tregua...»
Dopo cena si misero a contrattare quale somma dovesse avere in compenso il mago, per rimuovere tutte le
rocce della Bretagna, dalla Garonna alla foce della Senna. Lui rese la cosa difficile e giurò, ancor che Dio lo
salvasse, che meno di mille sterline non avrebbe potuto chiedere, e che neanche per quella somma sarebbe
andato volentieri...
Aurelio invece, infervorato, replicò subito: «E vada per mille sterline! Darei via il mondo intero quant'è
tondo, se ne fossi padrone! Il contratto è fatto, d'accordo. Sarete puntualmente pagato, vi do la mia parola!
Ma ora badate di non trattenervi qui a far nulla e a perder tempo fin oltre domani».
«Non temete» disse il mago «contate pure sulla mia onestà.»
Quando gli parve opportuno, Aurelio se ne andò a letto e finalmente quella notte riuscì a riposare: un po'
per la stanchezza e un po' per la speranza di poter riuscire nel suo intento, il suo cuore addolorato ebbe
qualche tregua nel suo penare.
L'indomani, appena fu giorno, Aurelio e il mago accanto a lui presero la via che portava dritta nella
Bretagna e, giunti a destinazione, smontarono da cavallo. Era allora, come in certi libri si ricorda, la fredda,
gelida stagione di dicembre. Febo stava diventando vecchio ed era dei colore dell'ottone, lui che nella
declinazione calda aveva brillato coi bagliori sfolgoranti dell'oro fuso! Ma ora discendeva nel Capricorno,
dove ho ragione di dirvi che luccicava pallidissimo. Il gelo pungente, con la brina e con la pioggia, aveva
distrutto il verde d'ogni prato. Giano sedeva con la doppia barba accanto al fuoco e beveva vino dal suo
corno di bue; aveva davanti carne di cinghiale. Ed ogni buontempone ormai andava gridando: «Natale!...».
Aurelio fece dunque grandi feste al mago e lo trattò con tutti i possibili riguardi, pregandolo tuttavia
d'affrettarsi a toglierlo dalle sue atroci pene, altrimenti con una spada si sarebbe trafitto il cuore...
L'esperto negromante ebbe tanta compassione di quell'uomo, che si dette da fare giorno e notte quanto
poté, aspettando il momento propizio per mettere in opera il suo proposito, ch'era quello di creare
un'illusione, per mezzo d'un miraggio o d'un gioco di prestigio (io non me ne intendo di termini di magia!),
in modo che Dorigene o chiunque altro dovesse credere e ammettere che tutte le rocce della Bretagna
erano sparite o sprofondate sotto terra. Giunto finalmente il momento adatto alle stregonerie e ai malefici
della sua esecrabile arte, egli trasse fuori le sue tavole toledane, (9) corrette in modo che non mancasse
nulla, né gli anni conglobati né quelli sparsi, né le radici, né tutte le altre faccende, come i centri, gli
argomenti e i corrispondenti proporzionali, che gli servivano per tutte le sue equazioni. E prendendo come
punto di partenza l'ottava sfera, poté calcolare esattamente di quanto Alnath (10) si fosse allontanata dalla
testa dell'Ariete fisso, che si considera nella nona sfera; e calcolò tutto minuziosamente. Una volta trovata
la prima fase, derivò il resto per proporzione, e seppe di preciso a che ora sorgeva la luna e in che stadio e
in che porzione e tutto; apprese accuratamente quale fosse la fase della luna in rapporto alla sua
operazione, e fece tutte le possibili considerazioni necessarie agli incantesimi e ai sortilegi che a quei tempi
praticavano i pagani. Non indugiò quindi più a lungo, ma attraverso la sua magia, per una settimana o due,
sembrò che tutte le rocce fossero scomparse!
Aurelio, pur non sapendo ormai se sperare o meno d'ottenere il suo amore, aspettò notte e giorno il
miracolo. E appena vide che non c'era dubbio e che le rocce erano scomparse tutte, si gettò subito ai piedi
del mago e disse: «Io, misero infelice Aurelio, ringrazio voi, signore, e voi mia signora Venere, per avermi
liberato dalle mie mortali pene!».
E corse subito al tempio, dove sapeva che avrebbe veduto la sua donna; e là infatti, atteso il momento
opportuno, con cuore trepido e atteggiamento molto umile, salutò la sua amata sovrana: «Signora mia,» le
disse quell'infelice «io dovrei temervi, e invece vi amo con tutte le mie forze, sopra ogni altra creatura al
mondo! Se proprio non fosse che per voi ho tanto male da morire qui subito ai vostri piedi, non starei a
dirvi quanto io soffra: ma veramente non mi rimane che sfogarmi o morire. In realtà siete voi che mi
uccidete senza ch'io abbia commesso alcuna colpa! Ma, sebbene non v'importi nulla della mia morte,
riflettete prima di venir meno alla vostra parola; riflettete bene, per quel Dio che sta nei cieli, prima
d'uccidermi semplicemente perché vi amo! Signora, sapete bene quel che avete promesso... non che io
pretenda da voi, mia sovrana signora, altro diritto che non sia la grazia vostra, ma voi sapete benissimo quel
che avete promesso a me là in quel giardino... ricordate? mi deste la parola che m'avreste amato più di
qualsiasi altro uomo al mondo... per quanto io ne sia indegno, Dio sa che diceste proprio così! Ebbene,
signora, in questo momento, più che per salvare da morte il mio cuore, parlo per l'onor vostro: quel che voi
m'avete comandato, io l'ho eseguito! Se volete degnarvi, potete andare a vedere... Fate come credete, ma
ricordatevi della vostra promessa, perché, vivo o morto, mi ritroverete sempre! Sta dunque in voi farmi
vivere o morire... ma per parte mia vi assicuro che le rocce sono sparite!».
E se ne andò, mentre lei, sbigottita, rimase senza una goccia di sangue al viso; mai avrebbe immaginato di
cadere in una trappola simile. «Ahimè!» disse. «Che cosa doveva mai capitare! Non avrei mai pensato che si
potesse avverare una cosa tanto strana e incredibile! E' contro ogni legge di natura!»
E se ne tornò a casa, l'infelice donna, così piena di timori, che a fatica riusciva a camminare. E per uno o due
giorni di seguito non fece che piangere, lamentarsi, darsi alla disperazione... era una pena vederla. Non
spiegò, però, nulla a nessuno, giacché Arvirago era fuori città; ma con il volto pallido e l'espressione
dolorosa, parlando fra sé, ecco che cosa diceva, state a sentire: «Ahimè, con te, fortuna, io mi lamento, che
all'improvviso m'hai legata alla tua catena, da cui non vedo come potrò liberarmi se non con la morte o il
disonore! Non ho altra scelta... Ma preferisco perdere la vita, piuttosto che macchiarmi il corpo di vergogna
o riconoscermi sleale e perdere il mio buon nome! Con la morte almeno mi svincolo da tutto. Non si sono,
ahimè, già uccise parecchie mogli e fanciulle oneste piuttosto che peccare col loro corpo? Ma certo, quante
storie ne fanno testimonianza!... Quando i trenta tiranni, (11) pieni di malizia, durante un banchetto ad
Atene ebbero ucciso Fedone, ordinarono che le sue figlie fossero arrestate e condotte in ludibrio davanti a
loro, tutte nude, per soddisfare il loro turpe piacere, e le fecero danzare nel sangue del loro padre (Dio li
possa maledire!). Però quelle sventurate fanciulle, piene di paura, piuttosto che perdere la loro verginità, si
gettarono di nascosto dentro un pozzo e, come narrano i libri, si annegarono... Anche quelli di Messene (12)
fecero cercare e rintracciare cinquanta fanciulle di Sparta, sulle quali sfogare la loro libidine. Ma non ce ne
fu una in tutta la schiera, che non si uccidesse e saggiamente non scegliesse di morire, piuttosto che
lasciarsi offendere nella sua verginità. Perché allora dovrei aver paura di morire?... Ecco, guardate anche il
tiranno Aristoclide, (13) innamorato d'una fanciulla che si chiamava Stinfalide: quando una notte le venne
ucciso il padre, lei andò dritta al tempio di Diana, s'avvinghiò stretta alla sua statua e non volle più
allontanarsene. Nessuno riuscì a staccarle di là le mani, finché non fu uccisa sul posto. Ora se delle fanciulle
hanno avuto tanto orrore di farsi profanare dal turpe piacere dell'uomo, è ben giusto, mi sembra, che una
moglie, piuttosto che farsi profanare, si uccida... Che dire della moglie di Asdrubale che si tolse la vita a
Cartagine? Come vide che i romani avevano ormai preso la città, si buttò nel fuoco con tutti i suoi bambini,
preferendo morire che farsi oltraggiare da un romano (14)... E Lucrezia, ahimè, non si uccise anche lei a
Roma, quando fu violentata da Tarquinio, non reggendo alla vergogna di vivere dopo aver perduto il buon
nome? (15)... Anche le sette vergini di Mileto (16) si uccisero, strette d'angoscia e di terrore, piuttosto che
sottomettersi alle genti della Galizia... Più di mille storie, credo, potrei ancora ricordare su questo
argomento! Quando venne ucciso Abradate, (17) s'uccise anche la sua diletta sposa, lasciando scorrere il
suo sangue nelle profonde ferite aperte d'Abradate stesso, e disse: 'Almeno fin che posso nessuno
contaminerà il mio corpo!'... Perché citare altri esempi, se tante sono quelle che si sono uccise per non
essere disonorate? Concludo che anche per me sia meglio morire che perdere così l'onore. Pur di rimanere
fedele ad Arvirago, in qualche modo m'ucciderò, come fece la diletta figlia di Democione, che non volle
venir meno alla sua parola (18)... O Cedaso, che pena leggere come, ahimè, morirono le tue figliole, che si
uccisero per questa medesima ragione! (19) Stessa pena, se non maggiore, desta la fanciulla tebana che si
uccise per Nicanore, (20) spinta dal medesimo dispiacere... Fece lo stesso un'altra fanciulla tebana:
violentata da un macedone, rivendicò la propria verginità con la morte. Che dire della moglie di Nicerate,
(21) che si tolse la vita per lo stesso motivo?... Come anche ad Alcibiade fu fedele la sua amata, che preferì
morire piuttosto che lasciarne insepolto il corpo! (22)... Pensate che moglie fu Alceste!... E che dice Omero
della buona Penelope? Tutta la Grecia sa della sua castità! Sta anche scritto che Laodamia, dal giorno che a
Troia fu ucciso Protesilao, non volle più continuare a vivere (23)... Lo stesso posso dire della nobile Porzia:
non poté più vivere senza Bruto, al quale aveva donato tutto il suo cuore... La perfetta virtù d'Artemisia è
onorata in tutta la Barberìa (24)... O Teuta, regina, la tua castità di sposa può far da specchio a tutte le
donne! (25)... Lo stesso si può dire di Bilia, di Rodogana e di Valeria...» (26).
Così si lamentò Dorigene per un giorno o due, col fermo proposito d'uccidersi. Ma poi, la terza notte, tornò
a casa il valente cavaliere Arvirago, e le chiese perché piangesse così amaramente; e lei si mise a piangere
anche di più. «Ahimè» disse «non fossi mai nata! Io ho detto,» fece «io ho promesso...» E gli raccontò
quanto avete già sentito: non c'è bisogno che lo ripeta.
Il marito, senza mostrarsi minimamente offeso o preoccupato, le rispose e disse soltanto: «Dorigene, non si
tratta che di questo?».
«Sì, sì...» fece lei. «Dio m'aiuti, v'assicuro che non c'è altro! Ma è già fin troppo che Dio abbia voluto
questo...»
«Moglie mia,» disse lui «lasciate stare chi non c'entra... Ma forse tutto si sistemerà oggi stesso. Certo, voi
dovete mantenere la vostra parola! Dio dunque abbia piuttosto pietà di me... ma appunto per l'amore che
vi porto, preferirei morire, anziché voi non serbaste o manteneste la vostra promessa. La parola data è la
più alta cosa che un uomo debba rispettare...»
Così dicendo, egli scoppiò improvvisamente a piangere e soggiunse: «Vi proibisco, sotto pena di morte,
finché avrete vita e respiro, di parlare con qualcuno di questa faccenda! Sopporterò il mio dolore come
meglio potrò, senza dar segni di preoccupazione, in modo che la gente non debba pensare o supporre alcun
male di voi!».
E chiamò uno scudiero e una domestica: «Andate subito con Dorigene» disse «e accompagnatela senza
perdere tempo dove deve andare». E quelli presero e partirono, senza però avere alcuna spiegazione; a
nessuno egli avrebbe mai rivelato il proprio animo... Forse molti di voi, ne sono sicuro, lo crederanno un
uomo insensato, per questa sua idea di mettere la moglie in quel pasticcio. Ma prima d'incominciare a
compiangerla, ascoltate il racconto: potrebbe ancora darsi che avesse miglior fortuna di quanto non vi
sembri. Ad ogni modo, dopo aver sentito il racconto, giudicherete.
Volle dunque il caso che Aurelio, lo scudiero ch'era tanto innamorato di Dorigene, la incontrasse proprio nel
centro della città, lungo la via più frequentata, mentre lei stava andando verso il giardino, dove aveva fatto
la promessa. Anche lui era diretto verso quel giardino, giacché, a dir proprio la verità, lui la spiava ogni volta
che lei usciva per recarsi da qualche parte... Insomma, fosse o non fosse il caso, il fatto è che
s'incontrarono, e lui la salutò festosamente e le chiese dove stesse andando.
Lei, come svanita, gli rispose: «Ahimè, ahimè, vado, per ordine di mio marito, là nel giardino a mantenere la
mia promessa!».
Stupefatto per ciò che in realtà stava avvenendo, Aurelio provò in cuor suo gran compassione di lei e del
suo lamento, nonché del nobile cavaliere Arvirago che ordinava alla moglie di mantenere quanto aveva
promesso, tanto gli era odioso che lei mancasse di parola... E stretto al cuore da questo gran
compatimento, considerando che ciò fosse sotto ogni aspetto la miglior cosa, preferì rinunciare al piacer
suo, anziché commettere una così indegna villania contro tanta onestà e correttezza. E perciò in poche
parole disse: «Madonna, dite ad Arvirago signor vostro che, vedendo la sua grande nobiltà verso di voi
come pure la vostra desolazione, se lui preferisce il disonore (il che sarebbe ben commiserevole!) piuttosto
che voi manchiate di parola, ebbene, io preferisco sopportare per sempre le mie pene piuttosto che
infrangere l'amore fra voi due. Signora, io rimetto in mano vostra qualsiasi obbligo e qualsiasi impegno
abbiate preso con me prima d'ora, come fosse dal momento che siete nata. Vi do la mia parola: non vi
contesterò mai alcuna promessa, ed ecco, mi congedo dalla più fedele e onesta moglie ch'io abbia mai
conosciuto in vita mia». Ogni donna però stia attenta a far promesse! E si ricordi almeno di Dorigene. Ad
ogni modo non c'è dubbio che anche uno scudiero può compiere un atto di cortesia, proprio come un
cavaliere.
Lei lo ringraziò in ginocchio sulla nuda terra, e se ne tornò a casa da suo marito, e gli raccontò tutto quello
che mi avete sentito raccontare: vi assicuro ch'egli rimase contento oltre ogni dire. Ma perché farla tanto
lunga con questa storia?
Arvirago e sua moglie Dorigene vissero per tutta la vita sovranamente felici. Non vi fu mai alcun
risentimento fra loro due. Lui l'adorava come fosse una regina, e lei gli rimase per sempre fedele. E con
questi due ho finito.
Aurelio, invece, che ci rimise tutte le spese, maledisse il momento ch'era nato: «Ahimè» diceva «ahimè, ho
promesso al filosofo mille sterline di puro oro! Come farò? Vedo soltanto che mi sono rovinato! Dovrò
vendere il mio patrimonio e mettermi a mendicare; non posso rimanere a vivere in questo posto e far
vergognare di me tutti i miei parenti, a meno che non riesca a ottenere da lui migliori condizioni. Ad ogni
modo gli dirò di farmi pagare poco per volta, una data somma all'anno, e che gli sarò grato per la sua
grande cortesia. E manterrò la mia promessa, senza mentire».
Si avvicinò con triste cuore al suo scrigno, e portò al filosofo una quantità d'oro del valore press'a poco di
cinquecento sterline, e lo pregò di concedergli per cortesia un certo tempo per pagare il resto, dicendo:
«Maestro, posso vantarmi di non aver finora mancato alla mia parola. Il mio debito vi sarà sicuramente
pagato, anche se dovessi ridurmi a chiedere l'elemosina in camicia. Ma se volete concedermi, su garanzia,
due o tre anni per riscattarmi, ve ne sarei molto grato; perché altrimenti devo vendere il mio patrimonio;
non c'è altra via».
Il filosofo, molto serio, dopo aver ascoltato le sue parole, gli rispose dicendo: «Non ho forse mantenuto a te
la mia promessa?».
«Sì, certo, e molto lealmente» ammise l'altro.
«Non hai avuto la tua donna come volevi?»
«No, no» disse lui, e sospirò profondamente.
«Per quale motivo? Dimmelo se puoi.»
Aurelio incominciò la sua storia e gli disse tutto quello che avete già sentito: non c'è bisogno che lo ripeta.
Gli disse: «Arvirago, nella sua onestà, avrebbe preferito morire di dolore e di disperazione, anziché far
mancare sua moglie di parola». E gli parlò anche del dolore di Dorigene: come avesse in orrore d'essere una
moglie disonesta, e che avrebbe preferito perdere la vita quel giorno stesso, e che solo per ingenuità gli
aveva fatto la promessa, perché prima non aveva mai sentito parlare di magia. «...Per questo ebbi di lei
tanta compassione; e con la stessa generosità con cui l'aveva mandata a me, io la rimandai a lui. Questo è
tutto, non c'è altro da dire.»
Il filosofo rispose: «Caro fratello, ciascuno di voi s'è comportato con l'altro nobilmente. Tu sei uno scudiero,
ed egli è un cavaliere; ma Dio non voglia, nella sua beatitudine e potenza, che anche un uomo di studi non
riesca a compiere senza indugi una nobile azione come voi! Ecco, messere, ti condono le tue mille sterline,
come se tu uscissi dalla terra in questo momento e non mi avessi mai conosciuto prima d'ora. Infatti,
messere, io non prenderò un centesimo da te, per tutto il mio impegno né per tutta la mia fatica. Hai già
speso molto per il mio mantenimento. Questo basta, e ora, addio, buona fortuna!». E, preso il cavallo, se ne
andò per la sua strada. A voi, signori, vorrei ora farvi questa domanda: chi fu più generoso, secondo voi? Su
ditemelo, prima che si proceda oltre. A me non rimane altro, il mio racconto è finito.
Qui termina il Racconto dell'Allodiere.
Note del "Racconto dell'Allodiere".
Nota 1. "Lai" (dal celtico "lay" = canzone), componimento poetico, di carattere narrativo, diffuso in Francia
nel secolo dodicesimo, ispirato alle leggende del ciclo bretone.
Nota 2. Intende, naturalmente, Cicerone, il maestro dell'oratoria.
Nota 3. Il termine colore è qui riferito alla vita vegetale, alla pittura e alla retorica. La distinzione contiene
una sottile ironia: l'Allodiere, infatti, narrerà il suo racconto secondo le più strette regole scolastiche,
adoperando appunto quella retorica che qui afferma (non senza usarne già mentre fa l'affermazione) di non
conoscere; e figure o «colori retorici» conferiranno al suo racconto la dotta costruzione che esso possiede.
(*). Non si conosce la precisa data di composizione del "Racconto dell'Allodiere", ma sembrerebbe trattarsi
di una composizione antecedente inserita poi nella raccolta dei "Canterbury Tales". Per quanto riguarda la
fonte, anche se non si può escludere l'esistenza d'un "lai" bretone sullo stesso argomento, a sua volta
derivato dalla tradizione novellistica orientale, vanno tenute presenti le due versioni dello stesso racconto,
date dal Boccaccio nel "Filocolo" (IV, 4) e nel "Decamerone" (X, 5). Quasi certamente il Chaucher conosceva
soltanto la prima versione, con la quale il "Racconto dell'Allodiere" ha notevoli somiglianze.
Nota 4. Villaggio bretone del dipartimento di Finistère.
Nota 5. Antico nome celtico ("Caer-rud" = città rossa).
Nota 6. Eco, non riamata da Narciso, per il dolore rimase pietrificata, e conservò soltanto la voce.
Nota 7. Si tratta d'un certo Panfilo Mauriliano, autore d'un poema allora molto noto, intitolato "Liber de
Amore", in cui il poeta canta appunto il suo segreto amore per Galatea.
Nota 8. L'antica università di Orléans aveva sempre rivaleggiato con quella dì Parigi: da tale rivalità erano in
seguito sorte accuse contro Orléans come centro di studi delle scienze occulte.
Nota 9. Tavole astrologiche, compilate per ordine di Alfonso Decimo, re di Castiglia, intorno alla metà del
tredicesimo secolo; erano dette «tavole toledane» ("Tabulae Toletanae"), perché si riferivano alla posizione
astrologica della città di Toledo.
Nota 10. Stella di prima grandezza nella costellazione dell'Ariete.
Nota 11. Gli oligarchi che dominarono Atene, dopo la vittoria spartana, al termine della guerra del
Peloponneso.
Nota 12. Antica città del Peloponneso, in Messenia, fondata da Epaminonda.
Nota 13. Tiranno di Orcòmeno, antica città dell'Arcadia.
Nota 14. L'episodio si riferisce alla terza guerra punica, e si ritrova anche nel "Racconto del Cappellano".
Nota 15. Il famoso episodio della matrona romana che si uccise per non sopravvivere alla violenza fattale da
Seste, figlio di Tarquinio il Superbo, è commemorato dal Chaucer anche nella "Leggenda delle donne
esemplari" ("The Legende of Good Women").
Nota 16. Mileto, antica città della Ionia, sulla costa occidentale dell'Asia Minore, fu distrutta dai Galiziani
nel 276 avanti Cristo.
Nota 17. Abradate, antico re persiano, morì combattendo contro gli egiziani. Sua moglie, Pantea, per il
dolore si uccise.
Nota 18. Appena seppe che il suo promesso sposo era morto, la figlia di Democione si uccise per non
sposare un altro uomo.
Nota 19. Narra Plutarco ("Amatoriae Narrationes") che le figlie di Cedaso si uccisero per non sopravvivere
alla violenza subita.
Nota 20. Nicanore, ufficiale di Alessandro Magno, partecipò alla conquista di Tebe.
Nota 21. Nicerate fu condannato a morte dai trenta tiranni, e sua moglie si uccise per non sottomettersi a
loro.
Nota 22. La donna che seppellì il corpo di Alcibiade si chiamava Timandra.
Nota 23. Protesilao, eroe greco ucciso a Troia, ottenne da Plutone di tornare sulla terra per salutare la
moglie Laodamia.
Nota 24. Artemisia, moglie di Masolo, alla cui memoria fece erigere il famoso mausoleo.
Nota 25. Teuta, regina degli Illiri (terzo secolo avanti Cristo).
Nota 26. Bilia fu la paziente moglie di Caio Duilio, il console romano che vinse i Cartaginesi a Milazzo;
Rodogana, figlia di Dario, uccise la sua governante che la voleva persuadere a un secondo matrimonio;
Valeria, moglie di Servio, rifiutò di risposarsi.
Frammento Sesto.
RACCONTO DEL MEDICO (*).
Qui segue il Racconto del Medico.
C'era una volta, come narra Tito Livio, (1) un cavaliere che si chiamava Virginio, colmo d'onore e di dignità,
forte d'amici e grandi ricchezze.
Questo cavaliere ebbe da sua moglie una bambina, e nessun altro figlio in vita sua. Ma questa fanciulla era
bella, d'una bellezza superiore a quella di chiunque si possa immaginare. Natura infatti l'aveva formata con
la massima diligenza, in modo perfetto, come per dire: «Guardate, come io, Natura, quando voglio, so dar
forma e colore a una creatura! Chi può imitarmi! Pigmalione no di certo, per quanto continui a forgiare e a
battere, a scolpire e a pitturare. Posso dire che perfino Apelle e Zeusi s'affaticherebbero invano a scolpire,
forgiare e battere, pensando d'imitarmi. Perché Colui che è maestro d'ogni forma mi ha nominato sua
vicaria generale, per foggiare e dipingere come voglio le creature della terra, ed è in mia cura ogni cosa
sotto la luna che cresce e cala. Io non chiedo nulla per il mio lavoro: il mio padrone ed io andiamo
perfettamente d'accordo. E questa l'ho creata proprio in onore del mio padrone, come del resto faccio con
tutte le altre mie creature, qualunque sia il loro colore o la loro forma». Proprio così pareva che Natura (2)
volesse dire.
Ormai aveva compiuto quattordici anni questa fanciulla, di cui Natura si compiaceva tanto. E come questa
sa dipingere bianco un giglio e rossa una rosa, con le stesse sfumature aveva colorato questa nobile
creatura, prima ancora che nascesse, in tutte le sue agili membra, dov'è giusto che vi siano quei colori; Febo
poi le aveva tinto le grosse trecce con i raggi della sua vampa ardente. E se già la sua bellezza era eccelsa, la
sua virtù era mille volte maggiore. Non le mancava proprio nessuna delle qualità che giustamente sono da
lodare. Casta era nell'anima e nel corpo; e fioriva nella sua verginità in umiltà ed astinenza, in pazienza e
temperanza, come pure in modestia di contegno e d'atteggiamento. Nelle risposte era sempre prudente:
per quanto si possa dire che fosse saggia come Pallade e soave e femminile nel parlare, non usava tuttavia
parole smancerose per sembrare istruita; ma parlava secondo il suo grado, e tutte le sue parole, importanti
o meno, erano ispirate alla virtù e alla nobiltà d'animo. Era timida d'una timidezza verginale, costante nei
sentimenti e sempre attiva per sottrarsi ad ogni pigra indolenza. Bacco non aveva certo alcun dominio sulla
sua bocca, giacché vino e giovinezza infiammano Venere, come olio e grasso gettati sul fuoco. E proprio di
sua indole, senza che nessuno ve la costringesse, molto spesso fingeva di non star bene pur d'evitare le
compagnie dove non si sarebbe parlato che d'insensatezze, come ai banchetti, alle feste e alle danze, che
sono occasione di stravizi. Tali circostanze infatti, come si può ben vedere, rendono certe che ancora sono
bambine mature e ardite prima del tempo, il che è assai pericoloso, e lo è sempre stato. Già fin troppo
presto una può imparare ad essere audace, quando sia diventata donna...
Voi anziane istitutrici, che avete in cura le figlie dei signori, non prendetevela per quel che dico, ma
pensate, il vostro incarico vi fu affidato soltanto per due motivi: o perché vi siete sempre mantenute
oneste, oppure perché, essendo per fragilità cadute, conoscete ormai bene la danza antica e ne avete per
sempre abbandonato il vizio, tutte prese dal fervore d'insegnare, per amor di Cristo, alle giovani la virtù. Il
bracconiere che abbia perduto il vizio e la sua antica astuzia, sa fare il guardaboschi meglio di chiunque...
Fate dunque alle giovani buona guardia, ché, volendo, ne siete ben capaci; e badate di non indurle al male,
dannandovi coi vostri malvagi proponimenti. Chi infatti così agisce è sicuramente un traditore; anzi, fate
attenzione, fra tutti i tradimenti suprema peste è traviare l'innocenza. Ed anche voi padri e madri, sia che di
figli ne abbiate uno o molti, sorvegliateli finché sono sotto la vostra cura. Badate che, con l'esempio che voi
date o con la vostra negligenza nel castigarli, essi non debbano perire, perché vi assicuro che, se ciò
accadesse, la paghereste molto cara, Quando il pastore è fiacco, il lupo sbrana pecore ed agnelli... Ma per
ora basta, devo ritornare al mio racconto (3).
Questa ragazza, di cui voglio narrarvi la storia, sapeva tuttavia badare a se stessa, senza bisogno d'alcuna
istitutrice. Nel suo modo di comportarsi le altre ragazze potevano leggere, come in un libro, ogni buona
parola o atto che si convenga ad una ragazza virtuosa, tanto lei era sollecita e prudente. E perciò si diffuse
ovunque la fama della sua bellezza e della sua immensa bontà, e tutti in quel paese la lodavano, tutti cioè
coloro che amavano la virtù, non certo gl'invidiosi, i quali si rodono per la felicità altrui e sono contenti
soltanto quando qualcuno è infelice o non sta bene (...è il dottore (4) che ne dà questa descrizione).
Questa ragazza, dunque, un giorno si recò in città a un tempio, accompagnata, com'è usanza delle ragazze
giovani, dalla sua cara madre. Ora in quella città c'era un giudice, che governava tutta quanta la regione. Ed
accadde che proprio questo giudice, trovandosi lei a passare dove lui abitava, posasse su di lei lo sguardo e
si sentisse d'un tratto turbato profondamente. Animo ed umore gli si alterarono all'improvviso, talmente si
sentì preso dalla bellezza di quella giovane; ed egli fra sé disse: «Prima d'ogni altro quella ragazza sarà
mia!».
E ben presto gli entrò in cuore il demonio, facendogli subito capire che soltanto con l'astuzia avrebbe
potuto vincerla ai suoi fini; altrimenti, pensò, né con la forza né col denaro avrebbe mai potuto riuscirvi.
Quella ragazza infatti aveva parecchi amici, ed era di per sé così salda nella sua virtù, ch'egli ben
comprendeva di non poterla mai indurre a peccare direttamente. Perciò, dopo molte riflessioni, mandò in
quella città a chiamare un ribaldo, ch'egli sapeva essere astuto e pronto a tutto. A questo ribaldo il giudice
espose segretamente tutto un suo piano, facendosi promettere di non parlarne con nessuno, sotto pena di
rimetterei la testa. Come quello sventurato si mostrò d'accordo, il giudice, tutto soddisfatto, con grandi
sorrisi, lo colmò di costosissimi doni.
Stabilito punto per punto tutto il complotto, e in che modo la scellerata impresa dovesse astutamente
compiersi, il ribaldo, che si chiamava Claudio, se ne tornò a casa. Il falso giudice, che si chiamava Appio (si
chiamava realmente così, perché questa non è una favola, ma un fatto storicamente noto, sulla cui
autenticità non v'è alcun dubbio), il falso giudice, dicevo, si diede intanto d'attorno per affrettare il più
possibile il momento in cui avrebbe soddisfatto il suo piacere.
E così accadde, secondo quanto ci narra la storia, che, qualche giorno dopo, questo falso giudice sedesse
come di solito in tribunale, ad emettere sentenze su questo o su quel caso. Ad un tratto si fece avanti a
grandi passi l'ipocrita ribaldo e disse: «Messere, vi prego, rendetemi giustizia secondo quanto sta scritto in
questa mia pietosa istanza, nella quale mi querelo contro Virginio. Anche se lui vorrà negare, io
comproverò, trovando buoni testimoni, che quanto afferma la mia istanza è vero!».
Rispose il giudice: «In sua assenza, non posso emettere alcun giudizio. Va' a chiamarlo, ed io sarò ben lieto
d'ascoltarvi. Qui ti sarà fatta ogni giustizia e nessun torto!».
Venne dunque Virginio per conoscere la volontà del giudice, e gli fu letta la melefica petizione che, in
sostanza, diceva quanto segue:
«A voi, signor mio, egregio messer Appio, io Claudio vostro umile servo dichiaro che un cavaliere, di nome
Virginio, contro la legge e contro ogni giustizia, detiene, contro pure la mia espressa volontà, una mia serva,
che è mia schiava di diritto, la quale mi fu tolta di casa una notte, quand'era ancora molto giovane. Questo,
messere, son disposto, quando vogliate, a comprovare con testimoni. Per quanto egli lo affermi, lei non è
sua figlia. Onde a voi, mio signor giudice, io mi rivolgo, affinché vogliate farmi rendere al più presto la mia
schiava.» Ecco, era questa la sostanza della petizione.
Virginio guardò allibito quel ribaldo, ma subito, prima ancora che potesse parlare e dimostrare, come
sarebbe spettato a un cavaliere, valendosi anche d'altri testimoni, che era tutto falso quanto affermava il
suo avversario, quel malefico giudice non volle perder tempo e, senz'ascoltare nemmeno più una parola di
Virginio, pronunciò così la sua sentenza: «Decreto che quest'uomo abbia subito la sua serva. Tu non puoi
più tenerla chiusa in casa tua. Va' dunque a prenderla per affidarla a noi. Quest'uomo deve avere la sua
schiava: è un ordine!».
E così il nobile cavaliere Virginio, costretto dalla sentenza del giudice Appio a consegnare la sua cara figlia al
magistrato, a vivere cioè con lui in lussuria, tornato a casa e sedutosi nella sua sala, la mandò subito a
chiamare. E col viso smorto come cenere spenta, contemplandone l'umile volto, col cuore trafitto di pietà
paterna, ma ormai deciso nel suo proposito, le disse: «Figlia, Virginia di nome, due sono i modi in cui tu devi
patire: o la morte o il disonore. Eppure (ah, non fossi mai nato!) tu non hai mai fatto nulla per meritare di
morir di spada o di pugnale. O figlia diletta, coronamento della mia vita, con quanta gioia t'ho allevato,
portandoti sempre nel mio pensiero! O figlia, ultimo mio dolore e ultima gioia della mia vita, o gemma di
castità, accogli con pazienza la tua... morte, sì, perché questa è la mia decisione! E' per amore, non certo
per odio, che tu devi morire; è per misericordia che la mia mano deve mozzarti il capo! Ah, non t'avesse mai
veduta Appio! E' lui che oggi con le sue menzogne t'ha condannata...». E le riferì tutto il caso, come prima
avete udito: non occorre che vi aggiunga altro.
«O pietà, padre caro!» disse la fanciulla, e così dicendo, come aveva spesso fatto, gli buttò le braccia al
collo. E prorompendo in lacrime, gli chiese: «Padre mio buono, devo proprio morire? non c'è proprio
nessuna grazia, nessun rimedio?».
«No, ti assicuro, cara figlia mia!» egli rispose.
«Concedimi almeno un po' di tempo, padre mio,» lei disse «un po' di tempo per compiangere la mia morte!
In nome di Dio, perfino Jefte (5) fece grazia a sua figlia di lamentarsi, prima che, ahimè, la trucidasse! E Dio
sa che anche lei non aveva mai mancato in nulla, se non che per prima era corsa a veder suo padre, per
dargli festosamente il benvenuto...» E così dicendo cadde in deliquio.
Ma poi, passato lo svenimento, si alzò e disse a suo padre: «Dio sia benedetto... morirò vergine! Datemi la
morte, prima ch'io riceva disonore: sia fatta con vostra figlia la vostra volontà, in nome di Dio!». E dopo
aver detto questo, lo pregò ancora di non farle troppo male con la spada e, a quella parola, cadde di nuovo
svenuta.
Suo padre, allora, col cuore e l'animo straziati, le mozzò il capo e, tenendolo alto, andò a portarlo al giudice
che sedeva ancora in tribunale a giudicare. Narra la storia che, appena il giudice lo vide, ordinò subito di
arrestare quell'uomo e d'impiccarlo; ma in quello stesso istante una turba di mille uomini si scagliò dentro
per salvare il cavaliere, avendone pietà e compassione, perché ormai era chiaro l'iniquo tradimento. La
gente aveva incominciato a sospettare, dal modo in cui il ribaldo aveva presentato la denuncia, ch'egli si
fosse messo d'accordo con Appio, ch'era noto per la sua dissolutezza. Perciò andarono da Appio e lo
cacciarono immediatamente in carcere, dov'egli poi si uccise. E Claudio, che di questo Appio si era fatto
servo, fu condannato ad essere impiccato a un albero, se non che Virginio, per compassione, tanto supplicò
per lui da riuscire a farlo esiliare: altrimenti sarebbe stato certamente ucciso. Furono impiccati anche altri
che, in misura maggiore o minore, erano stati consenzienti in questa scelleratezza.
Di qui si può vedere come il peccato abbia sempre quel che si merita. State attenti perché nessuno sa chi
Dio voglia colpire, né quanto o come il verme della coscienza debba poi contorcersi per una vita disonesta,
quantunque sia tutto così nascosto, che nessuno sa nulla all'infuori di Dio e lui. Per ignorante o istruito che
uno sia, nessuno potrà mai dire quando sia il tempo della paura. Vi avverto perciò, seguite questo consiglio:
abbandonate il peccato, prima che il peccato abbandoni voi!
Qui termina il Racconto del Medico.
Note del "Racconto del Medico".
(*). La stesura del "Racconto del Medico" è forse antecedente alla sua inclusione nel quadro generale dei
"Canterbury Tales". La patetica e truce vicenda di Virginia risale a Tito Livio, ma ne diedero altre versioni
anche il Gower in "Confessio Amantis" e Jean de Meung nel "Roman de la Rose". E' quasi certamente
quest'ultima la fonte diretta del racconto, ben nota al Chaucer, che aveva tradotto il poema francese agli
inizi della sua attività letteraria.
Nota 1. Anche Jean de Meung cita Tito Livio. Effettivamente lo storico romano rimane la fonte ultima del
racconto.
Nota 2. Era una moda letteraria del tempo, quella di rappresentare la Natura come compartecipe alla
creazione d'una bella donna.
Nota 3. Nell'inserire questa divagazione piuttosto strana sulla responsabilità delle istitutrici e dei genitori, si
è supposto che il Chaucer avesse in mente la famiglia di John of Gaunt (duca di Lancaster e figlio di Edoardo
Terzo). Katherine Swynford, governante dei figli del duca, fu per molti anni la sua amante e nel 1396
diventò la sua terza moglie. Inoltre, Elizabeth, la sua seconda figlia, che sposò il conte di Pembroke
quand'era appena una bambina nel 1380, venne introdotta a corte nel 1386 ed ebbe poco dopo una
relazione amorosa con John Holland. Pembroke chiese il divorzio ed Holland sposò Elizabeth che portò con
sé in Spagna. Ritornarono poi in Inghilterra nel giugno 1388 o poco prima.
Nota 4. Sant'Agostino, il dottore della Chiesa, non il medico che sta narrando il racconto.
Nota 5. Narra la Bibbia ("Giudici" 11, 37-38) che Jefte promise in olocausto a Dio la prima persona che fosse
uscita dalla porta di casa sua per andargli incontro, appena fosse tornato vittorioso dalla guerra contro gli
Ammoniti. E quando se ne tornò a casa, gli venne incontro proprio l'unica sua figlia.
Introduzione
AL RACCONTO DELL'INDULGENZIERE.
Parole dell'Oste al Medico e all'Indulgenziere.
Il nostro Oste si mise a bestemmiare come un matto: «Accidenti,» disse «per i chiodi e per il sangue (1)...
che ipocriti, quel giudice e quel ribaldo! Se li prenda la morte più infame che la mente possa immaginare,
simili giudici coi loro avvocati! Intanto, ahimè, quella povera ragazza è morta! Ah, la pagò cara la sua
bellezza! Io lo dico sempre: bisogna stare attenti, perché i doni che ci fanno la fortuna e la natura sono
spesso causa di rovina. Nel caso di questa poveretta, la sua bellezza fu la sua morte. Ah, morire così
miserevolmente! Ma dai doni di quelle due che vi ho detto, si riceve molto spesso più male che bene...
Veramente, maestro mio caro, questo è un racconto ben pietoso da sentire. Ma tiriamo avanti, intanto non
c'è rimedio. Prego che Dio ti conservi la tua carcassa, e perfino i tuoi orinali e vasi da notte, come pure i tuoi
Ippocrati e i tuoi Galeni, (2) e tutti i tuoi barattoli colmi d'elettuari: che Dio li benedica, e così pure nostra
Signora Maria Santa! Mi venga un po' di bene, sei un uomo proprio in gamba; per San Roniano, (3) sembri
un vero prelato... Non dico bene? Forse non so usare i termini giusti, ma t'assicuro che m'hai dato una tale
fitta al cuore, che per poco non mi viene un mal cardiaco! Per le ossa del "corpus", se non mi prendo un po'
di triaca (4) o un sorso di birra forte e fresca, o se non sento subito un bel racconto allegro, mi scoppia il
cuore di pietà per quella ragazza!... Ehi, tu, "bel ami", dico a te Indulgenziere» fece «raccontaci presto
qualche burla o qualche beffa».
«Sarà fatto» disse quello «per San Roniano! Però prima,» soggiunse «qui a questa insegna di locanda,
voglio bere e mangiare un po' di focaccia.»
Ma allora la gente per bene si mise a protestare: «No, non fategli raccontar canagliate!... Raccontateci
qualcosa di morale da cui si possa imparare della sensatezza, e allora saremo ben contenti d'ascoltare».
«Va bene, d'accordo,» disse quello «ma a qualcosa di sensato devo pensare mentre bevo!»
Prologo
DELL'INDULGENZIERE.
Qui segue il Prologo al Racconto dell'Indulgenziere.
«Signori,» disse «in chiesa quando predico, mi sfiato per avere un voce forte e squillante come una
campana, ma quello che devo dire lo so già a memoria. Il mio tema (5) è, ed è sempre stato, uno solo:
"Radix malorum est Cupiditas" (6)... Comincio col dire da dove vengo, e poi mostro le mie bolle, tutte
quante. Il sigillo del nostro signor feudatario (7) sulla mia lettera patente, quello lo mostro per primo, a
garanzia della mia persona, perché nessuno, prete o chierico, sia tanto sfacciato da disturbarmi nel mio
santo lavoro di Cristo. E poi racconto le mie solite storie; tiro fuori bolle di papi e cardinali, patriarchi e
vescovi, e dico qualche parola in latino, tanto per condire la mia predica e stuzzicare alla devozione. Tiro poi
fuori i miei bottiglioni di vetro, pieni zeppi di stracci e d'ossi che tutti credono siano reliquie. In una latta ho
perfino la scapola d'una pecora (8) che era appartenuta a un santo ebreo! 'Buona gente,' dico 'fate
attenzione alle mie parole. Se immergete quest'osso dentro un pozzo, qualunque vacca, vitello, pecora o
bue si gonfi per aver ingoiato o esser stato punto da una biscia, appena da quel pozzo prenda un po'
d'acqua e si lavi la lingua, ecco che subito guarisce. Basta poi che una pecora beva un sorso da quel pozzo
per guarire immediatamente da pustole, scabbia e ogni altro malanno. Attenzione a quel che dico. Se chi
già possiede del bestiame beve al mattino a digiuno, prima che canti il gallo, un sorso da quel pozzo (basta
una volta alla settimana, come quel santo ebreo insegnò ai nostri vecchi), ebbene, le sue bestie e i suoi
averi si moltiplicheranno. Signori miei, quest'acqua guarisce perfino dalla gelosia: se qualcuno cade in preda
a furia gelosa, se ne faccia un bel beveraggio, ed ecco che non avrà più alcun sospetto di sua moglie, pur
conoscendo tutte le sue pecche e quand'anche lei si sia goduta due o tre preti. Ed eccovi qui un guanto,
guardate: chi infila la mano in questo guanto, vedrà moltiplicarsi il suo raccolto, sia che abbia seminato
grano oppure avena, purché offra qualche quattrino o soldarello. Però, buona gente, vi avverto: se c'è
qualcuno ora in questa chiesa che abbia commesso qualche orribile peccato, così obbrobrioso da non
potersi neppure confessare, oppure qualche donna, giovane o vecchia, che abbia fatto becco suo marito,
ebbene, gente simile non ha né il potere né la grazia di fare in questo luogo offerta alle mie reliquie!
Soltanto chi si trova fuori da tali colpe può venire nel nome di Dio a fare la sua offerta, e io l'assolverò con
l'autorità che per bolla m'è stata conferita...» Con questo trucco mi guadagno, da quando faccio
l'indulgenziere, cento marchi all'anno. Me ne sto come un gran dotto sul mio pulpito, e appena
quell'ingenua gente s'è seduta, faccio la mia predica come avete già sentito, aggiungendovi un altro
centinaio di frottole. E intanto m'affanno a allungare il collo e a far capolino a destra e a sinistra sulla gente,
come un colombo appollaiato sul granaio. Le mie mani e la mia lingua hanno una scioltezza tale, che
davvero è una gioia vedermi al lavoro! Tutte le mie prediche riguardano l'avarizia e consimili malanni, per
rendere la gente generosa nel dare i propri soldi... soprattutto a me! Il mio scopo infatti non è che far
quattrini, non correggere i peccati. Per me, una volta che qualcuno sia sepolto, la sua anima può pure
andare a finire nelle ortiche!... Eh sì, certo, molte delle mie prediche provengono spesso da cattiva
intenzione... Alcune, per esempio, son fatte per compiacere e lusingare il pubblico, per poi approfittarne sia
pure con ipocrisia; altre per vanagloria ed altre ancora per odio... Sì, perché se qualcuno offende me o i
miei confratelli, siccome in altro modo non posso vendicarmi, allora predicando lo pungo sul vivo con la mia
lingua, così ch'egli non possa scansare d'essere pubblicamente diffamato. Difatti anche senza ch'io dica
proprio il suo nome, tutti sanno bene di chi parlo, dai cenni ed altri particolari. Così ripago chi ci dà dei
dispiaceri! E sputo il mio veleno colorandolo di santità, in modo da farlo sembrare pio e sincero... Ma
insomma, per dirvi proprio qual è il mio intento, non predico che per avidità. Ecco perché il mio tema è
ancora e sempre: "Radix malorum est Cupiditas!"... Predico cioè sempre contro la cupidigia, contro lo
stesso vizio che anch'io pratico continuamente. Eppure, per quanto io sia colpevole di questo peccato,
riesco ancora a convincere gli altri a liberarsene ed a pentirsi amaramente. Ma non è questo il mio vero
scopo... Io infatti non predico se non per avidità! Ma di questo ne avrete già abbastanza... Porto poi diversi
esempi da vecchie storie di tempi andati, perché la gente ignorante ama le vecchie storie: è tutta roba che
riesce bene ad imparare e a ricordare... Ecco! Volete che io, potendo predicare e guadagnar oro e argento
col mio insegnamento, mi metta di mia spontanea volontà a vivere poveramente? Ah no, non ci penso
neppure, vi assicuro! Preferisco predicare e andare in giro a chiedere l'elemosina... Non ho voglia di
adoperare le mani, di mettermi a far canestri per campare: non è ch'io chieda l'elemosina a vuoto... Non
voglio mettermi a scimmiottare gli apostoli! Voglio aver soldi, lana, formaggio e grano, quand'anche fosse
dal più miserabile servo o dalla più povera vedova del villaggio coi figli che muoiono di fame! Ah no, voglio
bere puro succo di vigna e mantenermi in ogni borgo un'allegra donnina!... Ma insomma, signori, sentite...
Volete che vi racconti una storia. Ebbene, ora che ho mandato giù una bella sorsata di birra, perdio, spero
di raccontarvi qualcosa che sarà proprio di vostro gradimento! Difatti, anche se sono un uomo pieno di vizi,
una storia morale so ancora raccontarla, una di quelle che per guadagnare uso nelle mie prediche... Ed ora,
zitti, che comincio!»
RACCONTO DELL'INDULGENZIERE (*).
Qui comincia il Racconto dell'Indulgenziere.
Una volta nelle Fiandre c'era una combriccola di giovinastri dediti alla pazza vita, ai bagordi e al gioco, i
quali bazzicavano sempre per bordelli e taverne dove con arpe, liuti e chitarre ballavano, e giocavano a dadi
giorno e notte, e poi mangiavano e bevevano a più non posso, offrendo empi sacrifici nel tempio del
demonio con imprecazioni ed eccessi abominevoli. Tiravano bestemmie così grandi e detestabili, che a
sentirli c'era da rabbrividire. Sembrava proprio che sbranassero il corpo di nostro Signore benedetto, come
se non l'avessero già straziato abbastanza i giudei; e ciascuno rideva dei peccati dell'altro. E poi subito
venivano ballerine leggiadre e snelle, e giovani fruttaiole, cantanti con l'arpa, ruffiani e confettieri, tutta
gente mandata dal diavolo ad accendere e fomentare il fuoco della lussuria, la quale sempre s'accompagna
alla gozzoviglia. Lo dice anche la sacra scrittura; in vino ed ubriachezza risiede la lussuria...
Pensate a quell'ubriacone di Lot (9) che, contro natura, s'accoppiò inconsciamente con le sue due figlie: era
talmente sbronzo, da non capire quel che facesse... Chiunque abbia studiato bene la storia, sa che Erode,
appunto quando a banchetto fu saturo di vino, senza neanche alzarsi da tavola, ordinò che fosse ucciso
Giovanni il Battista, del tutto innocente... Dice davvero bene Seneca, quando afferma di non riuscire a
trovare alcuna differenza fra chi è fuori di senno e chi è ubriaco, senonché la pazzia, una volta colto un
disgraziato, dura più a lungo dell'ubriachezza... O ingordigia maledetta, causa prima della nostra rovina,
origine d'ogni nostra dannazione, finché non venne Cristo a riscattarci col suo sangue! Ecco a che prezzo,
pensate, fu riscattata quella maledetta colpa! Tutto il mondo fu corrotto dall'ingordigia... Fu proprio per
quel vizio che Adamo, nostro padre, venne cacciato con sua moglie dal paradiso alla fatica e al dolore. Si
legge, infatti, che finché Adamo digiunò rimase in paradiso, ma appena assaggiò sull'albero il frutto
proibito, fu subito cacciato via al dolore e alla sofferenza. O ingordigia, di te a ragione dovremmo
lamentarci! Oh, se uno sapesse quanti mali derivano da bagordi e gozzoviglie, a tavola sarebbe più misurato
nella sua dieta! Ahimè, per dar piacere a un pezzetto di gola e intenerire un po' la bocca, s'affannano gli
uomini ad est, a ovest, a nord e a sud, per terra, per aria e per mare, alla ricerca di ghiotte provvigioni da
mangiare e da bere! Ne sai qualcosa tu, San Paolo... Egli infatti dice: «Le vivande sono per il ventre e il
ventre per le vivande, ma Dio distruggerà e queste e quello'.». Ah, turpe cosa è veramente menzionare la
parola, ma più turpe ancora è l'atto che si compie quando, sia di bianco che di rosso, si beve tanto, da
trasformare per stravizio maledetto la propria gola in un... cesso! Dice l'apostolo piangendo amaramente:
«Camminano molti di cui vi ho parlato, e di cui vi parlo ora con voce commossa dal pianto, i quali sono
nemici della croce di Cristo: per loro la morte è la loro fine, e il ventre il loro dio'». O ventre, o pancia, o
fetido sacco pieno di sterco e putridume! Alle tue due estremità, schifoso è il suono che si sprigiona...
Eppure quanta fatica e quante spese per provvedere a te! Pensa ai cuochi, come pestano, spremono e
tritano, trasformando la sostanza in accidente, (10) tutto per saziare il tuo ingordo appetito! Fanno
schizzare dai duri ossi anche il midollo, senza buttar via nulla che possa entrare tenero e molle nel
gargarozzo; e per renderlo più appetitoso, lo condiscono di deliziose salse fatte di spezie, foglie, cortecce e
radici. Ma è certamente ben morto chi vive in tali vizi e va in cerca di tante leccornie!... Cosa lasciva è il
vino, e l'ubriachezza è piena di travaglio e d'angoscia. O ubriacone, dalla faccia stravolta e dal fiato acre, che
schifo sorreggerti per le braccia, mentre tu stronfì col tuo naso avvinazzato come per dire continuamente:
"Sanson, Sanson"... Eppure Dio sa che Sansone non bevve mai vino! Ti butti a terra come un maiale
scannato; perduta è la tua lingua ed ogni tua decenza... l'ubriachezza è proprio la tomba del buon senso e
d'ogni discrezione. Chi si lascia prendere dal bere non sa mantenere alcun segreto, su questo non v'è
dubbio... Astenetevi perciò dal vino bianco e da quello rosso, e specialmente da quello bianco di Lepe (11)
che si vende in Fish Street o a Cheapside. (12) Stranamente questo vino di Spagna riesce a filtrare negli altri
vini che crescono qui nei dintorni, e allora s'alza una fumosità tale che, quando uno ne abbia bevuto tre
sorsi, crede d'essere in Cheapside a casa, e invece si trova in Spagna, proprio nella città di Lepe, altro che a
La Rochelle o a Bordeaux, (13) e allora sì che ronfa "Sanson, Sanson!"... Ma permettete ancora una parola,
signori, vi prego. Desidererei farvi notare come tutte le memorabili e gloriose imprese di cui si legge nel
Vecchio Testamento fossero compiute, per grazia di Dio onnipotente, nell'astinenza e nella preghiera.
Leggete la Bibbia e ve ne renderete conto... Guardate invece come Attila, il famoso conquistatore, morisse
nel sonno con vergogna e disonore, dissanguato da un'emorragia al naso! Un condottiero dovrebbe sempre
mantenersi sobrio! E soprattutto considerate bene ciò che fu ordinato a Lamuele (dico Lamuele, badate
bene, non Samuele); leggete la Bibbia, e vedrete quel che dice a proposito del dar vino a chi ha in mano la
giustizia (14)... Ma ora basta, di questo ce ne cresce. Ora che vi ho parlato del gozzovigliare, voglio mettervi
in guardia contro il giocare a dadi... Quel gioco infatti è il padre dell'impostura, dell'inganno, del turpiloquio
maledetto, della bestemmia contro Cristo, dell'omicidio, e costituisce inoltre una perdita di tempo e di
denaro. Indegno e disonorevole è dunque aver fama di volgare giocatore. E quanto più uno è d'elevata
condizione, tanto più è ritenuto sciagurato. Un principe che abbia il vizio del gioco, qualunque sia il suo
governo e la sua politica, perde per comune opinione di prestigio... Stilbone, (15) ch'era un saggio
ambasciatore, avendo avuto il grande onore d'essere mandato da Sparta a trattare un'alleanza a Corinto,
appena vi giunse, scoprì per caso che tutti i grandi di quella terra erano dediti al gioco. Perciò, appena poté,
se ne tornò in patria, e disse: «Non macchierò il mio nome col disonore di farvi alleare con dei giocatori. Se
credete, mandate pure qualcun altro, giacché, per conto mio, preferirei morire che allearvi con gente
simile: non sarà mai per opera mia e attraverso mie trattative che voi, col vostro nome così glorioso, avrete
alleati tanto abietti!». Ecco che cosa disse quel saggio filosofo... Pensate invece a re Demetrio (16) che
aveva avuto la passione per il gioco: sta scritto che, per dimostrargli di non ritenere d'alcun valore o stima
la sua gloria e la sua rinomanza, il re dei Parti gli mandò per scherno un paio di dadi d'oro. E in verità direi
che dei nobili potrebbero anche trovare qualche modo più decente di passare la giornata!... Voglio ora dirvi
una parola o due sullo spergiuro e sulla bestemmia, secondo le trattazioni che se ne fanno nei libri antichi.
La bestemmia è una cosa abominevole, ma lo spergiuro è ancora più detestabile. Il sommo Iddio proibì del
tutto di giurare, e Matteo lo attesta; ma del giurare in casi speciali il santo Geremia dice: «Giura il vero
quando giuri, senza mentire, e giura secondo giustizia e rettitudine!». Giurare invano, però, è peccato.
Guardate la prima tavola dei santi comandamenti di Dio, e vedrete che il secondo comandamento dice:
«Non nominare il mio nome inutilmente o invano». Ecco dunque che la bestemmia viene proibita prima
ancora dell'omicidio e di quasi tutti gli altri peccati. Vi assicuro che l'ordine è proprio questo. Ma conoscete
benissimo i comandamenti di Dio anche voi, e dunque saprete che cosa, dice il secondo... Per me, desidero
soltanto ricordarvi che non sarà mai senza castighi la casa dell'oltraggioso bestemmiatore, in cui si sentano
espressioni come: «Per il prezioso cuore di Dio... Per i suoi chiodi... Per il sangue di Cristo di Hailes, (17) io
ho fatto sette, e tu invece cinque e poi tre!... Per le braccia di Dio, se bari, ti pianto questo pugnale nel
cuore!...». Ecco il frutto che deriva da due ossi di cani; (18) imprecazioni, ira, falsità, omicidio. E dunque, per
amore di Cristo che morì per noi, smettete di dir bestemmie, grandi o piccole che siano!... Ed ora, signori,
torniamo al nostro racconto.
Tre di quei scapestrati di cui vi parlavo, prima ancora che le campane suonassero il mattutino, s'erano già
messi in una taverna a bere. Ad un tratto, mentre se ne stavano là seduti, udirono tintinnare il campanello
innanzi a un morto che veniva portato alla tomba. Uno di loro chiamò allora il garzone: «Corri,» gli disse,
«va' a domandare chi è il morto che sta passando, e fatti dire bene il suo noma».
«Messere,» fece il ragazzo «non ce n'è bisogno: me l'hanno già detto due ore prima che voi veniste qui...
Perdio, era un vostro vecchio compagno! E stato improvvisamente ucciso stanotte, mentre sedeva tutto
ubriaco sulla sua panca. Entrò furtivamente un ladro, chiamato Morte per soprannome, uno che da queste
parti ammazza tutti quanti, e con la lancia gli spaccò il cuore in due e se n'andò senza dire una parola. Ne
avrà già uccisi mille, questa peste (19)... Prima che l'incontriate, messere, penso che sia necessario mettervi
in guardia da un simile avversario. Attenzione, perché potrebbe trovarsi da qualsiasi parte: così almeno
m'ha detto mia madre, non aggiungo altro.»
«Maria Santissima!» fece il taverniere «ha ragione il ragazzo, perché quest'anno, in un grosso borgo a più
d'un miglio di qui, ha accoppato uomini e donne, bambini, garzoni e servitori: credo proprio che là ci stia di
casa! Sarebbe meglio star preparati, prima che torni a colpire qualcuno...»
«Eh, per le braccia di Dio!» disse allora quello scapestrato «ma è proprio così pericoloso incontrarlo? Io
invece mi metterò a cercarlo per tutti i sentieri e per tutte le strade, lo giuro sulle sacrosante ossa di Dio!...
Sentite, compagni, noi tre siamo sempre stati uniti: diamoci dunque la mano, da fratelli, e vedrete che
l'ammazzeremo noi, questo falso traditore che è Morte! Cospetto di Dio, lo faremo fuori prima di sera,
questo che ammazza tanta gente!»
Giurarono tutti e tre insieme di vivere e di morire l'uno per l'altro, da veri fratelli. E alzandosi da tavola
ubriachi e furibondi, s'avviarono a quel villaggio di cui aveva prima parlato il taverniere. E si misero intanto
a lanciare orribili bestemmie, straziando il benedetto corpo di Cristo: questa volta sarebbe toccato a Morte
morire, se fossero riusciti ad acciuffarlo!
Non avevano fatto neppure mezzo miglio di strada, che, proprio mentre stavano per oltrepassare uno
steccato, s'imbatté in loro un povero vecchio. Questo vecchio molto educatamente li salutò dicendo: «Dio
vi protegga, signori miei!».
Il più insolente di quei tre rispose: «Ehi, brutto tanghero disgraziato! Perché ti copri tutto fino alla faccia?
Come mai alla tua età sei ancora vivo?»
Il vecchio, guardandolo fisso in viso, gli disse: «Perché non riesco a trovare nessuno, neanche se camminassi
fino in India, in nessuna città e in nessun villaggio, che voglia cambiare la sua giovinezza con la mia
vecchiaia... e perciò devo tenermela fin che a Dio piacerà. Ahimè, neanche a Morte interessa la mia vita! E
io, come un prigioniero senza pace, vado battendo dal mattino alla sera col bastone sulla terra, dov'è la
porta per andare da mia madre, e dico: 'Cara madre, fatemi entrare! Guardate come si consuma la mia
carne, e il mio sangue, e la mia pelle! Ahimè, quando avranno pace le mie ossa? Madre, come vorrei con voi
contraccambiare lo scrigno che ormai da troppo tempo sta in camera mia, e soltanto per un ruvido sudario
in cui avvolgermi!...'. Ma lei non vuol farmi questa grazia, mentre il mio volto si fa sempre più pallido e
avvizzito... Però a voi, messeri, non fa onore rivolgervi in questo modo ad un vecchio che non vi ha mai
offeso. Leggete quel che dice la Bibbia: 'Di fronte a un vecchio dalla testa bianca, bisogna alzarsi in piedi. E
perciò datemi retta, non fate adesso alcun male a un vecchio, come non vorreste che ne fosse fatto a voi in
vecchiaia, se tanto vi fosse dato di campare. E che Dio sia con voi, dovunque vi rechiate a piedi o a cavallo!
Bisogna proprio ch'io ora vada dove debbo andare...».
«Ah no, vecchio tanghero, perdio, non te n'andrai così!» disse allora un altro di quei fannulloni. «Non te
n'andrai tanto facilmente, per San Giovanni! Hai proprio ora menzionato quel traditore Morte, che da
queste parti ammazza tutti i nostri amici. Scommetto che sei una sua spia... o mi dici dove si trova o, per
Dio e per il santo sacramento, te la faccio pagare! Tu sei certamente uno che sta dalla sua parte, per
togliere di mezzo noi che siamo giovani, brutto ipocrita ladro!»
«Ebbene, messeri,» fece quello «se v'è tanto caro trovare Morte, girate su per questo tortuoso sentiero,
perché, a dire la verità, l'ho lasciato là in quel bosco, sotto un albero, e là dev'essere rimasto. Non si
nasconderà certo per le vostre smargiassate! Vedete quella quercia? Ebbene là lo troverete. E che Dio,
redentor vostro e di tutti gli uomini, vi protegga!»
Così disse il vecchio. E quei furfanti, via di corsa fino all'albero. Là giunti, trovarono un mucchio di bei tondi
fiorini d'oro appena coniati: soltanto così alla vista, saranno stati otto staia! E allora non si curarono più
d'andare in cerca di Morte, ma, contentissimi di vedere tutti quei bei fiorini luccicanti, si sedettero subito
intorno al prezioso cumulo.
Parlò per primo il peggiore dei tre: «Fratelli,» fece «sentite quel che vi dico. Anche se burlo e scherzo
sempre, io ho un gran cervello. La fortuna ci ha dato questo tesoro per farci vivere la nostra vita in festa e in
allegria, e così com'è venuto, noi ce lo spenderemo. Ah, cospetto di Dio prezioso, chi l'avrebbe mai detto
che oggi avremmo ricevuto tanta grazia? Se soltanto si potesse portar via quest'oro da questo posto (tanto
sapete bene che è tutta roba nostra), allora la nostra felicità sarebbe al culmine. Ma, veramente, di giorno
non si può: la gente ci prenderebbe di sicuro per ladri, e ci farebbe impiccare per aver rubato un tesoro che
invece ci appartiene. Questo tesoro bisogna dunque portarlo via di notte, con tutta la prudenza e la
scaltrezza che si può. Consiglierei perciò di tirare fra noi le paglie, e vedere a chi tocca la più corta: quello
dovrà farsi animo e andare di corsa in città a prendere, senza farsene troppo accorgere, del pane e del vino.
Gli altri due intanto resteranno a far la guardia al tesoro. E se chi andrà in città non perderà tempo, appena
sarà notte ci metteremo d'accordo e trasporteremo questo tesoro dove meglio crederemo».
Sempre quel tale strinse le paglie in pugno e ordinò agli altri di estrarre a sorte. La paglia più corta toccò al
più giovane di tutti, il quale partì subito per la città.
Appena quello se ne fu andato, uno dei due rimasti disse all'altro: «Sai bene che per giuramento sei mio
fratello, ed io voglio subito dirti una cosa nel tuo interesse, ora che il nostro compagno se n'è andato.
Eccoci qui dunque con tutto quest'oro, che dovremmo dividere fra noi tre: se riuscissi a fare in modo che ce
lo dividessimo solo fra noi due, non credi che ti farei un piacere da amico?».
L'altro rispose: «Non vedo come sia possibile. Lui sa benissimo che noi due abbiamo l'oro. Come faremo?
Che cosa gli diremo?».
«Sai mantenere il segreto?» gli fece il primo furfante. «Se mi prometterai di sì, te lo dirò in poche parole
quel che dovremo fare, e vedrai che tutto andrà bene.»
«Senza dubbio, te lo giuro,» disse l'altro «parola mia, non ti tradirò.»
«Dunque,» fece il primo «sai bene che siamo in due, e che in due si è più forti di uno... Ecco, appena lui si
siederà, tu all'improvviso ti alzerai come per voler scherzare con lui; e mentre tu con lui per scherzo farai la
lotta, io lo colpirò ai fianchi, e anche tu col tuo pugnale farai lo stesso... Allora, mio caro amico, tutto
quest'oro ce lo divideremo fra te e me, e finalmente potremo toglierci tutte le voglie, e darci al gioco fin
che vorremo!»
Così, come avete sentito, quei due furfanti si misero d'accordo per ammazzare il terzo.
Costui (il più giovane, quello che s'era recato in città) non faceva intanto che rimuginare in cuor suo sulla
bellezza di tutti quei fiorini nuovi e luccicanti: «Oh, Signore! ...» diceva «se potessi avere tutto quel tesoro
per me soltanto, non ci sarebbe uomo sotto il trono di Dio più felice di me!...». Alla fine il demonio, nostro
nemico, gli mise in mente di comprare del veleno col quale eliminare i suoi due compagni; anzi, il demonio
lo trovò in tale disposizione d'animo, che gli fu facile condurlo alla perdizione. Quello infatti giurò fra sé che
avrebbe ucciso gli altri due e che mai se ne sarebbe pentito.
Così, senza perdere più tempo, trovandosi in città, andò da uno speziale e lo pregò di vendergli del veleno
contro i topi; gli disse perfino che dalla siepe veniva sempre una faina ad ammazzargli i capponi, e che
insomma, se fosse stato possibile, avrebbe voluto proprio vendicarsi di tutte quelle bestiacce che di notte lo
mandavano in rovina.
Gli rispose lo speziale: «Ti darò io una cosa che, Dio salvi l'anima mia, non c'è creatura al mondo che,
avendone assaggiato o sorbito una dose non più grande d'un granello di frumento, non passi subito di colpo
a miglior vita! Si tratta d'un veleno così forte e potente, che uccide in minor tempo di quanto s'impieghi a
far di corsa appena un miglio!».
Quello sventurato prese dunque il veleno, chiuso dentro una scatola, e corse nella strada vicina da un tale a
farsi imprestare tre grandi bottiglie: in due versò il veleno, mentre la terza la tenne pulita per metterci da
bere per sé, pensando che poi nella notte avrebbe avuto un gran da fare a portar via di là tutto quell'oro. E
quand'ebbe riempito di vino tutt'e tre quelle grandi bottiglie, quello scapestrato della malora ritornò dai
suoi compagni.
C'è bisogno di farla ancora tanto lunga? Quei due lo uccisero proprio come prima s'erano proposti e fu in un
attimo. Dopo di che, uno di loro disse: «Mettiamoci a sedere, e beviamo e stiamo allegri; il cadavere poi lo
seppelliremo!». Così dicendo, prese a caso una delle bottiglie in cui c'era il veleno, e bevve, e ne offerse
anche al suo compagno, e morirono di schianto tutt'e due. Anzi credo che Avicenna non abbia mai descritto
in nessun "cànone" (20) o trattato sintomi d'avvelenamento più orrendi di quelli ch'ebbero quei due
disgraziati prima di morire. E così dunque finirono i due assassini, e lo sleale avvelenatore con loro.
O maledizione delle maledizioni! O traditori omicidi! O malvagità umana! O crapula, lussuria e gioco! O tu
che offendi Cristo con ingiurie e bestemmie enormi, sia per abitudine che per ostentazione!
Ahimè, umanità, come può essere che verso il tuo Creatore, verso Colui che ti creò e ti redense col prezioso
sangue del suo cuore, tu sia, ahimè, tanto ipocrita e snaturata?... Ed ora, buona gente, Dio vi condoni le
vostre mancanze e vi liberi soprattutto dal peccato dell'avarizia! Il mio perdono non può mancare di
guarirvi, purché voi offriate "nobili" (21) o sterline, oppure anche spille d'argento, cucchiai, anelli. Orsù,
chinate il capo sotto questa santa bolla! Avanti, donne, offrite un po' della vostra lana! Io vi segno il nome
nel mio registro, e voi entrerete subito nella beatitudine del cielo. Fate qualche offerta, ed io, con l'alto mio
potere, v'assolvo di tutto, rendendovi candidi e puri come quando siete nati... Ecco, messeri, proprio così
predico io... Ed ora Gesù Cristo, medico delle vostre anime, vi conceda di ricevere il suo perdono, che
davvero è la miglior cosa che vi sia, su questo non v'inganno... Però, messeri, dimenticavo di dirvi una cosa.
Ho qui nella mia bisaccia certe reliquie e indulgenze d'un valore inestimabile in Inghilterra: le ricevetti
direttamente dalle mani del papa!... Ebbene, se c'è qualcuno fra voi che devotamente desideri fare qualche
offerta per ottenere la mia assoluzione, si faccia subito avanti, si metta qui in ginocchio e riceva umilmente
il mio perdono. Se però vuole, può prendere il perdono anche strada facendo, e anzi può rinnovarlo ad ogni
miglio che facciamo, rinnovando man mano la sua offerta di "nobili", o anche d'altre monete, purché siano
buone e valevoli... Per voi che siete qui è un onore poter disporre d'un bravo indulgenziere che può sempre
assolvervi, qualunque incidente vi possa capitare mentre siete in viaggio per la campagna. Qualcuno, ad
esempio, potrebbe cadere da cavallo e rompersi il collo! Pensate che sicurezza è per tutti voi ch'io sia
capitato in vostra compagnia: potrei infatti assolvervi tutti quanti, dal primo all'ultimo, anche nel caso che
l'anima vostra se ne volasse via dal corpo... Dovrebbe incominciare qui il nostro Oste, perché è quello che
certamente ha più peccati sulla coscienza. Avanti, messer Oste, incomincia tu ad offrire qualcosa, ed io ti
farò baciare tutte quante le mie reliquie... Via, per quattro soldi! Su, slaccia la borsa!...
«Ah no, maledizione di Cristo!» fece quello. «Mi venga un po' di bene, questo non sarà mai!... Vorresti
farmi baciare le tue vecchie brache, giurando che son le reliquie d'un santo, mentre ancora sono dipinte dal
tuo sedere! Per la croce ritrovata da Sant'Elena (22) vorrei piuttosto avere in mano mia i tuoi coglioni, altro
che reliquie e santarelli! Fatteli tagliare, t'aiuterò a portarli io, perché veramente andrebbero posti in un
tabernacolo, ma di merda di maiale!»
L'Indulgenziere rimase senza parola. Rimase così colpito, che non volle più parlare.
«Ah, non scherzerò mai più con te» disse il nostro Oste «né con alcuno che se la prenda tanto ...»
Ma subito allora, vedendo che tutti ridevano, intervenne il valente Cavaliere: «Basta, questo è più che
sufficiente! Messer Indulgenziere, via, tornate ad esser allegro e contento; e voi messer Oste, che a me
siete tanto caro, vi prego, date un bacio all'Indulgenziere... Su avvicinatevi, Indulgenziere, vi prego, e
torniamo come prima a ridere e a scherzare».
Allora quelli si baciarono, e tutti ripresero a cavalcare per la via.
Qui termina il Racconto dell'Indulgenziere.
Note del "Racconto dell'Indulgenziere".
Nota 1. Di Cristo.
Nota 2. Beveraggi medicamentosi indicati col nome dei due medici più famosi dell'antichità.
Nota 3. Volgare corruzione del nome d'un santo non bene identificato.
Nota 4. Antico farmaco composto di varie sostanze, che si credeva giovevole contro molti mali,
specialmente contro le morsicature degli animali velenosi.
Nota 5. Nel Medioevo anche una predica aveva le sue regole retoriche. Generalmente essa era suddivisa in
sei parti: "tema" o enunciazione del soggetto da trattare; "protema" o introduzione preparatoria;
"dilatazione" o esposizione del testo; "exemplum" o aneddoto illustrativo; "perorazione", per commuovere
l'animo degli uditori; "formula di chiusura".
Nota 6. «Radice d'ogni male è la cupidigia.» In questo caso il «tema» è tratto dalla I Lettera di San Paolo
Apostolo a Timoteo (6, 10).
Nota 7. Il sigillo del papa o di qualche importante vescovo.
Nota 8. Le scapole di pecora vennero usate nell'antichità e durante il Medioevo per predire il futuro e in
altre simili stregherie.
(*). Il "Racconto dell'Indulgenziere" è certamente contemporaneo al piano generale dei "Canterbury Tales".
Non se ne conosce tuttavia la precisa data di composizione. Si tratta d'un tipico «exemplum» o aneddoto
illustrativo, abilmente inserito dall'Indulgenziere nella sua predica. La storia dei tre scioperati che, per
cupidigia di denaro, s'uccidono a vicenda era diffusissima nel Medioevo. Si riscontra anche nel nostro
"Novellino" (LXXXII). Le sue fonti tuttavia risalgono alla letteratura orientale, dove compaiono per la prima
volta negli "Jàtakas", raccolta di leggende sulla nascita di Buddha. (Si ritroverà la stessa storia anche nel
"Secondo libro della giungla" di Kipling).
Nota 9. Il nipote d'Abramo.
Nota 10. Allusione alla famosa distinzione della filosofia scolastica tra ciò che vi è di costante, di
permanente nelle cose (sostanza) e le qualità o accidenti che si succedono e mutano nel tempo. Così la
forma, il profumo e il sapore che i cuochi danno a un determinato cibo sono accidenti rispetto alla sostanza
(ad esempio, carne) del cibo stesso.
Nota 11. Località spagnola presso Cadice, famosa per i suoi forti vini.
Nota 12. "Fish Sreet" e "Cheapside" delimitavano un rione di Londra, lungo il Tamigi, dove c'erano
numerose taverne.
Nota 13. Allusione alle manipolazioni dei vinai londinesi: il vino spagnolo di Lepe, pur essendo molto forte,
era meno pregiato dei vini della Guascogna, allora colonia inglese, i cui porti principali erano appunto La
Rochelle e Bordeaux.
Nota 14. «Non s'addice ai re, o Lamuel, non s'addice ai re bere del vino... che a volte avendo bevuto, non
dimentichino la legge, e non dimentichino i diritti d'ogni povero afflitto» ("Proverbi" 31, 4-5).
Nota 15. Il nome dell'ambasciatore dovrebbe essere Chilone, anziché Stilbone. L'episodio è narrato da John
of Salisbury nel suo "Policraticus" (1, 5), il primo trattato politico del Medioevo.
Nota 16. Demetrio Nicatore, re di Siria, sconfitto e fatto prigioniero dai Parti. Anche quest'episodio è
narrato da John of Salisbury.
Nota 17. Nell'abbazia di Hailes (Gloucestershire) era conservata una fiala che si credeva contenesse del
sangue di Gesù Cristo; più tardi venne pubblicamente distrutta per ordine di Enrico Ottavo.
Nota 18. I due dadi.
Nota 19. Probabile allusione a una delle quattro grandi pestilenze che scoppiarono sotto il regno di Edoardo
Terzo (nel 1349-50, nel 1361-62, nel 1369 e nel 1375-76).
Nota 20. Il "Cànone di medicina" del famoso filosofo arabo fece testo nelle università europee durante
tutto il Medioevo.
Nota 21. Monete del valore di circa sette scellini, coniate per la prima volta nel 1339, sotto il regno di
Edoardo Terzo.
Nota 22. La madre dell'imperatore Costantino.
Frammento Settimo.
RACCONTO DEL MARINAIO (*).
Qui comincia il Racconto del Marinaio.
Viveva una volta a Saint-Denis (1) un mercante ch'era ricco e che perciò la gente riteneva saggio. Costui
aveva una moglie d'eccezionale bellezza, la quale amava dar feste e stare in compagnia, il che costa assai
più caro di quanti sorrisi e riverenze si possano fare ai banchetti e ai balli: i saluti e i complimenti passano
come un'ombra sul muro, ma guai a chi deve pagare tutto! Povero marito, è lui che deve pagare, che deve
vestirci (2) e farci andare in ghingheri, grandeggiando proprio per suo decoro, mentre noi, tutte eleganti,
balliamo allegramente. E se per caso lui non può, oppure non gli va di fare una spesa di quel genere, perché
pensa che siano soldi buttati, bisogna allora che qualcun altro ci paghi il conto o ci presti del denaro, e la
faccenda diventa pericolosa...
Questo signor mercante aveva una gran bella casa e, vuoi per la sua generosità vuoi perché sua moglie era
bella, in quella casa bazzicava sempre tanta gente, che davvero c'era da farsene meraviglia... Ma per ora
andiamo avanti col racconto. Fra tutti i suoi ospiti, importanti o meno, c'era un monaco, bell'uomo e
aitante (credo che avesse una trentina d'anni), il quale era sempre là di continuo. Questo monaco
giovanotto, infatti, con la sua bella faccia, s'era presa una tale confidenza con quel buon uomo, già fin da
quando l'aveva conosciuto la prima volta, che in quella casa era proprio di famiglia, come può esserlo un
vero amico. Anzi, siccome questo buon uomo e il monaco di cui vi parlo erano nati tutt'e due nello stesso
paese, il monaco insisteva che fossero cugini; e l'altro non diceva mai di no, ma n'era contento come un
fringuello all'alba e ne provava in cuor suo un gran piacere. Arrivarono così a giurarsi eterna amicizia, e
ciascuno promise all'altro che gli sarebbe rimasto fratello per tutta la vita.
Quanto a spese, anche padre Giovanni era generoso, almeno in quella casa, e cercava in tutti i modi di
rendersi gradito, senza mai stare a lesinare. Non si scordava neppure dell'ultimo garzone e, appena
arrivava, dava una cosetta onesta a tutti, secondo il grado, dal padrone a tutta la servitù; cosicché tutti
erano contenti appena lo vedevano, come tanti uccelli allo spuntar del sole. Ma per ora basta con questa
storia...
Capitò che un giorno il mercante decidesse di preparare le sue cose per recarsi nella città di Bruges (3) a
comprare una partita di merce. Mandò perciò subito a Parigi un galoppino, a pregare padre Giovanni di
venire, a tutti i costi, a Saint-Denis, a passarvi un giorno o due allegramente con lui e sua moglie, prima
appunto che lui partisse per Bruges.
Il valente monaco di cui vi parlo, dato ch'era un uomo di gran prudenza e aveva anche un ufficio a cui
badare, chiese e ottenne un permesso dal suo abate e, con la scusa d'andare a sorvegliare le fattorie e i
granai lontani dal convento, poté recarsi subito a Saint-Denis. E chi fu meglio accolto di messer padre
Giovanni, nostro caro cugino, tutto garbo e cortesia? Aveva con sé un otricello di malvasia e un altro pieno
di vernaccia dolce (4) e, secondo il suo solito, anche della selvaggina. E lasciamoli dunque mangiare e bere e
divertirsi per un giorno o due, questo mercante e questo monaco...
Il terzo giorno, il mercante si alzò e con calma si mise a pensare a quello che gli occorreva, poi andò nel suo
studio per fare nel miglior modo i conti dell'annata, per vedere come andassero gli affari, quanto avesse
speso di suo e se avesse fatto progressi o no. Si mise davanti, sul tavolo dei conti, i suoi registri e tutte le
sue borse: aveva un tesoro molto ricco e un bel gruzzolo, perciò chiuse bene la porta dello studio, anche
perché non voleva che nel frattempo qualcuno lo distogliesse dai suoi conti; e così rimase là seduto fin
dopo le nove.
Anche padre Giovanni s'era alzato all'alba, ed ora passeggiava avanti e indietro nel giardino, recitando le
sue cose con devozione.
Allora anche la brava moglie, senza farsene accorgere, andò a passeggiare nel giardino, proprio là dove lui
camminava in raccoglimento, e lo salutò come aveva fatto altre volte. Aveva con sé una bambina che lei
poteva comandare come voleva e far filare a bacchetta, perché era ancora piccina. «Padre Giovanni, cugino
mio caro,» disse «che vi prende ad alzarvi così presto?»
«Cara nipote,» rispose lui «cinque ore di sonno per notte dovrebbero bastare, a meno che uno non sia un
vecchio rammollito, come certi uomini sposati che stanno lì fermi a covare, come una lepre frolla in una
tana, che ha paura di tutti i cani, grossi o piccoli che siano... Ma voi, piuttosto, cara nipote, perché siete così
pallida? Eh, certo m'immagino che il vostro brav'uomo v'abbia fatto fare una notte di strapazzi, e perciò ora
avreste bisogno d'andare subito a riposare!» E così dicendo, scoppiò a ridere allegramente e si fece tutto
rosso a questo pensiero.
La bella moglie si mise a scuotere la testa, e disse: «Eh, solo Dio lo sa!». Poi soggiunse: «No, cugino mio, per
me le cose non stanno così. Anzi, per quel Dio che m'ha dato l'anima e la vita, non c'è moglie in tutto il
regno di Francia che abbia meno soddisfazioni di me in quel penoso trastullo. Io sì che potrei dire 'ahimè,
disgraziata, che sono nata!', ma a nessuno» sospirò «ho il coraggio di raccontare come mi vanno le cose.
Così penso di andarmene da questo paese, o di farla finita una buona volta, tanto sono stufa di paure e di
crucci!».
Il monaco, guardando fissa negli occhi la donna, le disse: «Ahimè, nipote mia, Dio non voglia che voi, per
qualsiasi dispiacere o timore, commettiate qualche insano gesto. Ditemi piuttosto la vostra pena: forse
potrei consigliarvi o aiutarvi nel vostro affanno. Su, ditemi tutto quello che vi tormenta, tanto resterà un
segreto. Vi giuro, qui sul mio breviario, che finché vivrò non tradirò mai in alcun modo una vostra
confidenza!».
«E lo stesso io dico a voi,» replicò lei «vi giuro su Dio e su questo breviario che, neanche se mi facessero a
pezzi e a costo d'andare all'inferno, non tradirò mai una parola di quello che mi direte, e questo non tanto
perché siamo cugini o conoscenti, ma sinceramente, per affetto e per fiducia.» Così giurarono, poi si
diedero un bacio, e ciascuno disse all'altro quello che gli premeva.
«Cugino,» disse lei «se avessi tempo, cosa che non ho, vi racconterei qui subito in questo posto la storia
della mia vita, quello che ho sofferto da quando sto con mio marito, anche se lui è vostro cugino...»
«Ma per Dio e per San Martino,» fece il monaco «è mio cugino come lo è quella foglia lì appesa a
quell'albero! Io lo chiamo così, per San Dionigi di Francia, soltanto per avere qualche motivo in più per
venire qui da voi... In realtà siete voi colei ch'io amo più d'ogni altra al mondo, vi do la mia parola di
religioso! Ma ora ditemi la vostra pena, prima che lui scenda: poi sbrigatevi e andate subito via.»
«Amor mio caro,» disse lei «o padre Giovanni mio! Forse sarebbe meglio ch'io tenessi per me questo
segreto, ma non ne posso più, devo mandarlo fuori. Come uomo, mio marito è con me il peggiore che ci sia
mai stato da che mondo è mondo. Ma siccome sono sua moglie, non è bello che spiattelli in giro come
vanno le nostre faccende private, sia a letto che altrove. Dio con la sua grazia mi guardi dal raccontare certe
cose! Da quanto capisco, una donna non dovrebbe dir altro che bene di suo marito, ma tutto questo io lo
confido a voi soltanto. Insomma, m'aiuti Iddio, lui non vale proprio niente, neppure quanto un moscerino!...
Ma ciò che più mi secca è la sua taccagneria. Sapete bene che, proprio per natura, noialtre donne
desideriamo sei cose dai nostri mariti: li vogliamo arditi, saggi, ricchi, generosi, obbedienti alla moglie e
freschi a letto. E invece, sangue di Cristo, per vestirmi in modo da fargli fare bella figura, domenica
prossima dovrò pagare cento franchi, se no, sarò spacciata! Oh, preferirei piuttosto non esser nata, ch'esser
fatta segno alle maldicenze o alle sgarberie! E se poi lo venisse a sapere mio marito, sarei rovinata: perciò vi
prego, prestatemi voi questa somma, se no, veramente sono morta. Ve ne scongiuro, padre Giovanni,
prestatemi questi cento franchi! Perdio, non vi farò mancare la mia riconoscenza, se avrete la bontà di far
ciò che vi chiedo! Perché un giorno vedrete che vi pagherò, e vi farò qualunque piacere e servizio che so
fare, tutto quello che voi vorrete chiedermi. Se non lo farò, Dio mi mandi un castigo ancora più orribile di
quello contro Ganellone di Francia!» (5).
Il monaco, tutto gentile, così le rispose: «Oh, veramente, signora mia cara, mi fate tanta compassione... Vi
giuro e vi do la mia parola che, appena vostro marito sarà partito per le Fiandre, vi libererò io da questa
vostra preoccupazione! Senz'altro vi porterò i cento franchi!». Così dicendo, la prese per i fianchi e se
l'abbracciò stretta, baciandola più volte. Poi le disse: «Andate ora, piano e senza far rumore, e fate presto a
preparare il pranzo; il mio cilindro (6) segna già le nove... Su, andate, e siatemi fedele com'io sarò con voi!».
«Ma certo, signor mio, Dio me ne guardi altrimenti...» disse lei. E se n'andò, vispa come una cinciallegra, a
ordinare ai cuochi di sbrigarsi perché il pranzo fosse pronto ben presto. Poi corse su da suo marito e bussò
forte alla porta dello studio.
«"Qui est là"?» chiese lui.
«Pietro, sono io!» rispose lei «ma via, signore, fino a quando starete a digiuno? Per quanto tempo ne avete
ancora con i vostri conti e le vostre somme, i vostri registri e la vostra roba? Che il diavolo se li porti, tutti
questi bilanci! E sì che, perdinci, non è che vi manchi la grazia di Dio! Su, venite giù e per oggi lasciate stare
le vostre borse! Non vi vergognate a lasciar padre Giovanni tutto il giorno come un derelitto, senza
mangiare? Via, andiamo a messa e poi mettiamoci a tavola.»
«Tu moglie» disse lui «non puoi neanche figurarti il gran da fare che abbiamo noi. Di noi che siamo nel
commercio, Dio mi protegga e Sant'Ivo mi mandi un po' di bene, sì e no dieci su dodici riusciremo a
mantenerci a galla, pur lavorando sodo di continuo finché campiamo. Se no, non ci rimane che far buona
cera a cattivo gioco, a meno che non ce la squagliamo prima, con la scusa di andare in pellegrinaggio! Ecco
perché in questo balordo mondo ho tanta necessità di stare con gli occhi aperti: nel commercio bisogna
sempre aver paura dei rovesci della fortuna. Domattina all'alba partirò per le Fiandre e tornerò al più
presto. Perciò mia cara moglie, mi raccomando, cerca di essere gentile e cortese con tutti, curati della
nostra roba e governa la casa onestamente. Ad ogni modo, hai tutto quello che serve in una casa di
benestanti: non ti manca né il vestiario né il mangiare, e non ti scarseggia davvero il denaro nella borsa.»
Così dicendo, chiuse la porta dello studio e scese, senza perdere più tempo. Fu detta una messa breve, le
tavole furono preparate alla svelta; insomma, in un momento quelli erano a sedere e il mercante offrì al
monaco un eccellente pranzo.
Poco dopo il desinare, padre Giovanni, tutto serio, prese in disparte il commerciante e, senza che gli altri
sentissero, gli disse: «Caro cugino, stando così le cose, vedo che ve ne andate a Bruges. Che Dio e
Sant'Agostino vi proteggano e vi guidino! Mi raccomando, cugino mio, state attento col cavallo e regolatevi
con prudenza nel mangiare, specialmente con questo caldo. Fra noi due non c'è bisogno di stare a far tanti
convenevoli: buon viaggio, dunque, e che Dio vi ripari dai grattacapi! Se c'è qualcosa che a qualunque ora
del giorno o della notte io possa fare per voi, purché in qualche modo me la comandiate, subito sarà fatta
come voi desiderate... Ora però, prima che partiate, se permettete, avrei io qualcosa da chiedervi, e cioè
d'imprestarmi, per una settimana o due, cento franchi... Mi servirebbero per comprare del bestiame da
mettere in una delle nostre masserie: Dio m'aiuti, vorrei che provaste ad averne una anche voi! Ad ogni
modo, state tranquillo, non mancherò al mio impegno: neanche se fossero mille franchi, tarderei a
restituirveli. Ma, mi raccomando, che la cosa resti segreta, perché devo comprare queste bestie proprio
stasera. Ed ora, di nuovo buon viaggio, mio carissimo cugino, e ancora tante grazie per il disturbo e la vostra
accoglienza!».
Il nobile mercante, molto signorilmente, gli rispose e disse: «Ma figuratevi, padre Giovanni, cugino mio,
quello che mi chiedete è una sciocchezza! Il mio denaro è vostro, quando ne avete bisogno. E non solo il
mio denaro, ma anche la mia roba: prendete quello che volete, e Dio non voglia che facciate complimenti!
Certo, e lo sapete abbastanza bene anche voi, per noi commercianti il denaro è il nostro aratro: tiriamo
avanti a forza di crediti finché abbiamo un nome, ma finito il denaro, è finito il gioco. Ricordatevi dunque di
ripagarmi, ma fatelo pure con vostro comodo: in ciò che posso, son ben contento di farvi un favore!».
Andò poi subito a prendere i cento franchi e, senza farsi notare, li consegnò a padre Giovanni. Così nessuno
al mondo seppe di questo prestito, all'infuori del mercante e di padre Giovanni, i quali bevvero,
chiacchierarono, passeggiarono un po' e si svagarono, finché padre Giovanni non se ne tornò a cavallo nella
sua badia.
Giunto il mattino, il mercante partì per le Fiandre, portandosi per buona guida il suo garzone, e arrivò
felicemente a Bruges. E subito questo mercante, puntuale e spiccio, andò in giro per i suoi affari,
comprando e prendendo a credito. Mai una volta andò a giocare a dadi o a ballare: insomma, per farla
breve, se la passò proprio da mercante, e dunque lasciamolo stare.
La domenica dopo che lui era partito, padre Giovanni arrivò a Saint-Denis bello fresco, con barba e capelli
fatti. E in tutta la casa non ci fu garzone o altro che non si sentisse felicissimo perché era tornato messer
padre Giovanni. Ma andiamo subito dritti al punto: la bella mogliettina si mise d'accordo con padre
Giovanni che, per quei cento franchi, lui l'avrebbe avuta tutta la notte a grembo in su fra le sue braccia.
Detto, fatto: per tutta la notte se la spassarono in allegria, finché al mattino padre Giovanni se n'andò per la
sua strada, dicendo alla servitù: «Addio, buona giornata!». Intanto nessuno di loro, o altri in paese, aveva il
minimo sospetto di padre Giovanni, il quale se ne tornò a cavallo nella sua badia o dove altrimenti gli fece
comodo; e per ora basta, smettiamola di parlare di lui.
Il mercante, quando la fiera fu terminata, ritornò a Saint-Denis a far festa e baldoria con sua moglie, e le
raccontò come la roba fosse cara e come avesse dovuto fare un debito. Così ora si trovava obbligato, per
una lettera di cambio, a pagare al più presto ventimila scudi. Perciò il mercante ripartì per Parigi a farsi
prestare, da certi amici che aveva là, un po' di franchi, portandone con sé un altro po'. Una volta arrivato in
quella città, per prima cosa andò a trovare padre Giovanni, per la grande amicizia e il grande affetto che
sentiva: non per chiedergli o farsi prestare del denaro, ma semplicemente per sapere e vedere come stava
e parlargli delle sue cose, così come si fa tra amici. Padre Giovanni gli fece un'allegra e festosa accoglienza;
allora lui gli raccontò di nuovo, per filo e per segno, come, grazie a Dio, avesse comprato bene e a prezzi di
favore tutta la sua merce: soltanto che adesso, per stare veramente tranquillo e in pace, doveva in qualche
modo saldare una lettera di cambio.
Padre Giovanni gli rispose: «Mi fa proprio piacere che stiate bene e siate ritornato. Se avessi la benedizione
d'esser ricco, non vi farei certo mancare i ventimila scudi che vi occorrono, proprio a voi che l'altro giorno
m'avete così gentilmente prestato quella somma, di cui ancora, per quanto so e posso, io vi ringrazio, per
Dio e per San Giacomo! Ma veramente ho già restituito la stessa somma alla nostra padrona, a vostra
moglie, a casa, proprio sul vostro banco: lei lo sa benissimo, per certi segni che le ho lasciato per
ricordarglielo... Ed ora, col vostro permesso, non posso più fermarmi: il nostro abate deve andare subito
fuori città, e bisogna ch'io l'accompagni. Salutatemi la nostra padrona, la mia dolcissima nipote, e state
bene, caro cugino, arrivederci!».
Il mercante, che anche a Parigi era conosciuto come uomo molto accorto e saggio, ottenne facilmente
credito, e riuscì dunque a pagare in contanti la somma dovuta a certi lombardi (7) per quella sua lettera di
cambio. Anzi, se ne tornò a casa allegro come un picchio, calcolando che, per certi altri affari conclusi nel
frattempo, da quel viaggio avrebbe ancora sicuramente guadagnato mille franchi, più tutte le spese.
Sua moglie gli andò incontro premurosa alla porta, com'era ormai da tempo sua abitudine, e per tutta
quella notte se la spassarono davvero in allegria, ora che lui s'era ancor più arricchito e non aveva neppure
un debito. Già era giorno, quando il mercante si mise di nuovo ad abbracciar sua moglie e a baciarla in viso;
poi le fu sopra e riprese a lavorar sodo.
«Ora basta!» diceva lei «perdio, ne avete avuta a sazietà!» E intanto ricominciava con lui a far la frasca...
Finché alla fine questo mercante disse: «Perdio... veramente con te sono un po' arrabbiato, moglie mia,
anche se ciò non mi fa piacere. E sai perché? Perché mi viene in mente, perdio, che m'hai fatto fare una
brutta figura con mio cugino, padre Giovanni. Potevi anche dirmelo, prima che partissi, che quei cento
franchi li aveva restituiti a te, lasciandoti anche dei segni... E' rimasto molto male, quando gli ho parlato di
prestiti, così almeno m'è sembrato dalla sua faccia. Eppure, per Dio re del cielo, io nemmeno ci pensavo a
chiedergli qualcosa!... Mi raccomando, moglie, non farlo mai più. Dimmelo sempre, prima ch'io me ne vada,
se qualche debitore in mia assenza t'ha pagato, perché non vorrei, per colpa della tua negligenza, trovarmi
a chiedere ciò che invece m'è stato restituito».
La moglie, per nulla intimorita, subito gli ribatté con spavalderia: «Maria Santissima, lo disprezzo proprio
quel monaco impostore di padre Giovanni! Dei suoi segni non m'importa un bel niente. M'ha portato del
denaro, questo è vero... ma, accidenti alla sua grinta da monaco, Dio sa ch'io mi credevo ed ero sicura che
me l'avesse regalato!... in considerazione di voi, per farmi una gentilezza e un complimento, perché siamo
cugini, e anche per la buona accoglienza che qui gli abbiamo sempre fatto... Ma siccome vedo che ora mi
trovo nei pasticci, voglio subito con voi arrivare al dunque. In fondo voi avete dei debitori ben più infingardi
di me! Io infatti vi pagherò di tutto puntualmente, un po' per giorno; e se sempre non ce la farò, sono pure
vostra moglie: mettetelo sul mio conto, e vi pagherò appena potrò! Del resto, parola mia, quei soldi me li
son spesi tutti per vestirmi, mica li ho buttati! E siccome in fondo li ho impiegati per fare onore a voi, su, per
amor di Dio, non siate in collera, ma torniamo a ridere e a divertirci. Prendetevi intanto in pegno questo
mio bel corpo... perdio, vedrete che almeno a letto vi pagherò! Su, perdonatemi, mio caro sposo, voltatevi
di qua e non fate quella faccia!».
Il mercante vide che non c'era altro rimedio; alzar la voce non sarebbe stato che una gran stupidaggine,
ormai la cosa non si poteva più rettificare. «Va bene, moglie,» disse «io ti perdono, ma in vita tua non
metterti più a largheggiare in questo modo. E tieni di maggior conto i nostri beni, questo soprattutto ti
raccomando».
Così finisce ora il mio racconto, e che Dio ci conceda di narrarne ancora tanti fino alla fine dei nostri giorni.
Amen.
Qui termina il Racconto del Marinaio.
Ecco le soddisfatte parole dell'Oste al Marinaio e alla madre Priora.
«Ben detto, per "corpus dominus"!» (8) disse il nostro Oste. «Che tu possa a lungo navigare per la costa,
egregio mio messere, Marinaio egregio! E a quel monaco Dio mandi invece mille carrettate di disgrazie
all'anno! Oh, gente, attenzione a certi scherzi! Guardate un po' che figura di macaco fece fare quel monaco
a quell'uomo, ed anche a sua moglie, per Sant'Agostino! Ah, basta, basta coi monaci per la casa... Ma
andiamo avanti ora, e vediamo un po' a chi, fra tutta la compagnia, tocchi raccontar un'altra storia.» E col
fare cerimonioso d'una verginella, soggiunse: «Madonna Priora, con vostra licenza... se soltanto sapessi di
non incomodarvi, penserei che tocca a voi il prossimo racconto, sempre che voi lo desideriate. Volete
dunque esaudirci, madonna cara?».
«Volentieri» ella rispose, e raccontò quanto voi ora udrete.
Note del "Racconto del Marinaio".
(*). Il "Racconto del Marinaio", che ha per tema la beffa giocata da un monaco a un marito credulone,
presenta diverse somiglianze con la prima e la seconda novella dell'ottava giornata del "Decamerone". Ma
si tratta d'un tema assai comune nella letteratura popolare del Medioevo (ne dà una versione anche il
Sercambi nelle sue "Novelle", XIX), e non si può perciò parlare con sicurezza di derivazione dal Boccaccio.
L'ambiente francese del racconto ha fatto anche pensare a un "fabliau" andato perduto.
Nota 1. Cittadina nei dintorni di Parigi.
Nota 2. Secondo alcuni studiosi l'uso del pronome «ci» (us) sarebbe dovuto al fatto che il racconto, in
origine, era destinato alla Donna di Bath; secondo altri, allo stile umoristico del Chaucer che, per
l'occasione, farebbe assumere al Marinaio il carattere di un'allegra comare.
Nota 3. Nel Medioevo questa città delle Fiandre era il centro commerciale dell'Europa.
Nota 4. Il Marinaio, che sta raccontando, è un intenditore di vini. Quelli italiani erano già allora molto
pregiati.
Nota 5. Ganellone, o Gano di Maganza, tradì l'esercito di Carlo Magno a Roncisvalle e fu condannato a
morire orrendamente squartato.
Nota 6. Il cilindro ("chilyndre") era una specie di meridiana portatile; e consisteva appunto d'un cilindro di
legno che aveva infissa sulla base superiore una piccola asta verticale, la cui ombra, proiettandosi sulla
superficie del solido dov'erano segnate certe gradazioni corrispondenti all'altezza del sole, ai mesi dell'anno
e al segno dello zodiaco, si muoveva a seconda della luce solare e indicava il volgere del tempo.
Nota 7. I lombardi furono nel Medioevo famosi in tutta Europa come cambiavalute. In Inghilterra,
soprattutto a partire dal 1290, quando, in seguito allo scacco delle Crociate, Edoardo Primo espulse tutti gli
ebrei dal paese, gl'italiani a loro volta esercitarono il mestiere di banchieri. E i cambiavalute lombardi
diedero, a Londra, il loro nome perfino alla strada dove tenevano negozio, "Lombard Street".
Nota 8. La forma corretta dovrebbe naturalmente essere "corpus Domini", ma non è il caso di sottilizzare
troppo col latino parlato dall'Oste!
Prologo
AL RACCONTO DELLA PRIORA.
Prologo al Racconto della Priora.
«"Domine dominus noster" (1)... O Signore, Signor nostro, come si diffonde meravigliosamente il tuo nome
per tutto l'immenso mondo!» ella cominciò. «Non solo celebrano le tue preziose lodi uomini di gran
decoro, ma perfino dalla bocca dei bambini viene lodata la tua benevolenza, tanto che a volte sembrano
glorificarti proprio mentre ancora sono attaccati alla poppa. Ecco perché anch'io voglio ingegnarmi, come
so e posso, a raccontar una storia in lode tua e di quel candido giglio che ti generò ed è sempre vergine.
Non ch'io possa accrescere la sua gloria, giacché lei stessa è gloria e fonte d'ogni bontà, dopo suo Figlio, e
sostegno delle anime... Vergine Madre, o vergine Madre piena di grazia, o roveto che, senza consumarti,
ardesti davanti agli occhi di Mosè, (2) tu che con la tua umiltà strappasti a Dio lo Spirito Santo che in te
discese e per virtù del quale, quando ti s'accese il cuore, fu concepita la Sapienza del Padre, (3) aiutami a
narrare questo mio racconto in tuo onore!... Signora, la tua bontà, la tua magnificenza, la tua virtù e la tua
grande umiltà, non si possono esprimere a parole in alcuna lingua! Però molte volte, Signora, prima ancora
che gli uomini ti preghino, tu nella tua bontà liberamente li precorri (4) e ci fai luce con la tua preghiera per
guidarci dal tuo diletto Figlio... Regina benedetta, il mio ingegno è così scarso, ch'io non so se riuscirò a
sostenere l'impegno di proclamare i tuoi grandi meriti. Mi sento proprio come un bambino d'un anno o
anche meno, che dice a stento qualche parola, e perciò, ti prego, guida la mia voce, perché almeno
qualcosa di te anch'io riesca a dire.»
EXPLICIT.
RACCONTO DELLA PRIORA (*).
Qui comincia il Racconto della Priora.
In una grande città dell'Asia, (5) proprio fra l'abitato dei cristiani c'era un ghetto, che il signore del paese
proteggeva per turpi usure e altri ignobili interessi, odiosi a Cristo e ai suoi fedeli. Per quella contrada si
poteva andare e venire sia a piedi che a cavallo, perché era libera e aperta ai due lati. E proprio laggiù in
fondo ad essa i cristiani avevano una piccola scuola, e in quella scuola c'era uno sciame di bambini, tutti figli
dei cristiani, che imparavano anno per anno quello che là usava, e cioè a cantare e a leggere, come del
resto fanno tutti i ragazzi da piccini.
Tra quei frugoletti c'era il figlio d'una vedova, uno scolaretto di sette anni, che a scuola andava
puntualmente tutti i santi giorni. E aveva l'abitudine, ogni volta che vedeva un'immagine della mamma di
Gesù, d'inginocchiarsi proprio come va fatto e di dire la sua "Ave Maria", pur trovandosi per la strada.
Difatti quella vedova aveva insegnato al suo frugolino che bisogna venerarla sempre nostra Signora
benedetta, la cara mamma di Gesù; e lui non se ne scordava mai, ansioso anzi d'impratichirsi sempre come
fanno i bambini buoni... Quando penso a questo fatto, mi viene sempre in mente come anche San Nicola
(6), così piccino, facesse onore a Gesù...
Dunque, quel marmocchietto che non sapeva neanche ancora leggere, seduto a scuola davanti al sillabario,
sentiva i più grandicelli che già imparavano dal corale a cantare "Alma Redemptoris". (7) Allora si fece
coraggio e pian piano si avvicinò a loro, orecchiando bene parole e note, e finalmente riuscì a imparare a
memoria il primo verso. Certo, piccino e tenero com'era, non sapeva ancora che cosa significassero quei
paroloni in latino, ma un bel giorno andò da un suo compagno e gli chiese di spiegargli quel canto nella sua
lingua e di dirgli almeno perché s'usasse cantarlo. In ginocchio lo pregò di tradurglielo e spiegarglielo!
Allora il suo compagno, ch'era un po' più grandicello, gli rispose: «Questo canto, ho sentito dire che fu
composto per nostra Signora piena di grazia e benedetta, per salutarla e per pregarla di aiutarci e di
soccorrerci nell'ora della morte. Ma poi non so spiegarti altro. So cantare, ma la grammatica la conosco
poco».
«E dunque un canto di devozione alla mamma di Gesù?» chiese quell'innocente. «Allora voglio proprio
impegnarmi per impararlo prima che arrivi Natale! Anche a costo di farmi sgridare perché non so il
sillabario, e di farmi perfino picchiare tre volte all'ora, voglio impararlo per rendere onore a nostra
Signora!»
Così, un po' per giorno, tornando a casa, il suo compagno di nascosto si mise a insegnargli quel canto,
finché lui non l'imparò bene tutto a memoria, accompagnando senz'alcuna esitazione ogni parola alla sua
nota. Da allora s'abituò a ripeterlo due volte al giorno: una mentre si recava a scuola, e un'altra mentre
tornava a casa; e tutto per rendere onore alla mamma di Gesù. Proprio dunque mentre attraversava il
ghetto, sia all'andata che al ritorno, quel frugolino intonava allegramente a gran voce: "O Alma
Redemptoris!"... Aveva il cuore così pieno di dolce tenerezza per la mamma di Gesù, che, pur di venerarla,
non poteva fare a meno di cantare per la strada.
Ma il nostro primo nemico, quel serpente di Satana, che ha deposto un vespaio nel cuore dei giudei, si fece
tutto gonfio e disse: «Ahimè, popolo ebreo! Vi sembra una bella cosa che un simile monello cammini per
dispetto avanti e indietro come gli pare, salmodiando certe frasi che sono un insulto contro la vostra
legge?».
Allora gli ebrei complottarono di togliere dal mondo quell'innocente, ed assoldarono un sicario che viveva
rintanato in uno di quei vicoli. Così un giorno, mentre quel povero frugolino passava di là, quel giudeo
maledetto l'acchiappò e, tenendolo ben fermo, gli tagliò la gola e lo gettò in un pozzo... anzi, in una latrina
vi dico che lo gettarono quegli ebrei, proprio dove loro andavano a svuotarsi le interiora!
O razza maledetta di nuovi Erodi, che cosa può mai valervi il vostro animo malvagio? Tanto il delitto non
resta segreto, statene certi, soprattutto quando torna a maggior gloria di Dio. Oh, il sangue grida vendetta
sul vostro orribile misfatto! O martire consacrato alla verginità, tu ormai cantando segui per sempre il
divino Agnello immacolato, descritto a Patmos dal grande evangelista San Giovanni, il quale dice che di
fronte a quell'Agnello intonano un canto sempre nuovo coloro che, carnalmente, non conobbero mai
donna (8)...
La povera vedova, intanto, rimase tutta la notte ad aspettare il suo piccino, ma lui non venne. Appena
cominciò a spuntare il giorno, col volto sbiancato dalla paura e dall'apprensione, corse a cercarlo a scuola,
dappertutto, finché non venne a sapere che l'ultima volta era stato visto proprio nel ghetto.
Col suo cuore di mamma colmo di pena, si precipitò, come impazzita, dove ancora aveva qualche speranza
di poter trovare il suo piccino, senza cessare un momento d'invocare l'umile e misericordiosa madre di
Cristo. E si rivolse dunque a quei maledetti ebrei. L'interrogò ad uno ad uno, quanti abitavano in quel luogo,
li supplicò d'aver pietà di lei e di dirglielo se per caso il suo bambino fosse passato di là. Tutti le risposero di
no.
Gesù allora con la sua grazia le diede l'ispirazione d'andare a chiamare il suo bambino proprio presso il
pozzo in cui era stato buttato... O gran Dio che ti compiaci d'essere glorificato dalla bocca dell'innocenza,
ecco, guarda il tuo prodigio! Ecco infatti che quella gemma di castità, quello smeraldo, quell'acceso rubino
del martirio, pur giacendo supino con la gola spezzata, improvvisamente riprese a cantare "Alma
Redemptoris"... così forte da far echeggiare la sua voce per tutto il quartiere.
I cristiani che passavano per la strada accorsero curiosi di sapere di che cosa si trattasse e senza indugi
mandarono a chiamare il borgomastro. Costui venne subito senza farsi aspettare e, invocando Cristo re del
cielo e la Madre sua, onore del genere umano, fece incatenare gli ebrei.
Poi, fra pietosi lamenti, venne tirato su quel povero bambino che sempre continuava a modulare il suo
canto e, con una solenne precisione, venne trasportato nell'abbazia più vicina. La sua mamma cadde
svenuta presso la bara, e a stento le persone intorno riuscirono ad accompagnar via questa seconda
Rachele (9).
Senza perder tempo, il borgomastro condannò a morire fra il tormento e il disonore quegli ebrei ch'erano
stati complici nel delitto. Lo fece subito, perché proprio non poteva più tollerare simili scellerati... E chi
male merita, male deve avere! Quelli vennero prima fatti trascinar via da cavalli selvaggi, e poi impiccati
come voleva la legge.
Intanto quell'innocente giaceva sulla bara davanti all'altar maggiore, mentre veniva celebrata la messa. Al
termine, l'abate coi suoi monaci s'affrettò a dargli sepoltura, ma al momento della benedizione il piccino
prese a bisbigliare e, proprio mentre l'aspergevano con l'acqua santa, intonò ancora "O Alma Redemptoris
Mater"...
Allora l'abate, ch'era un uomo santo, come sono i monaci (o come almeno dovrebbero essere), si rivolse al
piccolo dicendo: «Diletto figliolo, ti supplico, in nome della Santissima Trinità, dimmi, come può essere che
tu canti, se in apparenza hai la gola mozzata?».
«M'hanno troncato la gola fino all'osso» rispose il bambino «e dovrei dunque per natura esser morto già da
tempo. Ma, come nei libri sta scritto, Gesù Cristo vuole che la sua gloria continui e si perpetui: ecco perché
in onore della sua cara mamma io posso cantare ancora chiaramente e forte "O Alma"... Ho sempre amato,
con tutte le mie forze, quella fonte di misericordia che è la dolce mamma di Gesù, e mentre stavo per
lasciare questa vita, ella venne da me e mi disse di cantare il suo inno, proprio quand'ero in punto di
morte... e mentre cantavo, mi sembrò che lei mi posasse una perla sulla lingua. Ecco perché ancora canto in
onore della beata Vergine piena di grazia... e sempre canterò finché dalla mia lingua non verrà tolta quella
perla... Me l'ha promesso lei: 'Piccino mio, ti verrò a prendere, quando ti verrà tolta la perla dalla lingua.
Non aver paura, non mi scorderò di te'.»
Quel santo monaco, ossia l'abate, gli afferrò la lingua e ne tolse via la perla, e allora il piccolo spirò
dolcissimamente. Vedendo quel miracolo, l'abate non poté trattenere le lacrime, che gli scesero come
gocciole di pioggia salata, ed egli cadde bocconi a terra, dove rimase immobile quasi vi fosse incatenato.
Anche gli altri monaci si prostrarono piangendo sul pavimento, e resero lodi alla cara mamma di Gesù. Poi
s'alzarono e andarono a trasportar via il piccolo martire dalla bara, e ne racchiusero il tenero corpicino in
una tomba di marmo chiaro. Là egli è ancora, e Dio ci conceda un giorno d'incontrarlo!
O piccolo Ugo di Lincoln, (10) trucidato anche tu dagli ebrei maledetti, come tutti ancora ricordano, prega
per noi malfermi peccatori, affinché, nella sua clemenza, Dio misericordioso moltiplichi su di noi la sua pietà
infinita, a maggior gloria di Maria sua madre. Amen.
Qui termina il Racconto della Priora.
Note del Racconto della Priora.
Nota 1. Sono le parole con cui inizia il Salmo 8 che apriva il servizio del mattutino alla Beata Vergine. Tutto il
prologo è intriso d'espressioni tratte dalle sacre scritture e dalla liturgia.
Nota 2. Il roveto ardente che Dio fece apparire davanti a Mosè ("Esodo" 3, 2) veniva interpretato anche
come simbolico presagio della Vergine su cui sarebbe disceso lo Spirito Santo.
Nota 3. «Cristo è... sapienza di Dio, (1 "Corinzi" 1, 24).
Nota 4. Ricordo d'una terzina dantesca («La tua benignità non pur soccorre / A chi dimanda, ma molte fiate
/ Liberamente al dimandar precorre», "Paradiso", XXXIII, 16-18) che il Chaucer più avanti tradurrà quasi alla
lettera, nel "Prologo della Seconda Monaca".
(*). Il "Racconto della Priora" (quasi certamente contemporaneo al piano generale dei "Canterbury Tales"),
avendo per tema una leggenda o, più precisamente, un «miracolo» della Vergine, appartiene ad una
tradizione così ricca, che non è il caso di parlare di fonti. Ad essa s'intreccia la tradizione anti-semitica
dell'uccisione di bambini cristiani da parte degli ebrei, che appare nelle storie ecclesiastiche a partire dal
quinto secolo in poi.
Nota 5. Pare che sotto questa «grande città dell'Asia» si debba invece intravedere la città inglese di
Norwich, dove la colonia degli ebrei godeva della speciale protezione del re.
Nota 6. Secondo la leggenda, San Nicola, ancora in fasce, si rifiutava di prendere il latte dalla madre nei
giorni di digiuno, cioè il mercoledì e il venerdì.
Nota 7. Inno alla Vergine che incomincia appunto con le parole "Alma Redemptoris Mater"
Nota 8. Accenno a un brano dell'"Apocalisse" (14, 3-4).
Nota 9. Il pianto di Rachele, moglie di Giacobbe, per la perdita dei propri figli, fa da profetico parallelo al
pianto di tutte le madri durante la strage degli innocenti ("Matteo" 2, 18).
Nota 10. Nel 1255 un ragazzo d'otto anni, che si chiamava Ugo, fu trovato morto in un pozzo presso Lincoln.
Suggestionati dal l'idea che gli ebrei crocifiggessero ogni anno un bambino cristiano, gli abitanti della città
costrinsero un certo Copin a confessare che un gruppo d'ebrei abitanti in quei dintorni aveva assassinato il
ragazzo. Quindi il disgraziato Copin venne impiccato, mentre la tomba del piccolo Ugo divenne mèta di
devoti pellegrinaggi.
Prologo
A SER TOPAZIO.
Ecco le allegre parole dell'Oste a Chaucer.
Terminato che fu il racconto di questo miracolo, avevano tutti un'espressione così seria, che a vederli c'era
da farsene veramente meraviglia. Ma finalmente il nostro Oste prese a scherzare e, rivolgendosi per la
prima volta a me, (1) disse: «Che razza d'uomo sei?» fece. «Sembra che tu stia per scovare una lepre, da
come tieni sempre gli occhi fissi a terra. Avvicinati, su, sii allegro! E voi, signori, attenzione, fate posto a
quest'uomo! E' fornito di pancia proprio come son io: un tale bambolotto starebbe ben in braccio a
qualunque donna, piccolo e bello com'è di viso. A vederlo, sembrerebbe un elfo, e infatti non fa discorsi con
nessuno... Ehi, adesso tocca a te raccontar qualcosa, perché gli altri hanno già parlato: narraci dunque un
bel racconto allegro, e sbrigati!»
«Oste,» dissi «non avertela a male, ma veramente racconti non ne so: conosco soltanto una poesia che
imparai tanto tempo fa.»
«E vada per la poesia!» fece lui. «Vedrete che ora sentiremo qualcosa di speciale, a giudicare dalla sua
faccia...»
SER TOPAZIO (*).
Qui comincia il Racconto di Chaucer su Topazio.
LASSA PRIMA.
Su, signori, ascoltate,
Dirò cose veritiere:
L'allegria e le bravate
D'un bel prode cavaliere,
Che si batteva e torneava
E Ser Topazio si chiamava.
Era nato assai lontano,
Nelle Fiandre, oltre il mare,
Là a Poppering (2) nel piano,
Da gran casta nobiliare:
Il suo babbo era un barone
E del paese era il padrone (3).
Ser Topazio crebbe aitante,
Con un bell'incarnatino,
Viso pane biancheggiante,
Labbra rosse color vino;
E vi dico, guarda il caso,
Ch'egli aveva un gran bel naso.
La sua barba zafferano
Gli arrivava alla cintura;
Lo stivale cordovano
E di Bruges la calza scura:
Tutta roba con i fiocchi,
Che costava dei baiocchi! (4)
Del gran cervo a caccia andava,
Con in mano lo sparviere
Lungo i fiumi cavalcava,
Bravo pure come arciere,
Della lotta era campione
E vinceva ogni montone. (5)
Dentro il letto le donzelle
Spasimavano allo scuro,
Senza sonno, poverelle,
Ma lui casto era, e puro:
Dolce come rosellina
Dalla bacca porporina.
Or vi dico senza fallo
Che un giorno, cavalcando,
Con il bigio suo cavallo
Ser Topazio stava andando:
Una lancia avea in mano
E una spada sul pastrano...
Entrò in una selva bella,
Tutta piena d'animali,
Con la lepre e la gazzella
Lungo i punti cardinali,
Ma fu preso lì per via
Da una gran malinconia.
V'eran erbe ed arboscelli,
Liquorizia e valeriana,
Poi garofani e fastelli,
Noce mosca con genziana,
Che, sia molle oppur asciutto,
Serve un poco dappertutto...
Cinguettavano gli uccelli,
Lo sparviero e il pappagallo,
Tutti allegri e tutti belli,
E zirlava il tordo giallo;
Pur la tortora fra i rami
Gorgheggiava con ricami.
A quel canto tutt'a un tratto
Ser Topazio, spasimando,
Die' di sprone com'un matto,
Il destriero suo incitando,
Ch'era molle di sudore,
Sangue ai fianchi... uno squallore!
Pur Topazio stanco era
D'equitare per il bosco,
E la pena sua sì fiera,
Ch'ei smontò là sul posto,
Il cavallo suo lasciando
Che brucasse riposando.
«Maria santa benedetta,
Perché questo mal d'amore
A me porta tal disdetta?
Questa notte nel sopore
Ho sognato ch'una fata
Di me fosse innamorata...
Sì, una fata voglio amare,
Perché al mondo non v'è donna
Con cui possa io campare
Sempre stretto alla sua gonna!
La regina delle fate
Cercherò per le vallate!»
Rimontò sulla sua sella
E partì fra siepi e sassi
A cercare la sua bella
Cavalcando a grandi passi.
Trovò infin nelle vallate
Il paese delle fate:
Ma deserto e sì selvaggio,
Che né donna né bambino
Era in tutto quel villaggio,
Che gli andasse da vicino.
Finché venne un gran gigante,
Che Olifante si chiamava:
«Per il dio Termagante, (6)
Ehi, ragazzo,» gli sbraitava
«Via di qui senz'alcun fallo,
o t'ammazzo il tuo cavallo!
Te lo prenderò a mazzate
Se di qui non te n'andrai,
E la regina delle fate
Dai suoi canti distrarrai!»
«Ch'io possa prosperare»
Disse il giovane cortese
«Io diman ti vo' incontrare
Corredato d'ogni arnese:
E "par ma foi" tu vedrai
Che di lancia la pagherai!
Pria ancor che sia giorno
Io lo sterno t'avrò infilzato
E ferito tutt'intorno
E del tutto trucidato!...»
Ser Topazio lesto arretra
E il gigante con la fionda
A lui scaglia una gran pietra
Che per poco non l'affonda:
Per miracolo s'è salvato
Ed il pericolo ha scansato!
Or, messeri, il mio racconto
Più allegro d'un fringuello,
Vi continuo... e vi do conto
Di Topazio dal fianco snello
Che per valle e per altura
Se ne torna fra le sue mura.
Indi ai suoi fa preparare
Grandi giochi e grandi feste,
Perché poi dovrà affrontare
Un gigante con tre teste,
Per la gloria e per l'amore
D'una dama ch'è uno splendore.
«Deh, venite, menestrelli,»
Egli dice «e trovatori,
E a me dite racconti belli
Sia d'armi che d'amori,
E romanzi che sian regali,
Pur con papi e cardinali...»
A lui portano il vin dolce
E una coppa d'idromele,
Pan di zenzero agrodolce
E di spezie gran miscele,
Liquorizia e pur comino
E poi zucchero assai fino.
Copre poi la bianca pelle
Con un chiaro pannolino,
Con le brache e le bretelle
E pur anche un casacchino;
E sul cuore una gran maglia
Per difendersi in battaglia.
E l'usbergo assai vistoso,
Riccamente damascato,
Pur di ferro poderoso,
Lo ricopre sul costato,
Cui la cotta dà di piglio,
Tutta bianca come un giglio.
D'oro rosso sfolgorante
E' lo scudo col cinghiale
E un carbonchio luccicante:
Del gigante a lui non cale...
Giura inver su birra e pane:
Sarà morto là dimane!
I gambali di vacchetta
Ed il fodero d'avorio;
L'elmo fatto a bacinetta,
Di tricheco il sospensorio;
Briglia tutta risplendente
Come luna o sol lucente.
La sua lancia di cipresso,
Minacciosa e senza pace,
Appuntita sta a un dipresso
Del corsiero color brace;
Ed ecco infin che d'ambiatura,
Calma e placida andatura,
Parte e va dal suo paese...
E qui termina la prima lassa,
Ma al vostr'animo cortese
Scioglier voglio la matassa.
LASSA SECONDA.
Deh, silenzio, "par charité",
Nobildonna e cavaliere!
Date ascolto, per mia fé,
A me vostro novelliere
Di battaglie e spacconate
E di dame innamorate...
I romanzi con ardore
Di Horn parlano e d'Ipotis,
Di Ser Guy e di Ser Bevis, (7)
Ma è Topazio tuttavia
Il gran fior di cavalleria!
Che ora inforca il suo corsiere
E fugge via rapidamente
Come vampa da un braciere,
Col cimiero preminente
Che del giglio ha il candore...
Dio lo salvi dal disonore!
Corre e va quel prode errante,
Mai non dorme sotto un tetto,
Sol dall'elmo suo brillante
E dal cappuccio egli è protetto;
E il corsiero senza fiato
Mangia un poco lì nel prato.
Beve anch'egli acqua di fonte
Come Parsifal (8) il prode,
Tutto armato fino in fronte
Finché un giorno...
Note del "Ser Topazio".
Nota 1. Non bisogna dimenticare che anche il Chaucer fa parte della compagnia diretta a Canterbury, come
tutti gli altri personaggi da lui descritti nel Prologo generale. E' arrivato ora il suo turno.
(*). Ser Topazio (composto, pare, all'epoca delle ambascerie fiamminghe a Londra nel 1383 o forse più
tardi) è una satira letteraria e sociale nello stesso tempo. Si tratta d'una parodia dei luoghi comuni, della
trita fraseologia patriottica, religiosa e lirica di tante ballate e menestrellerie e romanzi cavallereschi, il cui
mondo andava ormai disfacendosi. La particolare ironia a cui è sottoposto l'ambiente fiammingo adombra il
generale disprezzo in cui l'aristocrazia francese e inglese teneva quella delle Fiandre, maggiormente
imborghesita.
Nota 2. Secondo una cronaca del tempo, la gente di Poppering era generalmente ritenuta sciocca.
Nota 3. Signore di Poppering era allora l'abate di San Bertino. (Non era certo onorevole per un cavaliere
avere per padre un abate!)
Nota 4. Il testo dice: "many a jane" (= parecchi genovesini). "Jane", infatti (da "Janua" = Genoa), era
un'antica moneta genovese.
Nota 5. Nelle gare di lotta, a chi vinceva, veniva dato un montone. Tuttavia fare l'arciere e combattersi a
braccia non erano considerate imprese degne d'un vero cavaliere.
Nota 6. Dio dei pagani saraceni, terribile per la sua violenza.
Nota 7. Ser Bevis ("Sir Bevys of Hamptoun") e così Horn ("Horne Childe"), Ipotis ("Ypotys"), Libieux ("Li
Biaux Desconneus" = il bello sconosciuto), Piendamore ("Pleyndamour") e Ser Guy ("Sir Guy of Warwick")
sono i nomi degli eroi di vecchi cantori ancora in voga al tempo del Chaucer.
Nota 8. Parsifal era, secondo la tradizione instaurata da Chrétien de Troyes nel suo "Sir Perceval", un eroe
puro e innocente, piuttosto che prode.
Qui l'Oste interrompe Chaucer nel suo Racconto su Topazio.
«E finiscila, basta, cospetto di Dio!» disse il nostro Oste. «M'hai talmente stufato con le tue stupidaggini,
che, Dio mi benedica l'anima, mi fanno male le orecchie a forza di sentire i tuoi brodolosi discorsi. Al diavolo
la tua cantilena! Questa è proprio una rima da cani!»
«Ma come!» feci io «perché te la prendi con me più che non con gli altri? Questa è la miglior cosa ch'io
conosca!»
«Perdio» disse lui «se proprio lo vuoi sapere, la tua lercia cantilena non vale uno stronzo! Tu non fai che
perder tempo... In poche parole, signor mio, la devi smettere di far rime! Vediamo, invece, se ci sai
raccontare una storia come si deve, narrandoci in prosa qualcosa d'allegro e istruttivo...»
«E va bene» dissi «santa passione di Dio! Vi racconterò una cosetta in prosa che dovrebbe piacervi, penso:
se no, vuol proprio dire che siete incontentabili. Si tratta d'un racconto morale e virtuoso, che già altri
hanno narrato, ma in modo diverso... Mi spiego. Voi sapete, per esempio, che ciascun evangelista, narrando
la passione di Gesù, non dice esattamente tutto quello che dicono gli altri suoi colleghi. Eppure sono tutti
animati dall'intenzione di riferire il vero, e vi riescono benissimo, pur mantenendo ciascuno il suo modo di
raccontare... Questo dice qualcosa in più, quello qualcosa in meno, narrando quella straziante passione (mi
riferisco a Marco, Matteo, Luca e Giovanni), ma indubbiamente il senso è uno solo. Perciò, signori miei, mi
raccomando, se vi sembra ch'io cambi troppo il mio discorso e se, per esempio, cito un maggior numero di
proverbi di quanti prima forse avete già udito, comprimendoli in questo mio trattatello, per dar maggior
forza ed efficacia al mio argomento, se non uso proprio le stesse parole che forse già avete sentito, ebbene,
vi prego tutti, non condannatemi: per quanto infatti riguarda il senso, vedrete che non è troppo diverso da
quello del breve trattato da cui questo allegro mio racconto ho ricavato. Ascoltate, dunque, quel che sto
per narrarvi, e questa volta, per favore, lasciatemi finire!»
EXPLICIT.
RACCONTO DI MELIBEO (*).
Qui comincia il Racconto di Chaucer su Melibeo.
Un giovane potente e ricco, di nome Melibeo, ebbe da sua moglie, che si chiamava Prudenza, una figlia, cui
venne imposto il nome di Sofia.
Accadde un giorno ch'egli, per passatempo, se n'andasse per i campi a vagolare, lasciando moglie e figlia al
riparo dentro casa, con le porte saldamente chiuse. Se ne accorsero tre suoi antichi nemici, i quali,
appoggiando scale ai muri dell'abitazione, entrarono dalle finestre, e colpirono la moglie, e ferirono
gravemente la figlia in ben cinque punti - vale a dire: ai piedi, alle mani, alle orecchie, al naso e alla bocca
(1) - e, lasciandola per morta, se ne andarono.
Quando Melibeo tornò a casa e vide tutto quello scempio, come pazzo, strappandosi le vesti, incominciò a
piangere e a gridare.
Sua moglie Prudenza lo implorò, come poté, di trattenere il pianto, ma egli continuava a piangere e a
gridare sempre più a lungo.
La nobile Prudenza si ricordò allora d'una massima d'Ovidio, nel libro intitolato "Rimedio d'Amore", dove
dice: 'Stolto è chi disturba la madre che piange per la morte del proprio figlio, finché un poco almeno non si
sia sfogata: occorre poi cercare di confortarla con buone parole, pregandola infine di trattenere il pianto'.
Lasciò per questa ragione che suo marito per un po' piangesse e gridasse, poi, quando le sembrò
opportuno, così gli parlò: «Ahimè, signor mio,» gli disse «perché mai vi comportate da pazzo in questo
modo? Non sta bene che un uomo di buon senso s'abbandoni a un simile lamento. Vostra figlia, per grazia
di Dio, se la caverà e guarirà. Ma quand'anche fosse morta per davvero, non dovreste anche voi
distruggervi la vita. Dice Seneca che un uomo di buon senso non dovrebbe abbandonarsi al dolore per la
morte dei propri figli, ma dovrebbe invece con pazienza rassegnarvisi, aspettando egli pure la propria ora».
Melibeo le rispose subito e le disse: «Ma quale uomo riuscirebbe a rimaner senza piangere avendone così
grave motivo? Perfino Cristo, nostro Signore, pianse per la morte del suo amico Lazzaro!».
Rispose Prudenza: «Certo, lo so, se uno soffre fra gente che soffre, non gli è affatto proibito di piangere, e
ciò anzi gli viene concesso. Scrive infatti l'apostolo Paolo ai Romani: 'Rallegratevi con quelli che sono allegri
e piangete con quelli che piangono'. Ma se piangere un poco viene concesso, certamente proibito è
piangere in modo esagerato. Occorre anche nel pianto avere un senso della misura, come c'insegna Seneca:
'Quando ti muore un amico,' egli dice 'non siano i tuoi occhi troppo molli di lacrime, e neppure troppo aridi;
pur se ti vengono lacrime agli occhi, tu non lasciarle cadere; e una volta perduto un amico, cerca di
trovartene un altro: è molto più saggio che rimanere a piangere per l'amico smarrito, giacché intanto non
v'è rimedio'. Se perciò volete agire con cognizione, toglietevi dal cuore questo dispiacere. Ricordatevi che
Gesù Sirak (2) dice: 'Chi si mantiene col cuore allegro e contento si conserva con gli anni fresco come un
fiore, ma chi ha il cuore malinconico diventa secco come un osso'. E aggiunge poi che il dispiacere uccide la
gente. Salomone osserva inoltre che, come le tarme nella lana di pecora rodono i panni, e i piccoli vermi gli
alberi, così il dolore corrode l'animo. E perciò, sia in caso di figli morti che di beni ormai perduti, noi
dovremmo sempre aver pazienza. Ricordatevi quanto fu paziente Giobbe. Pur avendo perduto figli e averi,
pur tribolando e soffrendo dolori atroci per tutto il corpo, disse: 'Il Signore mi ha dato, il Signore mi ha
tolto; il Signore ha voluto che sia così, e così sia fatto: benedetto il nome del Signore'».
Sentendo questo, Melibeo si rivolse a sua moglie Prudenza e le disse: «Le tue parole son sacrosante e utili,
ma in verità ho il cuore così oppresso dal dispiacere, che non so proprio che cosa fare».
«Chiamiamo» disse Prudenza «tutti coloro che vi sono realmente amici e quei vostri parenti che abbiano
buon senso: spiegate il vostro caso, sentite quel che vi dicono e fate poi come vi consigliano. 'Consigliati
nelle tue faccende, non te ne pentirai mai' dice infatti Salomone ...»
Così, su proposta di sua moglie Prudenza, Melibeo mandò a chiamare un gran numero di gente: chirurghi,
medici, gente anziana e giovane, e perfino certi suoi antichi nemici in apparenza riconciliati al suo affetto e
alla sua grazia; e con loro vennero alcuni suoi vicini che lo riverivano più per paura che per affetto, come
spesso succede; vennero pure molti astuti lecchini e avvocati saggi che conoscevano molto bene le leggi.
Radunata questa gente, Melibeo spiegò con aria addolorata il suo caso. Dal suo modo di parlare, era chiaro
che in cuor suo egli serbasse ancora rancore ed ira e che, pronto a vendicarsi contro i propri nemici,
avrebbe subito desiderato far scoppiare una guerra. Per ora, tuttavia, si limitò soltanto a chiedere consiglio.
S'alzò allora un chirurgo e, col permesso e il consenso degli altri saggi, si rivolse a Melibeo e gli disse:
«Signore, compito di noi chirurghi è di far con tutti del nostro meglio, dovunque ci troviamo, e di non recar
alcun danno ai nostri pazienti. Capita sovente e spesso che due uomini, dopo essersi feriti a vicenda,
vengano curati dallo stesso medico, giacché alla nostra professione non s'addice fomentar guerre, né
parteggiare per questo o per quello. Ma certo, per quanto riguarda la guarigione di vostra figlia, sebbene
essa sia ferita gravemente, noi c'impegneremo giorno e notte, e vedrete che con la grazia di Dio sarà al più
presto fuori pericolo e salva».
Più o meno in questo modo parlarono anche gli altri medici, salvo alcune parole che aggiunsero, e cioè che,
come ogni malattia si guarisce col suo contrario, così la guerra andrebbe guarita con la vendetta.
I vicini invidiosi, i falsi amici che parevano riconciliati e gli adulatori fecero allora finta di piangere, e
peggiorarono ed aggravarono la situazione, mettendosi a incensare Melibeo per la sua forza, la sua
potenza, le sue ricchezze e le sue amicizie, sminuendo invece la forza dei suoi avversari, e gli dissero chiaro
e tondo ch'egli avrebbe dovuto scagliarsi contro i suoi nemici e far scoppiare una guerra.
S'alzò allora un saggio avvocato e, fra il plauso e l'approvazione d'altra gente di buon senso, disse: «Signori,
il motivo per cui siamo qui riuniti è molto serio e della massima importanza, vuoi per il torto e il male
commesso, vuoi per i gravi danni che ne potrebbero derivare, vuoi infine per la gran ricchezza e potenza
d'entrambe le parti: per tutte queste ragioni, sarebbe adesso assai pericoloso commettere errori. Pertanto,
Melibeo, il nostro avviso è questo: vi consigliamo innanzi tutto di prendere ogni possibile precauzione a
difesa della vostra persona, in modo da non permettere ad alcuno di spiarvi e controllarvi, mettendovi così
al sicuro; vi consigliamo inoltre di tenervi in casa una guarnigione sufficiente per difendere sia voi che la
vostra famiglia. Quanto però a muover guerra o a far subito vendetta, noi non possiamo qui sul momento
giudicare se sia conveniente, e vi chiediamo perciò un po' di tempo prima di prendere una decisione: vero è
che rimandare sia noioso, ma non è cosa riprovevole quando si debba emettere un giudizio o compiere una
vendetta, purché si tratti d'un tempo giusto e ragionevole. Lo dimostrò anche nostro Signore Gesù Cristo
con l'esempio: quando gli condussero dinanzi la donna ch'era stata sorpresa in adulterio per sapere quel
che si dovesse fare della sua persona, egli, che pur sapeva benissimo come rispondere, non volle dare un
parere avventato, ma volle pensarci, e per due volte scrisse prima sul pavimento. Ecco perché anche noi
vogliamo rimandare le nostre decisioni, e consigliarvi poi, per grazia di Dio, quel che per voi sia più
conveniente».
Allora i giovani s'alzarono in blocco, e i più si misero a beffeggiare i saggi anziani, facendo chiasso e
sostenendo che, come occorre battere il ferro finché è caldo, così bisogna vendicarsi dei torti ricevuti finché
si tratta di questioni recenti e fresche; e a voce alta gridarono: «Guerra! guerra!».
S'alzò uno dei vecchi saggi e fece segno con la mano che si calmassero e gli dessero ascolto. «Signori,» disse
«ci sono molti che gridano 'guerra' guerra!' e non sanno neanche che cosa sia una guerra. Essa all'inizio
spalanca una gran porta, in modo che ognuno possa entrarvi quando gli pare e piace e possa facilmente
trovar dissidio: come poi andrà a finire, non è facile saperlo. Una volta che una guerra sia cominciata, molti
che prima dovevano ancora essere partoriti dalla madre, si trovano fin da piccoli a soffrire la fame, e
campano nel dolore oppure muoiono nella miseria. Perciò, prima di incominciare una guerra, gli uomini
dovrebbero consigliarsi a lungo e pensarci molto.» E mentre quel vecchio cercava di rinforzare il suo
discorso col ragionamento, quasi tutti s'alzarono per interromperlo, ripetendogli di tagliar corto e di farla
finita: dà infatti fastidio chi predica a gente che non ha voglia d'ascoltare. Gesù Sirak dice che intollerabile è
la musica nel pianto, e parlare a gente che non ha voglia di ascoltare è come mettersi a cantare davanti a
chi piange. Così, quando quel saggio uomo vide che nessuno l'ascoltava, tornò a sedersi tutto contegnoso.
Anche Salomone dice che, quando nessuno ascolta, è inutile sforzarsi di parlare. «Ben si vede» fece quel
saggio «quanto sia vero il comune detto: sempre manca il buon consiglio dove più sarebbe necessario.»
Melibeo intanto continuò a consigliarsi con molti che, parlandogli in privato all'orecchio, gli dicevano una
cosa e, in pubblica udienza, gliene dicevano un'altra.
Avendo sentito che la maggior parte dei consiglieri era d'accordo ch'egli dovesse far guerra, Melibeo diede
subito il suo consenso al loro parere e confermò pienamente la loro decisione. Allora madonna Prudenza,
vedendo che suo marito era deciso a scagliarsi contro i nemici e a far scoppiare una guerra, atteso il
momento opportuno, gli rivolse molto umilmente queste parole: «Signore mio,» gli disse «di cuore vi prego
quanto più so e posso, non abbiate fretta e datemi per favore ascolto. Pietro Alfonso (3) dice: 'Chiunque ti
faccia qualcosa, sia nel bene che nel male, non aver fretta di contraccambiarlo: se ti è amico saprà
aspettare, se ti è nemico rimarrà più a lungo in apprensione'. Dice poi il proverbio che chi va piano, va sano
e va lontano, mentre in fretta e furia non si conclude nulla».
Rispose Melibeo a sua moglie Prudenza e disse: «Non ho intenzione di seguire il tuo consiglio, per vari
motivi e diverse ragioni. Innanzi tutto sarei da ciascuno ritenuto folle, se adesso, seguendo il tuo consiglio,
io volessi cambiare cose che ormai son state stabilite e approvate da tanti saggi. Secondariamente, ritengo
che tutte le donne siano malvagie e che nessuna fra esse sia buona, proprio come dice Salomone: 'Un
uomo fra mille, l'ho trovato; ma fra tutte, una donna buona non l'ho mai trovata'. Inoltre, s'io seguissi il tuo
consiglio, sarebbe sicuramente come cederti il comando, e questo Dio non voglia, perché, come dice Gesù
Sirak, se la moglie potesse comandare, si metterebbe sempre contro il marito; e Salomone aggiunge: 'In
vita tua non lasciarti mai comandare da tua moglie, da tuo figlio o dal tuo amico; è meglio che i tuoi figli
vengano da te a chiedere ciò di cui hanno bisogno, piuttosto che metterti tu nelle loro mani'. E poi tu sai
che le mie decisioni devono restar segrete, finché non sia opportuno renderle note: questo non sarebbe più
possibile, s'io seguissi il tuo consiglio. "Car il est escript, la genglerie des femmes ne puet riens celler fors ce
qu'elle ne scet. Apres, le philosophre dit, en mauvais conseil les femmes vainquent les hommes: et par ces
raisons je ne dois point user de ton conseil"» (4).
Dopo aver ascoltato molto tranquillamente e con gran pazienza tutto ciò che a suo marito piacque dire,
madonna Prudenza, chiestogli il permesso di parlare, fece: «Signor mio, per quanto riguarda il vostro primo
motivo, ci vuol poco a rispondere: dico infatti che non è follia cambiar idea quando le cose cambiano, o
quando sembrano diverse da quelle ch'erano prima; e dico poi che se anche avete promesso e giurato
d'intraprendere un'impresa e ora l'abbandonate per un motivo giusto, nessuno dovrebbe perciò prendervi
per bugiardo o per spergiuro. Sta scritto infatti che l'uomo saggio non offende il vero, quando cambia idea
per il meglio. E anche se ormai la vostra impresa è stabilita e confermata da un numero di gente, voi non
siete obbligato a compierla, se a voi non piace. Il vero e l'utile delle cose si trova infatti fra poca gente che
sia esperta e piena di buon senso, piuttosto che in mezzo a una gran folla dove tutti gridano e
strombazzano quel che vogliono: sicuramente una folla simile non è mai nel giusto... Passiamo ora al
secondo motivo, dove dite che le donne son tutte malvagie: certo, in questo modo, se permettete, voi
disprezzate tutte le donne e, come sta scritto, chi tutti disprezza a tutti dispiace. Dice Seneca che se uno
vuol acquistare sapienza, non deve mettersi a trattare gli altri con disprezzo, ma deve insegnare loro quello
che sa, senza orgoglio o presunzione; e se qualcosa non sa, non deve vergognarsi d'impararla, chiedendola
anche a persone da meno di lui. Ma poi, signore, che donne buone ce ne siano state molte si può
facilmente dimostrare, giacché, messere, nostro Signore Gesù Cristo stesso non si sarebbe mai abbassato a
nascere da una donna, se tutte le donne fossero state malvagie; e per dar ancora una volta prova della gran
bontà che è nelle donne, anche quando risuscitò da morte, nostro Signore Gesù Cristo apparve a una donna
ancor prima che ai suoi apostoli. Se poi Salomone dice che una donna buona fra tutte non l'ha mai trovata,
non vuol dire che siano tutte malvagie; anche se lui non è riuscito a trovare una donna buona, vi assicuro
che altri uomini di donne ne hanno trovato molte ottime e fedeli. Ma forse Salomone intendeva una donna
che fosse d'una bontà perfetta, per dire che non c'è nessuno che sia perfettamente buono, all'infuori di Dio,
com'egli stesso ricorda nel suo vangelo. Non esiste infatti creatura che sia tanto buona, da non mancarle un
po' della perfezione di Dio, il suo creatore... Il vostro terzo motivo è questo: voi dite che, se seguiste il mio
consiglio, sarebbe come se a me cedeste ogni vostro comando e autorità. Ebbene, signore, se permettete,
non è affatto così: se l'uomo dovesse farsi consigliare solo da chi lo comanda e lo domina, nessuno si
farebbe così spesso consigliare; siate certo che chi chiede consiglio per qualcosa è libero di scegliere, tanto
di seguire quel dato consiglio quanto di non seguirlo... Riguardo al vostro quarto motivo, voi dite che le
chiacchiere delle donne nascondono cose che loro neppure conoscono, implicando che se una donna
conoscesse qualcosa ancor meno saprebbe nasconderla: signore, queste parole andrebbero bene per
donne che son pettegole e maligne, onde si dice anche che sono tre le cose che fanno fuggire di casa un
uomo, cioè il fumo agli occhi, il gocciolare della pioggia dal tetto e una perfida moglie; e Salomone aggiunge
che è meglio abitare in un deserto che con una moglie litigiosa. Ma, se permettete, signore, io non sono fra
quelle: molto spesso avete avuto prova del mio gran silenzio e della mia gran pazienza, e anche com'io
sappia benissimo tenere nascoste e segrete le cose che bisogna tenere segrete... Per quanto riguarda infine
il vostro quinto motivo dove dite che nei cattivi consigli le donne superano gli uomini, Dio sa che tale
motivo qui è fuori posto! Dovete rendervi conto che siete stato voi a chieder consiglio per agire male. Se
poi, vedendo che state per agire male, vostra moglie vi trattiene dal vostro insano proposito e vi soverchia
col ragionamento e il buon consiglio, bisognerebbe lodarla vostra moglie, non rimproverarla: in tal senso
dovreste intendere il filosofo quando dice che nei cattivi consigli le donne superano i loro mariti... E giacché
biasimate tutte le donne e il loro ragionare, io vi dimostrerò invece con molti esempi che vi sono state, e vi
sono ancora, ottime donne che han dato consigli molto assennati e utili. Qualcuno ha perfino detto che il
consiglio delle donne costa troppo caro per ciò che vale. Ma se è vero che molte son malvagie, e il loro
consiglio è vile e di nessun merito, pure vi son uomini che d'ottime donne ne han trovate parecchie, e assai
discrete e sagge nei loro consigli: pensate a Giacobbe che, seguendo il buon consiglio di sua madre
Rebecca, ottenne la benedizione del padre Isacco e il primato su tutti i suoi fratelli; Giuditta, col suo buon
consiglio, liberò la città di Betulia, in cui lei viveva, dalle mani d'Oloferne che l'aveva assediata e l'avrebbe
distrutta completamente; Abigail liberò suo marito Nabal da re Davide che lo voleva uccidere e, con la sua
arguzia e il suo buon consiglio, riuscì a placare l'ira del re; Ester, col suo buon consiglio, fece grandemente
progredire il popolo di Dio durante il regno di re Assuero. E si potrebbero citare ancora moltissimi esempi
d'ottimi consigli dati dalle donne. Basti pensare che quando nostro Signore creò il nostro progenitore
Adamo, disse così: 'Non è bene che l'uomo rimanga solo; diamogli una compagna che gli assomigli'. Donde
si può vedere che se le donne non fossero buone, e buoni e utili i loro consigli, nostro Signore, Dio del cielo,
non le avrebbe mai create, né le avrebbe chiamate compagne dell'uomo, ma piuttosto sua rovina. Una
volta in due suoi versi un dotto disse: 'Che cos'è migliore dell'oro? Il diaspro. E migliore del diaspro? La
saggezza. E migliore della saggezza? La donna. E migliore d'una donna che sia buona? Nulla'. Insomma,
signor mio, tante sono le ragioni da cui si può vedere che molte donne sono buone, e buoni e utili i loro
consigli. E se voi, signor mio, al mio consiglio vi affiderete, io vi renderò guarita e salva vostra figlia, e farò in
modo che da questa faccenda riceviate onore».
Udite le parole di sua moglie Prudenza, Melibeo disse: «Ben vedo quanto sia giusto il detto di Salomone,
quando afferma che il parlar con discrezione e ordine è come un favo di miele che dà dolcezza all'anima e
salute al corpo. Ecco, moglie, a causa delle tue dolci parole, e anche perché ho prova ed esperienza della
tua gran saggezza ed onestà, io voglio in tutto governarmi secondo il tuo consiglio».
«Ebbene, messere,» disse madonna Prudenza «giacché intendete governarvi secondo il mio consiglio,
voglio indicarvi in che modo dovete procedere nella scelta dei vostri consiglieri. Prima di tutto, in ogni
vostra azione, dovete chiedere umilmente al sommo Dio di farvi lui da consigliere, comportandovi in modo
da meritare la sua approvazione e il suo conforto, come Tobia insegnò a suo figlio: 'Benedirai sempre Iddio
e lo pregherai di condurti per la tua via, rimettendo a lui per sempre il tuo pensiero'. Anche San Giacomo
dice: «Se qualcuno di voi manca di sapienza, la chieda a Dio'. Fatto questo, dovete consigliarvi con voi
stesso, esaminando attentamente i vostri pensieri su ciò che vi sembra più opportuno. Dovete quindi
togliervi dal cuore tre cose contrarie al buon consiglio, e cioè l'ira, la cupidigia e la fretta... Chi si consiglia
con se stesso non deve, innanzi tutto, essere adirato, e questo per diversi motivi: primo, chi ha in sé
grand'ira e rabbia, crede sempre di poter fare cose che in realtà non può fare; secondo, chi è adirato e
furente, non può giudicare bene, e chi bene non giudica, bene non si può consigliare; terzo, chi è furente e
adirato, sostiene Seneca, non sa dir altro che cose ingiuriose e, con le sue offensive parole, incita anche gli
altri al furore e all'ira. Dovete poi, signor mio, togliervi dal cuore ogni cupidigia, giacché, come l'apostolo
dice, la cupidigia è la radice di tutti i mali; e siate certo che un uomo avido non è capace né di pensare né di
giudicare bene, se non per raggiungere l'oggetto della propria avidità, ma ciò in realtà non può mai
avvenire, giacché quanto più egli abbia ricchezze in abbondanza, tanto più egli ne desidera. Infine, signor
mio, dovete togliervi dal cuore la fretta, perché non si può prendere per buono il primo pensiero che viene
in mente, ma bisogna a lungo riflettervi sopra; come già avrete sentito, è proverbio comune che chi presto
decide, presto si pente; infatti, signor mio, non si può esser sempre dello stesso parere: ora una cosa vi
sembra buona, ora vi sembra l'esatto opposto... Una volta poi che vi siete consigliato con voi stesso ed
avete deciso con buon proposito la cosa che vi pare migliore, mi raccomando allora di tenerla segreta. Non
rivelate ad alcuno la vostra decisione, a meno che non siate sicuro che, rivelandola, migliorate la situazione.
Dice infatti Gesù Sirak: 'Non rivelare mai i tuoi segreti o le tue stravaganze ad alcuno, amico o nemico che
sia, perché tutti ti ascoltano, ti badano e ti sopportano finché sei presente, ma, appena te ne vai, ti
criticano'. Un altro sapiente dice che difficilmente si trova chi sappia mantenere un segreto. E inoltre sta
scritto: 'Finché ti tieni la tua idea in cuore, te la tieni sepolta nella tua cella, ma appena la riveli ad alcuno, è
costui che ti tiene al laccio'. E' meglio perciò che vi nascondiate in cuore la vostra idea, piuttosto che dover
poi pregare colui al quale l'avete confidata di tenerla chiusa e nascosta. Seneca infatti dice: 'Se tu stesso
non sei stato capace di mantenere un segreto, come puoi pretendere che un altro lo mantenga per te?'. Se
tuttavia siete proprio sicuro che, rivelando la vostra idea a qualcuno, migliorerete la situazione, allora
fatelo, ma senza palesar subito che preferite più la guerra che la pace, o una cosa più che un'altra, né
manifestando il vostro volere e la vostra intenzione. Ricordatevi che comunemente i consiglieri sono
adulatori, specialmente i consiglieri di gran signori, i quali si sforzano sempre di dir piuttosto belle parole,
per secondare il desiderio dei padroni, che non parole valide e sincere. E perciò si dice che il ricco di buoni
consigli ne ha da vendere, ma non a se stesso... Dovete poi distinguere bene gli amici dai nemici, e fra gli
amici dovete veder bene chi sia più fedele, chi più saggio e chi più anziano ed esperto nel consigliare,
rivolgendovi a ciascuno secondo il caso. Dico che innanzi tutto dovete chiamare a consiglio gli amici che
siano fedeli: sostiene infatti Salomone che, come un dolce profumo rallegra il cuore, così il consiglio d'un
fedele amico addolcisce l'anima; egli dice anche che non v'è nulla che sia pari a un amico fedele, non v'è né
oro né argento che valga quanto il ben volere d'un fedele amico; e dice ancora che un fedele amico è un
forte appoggio, e che chi lo trova, trova sicuramente un gran tesoro. Dovreste poi considerare se questi
vostri fedeli amici sono anche discreti e saggi. Sta infatti scritto: 'Porgi l'orecchio e ascolta le parole dei
prudenti'. Per questa medesima ragione dovreste consigliarvi con gli amici d'una certa età, che abbiano
visto e sperimentato molto ed abbiano già dato prova di saper consigliare, giacché sta scritto che la
saggezza si trova negli anziani, e che solo col tempo s'acquista prudenza. E Tullio (5) dice che le grandi
imprese non si compiono con la forza o con l'agilità del corpo, ma col buon senso, l'autorità della persona e
la sapienza, tre cose che con gli anni non s'affievoliscono, ma anzi si rinforzano e s'accrescono di giorno in
giorno. Ricordatevi inoltre, per vostra norma generale, di consigliarvi dapprima soltanto con quei pochi che
vi sono amici particolari. Dice infatti Salomone: 'Molti ti sono amici, ma tra mille uno ne scegli che ti
consigli'. Non rivelando che a pochi la vostra idea, in seguito, se necessario, potete sempre confidarvi con
altri. Ma sempre badate che i vostri consiglieri abbiano le tre qualità che vi ho detto, siano cioè fedeli, saggi
e di lunga esperienza. E non agite sempre in ciascuna necessità affidandovi ad uno stesso consigliere,
perché talvolta conviene farsi consigliare da molti, giacché infatti Salomone dice: «La sicurezza delle cose
sta dove son molti consiglieri»... Ora che vi ho detto con quale gente dovete consigliarvi, voglio insegnarvi
quali consigli dovete evitare. Primo, dovete evitare il consiglio degl'insensati, in quanto Salomone dice:
«Non consigliarti con chi sia senza senso, perché può solo consigliarti secondo le sue fissazioni e le sue
manie». E sta scritto che la caratteristica d'una persona sciocca è di pensar facilmente male degli altri e
facilmente ritenere in sé ogni bontà. Dovete poi evitare il consiglio degli adulatori che si sforzano solo
d'incensarvi con belle parole, invece di dirvi come veramente stiano le cose; Cicerone infatti dice che, fra
tutte le pestilenze che rovinano l'amicizia, la peggiore è l'adulazione: bisogna dunque che, più di tutti,
evitiate e temiate gli adulatori. Sta scritto infatti che bisogna temere e fuggire più le belle parole di chi si
mette ad incensare, che le aspre parole d'un amico che dice il vero. Salomone dice che le belle parole sono
una trappola per gli ingenui. Dice poi che chi le usa con l'amico, gli tende una rete per farlo cadere. Perciò
dice Cicerone: 'Non porgere l'orecchio a chi ti adula e non fidarti di parole lusinghiere'. E Catone: 'Sta bene
attento ad evitare parole dolci e piacevoli'. Dovete evitare anche il consiglio dei vecchi nemici che si sono
riconciliati. Sta scritto, infatti, che nessuno è al sicuro nelle grazie di un suo antico nemico. Dice Esopo: 'Non
fidarti di quelli con cui una volta ti sei piccato e hai fatto lite: con quelli soprattutto non devi consigliarti
mai'. Seneca ne spiega anche il motivo: 'Non è possibile' dice 'che dove c'è stato a lungo un grande fuoco,
non siano rimasti ancora dei vapori'. Ecco perché anche Salomone dice: 'Non fidarti mai del tuo antico
nemico'. Insomma, anche se il vostro nemico si è riconciliato e vi fa buona cera piegando il capo, non vi
dovete mai fidare di lui. Siate certo che fa mostra d'umiltà più per suo interesse che per affetto verso di voi,
perché poi crede di cantar vittoria con questo suo fare ipocrita, vittoria che non potrebbe certo ottenere
mettendosi in lotta o in guerra con voi. Pietro Alfonso dice: 'Non far lega coi tuoi vecchi nemici, perché per
quanto bene tu faccia, prenderanno tutto in male'. Così dovete anche evitare di consigliarvi coi vostri servi
che vi fanno riverenze, perché forse lo fanno più per paura che per affetto. E perciò dice un filosofo: 'Non
c'è nessuno che sia veramente sincero quando ha paura'. E Cicerone dice: 'Non c'è potenza d'imperatore
che duri a lungo, se dal suo popolo egli non sa farsi amare più che temere'. Dovete, inoltre, evitare di
consigliarvi con gente che si ubriaca, perché non sa mantenere un segreto. Dice perciò Salomone: 'Non ci
sono più segreti dove regna l'ubriachezza'. Dovete poi diffidare della gente che in privato vi consiglia in un
modo, e in pubblico in un altro, giacché Cassiodoro dice che sempre si smentisce chi in apparenza finge di
fare una cosa e di nascosto invece ne compie un'altra. Dovete inoltre avere in sospetto il consiglio dei
malvagi, perché sta scritto che il consiglio dei malvagi è sempre pieno d'inganni, e Davide dice: 'Beato
l'uomo che non ha seguito il consiglio degli empi'. Dovete infine evitare il consiglio dei giovani, giacché il
loro consiglio non è maturo... Ed ora, signor mio, dopo avervi indicato a chi dovete rivolgervi per
consigliarvi e di quali persone dovete seguire il consiglio, voglio mostrarvi come voi stesso dobbiate vagliare
la vostra decisione secondo quanto insegna Tullio. (6) Nel rivolgervi dunque al vostro consigliere, dovete
considerare diverse cose. Dovete innanzi tutto fare in modo che, in ciò che vi proponete e per cui vi
consigliate, venga detta e mantenuta la pura verità; dovete, in altre parole, dire realmente come stanno le
cose, perché chi dice il falso non può ricevere buoni consigli, appunto in quanto mente. Dovete poi
considerare le cose che s'accordano a ciò che vi vien proposto dai vostri consiglieri, e vedere se la ragione le
consenta, se la vostra forza basti ad ottenerle, e se la maggiore e miglior parte dei vostri consiglieri le
approvi o meno. Dovete inoltre considerare ciò che potrà seguire da quel determinato consiglio, se odio,
pace, guerra, favori, vantaggi o perdite e così via, scegliendo fra tutte queste cose la migliore e tralasciando
le altre. Dovete inoltre considerare da che radice si generi la sostanza del vostro consiglio e che frutto possa
produrre e procreare; e quali che siano le cause, dovete vedere da dove provengono. Una volta che avete
vagliato la vostra decisione come vi ho detto, badando bene che sia la migliore e più vantaggiosa e che
abbia l'approvazione di molte persone sagge ed anziane, dovete allora considerare se siete in grado
d'effettuarla e condurla a buon fine. La ragione non vuole certo che alcuno intraprenda qualcosa che poi
non possa condurre a termine, né che alcuno prenda su di sé un carico che poi non riesca a portare. Dice
infatti il proverbio: 'Chi troppo vuole, nulla stringe'. E Catone: 'Cerca di fare quel che puoi fare, affinché,
caricandoti troppo, tu non sia costretto a tralasciare quel che già hai cominciato. Se poi non sai decidere se
sarai in grado di fare una cosa, cerca di pazientare anziché precipitarti'. E dice Pietro Alfonso: 'Se anche sai
fare una cosa, ma temi di dovertene pentire, meglio è che tu scelga il no invece del sì, meglio cioè che tu
tenga a freno la lingua, piuttosto che parlare'. Col tempo vi rendete conto assai meglio se, potendo fare una
cosa eppur temendo di dovervene pentire, vi convenga ancora aspettare oppure darvi inizio. Hanno ragione
quanti impediscono d'intraprendere qualcosa nella quale si sia incerti di riuscire o meno. Ma finalmente,
una volta che avete vagliato la vostra decisione come vi ho detto e siete pienamente convinto di riuscire
nell'impresa, cercate allora con tutte le vostre forze di portarla a termine... Ed ora è giusto e opportuno che
vi mostri quando e perché possiate mutare idea senza sentirvi colpevole. Si può benissimo mutare idea e
proposito quando ne cessi il motivo o quando intervenga qualche fatto nuovo. Perfino in legge, con
l'intervento di fatti nuovi, si richiedono nuove sentenze. Seneca dice: 'Se giunge all'orecchio dei tuo nemico,
la tua idea va cambiata'. Dovete inoltre cambiare idea, se vi rendete conto che, per qualche sbaglio o altro,
potreste provocare danni o inconvenienti. Infine, dovete cambiare idea, quando si tratti di un'idea
disonesta o dettata da motivi disonesti. Anche per legge ogni impegno che sia disonesto non è valido. E lo
stesso vale per idee che siano irrealizzabili, che cioè non si possano compiere e portare a termine. Sappiate
per vostra norma e regola che, quando un'idea venga sostenuta al punto da non poter mai essere mutata,
qualsiasi fatto possa intervenire, si tratta sempre di un'idea malvagia.»
Avendo ascoltato gli ammaestramenti di sua moglie madonna Prudenza, Melibeo rispose: «Madonna, m'hai
finora spiegato bene e convenientemente com'io debba in generale regolarmi nella scelta e nel vaglio dei
miei consiglieri. Ma gradirei adesso che tu scendessi nel particolare e mi dicessi quel che ti piace o sembra
dei consiglieri che abbiamo scelto in questa nostra presente necessità».
«Signor mio,» ella disse «vi supplico in tutta umiltà di non voler contraddire le mie ragioni e non affliggervi
il cuore s'io dico qualcosa che possa dispiacervi, giacché Dio sa che, in quanto a intenzione, io parlo
unicamente per il vostro bene, per il vostro onore e nel vostro interesse, e spero perciò che nella vostra
bontà prendiate tutto con pazienza. Ma tuttavia, credetemi, il vostro consiglio in questo caso non si
dovrebbe neppure, a rigor di termini, chiamar consiglio, ma piuttosto sfogo o attacco di follia, nel quale in
diversi modi avete errato... avete prima e soprattutto errato nel convocare i vostri consiglieri, giacché
avreste dovuto consigliarvi prima con pochi, e soltanto in caso di bisogno avreste poi potuto confidarvi con
altri: voi invece avete subito convocato in blocco una gran folla di gente, opprimente e noiosissima da
ascoltare. Avete poi sbagliato perché, invece di consigliarvi con i vostri amici fidati, anziani e saggi, avete
convocato estranei, giovani, falsi adulatori e nemici riconciliati, tutta gente che vi riverisce, ma non vi vuol
bene. Avete poi sbagliato perché avete portato con voi a consiglio ira, avidità e fretta, tre cose contrarie a
qualsiasi giudizio onesto ed opportuno, tre cose che avreste dovuto distruggere e annientare sia in voi che
nei vostri consiglieri. Poi avete sbagliato perché avete subito rivelato ai vostri consiglieri le vostre
intenzioni, la vostra smania di vendicarvi e di far guerra, ed essi hanno subito intuito, dalle vostre parole,
per che verso eravate inclinato, per questo vi hanno consigliato più secondo le vostre inclinazioni che nel
vostro interesse. Avete poi sbagliato, perché sembra che vi basti consigliarvi con simili consiglieri e senza
troppa riflessione, mentre, in così grande e grave necessità, avreste avuto bisogno di ben altri consiglieri e
di maggior riflessione per intraprendere l'impresa. Poi avete sbagliato perché non avete vagliato la vostra
decisione nel modo che vi ho indicato o almeno nel modo che richiedevano le circostanze. Infine avete
sbagliato, perché non avete fatto alcuna distinzione fra i vostri consiglieri, cioè fra gli amici veri e i
consulenti falsi, e non avete neppure interpellato, fra i vostri amici, quelli che sono anziani e saggi, ma
avete buttato tutti i consiglieri in un unico calderone, piegandovi solo al numero più grande e secondandolo
in tutto. Ora, siccome sapete benissimo che in gran numero si trovano più sciocchi che saggi, e che nelle
adunanze affollate di gente ciò che conta è il numero e non la saggezza delle persone, si può solo
concludere che in adunanze come questa il comando è in mano degli sciocchi.»
Allora Melibeo rispose e disse: «Ammetto d'aver sbagliato, ma tu stessa hai detto che non bisogna
biasimare chi, in certi casi e per motivi giusti, cambia idea: ora sono pronto a cambiare i miei consiglieri
proprio come tu vorrai. Anche il proverbio dice che, se persistere nel peccato è opera del demonio, peccare
è pur sempre umano».
A questa affermazione madonna Prudenza rispose subito dicendo: «Passiamo in rassegna i vostri
consiglieri, e vediamo chi è stato più ragionevole nel parlare e vi ha meglio consigliato. Siccome questo
esame è necessario, incominciamo dai chirurghi e dai medici che hanno parlato per primi. Penso che
chirurghi e medici abbiano parlato con discrezione, com'è loro dovere: molto saggiamente hanno detto che
il loro compito è di agire per il bene e l'interesse di tutti, senza far male ad alcuno, e che il loro dovere è
d'impegnarsi per guarire quanti vengano affidati alle loro cure. Dunque, mio signore, siccome si sono
mostrati saggi e discreti nelle loro risposte, penso che meritino un largo e generoso compenso per le loro
nobili parole, anche perché così mettano maggior solerzia nella cura della vostra cara figlia. Pur se sono
vostri amici, non bisogna che vi servano per nulla, ma dovete compensarli e dimostrarvi generoso. Per
quanto riguarda l'affermazione dei medici, per cui un contrario si guarisce con un altro, gradirei sapere
come voi intendiate questa frase e che cosa ne pensiate».
«Ebbene» disse Melibeo «io l'intendo in questo modo: se a me qualcuno fa qualcosa di contrario, a mia
volta io dovrei contraccambiarlo. Come quelli si sono vendicati su di me e m'hanno offeso, così anch'io
dovrei vendicarmi su di loro e ripagarli con altre offese: in questo modo guarirei un contrario con un altro.»
«Guarda, guarda» esclamò madonna Prudenza «con che facilità tutti tendono a far quello che a loro pare e
piace!» E soggiunse: «Non è affatto così che le parole dei medici vanno intese. Non è che il male sia
contrario al male, la vendetta alla vendetta, un'ingiuria a un'altra ingiuria, ma son tutti la stessa cosa. Non si
può guarir vendetta con vendetta ed ingiuria con ingiuria, perché l'una accresce e aumenta l'altra. Ecco,
invece, come andrebbero intese le parole dei medici: nel senso che il bene è il contrario del male, la pace
della guerra, la tolleranza della vendetta, la concordia della discordia, e così via. E allora il male va guarito
con il bene, la discordia con la concordia, la guerra con la pace, e così per tutto il resto. Ne conviene anche
l'apostolo San Paolo, il quale in diversi punti dice: 'Non rendete ad alcuno male per male, oltraggio per
oltraggio, anzi procacciate il bene di chi vi fa male, e benedite chi vi oltraggia'. E poi ancora esorta alla pace
e alla concordia. Ma vi parlerò ora dei consigli che vi hanno dato gli uomini di legge e i saggi che, come
avete udito, hanno parlato tutti concordemente: secondo loro, dovreste innanzi tutto fare in modo di
tutelare la vostra persona e difendere la vostra casa: e aggiungono che in questo dovreste agire con molto
buon senso e con grande riflessione. Signor mio, per quanto riguarda il primo punto, cioè la tutela della
vostra persona, dovete rendervi conto, innanzi tutto, che chi è in guerra deve sempre umilmente e
devotamente pregare che Gesù Cristo, nella sua gran misericordia, lo accolga sotto la sua protezione e lo
soccorra nel bisogno: a questo mondo non c'è nessuno che possa consigliarsi e tutelarsi senza l'aiuto di
nostro Signore Gesù Cristo. Ne conviene anche Davide il profeta, il quale dice: 'Se l'Eterno non guarda la
città, invano vegliano le guardie'. E poi, signore, dovete affidare la tutela della vostra persona ai vostri fedeli
amici che conoscete e avete messo a prova, chiedendo aiuto a loro. Catone dice infatti: 'Se hai bisogno di
aiuto, chiedilo ai tuoi amici: non c'è rimedio migliore di un sincero amico'. Fatto questo, dovete star lontano
dalla gente che non conoscete e dai bugiardi, cercando di non farveli amici. Dice, infatti, Pietro Alfonso:
'Non far lega per la via con alcun forestiero, a meno che tu già non lo conosca. E se per caso qualcuno
capita in tua compagnia, senza che tu l'abbia voluto, cerca d'informarti più cautamente che puoi sulle sue
abitudini e sulla sua vita, e intanto inventati un nuovo itinerario, dicendogli che stai andando in un posto
dove invece non andrai. Se poi lui ha una lancia, tienti alla sua destra; e se ha una spada, tienti alla sua
sinistra'. Insomma dovete guardarvi attentamente dalla gente che vi ho detto, evitando sia d'incontrarla
che di andarvi con essa a consigliare. E poi cercate di non essere presuntuoso della vostra forza,
disprezzando o non tenendo conto della forza del vostro avversario, fino al punto di trascurare, per questa
vostra presunzione, di cautelare voi stesso: ogni persona saggia teme il proprio nemico. Salomone dice:
'Beato l'uomo che è sempre timoroso; chi invece s'irrigidisce anima e corpo nella presunzione, verrà colto
dal male'. E poi dovete stare attento a non cadere nelle imboscate, tenendo gli occhi bene aperti. Seneca
dice infatti che l'uomo saggio, temendo il male, lo evita; e guardandosi dai pericoli, li scansa. Anche quando
vi sembra d'essere al sicuro, dovete sempre cercare di cautelarvi, evitando non solo i vostri nemici peggiori,
ma anche quelli che vi sembrano i meno importanti. Seneca dice: 'Un uomo di buon senso teme anche il più
piccolo dei suoi nemici'. E Ovidio osserva che una piccola vipera uccide il grande toro e il cervo selvaggio. E
sta scritto che basta una piccola spina per pungere a morte un grande re, e un piccolo levriero per arrestare
un verro selvaggio. Con ciò non voglio dire che dobbiate essere così vile, da aver paura anche quando non vi
sia pericolo. Sta scritto che certa gente prima ha una gran voglia d'imbrogliare, poi ha paura d'essere
imbrogliata. Solo state attento di non venire avvelenato, evitando la compagnia dei beffardi. Sta scritto,
infatti, di non far lega con i beffardi, perché le loro parole sono veleno... Ed ora, quanto al secondo punto,
siccome i vostri saggi consiglieri v'avvertono di difendere con grande scrupolo la casa, gradirei sapere come
intendiate quelle parole e che cosa ne pensiate».
Melibeo rispose e disse: «Ecco, quel che intendo è di dover munire la mia casa con torri come quelle che
hanno i castelli ed altri tipi d'edifici, con armerie e catapulte: con tali cose io posso così riparare e difendere
sia me stesso che la mia casa, facendo in modo che i miei nemici temano d'avvicinarsi».
Al che Prudenza subito rispose: «Innalzar alte torri e grandi costruzioni s'addice talvolta a superbia; e poi
occorrono spese e fatica a costruir alte torri e grandi edifici, i quali inoltre, una volta compiuti, non valgono
una paglia, se non si rinforzano con la fedeltà di saggi e anziani amici. Dovete comprendere che la più
grande e più forte guarnigione che un uomo ricco possa avere per difendere se stesso e i propri beni, è di
farsi ben volere dai suoi sudditi e dal suo prossimo. Così infatti Tullio dice: 'Non c'è guarnigione che si possa
vincere o conquistare, quando un signore sappia farsi amare dai propri concittadini e dalla propria gente'...
Ed ora signor mio, quanto al terzo punto dove i vostri saggi e anziani consiglieri v'hanno detto che in questa
necessità non dovreste aver paura, ma che anzi dovreste agire e provvedervi con gran cautela e dopo lunga
riflessione, penso proprio che siano nel giusto ed abbiano ragione. Tullio infatti dice: 'In qualsiasi bisogno,
prima d'incominciare a far qualcosa, preparati con cura'. Ecco perché sostengo che nel far vedetta, in
guerra, in battaglia e nell'innalzare fortificazioni, prima d'incominciare, dovreste prepararvi, e con molta
ponderazione. Dice ancora Tullio: 'Una battaglia a lungo preparata rende rapida la vittoria'. E Cassiodoro:
'Più forte è la guarnigione a cui più a lungo s'è provveduto'... Ma parliamo ora del consiglio che vi hanno
dato i vicini, quelli che vi riveriscono ma non vi amano, i vecchi nemici riconciliati, gli adulatori che in
privato vi dicono una cosa e in pubblico un'altra, e infine i giovani che vi hanno consigliato di vendicarvi e di
far subito guerra. Mio signore, come vi ho già detto, avete sbagliato molto a chiamare a consiglio simile
gente: che fossero consiglieri da scartare era già abbastanza chiaro per le ragioni esposte. Ma scendiamo
pure al particolare. E procediamo subito secondo il metodo di Cicerone. (7) Primo, a scoprire la verità in
questa faccenda o circostanza non ci vuole molto, perché si sa benissimo chi siano coloro che vi hanno fatto
torto e ingiuria, e quanti fossero e in che modo agissero. Piuttosto, dovreste vagliare il secondo punto che
lo stesso Cicerone aggiunge a questo proposito. Cicerone parla infatti di 'consenso', vale a dire chi siano,
quanti e quali siano, coloro che consentono con voi, con la vostra smania di far subito vendetta; e chi siano
invece, quanti e quali siano, coloro che consentono con i vostri avversari. Quanto al primo punto, si sa
benissimo che gente abbia consentito alla vostra precipitata decisione: state certo che quanti vi hanno
consigliato di far subito guerra non sono vostri amici. Ma vediamo chi sono i vostri amici che voi stimate
tanto. In realtà, anche se siete potente e ricco, non siete che uno solo: figli non ne avete, salvo una
bambina; non avete né fratelli, né cugini o altri parenti prossimi che, incutendo timore, possano far
desistere i vostri nemici da attaccarvi e condurvi alla rovina. Sapete pure che i vostri averi andrebbero divisi
in tante parti e che, quand'anche ognuno avesse la sua parte, avrebbe ben poco per cui vendicare la vostra
morte. I vostri avversari, invece, sono in tre ed hanno molti figli, fratelli, cugini ed altri parenti prossimi:
anche se ne uccidete due o tre, ne rimarrebbero sempre tanti abbastanza da vendicarli uccidendo voi.
Supponendo pure che i vostri parenti fossero più fidati e decisi di quelli dei vostri avversari, si tratterebbe
sempre di parenti lontani uniti appena da un sottile legame, mentre quelli dei vostri nemici sono tutti fra
loro parenti stretti. E questa è già per voi una condizione di svantaggio. Inoltre, vediamo un po' se il
consiglio di coloro che vi hanno detto di far subito vendetta sia guidato dalla ragione. Certamente no.
Secondo la legge e la ragione, non c'è nessuno che possa vendicarsi contro un altro, se non il giudice che ne
ha la competenza, e anche allora bisogna vedere se la legge gli concede un procedimento sommario o
formale. E poi, sempre a proposito del termine 'consenso' usato da Cicerone, dovete veder bene se vi
sentite e siete veramente in grado di consentire con la decisione vostra e dei vostri consiglieri. E potete
pure ammettere di no. Perché, se proprio dobbiamo dire il vero, noi non siamo capaci di far qualcosa che
non sia giusto fare. E certamente non è giusto far vendetta di propria autorità. Vedete, dunque, che in
fondo non potete consentire e andar d'accordo con la vostra stessa smania... Passiamo ora al terzo punto,
quello che Cicerone chiama 'conseguente'. Voi subito capite che conseguente è la vendetta stessa che vi
proponete di compiere: ad essa seguiranno altre vendette, altri pericoli, altre guerre e innumerevoli altri
mali che per ora noi non conosciamo... In quanto al quarto punto, quello che Cicerone chiama 'generante',
ricordatevi che il torto che v'è stato fatto s'è generato dall'odio dei vostri nemici; e che facendo vendetta,
come già vi ho detto, tornereste anche voi a generar vendetta, e gran dolore e perdita di beni... Ed ora, mio
signore, in quanto al punto che Cicerone chiama delle 'cause', che è poi l'ultimo punto, voi capite che il
torto da voi ricevuto ha cause ben precise, quelle che i dotti chiamano "Oriens" ed "Efficiens", "Causa
longiqua" e "Causa propinqua", vale a dire la causa lontana e quella vicina. La causa lontana è Dio
onnipotente, che è causa di tutte le cose. La causa vicina sono i vostri tre nemici. Poi ci sarebbero: la causa
accidentale, che in questo caso era l'odio; la causa materiale, cioè le cinque ferite di vostra figlia; la causa
formale, che è il modo in cui si sono comportati, portando scale e arrampicandosi alle finestre; e poi la
causa finale, ch'era quella d'uccidervi la figlia, e che per loro non è che sia fallita. Ma, tornando alla causa
lontana, non so proprio spiegarmi, se non per congetture e supposizioni, a che scopo quelli siano venuti e
come andranno poi a finire. Immagino, comunque, che faranno una brutta fine, perché anche nel libro dei
Decreti sta scritto che raramente e a gran pena arrivano a buon fine cose iniziate male... Dunque, signore,
se mi si domandasse perché Dio ha permesso che a voi fosse recata questa ingiuria, veramente non saprei
come rispondere. Dice l'apostolo che la sapienza e i giudizi di Dio sono così profondi che nessuno può
comprenderli o esplorarli abbastanza. Eppure, a rifletterci e pensarci bene, credo e ritengo che Dio, colmo
com'è di giustizia e rettitudine, abbia permesso che ciò accadesse per qualche motivo giusto e
ragionevole... Il vostro nome è Melibeo, che significa 'colui che beve miele'. E di miele ne avete ormai
bevuto tanto, fra dolci ricchezze, delizie e onori di questo mondo, che siete ubriaco e vi siete scordato di
Gesù Cristo, vostro creatore, e non gli avete reso quel riguardo e quel rispetto che avreste dovuto. E non vi
siete ricordato che Ovidio dice: 'Sotto il miele dei beni corporali si nasconde un veleno che uccide l'anima'.
E Salomone: 'Se trovi del miele, mangiane quanto ti basta; ché, mangiandone fuor di misura, tu non abbia a
vomitarlo, riducendoti nel bisogno e nella povertà'. Forse Cristo con voi è offeso, e non vi rivolge più il suo
volto e non vi dà più ascolto con la sua misericordia, ed ha inoltre permesso che foste punito
conformemente al modo in cui avete mancato. Voi infatti avete peccato contro Cristo nostro Signore,
permettendo che i tre nemici dell'uomo, ossia la carne, il diavolo e il mondo, v'entrassero nel cuore per le
finestre del vostro corpo, senza difendervi abbastanza dai loro assalti e dalle loro tentazioni, ed essi vi
hanno ferito l'anima in cinque punti; in altre parole, attraverso i cinque sensi vi sono entrati nel cuore i
peccati mortali. Ecco perché Cristo nostro Signore ha conformemente voluto e permesso che i vostri tre
nemici v'entrassero in casa dalle finestre e vi ferissero la figlia nel modo già detto».
«Certamente» disse Melibeo «ben vedo che con le tue parole cerchi di convincermi a non vendicarmi dei
miei nemici, mostrandomi i pericoli e i mali che da tal vendetta potrebbero derivare. Ma se in ogni vendetta
si considerassero i pericoli e i mali che ne potrebbero venire, nessuno allora infliggerebbe più una
punizione, e ciò sarebbe un errore, giacché nel far vendetta si distinguono i giusti dai malvagi, e quanti
hanno voglia d'agir male sarebbero più cauti nei loro propositi disonesti, vedendo la punizione e il castigo
dei malfattori.»
"Et a ce respont dame Prudence: «Certes» dist elle «je t'ottroye que de vengence vient molt de maulx et de
biens, mais vengence n'appartient pas a un chascun fors seulement aux juges et a ceulx qui ont la
jurisdicion sur les malfaitteurs". (8) Dirò di più, che come uno pecca a vendicarsi da solo contro un altro,
così pecca il giudice che non compie vendetta contro chi la merita. Seneca infatti dice: 'Buono è il padrone
che mette i malvagi alla prova'. E Cassiodoro: 'Ben si guarda dal recar danni chi sa di poter dispiacere a
giudici e sovrani'. E un altro dice: 'Il giudice che teme di far giustizia, rende gli uomini disonesti'. E dice San
Paolo apostolo nella sua Epistola ai Romani: 'Invano i giudici porterebbero la spada, se non fosse per punire
i malvagi e i malfattori e per difendere i buoni'. Se dunque volete vendicarvi dei vostri nemici, dovete
rivolgervi e far ricorso al giudice che ne abbia competenza, ed egli li punirà come comanda e richiede la
legge».
«Ah» fece Melibeo «non mi va affatto una simile vendetta! Ripensando ora, mi viene in mente come la
fortuna m'abbia sempre assistito fin da ragazzo, e quanti ardui passi m'abbia aiutato a superare:
mettiamola dunque ancora alla prova, sperando che, con l'aiuto di Dio, m'aiuti a vendicare adesso il mio
disonore.»
«Invece» disse Prudenza «se mi darete ascolto, non metterete la fortuna ad alcuna prova e non vi
appoggerete o piegherete a lei, perché, come dice Seneca, le cose fatte fidando stoltamente nella fortuna,
non arrivano mai a buon fine. E sempre Seneca che dice: 'Più la fortuna luccica e risplende, più è fragile e
pronta a rompersi'. Non fidatevi di lei, perché non è mai stabile e costante: quando più vi credete al sicuro e
siete certo del suo aiuto, lei v'inganna e vi abbandona. Pur se dite che la fortuna vi ha sempre assistito fin
da ragazzo, io vi ripeto che ancor meno dovreste fidarvi di lei e del suo capriccio. Dice Seneca: 'La fortuna
prima nutre l'uomo, poi lo beffeggia'. Ora, siccome desiderate e chiedete vendetta, e la vendetta che si
compie secondo la legge davanti al giudice non vi piace e quella che si compie sperando nella fortuna è
incerta e pericolosa, non vi resta che rivolgervi al supremo Giudice che vendica tutte le ingiurie e tutti i
torti. Vi vendicherà lui secondo quanto egli stesso promette, quando dice: 'Lasciate a me la vendetta, ed io
la compirò'.»
Melibeo rispose: «Non vendicarmi dei torto ricevuto è come chiamare e invitare chi m'ha fatto quel torto, e
tutti gli altri, a recarmi ancora offesa. Sta infatti scritto: 'Se non ti vendichi dell'ingiuria antica, spingi i tuoi
avversari a commetterne una nuova'. Con la mia pazienza, poi, oltre ad essere sottoposto a offese che non
potrei reggere e tollerare, sarei anche ritenuto e considerato un vile. Si dice infatti che, a forza di
sopportare, ti cadono addosso tante cose, che alla fine più non ti reggi».
«Ammetto» disse Prudenza «che neanche troppa sopportazione vada bene. Ma ciò non significa che
chiunque riceva un torto debba subito vendicarsi, perché questo è un compito che tocca e spetta ai giudici
soltanto: sono loro che devono vendicare torti e ingiurie. Le vostre due citazioni si riferiscono proprio ai
giudici: infatti, tollerando che si rechino torti e ingiurie senza punizioni, essi non solo invitano uno a
commetterne dei nuovi, ma glielo impongono. C'è anche un saggio che dice: 'Il giudice che non corregge il
peccatore, gli ordina e comanda di peccare'. Se non solo i giudici ma anche i padroni tollerassero nelle loro
terre troppi malvagi e malfattori, con l'andar del tempo accadrebbe che, approfittando di tale tolleranza,
quelli acquisterebbero un potere e una forza tali da scacciare dai loro posti giudici e sovrani, privandoli
completamente d'ogni loro autorità... Ma supponiamo che voi abbiate adesso licenza di vendicarvi. Ebbene
vi dico che in questo momento non ne avreste né capacità né forza. Fate un confronto con la forza dei
vostri avversari: vedrete che in molte cose, da me già indicatevi, loro si trovano in vantaggio rispetto a voi.
Ecco perché vi dico che per il momento vi conviene sopportare ed aver pazienza... E poi sapete bene,
perché è un detto comune, che lottare con chi è più forte e potente è pazzia; lottare con chi è di forza pari,
ossia con qualcuno altrettanto forte, è pur sempre pericoloso; e lottare con chi è più debole è vigliaccheria:
occorre perciò sempre fare il possibile per evitare d'azzuffarsi. Salomone dice, infatti, che è un grande
onore per un uomo astenersi da risse e contese. Se poi accade o capita che uno più forte e potente di voi vi
faccia torto, cercate e fate in modo di conciliarvi con lui piuttosto che vendicarvi. Seneca dice che è molto
pericoloso mettersi contro chi sia più grande. E Catone: 'Se un uomo di maggior rango o condizione, oppure
di forza superiore alla tua, ti reca torto o fastidio, sopportalo, perché se per una volta ti ha offeso, un'altra
volta potrebbe anche darti sollievo e aiutarti'. Ma poniamo il caso che voi abbiate sia licenza che forza di
vendicarvi. Ebbene vi dico che ci sono ancora molte cose che dovrebbero dissuadervi dalla vendetta,
inducendovi piuttosto a sopportare con pazienza ciò che vi vien fatto. Pensate, innanzi tutto, ai difetti che
voi stesso avete: come vi ho già detto, è proprio per tali difetti che Dio ha permesso che a voi fosse inflitta
questa tribolazione. Dice infatti il poeta che sopporteremmo con pazienza le tribolazioni che ci vengono
mandate, se pensassimo e riflettessimo che le abbiamo meritate. E San Gregorio dice che se uno
considerasse bene il numero di propri difetti e peccati, minori gli sembrerebbero le pene e le tribolazioni
che sopporta; quanto più grossi e gravosi considerasse i propri errori, tanto più leggere e facili gli
sembrerebbero le pene da sopportare. Perciò voi dovreste chinare e piegare il cuore, prendendo ad
esempio la pazienza di nostro Signore Gesù Cristo, come dice San Pietro nelle sue epistole: 'Gesù Cristo'
dice 'ha sofferto per noi, lasciando a tutti un esempio da seguire ed imitare; egli non commise mai peccato,
né mai gli uscì di bocca alcuna imprecazione: quando l'oltraggiavano, non rispondeva con oltraggi; quando
lo battevano, non minacciava mai'. Così dovrebbe indurvi alla pazienza anche la gran pazienza che i santi
del paradiso, senza colpa né peccato, hanno mostrato nelle loro tribolazioni. E dovreste cercare d'avere
pazienza considerando anche che poco durano le tribolazioni di questo mondo, ma presto passano e vanno,
mentre la gioia che si cerca di raggiungere con la pazienza nelle tribolazioni è imperitura, come dice
l'apostolo nella sua epistola: 'Perenne' egli dice 'è la gioia di Dio, cioè eterna'. Tenete anche presente e
ricordate che non è beneducato o istruito chi non sappia aver pazienza o non voglia accettarla. Salomone
dice che la dottrina e l'intelligenza d'un uomo si conoscono dalla sua pazienza; in un altro punto dice che chi
è paziente si comporta con gran prudenza. E dice ancora lo stesso Salomone: 'L'uomo turbolento e rabbioso
fa le liti, ma l'uomo paziente le smorza e le calma'. E dice inoltre: 'Vale più esser pazienti che forti: chi riesce
a comandare al proprio cuore, merita maggior lode di chi conquista con la forza e la potenza città intere'. E
perciò, nella sua epistola, San Giacomo afferma che la pazienza è una gran virtù di perfezione.»
«Certo, madonna Prudenza,» fece Melibeo «ammetto anch'io che la pazienza sia una gran virtù di
perfezione, ma non tutti possono avere la perfezione che tu cerchi, né io mi sento nel numero dei perfetti,
visto che il mio cuore non avrà mai pace finché non si sarà vendicato. Anche per i miei nemici è stato assai
pericoloso venirmi a ingiuriare e a recarmi offesa, eppure non hanno badato al pericolo, ma hanno fatto
tutto il male che hanno voluto e desiderato. Perciò non credo di essere poi tanto da biasimare, se affronto
anch'io un po' di pericolo per vendicarmi, pur giungendo a un grande eccesso, che è quello di vendicare
un'offesa con un'altra.»
«Ah» fece madonna Prudenza «dite pure quel che vi pare e piace, ma per nessun motivo al mondo
bisognerebbe arrivare a offese o eccessi per vendicarsi! Cassiodoro dice che chi si vendica con una ingiuria
è sullo stesso piano di chi ha commesso l'ingiuria. Ecco perché dovete vendicarvi secondo giustizia, vale a
dire con la legge, e non con eccessi e ingiurie. Vi ripeto, se volete vendicarvi dell'offesa subita dai vostri
avversari in modo diverso da come comanda la legge, voi sbagliate: Seneca dice che non bisogna vendicarsi
della cattiveria con la cattiveria. Se poi dite che è un diritto difendersi dalla violenza con la violenza e dagli
assalti battendosi, vi do ragione, purché la difesa avvenga subito senza indugi, proroghe o ritardi, e si tratti
veramente di difesa, non di vendetta. Ma anche nella difesa bisogna stare attenti e non trascendere ad
eccessi e ingiurie, perché se no, si passa dalla parte del torto. In verità sapete bene che per voi ora non si
tratta di difesa per difendervi, ma per vendicarvi; e si vede chiaramente che non avete alcuna intenzione di
agire con temperanza. Invece io penso che sia bene aver pazienza: Salomone dice infatti che chi non è
paziente gran danno riceverà.»
«Ma certo» fece Melibeo «se uno perde la pazienza e va in collera per ciò che non gli tocca o appartiene,
non c'è da meravigliarsi che vada a finir male. E' colpevole per legge chi s'intromette o s'intriga di faccende
che non lo riguardano. E Salomone dice che intromettersi nel chiasso e nelle risse di un altro è come tirare
le orecchie a un cane: infatti, proprio come chi va a tirare le orecchie a un cane che non conosce, quasi
sempre viene morsicato, così si caccia nei guai chi s'intromette nelle dispute di altri quando non gli tocca.
Ma tu invece sai benissimo che questa faccenda, che tanto ti cruccia e ti tormenta, mi tocca molto da
vicino. Perciò non c'è da meravigliarsi se m'arrabbio e perdo la pazienza. Se permetti, io non riesco a vedere
perché, vendicandomi, io debba finire tanto male, essendo molto più potente e ricco dei miei nemici. E tu
sai bene che con i soldi e vasti possedimenti si comanda al mondo: Salomone dice che tutte le cose
obbediscono al denaro.»
Sentendo suo marito vantarsi delle proprie ricchezze, del proprio denaro, e sminuire la forza dei propri
avversari, Prudenza prese così a parlare: «Certamente, mio caro signore, ammetto che voi siate ricco e
potente, e che la ricchezza sia un bene per chi l'abbia guadagnata onestamente e onestamente sappia
usarla. Come il corpo non può vivere senz'anima, così non può neanche vivere senza beni temporali. Con la
ricchezza, uno può procurarsi grandi amicizie. E perciò Panfilo (9) dice: 'Se la figlia d'un mandriano è ricca,
può scegliere fra mille chi vuole per marito, perché di mille non uno l'abbandona o la rifiuta'. E soggiunge:
'Se realmente sei contento, che è come dire se sei ricco realmente, di compagni e amici ne troverai a
bizzeffe; se invece la fortuna cambia e diventi povero, addio amicizie e compagnia: te ne dovrai star solo,
senza nessuno che non sia povero come te'. E dice ancora: 'Quanti sono per nascita schiavi e plebei,
diventano solo con la ricchezza nobili e patrizi'. Proprio così; come ogni bene proviene dalla ricchezza, dalla
povertà provengono mali e disgrazie, perché la povertà costringe ad agir male. Cassiodoro chiama la
povertà 'madre di rovina', cioè madre di perdizione e di sfacelo. E Pietro Alfonso dice: 'Una delle più grandi
disgrazie di questo mondo, per chi sia nato da una famiglia libera, è di dover cibarsi per povertà
dell'elemosina del suo nemico'. E lo stesso dice Innocenzo (10) in uno dei suoi libri. Dice: 'Infelice e dolorosa
è la condizione del povero mendicante, perché se non chiede da mangiare muore di fame; se lo chiede,
muore di vergogna, ed è per necessità sempre costretto a chiedere'. Perciò Salomone dice che è meglio
morire che patire tanta povertà; ed aggiunge che è meglio morire di morte violenta piuttosto che vivere in
questo modo. Per queste ragioni e molte altre che potrei citare, sono anch'io d'accordo con voi che la
ricchezza sia un bene per chi l'abbia guadagnata onestamente e onestamente sappia usarla: perciò voglio
indicarvi come dovete comportarvi e agire per procurarvi la ricchezza, e come poi dovete farne uso...
innanzi tutto, dovete procurarvela senza gran desiderio, con buona deliberazione, gradualmente e senza
troppa fretta. Chi infatti sia troppo desideroso d'arricchirsi s'abbandona prima al furto e poi ad ogni altro
vizio. Dice perciò Salomone: 'Chi ha premura di diventar ricco non può essere innocente'. E soggiunge: 'La
ricchezza che presto viene, presto va e fila; se invece arriva a poco a poco, allora aumenta e si moltiplica'.
Inoltre, signor mio, dovete procurarvi la ricchezza con le vostre forze e il vostro lavoro a vantaggio vostro,
senza recar danno e detrimento ad altri. La legge prescrive infatti che nessuno diventi ricco a svantaggio
d'altre persone, giacché natura proibisce e vieta di diritto che alcuno s'arricchisca a danno d'altra gente. E
dice Tullio che non v'è dolore, né paura di morte, né alcun'altra cosa che ad uomo possa capitare,
maggiormente contro natura del trar vantaggio dalle disgrazie altrui. Tuttavia, qualora uomini grandi e
potenti acquistino ricchezza più agevolmente di voi, non dovete esser pigro e tardo nel curare l'interesse
vostro, ma dovete in ogni modo fuggire l'ozio. Dice infatti Salomone che l'ozio insegna all'uomo ad agir
male; e soggiunge lo stesso Salomone che chi lavora e s'affatica a zappar la terra mangerà pane, ma chi è
ozioso e non si dedica ad alcun lavoro e occupazione cadrà in povertà e morirà di fame. E chi è ozioso e
tardo non può mai trovar tempo opportuno per curare il proprio interesse. Dice infatti un rimatore che
l'uomo pigro ha sempre la scusa pronta: d'inverno il gran freddo e d'estate il gran caldo. Perciò Catone dice:
'Vegliate e non v'inclinate troppo al sonno, perché troppo riposo genera e nutre tanti vizi'. E San Gerolamo:
'Dedicatevi sempre a qualche opera buona, affinché il demonio nostro nemico non vi trovi mai disoccupati'.
Il demonio infatti non riesce facilmente a cogliere nelle sue insidie quanti trova occupati in opere buone...
Per procurarvi dunque la ricchezza, dovete innanzi tutto fuggire l'ozio. E poi dovete usare questa ricchezza
che con le vostre forze e il vostro lavoro vi siete procurato, in modo che la gente non debba considerarvi
troppo taccagno e parsimonioso, ma neppure troppo prodigo, ossia spendaccione. Sono infatti giustamente
da biasimare tanto l'avaro con la sua grettezza e tirchieria quanto colui che troppo spende. Catone dice
infatti: 'Usa la ricchezza che ti sei procurato, in modo che la gente non abbia né motivo né occasione di
chiamarti tirchio o avaro, giacché gran vergogna è per un uomo esser povero di cuore ed aver la borsa
piena'. E soggiunge: 'I beni che ti sei procurato usali con misura, spendili cioè moderatamente; coloro infatti
che spendono e spandono pazzamente ciò che hanno, quando ne rimangono senza, s'impossessano della
roba d'altri'. Dico dunque che dovete fuggire l'avarizia, usando i vostri averi in modo che nessuno debba
dire che li tenete sepolti, ma che li avete con voi e li sapete maneggiare. Un saggio, biasimando l'uomo
avaro, così s'esprime in due suoi versi: 'Per che motivo e a che scopo qualcuno seppellisce con grande
avarizia i propri beni, ben sapendo di dover morire? In questa presente vita ogni uomo infatti ha per fine la
morte'. Per che motivo allora e per che ragione qualcuno si vincola e s'attacca tanto ai propri averi, da non
riuscire più a distogliervi e disgiungervi la propria mente? Eppure si sa bene, o almeno si dovrebbe sapere,
che morendo non si può portar via nulla da questo mondo. E perciò Sant'Agostino dice che l'avaro è come
l'inferno: più si riempie, più vorrebbe trangugiare per riempirsi. Voi, dunque, come dovete cercare di non
farvi chiamare avaro o taccagno, così dovete regolarvi e comportarvi in modo da non far dire alla gente che
siete uno spendaccione. Ecco che cosa dice Tullio: 'Gli averi di casa tua non dovrebbero esser nascosti o
tenuti così stretti da non dischiudersi neanche alla pietà e alla compassione', come per dire che bisogna
farne parte a chi ne abbia gran bisogno; e soggiunge: 'I tuoi averi, però, non dovrebbero rimanere tanto
aperti da diventare proprietà di tutti'. E poi, nel procurarvi la ricchezza e nell'usarla, dovete sempre avere in
mente tre cose: cioè, nostro Signore Iddio, la vostra coscienza e il vostro buon nome. Dovete, innanzi tutto,
avere in mente Iddio e, per nessuna ricchezza al mondo, dovete far cosa che possa in qualche modo
dispiacere a Colui che vi ha creato e messo al mondo; infatti, come dice Salomone, è meglio aver poco, ma
con l'amore di Dio, che aver tanto, ma perdere l'amore di nostro Signore; e dice il profeta che è meglio
essere un uomo onesto con pochi averi, ch'essere considerato malvagio e avere gran ricchezza.
Secondariamente, vi dico che, pur sempre cercando di procurarvi la ricchezza, dovete farlo con la coscienza
a posto, dice l'apostolo che non c'è cosa al mondo che dia maggior contentezza d'una coscienza che di nulla
ci rimorde; e dice il saggio: 'Aver sostanze è un gran bene, purché non si abbiano peccati sulla coscienza'.
Terzo, nel procurarvi la ricchezza e nell'usarla, dovete cercare e fare in modo che venga preservato e
mantenuto anche il vostro buon nome; Salomone, infatti, dice che è meglio e conta assai più aver buon
nome che possedere tante ricchezze. E più avanti: 'Abbi gran cura' dice Salomone, 'di conservarti l'amico e il
buon nome, perché essi dureranno più a lungo di qualunque tesoro, per prezioso ch'esso sia'. Uno non può
dire d'essere un vero galantuomo se, oltre a Dio e alla coscienza netta, tralasciando il resto, non cerca e non
si preoccupa di preservare il suo buon nome. Cassiodoro dice che amare e rispettare il proprio buon nome
è segno d'animo onesto. E Sant'Agostino afferma che due son le cose necessarie e indispensabili, cioè la
coscienza tranquilla e la buona reputazione: la coscienza tranquilla per il nostro bene interiore, e la buona
reputazione per i rapporti esterni con il prossimo. Chi si fida della propria coscienza tranquilla tanto da
offendere e sminuire il proprio buon nome o la propria reputazione, senza che gliene importi nulla, in fondo
non è che un fiero scapestrato... Ora che v'ho indicato, signor mio, come procurarvi e come usare la
ricchezza, ben vedo che, fidandovi troppo dei vostri averi, vorreste attaccar guerra e battaglia. Ebbene vi
consiglio di non incominciare alcuna guerra fidandovi della vostra ricchezza, giacché questa non basterebbe
mai a sostenere una guerra. Dice infatti un filosofo: 'A chi vuole e desidera far guerra, sempre mancherà
qualcosa, giacché quanto più ricco sarà, tanto più dovrà affrontar spese, se vorrà ottenere la vittoria con
onore'. E Salomone dice: 'Quanto maggiori son le ricchezze che un uomo ha, tanto maggiori son le sue
spese'. Signor mio caro, pur se con la vostra ricchezza poteste radunare una moltitudine di gente, non vi
converrebbe né sarebbe bene attaccar guerra, potendo in altro modo mantener la pace a vostro onore e
giovamento. La vittoria nelle battaglie di questo mondo non dipende infatti dal gran numero o dalla
moltitudine delle genti, né dal valore dell'uomo, ma sta nel volere e nella mano di nostro Signore Iddio
Onnipotente. Onde Giuda Maccabeo, ch'era cavaliere di Dio, trovandosi a combattere contro un avversario
che per numero e quantità d'uomini era assai più forte del suo stuolo di Maccabei, confortò i suoi pochi
compagni parlando appunto in questo modo: 'Nostro Signore Iddio Onnipotente può dare
indifferentemente la vittoria sia a pochi che a molti, giacché la vittoria nella battaglia non proviene dal gran
numero d'uomini, ma da nostro Signore Dio del cielo'. E dunque, signor mio caro, giacché nessuno è certo
di meritar da Dio la vittoria, "ne plus que il est certain s'il est digne de l'amour de Dieu", (11) allora
dovrebbe ognuno, come Salomone dice, grandemente temere d'attaccar guerre. Nelle battaglie infatti i
pericoli son molti e il grand'uomo può rimanervi ucciso quanto l'uomo piccolo; e, come sta scritto nel
secondo libro dei Re, 'le imprese di guerra son rischiose e sempre incerte, perché la spada ora colpisce l'uno
ed ora l'altro'. Perciò dunque, se tanto è il pericolo che c'è in guerra, ciascuno dovrebbe fare il possibile per
sfuggirlo ed evitarlo. Dice infatti Salomone che chi ama il pericolo, nel pericolo cadrà».
Dopo che madonna Prudenza ebbe così parlato, Melibeo rispose e disse: «Ben vedo, madonna Prudenza,
che con le tue belle parole e con le ragioni che mi porti, a te in nessun modo la guerra piace; eppure non ho
ancor sentito quel che mi consiglieresti di fare in questa particolare necessità».
«Certo» ella disse «vi consiglio d'accordarvi coi vostri avversari e di far con loro pace. San Giacomo dice
infatti nelle sue epistole che con la concordia e con la pace le piccole ricchezze diventano grandi, mentre
con la discordia e con la guerra le grandi ricchezze vanno in rovina. E voi sapete bene che una delle più
grandi e più importanti cose al mondo è l'unità e la pace. Onde ai suoi apostoli nostro Signor Gesù Cristo
disse: 'Beati quelli che amano e cercano la pace, perché saranno chiamati figli di Dio'.»
«Ah» fece Melibeo «ben vedo ora che nulla t'importa del mio onore e della mia dignità! Ben sai che sono
stati i miei avversari ad attaccar questioni e briga col loro oltraggio, e ben vedi che non mi chiedono né
pregano di far pace, e neppure mi domandano di riconciliarsi. Vuoi dunque ch'io vada ad umiliarmi ed
inchinarmi a loro, implorando misericordia? Ciò non tornerebbe sicuramente a mio onore! Come infatti si
dice che troppa confidenza genera disprezzo, lo stesso vale per troppa umiltà e mansuetudine.»
Allora madonna Prudenza, facendo mostra d'adirarsi, disse: «In verità, signore, vostra grazia permettendo,
ho a cuore il vostro onore e il vostro interesse come fossero miei, e così è sempre stato: né voi né alcun
altro potrà mai negarlo! Quand'anche v'avessi detto che la pace e la riconciliazione avreste dovuto
comprarle, non mi sarei sbagliata molto, né avrei detto uno sproposito. L'uomo saggio infatti dice: 'Il
dissenso incomincia dagli altri, ma la conciliazione incomincia da te stesso'. E dice il profeta: 'Fuggi il male e
compi il bene, cerca la pace e perseguila fin dove puoi'. Ma è inutile ch'io vi dica se dobbiate andare voi a
chiedere la pace ai vostri nemici, piuttosto che loro a voi: intanto so benissimo che avete il cuore così duro,
che nulla per me fareste. E tuttavia Salomone dice: 'Chi è d'animo troppo indurito cadrà in disgrazia e
disavventura'».
Sentendo che madonna Prudenza pareva adirarsi, così Melibeo le parlò: «Ti prego, madonna, non ti
crucciare per ciò che dico: ben sai ch'io sono indignato e incollerito (non c'è da farsene meraviglia!), e chi è
incollerito non sa bene quel che fa o dice. Afferma infatti il profeta che gli occhi stravolti non hanno la vista
chiara. Ma dimmi pure e consigliami come credi, perché son pronto a far tutto ciò che vuoi; anzi, più tu mi
rimproveri per la mia smania, più io sento che debbo amarti e lodarti. Salomone infatti dice: 'Chi
rimprovera qualcuno per le sue pazzie, sarà alla fine più accetto di chi lo lusinga con dolci parole'».
Disse allora madonna Prudenza: «S'io mi mostro impaziente e adirata non è che a vostro gran vantaggio.
Dice infatti Salomone: 'Vale più chi rimprovera e riprende uno stolto per la sua stoltezza mostrandogli il
proprio sdegno, che non chi lo sostenga e lodi nelle sue male azioni, e della sua stoltezza rida'. E più oltre
dice ancora lo stesso Salomone che, vedendo qualcuno col viso corrucciato, ossia severo e dispiaciuto, lo
stolto si pente e si corregge».
Disse allora Melibeo: «Non so proprio come rispondere a tutte le buone ragioni che mi poni e mi dimostri.
Dimmi in breve quel che intendi consigliarmi, ed io son pronto ad ubbidirti fino in fondo».
Madonna Prudenza gli aprì allora tutto il suo animo e gli disse: «Vi consiglio sopra ogni cosa di far pace fra
Dio e voi, riconciliandovi con lui e la sua grazia. Come infatti v'ho detto prima, è Dio che per i peccati vostri
ha permesso che voi aveste questi triboli e questi mali. Se farete come vi dico, Dio vi manderà i vostri
avversari a prostrarsi ai vostri piedi, pronti a far tutto quel che vorrete e comanderete. Dice infatti
Salomone: 'L'uomo che si trova nella condizione di piacere ed essere gradito a Dio, vedrà mutarsi il cuore
dei nemici che verranno obbligati a chiedergli pace e grazia'. Vi prego inoltre di lasciare che io parli coi
vostri nemici, ma in luogo segreto, affinché non s'avvedano che ciò avviene per volere e desiderio vostro.
Quando poi conoscerò la volontà e l'intenzione loro, saprò consigliarvi in modo più sicuro».
«Madonna,» fece Melibeo «agisci a tuo piacere e gradimento, perché io mi rimetto completamente ai tuoi
ordini e alle tue disposizioni.»
Vedendo la buona volontà di suo marito, madonna Prudenza fra sé si consigliò e consultò, pensando come
avrebbe potuto condurre questa faccenda a buon fine e buona conclusione. E quando il momento le
sembrò opportuno, mandò segretamente ad avvertire gli avversari d'incontrarsi con lei, e molto
saggiamente parlò con loro dei gran beni che derivano dalla pace, e dei gran pericoli e svantaggi che invece
sono nella guerra; e infine, con molto tatto, disse loro che avrebbero dovuto profondamente pentirsi per
l'ingiuria e il torto recati a Melibeo suo marito, a lei stessa ed alla figlia loro.
Sentendo le affabili parole di madonna Prudenza, quelli rimasero sorpresi e sbalorditi, e provarono una
gioia grande oltre ogni dire: «Ah, signora,» fecero «voi ci avete mostrato, secondo il detto del profeta
Davide, le benedizioni della dolcezza, giacché nella vostra bontà ci avete fatto dono della conciliazione che
noi non meritavamo affatto, e che anzi avremmo dovuto implorare con grande contrizione ed umiltà. Ben
comprendiamo ora quanto sia giusto Salomone nella sua scienza e nella sua dottrina, quando dice che le
parole buone moltiplicano ed accrescono gli amici, rendendo buoni e mansueti anche i malvagi... Noi
pertanto rimettiamo completamente il nostro atto e ogni nostra ragione e causa al vostro benvolere, pronti
ad ubbidire alla parola e al comando di messer Melibeo. E vi preghiamo, cara buona signora, vi
supplichiamo quanto più umilmente sappiamo e possiamo, affinché nella vostra gran bontà vogliate porre
in atto le vostre affabili parole. Noi sappiamo e riconosciamo d'aver offeso e oltraggiato messer Melibeo
oltre ogni misura, in modo irreparabile: per questo ci obblighiamo e c'impegniamo, insieme coi nostri amici,
a far quello che vorrà comandarci. Solo temiamo che, per l'offesa ricevuta, egli sia tanto irato e offeso
contro di noi da imporci una pena che non saremo in grado di reggere e sostenere. E perciò, nobile signora,
ci raccomandiamo alla vostra pietà di donna, affinché sia noi che i nostri amici non veniamo, per la pazzia
commessa completamente diseredati e distrutti».
«E' certamente cosa assai ardua e pericolosa» fece Prudenza «rimettersi completamente all'arbitrio e al
giudizio dei propri nemici, cedendo loro ogni potere e padronanza. Dice infatti Salomone: 'Credetemi e date
ascolto a quanto vi dico; parlo a voi gente e popolo e reggitori della Santa Chiesa: finché avete vita, non
cedete mai a nessuno, né al figlio o alla moglie, né all'amico o al fratello, il comando e l'autorità sulla vostra
persona'. Ora, s'egli dice che non bisogna cedere il comando neanche al fratello o all'amico, a maggior
ragione vieta e proibisce di arrendersi al nemico. Io, invece, vi consiglio di aver fiducia in mio marito. Lo
conosco bene, e so con certezza che è buono e umano, cortese e generoso, per nulla avido di beni o di
ricchezze. Non c'è cosa al mondo ch'egli desideri più della stima e dell'onore. E poi so bene, anzi ne sono
certa, che in questo caso non farà nulla senza il mio consiglio: vedrete che presto, con la grazia di Dio
nostro Signore, saremo tutti riconciliati.»
Dissero allora quelli ad una voce: «Venerabile signora, noi ci rimettiamo con tutto ciò che abbiamo al volere
e alla decisione vostra, e siam pronti a venire, qualunque giorno vostra grazia intenda fissare e stabilire, a
mantenere il nostro impegno e il nostro vincolo secondo quanto piace alla bontà vostra, affidandoci in tutto
al desiderio vostro e di messer Melibeo».
Udita la risposta di quegli uomini, madonna Prudenza li pregò di ripartire segretamente; e tornata da
messer Melibeo, gli riferì come i suoi avversari, di tutto ormai pentiti, riconoscessero umilmente i peccati e
le trasgressioni loro, e come fossero ormai disposti ad accettare qualsiasi pena, chiedendo ed implorando
pietà e misericordia.
Disse allora Melibeo: «Merita senz'altro grazia e perdono chi non cerca scuse per i propri peccati, ma li
riconosce e se ne pente chiedendo indulgenza. Dice infatti Seneca: 'Dove c'è la confessione, c'è il perdono e
la remissione, giacché la confessione è prossima all'innocenza'. E soggiunge in un altro punto: 'Chi si
vergogna del peccato e lo riconosce, merita il perdono'. E perciò io accetto e acconsento di far pace, ma è
bene che ciò non facciamo senza il consenso e l'approvazione dei nostri amici».
Allora veramente Prudenza si sentì gioiosa e lieta: «Ma certo» fece «avete detto proprio bene. Come prima,
per consiglio, consenso e aiuto dei vostri amici, pensavate di vendicarvi e di far guerra così ora non è bene
che, senza neanche consultarvi, vi accordiate e facciate pace coi vostri nemici. Dice infatti la legge che non
v'è nulla di più giusto che far sciogliere una cosa da chi l'abbia legata».
E senza indugi o ritardi, madonna Prudenza mandò subito alcuni messaggeri a chiamare i suoi parenti, i suoi
anziani amici fedeli e saggi, e alla presenza di Melibeo espose con ordine tutta la questione che voi già
conoscete, pregandoli di dare un giudizio ed un parere sulla miglior cosa da farsi. Allora quelli si
consigliarono e si consultarono sulla faccenda, esaminandola con gran cura e diligenza; alla fine furono
concordi nel consigliare a Melibeo di offrire la pace e la concordia, ricevendo di buon animo i suoi nemici
nella pietà e nel perdono.
Avendo ottenuto il consenso di messer Melibeo, e sentendo che il consiglio degli amici corrispondeva al
proprio desiderio e intendimento, madonna Prudenza in cuor suo si sentì straordinariamente lieta:
«Sostiene un antico proverbio» disse «che non bisogna rimandare a domani il bene che si può far oggi.
Perciò vi consiglierei di mandar subito i vostri messaggeri, ma che siano discreti e giudiziosi, a dire ai vostri
avversari che, se intendono trattare di pace e concordia, si preparino senza perdere più tempo e vengano
da noi». Detto fatto. I peccatori pentiti, cioè i nemici di Melibeo, furono assai contenti e lieti di udire le
parole dei messaggeri, e risposero molto umilmente e benevolmente, rendendo grazie e omaggi al signor
loro Melibeo e a tutta la sua compagnia. Quindi, senza indugio, si prepararono a partire con i messaggeri
stessi, per obbedire all'ordine di Melibeo signor loro.
E subito s'avviarono alla corte di Melibeo, portandosi alcuni fedeli amici che per loro s'impegnassero e
facessero da garanti. Giunti alla presenza di Melibeo, egli disse loro queste parole: «Il fatto è» disse
Melibeo «ed è ormai accertato, che senza alcun motivo, senza giudizio e senza ragione, avete recato a me,
a mia moglie Prudenza e a mia figlia, gravi torti e gravi offese. Mi siete entrati in casa con violenza e avete
commesso un tale scempio da meritare sicura morte. Eppure io voglio sentire e sapere la vostra opinione:
volete o non volete rimettere alla discrezione mia e di Prudenza la punizione, il castigo e la vendetta
dell'oltraggio?».
Rispose il più saggio per tutti loro: «Signore,» disse «ben sappiamo d'essere indegni di venire alla corte d'un
nobiluomo insigne e grande come voi. Abbiamo mancato così gravemente e abbiamo tanto offeso e
ingiuriato vostra signoria da meritare senz'altro la morte. Eppure, per la volontà e benevolenza che tutto il
mondo vi riconosce, noi ci rimettiamo completamente alla generosità e alla clemenza di vostra grazia e
signoria, pronti ad obbedire in tutto ai vostri ordini: e v'imploriamo che, nella vostra pietosa
commiserazione, teniate conto del nostro profondo pentimento e della nostra umile sottomissione,
perdonandoci l'oltraggiosa provocazione e offesa. Sappiamo infatti che la vostra generosa grazia e
misericordia s'estendono assai più nella bontà di quanto facciano nel male le nostre oltraggiose colpe e i
nostri errori, quantunque sia vero che maledettamente e dannabilmente abbiamo mancato contro vostra
signoria elettissima».
Allora Melibeo molto benevolmente li sollevò da terra, accogliendo gli obblighi e gli impegni ch'essi vollero
contrarre con promesse e giuramenti. Venne quindi fissato il giorno in cui avrebbero dovuto tornare a corte
per ricevere ed accettare il giudizio e la sentenza che Melibeo avrebbe pronunziato su di loro. Stabilito
questo, ognuno se ne tornò a casa.
Poco dopo, cogliendo il momento opportuno, madonna Prudenza chiese a suo marito Melibeo quale
provvedimento avrebbe pensato di prendere contro gli avversari.
Al che rispose Melibeo dicendo: «In verità penso e mi propongo di diseredarli completamente di tutti i loro
averi e di mandarli in esilio per sempre».
«Veramente» esclamò madonna Prudenza «questa sarebbe una decisione molto crudele e avventata. Ricco
lo siete già abbastanza e non avete certo bisogno dei beni d'altra gente: in questo modo potreste solo farvi
il nome di persona ingorda, il che è sconveniente e andrebbe evitato da ogni galantuomo. Come dice
l'apostolo, l'ingordigia è alla radice di tutti i mali. Invece d'impossessarvi così dei loro averi, meglio sarebbe
che voi perdeste i vostri, perché vale di più perdere con onore che guadagnare con obbrobrio e con
vergogna. Tutti dovrebbero cercare con cura di farsi un buon nome, e non solo dovrebbero mantenerlo, ma
dovrebbero sforzarsi sempre di far qualcosa per rinnovarlo, perché sta scritto che l'antica buona fama o
buon nome di una persona presto passa e se ne va, se non viene rinnovato e rinfrescato. E in quanto voi
dite che volete mandare in esilio i vostri avversari, anche questo mi sembra molto irragionevole e
spropositato, dato che si sono completamente rimessi al vostro potere. Ora sta anche scritto che chi abusa
del proprio potere e autorità, merita senz'altro di perdere il proprio privilegio. Ma poniamo il caso, anche se
credo che non vi sia possibile, che per legge e per diritto vi sia concesso di condannarli a quella pena:
ebbene io vi dico che molto probabilmente non vi riuscireste, senza passare di nuovo alla guerra come
prima. Se veramente volete farvi ubbidire, dovete essere più magnanimo, ossia dovete imporre giudizi e
sentenze meno severi. Sta scritto, infatti, che più uno comanda affabilmente, più la gente l'ubbidisce.
Perciò vi prego, cercate di dominarvi in questa faccenda e necessità. Seneca dice: 'Chi riesce a vincere il
proprio animo, vince doppiamente'. E Tullio: 'Non v'è nulla di più ammirevole in un gran signore che
l'affabilità, la clemenza e l'amore per la pace'. Vi prego, tralasciate di far vendetta e cercate invece di
conservare e mantenere il vostro buon nome, in modo che gli uomini abbiano motivo e ragione di lodarvi
per la vostra pietà e misericordia, e voi stesso non dobbiate in seguito pentirvi per ciò che avete fatto,
infatti dice Seneca: 'Vince malamente chi poi si pente della vittoria'. Vi prego dunque, aprite alla pietà la
vostra mente e il vostro cuore, affinché Dio onnipotente abbia in seguito pietà di voi nel giudizio finale. Dice
infatti San Giacomo nella sua epistola che sarà un giudizio senza misericordia per chi misericordia non avrà
avuto».
Sentendo i nobili argomenti e le ragioni di madonna Prudenza, le sue sagge nozioni e il suo
ammaestramento, l'animo di Melibeo cominciò a piegarsi al volere della moglie, attratto dalla sua buona
fede; e a poco a poco egli si convinse e si persuase a seguire in tutto il suo consiglio, ringraziando Iddio, da
cui deriva ogni virtù e bontà, di avergli mandato una moglie di così grande discrezione. E il giorno in cui
tornarono in sua presenza gli avversari, egli, rivolgendosi a loro molto benevolmente, disse: «Anche se per
superbia, presunzione e follia, per negligenza e ignoranza, avete agito male e m'avete offeso, pure vedendo
e considerando la vostra grande umiltà, il dolore e il pentimento per le vostre colpe, bisogna ch'io vi
conceda grazia e misericordia. Vi accolgo perciò nella mia indulgenza e vi perdono completamente tutte le
offese, le ingiurie e i torti che avete recato a me e ai miei, affinché Iddio, nella sua infinita misericordia,
perdoni a noi, nell'ora della morte, le colpe che contro di lui abbiamo commesso in questo misero mondo.
Se infatti proveremo dolore e pentimento per le colpe e i peccati commessi dinanzi a Dio nostro Signore,
egli sarà così grande e misericordioso da perdonarci e condurci alla sua beatitudine eterna. Amen».
Qui termina il Racconto di Chaucer su Melibeo e madonna Prudenza.
Note del "Racconto di Melibeo".
(*). Il Racconto di Melibeo (composto, pare, intorno al 1372-77) è una traduzione quasi letterale d'un
trattato francese, intitolato "Le livre de Melibée et de dame Prudence", attribuito ad un certo Renaud de
Louens, e non più a Jean de Meung come un tempo avveniva, il quale trattato sarebbe, a sua volta, una
parafrasi del "Liber Consolationis et Consilii" di Albertano da Brescia (1192-1250 circa).
Nota 1. Come verrà spiegato più avanti, Sofia, l'allegorica figlia di due altrettanto allegorici genitori, altro
non è che l'anima gravemente ferita «in cinque punti» (cioè, attraverso i cinque sensi) dai tre nemici
dell'uomo (la carne, il diavolo e il mondo).
Nota 2. L'autore del "Siracide".
Nota 3. Ebreo spagnolo convertito al cristianesimo (dodicesimo secolo), famoso per la sua "Disciplina
Clericalis", una raccolta di storie moraleggianti in prosa latina, tradotta in seguito in versi francesi col titolo
"Chastoiement d'un père à son fils".
Nota 4. «Perché sta scritto: le chiacchiere delle donne possono nascondere cose che loro neppure
conoscono. E poi, dice il filosofo, nel cattivo consiglio le donne superano gli uomini. E per tali ragioni del tuo
consiglio non intendo servirmi affatto.»
Nota 5. Marco Tullio Cicerone.
Nota 6. Cicerone.
Nota 7. Secondo cioè le regole retoriche elencate da Cicerone ("De Officiis", II, 5).
Nota 8. Al che risponde madonna Prudenza: «Certo» disse «ammetto che dalla vendetta derivino sia mali
che beni; però non a tutti appartiene il far vendetta, ma solamente ai giudici e a coloro che hanno
giurisdizione sui malfattori...».
Nota 9. Eroe d'un trattato sull'amore allora molto noto, "Pamphilus de Amore".
Nota 10. Papa Innocenzo Terzo, autore dei "De Contemplu Mundi".
Nota 11: «...più di quanto non sia certo d'esser degno dell'amor di Dio»
Prologo
AL RACCONTO DEL MONACO.
Le allegre parole dell'Oste al Monaco.
Terminato il mio racconto su Melibeo e sulla virtù di Prudenza, il nostro Oste disse: «Per il prezioso corpo di
San Madriano, (1) quant'è vero che sono un uomo di fede, avrei dato un barile di birra se anche Godliva (2)
mia moglie avesse sentito questo racconto! Lei neppure s'immagina tanta pazienza quanta n'ebbe questa
Prudenza moglie di Melibeo. Ossa di Dio, quand'io già picchio i miei garzoni, lei mi porge ancora certi grossi
randelli nodosi e strilla: 'Ammazzali, quei cani! To', rompigli la schiena e tutte le ossa!'. Se poi qualcuno dei
vicini in chiesa non le fa l'inchino o fa tanto di passarle avanti, appena viene a casa, mi salta agli occhi e
grida: 'Miserabile vigliacco, fa' rispettare tua moglie! Per tutte le sante ossa, prenderò io il coltello e tu ti
metterai col fuso a filare!'. E così continua dal mattino alla sera: 'Povera me!' dice 'proprio a me doveva
capitare di sposare una pasta frolla, un babbuino vigliacco che si fa saltare in groppa da tutti! Non hai
neppure il coraggio di sostenere i diritti di tua moglie!'... Ecco che vita è la mia, se non voglio litigare. E mi
conviene prendere presto la porta, altrimenti sono spacciato, a meno che proprio io non diventi furente
come un leone. Ah, lo so, un giorno o l'altro mi farà accoppare qualche vicino, e allora sì che dovrò tagliare
la corda! Perché io sono pericoloso con un coltello in mano, anche se poi non ho il coraggio di starle a
fronte, ma, parola mia, ha certe braccia così grosse... provate a farle o a dirle qualcosa di storto! Ma
lasciamo perdere questa faccenda. Messer Monaco!» disse «su, allegro, perché ora veramente tocca a voi
narrare un racconto. Guardate, siamo già quasi a Rochester. (3) Su, avvicinatevi col cavallo e non
interrompete il gioco. Ma, accidenti, non ricordo il vostro nome. Come devo chiamarvi: messer don
Giovanni o don Tommaso oppure don Albono? Di che famiglia siete per parte di padre?... Ti giuro, perdio,
che hai una pelle ch'è una bellezza: dev'esserci un buon pascolo dalle tua parti, perché non hai l'aria d'un
penitente o d'uno spirito; parola mia, tu sei qualche funzionario, qualche sacrista di merito o qualche
cellerario. Insomma, per l'anima di mio padre, secondo me, a casa tua sei un signore: mica un povero
conventuale o un novizio, ma un rettore furbo e sensato. E sei anche ben piantato in carne ed ossa, un vero
fusto. Che Dio mandi un accidenti a chi per primo t'ha messo in testa di farti frate: saresti stato un bel
montapollastre! Se tu avessi la libertà, come ne hai il nerbo, di sfogarti nella voglia di figliare, ne avresti
messo al mondo dei rampolli! Ah, ma perché cammini imbacuccato in quella palandrana? Che Dio mi
fulmini, ma se fossi papa io, non soltanto te, ma tutti i maschi validi, anche se rapati con la tonsura,
dovrebbero prender moglie. Altrimenti il mondo è bell'e spacciato. Gli ordini religiosi si sono presi tutto il
grano della semina, e noi laici non siamo che dei granchi. Piante flosce danno germogli grami. Ecco perché i
nostri rampolli sono così smilzi e fiacchi che manco sanno figliare bene; e le nostre mogli vogliono provare
con i religiosi, perché con i pagamenti di Venere ci sapete fare meglio di noi: Dio sa che voi non battete mai
moneta falsa. (4) Ma non avertene a male, messere, io scherzo. E tante volte nel gioco ho sentito dire la
verità».
Il degno monaco prese tutto con pazienza, e disse: «Nei limiti dell'onestà, farò del mio meglio per narrarvi
un racconto, o anche due o tre, se avrete voglia di ascoltarli. Vi racconterò la vita di Sant'Edoardo, (5)
oppure vi reciterò prima alcune tragedie. Ne avrò cento nella mia cella! Sapete, tragedia significa una
specie di storia così come ci viene ricordato nei libri antichi, di qualcuno vissuto in grande prosperità, poi
caduto dal suo rango nella miseria e finito male. Di solito vengono composte in versi di sei piedi, detti
'esametri'. Ma molte vengono scritte anche in prosa o in versi d'altro tipo. Ecco, questa spiegazione
dovrebbe bastare (6)... Ora, se vi fa piacere, statemi a sentire. Ma vorrei prima chiedervi un favore: s'anche
non racconto per ordine queste cose, sia di papi che di re o imperatori, secondo le date che si trovano
scritte, ma salto un po' avanti e un po' indietro come mi capita di ricordare, scusatemi per la mia
ignoranza».
EXPLICIT.
RACCONTO DEL MONACO (*).
Qui comincia il Racconto del Monaco.
De Casibus Virorum Illustrium.
Lamenterò, in forma di tragedia, la sventura di coloro che, essendo stati d'alta condizione, caddero
nell'avversità senza che vi fosse alcun rimedio. Quando infatti la fortuna vuole andarsene, non v'è uomo
che riesca a trattenerla. Nessuno perciò si fidi della cieca prosperità, ma si ricordi di questi antichi e veritieri
esempi!
Lucifero.
Da Lucifero voglio incominciare, sebbene egli fosse un angelo e non un uomo, giacché, per quanto la
fortuna non possa sfidare gli angeli, egli fu precipitato per sua follia dall'alto del suo rango giù negli abissi
dell'inferno, dove ancora giace... O Lucifero, fulgidissimo fra gli angeli, Satanasso tu ora sei, e più non puoi
svincolarti dalla miseria in cui sei caduto!
Adamo.
Ed ecco Adamo nella terra di Damasco (7), modellato dalle stesse dita di Dio, non generato dall'impuro
sperma dell'uomo, padrone del paradiso intero eccetto soltanto un albero... Nessuno al mondo raggiunse
mai grado più alto di quello d'Adamo, finché, per sua disobbedienza, venne cacciato dal sommo della sua
prosperità alla fatica all'inferno e alla sventura!
Sansone.
Ed ecco poi Sansone, che venne annunziato dall'angelo molto prima della sua nascita, e fu consacrato a Dio
onnipotente, e sempre visse nobilmente finché fu in grado di vedere. Nessuno gli fu mai pari, in quanto a
forza e anche a coraggio, ma ne rivelò poi il segreto alle sue donne, e perciò in miseria dovette uccidersi...
Sansone, questo nobile potentissimo campione, senz'altre armi che le proprie due mani, uccise e squartò il
leone mentre per via si recava a nozze; ma la sua sleale sposa tanto lo lusingò e lo pregò, che riuscì alla fine
a sapere il suo segreto, e ignobilmente lo rivelò ai suoi nemici, e, abbandonato lui, si prese un altro uomo.
Furioso, Sansone acchiappò allora trecento volpi, legandole tutte insieme per la coda, e diede fuoco a tutte
le volpi, appiccando un tizzone ad ogni coda; ed esse incendiarono tutto il grano dei campi, tutti gli ulivi e le
viti, mentre da solo egli uccise mille uomini, non avendo altra arma che una mascella d'asino. E dopo averli
uccisi, ebbe tanta sete che quasi si sentì mancare: perciò si mise a pregare che Dio avesse pietà della sua
pena e gli mandasse da bere, altrimenti sarebbe morto. Ed ecco che da quella secca mascella d'asino,
sprizzando da un dente molare, venne fuori una sorgente, ed egli poté bere a sazietà. Così Dio lo aiutò,
come dice il libro dei Giudici. E una notte a Gaza, ad onta dei Filistei di quella città, scardinò a viva forza
tutte le porte e le trasportò a spalla in cima a un monte, perché tutti le vedessero... O nobile potentissimo
Sansone, amato e benvoluto, se tu non avessi confidato il tuo segreto alle donne, nessuno al mondo ti
avrebbe mai uguagliato! Sansone non bevve mai né sidro né vino, mai si lasciò toccare il capo con le forbici
o col rasoio, perché secondo il precetto d'un divino messaggero, la sua forza stava tutta nei suoi capelli. E
per venti inverni, anno dopo anno, ebbe in mano il governo d'Israele. Ma dovette poi piangere a calde
lacrime, trascinato dalle donne alla rovina! Rivelò alla sua amante Dalila che tutta la forza gli stava nei
capelli, e lei lo tradì per venderlo ai suoi nemici. Mentre un giorno le dormiva in grembo, gli fece tosare o
radere i capelli completamente, e così poté mostrare ai suoi nemici dove stava tutta la sua abilità; e quando
quelli videro ch'era in quelle condizioni, lo legarono ben stretto e gli strapparono gli occhi. Se avesse avuto i
capelli, nessun legame lo avrebbe trattenuto. Ora, invece, eccolo imprigionato in una cava, costretto a
muovere la ruota d'un mulino. O nobile Sansone, tu ch'eri il più forte degli uomini, giudice un tempo nella
gloria e nella ricchezza, non ti rimane che piangere dai tuoi occhi ciechi, ora che dal bene sei precipitato
nella miseria! Ed ecco come finì questo sventurato: un giorno i suoi nemici diedero una festa, alla quale egli
fu costretto a partecipare come buffone, dentro un tempio in gran parata. Alla fine si udì un terribile boato:
smuovendo a viva forza due colonne, le fece precipitare e con esse fece crollare tutto il tempio, rimanendo
ucciso con tutti i suoi nemici. Tutti i prìncipi e tremila uomini rimasero sotto le macerie del gran tempio di
pietra! Ma ora basta con Sansone. Solo, imparate da questo famoso esempio antico che alle donne non
bisogna mai confidare cose che dovrebbero restar segrete, riguardanti la propria persona e la propria vita.
Ercole.
Di quel sovrano conquistatore che fu Ercole, cantano la lode e l'alta rinomanza le sue stesse fatiche,
essendo egli ai suoi tempi il fiore della forza. Egli infatti uccise e scuoiò il leone; demolì la boria dei centauri;
uccise quegli orribili e crudeli uccelli ch'erano le arpie; rubò al drago le mele d'oro; andò a prendere
Cerbero, il cane dell'inferno; uccise il crudele tiranno Busiride e ne fece mangiare carne ed ossa al suo
cavallo; uccise il velenoso serpente di fuoco; spezzò uno dei due corni d'Acheloo; uccise Caco in una
spelonca di pietra; uccise il forte gigante Anteo; atterrò in un attimo il terribile cinghiale e riuscì perfino a
sostenere il cielo sulle spalle... Nessuno mai sterminò altrettanti mostri! Divenne famoso in tutto il mondo,
sia per la sua forza che per la sua grande bontà, e si recò in visita in tutti i reami. Era così forte, che nessuno
poteva resistergli. Dice Trofeo (8) che giunse perfino a porre ai due termini del mondo un pilastro per
confine. Questo nobile campione aveva un'amante che si chiamava Deianira ed era fresca come maggio. Un
giorno, narrano gli storici, gli mandò una splendida camicia nuova. Ma, ahimè, quella camicia era così
sottilmente impregnata di veleno che, dopo averla indossata neanche mezza giornata, gli fece cadere tutta
la carne dalle ossa. Alcuni scusano la donna, sostenendo che la camicia sarebbe stata tessuta da un tale che
si chiamava Nesso. Comunque sia, ora non la voglio accusare; solo vi dico che, indossando quella camicia
sulla pelle, egli si trovò con le sue carni annerite dal veleno. E non trovando alcun rimedio, si fece serrare
fra i carboni ardenti, sdegnando di morire come se si fosse avvelenato. Così si estinse il nobile possente
Ercole... Ecco, chi può mai fidarsi della fortuna? Colui che la segue in questo mondo di sconvolgimenti,
senz'accorgersene si trova scagliato giù sul fondo. Saggio è chi sa conoscere se stesso! Ma attenzione,
perché se la fortuna vuole abbindolare, aspetta il suo uomo al varco, e lo assale quando meno se l'aspetta.
Nabucodonosor.
Non è possibile descrivere a parole il potente trono, i preziosi tesori, lo scettro glorioso e la maestà regale
di re Nabucodonosor. (9) Per ben due volte conquistò la città di Gerusalemme, portando via i vasi del
tempio. La sua reggia era a Babilonia dov'egli godette d'ogni piacere e gloria. I più bei fanciulli di sangue
reale d'Israele li fece castrare, e li tenne per schiavi; fra questi, Daniele, il più intelligente di tutti, che riuscì
a spiegare al re certi sogni che nessun sapiente della Caldea (10) sapeva interpretare. Questo superbo re si
fece erigere una statua d'oro, alta sessanta cubiti e larga sette, e ordinò che tutti, giovani e vecchi,
l'adorassero e ne avessero timore, e che chi non volesse ubbidire fosse gettato in una fornace ardente. Solo
Daniele, con due suoi compagni, riuscì a non piegarsi mai a quell'ordine. Era superbo e tracotante, questo
re dei re; credeva che neanche Dio nella sua maestà avrebbe mai potuto privarlo del suo stato. Ma ecco che
improvvisamente perdette ogni dignità e diventò simile ad una bestia: mangiò per un certo tempo il fieno
come un bue, si sdraiò all'aperto e camminò sotto la pioggia con gli animali della foresta. E i suoi peli
diventarono come penne d'aquila e le sue unghie come artigli d'uccello, finché Dio non lo liberò dopo
diversi anni, facendolo ritornare in senno. Allora piangendo ringraziò il Signore e visse nel timore di
sbagliare e di peccare ancora, e finché non fu deposto nella bara, riconobbe che il Signore è onnipotente e
pieno di grazia.
Baldassarre.
Suo figlio, che si chiamava Baldassarre, salito al trono dopo il padre, non seppe profittare dell'esempio
paterno, perché era superbo d'animo e di contegno, ed era anche un idolatra. L'alta carica lo confermò
ancor più nella sua superbia. Ma poi la fortuna lo gettò irrimediabilmente in basso, mentre il regno venne
subito diviso. Un giorno diede una festa in onore dei suoi baroni, ordinando a tutti di stare allegri. Poi
chiamò i suoi ufficiali: «Andate» disse «a prendere quei vasi che mio padre nella sua prosperità tolse al
tempio di Gerusalemme, e brindiamo ai nostri sommi dèi per l'onore che i nostri, antenati ci hanno
lasciato». Sua moglie e tutti gli altri, baroni e concubine, bevvero a volontà diversi vini da questi sacri vasi.
Improvvisamente, volgendo lo sguardo sulla parete, il re vide una mano senza braccio che rapida scriveva, e
tremando gettò un urlo di terrore. La mano, sotto lo sguardo sgomento di Baldassarre, scrisse: "Mane
techel phares", e poi scomparve. In tutto il paese non c'era indovino che sapesse intepretare il senso di
quelle parole. Daniele, invece, le spiegò subito dicendo: «O re, il Signore a tuo padre aveva dato gloria,
onore, regno, tesori e rendite, ma egli fu superbo, senza timor di Dio, perciò il Signore gli mandò grandi
sventure e lo privò del regno. Egli fu scacciato dalla società degli uomini, andò a vivere in mezzo agli asini, si
nutrì di fieno come una bestia sotto la pioggia e nella siccità, finché con l'aiuto della grazia e della ragione,
non riconobbe che Iddio del cielo domina su tutti i regni e su tutte le creature. Allora il Signore ebbe pietà
di lui e gli ridonò il regno e il suo aspetto normale. Anche tu, che sei suo figlio, pur sapendo tutte queste
cose, sei gonfio di superbia e ti ribelli a Dio e gli sei nemico. Hai perfino osato bere nei suoi calici, e così tua
moglie e le tue amanti li hanno profanati tracannando vino in onore dei falsi dèi. E perciò ne avrai grande
sventura. In verità, la mano che sul muro ha scritto "Mane techel phares" è stata mandata dal Signore. Ciò
vuol dire che il tuo regno è ormai alla fine, che tu non hai più alcun peso, e che il paese verrà diviso e dato
ai Medi e ai Persiani». Questo disse. E quella notte stessa il re fu assassinato, e Dario ne prese il posto
senz'averne alcun titolo o diritto... Signori miei, di qui prendete esempio come neanche fra i potenti vi sia
sicurezza: quando la fortuna vuole abbandonare un uomo, gli porta via regno e ricchezze, e tutti i suoi
amici, dal primo all'ultimo. Chi ti è amico nella fortuna, nella sfortuna ti è nemico, dice il proverbio. Ed ha
ragione e succede spesso.
Zenobia.
Zenobia, regina di Palmira, (11) declamata tanto dai Persiani per la sua nobiltà, era così prode e valorosa
nelle armi, che nessuno la sorpassava sia per coraggio che per stirpe o per altra distinzione. Discendeva dal
sangue dei re di Persia. Non dico che fosse una bellezza suprema, ma d'aspetto non poteva essere migliore.
Si trova scritto che sin dall'infanzia fuggiva le occupazioni femminili per scorrazzare nei boschi, colpendo a
sangue numerosi cervi contro cui scagliava enormi frecce. Era così veloce che in un attimo li raggiungeva. E
crescendo imparò ad uccidere leoni e leopardi, ad affrontare gli orsi stritolandoli come voleva fra le sue
braccia. Osava perfino esplorare i covi di belve feroci, correva tutta la notte fra le montagne, dormiva sotto
un cespuglio, ed era capace di gareggiare in pura forza ed energia con qualunque giovanotto che ne avesse
mai avuto il coraggio. Non c'era nulla che resistesse alle sue braccia. Protesse sempre la sua verginità
contro tutti senza mai legarsi ad alcun uomo. Ma alla fine, pur fra molti indugi, i suoi amici la convinsero a
sposare Odenato, un principe di quel paese, e si capisce ch'egli avesse le stesse inclinazioni che aveva lei.
Una volta uniti, vissero insieme felici e contenti, perché ciascuno sentiva per l'altro affetto e amore. Ma
c'era un fatto: lei non voleva mai acconsentire, a nessun costo, che lui le si accoppiasse insieme per più
d'una volta, perché a lei interessava solo avere un figlio, per moltiplicare il mondo. Appena poi poteva
accorgersi che non era incinta dopo quell'atto, allora gli permetteva di prendersi quel gusto in fretta, e per
non più d'una volta, sicuramente. E se a quella botta rimaneva incinta, lui non doveva più giocare a quel
gioco per quaranta settimane intere, passate le quali, sempre per una volta, gli permetteva di fare lo stesso.
Fosse tenero o furente, più di tanto Odenato non otteneva, perché lei sosteneva ch'era solo per lussuria e a
vergogna delle donne che in altre occasioni gli uomini si divertivano con loro. Da questo Odenato ebbe due
figli che allevò nella virtù e nella sapienza... Ma passiamo ora al nostro racconto. Dico dunque che non c'era
al mondo, pur cercando dappertutto, creatura più ammirevole e saggia e misuratamente generosa, più
corretta e leale nella lotta e che più sopportasse le fatiche di una guerra. Non si potrebbe mai descrivere la
ricchezza dei suoi arredi, della sua argenteria e delle sue stoffe. Andava completamente vestita di gemme e
d'oro e, pur amando la caccia, non tralasciava di studiare a fondo diverse lingue (12) e, appena aveva un po'
di tempo, tutto il suo piacere era di apprendere dai libri come spendere in virtù la propria vita. Insomma,
per farla breve, sia lei che suo marito furono talmente valorosi, da conquistare in oriente diversi grandi
regni, con città bellissime, appartenenti alla maestà di Roma; e riuscirono a tenerli così saldamente in mano
che, finché visse Odenato, nessun nemico poté mai scacciarli. Chi avesse voglia di leggere la storia delle loro
battaglie contro re Sapore (13) e molti altri, come in realtà si susseguirono gli eventi, perché ella vinse
sempre e quali titoli conquistò, e poi la storia delle sue disavventure e della sua rovina, e in che modo alla
fine venne assediata e presa, si rivolga a Petrarca, (14) il mio maestro, che di ciò scrisse abbastanza, vi
assicuro. Alla morte di Odenato, ella mantenne valorosamente i regni, combattendo a corpo a corpo contro
i nemici così spietatamente, che non c'era principe né re da quelle parti che non fosse lieto di trovar grazia
presso di lei, convincendola a non guerreggiare sulle sue terre. Tutti stabilivano con lei trattati di alleanza,
col patto di rimanere in pace e di lasciarla cavalcare a suo piacere. Neppure l'imperatore romano Claudio,
né il romano Galieno prima di lui, ebbero mai il coraggio di sfidarla; nessun armeno, egiziano siriano o
arabo osò mai affrontarla in campo, temendo di finire sotto le sue mani o di esser messo in fuga dalle sue
schiere. In abito regale, i suoi due figli si avviavano ormai ad ereditare i regni del loro padre: Eremiano e
Timolao erano i loro nomi, e già i persiani li acclamavano. Ma, ahimè, la fortuna ha il veleno nel suo miele:
per questa potente regina ormai era finita. E dal trono la fortuna la fece precipitare nella miseria e nella
sventura. Appena ebbe in mano il governo di Roma, Aureliano infatti decise di vendicarsi di questa regina e
si mise in marcia con le sue legioni contro Zenobia e, insomma, per dirla in breve, dopo averla messa in
fuga, finalmente la prese e l'incatenò con i due figli e, avendo ormai conquistato tutto il paese, fece ritorno
a Roma. Tra le altre cose vinte, c'era anche il cocchio lavorato in oro e pietre preziose che il grande
imperatore Aureliano condusse con sé, perché tutti lo vedessero... Ed ecco lei che precede a piedi l'ingresso
trionfale, con le catene d'oro appese al collo, la corona che ne indica il grado e le vesti cariche di pietre
preziose. Ah, fortuna, colei che una volta faceva paura a re e imperatori ora deve sottostare allo sguardo di
tutto il popolo! Ahimè, colei che con l'elmo aveva partecipato ad aspri assalti e con valore aveva
conquistato forti città e torrioni, ora è costretta a portare la cuffia; colei che prima reggeva uno scettro di
fiori dovrà reggere la conocchia e guadagnarsi la vita filando!
Pietro re di Spagna.
O nobile, valoroso Pietro, (15) gloria della Spagna, la fortuna t'innalzò a tale maestà, che ben si può
compiangere la tua misera fine! Tuo fratello ti scacciò dalla tua terra e, durante un assedio, dopo che tu
fosti con astuzia tradito e condotto alla sua tenda, egli t'uccise con le sue stesse mani usurpandoti trono e
averi. Macchinò l'insidia e l'alto tradimento Aquila Nera (16) in campo di neve, invischiata su di un ramo
color della brace; Mal Nido (17) ne fu l'esecutore: non l'Oliviero di Carlo che seguì sempre onestà e onore,
ma Gano Oliviero d'Armorica che, corrotto dal denaro, trascinò nella trappola questo nobile re.
Pietro re di Cipro.
Anche tu, valoroso Pietro re di Cipro, (18) che ad Alessandria vincesti da gran maestro, spargendo lo
sterminio fra gl'infedeli, anche tu provasti l'invidia dei tuoi vassalli e per nient'altro che la tua cavalleria fosti
ucciso all'alba nel tuo letto... Così la fortuna governa e gira la sua ruota, e dalla gioia trascina gli uomini nel
dolore.
Bernabò di Lombardia.
Gran Bernabò Visconti di Milano,(19(dio del piacere e flagello della Lombardia, perché non dovrei ricordare
la tua sfortuna, dopo che tu fosti salito tanto in alto? Ti fece morire nella tua prigione il figlio di tuo fratello,
a te due volte congiunto come nipote e genero. Ma come e perché nessuno lo seppe mai!
Ugolino conte di Pisa.
Del languire del conte Ugolino di Pisa (20) non v'è lingua che per pietà possa parlare... Poco fuori di Pisa
sorge tuttavia una torre, nella qual torre egli fu posto in prigione, e con lui i suoi tre bambini, il maggiore
dei quali aveva appena cinque anni... Ahimè, fortuna, che crudeltà rinchiudere in tal gabbia simili uccelli... E
in quella prigione egli era condannato a morire, giacché Ruggeri, vescovo di Pisa, gli aveva mosso contro
un'accusa falsa, in seguito alla quale il popolo era insorto e in prigione l'aveva cacciato nel modo che avete
udito. Da mangiare e da bere ne aveva così poco, che a stento poteva bastare, ed era inoltre scadente e
cattivo... E un giorno, proprio nell'ora in cui avrebbe dovuto portare il cibo, il carceriere venne invece a
inchiodare l'uscio della torre. Egli lo sentì bene, ma non disse nulla, colpito al cuore dal pensiero che ormai
di fame lo volessero far morire. «Ahimè» fece «ahimè, non fossi mai nato!» E gli vennero d'improvviso le
lacrime agli occhi... Il figlio più piccolo, che aveva tre anni, gli disse: «Babbo, perché piangi? Quando verrà il
carceriere a portarci la minestra? Non c'è neanche un pezzo di pane? Ho tanta fame, che non posso
dormire... Dio volesse che per sempre m'addormentassi, così almeno la fame nel mio ventre non
entrerebbe... Non vorrei altro che un pezzetto di pane!». Così di giorno in giorno questo bambino pianse,
finché poi non si coricò in seno a suo padre, e disse: «Addio, babbo, devo morire!». E, baciando suo padre,
morì quello stesso giorno. Appena si accorse ch'era morto, l'infelice padre si morse le braccia per il dolore,
e disse: «Ah, fortuna, a mio danno gira ormai la tua ipocrita ruota!...». Gli altri suoi figli, credendo che si
mordesse le braccia per la fame, non per il dolore gli dissero: «Babbo, ah, non fare così! Piuttosto mangia la
carne addosso a noi due, la nostra carne che tu ci hai dato... riprendici la nostra carne e saziati!». Proprio
così gli dissero. Poi, dopo un giorno o due, gli si adagiarono in grembo e morirono. Anch'egli, disperato,
morì di fame, e così finì questo potente conte di Pisa. La fortuna lo falciò via dall'alto del suo stato. Questa,
in breve, la sua tragedia. Quelli che vogliono udirla per disteso, leggano il grande poeta italiano, chiamato
Dante, che sa dir tutto punto per punto, senza mai fallire una parola.
Nerone.
Benché Nerone fosse vizioso come un demonio dell'inferno, tuttavia, secondo quanto ci narra Svetonio,
ebbe al suo comando il mondo intero, oriente e occidente, sud e settentrione. Le sue vesti erano tutte un
ricamo di rubini, di zaffiri e di perle bianche, perché a lui le pietre preziose piacevano molto. Non ci fu mai
nessun imperatore, più raffinato, più sfarzoso nel vestire e più superbo di lui. Un abito indossato un giorno
non gli piaceva più, non lo voleva nemmeno più vedere. Per quando gli garbava pescare nel Tevere, usava
reti d'oro. Ogni suo desiderio era legge, giacché la fortuna gli era amica e lo ubbidiva... Egli incendiò Roma
per divertimento, e un giorno mandò a morte tutti i senatori per sentire come fanno gli uomini a piangere e
a gridare; uccise suo fratello e si accoppiò con sua sorella... A sua madre, poi, serbò una fine orrenda: le
squarciò il ventre per vedere dov'era stato concepito. Proprio così, ahimè! Ecco quanto gli importava di sua
madre! E non versò neppure una lacrima, disse soltanto: «Che bella donna era!»... E' mostruoso pensare
ch'egli potesse e osasse ancor giudicare la bellezza di quella morta. Ordinò poi che gli portassero del vino e
si mise a bere, e quello fu tutto il suo lutto. Quando alla potenza si unisce la crudeltà, allora, ahimè, il
veleno scende fino in fondo! Eppure, da giovane, questo imperatore aveva avuto un maestro che lo aveva
educato nelle lettere e nella cortesia e, se i libri non mentono, allora era stato un fiore di virtù; e finché
l'aveva avuto sotto la sua tutela, questo maestro aveva saputo renderlo così avveduto e cauto, che passò
molto tempo prima che la tirannide o altri vizi si scatenassero in lui. Mi riferisco a Seneca. Di lui Nerone
aveva timore, perché prudentemente lo puniva per le sue colpe con le parole e non con gli atti: «Sire,» gli
diceva «un imperatore ha il dovere di essere virtuoso e di evitare la tirannide». Per questo motivo lo
condannò a tagliarsi i polsi e a morire dissanguato dentro un bagno. Fin da giovane Nerone aveva avuto
l'abitudine di porsi contro il suo maestro, poi col tempo ciò gli parve un gran fastidio: ecco perché lo
costrinse a morire in quel modo. D'altronde Seneca, da saggio, preferì morire così in un bagno piuttosto che
subire altri tormenti. E così Nerone ammazzò anche il suo buon maestro... A questo punto alla fortuna non
garbò più di tener dietro all'immensa superbia di Nerone, perché se lui era forte, lei era più forte ancora.
Così Pensò, 'Perdio, son stupida a mantenere in alta posizione un uomo pieno di vizi e a chiamarlo
imperatore. Lo leverò io dal trono, perdio, e quando meno se l'aspetterà, si troverà per terra!'. Una notte il
popolo, ormai stanco dei suoi vizi, insorse contro di lui e quand'egli se ne accorse, si trovò solo, cacciato
fuori delle sue porte, e corse da quanti gli erano stati amici, ma sì, più chiamava, più violenti gli usci si
chiudevano! Allora finalmente comprese di aver agito male, e se ne andò per la sua strada, senza chiamare
più nessuno. Il popolo in tumulto gridava da ogni parte ed egli udì con le sue orecchie che diceva: «Dov'è
quel tiranno ipocrita di Nerone?». E gli parve d'impazzire di paura e pietosamente invocò gli dèi di
soccorrerlo. Ma ormai era tardi. In preda al terrore gli sembrò di morire, e corse a nascondersi dentro un
giardino. E in questo giardino trovò due plebei seduti accanto ad un gran fuoco rosso, e li implorò
d'ucciderlo, di staccargli via la testa, perché, una volta morto, per scorno non fosse resa al suo corpo alcuna
ingiuria... Ma non gli rimase che uccidersi da sé, mentre la fortuna se ne rise e se ne prese gioco.
Oloferne.
Non c'è mai stato condottiero che agli ordini d'un re conquistasse più regni, fosse ai suoi tempi più forte in
campo, più famoso o più splendido nella sua enorme presunzione, di Oloferne, baciato in fronte dalla
fortuna, da lei guidato in alto e in basso, finché poi, senza neppure accorgersene, rimase senza testa. Il
mondo intero ne aveva terrore, non solo perché egli privava tutti di ricchezza e libertà, ma perché ciascuno
era da lui costretto a rinnegare la propria fede. «Nabucco è il solo dio» diceva «non avrete altro dio fuori
che lui!» E nessuno osò mai ribellarsi a questo comando all'infuori della forte città di Betulia dov'era
sacerdote Eliakim. Ma pensate alla morte di Oloferne... Giaceva una notte ubriaco nella sua tenda, vasta
come un granaio e circondata dal suo esercito: eppure, con tutta la sua pompa e la sua potenza, mentre
giaceva supino nel sonno, una semplice donna, Giuditta, riuscì a decapitarlo e, sgusciando in silenzio dalla
tenda senza che nessuno la notasse, se ne tornò alla sua città portandogli via la testa.
Il famoso re Antioco.
Che bisogno c'è di raccontare di re Antioco, della sua alta maestà reale, della sua superbia e delle sue azioni
velenose? Nessuno è mai stato come lui! Leggete il libro dei Maccabei, leggete le tronfie parole che diceva,
e perché poi precipitò dal sommo della sua prosperità morendo miseramente sopra una collina. La fortuna
lo aveva tanto esaltato nella sua superbia da fargli credere di poter giungere alle stelle, di poter pesare ogni
montagna con la bilancia e trattenere le onde del mare! Egli provava un odio estremo per il popolo di Dio,
che avrebbe voluto sterminare completamente fra tormenti e pene, pensando che Dio ormai non avrebbe
più potuto abbattere il suo orgoglio. E quando Nicànore e Timoteo vennero clamorosamente sconfitti dagli
ebrei, si sentì preso da un tale odio verso costoro, da ordinare che gli si preparasse immediatamente il
carro di guerra, giurando e spergiurando che ferocemente avrebbe riversato tutta la sua ira su
Gerusalemme... Ma dovette ben presto cambiar proposito. Per questa sua minaccia, Dio lo colpì
aspramente di un'invisibile e insanabile ferita, che gli penetrò mordendo nelle sue viscere con un dolore
insopportabile: giusta vendetta per chi aveva tante viscere umane fatto penare! Eppure, nonostante quel
tormento, egli non volle ancora desistere dal suo maledetto e dannato proposito, e continuò a far
preparare l'esercito... Subito, alla sprovvista, Dio tornò a colpirlo nella sua superbia e tracotanza, perché
egli cadde così malamente dal suo carro, che si spezzò le membra e si lacerò la pelle e non poté più andare
né a piedi né a cavallo; ma, pur con la schiena e i fianchi rotti, egli si faceva trasportare intorno dentro uno
scanno... Questa volta l'ira di Dio fu tremenda: tutto il corpo gl'incominciò a brulicare di schifosi vermi,
emanando un fetore così orribile, che nessuno dei servi che lo curavano, sia ch'egli dormisse o rimanesse
sveglio, poté più resistervi. In queste condizioni, egli si mise a piangere e a lamentarsi, e finalmente
riconobbe Dio signore di ogni creatura. Ma ormai, sia per i suoi soldati che per se stesso, il puzzo della sua
putrida carcassa era diventato insopportabile, nessuno poteva più trasportarlo in giro; e, tra miasmi e pene
atroci, egli morì miseramente sopra una montagna. Così questo predone, quest'omicida che aveva fatto
piangere e soffrire tanta gente, ebbe il compenso che si meritano i superbi.
Alessandro.
La storia di Alessandro è così nota che chiunque abbia un po' d'istruzione, almeno in parte, l'avrà sentita, o
forse tutta. Insomma, egli conquistò il mondo intero, un po' per la sua forza e un po' perché, per la sua
fama, i popoli erano ben lieti di sottostare a lui in pace. Uomo o bestia, nessuno davanti a lui aveva più
orgoglio, dovunque egli andasse, anche in capo al mondo. Non c'è paragone fra lui e gli altri conquistatori:
egli faceva tremare il mondo di terrore ed era un fiore di libertà e cavalleria. La fortuna stessa lo aveva
lasciato erede dei suoi onori. All'infuori del vino e delle donne, non c'era nulla che potesse temperare l'alto
scopo delle sue imprese e delle sue fatiche: aveva il coraggio di un leone... Che importerebbe a lui, se anche
vi parlassi di Dario e di centomila altri, re, principi, conti e baldanzosi duchi ch'egli sconfisse e ridusse alla
miseria? Vi dico che fin dove si può andare a piedi o a cavallo, tutto il mondo era suo; che altro dovrei
aggiungere? Se anche mi mettessi a descrivere e a narrare senza fine le sue gesta, non basterebbe mai.
Dodici anni regnò, a quel che dice Maccabeo... Era figlio di Filippo di Macedonia, il primo re della terra di
Grecia. Ah, degno e nobile Alessandro, che proprio a te dovesse accadere: avvelenato dalla tua stessa
gente! Così la fortuna ti piantò in asso, senza neppure versare una lacrima. Ma a me chi darà lacrime per
piangere la morte di tanta nobiltà e tanto coraggio, che giunsero a comandare il mondo intero? Eppure a lui
nulla bastava mai, tanto era il suo animo desideroso di grandi imprese... Ah, chi mi aiuterà ad accusare
l'ipocrita fortuna e a disprezzare quel veleno, che insieme causarono tanta sventura?
Giulio Cesare.
Per saggezza, umanità e grandi imprese, sorse da un umile letto a maestà regale Giulio il conquistatore, che
sconfisse tutto l'occidente, per terra e per mare, con forza d'armi e con diplomazia, rendendo tutti tributari
a Roma, e poi di Roma fu imperatore finché la fortuna non gli divenne avversa... O possente Cesare, che in
Tessaglia contro Pompeo, tuo suocero, il quale aveva con sé tutta la cavalleria dell'intero oriente fin dove
incomincia l'alba del giorno, tutti vincesti e sterminasti con la tua forza, salvo quei pochi che con Pompeo
fuggirono spargendo il terrore per tutto l'oriente - ben puoi dire grazie alla fortuna che ti guidò!... Ma
pensiamo un poco a Pompeo, a questo nobile governante di Roma che riesce a fuggire dalla battaglia: ecco
che uno dei suoi, un falso traditore, dico, gli taglia la testa e la porta a Cesare per guadagnarsene il favore...
Ah, Pompeo, conquistatore dell'oriente, a che misera fine ti ridusse la fortuna! Giulio invece se ne tornò a
Roma incoronato d'altissimo trionfo. Ma poi Bruto Cassio, (21) invidioso dell'alta posizione da lui raggiunta,
formò segretamente una congiura contro Giulio e assai abilmente fissò il luogo in cui, come vi dirò, egli
avrebbe dovuto morire pugnalato... Andò Cesare un giorno in Campidoglio secondo il solito, e in
Campidoglio venne raggiunto da Bruto il traditore e da altri nemici che coi pugnali lo colpirono, coprendolo
di ferite, e lo lasciarono per terra. Ma, se la storia non mente, egli non mandò neppure un gemito, eccetto
al primo o al secondo colpo. Era un uomo dal cuore saldo, così amante della dignità del proprio stato che,
per quanto ormai dolorosamente ferito a morte, si gettò sui fianchi il suo mantello per non mostrare con
sconvenienza la sua persona: ormai in agonia, pur sapendo di stare per morire, si ricordò ancora della
propria dignità. Per questo episodio vi rimando a Lucano, a Svetonio e anche a Valerio, che di questa storia
scrissero ogni parola fino alla conclusione, e come la fortuna fosse prima amica e poi nemica di questi due
grandi imperatori... Non bisogna mai fidarsi a lungo del suo favore, ma sempre occorre stare attenti:
pensate a tutti questi forti conquistatori!
Creso.
Anche il ricco Creso, colui che un tempo fu re di Lidia e terrore di Ciro, venne colto nel mezzo della sua
superbia e trascinato a morire sul rogo. Ma dal cielo venne un diluvio tale, che il fuoco si spense ed egli
riuscì a fuggire, senza tuttavia capire l'ammonimento finché la fortuna non lo mandò a sbavare sulla forca.
Appena scampato dal pericolo, non seppe trattenersi da incominciare una nuova guerra: credeva che la
fortuna lo volesse far salire ancora più in alto e che, come lo aveva salvato con quella pioggia, così non
avrebbe permesso a nessuno di ucciderlo; e poi una notte ebbe una visione che tanto lo confortò e
l'inorgoglì, da disporre completamente il suo animo alla vendetta. Sognò di essere in cima a un albero,
mentre Giove in persona gli lavava la schiena e i fianchi, e Febo con una bella tovaglia era lì pronto ad
asciugarlo: la sua superbia non ebbe più limiti! Domandò a sua figlia, che gli stava sempre accanto ed era
esperta d'alta sapienza, di spiegargli che cosa significasse quella visione. Ed ella così gli interpretò quel
sogno: «L'albero» disse «indica la forca, Giove significa neve e pioggia mentre Febo con la sua tovaglia
rappresenta i raggi del sole che prosciugano... E' chiaro, padre mio: tu verrai impiccato e lasciato appeso
alla pioggia e al sole!». Così lo avvertì con franchezza e lealtà la sua stessa figlia, Fania si chiamava. E infatti
l'orgoglioso re Creso venne impiccato, e il suo trono regale non valse a nulla... Ecco, una tragedia non è
altro, non può far altro col suo canto, che lamentare o piangere come la fortuna assalga sempre con
improvvisi colpi i regni dell'orgoglio; e quando gli uomini si fidano di lei, allora lei li abbandona, coprendosi
il bel volto con una nube...
EXPLICIT TRAGEDIA.
Qui il Cavaliere interrompe il Monaco nel suo racconto.
Note del "Racconto del monaco".
Nota 1. Secondo la leggenda, le spoglie mortali di San Madriano (da identificarsi forse con San Maturino,
dodicesimo secolo) non ebbero pace nella tomba finché non furono trasportate dall'Inghilterra nella nativa
Francia.
Nota 2.«Goodelief» nel testo. Appare come nome di persona in numerosi documenti nella regione del Kent,
anche se altrove si trova spesso con valore d'interiezione (ad es. in Shakespeare, "Julius Caesar", II, 1, 255).
Nota 3. A trenta miglia ad est di Londra, circa a metà del cammino per Canterbury.
Nota 4. Invece di «moneta falsa», il testo inglese ha «lussheburghes» (= lussemburghesi), moneta tosata
che intorno al 1350 veniva illegalmente introdotta in Inghilterra dal Lussemburgo.
Nota 5. Edoardo, l'ultimo re anglosassone prima della conquista normanna, soprannominato «il
Confessore» per la sua grande devozione, e generalmente ritenuto santo.
Nota 6. Nel Medioevo e nel Rinascimento la definizione di tragedia non si applicava tanto ai componimenti
drammatici quanto a quelli epici sia in prosa che in poesia, come l'"Eneide" di Virgilio, la "Pharsalia2 di
Lucano o la "Tebaide" di Stazio, ch'erano tutte composte in esametri; come in genere i poemi epici
medievali, per lo più composti in distici elegiaci; o come infine il "De Casibus Virorum Illustrum" e il "De
Claris Mulieribus" del Boccaccio, composti in prosa latina. Il tema di tutti questi componimenti era quello
della fortuna che con la sua ruota gira e presiede a un eterno ritorno, sconvolgendo tutti i piani dell'uomo.
(*). Il "Racconto del Monaco", che consiste d'una raccolta d'aneddoti intesi a spiegare la «tragica» storia
d'illustri personaggi, trae spunto dal "De Casibus Virorum Illustrium" (citato nel sottotitolo) del Boccaccio.
Derivano direttamente da quest'opera le «tragedie» di Adamo, Ercole, Nerone e Sansone; quella di Zenobia
si trova anche nel "De Claris Mulieribus", sempre del Certaldese; l'episodio di Ugolino è tratto dall'"Inferno"
di Dante; quelli di Lucifero, di Oloferne e degli altri eroi biblici sono tratti dal Vecchio Testamento; quello di
Cesare è di fonte incerta (il Monaco cita contemporaneamente Lucano, Valerio e Svetonio); quelli dei due
Pietri e di Bernabò Visconti appartengono ai ricordi personali del Chaucer. Il racconto ha tutte le
caratteristiche di un'opera giovanile (fu probabilmente composto intorno al 1374, dopo il primo viaggio del
poeta in Italia), ma contiene alcune interpolazioni, come la «tragedia» di Bernabò, certamente composta
non prima del 1386, in quanto quel personaggio morì il 19 dicembre 1385.
Nota 7. Damasco sarebbe stata fondata, secondo la tradizione, nel luogo in cui fu creato Adamo.
Nota 8. «Trofeo» si riferisce probabilmente a Guido delle Colonne che nel primo libro della sua "Historia
Destructionis Troiae" (1287) descrive le fatiche di Ercole, diffondendosi particolarmente sull'impresa delle
famose «colonne».
Nota 9. Secondo re di Babilonia (605-562 avanti Cristo), portò la città al suo massimo splendore; compì
grandi opere pubbliche e difensive; sottomise l'Egitto e la Palestina. Dopo l'assedio di Gerusalemme, fece
deportare gli Ebrei ("Daniele" 1 - 4).
Nota 10. Nome dato alla Babilonia durante il predominio dei Caldei.
Nota 11. Oasi dei deserto siriaco. Conobbe il massimo splendore appunto sotto Zenobia e Odenato (terzo
secolo dopo Cristo), e decadde dopo che fu occupata da Aureliano (272 dopo Cristo).
Nota 12. Conosceva la letteratura egiziana, e studiò il greco sotto la guida del filosofo Longino, l'autore del
celebre trattato "Del Sublime", che fu suo consigliere.
Nota 13. Re persiano della dinastia dei Sassanidi (241-273 dopo Cristo). Dopo aver conquistato la Siria, la
Mesopotamia e l'Armenia, fu sconfitto appunto da Odenato e Zenobia.
Nota 14. La critica è rimasta sempre molto perplessa di fronte al fatto che il Chaucer rimandi al Petrarca,
mentre in effetti la storia di Zenobia si trova sia nel "De Claribus Mulieribus" (XCVIII) che nel "De Casibus
Virorum Illustrium" (VIII) del Boccaccio. Si presume che gli scritti del novelliere italiano giungessero al poeta
inglese anonimi o come opera del Petrarca.
Nota 15. Pietro, re di Castiglia, regnò dal 1350 al 1362. Dopo un lungo periodo di guerre civili, durante il
quale fu appoggiato dagli inglesi, egli venne ucciso nel 1369 dal fratello Enrico con l'aiuto di due cavalieri
francesi, Bertrand du Guesclin e Oliver Mauny. Due anni più tardi John of Gaunt, patrono del Chaucer,
sposò Costanza la figlia del re assassinato.
Nota 16. Bertrand du Guesclin è qui identificato con il proprio stemma gentilizio: un'aquila nera in campo
bianco, trattenuta da una diagonale rossa che sembra un ramo cosparso di vischio.
Nota 17. Mai Nido («wikked nest») non è che la traduzione letterale del francese antico "Mau Ni",
corrispondente al cognome del cospiratore Mauny. Il nome completo di costui era Oliviero Mauny di
Bretagna (o Armorica): egli tuttavia non si comportò come l'Oliviero di Carlo Magno, il fedele compagno
d'Orlando, ma come Gano di Maganza, l'infame traditore della "Chanson de Roland".
Nota 18. Fu l'ultimo governatore d'occidente che organizzò una crociata per la conquista di Gerusalemme.
Lo servirono nelle sue incerte vittorie di Attalia (1361), Alessandria (1365) e Avas (1367) anche dei volontari
inglesi. Nel "Prologo generale", ad esempio, si afferma che il Cavaliere partecipò a tutte e tre queste
campagne, e non è da escludere che lo stesso Chaucer avesse visto re Pietro nel 1363, quando costui si recò
presso la corte inglese in cerca di reclutamenti. Il re fu assassinato nel 1369.
Nota 19. Fu deposto da suo nipote Gian Galeazzo, che pure ne aveva sposato la figlia Caterina, e morì in
carcere nel 1385. Chaucer lo aveva conosciuto personalmente nel 1378, durante la sua missione
diplomatica e d'affari a Milano. La morte di Bernabò Visconti (1385) è l'evento storico più recente ricordato
nei "Canterbury, Tales".
Nota 20. L'episodio dantesco del conte Ugolino ("Inferno", XXXIII) perde, nella versione chauceriana, la sua
drammaticità essenziale, diluendosi in una vena lacrimosa e sentimentale. Ma bisogna riconoscere che, in
questo modo, meglio si adegua alla personalità del Monaco che lo racconta.
Nota 21. I due maggiori congiurati contro Cesare, Bruto e Cassio, diventano nel racconto del Monaco
un'unica persona.
Prologo
AL RACCONTO DEL CAPPELLANO DELLA MONACA.
Prologo al racconto del Cappellano della Monaca.
«Oh» fece il Cavaliere «con ciò, buon messere, basta! Quel che avete detto è sufficiente, via, e assai di più,
poiché un poco di gravezza è per molti già abbastanza, credo. Per mia parte è una gran pena sentir parlare
d'uomini di gran ricchezza e agio improvvisamente, ahimè, caduti! Al contrario è una gran gioia e un gran
conforto, quando un uomo di povero stato sale in alto, fa fortuna e in prosperità rimane. Questa sì che è
cosa lieta, penso, e di tal cosa sarebbe bene parlare.»
«Sì, sì» intervenne il nostro Oste «per la campana di San Paolo, avete proprio ragione! Blatera forte questo
Monaco: ha parlato della fortuna che s'è coperta non so che cosa con una nuvola e giusto ora vi ha fatto
sorbire perfino una tragedia. Ma, perdio, quel che è stato è stato: non serve frignare e lamentarsi; e poi,
come avete detto voi, fa pena sentir sempre parlare di tristezze. Dunque smettiamola, messer Monaco!
Che Dio vi benedica, ma il vostro racconto annoia tutta la compagnia: son discorsi a farfalla senza alcun
sugo o divertimento. Perciò, messer Monaco o, meglio per nome, don Pietro, di tutto cuore vi prego di
narrarci qualche altra cosa perché, vi assicuro, se non fosse stato per il tintinnìo dei campanelli che
pendono da ogni parte della vostra briglia, Cristo re del cielo morto per noi, sarei già cascato per il sonno,
quantunque il fango non sia mai stato tanto alto, e allora tutto il vostro racconto sarebbe stato inutile.
Difatti, come dicono i dotti, parlare quando il pubblico se n'è andato è proprio tutto fiato sprecato. Eppure
vi assicuro che, quando una cosa è ben raccontata, ne afferro subito la sostanza. Via, messere, vi prego,
parlateci un po' d'uccellatura ...»
«No» disse il Monaco «non ho alcuna voglia di scherzare. Racconti pure qualcun altro, per conto mio ho
finito...»
Allora il nostro Oste, con tono rozzo e tracotante, si rivolse prontamente al Cappellano della Monaca e gli
disse: «Tu prete, avvicinati, vieni qui don Giovannino, raccontaci qualcosa che ci allieti il cuore, e stai
allegro, pur se sei a cavallo d'una tal rozza... Che t'importa se il tuo ronzino è magagnoso e striminzito?
Purché ti serva, fattene una fava, e bada sempre d'aver contento il cuore...».
«Signor sì» fece quello «sì, Oste, cercherò... e se non sarò abbastanza allegro, eccomi pronto a farmi
biasimare!» E sturò subito il suo racconto, questo soave prete, questo bravuomo di don Giovannino,
narrando a tutti quanto segue.
EXPLICIT.
RACCONTO DEL CAPPELLANO DELLA MONACA (*).
Qui comincia il Racconto del Cappellano della Monaca su Gallo Cantachiaro e Gallina Pertelota.
Una povera vedova, piuttosto avanti con gli anni, abitava un tempo in un'angusta capanna vicino a un
bosco in una valle. Questa vedova, di cui vi parlo in questa mia storia, dal giorno in cui aveva cessato d'esser
moglie, conduceva pazientemente una vita molto semplice, avendo beni e redditi piuttosto scarsi: pure,
economizzando quello che Dio le mandava, riusciva a mantenere se stessa e le sue due figlie. Aveva tre
grosse scrofe, tre mucche e una pecora che si chiamava Malle. Il suo cunicolo era tutto fuligginoso, e così
l'atrio dove lei mangiava i suoi magri pasti. Di salsa piccante non gliene occorreva neppure un briciolo, né
mai le passava nel gargarozzo un bocconcino delicato; la sua dieta s'accordava in tutto alla sua tasca. Mai
che si sentisse male per imbarazzo di stomaco... tutta la sua medicina consisteva in cibo misurato, moto e
cuorcontento. La gotta non le impediva per nulla di danzare, né l'apoplessia le dava il mal di capo; vino non
ne beveva mai, né bianco né rosso; la sua mensa era per lo più imbandita di bianco e di nero, cioè di latte e
pan scuro in cui non trovava mai difetto, pancetta rosolata e qualche volta un uovo o due... Era in effetti
una specie di lattaia.
Aveva un cortile, circondato tutt'intorno di pali, con all'esterno un fossato asciutto, e in questo cortile
teneva un gallo chiamato Cantachiaro, che in quanto a cantare davvero non aveva pari in tutta la regione...
La sua voce era più allegra dell'organo che suonava festoso in chiesa nei giorni di messa; più esatto il suo
canto dentro il pollaio di qualsiasi orologio o meridiana di badia. Conosceva per istinto ogni ascensione
equinoziale in quel villaggio e, appena ascesi quindici gradi, (1) ecco che cantava senza che vi fosse
possibilità di errore. La sua cresta era più rossa del corallo fino e merlata come la muraglia di un castello. Il
suo becco era nero e luccicava come il giavazzo; le zampe e gli speroni erano aguzzi, le unghie più bianche
del fiore di giglio, e le sue penne parevano d'oro brunito. Questo nobile gallo aveva a sua disposizione, per
ogni suo sollazzo, sette galline, che gli erano sorelle e amanti, straordinariamente simili a lui nei colori. Di
queste, quella con la più bella sfumatura sul gozzo si chiamava damigella Pertelota. Cortese, discreta,
educata e di compagnia: fin da quando era toccata a lei la settima notte, si era comportata così bene da
conquistare caldo caldo il cuore di Cantachiaro, avvincendolo in ogni sua fibra; e egli tanto l'amava da
provarne felicità perfetta. Era una gioia sentirli cantare, quando il bel sole cominciava a spuntare, in dolce
armonia: «L'amor mio se n'è andato!»... A quei tempi, infatti, da quanto ho capito, le bestie e gli uccelli
sapevano cantare e parlare.
E così accadde che un giorno, all'alba, mentre Cantachiaro se ne stava appollaiato fra tutte le sue mogli
sulla stanga nell'atrio, e accanto gli si era accoccolata la bella Pertelota, Cantachiaro, dicevo, incominciò a
lamentarsi nel gargarozzo, come uno che in sogno sia molto turbato.
Sentendolo così crocidare, Pertelota si spaurì e gli disse: «Cuor mio caro, che cosa vi tormenta per
lamentarvi in questo modo? Siete un vero dormiglione, su, vergogna!».
Ed egli le rispose dicendo: «Madama, vi prego di non averla a male. Perdio, sognavo di trovarmi in tale
sventura, proprio ora, che ho ancora il cuore pieno di spavento. Oh, Signore,» continuò «fa' che il mio
sogno mi porti bene, e libera il mio corpo dall'orrida prigione! Sognavo di camminare su e giù per il nostro
cortile, quando vidi una bestia che somigliava a un cane e voleva saltarmi addosso e sbranarmi. Era d'un
colore tra il giallo e il rosso, mentre la punta della coda e delle due orecchie era screziata di nero, diversa
dal resto del suo pelo... Un muso affilato, due occhi ardenti e uno sguardo che quasi mi fa morire di
spavento. Ecco perché mi lamentavo».
«Ma via!» ella esclamò. «Vergognatevi, siete senza coraggio!» E soggiunse: «Ah, Dio del cielo, ormai avete
perduto il mio cuore e tutto il mio amore! In fede mia, io non posso amare un vile. Difatti, checché ne dica
qualche donna, noi tutte desideriamo, se possibile, aver mariti arditi, saggi, generosi e riservati, non
taccagni o balordi, paurosi di maneggiare un qualunque arnese, oppure fatui, per Dio del cielo! Vergogna,
come osate confessare al vostro amore che qualcosa possa incutervi paura? Non avete cuor virile, e portate
ancora la barba? Ah, come potete aver paura dei sogni? Nel sogno, Dio lo sa, non v'è altro che illusione. I
sogni si generano da pesantezza di stomaco e spesso, quando vi sono in corpo troppi umori, da vapori e
complessioni. Il sogno che avete fatto stanotte deriva certamente da gran sovrabbondanza di rossa collera
che, perdio, fa spaventare la gente con sogni di frecce, rosse vampe di fuoco, bestie rosse che vogliono
mordere, liti, e cani grossi e piccini; proprio come l'umor malinconico fa urlare nel sonno molte persone,
spaventandole con orsi neri, tori neri o diavoli neri che le vogliono afferrare. Vi potrei parlare anche di altri
umori che a molti fanno fare brutti sogni, ma, se permettete, vorrei sorvolare. Ecco, pensate a Catone (2)
che era un uomo tanto saggio: non disse forse che dei sogni non bisogna preoccuparsi? Perciò, messere»
ella continuò «appena voliamo giù da queste stanghe, per amor di Dio, prendetevi subito qualche lassativo!
A costo di dar l'anima e la vita, voglio consigliarvi quello migliore, che, senza mentire, vi purghi sia dalla
collera che dalla malinconia; e perché non dobbiate perdere tempo voi, dato che in questo villaggio non c'è
neppure una spezieria, v'istruirò io stessa in erbe che vi daranno salute e benessere, e troverò nel nostro
cortile certe erbe che per natura hanno la proprietà di purgarvi sia di sotto che di sopra... Non dimenticate,
per amor di Dio, che voi siete molto collerico di complessione! Attento che il sole, nella sua ascensione, non
vi trovi pieno di umori caldi; se no, non scommetto neppure un soldo che vi viene una febbre terzana o una
malaria che vi porta all'altro mondo! Per un giorno o due dovrete prendere dei digestivi a base di lombrichi,
poi i vostri lassativi di lauro, centaurea e fumaria, oppure dell'ellèboro che cresce qui vicino, di catapuzia o
di spino cervino, d'erba edera che si trova nel cortile ed è così buona! Beccate mentre son lì che crescono, e
poi giù! Allegro, marito mio, per la stirpe di vostro padre! Non abbiate paura dei sogni! Di più non so che
cosa dirvi...».
«Madama,» rispose egli «grazie molte per le vostre istruzioni. Però, riguardo a messer Catone, così famoso
per la sua saggezza, quantunque egli consigli di non aver paura dei sogni, perdio, nei vecchi libri si può
leggere di uomini più autorevoli ancora di Catone, i quali, mi venga un po' di bene, affermano tutto il
contrario della sua sentenza, avendo trovato che in realtà i sogni sono presagi della gioia e del dolore che la
gente prova in questa vita. Non occorre alcuna discussione: la vera prova si dimostra con i fatti... Uno degli
autori maggiormente letti (3) dice così, che una volta due amici andarono insieme, di comune accordo, in
pellegrinaggio, e giunsero per caso in una città dove c'era un così grande raduno di gente e una tale scarsità
di alloggi, che non riuscirono a trovare neppure una capanna in cui albergare. Perciò dovettero
necessariamente per quella notte separarsi, e ciascuno andò in una locanda diversa, prendendo l'alloggio
che gli capitò: uno andò a finire in una stalla, in fondo a un cortile, insieme con dei buoi d'aratro; l'altro fu
alloggiato abbastanza bene, come volle il caso o la fortuna, che comunemente ci governa tutti. E così
avvenne che, molto prima di giorno, quest'ultimo dormendo nel suo letto sognò che il suo compagno lo
chiamasse, dicendo: 'Ahimè, stanotte in una stalla di buoi verrò nel sonno assassinato! Aiutami, fratello
caro, prima ch'io sia morto! Presto, corri qui da me!». Costui dal sonno sobbalzò con paura, ma, appena
sveglio, si voltò senza farvi più caso, pensando che il suo sogno non fosse che un'illusione. Così, dormendo,
sognò ancora per due volte: alla terza, gli parve che il suo compagno venisse a dirgli: 'Ormai sono stato
ucciso. Guarda che profonde ferite sanguinanti, ancora aperte! Alzati presto domattina all'alba e recati alla
porta occidentale, della città' soggiunse 'là vedrai un carro colmo di letame dentro il quale è nascosto il mio
cadavere: ferma quel carro senza timore. A dire il vero, fu il mio denaro a provocare la mia morte'. E punto
per punto gli narrò com'era stato ucciso, con volto pietosissimo, pallido di colore. E in realtà il suo sogno
risultò veritiero. Difatti l'indomani, appena fu giorno, quello andò alla locanda dell'amico e, giunto presso la
stalla dei buoi, si mise a chiamarlo. Il locandiere gli rispose subito dicendo: 'Signore, il vostro amico è già
partito; faceva appena giorno che già era fuori di città'. L'uomo incominciò a insospettirsi, ripensando ai
sogni che aveva fatto e, senza più indugiare, andò direttamente alla porta occidentale della città e vi trovò
un carro di letame che pareva diretto a concimare dei campi, proprio come lo aveva descritto il morto.
Facendosi coraggio, si mise a gridar vendetta e giustizia per questo misfatto: 'Proprio stanotte è stato
assassinato il mio amico ed ora qui giace supino a bocca aperta in questo carro. Ehi, voi ufficiali!' chiamò.
'Voi che avete in mano il governo della città, aiuto! Ahimè, qui giace il mio compagno ucciso!' Che altro
dovrei aggiungere a questa storia? Il popolo si levò e rovesciò a terra il carro, e in mezzo al letame venne
trovato il morto da poco assassinato... Dio benedetto, tu che sei giusto e vero, ecco che sempre scopri il
delitto! Giorno per giorno, tutto viene fuori. Il delitto è così odioso e abominevole a Dio, che nella sua
giustizia e ragionevolezza non sopporta di lasciarlo nascosto, anche se può aspettare che passi un anno o
due, o anche tre. Alla fine il delitto è sempre scoperto: questa è la mia conclusione. E difatti gli ufficiali della
città acciuffarono immediatamente il carrettiere e lo sottoposero a tortura, e così fecero con il locandiere,
finché non confessarono la loro scelleratezza, e vennero appesi per il collo. Di qui si può vedere che dei
sogni bisogna aver paura, e come!... Leggo, infatti, nello stesso libro, proprio nel capitolo seguente, e non lo
dico così per mio piacere e godimento, che due uomini volevano attraversare il mare per recarsi, per certi
motivi loro, in un paese assai lontano, se non che il vento era stato contrario e li aveva costretti a sostare in
una città che sorgeva molto allegra lungo un golfo. Ma un giorno, verso sera, il vento cominciò a cambiare,
soffiando nella direzione che essi volevano. Felici e contenti, andarono a riposare, e decisero di salpare
molto di buon'ora. Ecco però che a uno di essi accadde un fatto molto strano. Stava dormendo, quando,
poco prima di giorno, ebbe una visione sorprendente... Gli parve che un uomo stesse là, in piedi, presso il
letto, e gli ordinasse di non partire, dicendo: 'Se partirai domani, verrai affondato. Questo è tutto'. Si svegliò
di soprassalto e riferì al suo compagno quel che aveva sognato, pregandolo di rimandare il viaggio,
implorando di restare almeno per quel giorno. Il suo compagno, che giaceva in un letto accanto, si mise a
ridere e a canzonarlo: 'Nessun sogno' gli disse 'riuscirà a mettermi nel cuore tanta paura, da farmi smettere
di badare ai miei interessi. Al tuo sogno non do il peso d'una paglia secca, perché i sogni non sono che
illusioni e buffonate. Tutti i giorni la gente sogna civette, scimmie e molte altre stramberie; sogna cose mai
esistite e che non esisteranno mai. Però, visto che tu vuoi startene qui, ben felice di perdere il tuo tempo,
Dio sa che mi dispiace, ma io ti saluto!'. Congedandosi in questo modo, se ne andò per la sua strada. Ma
non era giunto neppure a metà della sua rotta che, non so perché né come l'incidente capitasse,
improvvisamente si spaccò la carena, e uomo e nave affondarono in mare, proprio in vista d'altre navi non
lontane che navigavano con lui seguendo la stessa marea... Ecco, mia cara Pertelota, da questi antichi
esempi potete imparare che nessuno dovrebbe mai essere troppo indifferente ai sogni, perché vi assicuro
che molti sogni sono veramente da temere. Guardate, nella vita di San Chenelmo, figlio del nobile Chenulfo
re della Mercia, leggo come anch'egli sognasse di qualcosa; anzi, proprio prima di morire assassinato, un
giorno vide in sogno il suo uccisore. (4) La sua nutrice gli spiegò la visione in ogni dettaglio e lo mise in
guardia dal tradimento, ma egli non aveva che sette anni, ed essendo puro di cuore, non badava gran che ai
sogni... Darei, perdio, la mia camicia se anche voi aveste letto la sua storia come l'ho letta io! Madama
Pertelota, vi assicuro che Macrobio, (5) colui che descrisse la visione avuta in Africa dal nobile Scipione, nei
sogni ci crede e sostiene che sono presagi di cose che in seguito si avverano. Ma poi, vi prego, guardate
bene nel Vecchio Testamento se Daniele considerava i sogni delle illusioni; leggete anche di Giuseppe, e
vedrete che i sogni sono talvolta, non dico sempre, presagi di cose che devono in seguito accadere.
Guardate il re d'Egitto, messer Faraone, il suo fornaio e il suo maggiordomo, se i non risentirono nessun
effetto dai sogni... Chiunque abbia voglia, d'indagare negli annali di diversi regni, può leggere sui sogni cose
straordinarie. Pensate a Creso, re di Lidia; non sognò di sedere sopra un albero, il che significava che
sarebbe stato impiccato? (6) Ed ecco Andromaca, la moglie di Ettore, che proprio il giorno in cui Ettore
avrebbe perso la vita, anzi la notte prima, sognò esattamente che la vita di Ettore avrebbe avuto fine, se
quel giorno egli fosse entrato in battaglia; e lo mise in guardia, ma non valse a nulla, perché egli andò
ugualmente a combattere e venne subito ucciso da Achille... Ma è una storia troppo lunga da raccontare, e
ormai è quasi giorno: non posso più restare. Insomma, per farla breve, io vi dico che per questo mio sogno
avrò qualche disgrazia, e vi dico pure che non ci tengo a prendere dei lassativi, perché sono velenosi, io lo
so; non me ne fido e non mi piacciono affatto! Ma parliamo ora di cose allegre e smettiamola con tutto
questo. Madama Pertelota, così io sia beato, di una cosa Dio è stato largo nel farmi grazia, perché appena
vedo la bellezza del vostro volto, voi diventate d'un rosso così scarlatto intorno agli occhi da far svanire ogni
mia paura. E proprio vero che "in principio mulier est hominis confusio!" (7) Il significato di questo latino,
madama, è che la donna è la gioia dell'uomo e ogni sua benedizione. Quando, infatti, di notte sento il
vostro morbido fianco, quantunque allora io non possa cavalcarvi, essendo il nostro posatoio, ahimè,
troppo stretto, mi sento così pieno d'allegria e di conforto, da sfidare tutti i sogni e le visioni!»
Così dicendo, volò giù dalla stanga, perché ormai era giorno, e con lui tutte le galline. E con uno schiocco si
mise a chiamarle perché aveva trovato un chicco per terra nel cortile. Veramente regale, senza più alcuna
paura, per venti volte sbeccuzzò le piume a Pertelota e altrettante volte la montò, prima ancora che fossero
le nove. Sembrava proprio un superbo leone, e incedendo sugli sproni avanti e indietro, pareva si sdegnasse
di posare a terra le sue zampe. Chioccolava a ogni chicco che trovava, e a lui correvano tutte le sue mogli.
Regale dunque come un principe nel suo castello, lo lascerò al suo pascolo, questo Cantachiaro, per
raccontarvi invece la sua avventura.
Era dunque già passato il mese in cui ebbe inizio il mondo, quel mese chiamato Marzo in cui Dio creò il
primo uomo, (8) e da Marzo eran già passati trentadue giorni, quando Cantachiaro in tutta la sua baldanza,
con le sue sette mogli che gli camminavano al fianco, volse lo sguardo al sole splendente, che nel segno del
Toro aveva percorso ventun gradi e poco più, (9) e comprese per istinto, e non per alcuna scienza, ch'erano
le nove in punto, e allora si mise allegramente a cantare. «Il sole» disse «è salito in cielo quarantun gradi e
più. Madama Pertelota, gioia del mio mondo, sentite questi beati uccelli come cantano e guardate i freschi
fiori come spuntano. Ho il cuore pieno d'allegria e contentezza!»
Ma improvvisamente gli accadde un triste fatto, giacché sempre la gioia va a finire nel dolore... Dio sa che la
gioia di questo mondo è presto andata, e uno scrittore, che sapesse ben comporre, potrebbe scriverlo
sicuramente in cronaca come sovrana annotazione. Mi ascolti bene chi è saggio: vi assicuro che questa
storia è vera, quant'è vero il Libro di Lancellotto del Lago, tenuto in così grande riverenza dalle donne (10)...
Torniamo dunque al nostro racconto.
Una volpe carboncina, piena di scaltra iniquità, che da tre anni viveva dentro il bosco, premeditando il colpo
con fervida immaginazione, quella notte attraverso la siepe era penetrata nel cortile dove era solito
riparare il bel Cantachiaro con le sue mogli, e se ne stava quatta quatta in un'aiuola di verdura, aspettando
che, passato il primo mattino, giungesse il momento per slanciarsi su Cantachiaro, ed era di buon umore,
come tutti gli assassini quando si mettono in agguato per ammazzar la gente... O falso traditore, rintanato
dentro il covo! O nuovo Iscariota, nuovo Ganellone, falso dissimulatore, o greco Sinone, che trascinasti
Troia nel più profondo dolore! Povero Cantachiaro, maledetta la mattina in cui dai travi volasti nel cortile!
Eppure sì ch'eri stato avvertito dai tuoi sogni, che quel giorno sarebbe stato per te pericoloso. Ma ciò che
Dio ha predisposto deve necessariamente accadere: questa è l'opinione di molti dotti. Chi è perfetto
chierico lo può testimoniare, che nelle scuole v'è gran diverbio su questo argomento, e gran disputa v'è
stata fra centomila uomini. Ma io non so vagliare la materia, come sa il santo dottore Agostino o Boezio o il
vescovo Bradvardino, se cioè la grande prescienza di Dio mi costringa di bisogno a fare una cosa (e per
bisogno intendo semplice necessità) o se altrimenti mi sia concessa libera scelta di fare o di non fare quella
determinata cosa, pur se Dio la conosca ancor prima che sia compiuta, oppure se la sua prescienza non mi
costringa affatto, tranne che per necessità condizionale. (11) Io non voglio aver nulla a che fare con
l'argomento: il mio, come potete udire, è il racconto d'un gallo che disgraziatamente seguì il consiglio di sua
moglie, di scendere nel cortile proprio il mattino in cui aveva fatto il sogno che vi ho detto. I consigli delle
donne spesso sono fatali: fu il consiglio di una donna che per primo ci portò al dolore e fece scacciare
Adamo dal paradiso dove egli era contentissimo e se ne stava molto bene... Ma poiché non so a chi potrei
dispiacere biasimando i consigli delle donne, passateci sopra, l'ho detto scherzando! Leggete semmai gli
scrittori che trattano tale argomento, e potrete sentire che cosa dicono delle donne. Queste erano parole
del gallo, non mie: io non posso pensar male di alcuna donna.
Bella nella sabbia, a bagnarsi lietamente, giaceva Pertelota, con tutte le sue sorelle, al sole, e il gagliardo
Cantachiaro cantava più lieto della sirena in mare; eppure il "Fisiologo" (12) dice sicuramente ch'esse
cantano bene e con letizia. E così accadde che, volgendo lo sguardo a una farfalla fra la verdura, egli vi
scorse la volpe che se ne stava tutta quatta. Gli passò di colpo la voglia di cantare, ma "croc croc" si mise a
strepitare, e sussultò colpito al cuore dallo spavento.
E', naturale che una bestia cerchi di fuggire appena scorge il suo nemico, anche senz'averlo mai visto prima
con i propri occhi. Così Cantachiaro, appena riconobbe la volpe, fece per fuggir via, ma quella subito gli
disse: «Gentil messere, ohibò, dove volete andare? Avete forse timore di me che sono vostro amico? Ma
via, sarei peggio d'un demonio se intendessi recarvi danno o villania. Non sono venuto a carpirvi alcun
segreto, ma vi assicuro che l'unico motivo della mia venuta era di sentire come cantavate. In verità avete
una voce così deliziosa che pare quella di un angelo del cielo. Avete più sentimento per la musica voi che
Boezio (13) o chiunque sappia cantare. Messere, vostro padre (Dio benedica l'anima sua!) e anche vostra
madre ebbero la compiacenza di venire a casa mia, con mia gran soddisfazione; e certo, messere, sarei ben
lieto di compiacere pure voi... Ma giacché si stava parlando di bel canto, vorrei dirvi (e ch'io perda ambedue
gli occhi se non dico il vero!) che, eccetto voi, non ho mai sentito cantare come faceva vostro padre al
mattino: tutto quello che cantava gli saliva proprio dal cuore. E per rinvigorire ancor più la sua voce, faceva
un tale sforzo, che doveva chiudere tutti e due gli occhi, e allora sì che gridava forte, stando ritto sugli
speroni e tendendo bene il suo collo lungo e sottile. Ed era pure d'una discrezione tale, che nessuno in
qualsiasi regione lo superava nel canto o per saggezza. Ho ben letto, nei versi di "Don Brunello l'Asino", (14)
come ci fosse una volta un gallo che, colpito a una zampa da un figlio di prete ch'era giovane e insensato, gli
fece perdere il suo beneficio. Ma certo non v'è paragone fra la saggezza e la prudenza di vostro padre e
l'astuzia di costui. Ed ora cantate, messere, per santa carità! Vediamo: siete capace d'imitare vostro
padre?».
Cantachiaro si mise a battere le ali, come chi non sappia più capire d'esser tradito, tanto è ormai affascinato
dall'adulazione... Ahimè, signori miei, vi sono molti falsi adulatori nelle vostre corti e molti garbuglioni che
vi compiacciono assai di più, in fede mia, di chi vi dica con franchezza il vero. Leggete il "Qoèlet", riguardo
all'adulazione, e guardatevi, signori, dal loro tradimento!
Cantachiaro, dunque, si rizzò alto sugli speroni, allungò il collo, chiuse gli occhi e si mise a cantar forte
chicchirichì. Pronta, la volpe messer Rossello fece un balzo, azzannò Cantachiaro per il gargarozzo e,
buttandoselo sulle spalle, via verso il bosco se lo portò, senza che nessuno la vedesse.
Oh, inevitabile destino! Ahimè, perché Cantachiaro scese dal trave? Ahimè, perché sua moglie non prestò
fede al sogno? E proprio di venerdì doveva capitare la disgrazia! O Venere, dea del piacere, Cantachiaro era
tuo servo e fece al tuo servizio quanto poté, più per tuo diletto che per moltiplicare il mondo, perché
permettere ch'egli muoia proprio nel giorno a te dedicato? O Goffredo, mio caro sovrano maestro, tu che,
quando il nobile re Riccardo venne ucciso al primo colpo, con dolore tanto acerbo lamentasti la sua morte,
perché non ho io la tua arte e la tua dottrina per rampognare venerdì come tu facesti? Proprio di venerdì
infatti anch'egli venne ucciso (15). Allora sì che potrei dimostrare di saper lamentare lo spavento e il dolore
di Cantachiaro.
Di certo, tal grido o lamento non fu mai fatto dalle dame quando venne vinta Ilio, e quando Pirro a spada
tratta prese re Priamo per la barba, e lo scannò, come ci narra l'"Eneide", quale fecero le galline tutte del
recinto, allor ch'ebbero di Cantachiaro tale vista. Ma sovranamente strillò madama Pertelota, ben più forte
della moglie d'Asdrubale, (16) quando il marito perdette la vita, e i romani incendiarono Cartagine, la quale,
al colmo del tormento e della furia, spontaneamente balzò nel fuoco e, con cuore saldo, si lasciò bruciare.
O dolenti galline, proprio così gridaste, come a Roma, allorché Nerone incendiò la città, gridarono le mogli
dei senatori, quand'ebbero perduta la vita tutti i mariti loro, senza colpa da Nerone trucidati! Ma torniamo
al nostro racconto.
La vedova povera e le sue due figlie, sentendo le galline gridare e lamentarsi, balzarono subito fuori dalla
porta; e, vedendo la volpe andare verso il bosco e portarsi via il gallo sopra la schiena, si misero a strillare:
«Fuori! aiuto! ahimè! ehi, ehi, la volpe!», E via di corsa ad inseguirla, e con bastoni anche molti altri uomini.
Corse Colle il nostro cane, corse Talbot con Gerlando, come pure la Marietta, con il fuso ancora in mano;
corse la mucca e corse il vitello, corsero via perfino i porci, spaventati dall'abbaiar dei cani e dalle grida di
uomini e donne: corsero tanto che lor pareva che il cuore si spezzasse. E urlavano come diavoli all'inferno;
schiamazzavano le anitre come se volessero scannarle, le oche per il terrore volavano sugli alberi; e
dall'arnia uscì fuori lo sciame delle api. Ah, "benedicite", che terribile baccano! Neanche Jack Straw e tutta
la sua banda al massacro dei fiamminghi levarono urla più acute di quelle che in quel giorno si scagliarono
alla volpe (17)... Presero trombe di ottone e di legno, di corno e di osso, e vi buffarono e vi stronfiarono,
mentre strillavano e sbraitavano. Pareva proprio che dovesse cadere il cielo!
Ma ora, buona gente, state bene a sentire, e osservate come la fortuna capovolge improvvisamente le
speranze e l'orgoglio dei nemico! Il gallo, sempre appeso al dorso della volpe, malgrado tutto il suo
spavento, si rivolse a lei dicendo: «Messere, se fossi voi (che Dio m'assista!) ora direi: 'Potete pure tornare
indietro, boriosi zoticoni! Che vi venga la peste! Ora che sono arrivato in questo punto del bosco, potete
fare quel che volete, ma il gallo rimarrà qui e, parola mia, me lo mangerò in un boccone!'».
Rispose la volpe: «Ma certo che lo farò!». E proprio mentre disse quelle parole, il gallo, zàffete, le balzò di
bocca e volò subito in alto sopra un albero. Quando la volpe vide che ormai era bell'e andato: «Ahimè»
esclamò. «Cantachiaro, ahimè! Lo so» disse «vi ho fatto torto in quanto v'ho spaventato prendendovi e
portandovi via dal vostro cortile. Però, messere, non l'ho fatto con cattiva intenzione. Scendete e lasciate
che vi spieghi che cosa avevo in mente. Vi dirò il vero, che Dio mi aiuti!»
«No, no» disse quello «accidenti a noi due! E soprattutto accidenti a me, per il sangue e per le ossa! Ma
non me la farai più di una volta! Mai più riuscirai con i tuoi complimenti a farmi cantare a occhi chiusi: chi di
sua volontà si chiude gli occhi, quando invece dovrebbe tenerli aperti, non avrà da Dio mai bene!»
«Ah, no!» disse la volpe «Dio mandi un malanno a chi sia così balordo da aprir bocca quando invece
dovrebbe tacere!»
Ecco quel che succede ad esser spensierati, negligenti e a fidarsi dell'adulazione. Ma non prendete questo
racconto per una sciocchezza riguardante solo una volpe, un gallo e una gallina, e ricavatene la morale,
buona gente. San Paolo dice che tutto ciò che è scritto, è scritto perché noi impariamo. Prendete dunque il
frutto e lasciate perdere la loppa. Ed ora, buon Dio, se questa è la tua volontà, come dice Monsignore, (18)
rendici tutti buoni e guidaci alla tua somma beatitudine. Amen.
Qui termina il Racconto del Cappellano della Monaca.
Epilogo
AL RACCONTO DEL CAPPELLANO DELLA MONACA.
«Ser Cappellano della Monaca,» disse allora il nostro Oste «benedette le tue brache, e perfino le pietre...
Questo di Cantachiaro sì ch'era un racconto allegro! Ma, parola mia, se tu fossi secolare, lo saresti tu un bel
montapollastre. Difatti, se tu avessi tanto coraggio quanto hai vigore, di galline ce ne vorrebbero, io credo,
più di sette volte diciassette. Guardate che muscoli ha questo nobile prete, che collo sodo e che largo
torace! Ha due occhi come un falco e per colorire la sua cera non ha certo bisogno di verzino o d'ingranato
portoghese! (19) Ed ora, messere, vi venga molto bene per il vostro racconto.»
Poi, con aria molto allegra, si rivolse a un altro come ora sentirete...
Note del "Racconto del Cappellano della Monaca".
(*). Il "Racconto del Cappellano della Monaca" è indubbiamente opera della maturità del Chaucer (contiene
un chiaro accenno alla rivolta dei contadini del 1381, e va quindi sicuramente posto dopo quella data), Non
si può dire, come invece è stato fatto, che la sua fonte sia con esattezza la favola dei gallo e della volpe
("Dou Coc et dou Werpil") di Maria di Francia; si può soltanto riconoscere che, nelle sue linee essenziali,
esso appartiene al cielo del "Roman de Renart", con le sue innumerevoli versioni, anche orali, di analoghi
temi. Al tono della favola il Chaucer unisce il tono epico, con originalissimi effetti eroicomici.
Nota 1. Cioè, ad ogni ora. Quindici gradi corrispondevano infatti alla porzione di «ascensione» compiuta dal
sole in ciascuna delle ventiquattro ore del giorno, nel suo giro di 360 gradi attorno all'equatore (detto
anche «linea equinoziale»).
Nota 2. A Catone Dionisio (quarto secolo dopo Cristo) era attribuita una raccolta di massime morali in versi
latini, "Disticha Catonis", che venne usata regolarmente come libro di testo fino al secolo diciassettesimo.
«Somnia ne cures» (= non preoccuparti dei sogni), dice infatti a un certo punto (Libro II, v. 32).
Nota 3. Cicerone ("De Divinatione", I, 27).
Nota 4. Alla morte di suo padre Chenulfo (821 dopo Cristo), Chenelmo avrebbe dovuto salire al trono della
Mercia, ma venne ucciso da sua zia. Poco prima di morire, sognò di trovarsi sopra un albero che
improvvisamente venne abbattuto, mentr'egli volava in cielo sotto forma di uccello.
Nota 5. Verso la fine del quarto secolo, Macrobio scrisse un commentario su un'opera di Cicerone,
"Somnium Scipionis", che conteneva la descrizione di un sogno fatto da Scipione l'Africano il Minore. Tale
commentario divenne nel Medioevo un testo fondamentale per l'interpretazione dei sogni.
Nota 6. Lo stesso episodio si trova nel "Racconto del Monaco".
Nota 7. La locuzione "in principio" («Nel principio era il Verbo») con cui incomincia il vangelo di S. Giovanni,
era considerata all'epoca di Chaucer quasi come una formula magica (confer la descrizione del Frate nel
"Prologo generale"). Mentre il comune proverbio latino "mulier est hominis confusio", galantemente
frainteso da Cantachiaro, significa in realtà che «la donna è la rovina dell'uomo».
Nota 8. Si credeva nel Medioevo che la creazione del mondo fosse avvenuta in marzo, durante l'equinozio
di primavera.
Nota 9. Era il 3 maggio.
Nota 10. Il ricorso alla riverenza femminile verso la leggenda di Lancellotto (il famoso amante di Ginevra, la
moglie di re Artù), come argomento della veridicità di essa, è piuttosto una prova della leggerezza che il
Chaucer vi scorgeva.
Nota 11. Si tratta del problema del libero arbitrio. Fra i molti filosofi e teologi che lo discussero, S. Agostino
è quello che maggiormente ne elaborò il concetto in una cooperazione tra volere umano e aiuto divino;
Boezio nel suo "De Consolatione Philosophiae", tradotto anche dal Chaucer, distingue nella «libera scelta»
dell'uomo una «necessità semplice» e una «necessità condizionale»; e Tommaso Bradvardino, arcivescovo
di Canterbury (morto nel 1349), tenne sull'argomento alcune famose conferenze ad Oxford.
Nota 12. Il "Physiologus de Natura Animalium" (di un certo Teobaldo vissuto forse nel secondo secolo) era
un celebre trattato di storia naturale, da cui derivano tutti i "Bestiari" medievali che contenevano notizie di
animali e creature favolose, dandone istruttive interpretazioni allegoriche.
Nota 13. Oltre ad essere famoso come filosofo, Boezio era anche molto noto per il suo trattato "De
Musica", in cinque volumi.
Nota 14. Poema satirico in latino, intitolato anche "Speculum Scultorum", composto, verso la fine del
dodicesimo secolo da Nigel Wireker, un monaco di Christ Church a Canterbury. Protagonista dei poema è
l'asino Brunello che rappresenta l'ordine monastico. Fra gli altri episodi, si racconta che un giovane,
Gundulf, gettò una pietra a un gallo, rompendogli una zampa. Più tardi, quando Gundulf avrebbe dovuto
ricevere un'importante carica ecclesiastica, il gallo si vendicò, non svegliando il giovane in tempo per la
cerimonia dell'ordinazione.
Nota 15. Goffredo di Vinsauf, che il cappellano chiama ironicamente «mio caro sovrano maestro», era
l'autore di un famoso manuale di retorica, "Poetria Nova" (1208-1213 circa), molto imitato ancora all'epoca
del Chaucer, con modelli di poesie composte dallo stesso Goffredo. Tra questi era molto nota un'elegia
composta per Riccardo Primo, Cuor di Leone, che all'assedio di Chalus venne ferito da una freccia: venerdì,
26 marzo 1199. La poesia incomincia infatti "O Veneris lacrimosa dies!"... Il re morì poi il 6 aprile.
Nota 16. Non il fratello di Annibale, ma colui ch'era re di Cartagine, quando i romani l'incendiarono nel 146
avanti Cristo. Questo Asdrubale si uccise, mentre la moglie, disperata, si gettò tra le fiamme con i due figli.
Nota 17. Durante la famosa rivolta dei contadini (1381) che, preceduta dalla peste, molto contribuì al
mutamento del vecchio sistema dei castelli e alla scomparsa della schiavitù della gleba, divenne quasi
ancora più famoso di Wat Tyler, capo di tutti i ribelli, un certo Jack Straw che marciò su Londra guidando un
gruppo di contadini dei Kent. Costoro massacrarono tutto un quartiere di fiamminghi considerati rivali nel
lavoro.
Nota 18. Forse il Cappellano si riferisce al suo superiore, William Courtenay, che fu anche arcivescovo di
Canterbury dal 1381 al 1396.
Nota 19. Materiali usati nella tintura delle stoffe o nella preparazione dei colori, specialmente di alcune
varietà di rossi.
Frammento Ottavo.
Prologo
DELLA SECONDA MONACA.
Prologo al Racconto della Seconda Monaca.
Quella ministra e nutrice di vizi, comunemente detta pigrizia, che sta di guardia alla porta dei piaceri,
dovremmo sempre proporci d'evitarla, opponendo ad essa la sua rivale, vale a dire l'operosità onesta,
cosicché il demonio non ci sorprenda mai a far nulla. Egli infatti, con le mille corde della sua astuzia, aspetta
sempre d'accalappiarci e, appena scorge qualcuno in ozio, sa prenderlo così abilmente al laccio, che, finché
proprio non si sente trascinar via, quello non s'accorge neppure d'essere in mano dello spirito maligno:
ecco perché dovremmo sempre lavorare ed evitar di rimanere in ozio. E se anche non abbiamo mai paura di
morire, bisogna che almeno con la ragione comprendiamo che la pigrizia è marcia ignavia, da cui non deriva
mai alcun bene o vantaggio, essendo da lei portati soltanto a dormire, a mangiare e a bere, a divorare
insomma tutto ciò per cui altra gente s'affatica. Ed è appunto per sfuggire a tale pigrizia, causa di tanti mali,
che qui mi sono industriata di seguire fedelmente la tua leggenda, narrando la tua gloriosa vita e la tua
passione, di te che ormai porti la tua ghirlanda di rose e gigli, (1) di te, dico, vergine e martire, Santa Cecilia.
INVOCACIO AD MARIAM.
E tu che di tutte le vergini sei il fiore, di cui Bernardo (2) seppe scrivere tanto bene, a te innanzi tutto mi
rivolgo: conforto degl'infelici, fa' ch'io possa illustrare la morte della tua devota, che ottenne per i suoi
meriti la vita eterna e la vittoria sul demonio, come chiunque può vedere seguendo la sua storia. Tu Vergine
e Madre, figlia del tuo Figlio, tu fonte di misericordia, rimedio delle anime peccatrici, in cui Dio per sua
bontà scelse d'abitare, tu umile eppure più alta di ogni creatura, tu la nostra natura nobilitasti tanto, che il
suo Fattore non sdegnò d'avvolgere e vestire di sangue e carne il suo Figliolo.
Dentro il beato chiostro dei tuoi fianchi prese forma d'uomo l'eterno amore e pace, che del compasso trino
è signore e guida, cui terra e mare e cielo adorano sempre senza tregua; e tu, Vergine immacolata, portasti
nel tuo seno (pur rimanendo intatta e pura) il Creatore d'ogni creatura. In te magnificenza s'aduna con
bontà, misericordia, e con tale pietà, che tu, astro d'ogni perfezione, non soltanto aiuti coloro che ti
pregano, ma spesso per tua benevolenza, liberamente, prima ancora che gli uomini t'invochino in loro
aiuto, tu li precorri e sei medicina alle loro vite. Ora tu, mite e bella Vergine beata, soccorri me, esiliata,
misera, in questo deserto di fiele; pensa alla donna di Cana, la quale disse che ai cagnolini bastano anche
soltanto le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni, (3) e quantunque io, indegna figlia d'Eva, sia
peccatrice, pure accetta la mia fede. Ma poiché la fede è morta senza le opere, concedimi capacità e tempo
di poter anche operare, in modo ch'io possa salvarmi dall'oscurità più tetra. O tu che sei così bella e piena
di grazia, sii mia avvocata in quell'alto luogo dove senza fine si canta Osanna, tu madre di Cristo, diletta
figlia di Anna! E illumina con la tua luce la mia anima in prigione, oppressa dal contagio del mio corpo e dal
peso di terreni desideri e affetti falsi; o porto di rifugio, o salvezza di chi è nel dolore e nella miseria,
aiutami, ora che sto per mettermi all'opera... E voi che leggete quanto scrivo, perdonatemi, vi prego, se non
ho cura d'abbellire con acume questa storia, giacché mantengo le parole e il senso di colui (4) che questa
storia scrisse in omaggio di quella santa, e ne seguo la leggenda... e vi prego che pur vogliate emendare
l'opera mia!
"Interpretacio nominis Cecilie quam ponit
Frater Jacobus Januensis in Legenda" (5).
Ma permettete che prima vi spieghi i diversi significati del nome di Santa Cecilia, così come si possono
ricavare dalla sua storia. Esso equivale nella nostra lingua a «giglio del cielo», per indicare la casta purezza
della sua verginità: «giglio» per il candore della sua onestà, la verde freschezza della sua coscienza e il dolce
profumo della sua fama. Cecilia può anche voler dire «guida dei ciechi», per il buon esempio del suo
insegnamento. Altrimenti così com'è scritto, Cecilia si compone mediante la congiunzione di «cielo» e
«Lia», dove cielo sta figurativamente per contemplazione di santità, mentre Lia rappresenta la vita attiva.
Cecilia può significare anche «colei che manca di cecità», per la gran luce della sua sapienza e per le sue
radiose virtù; oppure, ecco, il luminoso nome di questa fanciulla deriva da «cielo» e «leos», e perciò a buon
diritto la si potrebbe chiamare «cielo delle genti», esempio a tutti d'opere sagge e buone: «leos», infatti,
equivale a «popolo» nella nostra lingua; e come in cielo si possono vedere il sole, la luna e stelle da ogni
parte, così in questa virtuosa vergine si possono spiritualmente scorgere magnanimità di fede, perfetta
chiarezza di sapienza ed altre doti per eccellenza radiose; e appunto come i filosofi descrivono il cielo svelto
e tondo e bruciante, così la bella e candida Cecilia sempre fu svelta e attiva nelle opere buone, conchiusa ed
integra nella sua perseveranza, e sempre ardente di luminosa carità. Eccovi così spiegato il senso del suo
nome.
EXPLICIT.
RACCONTO DELLA SECONDA MONACA (*).
Qui comincia il Racconto della Seconda Monaca sulla vita di Santa Cecilia.
Questa radiosa vergine Cecilia (così narra la leggenda) era d'origine romana e di nobile stirpe, e venne
cresciuta fin dalla culla nella fede di Cristo, di cui tenne sempre a mente il vangelo. Sta scritto che non cessò
mai, nelle sue preghiere, d'amare e temere Iddio, supplicandolo di proteggere la sua verginità. Quando poi
dovette andare sposa (a un uomo assai giovane di nome Valeriano), e ormai s'avvicinava il giorno delle
nozze, questa fanciulla, devotissima e umile nel suo animo, sotto la veste d'oro che le stava tanto bene,
indossò un'ispida camicia, proprio sulla pelle. E mentre l'organo intonava melodie, (6) lei in cuor suo a Dio
soltanto così cantava: «Guida, o Signore, la mia anima e il mio corpo senza macchia, e fa' ch'io non resti mai
confusa...». E per amore di Colui che morì in croce, ogni secondo e terzo giorno digiunava, sempre assorta
nelle sue orazioni.
Giunse così la notte in cui dovette, come d'uso, andare a letto con suo marito. Rimasti soli, lei subito gli
disse: «O dolce e beneamato sposo diletto, sentite: c'è un segreto che avrei gran desiderio di rivelarvi,
purché voi giurate di non tradirmi».
Valeriano prontamente le giurò che mai l'avrebbe tradita a nessun costo, qualunque cosa fosse accaduta; e
lei allora gli disse senza indugio: «Ho un angelo che mi vuol bene e che, con grande amore, sia ch'io vegli o
dorma, è sempre pronto a guardia del mio corpo. Se per caso soltanto s'accorgesse che mi toccate o
m'amate impuramente, subito sull'atto vi ucciderebbe e, pur giovane come siete, vi farebbe morire. Ma se
nel vostro amore vi manterrete casto, allora amerà anche voi come ama me, appunto per la vostra castità,
e vi rivelerà la sua gioia e il suo splendore».
Valeriano, correttamente come Dio voleva, le rispose: «Se proprio devo crederti, fa' che quest'angelo io
possa vederlo e guardarlo: se veramente si tratterà d'un angelo, allora io farò come tu appunto m'hai
pregato; ma se tu ami un altro uomo, t'assicuro che con questa mia spada tutt'e due vi ucciderò».
Cecilia allora gli disse: «Volendo, l'angelo potete vederlo, purché prima abbiate fede in Cristo e vi
battezziate». Poi aggiunse: «Andate sulla via Appia, appena tre miglia fuori città, e ai poveri che vi abitano
riferite quanto sto per dirvi... Dite che vi ho mandato io, Cecilia, perché vi mostrino il vecchio buon Urbano
(7) per certe vostre segrete necessità e buone intenzioni. E quando avrete visto Sant'Urbano, ripetetegli le
parole che v'ho detto: com'egli vi avrà assolto dal peccato, voi allora, ancora prima di tornare, vedrete
l'angelo!».
Valeriano si recò in quel luogo e, secondo quanto gli era stato indicato, trovò il pio vecchio Urbano che
s'aggirava fra le tombe dei santi; e subito, senza perder tempo, gli fece la sua ambasciata. Ciò udito, Urbano
sollevò con gioia le mani al cielo e, lasciando che gli cadessero le lacrime dagli occhi, disse: «Signore
Onnipotente, Gesù Cristo, spargitore di casti consigli, pastore nostro, accogli il frutto di quel seme di castità
che in Cecilia hai seminato! Guarda, come un'ape operosa t'obbedisce sempre senza sosta la tua fedele
Cecilia: ha appena sposato un uomo fiero come un leone, ed ecco che a te lo manda mite come un
agnello!».
A quelle parole apparve improvvisamente un vecchio, avvolto in bianche vesti luminose, il quale, tenendo
in mano un libro a lettere d'oro, si fermò davanti a Valeriano.
Appena lo vide, Valeriano per il terrore cadde a terra come morto. L'altro lo sollevò e prese a leggere così
dal libro: «Un Signore, una fede, un unico Dio; un Cristianesimo e un Padre comune, al di sopra di tutto e di
tutti ovunque...». Ed erano parole scritte a caratteri d'oro.
Quand'ebbe letto, il vecchio disse: «Credi o non credi in ciò? Rispondi».
«Vi credo fermamente» disse Valeriano «perché cosa più vera di questa son certo che nessuno sotto il cielo
potrà mai concepire.»
Il vecchio allora scomparve, senza che alcuno s'accorgesse dove, e papa Urbano battezzò in quel momento
Valeriano.
Tornato a casa, costui in camera sua trovò Cecilia che stava con un angelo. Quest'angelo aveva due corone
di rose e gigli, che teneva in mano; la prima la diede a Cecilia, e consegnò poi l'altra allo sposo, Valeriano,
dicendo: «Conservate queste corone sempre in castità di corpo e purezza d'animo. Credetemi, le porto a
voi dal paradiso: esse non appassiranno e non perderanno mai il loro profumo; nessuno, però, riuscirà mai
a vederle coi propri occhi, a meno che non sia casto e non detesti il male... Ed ora tu, Valeriano, che ti sei
mostrato così pronto a seguire il buon consiglio, chiedi ciò che vuoi, e qualsiasi tuo desiderio verrà
soddisfatto»,
«Ho un fratello» disse allora Valeriano «ch'io amo più di chiunque al mondo: vi prego, fate che anch'egli
possa avere la grazia di conoscere il vero, com'io lo conosco.»
Disse l'angelo: «A Dio piace la tua richiesta, e voi verrete tutt'e due con la palma del martirio al suo
banchetto di beatitudine...».
A queste parole sopraggiunse Tiburzio, il fratello. Sentendo il profumo ch'emanavano le rose e i gigli, fra sé
assai meravigliato, disse: «Chissà, in questa stagione dell'anno, da dove viene quel dolce profumo di rose e
gigli che qui sento... Neanche se li avessi fra le mani, il loro profumo potrebbe essere più penetrante; è un
profumo dolce che m'arriva al cuore, ed io mi sento completamente mutato...».
Valeriano disse: «Siamo noi che abbiamo due corone, bianche come la neve e rosse come le rose, ma così
risplendenti, che i tuoi occhi non riescono a vederle... Tuttavia, come ora per merito delle mie preghiere ne
senti il profumo, così potrai vederle, amato fratello caro, purché tu voglia, senza indugio, credere il giusto e
conoscere il vero».
Tiburzio rispose: «Sei tu che veramente dici questo, o son io che sto sognando?».
«Fra i sogni» disse Valeriano «siamo certo rimasti finora, fratello mio. Ma per la prima volta adesso siamo
nel vero!»
«Come lo sai?» chiese Tiburzio «in che modo?»
Rispose Valeriano: «Ecco ti spiego. E' l'angelo di Dio che m'ha insegnato il vero... Anche tu potrai vederlo, se
rinnegherai gl'idoli e sarai puro, no altrimenti ...».
(Anche Sant'Ambrogio si compiace di parlare nel suo prefazio (8) del miracolo delle due corone e,
celebrandolo solennemente, questo nobile dottore caro dice: «Per ricevere la palma del martirio, Santa
Cecilia, colma della grazia di Dio, abbandonò il mondo e il proprio talamo, onde poi si convertirono Tiburzio
e Valeriano, ai quali Iddio per sua bontà volle donare due corone di fragranti fiori, e mandò un suo angelo a
portarle loro. Quella vergine guidò così quegli uomini alla beatitudine del cielo, mostrando al mondo
quanto sia degno amare con devozione la castità».)
Fu dunque Cecilia che dimostrò chiaro e tondo a Tiburzio come tutti gl'idoli, essendo cosa vana, fossero
anche muti e sordi, e lo pregò di non curarsene.
«Chiunque questo non comprenda» fece Tiburzio «bestia non può che essere, non mento...»
Ciò sentendo, lei lo baciò sul petto e fu lietissima ch'egli finalmente riuscisse a distinguere il vero: «Ecco, io
ti prendo per mio alleato» disse quella beata e bella vergine cara, e proseguì: «...Ti prendo per mio alleato,
perché hai voluto rinnegare gl'idoli, e ti accolgo nello stesso amore di Cristo che m'ha fatto sposa di tuo
fratello. Va' con lui ora, a battezzarti e a purificarti, così da poter vedere in volto l'angelo di cui egli ti
parlava».
Tiburzio in risposta disse: «Fratello caro, presto spiegami: dove e da chi debbo andare?».
«Da chi?» fece l'altro «vieni con me e non preoccuparti: ti condurrò io stesso da papa Urbano.»
«Da Urbano? Fratello mio, Valeriano» disse allora Tiburzio «là mi vuoi condurre? L'impresa mi sembrerebbe
pericolosa... Non vuoi forse dire quell'Urbano che tanto spesso è stato condannato a morte e che s'aggira
sempre di qua e di là per nascondigli, senza poter mai mettere fuori il capo? C'è chi lo darebbe alle fiamme,
se lo trovasse e riuscisse a prenderlo, e lo stesso accadrebbe a noi in sua compagnia... E così mentre ancora
stiamo cercando quella divinità che sta nascosta in cielo, arsi saremmo qui su questa terra!»
Al che Cecilia arditamente rispose: «Ben si dovrebbe a ragione aver paura di perdere questa vita, fratello
mio caro, se questa fosse l'unica e non ve ne fosse altra. Ma c'è altrove vita assai migliore che mai verrà
perduta, non temere. Ce lo disse, per sua grazia, il Figlio di Dio, il Figlio del Padre creatore d'ogni cosa, dal
quale procede lo Spirito che a tutte le creature capaci di pensare ha dato un'anima... E non solo con la
parola ma anche coi miracoli, quand'era su questa terra, il Figlio di Dio proclamò ch'esiste un altro luogo in
cui si continua a vivere ...».
Al che Tiburzio replicò: «Ma, cara sorella, non hai appena terminato di dire ch'esiste un solo Dio, nostro
vero signore? Come puoi dunque affermare che ve ne siano tre?».
«Ti spiego» fece lei «e subito. Se vi sono in un uomo tre forme d'intelligenza - memoria, ingegno e intelletto
- ben possono esistere in un solo essere divino tre persone ...» E prese a parlargli con fervore della venuta
di Cristo, descrivendogli le sue sofferenze e spiegandogli diversi punti della sua passione; come il Figlio di
Dio fosse venuto al mondo per concedere piena remissione al genere umano, avvinto dal peccato e da
agghiaccianti colpe... tutto insomma spiegò a Tiburzio.
Dopo di che, accompagnato da Valeriano, Tiburzio si recò di buon animo da papa Urbano, il quale, col cuore
colmo di contentezza, rendendo grazie a Dio, lo battezzò e, perfezionandolo nella sua dottrina, lo nominò
cavaliere di Dio. Da allora Tiburzio ebbe la grazia di vedere ogni giorno, a suo tempo e luogo, l'angelo del
Signore, e qualunque preghiera rivolgesse a Dio, immediatamente veniva esaudita...
Sarebbe assai difficile dire con ordine quanti miracoli Gesù compisse per mezzo di quei due fratelli; ma alla
fine, per farla breve, ricercati dagli ufficiali della città di Roma, essi vennero condotti davanti al prefetto,
Almachio, il quale li interrogò e, conosciuto il loro animo, ordinò che fossero portati al simulacro di Giove,
dicendo: «A chi non vorrà offrire sacrificio, verrà tagliata la testa: è un ordine!».
Votati ormai al martirio, quei due santi vennero affidati a un certo Massimo, ufficiale del prefetto e suo
aiutante, il quale conducendoli via, pianse di pietà per loro. Quando poi seppe della loro pia dottrina,
ottenuto il permesso dai giustizieri, Massimo li fece senz'altro entrare in casa sua, ed essi, predicando,
riuscirono, prima ancora che fosse sera, a estirpare la falsa fede dai giustizieri stessi, oltre che da Massimo e
da ciascuno della sua famiglia, convincendo tutti a credere soltanto in Dio. Quando fu notte, venne Cecilia
coi sacerdoti, i quali battezzarono tutti quanti; poi, mentre ormai si faceva giorno, Cecilia, con espressione
molto calma, disse:
«Ora, cari e diletti cavalieri di Cristo, scagliate via tutte le opere della tenebra e armatevi con le armi della
luce. In verità avete vinto una grande battaglia: il vostro corso è compiuto, la vostra fede è salva. Andate a
quella corona di vita che non può mai venir meno: il retto Giudice, che avete servito, ve la concederà,
poiché l'avete ben meritata».
Dopo di che, essi, come vi dicevo, vennero condotti a compiere sacrificio. Ma (per passare in breve alla
conclusione) giunti sul posto, si rifiutarono di offrire incenso o altro, e così, mentre in ginocchio erano
umilmente assorti nelle loro devozioni, vennero ambedue decapitati. Le loro anime salirono al Re della
grazia. E Massimo, ch'era presente al fatto, lo testimoniò piangendo pietosamente, d'aver veduto le loro
anime salire al cielo fra gli angeli, colme di splendore e di luce, e convertì molti con la sua parola; e perciò
Almachio lo fece percuotere con una frusta di piombo finché rimase senza vita. Cecilia allora di nascosto lo
prese e lo seppellì accanto a Tiburzio e Valeriano, sotto la stessa pietra del loro sepolcro; dopo di che,
Almachio ordinò in gran fretta ai suoi ministri di portare Cecilia innanzi a lui, affinché, apertamente in sua
presenza, facesse sacrificio offrendo incenso a Giove. Essi, invece, da lei convertiti alla sua saggia dottrina,
piansero amaramente e prestarono tutti fede alle sue parole, affermando con voce sempre più sicura:
«Cristo, Figlio di Dio, è Dio egli stesso senz'alcuna differenza: non può essere altrimenti, se così buona serva
ha per servirlo. Questa è la nostra fede e per essa siamo anche pronti a morire!».
Almachio, avuto di ciò notizia, mandò a prendere Cecilia direttamente, per poterla ormai vedere, ed ecco
come incominciò a interrogarla:
«Che razza di donna sei?» le chiese.
«Una donna di nobile famiglia» rispose lei.
«Ma io intendevo di che religione e di che fede» disse lui «anche se ciò può farti dispiacere.»
«Male dunque avete incominciato a interrogare» disse lei «se a una domanda pretendete illogicamente
due risposte.»
Al che Almachio, seccato, rispose: «Da dove viene questa tua tracotanza?»
«Da dove?» fece lei a quella domanda «da coscienza e da sincera buona fede!»
Almachio disse: «Non tieni dunque alcun conto del mio potere?».
Ed ella gli rispose: «Ben poco è da temere il tuo potere, perché, come quello d'ogni mortale, non è altro che
come una vescica piena di vento: basta una punta d'ago, quando è gonfio, per svuotarlo di ogni boria».
«Sei tu che molto male hai cominciato» disse lui «e nel male continui con ostinazione. Non sai che i nostri
potenti e generosi prìncipi han comandato e dato ordine che ogni cristiano venga sottoposto a pena, a
meno che non sconfessi la sua fede, e sia liberato soltanto se la rinneghi?»
«Sbagliano i vostri prìncipi e tutto il vostro nobilume» disse allora Cecilia «e voi che con pazza sentenza ci
dichiarate colpevoli, mentre ciò non è vero. Voi infatti, pur sapendo che noi siamo innocenti, c'incriminate e
accusate, soltanto perché onoriamo Cristo e portiamo il nome di cristiani. Ma quel nome per noi è virtuoso,
e non potremo mai rinnegarlo!»
Almachio rispose: «Ebbene scegli: o celebri il sacrificio o rinneghi il cristianesimo; non ti rimane altra via
d'uscita».
Al che sorridendo, quella santa beata vergine bella disse al giudice: «O giudice, confuso nella tua stessa
sottigliezza, vorresti che, rinnegando la mia innocenza, io diventassi colpevole veramente? Ecco che
assurdità egli sostiene qui in udienza, e come in essa s'ostina e impazzisce!».
Al che Almachio: «Insulsa miserabile, sai fin dove può arrivare la mia potenza? Non ricordi che i nostri
potenti prìncipi mi hanno dato autorità e potere di vita e di morte sulla gente? Come dunque osi parlarmi
con tanta superbia?».
«Parlo solo con fermezza» disse lei «non con superbia; ti dirò anzi che per noi la superbia è un peccato
mortale che aborriamo. Se poi non temi d'ascoltare una verità, voglio chiaramente dimostrarti che qui hai
commesso un gravissimo errore. Tu dici che i tuoi prìncipi t'hanno concesso potere di vita e di morte sulla
gente: ma tu non hai altro potere o autorità che di privarla della vita, e perciò puoi soltanto dire che i tuoi
prìncipi t'hanno fatto ministro di morte. Se parli d'altro, menti e ti spogli completamente del tuo potere.»
«Smettila con la tua sfrontatezza» disse allora Almachio «e offri sacrificio ai nostri dèi prima d'andartene!
Non contano le offese che rechi a me, perché da filosofo posso anche compatirle; ma non tollero le ingiurie
che tu pronunci contro i nostri dèi!»
Cecilia rispose: «O creatura sciocca, non hai ancora detto una parola da quando mi parli, che non abbia
messo in mostra la tua dabbenaggine e quanto tu sia completamente inetto come ufficiale e vano come
giudice! Ai tuoi occhi in apparenza non manca nulla, ma tu sei cieco: ciò che noi tutti vediamo esser pietra
(chiunque può constatarlo!), tu quella pietra la chiami dio. Ti prego, posavi sopra una mano e toccala bene:
t'accorgerai che è pietra, anche se con gli occhi non riesci a vederla. E' ignobile che la gente debba
disprezzarti e ridere della tua follia; perché ormai lo sanno tutti che Dio onnipotente sta nei cieli, mentre,
come vedi, questi simulacri non servono né a sé, né agli altri, e non valgono veramente nulla».
Questo ed altro gli disse, tanto che alla fine, infuriato, egli ordinò che fosse condotta a casa. «E a casa sua»
disse «mettetela in un bagno e datela alle fiamme.»
Detto fatto: Cecilia venne rinchiusa in un bagno, sotto il quale e venne acceso un gran fuoco notte e giorno.
E per tutta una lunga notte e un giorno, lei rimase fresca a sedere senza provare alcuna pena, senza
neppure versare una stilla di sudore. Ma ormai in quel bagno doveva lasciarvi la vita: Almachio infatti,
malvagiamente, vi mandò un suo messo a trucidarla. Tre colpi le vibrò quel carnefice, senza tuttavia riuscire
a spezzarle il collo; e siccome allora era in vigore un'ordinanza per cui nessuno poteva infliggere per
punizione un quarto colpo, forte o debole che fosse, quel carnefice non poté far altro che andarsene,
abbandonandola mezza morta, col collo straziato. I cristiani che le stavano intorno, le stagnarono con panni
puliti il sangue. E lei visse per tre giorni in quel supplizio, senza mai cessare di predicare, proclamando la
fede che in sé aveva nutrito. Lasciò loro i suoi beni e i suoi averi e, raccomandando tutti a papa Urbano,
disse: «L'ho chiesto al Re del cielo di darmi tregua per almeno tre giorni, per poter, prima d'andare,
raccomandarvi d'aver cura di queste anime e di trasformare questa mia casa in una perenne chiesa».
Sant'Urbano, coi suoi decani, prese di nascosto la salma e di notte la seppellì onoratamente fra gli altri
santi. La casa si chiamò da allora Chiesa di Santa Cecilia: (9) Sant'Urbano la consacrò adornandola meglio
che poté, e ancor oggi vi si vive nobilmente al servizio di Cristo e della sua santa.
Qui termina il Racconto della Seconda Monaca.
Note del "Racconto della Seconda Monaca".
Nota 1. Le rose e i gigli erano simboli, rispettivamente, dei martirio e della purezza.
Nota 2. San Bernardo, il santo devoto della Vergine. L'"Invocacio" segue, in certi punti, fedelmente, la
famosa preghiera di questo santo che si trova nel "Paradiso" dantesco.
Nota 3. Si riferisce all'episodio evangelico ("Matteo", XV, 21-28) della donna cananea che, avendo una figlia
gravemente tormentata da un demonio, implorò l'aiuto di Gesù Cristo.
Nota 4.Si tratta di Jacopo da Varazze, detto anche Jacobus Januensis (Jacopo Genovese), che fu verso la fine
del tredicesimo secolo arcivescovo di Genova, autore d'una Legenda Aurea che contiene appunto una vita
di Santa Cecilia.
Nota 5. «Interpretazione del nome di Cecilia, posta da Fra' Jacopo Genovese nella Leggenda.» Spiegazioni
etimologiche di questo genere, peraltro piuttosto fantasiose, si trovano di frequente nelle vite dei santi.
Quelle date da Jacopo da Varazze al nome di Cecilia, e riprese dal Chaucer, sono le seguenti: "coeli lilia"
(giglio del cielo), "caecis via" (guida dei ciechi), "caelo et lya" (cielo e Lia, cioè vita contemplativa e vita
attiva), "caecilia quasi caecitate carens" (mancante di cecità), "coelo et leos "(cielo in latino e genti in greco;
quindi: cielo delle genti).
(*). Il "Racconto della Seconda Monaca" esisteva quasi sicuramente già prima che il Chaucer iniziasse i
"Canterbury Tales": la sua data di composizione si fa generalmente risalire al 1373-74, dopo cioè il primo
viaggio del poeta in Italia. (E' evidente nel prologo l'influsso di Dante.) Si tratta, come s'è già accennato,
d'una traduzione e riduzione della storia di Santa Cecilia, così come si trova in una famosa raccolta di vite
dei santi, dal titolo "Legenda Aurea", il cui autore, Jacopo da Varazze, fu consacrato arcivescovo di Genova
nel 1292.
Nota 6. Secondo la tradizione, Santa Cecilia è anche patrona della musica.
Nota 7. Papa Urbano Primo, succeduto a Callisto nel 222 dopo Cristo e decapitato il 25 maggio 230. Anche
la sua storia si trova nella "Legenda Aurea".
Nota 8. Si tratta dei prefazio alla messa per la festa di Santa Cecilia secondo il rito ambrosiano.
Nota 9. Pare che in un primo tempo Santa Cecilia fosse sepolta nelle catacombe di San Callisto. Nell'821
venne trasferita entro le mura della città di Roma, nella chiesa omonima (Santa Cecilia di Trastevere).
Prologo
DEL GARZONE DEL CANONICO.
Prologo al Racconto del Garzone del Canonico.
Terminata che fu la storia di Santa Cecilia, non avevamo neppure fatto cinque miglia, quando presso
Boughton-under-Blean (1) ci raggiunse un tipo che indossava abiti neri. Sotto cui spuntava una tonaca
bianca. Il suo ronzino, d'un grigio tutto pomellato, sudava ch'era un incanto; tre buone miglia doveva aver
galoppato... Il cavallo poi che montava il suo Garzone era così sudato, che quasi non riusciva a tirare avanti;
e la bava gli arrivava alta fin sul pettorale, tutto picchiettato come quello d'una gazza.
Con una sacca piegata in due sulla groppiera, pareva che di roba n'avesse ben poca da portare, quello
strano tipo, che pure era vestito di leggero per l'estate... Cominciai fra me a chiedermi chi mai potesse
essere, finché poi mi accorsi che aveva il mantello cucito a cappuccio, e perciò, dopo essermi un po' fra me
consigliato, decisi che doveva essere qualche canonico. (2) Il cappello gli ciondolava da una cordella dietro
la schiena, perché, più che di rotto o al passo, era venuto spronando come un matto. Aveva sotto il
cappuccio una foglia di lappa per trattenere il sudore e per ripararsi la testa dal caldo, ma continuava a
sudare ch'era una bellezza: la fronte gli gocciolava come un alambicco riboccante di piantaggine e
petacciuola.
Appena arrivò, si mise a gridare: «Dio salvi» disse «questa lieta brigata! Ho spronato forte» disse «tutto per
amor vostro, perché volevo raggiungervi e cavalcare allegramente in vostra compagnia».
Il suo Garzone, anch'egli pieno di complimenti, fece: «Ecco, messeri, stamattina vi ho visto partire dalla
locanda, e allora ho avvertito qui il mio signor padrone che sarebbe stato molto bello svagarsi cavalcando
insieme a voi; lui ama stare a crocchio».
«Amico, Dio ti mandi buona fortuna per quel tuo avvertimento!» disse allora il nostro Oste. «Certo
dev'essere una persona saggia il tuo padrone, almeno così io penso. E dev'essere un gran burlone, ci
scommetto! Saprebbe narrarci uno o due bei racconti in modo da tenere allegra la compagnia?»
«Chi, messere, il mio padrone? Sì, sì, senz'altro! Non ne ha mai abbastanza di scherzi e di sollazzi. Eppure,
messere, se lo conosceste come lo conosco io, sareste sbalordito da come egli sappia anche lavorar bene e
seriamente, e quante cose egli sappia fare! S'è sobbarcato certe imprese, che nessuno dei presenti
riuscirebbe mai a portare a termine, senza la sua dottrina. Per quanto ora lo vediate cavalcare
familiarmente in mezzo a voi, se veramente lo conosceste, ne andreste orgogliosi: non scambiereste la sua
amicizia per una fortuna, ci scommetto tutto quello che posseggo. E poi è un uomo di gran discrezione;
insomma, una persona sorprendente.»
«Bene, bene» disse il nostro Oste «ma ti prego, dimmi: è o non è un chierico? Spiegami che cosa fa.»
«Ah, è molto di più d'un chierico!» disse il Garzone. «In poche parole, Oste, ecco, tanto per darvi un'idea
della sua arte, vi dico che il mio padrone è d'una così sottile abilità (ma non è che da me possiate saper
tutto sulla sua arte, pur se un po' l'aiuto nel suo lavoro), che tutta questa strada su cui stiamo cavalcando,
fino alla città di Canterbury, lui potrebbe comodamente rivoltarla sottosopra e lastricarla tutta d'argento e
d'oro!»
A queste affermazioni del Garzone, il nostro Oste fece: «"Benedicite!" La cosa mi sembra molto strana,
perché il tuo padrone, così valente e perciò degno d'essere da tutti riverito, non tiene gran che al proprio
decoro. Mi venga un po' di bene, ma ha una sopravveste che non vale un fico, per uno come lui! E' tutta
lercia e sfilacciata... Perché è così disordinato il tuo padrone, dimmi ti prego, quando, stando ai tuoi discorsi
sul suo lavoro, avrebbe la possibilità di comprarsi roba assai migliore? Questo spiegami, te ne supplico».
«Perché?» fece il Garzone «ancora me lo chiedete? Ma perché, m'aiuti Iddio, non s'accontenta mai! (Non
vorrei però che si spargesse quanto dico, e perciò, vi prego, tenetevelo per voi...) Insomma, egli, secondo
me, è troppo bravo. E il troppo stroppia, come dicono i sapienti; diventa un vizio. In questo perciò io lo
considero ignorante e balordo. Quando infatti un uomo ha troppo cervello, gli capita spesso d'usarlo male:
questo è quello che fa il mio padrone, e a me dispiace molto. Dio vi provveda! Non so che altro dire ...»
«Non crucciarti, buon Garzone,» disse il nostro Oste «e invece, dato che tu conosci le astuzie del tuo
padrone, raccontaci come fa, te ne prego di cuore, a esser tanto abile ed esperto. E, se è lecito, dov'è che
abitate?»
«Nei sobborghi d'una città» rispose l'altro «appostati agli angoli e nei vicoli ciechi, dove vanno
abitualmente a rintanarsi i briganti e i ladri, tutta gente che non ha il coraggio di farsi vedere. E lo stesso, a
dire il vero, succede anche a noi.»
«Però insomma» fece il nostro Oste «permetti ancora che te lo chieda, perché hai una faccia così
scolorita?»
«Per San Pietro!» rispose l'altro. «Dio mi mandi un accidente, ma sono sempre così preso a soffiare nel
fuoco, che per forza non devo avere più colore! Non sono abituato a guardarmi allo specchio, ma a sgobbar
sodo per imparare a moltiplicare l'oro... Non facciamo che buttare roba al fuoco, e tuttavia non riusciamo
nel nostro intento e non arriviamo mai ad alcuna conclusione. Illudiamo parecchia gente, dalla quale
prendiamo denaro a prestito, ora una sterlina o due, ora dieci o dodici, a volte anche di più, facendo
credere, o almeno sperare, che d'ogni sterlina potremmo farne due. Tutto ciò naturalmente è falso, ma
abbiamo sempre qualche speranza di riuscita e continuiamo a fare esperimenti. La scienza, però, ci passa
sempre avanti e, per quanti scongiuri facciamo, non riusciamo mai a raggiungerla: corri corri, finisce col
ridurci a mendicare.»
Mentre così il Garzone stava parlando, il Canonico gli si avvicinò, per ascoltare che cosa mai avesse da dire;
si vedeva proprio ch'era sospettoso dei discorsi della gente, questo Canonico. Dice Catone che chi é
colpevole crede che ogni cosa che si dica lo riguardi: ecco perché quello s'avvicinò tanto al suo Garzone...
Sentendo tutti quei suoi ragionamenti, gli disse: «Silenzio, non una parola in più, o me la pagherai cara! Tu
mi screditi presso questa compagnia e scopri ciò che invece dovresti tener nascosto!».
«Ah sì?» fece il nostro Oste. «Tu invece continua a raccontare, se così stanno le cose. E infischiatene di
tutte queste sue minacce!»
«Parola mia» fece l'altro «ciò che dico è ancora poco!»
Comprendendo che non c'era altro da fare, perché il suo Garzone avrebbe ormai rivelato ogni suo segreto,
il Canonico se ne scappò via pieno di dolore e di vergogna.
«Ah» disse il Garzone «ora ci divertiremo! Voglio raccontarvi tutto quello che so. Se n'è andato finalmente,
e che il demonio laido se lo porti! Non ci sono soldi né sterline che tengano: d'ora in avanti non mi vedrà
più, ve l'assicuro. E' stato lui il primo a indurmi a questo gioco, e prima di morire dovrà pentirsene e
vergognarsene! E' una faccenda seria per me, lo capisco bene, tutti me lo dicono. Eppure, con tutto il mio
dolore e dispiacere, con tutta la mia pena, la mia fatica e le mie disgrazie, non sono mai riuscito in alcun
modo a liberarmene. Voglia Iddio che ora io abbia almeno abbastanza cervello da dir tutto ciò che riguarda
quest'arte! Vedrete che ad ogni modo qualcosa vi dirò... Ora che il mio padrone se n'è andato, non starò
certo a lesinare, e quel che so lo dichiarerò tutto.»
Qui termina il Prologo al Racconto del Garzone del Canonico.
RACCONTO DEL GARZONE DEL CANONICO (*).
Qui inizia il Racconto del Garzone del Canonico.
[PRIMA PARS].
Ormai son sette anni che abito con questo Canonico, e mai non ho potuto avvicinarmi alla sua scienza. Ci ho
rimesso tutto quello che avevo, e Dio sa che non sono il solo! Un tempo ero sempre allegro, elegante e ben
vestito, ora andrei perfino con una calza in testa; mentre prima ero d'un bel colorito rosso, ora sono smorto
e del colore del piombo (provate a maneggiarlo e ve ne accorgerete!) ed ho gli occhi annebbiati per la
fatica. Ecco che vantaggio c'è a far pratica d'alchimia! Questa viscida scienza m'ha ridotto al punto che, per
quanto mi dia da fare, ormai non posseggo più nulla; anzi, mi sono talmente indebitato, a forza di prendere
denaro a prestito, che finché camperò non riuscirò mai a mettermi in pari. Prendete tutti e per sempre
esempio da me! Chi vi si caccia dentro e non la smette, per me è rovinato: Dio m'aiuti, ma non fa certo dei
guadagni, anzi ci rimette sia di borsa che di cervello; e quando poi, per sua demenza e follia, rischiando ogni
suo avere, ha perso tutto, allora si mette a istigare gli altri, perché tutti vadano in rovina come lui. Per i
perversi, infatti, è una gioia e un piacere stare in compagnia nella sofferenza e nel dolore: questo l'ho
imparato una volta da un chierico... Ma lasciamo perdere, voglio parlarvi del nostro lavoro.
Quando dobbiamo metterci ad esercitare la nostra magica arte, ci diamo l'aria di persone molto istruite,
usando leziosi termini dottrinali. Io poi mi metto a soffiare nel fuoco fino a farmi scoppiare il cuore... Ma
perché dirvi la dose d'ogni elemento che viene impiegato (se, per esempio, siano cinque o sei le once
d'argento o di qualsiasi altra sostanza) e affannarmi a ripetervi i nomi dell'orpimento, delle ossa bruciate e
delle squame di ferro che vengono triturate in polvere fine fine; e come il tutto sia messo in una pentola di
terra, con un po' di sale dentro, e un po' di pepe, prima ancora della polvere che vi ho detto, e sia ben
coperto con una lastra di vetro, dopo avervi aggiunto quel che occorre; e come pentola e vetro vengano
saldati in modo da non lasciar passare alcun vapore; e che fuoco, lento o rapido, sia necessario, e le fatiche
e le preoccupazioni per sublimare i materiali e per amalgamare o calcinare l'argento vivo, detto pure
mercurio crudo?
Intanto, con tutte le nostre preoccupazioni, non riusciamo a concludere nulla. Orpimento e sublimato di
mercurio, litargirio tritato sopra il porfido, ciascuno nella sua giusta quantità di once... non ci servono a
nulla: la nostra fatica è inutile. Non c'è esalazione di vapori né solidificazione di corpi che ci porti avanti nel
nostro lavoro: ogni nostro sforzo e travaglio va perduto e, per venti diavoli, va pure perduto tutto il denaro
che abbiamo speso!
Eh sì, ne occorrono di cose nel nostro mestiere! Io non so citarvele tutte con ordine, perché sono ignorante,
ma ve le dirò come mi vengono in mente, anche se non so disporle secondo la specie: ad esempio, il bolo
armeno, (3) il verderame, il borace e tutta una serie di recipienti di terra e di vetro (orinali e scolatoi, fiale,
crogiuoli e sublimatoi, cucurbite, alambicchi ed altri che però non valgono un porro... non c'è bisogno di
nominarli tutti!) e poi acqua di carminio e fiele di toro, arsenico, sale ammoniaco (4) e zolfo; erbe ne potrei
citare moltissime, come l'agrimonia, la valeriana, la lunaria ed altre, ma non mi va di perdere tempo; e poi
lampade (le lasciamo accese notte e giorno per portarci più avanti che possiamo nel lavoro); e poi fornaci
per la calcinazione e la purificazione dell'acqua; calce viva, gesso, chiare d'uovo, polveri varie, ceneri,
sterco, piscio, argilla, sacchetti incerati, salnitro, vetriolo e diversi fuochi di legna e carbone; sal tartaro,
alcale, sal preparato, materie combuste e coaugulate; argilla mista con peli d'uomo e di cavallo, olio di
tartaro, allume cristallizzato, lievito, mosto di birra, cremore di tartaro, risigallo, materie assorbenti e
materie incorporanti, sia per la cinitrazione dell'argento che per la cementazione e la fermentazione,
stampi, provini e ancora molto altro...
Lasciate almeno che vi citi in ordine, come mi è stato insegnato, i quattro vapori e i sette corpi. Li ho sentiti
così spesso elencare dal mio padrone! Il primo vapore è quello dell'argento vivo, il secondo dell'orpimento,
il terzo del sale ammoniaco e il quarto dello zolfo. In quanto ai sette corpi, eccoveli subito: Sol sta per oro,
Luna per noi vuol dire argento, Marte ferro, Mercurio si chiama l'argento vivo, Saturno il piombo, Giove lo
stagno, e Venere, per la stirpe di mio padre, il rame!
Per chi voglia esercitare questa dannata arte, non ci sono mai mezzi abbastanza; infatti, per quanto uno
spenda, ci rimette sempre: su questo non vi sono dubbi.
Su, si faccia avanti chi desidera dar sfogo alla sua follia e impari pure a moltiplicare l'oro; su, chiunque abbia
qualcosa nello scrigno, si presenti e si metta a fare l'alchimista. Credete forse che sia un'arte tanto facile da
imparare? Ah no! Dio sa che chiunque, monaco o frate, prete o canonico, si metta giorno e notte seduto
davanti ai libri per imparare questa misteriosa dottrina balorda, tutto è inutile, perdio, se non peggio.
Figurarsi poi insegnare certe sottigliezze a un ignorante... Non parliamone neppure, non è possibile! Ad
ogni modo, che si tratti d'una persona istruita o meno, il risultato in fondo è sempre lo stesso. Vi giuro
infatti sulla mia anima che in alchimia, quando abbiano ben fatto, riescono tutti nello stesso modo, cioè
falliscono tutti!
Dimenticavo poi di parlarvi delle acque corrosive e delle limature, della mollificazione dei corpi e del loro
indurimento; degli olii, delle abluzioni, dei metalli fusibili... A dir tutto non basterebbe neppure una bibbia;
e perciò è meglio ch'io la smetta con tutti questi nomi. Credo d'averne citati ormai tanti, da evocare un
demonio, per renitente che sia...
Ah, no, lasciamo stare! E' la pietra filosofale, detta elisir, che tutti noi cerchiamo: certo, se la ottenessimo,
allora ci rinfrancheremmo abbastanza. Ma giuro davanti a Dio del cielo che, con tutta la nostra arte, per
quanto facciamo, pur con tutta la nostra abilità, da noi essa non vuol venire. Ci fa spendere a profusione,
tanto che ci sarebbe quasi da impazzire di dispiacere, se nel nostro animo non s'insinuasse sempre qualche
buona speranza ad illuderci, pur fra tante pene, di poter un giorno riuscire. Certe illusioni e speranze sono
ostinate e dure a morire, e c'è gente, vi assicuro, che continua a cercare. Sempre sperando nel futuro,
queste persone si separano da tutto ciò che hanno, senza mai riuscire a saziarsi di quest'arte che per loro è
come un dolce amaro (così almeno sembra): se anche avessero una sola coperta in cui avvolgersi di notte e
un unico mantello da mettersi durante il giorno, per quest'arte non esisterebbero a venderli e a spendere
tutto. E non la smettono finché proprio non rimangono senza nulla. Dovunque poi vadano, si fanno
riconoscere dal loro odore di zolfo: puzzano infatti dappertutto come capre, e quel loro odore caprigno è
così forte, che, vi assicuro, si sente anche da lontano un miglio. Così, dal lezzo e dall'abito dimesso, volendo,
si possono riconoscere benissimo questi tipi. Se poi in privato chiedeste loro perché si vestono così
miseramente, quelli subito vi sussurrerebbero all'orecchio che, se mai fossero scoperti, verrebbero uccisi a
causa della loro scienza. Ecco, come questi tipi gabbano gl'innocenti!
Ma passiamo oltre e torniamo alla mia storia. Prima che la pentola sia messa al fuoco, con dentro una certa
quantità di metalli, il mio padrone li tempra, e nessuno (ora che se n'è andato posso anche dirlo!) ci riesce
meglio di lui, lo dicono tutti. Ma per quanto ormai si sia fatto un nome, anch'egli commette errori. Sapete
come succede... la pentola si spacca, e allora addio, tutto è perduto! Questi metalli sono d'una violenza
tale, che i nostri muri non vi resistono e non sembrano neppure di cemento e pietra; e così quelli perforano
e passano la parete da parte a parte: certi vanno a conficcarsi nel terreno (ecco dove a volte sono andate a
finire parecchie nostre sterline!), certi si spargono tutt'intorno sul pavimento e certi balzano fin sul tetto.
Non c'è dubbio: anche se proprio non ci compare davanti, ci dev'essere il demonio in mezzo a noi, quella
canaglia! Ma neanche all'inferno, dove lui è signore e padrone, dev'esserci tanto baccano, rancore o ira...
Ricordo che appena la pentola si spaccava, tutti si mettevano a urlare, dandosi reciprocamente la colpa.
Chi diceva che dipendeva dal modo di far fuoco; chi diceva di no, che dipendeva invece dal modo di
soffiare... Allora mi spaventavo, perché questo era compito mio.
«Balle!» diceva il terzo «siete ignoranti e balordi: era la tempra che non andava!»
«No» diceva il quarto «zitti, ascoltate me: tutto è dipeso dal fuoco che non era di faggio, ecco perché, ed
ora basta, accidenti!»
Io non so dire da che cosa veramente dipendesse: so soltanto che fra noi scoppiava sempre una gran lite.
«Insomma» diceva il mio padrone «ormai non c'è più nulla da fare. D'ora in poi starò attento io a questi
pericoli. Son sicurissimo che il recipiente era incrinato... Ma, sia come sia, non state lì a bocca aperta: su,
come di solito, scopiamo subito il pavimento! In alto i cuori, e siate allegri e contenti!»
Scopavamo i rottami in un mucchio, buttando una tela sul pavimento; e col setaccio tutti i rottami venivano
setacciati e trascelti più volte.
«Perdio» diceva uno «un po' di metallo c'è ancora rimasto, anche se non proprio tutto. Se ora le cose sono
andate male, un'altra volta possono andarci bene. Bisogna rischiare, credetemi. Anche ai mercanti, perdio,
non va mica sempre bene! Qualche volta la merce affonda in mare e qualche volta arriva in salvo a terra.»
«Basta!» diceva il mio padrone «la prossima volta penserò a portare il lavoro in tutt'altra direzione; e se
ancora non riesco, signori, date pure la colpa a me. Da qualche parte l'errore c'era, questo è certo.»
Un altro sosteneva che infatti il fuoco era troppo caldo... Ma, caldo o freddo che fosse, voglio dirvi questo:
che alla fine c'è sempre qualcosa che non va, e noi non riusciamo mai ad ottenere quello che vogliamo.
Eppure, nella nostra pazzia, continuiamo a farneticare e, quando siamo insieme, ciascuno si dà le arie d'un
Salomone. Ma non è tutt'oro quello che riluce (quante volte l'abbiamo sentito dire!), né una mela che
all'apparenza sembri bella, è sempre buona: è inutile che la gente sbraiti o gridi. Proprio così, ecco, succede
a noi. Cristo, quello che sembra il più furbo, alla prova dei fatti è il più balordo; e quello che pare il più fido è
in realtà un ladro. Bisogna che questo lo sappiate, prima che io passi ad altro, ma ora basta con tanti
discorsi!
EXPLICIT PRIMA PARS.
ET SEQUITUR PARS SECUNDA.
C'è fra noi un canonico di convento, che infetterebbe una città intera, fosse pure grande come Ninive,
Roma, Alessandria o Troia, e ancora altre insieme. Credo proprio che nessuno riuscirebbe a descrivere le
sue truffe e la sua infinita ipocrisia, neanche se campasse per mill'anni. Non ha veramente pari al mondo
per doppiezza! Sa rigirarsi così bene con i suoi termini e usare le sue parole in modo così astuto, che appena
si trova in compagnia di qualcuno, riesce ad imbrogliarlo subito, a meno che anche l'altro non sia un
demonio come lui. Quanta gente ha ingannato e quanta ne ingannerà ancora, se riuscirà a campare! Eppure
c'è chi continua a percorrere miglia e miglia a cavallo e a piedi, pur di vederlo e conoscerlo, ignorando il suo
ipocrita modo di fare. Ma, se vi piace darmi ascolto, ve lo dirò io qui subito com'è!
Però voi, reverendi canonici di convento, (5) non crediate ch'io voglia screditare la vostra casa, soltanto
perché il mio racconto parla d'un canonico. In tutti gli ordini qualche mascalzone c'è sempre, perdinci, ma
Dio non voglia che per le sciocchezze di uno ci rimetta tutta una comunità! La mia intenzione non è affatto
quella di screditarvi, ma se mai quella di correggere ciò che non va. Il mio racconto non si rivolge soltanto a
voi, ma anche ad altri... Sapete bene che fra i dodici apostoli di Cristo non c'era nessun traditore all'infuori
di Giuda. Perché dunque dir male di tutti, i quali non ne avevano colpa? Lo stesso vale per voi. Però, sentite:
se ci fosse qualche Giuda anche nel vostro convento, mandatelo via in tempo, mi raccomando, se non
volete che sia cagione d'infamia e denigrazione. Ed ora, vi prego, non prendetevela per ciò che sto per dire,
ma anzi ascoltate attentamente.
C'era dunque a Londra un prete cantore (6) (vi abitava già da parecchi anni), il quale era così affabile e
servizievole con la donna da cui andava a mangiare, che costei non gli faceva pagar nulla per il vitto e
neppure per la cura del vestiario (non era mai andato così elegante), ed egli si trovava perciò ad avere
abbastanza soldi da spendere. Qui sta il punto: andiamo avanti, e sentirete come il nostro canonico
portasse questo prete alla rovina.
Un giorno, infatti, questo canonico ipocrita si recò da questo prete, proprio nella stanza dove abitava, a
pregarlo di prestargli una certa somma di denaro, che poi gli avrebbe reso.
«Prestatemi un marco» gli disse «solo per tre giorni, ve lo renderò puntualmente. Se poi vedete che non
sono di parola, un'altra volta mi mandate alla forca!»
Il prete gli diede subito un marco senza discussioni. Questo canonico lo ringraziò molto, lo salutò e se ne
andò per la sua strada. Il terzo giorno, riscosso del denaro, riportò quel che doveva al prete, che ne fu
molto lieto e bene impressionato.
«Certo» disse «non mi dispiace affatto imprestare a qualcuno un "nobile" o due, o anche tre e perfino tutto
quanto è in mio possesso, purché si tratti di persona onesta, che non venga in alcun modo meno ai suoi
impegni. A una persona tale non so mai dire di no!»
«Ma via» disse questo canonico «fare il disonesto? Ah, no, questo per me sarebbe inaudito! L'onore è
qualcosa a cui terrò sempre finché proprio non scenderò nella tomba... Dio non voglia altrimenti! Di questo
potete esserne certo come del Credo. Grazie a Dio, posso anche dirlo: finora nessuno è stato mal ripagato
per l'oro o l'argento che m'abbia imprestato e in cuor mio non ho mai inteso ingannare nessuno. Anzi, in
tutta confidenza, visto che siete stato così buono con me e vi siete dimostrato così gentile, giusto per
ricambiare un po' la vostra cortesia, voglio farvi vedere e, se v'interessa, anche insegnarvi in che modo io
sappia operare in alchimia. Attenzione, dunque, aprite bene gli occhi, e vedrete che capolavoro compirò
prima d'andarmene.»
«Davvero» disse il prete «davvero, messere, voi farete davvero questo? Maria Vergine, ve ne prego!»
«Ma certo, messere, ai vostri ordini!» disse il canonico. «Dio non voglia altrimenti!»
Ecco in che modo questo ladro seppe offrire i suoi servizi! Vero è che un servizio non richiesto puzza:
questo lo dicevano già gli antichi, ed io presto ve lo dimostrerò con questo canonico, radice d'ogni
impostura, che gioisce e gode sempre (pensate che mentalità da demonio!) quando può condurre, qualche
cristiano alla malora. Dio ci liberi dalle sue ipocrisie e simulazioni!
Il prete, naturalmente, non sapeva con chi avesse a che a fare, e non s'accorse per nulla del malanno che
stava per accadergli... O povero prete, povero ingenuo, eccoti subito accecato dall'ingordigia! O disgraziato,
orbo di buon senso, tu non t'accorgi dell'inganno che questa volpe ti ha reso e ormai non puoi più sfuggire
alla sua astuzia e alle sue frodi! Insomma, per venire ad una conclusione (che in fondo, disgraziato, riguarda
la tua rovina), lascia ch'io mi sfoghi come so e posso contro la tua stoltezza e follia, oltre che contro
l'impostura di quell'imbroglione...
Credete forse che questo canonico sia il mio padrone? Messer Oste, vi do la mia parola e vi giuro, per la
Regina del Cielo, che si tratta d'un altro, non di lui, d'uno che è cento volte più ipocrita. Ha commesso tanti
imbrogli, che a citarli tutti c'è da stancarsi. Ogni volta che parlo della sua ipocrisia, mi s'arrossano le guance
di vergogna, o meglio, mi s'infiammano appena, perché non ho più colorito, lo so benissimo; tutto per colpa
del vapore dei diversi metalli che mi hanno consunto e devastato il volto. Ma torniamo a questo dannato
canonico...
«Messere,» disse al prete «mandate il vostro garzone per argento vivo, presto; ditegli di prenderne due o
tre once: appena sarà di ritorno, assisterete ad un prodigio mai visto.»
«Sarà fatto, messere,» disse il prete «e subito!»
E ordinò al suo servo d'andargli a prendere quanto occorreva. Pronto al suo comando, quello, per farla
breve, andò e tornò con l'argento vivo, consegnando queste tre once al canonico.
Costui le depose bene con cura e chiese al servo di andare a prendere del carbone, che poi si sarebbe
subito messo all'opera.
Quando anche il carbone venne portato, questo canonico si tolse dal seno un crogiuolo e lo mostrò al
prete: «Questo strumento» disse «che vedete... prendetelo in mano e mettetevi dentro voi stesso un'oncia
di quest'argento vivo, ed eccovi, in nome di Cristo, trasformato in alchimista! E' ben poca la gente alla quale
gradirei rivelare i segreti della mia scienza. A voi, invece, mostrerò alcuni esperimenti, e qui subito davanti
ai vostri occhi, senza che vi siano imbrogli, decomporrò quest'argento vivo e lo trasformerò in argento puro
come quello che sta nella vostra borsa o nella mia o di chiunque altro, e perfettamente malleabile. Se non
vi riuscissi, consideratemi pure un ipocrita e un incapace, anzi il peggiore che abbiate mai incontrato. Ho qui
una polvere che mi costa cara, ma fa riuscire bene ogni cosa: tutto dipende dalla mia destrezza, state a
vedere... Ah mandate via il vostro garzone e fatelo star fuori, chiudete bene la porta, mentre attendiamo
alle nostre faccende: nessuno deve spiarci, quando siamo all'opera con questa alchimia».
Detto fatto. Dopo aver mandato via il servo e chiusa la porta, i due si misero subito al lavoro.
Il prete, agli ordini di questo dannato canonico, messa ogni cosa al fuoco, si diede con gran lena a soffiare
sulla fiamma. Il canonico gettò una polvere nel crogiuolo (non so di che cosa fosse fatta, se di gesso, di
vetro o d'altro, ma certo non valeva una mosca, se non tanto da dare un po' d'illusione al prete) e gli ordinò
di sbrigarsi a disporre bene il carbone.
«E' segno che vi voglio bene» disse questo canonico «se voglio che con le vostre stesse mani facciate tutto
ciò che qui c'è da fare.»
«Io vi ringrazio!» disse il prete, tutto contento, mettendosi a disporre il carbone come voleva il canonico. E
mentr'egli era tutto indaffarato, questo diabolico miserabile, questo canonico ipocrita (se lo porti il
demonio laido!) si tolse dal seno un carbone di faggio, in cui molto abilmente era stato praticato un foro,
dentro il quale era stata deposta un'oncia di limatura d'argento; il foro era stato poi accuratamente tappato
con la cera in modo da trattenervi dentro la limatura. Voi capite che il trucco non sarebbe riuscito, se non
fosse stato in precedenza preparato, insieme ad altri di cui poi in seguito vi dirò. Predisposto l'imbroglio,
non rimaneva che attuarlo: nessuno avrebbe ormai fermato questo canonico, neanche a scorticarlo...
Ah, invece di parlar tanto, vorrei poter agire e far qualcosa contro la sua ipocrisia, ma non è possibile,
perché lui, scaltro com'è, sempre di qua o di là, non si fa mai trovare da nessuna parte.
Ma attenzione ora, signori, per amor di Dio! Preso il carbone di cui vi parlavo, egli se lo nascose in mano e,
mentre il prete, come vi ho detto, era ancora affaccendato a sistemare il fuoco, questo canonico disse:
«Amico, sbagliate. Non è sistemato come dovrebbe essere, ma ora ci penserò io... Lasciate che un po' lavori
anch'io: mi fate pena, per Sant'Egidio! Siete così accaldato; guardate come sudate. Tenete questo panno e
asciugatevi».
E mentre il prete s'asciugava il viso, il canonico prese con maledetta grazia il suo carbone e lo depose nel
bel mezzo del crogiuolo, mettendosi a soffiar forte finché non divampò il fuoco.
«Beviamo qualcosa ora» disse il canonico «riuscirà tutto presto e bene, vi assicuro; intanto sediamo e
stiamo allegri.»
Poco dopo, quando il carbone di faggio del canonico si fu consumato, tutta la limatura cadde dal foro giù
nel crogiuolo; né poteva esser altrimenti, è chiaro, essendo stato tutto predisposto. Ma, ahimè, il prete non
sapeva e non sospettava nulla, perché per lui tutti quei carboni erano uguali...
Al momento buono, l'alchimista disse: «Su alzatevi, messer prete, e state vicino a me... Oh, m'accorgo
adesso che non avete stampi! Presto, correte fuori a prendermi un po' di gesso: se mi riesce, uno stampo ve
lo metterò insieme io; e portatemi anche un catino o una conca piena d'acqua, e poi vedrete come risulterà
e verrà bene la nostra impresa! Non vorrei però che, in mia assenza, aveste sfiducia o sospetto di me: sarà
meglio che da voi non m'allontani, ed esca e venga anch'io con voi».
In breve, aperta e chiusa la porta della camera, se ne uscirono tutti e due, portando con sé la chiave, e,
senza perdere tempo, furono ben presto di ritorno.
Ma perché tirarla avanti tutto il giorno? Preso il gesso, il canonico lo plasmò senz'altro a forma di stampo,
ma sentite come: si tolse dalla manica una piastrina d'argento (gli venga un accidente!) che non pesava più
di un'oncia, ed ecco che imbroglio combinò: il suo stampo lo formò senza esitare di lunghezza e larghezza
uguale alla piastrina, che poi, senza che il prete s'accorgesse di nulla, si nascose di nuovo nella manica; tolse
dal fuoco la sua roba e la versò allegramente nello stampo e, quando fu il momento, gettò tutto nel
recipiente dell'acqua, dicendo al prete: «Guardate un po' che cosa c'è qui; mettete dentro la mano e
cercate: dovrebbe esserci dell'argento...».
Diavolo d'inferno, che altro avrebbe dovuto esserci? Limatura di argento è pur sempre argento, perdio!
Quando il prete, dopo aver messo dentro la mano, tirò fuori una piastrina d'argento puro, fin nelle vene
provò contentezza: «Dio e sua Madre e tutti i Santi vi benedicano, messer canonico!» disse «e ch'io sia
invece maledetto, se non vi degnate d'insegnare anche a me questa nobile e sottile arte! Vi darò tutto
quello che posso...».
Disse il canonico: «Ebbene, proviamo ancora una volta. Voi fate attenzione e cercate d'impratichirvi, così
all'occorrenza un altro giorno, anche se non ci sono io, potrete esercitare da solo questa disciplina,
quest'ingegnosa scienza. Ecco, prendiamo un'altra oncia d'argento vivo, basta coi discorsi, e fate come
avete fatto prima con l'altro che ora è argento vero».
Il prete si mise al lavoro, cercando d'eseguire nel miglior modo possibile tutto ciò che questo canonico,
quest'uomo maledetto, gli aveva ordinato, e soffiava forte sul fuoco, sempre con la speranza di poter
attuare il proprio desiderio. Nel frattempo questo canonico, pronto a tutto pur d'ingannare il prete, prese
con un pretesto una canna vuota (sentite e fate attenzione!), in cima alla quale versò non più di un'oncia di
limatura d'argento, proprio come quella che prima aveva deposto nel carbone, e la tappò con un po' di cera
in modo che non ne scappasse neppure un granello. Poi, mentre il prete era ancora intento al suo lavoro,
questo canonico con la sua canna gli si avvicinò; sparse, come aveva fatto prima, la sua polvere (Dio, fa' che
il demonio se lo scortichi vivo, questo falso ipocrita!) e tenendo la canna abilmente truccata come sapete
sopra il crogiuolo, smosse i carboni finché la cera a contatto del fuoco si sciolse, come chiunque che non sia
balordo sa che succede, e tutto ciò ch'era dentro la canna uscì fuori e cadde dritto nel crogiuolo.
Eppure, buona gente, che ci volete fare? Pur trovandosi così di nuovo imbrogliato, quel prete, che
veramente accettava tutto per buono, fu così contento, ch'io non saprei in alcun modo descrivervi tanta
gioia e allegrezza. E voleva che il canonico se lo prendesse con sé con tutti i suoi beni.
«Ma via!» disse pronto il canonico «pur se sono povero, so ancora lavorare. Sapeste quante cose so ancora
fare... avete del rame in casa?»
«Sì, messere,» rispose il prete «credo che ce ne sia.»
«Altrimenti andatene a comprare un po', e fate presto. Su, buon messere, muovetevi, sbrigatevi!»
Quello andò e tornò col rame. Il canonico glielo prese di mano e ne pesò non più di un'oncia.
Ah, ma è troppo semplice la mia lingua, ministra dei miei pensieri, per esporre la doppiezza di questo
canonico, radice d'ogni perversione! In apparenza fa l'amico, ma è un demonio nel suo modo di agire e di
pensare. Sono stufo di parlar sempre della sua ipocrisia, ma bisogna che lo faccia, se non altro per mettere
in guardia la gente.
Mise dunque quella sua oncia di rame nel crogiuolo e subito depose questo sul fuoco, vi buttò un po' dì
polvere e raccomandò al prete di soffiare rimanendo ben curvo come prima... insomma, tutta la solita
burla! Ormai poteva menare quel prete per il naso come voleva. Alla fine versò il rame nello stampo,
depose il tutto nella conca d'acqua e vi cacciò dentro un braccio, nella cui manica (come vi ho già detto) lui
aveva una piastrina d'argento: molto abilmente la fece scivolar fuori, questa maledetta iena, e, senza che il
prete s'accorgesse dell'imbroglio, la lasciò sul fondo della conca; continuando poi a rimestare avanti e
indietro nell'acqua, riuscì, con straordinaria bravura, a pescare invece la lastrina di rame che subito
nascose, sempre senza che il prete sospettasse nulla.
Prese allora il prete per il petto e scherzando gli disse: «Giù, piegate la schiena, perdio, bisogna proprio che
vi rimproveri! Aiutatemi ora, come prima ho fatto io; mettete dentro la mano e cercate un po' anche voi». Il
prete in un attimo tirò su la piastrina d'argento.
A questo punto il canonico gli disse: «Andiamo, con queste tre piastrine che abbiamo ottenuto, da qualche
orefice per sapere se valgono qualcosa. Parola mia, non posso mica sapere di mia testa se siano d'argento
puro, e bisogna che ce ne accertiamo subito».
E così andarono da un orefice con queste tre piastrine, che vennero messe alla prova del fuoco e del
martello. Nessuno avrebbe potuto negarlo: erano veramente come avrebbero dovuto essere.
Chi ormai era più contento di quel balordo prete? Non vi fu mai più allegro uccello all'alba o usignolo a
maggio che avesse maggior voglia di cantare, né alcuna dama maggior desiderio di danzar carole o parlare
d'amore e frivolezze, né cavaliere in armi di compiere ardite imprese per guadagnarsi le grazie della sua
bella, di quanto ne avesse quel prete d'apprendere la disgraziata arte. Si rivolse al canonico e gli disse: «Per
l'amore di Dio che morì per tutti noi, se anch'io conto per voi qualcosa, quanto costa la vostra formula? Ora
ditemelo!».
«Per la Madonna,» rispose il canonico «è cara, vi avverto, perché in Inghilterra, all'infuori di me e di un
certo frate, non c'è nessuno che sappia prepararla.»
«Non importa» soggiunse l'altro «dunque, messere, per amor di Dio, quanto devo pagare? Vi prego,
ditemelo!»
«E va bene» fece costui «è carissima, vi dico... Insomma, messere, se la volete, quaranta sterline dovete
pagare, e che Dio mi salvi; se infatti non fosse per l'amicizia che m'avete prima dimostrato, dovreste pagare
molto di più, vi assicuro.»
Il prete andò subito a prendere la somma di quaranta sterline in oro sonante, e le diede al canonico per
quella sua formula ch'era tutta un imbroglio e una frode!
«Messer prete,» gli disse ancora costui «quel che vi raccomando è che non largheggiate troppo con la mia
arte: preferirei che rimanesse segreta. Appena la gente venisse a sapere di tutti questi miei poteri, sarebbe,
perdio, così invidiosa della mia scienza, da farmi ammazzare, non c'è scampo.»
«Dio non voglia!» fece il prete. «Ma che dite? Preferirei rimetterci quanto possiedo o altrimenti impazzire,
se mai vi dovesse capitare una disgrazia simile.»
«Bontà vostra, messere, possiate farne buona riuscita» disse il canonico «ed ora addio, molte grazie!»
E se ne andò per la sua strada, senza farsi mai più vedere dal prete. Quando poi costui volle a sua volta
sperimentare la formula, addio, non riuscì a combinar nulla, e finì così beffato e truffato! Ecco come fu
introdotto all'arte di portar la gente alla perdizione!
Signori miei, pensate, c'è in ciascuno strato sociale un tale accanimento fra uomini e oro, che di questo
ormai non se ne trova quasi più da nessuna parte. L'idea poi di riprodurlo ne ha accecati tanti, ch'io credo
sia proprio questa la maggior causa di tanta penuria. E così nebulosamente parlano gli alchimisti della loro
arte, che, per quanto cervello abbia la gente d'oggigiorno, nessuno può sperare di capirli: cianciano sempre
come taccole, come se le parole fossero la loro unica gioia e preoccupazione, senza mai arrivare a nulla. E'
facile, per chi possegga qualcosa, imparare l'alchimia e ridursi poi così in miseria!
Ecco che guadagno c'è in questo bel gioco: la gioia si tramuta in disperazione, le borse per quanto siano
grosse e pesanti si svuotano, e chi impresta denaro ricava poi maledizioni. Ah, che schifo e che vergogna!
Ma non possono proprio quanti si sono scottati abbandonare il fuoco? Dico a voi che lo maneggiate: è
meglio che smettiate, se non volete rimetterci tutto; meglio tardi che mai. Non riprendersi mai sarebbe
veramente troppo tardi! Intanto, per quanto vi affanniate a cercare, non scoprirete nulla. E' inutile avere
l'ardimento d'un baiardo (7) cieco che corre all'impazzata e non s'accorge del pericolo: per lui tanto vale
tener la strada quanto sbattere contro un sasso. Ecco, proprio così fate voi che alchemizzate! Ma se i vostri
occhi non riescono a vedere, cercate almeno che la vista non manchi alla vostra mente: per quanto teniate
sempre gli occhi aperti e spalancati, non guadagnerete mai nulla da quest'affare, anzi ci rimetterete sempre
quanto vi capiti fra le mani. Moderate il fuoco che brucia troppo; non v'immischiate più in quell'arte, dico,
altrimenti tutti i vostri risparmi sono bell'e andati.
A questo proposito, bisogna ch'io vi dica subito quel che insegnano gli alchimisti filosofi.
Ecco per esempio, quel che dice Arnaldo da Villanova nel suo "Rosarium" (8); dice testualmente così:
«Nessuno può decomporre il mercurio all'insaputa di suo fratello. (Chi veramente per primo affermò
questa cosa fu Ermete, (9) il padre degli alchimisti, il quale diceva: non muore drago senza che venga ucciso
anche suo fratello; dove "drago" sta per mercurio e per suo "fratello" lo zolfo, ambedue ricavati da "sol" e
"luna".) E perciò, attenti alle mie parole, nessuno s'affanni a perseguire quest'arte senza saper
comprendere l'animo e la lingua dei filosofi; stolto è chi agisce altrimenti, perché questa scienza e dottrina
è il segreto dei segreti, perdio!».
Vi fu anche un discepolo di Platone, il quale, come attesta il suo libro "Senioris",(10) si rivolse una volta al
suo maestro e in tutta franchezza gli fece questa domanda:
«Ditemi, qual è veramente il nome della pietra segreta?»
«Titanos» Platone pronto gli rispose.
«E questo che cos'è?» chiese il discepolo.
«Magnesia» rispose Platone.
«Va bene, messere, ma con ciò? E' sempre "ignotum per ignotius" (11)... Per favore, buon messere, che
significa magnesia?»
«Un'acqua composta di quattro elementi» disse Platone.
«Per favore, buon messere,» continuò l'altro «ditemi almeno da che fonte scaturisce...»
«Ah no,» fece Platone «questo mai! Ogni filosofo ha giurato di non rivelarlo a nessuno, né di scriverlo in
alcun modo su qualche libro. Si tratta infatti di qualcosa così grato e caro a Cristo, ch'egli non vuole sia
rivelato, se non là dove piaccia alla sua divinità d'ispirare l'uomo o per difendere chi a lui sia gradito; ecco,
questo è tutto.»
Ed io perciò così concludo: se neanche Iddio in cielo vuole che i filosofi rivelino come si possa giungere a
questa pietra, meglio, credo, sia lasciarla stare. Chi infatti si mette contro Dio per fare cosa avversa al suo
volere, non avrà sicuramente mai bene, pur se riuscisse a prolungare il termine della sua vita. E qui faccio
punto, perché il mio racconto è finito. Dio mandi ad ogni brav'uomo rimedio al proprio male!
Qui termina il Racconto del Garzone del Canonico.
Note del "Racconto del Garzone del Canonico".
Nota 1. A cinque miglia da Ospring, tappa fissa sulla strada per Canterbury.
Nota 2. Prima della Riforma, c'erano due categorie di canonici: canonici regolari, che appartenevano a un
ordine monastico e conducevano vita in comune, e canonici secolari, che vivevano fuori dal convento. A
quest'ultima categoria sembrerebbe appartenere anche questo tipo che, come si vedrà, fa l'alchimista.
(*). Il "Racconto del Garzone del Canonico" viene generalmente assegnato al periodo più tardo dei
"Canterbury Tales". Non se ne conosce alcuna fonte precisa. Qualcuno ha suggerito che si tratti dello sfogo
dei risentimento personale del poeta contro qualche alchimista imbroglione. L'episodio, tuttavia, doveva
essere piuttosto corrente.
Nota 3. Terra argillosa d'Armenia, molto appiccicaticcia.
Nota 4. Così detto, perché raccolto presso il tempio di Giove Ammone in Libia.
Nota 5. Quest'apostrofe sarebbe rivolta ai canonici della King's Chapel di Windsor, ai quali il Chaucer stesso
avrebbe per la prima volta letto il racconto.
Nota 6. L'ufficio del prete cantore era unicamente quello di cantar messe di suffragio per i defunti.
Nota 7. «Baiardo» era sinonimo di cavallo.
Nota 8. Arnaldo da Villanova (circa 1235-1314), autore d'un trattato sull'alchimia intitolato "Rosarium
Philosophorum".
Nota 9. Ermete Trismegisto, il dio egiziano Thot, così chiamato dai Greci; gli furono attribuiti i "Libri
Ermetici", scritti mistici neopitagorici del terzo secolo.
Nota 10. "Senioris Zadith Tabula Chimica" è opera del filosofo arabo Muhammad ibn Umail, detto Al-Sadik,
il veritiero.
Nota 11. La pretesa di voler dimostrare una cosa che ci è ignota, per mezzo di un'altra ancora più ignota.
Frammento Nono.
Prologo
DELL'ECONOMO.
Qui segue il Prologo al Racconto dell'Economo.
Sapete dove sorge quel piccolo borgo che si chiama Bop-up-and-down, (1) vicino al bosco di Blean sulla
strada per Canterbury? Ebbene, là il nostro Oste, volendo un po' scherzare e burlare, disse: «Signori, pronti!
Baio è nel pantano! (2) Non c'è nessuno che, per piacere o a pagamento, voglia svegliare quel nostro amico
rimasto indietro? I ladri potrebbero legarlo e portarselo via. Guardate come pisola! Guardate, ossa di gallo,
fra poco casca da quel ronzino! E forse per disgrazia il Cuoco di Londra? Che venga avanti, ormai conosce la
penitenza e, parola mia, bisogna che anche lui ci narri il suo racconto, pur se non vale un pugno d'erba
secca... Ehi, cuoco, svegliati! Dio ti mandi un accidente, che ti succede per dormire già di mattina? Hai avuto
le pulci stanotte o ti sei ubriacato o hai montato tutta la notte qualche regina, che non puoi tener su la
testa?»,
Il Cuoco, ch'era pallidissimo, senza un minimo di colore, rispose: «Dio mi benedica l'anima, m'è venuta
addosso una tale pesantezza, non so perché... darei un gallone del miglior vino di Cheapside, se potessi un
po' dormire».
«Ebbene» fece l'Economo «se ti può far piacere, messer Cuoco, sempre che nessuno della compagnia si
offenda e il nostro cortese Oste sia d'accordo, io per ora ti dispenserei dal tuo racconto. La tua faccia,
parola mia, è molto pallida, i tuoi occhi mi sembrano annebbiati e sento che ti puzza schifosamente il fiato:
si vede che non stai bene. Da me, però, non aspettarti complimenti... Guardate come sbadiglia,
quest'ubriacone! Come volesse ingoiarci tutti in una volta... Ehi, chiudi quella bocca, per la stirpe di tuo
padre! Ci sta dentro un piede del demonio dell'inferno! C'infetti tutti quanti con quel tuo dannato fiato!
Puh, fetente porco! Puh, ti venga un accidente! Ah, signori miei, alla larga da questo sporcaccione!... Dico,
signorino, vuoi mica correre la quintana? (3) Saresti proprio nelle condizioni adatte! Scommetto che sei già
arrivato al vino della scimmia, (4) e non ti resta che ruzzare nella paglia...»
A tali discorsi, il Cuoco si risentì e s'infuriò e, non essendo in grado di parlare, prese ad agitarsi così
violentemente contro l'Economo, che cadendo da cavallo andò a sbattere a terra, da dove bisognò
risollevarlo. Bella impresa cavalleresca per un cuoco! Ahimè, non avrebbe saputo reggere neppure il
mestolo! E prima di rimetterlo in sella, spingi di qua e tira di là, ce ne volle per rialzare quel pesante
disgraziato, che a vederlo, pareva un fantasma...
A questo punto il nostro Oste disse: «Quest'uomo, per la mia anima, è ormai dominato dal bere, e non
credo che sia in grado di mettersi a raccontare. Che abbia trincato vino, birra stagionata o nuova, certo ora
è lì che parla nel naso e stronfia ed ha pure il catarro... Con quella sua rozza, ha già il suo da fare a tenersi
fuori dal pantano; se poi cade ancora di sella, saremo noi ad avere tutti il nostro da fare per tirar su di
nuovo la sua pesante carcassa d'ubriacone... Va' pure avanti tu col tuo racconto; lui è meglio lasciarlo stare.
Però anche tu, Economo, parola mia, sei stato un balordo a rinfacciargli così il suo vizio. Un'altra volta
magari è lui che t'acchiappa e ti mette nel sacco; voglio dire che potrebbe parlare di tante cosette e
insinuare che i tuoi conti non risulterebbero onesti se sottoposti a revisione...».
«Certo» disse l'Economo «sarebbe una gran disgrazia! Così facendo potrebbe benissimo rovinarmi.
Preferirei pagargli subito la cavalla che sta montando, che attaccar briga con lui. Mi venga un po' di bene,
non volevo farlo arrabbiare. Quel che ho detto, l'ho detto scherzando... sapete una cosa? Ho qui dentro in
una zucca un po' di vino, ma di quello d'uva buona, ed ora vedrete che bel divertimento. Se permettete,
vorrei offrirlo al Cuoco: scommetto la vita che non mi dirà di no!»
E infatti, per dirvi come andarono le cose, il Cuoco, ahimè, proprio s'azzuffò su quel boccale. Che bisogno
c'era? Aveva già bevuto tanto... E quand'ebbe ben lappato dal corno, riconsegnò la zucca all'Economo,
sentendosi magnificamente bene dopo quella bevuta e pieno di riconoscenza...
Allora il nostro Oste scoppiò rumorosamente a ridere, e disse: «Ben vedo quanto sia necessario, dovunque
andiamo, portare con noi del buon bere, perché questo trasforma il rancore e l'ira in affetto ed armonia,
rimediando a parecchi torti... O Bacco, benedetto sia il tuo nome, che sai trasformare la tristezza in gioia!
Onori e grazie siano resi alla tua divinità!... Ma è meglio ch'io la smetta. Prosegui tu col tuo racconto,
Economo, ti prego».
«Bene, messere,» disse quello «ecco, ascoltate.»
RACCONTO DELL'ECONOMO (*).
Qui comincia il Racconto dell'Economo sul Corvo.
Quando Febo abitava quaggiù su questa terra, come testimoniano certi antichi libri, egli era il più gagliardo
baccelliere del mondo ed anche il miglior arciere. Uccise il serpente Pitone, (5) mentre costui un giorno se
ne dormiva al sole, e sta scritto che col suo arco compì parecchie altre nobili imprese...
Sapeva suonare qualsiasi strumento e cantare così bene, ch'era un piacere sentire il chiaro e melodioso
accento della sua voce. Certo Anfione, il re di Tebe che pure innalzò col canto le mura della sua città, non
valeva neppure la metà di lui (6)...
Oltre a ciò, egli era il più bell'uomo che sia o fosse mai esistito al mondo. C'è bisogno ch'io vi descriva le sue
fattezze? Più bello di lui non è mai vissuto nessuno su questa terra! E poi colmo di nobiltà, d'onore, di
perfetta dignità...
Narra la storia che questo Febo, fiore di liberalità e cavalleria fra tutti i baccellieri, sia per suo piacere che in
segno della sua vittoria su Pitone, portava sempre un arco in mano.
Ora questo Febo aveva in casa un corvo, che per parecchi giorni aveva tenuto in gabbia insegnandogli a
parlare, come s'insegna a una gazza. Questo corvo, bianco come un cigno color neve, sapeva perciò imitare
la voce di chiunque dovesse raccontar qualcosa. E non c'era davvero al mondo usignolo che sapesse,
neanche per una centomillesima parte, cantar altrettanto bene e allegramente.
Questo Febo aveva in casa anche una moglie, e l'amava più della vita, e faceva notte e giorno quanto
poteva per compiacerla e riverirla, senonché, essendo a dire il vero un po' geloso, avrebbe voluto sempre
sorvegliarla, per timore d'esser tradito... Succede spesso, ma è inutile, non vale niente. Una brava moglie,
che sia pura d'atti e di pensieri, non andrebbe certo tenuta sotto scorta; e ad ogni modo sarebbe vana
fatica sorvegliarne una disonesta, perché intanto non servirebbe. Credo, insomma, che sia una vera
sciocchezza sprecar fatica a sorvegliar le mogli: così scrivono anche gli antichi dotti nelle loro storie...
Ma torniamo al punto da cui eravamo partiti. Questo valente Febo faceva dunque quanto poteva per
compiacere la sua donna, credendo che per questa sua compiacenza, come per la sua virilità e gagliardia,
nessun altro l'avrebbe mai soppiantato nelle grazie di lei. Ma Dio sa che nessuno può tener stretto per sé
qualcosa che la natura ha spontaneamente posto in un altro essere...
Prendi un qualsiasi uccello e mettilo in gabbia, e cerca con ogni cura e attenzione di provvedergli
teneramente da mangiare e da bere, qualsiasi leccornia a cui tu possa pensare, e tienilo più pulito che puoi:
quand'anche la sua gabbia d'oro fosse la più bella mai esistita, quest'uccello preferirebbe ventimila volte di
più andare in una foresta selvaggia e fredda, a mangiare vermi ed altre porcherie. E finché potrà,
quest'uccello cercherà sempre di fuggire dalla gabbia... quel che conta per lui è la propria libertà!
Prendiamo un gatto, manteniamolo bene a latte e a carne tenera, facciamogli una cuccetta di seta, e
mostriamogli poi un topo che cammina lungo la parete: ecco che subito pianta latte e carne e tutto,
qualsiasi leccornia sia in casa, per la gran voglia di mangiare un topo... Una volta eccitato il desiderio,
l'appetito perde ogni discrezione!
Anche la lupa è per natura di costumi vili: è capace di prendersi il più rozzo lupo che possa mai trovare o
quello di minor reputazione, nella stagione che ha voglia di un maschio!
Tutti questi esempi li cito più per gli uomini che sono infedeli, che per le donne. Sono gli uomini, infatti, che
sempre hanno il lascivo appetito di sfogare in basso il piacer loro, piuttosto che con le loro mogli, per
quanto queste non siano mai state più belle, più oneste o più accoglienti. La carne è così vogliosa di novità,
maledizione, che mai riusciamo a trovar piacere che s'accordi con la virtù!
In questo caso tuttavia era Febo che, senz'aver mai pensato a infedeltà, veniva tradito, pur con tutta la sua
prestanza. A sua insaputa, infatti, lei aveva un altro uomo, un uomo da poco, indegno d'esser paragonato
con Febo. Il guaio è che ciò succede spesso, pur con tutte le disgrazie e i dispiaceri che ne derivano...
Così, ogni volta che Febo s'assentava, sua moglie mandava subito a chiamare il suo amante... il suo
amante? Uh, che brutta parola! Scusatemi, vi prego...
Il saggio Platone, però, dice (come tutti possono leggere) che le parole devono accordarsi ai fatti; che in un
discorso appropriato, la parola deve imparentarsi con la cosa. Io sono una persona rude e vi dico che per
me non esiste alcuna differenza fra una nobildonna che del corpo sia disonesta e una povera ragazza, se
non questa (posto che tutte e due si comportino male): che la nobildonna, di condizione superiore, è per
l'uomo la sua dama, mentre l'altra, essendo povera, viene chiamata la sua amante o la sua concubina.
Eppure Dio sa, mio caro fratello, che sia l'una che l'altra si fan metter sotto nello stesso modo!
Così per me, come un tempo fu detto ad Alessandro, (7) non esiste alcuna differenza fra un tiranno
usurpatore e un fuorilegge o un ladro vagabondo; senonché, siccome il tiranno ha maggior potenza, con la
forza delle sue masnade, di seminar morte e d'incendiar case e abitazioni, radendo tutto al suolo, ecco che
a lui viene dato il nome di condottiero; mentre, siccome il fuorilegge non ha che una piccola masnada e non
può recare al paese altrettanta sventura, la gente lo chiama appunto fuorilegge o ladro!
Ora però, siccome non m'intendo troppo di libri, non starò a portarvi altre citazioni; e, già che ho
cominciato, andrò avanti col mio racconto.
Quando dunque la moglie di Febo ebbe mandato a chiamare il suo amante, insieme si tolsero subito le loro
frivole voglie. Il corvo bianco, appeso nella sua gabbia, li guardò all'opera senza dir nulla. Ma appena Febo,
il padrone, tornò a casa, il corvo si mise a gracidare: «Cucù! cucù! cucù!».
«Ehi, uccello!» disse Febo «che canzone canti? Non sei tu che prima cantavi così allegramente, ch'era una
gioia per il mio cuore sentire la tua voce? Ahimè, che canzone è mai questa?»
«Perdio,» rispose l'uccello «non è ch'io non sappia più cantare ...» e proseguì: «Febo, pur con tutti i tuoi
meriti, con tutta la tua bellezza e nobiltà, con tutti i tuoi canti, le tue musiche e le tue attenzioni, c'è uno
che t'annebbia gli occhi, uno di poco conto, indegno di te, uno che al tuo confronto vale quanto un
pidocchio... Eppure io l'ho visto a letto montare tua moglie!».
Che altro volete? Il corvo gli raccontò subito, con gravi segni e parole franche, come la moglie avesse
soddisfatto la propria lussuria, a gran vergogna e scorno di lui, ripetendogli d'aver visto tutto coi propri
occhi.
Febo vacillò, credette che il cuore gli si spezzasse in due. Piegò l'arco, vi depose una freccia e, vinto dall'ira,
ammazzò sua moglie. Ecco la conclusione, non c'è altro da dire.
Preso poi dal rimorso, spaccò i suoi strumenti, arpa e liuto e cetra e saltarello, e spaccò anche le frecce e
l'arco; dopo di che, così si rivolse al corvo: «Traditore» gli disse «lingua di scorpione, tu m'hai portato alla
rovina... Ah, non fossi mai nato! Perché non sono morto? O cara moglie, o gemma di piacevolezze, eri così
seria, così onesta, ed eccoti morta, col volto esangue, e senza alcuna colpa, lo giuro! O precipitosa mano,
commettere un così nefando errore! O mente confusa, o irragionevole ira, che colpisci sconsiderata chi è
innocente! O diffidenza, colma di falso sospetto, dov'erano il tuo lume e la tua discrezione? O uomini,
attenti all'irruenza! Non credete a nulla senza una sicura prova. Non colpite troppo presto, prima ancora di
sapere perché, e consigliatevi bene e saggiamente prima di passare furiosamente ai fatti per puro sospetto!
Ah, migliaia di persone sono state completamente rovinate dal loro furore e trascinate nel fango! Ah,
m'ucciderò per il dolore!».
E rivolto al corvo continuò: «O ipocrita ladro, te la farò pagare per il tuo falso racconto! Una volta cantavi
come un usignolo, ma ora, ipocrita ladro, perderai la tua voce e le tue bianche penne, ad una ad una, e in
vita tua non potrai più parlare. Ecco come va trattato un traditore! D'ora in avanti tu e la tua discendenza
diverrete per sempre neri, né saprete produrre alcun dolce suono, ma andrete per sempre gracchiando
sotto la pioggia e nella tempesta, ricordando a tutti che per colpa tua la mia donna è morta!».
E si scagliò contro il corvo, e gli strappò tutte le bianche penne ad una ad una, e lo fece nero, e lo privò del
canto e della parola, scaraventandolo fuori della porta al demonio che se lo prendesse... Ecco perché
ancora oggi i corvi sono tutti neri!
Vi prego, signori, imparate da questo esempio e state attenti prima di parlare. In vita vostra non dite mai a
un uomo che un altro è stato con sua moglie, perché v'odierebbe a morte. Anche messer Salomone, come
dicono saggiamente i dotti, insegna che bisogna trattener la lingua... Ma, come ho detto, di libri non me ne
intendo. Eccovi, invece, che cosa m'ha insegnato la mia vecchia:
«Figlio mio, pensa, in nome di Dio, al corvo! Trattieni la lingua, figlio mio, e tratterrai l'amico. Una mala
lingua è peggio d'un demonio, figlio mio, perché contro un demonio si può almeno esser benedetti... Figlio
mio, nella sua infinita bontà Dio ha murato la lingua fra denti e labbra, perché uno ci pensi prima di parlare.
Figlio mio, insegnano i dotti che spesso la gente per troppo parlare si rovina, ma in genere nessuno s'è mai
rovinato per parlar poco e saggiamente. Figlio mio, devi sempre frenare la lingua, a meno che tu non ti dia
pena di rendere onore a Dio nella preghiera. Se dunque vuoi imparare, figlio, la prima virtù è di trattenere e
moderare la lingua: lo sanno anche i bambini! Figlio mio, da parlar molto e sconsideratamente, quando
basterebbe parlar poco, derivano parecchi guai: così m'è stato detto e insegnato. In troppo parlare si
nasconde il peccato. Sai a che serve una lingua sciolta? Come una spada taglia e spezza in due un braccio,
figlio mio caro, così una lingua spacca in due l'amicizia. A Dio non è gradito chi parla troppo. Leggi
Salomone, così saggio e ammirevole; leggi Davide nei suoi salmi e leggi Seneca... Figlio mio, non parlare
quando basta un cenno del capo, e fa' finta d'esser sordo quando senti discorsi scabrosi. I fiamminghi
dicono, e tu per piacere impara, che parlar poco fa riposare! Figlio mio, male non dire e paura non avere;
ma certo, una volta che hai detto, non puoi più ritirare la parola. Quel che è detto è detto, e se ne va: è
inutile pentirsene, godere o rammaricarsi. Così uno diventa schiavo di colui al quale ha detto qualcosa di cui
poi si pente. Figlio mio, non essere il primo a spargere notizie, siano esse vere o false. Dovunque tu capiti,
fra altolocati o umili, trattieni, mi raccomando, la lingua... e ricordati del corvo!»
Qui termina il Racconto dell'Economo sul Corvo.
Note del "Racconto dell'Economo".
Nota 1. Di solito identificato con l'odierno Harbledown.
Nota 2. Allusione ad un gioco campestre, nel quale al segnale: «Baio è nel pantano!» («baio» era sinonimo
di «cavallo»), i partecipanti dovevano tentare di sollevare un pesante ceppo.
Nota 3. La quintana, com'è noto, era una figura girevole su se stessa, di legno, con uno scudo, che i cavalieri
cercavano di colpire correndo in uno steccato.
Nota 4. Secondo un'antica tradizione, l'uomo che s'ubriaca passa attraverso diverse fasi: dapprima si sente
agnello poi leone, poi scimmia ed infine maiale.
(*). Il "Racconto dell'Economo", che ha per tema la favola dell'uccello ciarliero, originata in Oriente e diffusa
poi in Europa, deriva direttamente dalle "Metamorfosi" di Ovidio (II, 531- 632). La sua data di composizione
è incerta, ma si tende a collocarlo fra le prime composizioni della serie di Canterbury.
Nota 5. Apollo fu detto anche Pizio per l'uccisione del serpente Pitone a Delfi, poi sede di un oracolo.
nota 6. La leggenda del mitico re che costruì col canto le mura di Tebe era molto comune al tempo di
Chaucer (confer il "Racconto del Mercante").
Nota 7. Alessandro il Grande.
Frammento Decimo.
Prologo
DEL PARROCO.
Qui segue il Prologo al Racconto del Parroco.
Quando l'Economo ebbe terminato il suo racconto, il sole declinando dalla linea del sud era sceso talmente
in basso, che, così ad occhio, pareva a non più di ventinove gradi d'altitudine. Saranno state le quattro:
infatti la mia ombra là in quel momento misurava sì e no undici piedi, calcolandone per la mia altezza sei
d'uguale proporzione. E l'esaltazione lunare, ossia la Libra, incominciò a salire proprio mentre noi stavamo
entrando dal fondo d'un villaggio.
Il nostro Oste, che a questo punto s'era perfettamente abituato a far da guida all'allegra compagnia, disse:
«Signori miei, ormai non ci manca che un racconto. Ho finito di promulgar sentenze e decreti; credo proprio
che n'abbiamo sentite d'ogni sorta; il mio mandato sta quasi per spirare. A chi dunque ci narra
piacevolmente questo racconto Dio ne renda merito!». E proseguì: «Messer prete, siete un vicario oppure
un parroco? In fede vostra, dite la verità! E chiunque siate, non interrompete il gioco, ora che tutti
all'infuori di voi han narrato il loro racconto. Via, aprite il sacco e mostrateci quel che c'è dentro!
Veramente, così a vedervi, mi sa che potreste tessere insieme un gran bel discorso. Raccontateci dunque
una favola, ossa di gallo!».
Il Parroco prontamente replicò: «No, favole da me non ne sentirete: Paolo scrivendo a Timoteo, rimprovera
coloro che s'allontanano dal vero narrando appunto favole e sciocchezze simili. Perché dovrei seminar
loglio con le mie mani, quando, volendo, posso seminar grano? Ecco perciò, se volete ascoltar argomenti
morali e virtuosi e metterli poi in pratica, sarò ben lieto, in onore a Cristo, d'accontentarvi come meglio
posso. Badate, però, che io sono del meridione: non me ne intendo di "rum, ram, ruf" (1) e allitterazioni,
né, Dio mi perdoni, ritengo che la rima sia migliore. Se perciò vi pare, vi narrerò senza perder tempo un bel
racconto in prosa così da concludere tutta questa festa e dare ad essa un finale. Gesù con la sua grazia mi
dia la capacità d'indicarvi in questo viaggio la via a quel pellegrinaggio perfetto e glorioso che è la
Gerusalemme celeste. Ecco, se permettete, incomincio subito, voi poi giudicherete: meglio di così non so
come dire. Naturalmente questa mia meditazione va sempre sottoposta al giudizio dei dotti, perché non è
che di testi io me ne intenda molto: a me non interessa che il senso generale, vi avverto. Per il resto son
sempre pronto ad accettar correzioni».
A questa proposta acconsentimmo subito, perché ci sembrò giusto che si dovesse terminare con qualche
motivo virtuoso prestando a lui ascolto e attenzione. E invitammo il nostro Oste a dirgli che tutti lo
pregavamo di narrarci il suo racconto.
Il nostro Oste trovò per noi tutti le parole: «Messer prete,» disse «buona fortuna a voi dunque! Diteci pure
la vostra meditazione. Ma affrettatevi: il sole volge al tramonto. Siate succoso e breve, e Dio vi mandi la
grazia di riuscir bene. Parlateci di tutto quello che volete. Noi siamo ben lieti d'ascoltarvi».
Ciò detto, l'altro attaccò in questo modo.
EXPLICIT PROHEMIUM.
RACCONTO DEL PARROCO (*).
Qui comincia il Racconto del Parroco.
«"Jeremias, VI: State super vias, et videle, et interrogate de viis antiquis que sit via bona, et ambulate in ea;
et invenietis refrigerium animabus vestris"...» Ecco come il dolce Signor nostro Dio del cielo, non volendo
che alcun uomo perisca ma che noi tutti arriviamo alla sua conoscenza e alla beatitudine della vita eterna,
ci ammonisce per bocca del profeta Geremia, il quale appunto dice: «State sulle vie e vedete e chiedete di
vecchi sentieri (vale a dire di vecchi proverbi), quale sia la via buona, e incamminatevi per essa e troverete
riposo alle anime vostre...». Molte sono le vie spirituali che portano a nostro Signore Gesù Cristo e al regno
della gloria. Fra queste vie ve n'è una assai nobile e conveniente di cui non può fare a meno alcun uomo o
donna che col peccato si sia allontanato dal retto sentiero della Gerusalemme celeste: questa vi si chiama
penitenza; ed ognuno dovrebbe chiedersi volentieri, e di tutto cuore domandarsi, che cosa sia la penitenza,
perché si chiami penitenza, di quante maniere siano le azioni od opere di penitenza, quante specie di
penitenza vi siano, quali cose appartengano o s'addicano alla penitenza e quali invece turbino la penitenza.
Sant'Ambrogio dice che la penitenza è il lamento dell'uomo per la colpa commessa e il non commetter più
colpa di cui dover lamentarsi. C'è poi un dottore che dice: «La penitenza è il cordoglio di chi s'addolora per
il proprio peccato, torturandosi per aver agito male». La penitenza, in altre parole, è il pentimento sincero
dell'uomo che indugia nell'amarezza e in altre pene per le proprie colpe. Per essere infatti veramente
pentito, egli deve innanzi tutto dolersi dei peccati commessi, proponendosi fermamente in cuor suo di
farne aperta confessione ed espiazione, senza mai più commettere azione di cui si debba dolere o lagnare,
continuando invece nelle opere buone, altrimenti il suo pentimento non serve. Come infatti dice
Sant'Isidoro, «buffone e cialtrone e non veramente pentito è chi torna a far cosa di cui poi deve pentirsi». E'
inutile piangere, se non si smette di peccare. E tuttavia si deve sperare ogni volta che qualcuno cade, per
quanto ciò sia frequente, ch'egli possa ancora aver grazia di sollevarsi attraverso la penitenza, ma certo
questo non è facile, perché, come dice San Gregorio, «a stento si solleva dal peccato chi s'abbia meritato
l'accusa di cattiva abitudine». Coloro dunque che si pentono e smettono di peccare e abbandonano il
peccato prima che il peccato li abbandoni, la Santa Chiesa li considera sicuri della loro salvezza; chi invece
pecchi e soltanto all'ultimo si penta veramente, la Chiesa può soltanto sperare che col suo pentimento si
salvi, per intervento della grande misericordia di nostro Signore Gesù Cristo. Scegliete voi la via sicura!
Ed ora che vi ho spiegato che cosa sia la penitenza, dovete sapere che vi sono tre azioni di penitenza. La
prima è che un uomo, pur avendo peccato, è come tornasse a ricevere il battesimo. Sant'Agostino però
dice: «A meno che uno non si penta della vita passata nel peccato, non può incominciare una nuova vita in
purezza». Chi infatti venisse di nuovo battezzato, senza tuttavia pentirsi delle sue vecchie colpe, tornerebbe
sì a ricevere il segno del battesimo, ma né grazia né remissione di peccati finché non si pentisse veramente
[...]. Altro difetto è questo, che si commetta peccato mortale dopo aver ricevuto il battesimo. Il terzo
difetto è che dopo il battesimo s'incorra di giorno in giorno anche in peccati veniali. Sant'Agostino perciò
dice che la gente veramente buona ed umile dovrebbe far penitenza sempre.
Tre sono le specie di penitenza: una è pubblica, l'altra è comune e la terza è privata. La penitenza pubblica è
di due modi: uno consiste nell'esser scacciato di chiesa in quaresima per l'uccisione di bambini o cose simili;
l'altro si ha quando un uomo abbia peccato pubblicamente e di tal peccato corra pubblica voce per il paese,
e la Santa Chiesa allora lo costringa per decreto a far penitenza in pubblico. La penitenza comune è quella
che i sacerdoti infliggono in certi casi a più persone insieme, come sarebbe d'andar nudi e scalzi in
pellegrinaggio. La penitenza privata è quella che si sconta sempre per peccati privati, di cui siamo in segreto
assolti e riceviamo in segreto penitenza.
Or dovete sapere ciò che sia opportuno e necessario per una vera e perfetta penitenza. Questa si basa su
tre cose: contrizione del cuore, confessione della bocca e soddisfazione. Dice infatti San Giovanni
Crisostomo: «La penitenza porta l'uomo ad accettare benignamente qualsiasi pena gli sia inflitta, con
contrizione del cuore, con confessione della bocca e con soddisfazione ed ogni umiltà nell'operare». E tale
penitenza vale contro tre cose nelle quali provochiamo l'ira di nostro Signore Gesù Cristo: cioè contro la
malizia del pensiero, l'incontinenza delle parole e la malvagia peccaminosità delle opere. Contro queste tre
inique colpe sta la penitenza, la quale potrebbe paragonarsi a un albero.
La radice di quest'albero è la contrizione, che si nasconde nel cuore di chi veramente è pentito, proprio
come la radice d'un albero si nasconde nel terreno. Dalla radice della contrizione spunta un tronco che
porta i rami e le foglie della confessione e i frutti della soddisfazione. Cristo dice nel vangelo: «Fate degno
frutto di penitenza»; perché è dal frutto che si può riconoscere l'albero, non dalla radice che si nasconde
nel cuore dell'uomo, né dai rami o dalle foglie della confessione. Ecco perché nostro Signore Gesù Cristo
dice ancora: «Dai loro frutti li conoscerete». Dalla radice inoltre spunta una semenza di grazia, la quale
semenza è madre di certezza, e tale semenza è agra e calda. La grazia di tale semenza sgorga da Dio
attraverso il ricordo del giorno del giudizio e delle pene infernali. A questo proposito dice Salomone che nel
timore di Dio l'uomo abbandona il suo peccato. Il calore di questa semenza è l'amore di Dio e il desiderio
della gioia eterna. Questo calore attira a Dio il cuore dell'uomo, e gli fa odiare il suo peccato. Veramente
non c'è nulla che piaccia tanto a un bambino quanto il latte della sua nutrice, ma nulla è per lui più
ripugnante di quello stesso latte frammisto ad altro cibo: così al peccatore che ami il suo peccato questo gli
appare più dolce d'ogni altra cosa, ma dal momento che ami seriamente nostro Signore Gesù Cristo e
desideri la vita eterna, non c'è per lui nulla di più abominevole. In realtà la legge di Dio equivale all'amore di
Dio; e perciò il profeta Davide dice: «Ho amato la tua legge, e odiato malvagità e odio»; chi ama Dio osserva
la sua legge e la sua parola. Il profeta Daniele vide in spirito quest'albero, nella visione di re
Nabucodonosor, quando gli consigliò di far penitenza. La penitenza è l'albero della vita per coloro che la
ricevono, e chi si attiene alla vera penitenza è benedetto, secondo il detto di Salomone.
In questa penitenza o contrizione ci sono da intendere quattro cose: cioè, in che consista la contrizione,
quali siano le cause che spingono un uomo alla contrizione, in che modo egli debba essere contrito e che
giovi all'anima la contrizione. Ecco: la contrizione è il sincero dolore che si prova al cuore per i propri
peccati, col serio proposito di confessarsi, di far penitenza e di non peccare mai più. Tale dolore deve essere
proprio come dice San Bernardo: «Deve essere intenso, aspro, acuto e pungente al cuore». Innanzi tutto
perché l'uomo si è reso colpevole verso il suo Signore e il suo Creatore; e più acuto e pungente, perché si è
reso colpevole verso il suo Padre Celeste; e ancora più acuto e pungente, perché ha ingiuriato e offeso chi
l'ha redento, liberandoci tutti col suo sangue dai vincoli del peccato, dalla crudeltà del demonio e dalle
pene dell'inferno.
Le cause che dovrebbero spingere un uomo alla contrizione sono sei. Innanzi tutto un uomo deve ricordarsi
dei propri peccati: badi, però, a non provare compiacimento per tale ricordo, ma anzi vergogna e dolore per
la propria colpa. Giobbe dice: «I peccatori commettono azioni che meritano obbrobrio». E dice Ezechiele:
«Ricorderò tutti gli anni della mia vita in amarezza di cuore». E Dio nell'Apocalisse dice: «Ricordatevi da
dove siete caduti!». Prima di peccare, infatti, voi eravate figli di Dio e membri del regno di Dio, ma col
peccato siete diventati schiavi, immondi, soci del demonio, odio degli angeli, scandalo della Santa Chiesa,
cibo del serpente ingannatore e perpetuo alimento del fuoco infernale; tanto più immondi e abominevoli,
perché spesso peccando avete fatto come il cane che torna a cibarsi della propria lordura; ma peggio
ancora, perché perdurando nel peccato e nell'abitudine peccaminosa, in essi marcite come una bestia nel
proprio letame. Tali pensieri fanno provare vergogna per il peccato, e non compiacimento, onde Dio per
bocca del profeta Ezechiele dice: «Ricordatevi delle vostre vie ed esse vi dispiaceranno!». I peccati infatti
sono le vie che conducono all'inferno.
La seconda causa che dovrebbe indurre un uomo ad aver disgusto dei peccato è che, come dice San Pietro,
«chiunque pecchi è schiavo dei peccato» e il peccato mette in grande schiavitù l'uomo. Dice il profeta
Ezechiele: «Me ne andai triste col disgusto di me stesso». Certo, un uomo dovrebbe sempre aver disgusto
del peccato e ribellarsi a quella schiavitù e a quel vituperio. Sapete che cosa dice Seneca a questo
proposito? Dice: «Se anche fossi certo che né Dio né gli uomini verrebbero mai a scoprirlo, pure avrei
disgusto di commettere peccato». E dice ancora lo stesso Seneca: «A maggiori cose son nato che ad esser
schiavo del mio corpo e rendere il mio corpo schiavo». Nessun uomo o donna può rendere il proprio corpo
schiavo più immondo se lo dà in preda al peccato! Quand'anche si trattasse del più turpe briccone o della
femmina più turpe e di minor valore che fosse mai vissuta, pure diventerebbe allora ancor più turpe e
schiavo. Quanto più alto è il grado da cui uno cade, tanto più è schiavo, tanto più è vile e abominevole sia a
Dio che al mondo. O buon Dio, che disgusto dovrebbe provare l'uomo per il peccato, se col peccato da
libero qual era ora è diventato prigioniero! Sant'Agostino dice: «Se ti sdegni quando il tuo servo è in colpa o
peccato, sdegnati allora di peccare tu stesso». Tieni conto del tuo valore e non essere irriverente con te
stesso. Ah, che disgusto dovrebbero avere di diventar servi e schiavi del peccato, che vergogna dovrebbero
provare, coloro che Dio nella sua infinita bontà ha posto in elevata posizione o ai quali ha dato intelligenza,
vigore, salute, bellezza e prosperità, riscattandoli dalla morte col sangue del suo cuore! Essi, invece, lo
ripagano così scortesemente e così villanamente per la sua gentilezza, da lasciar morire le loro stesse
anime. O buon Dio! voi donne che avete tanta bellezza ricordatevi del proverbio di Salomone. Egli dice:
«Una bella donna che si serva del proprio corpo senza giudizio è come un anello d'oro nel grugno d'una
scrofa». Come infatti una scrofa grufola in ogni lordume, così quella razzola con la propria bellezza nel
lordume fetido del peccato.
La terza causa che dovrebbe indurre un uomo alla contrizione è il timore del giorno del giudizio e delle
orribili pene dell'inferno. San Gerolamo dice: «Tremo ogni volta che penso al giorno del giudizio: ch'io
mangi o beva o qualunque altra cosa io faccia, mi sembra sempre che risuoni al mio orecchio la tromba:
"Sorgete, voi che siete morti, e venite al giudizio!"». O buon Dio, quanto bisognerebbe temere questo
giudizio, «dove tutti saremo» come dice San Paolo «davanti al trono di nostro Signore Gesù Cristo» ed egli
terrà un'assemblea dalla quale nessuno potrà essere assente! Non ci potranno essere né scuse né
giustificazioni! E non verranno soltanto giudicati i nostri difetti, ma verranno rese pubblicamente note tutte
le nostre opere. E, come dice San Bernardo, «non ci sarà difesa né astuzia che serva: noi dovremo dar conto
perfino d'ogni vana parola». Là avremo un giudice che non potrà essere né corrotto né ingannato. Sapete
perché? Perché a lui saranno noti anche tutti i nostri pensieri, ed egli non si lascerà certo sedurre da doni o
preghiere. Onde Salomone dice: «L'ira di Dio non risparmierà nessuno, nonostante le preghiere e i doni»; e
perciò, nel giorno del giudizio, non ci sarà speranza alcuna di sfuggire. Come infatti dice Sant'Anselmo: «I
peccatori allora proveranno un'angoscia grandissima: in alto starà il severo e irato giudice seduto, e sotto di
lui l'orribile pozza dell'inferno, pronta ad inghiottire chi dovrà riconoscere i propri peccati, peccati che
saranno apertamente messi in mostra davanti a Dio e ad ogni creatura; alla sinistra, più diavoli di quanti la
mente possa immaginare, pronti a spingere o a trascinare le anime peccatrici alle pene dell'inferno; e
dentro il cuore della gente ci sarà rimorso di coscienza, mentre fuori il mondo intero starà bruciando. Dove
fuggirà allora a nascondersi il miserabile peccatore? Non potrà nascondersi di certo, ma dovrà farsi avanti e
lasciarsi vedere». Come infatti dice San Gerolamo: «La terra lo caccerà fuori, e così il mare, ed anche l'aria
sarà piena di tuoni e lampi». Ora, se veramente uno pensasse bene a queste cose, credo che per lui il
peccato non sarebbe un piacere, ma un grande tormento, derivante appunto dal timore delle pene
dell'inferno. Giobbe perciò dice a Dio: «Concedi, o Signore, ch'io pianga e mi lamenti un poco, prima
d'andare nell'oscura terra senza ritorno, coperta dal buio della morte, nella terra della miseria e
dell'oscurità, dove è l'ombra della morte, dove non c'è ordine né ordinamento, ma terrore cieco che dura in
eterno». Ecco, vedete, perfino Giobbe invocò un po' di tempo per poter piangere e lamentare il proprio
trapasso. Un giorno di tempo può valere più di tutti i tesori del mondo! Per abilitarsi di fronte a Dio, infatti,
a questo mondo non sono i tesori che contano, ma la penitenza: perciò anche noi dovremmo pregare Iddio
di darci tempo per piangere e lamentare il nostro trapasso. In verità tutto il dolore che l'uomo possa aver
provato da che mondo è mondo, è ben poca cosa a confronto con le pene dell'inferno. Ecco perché Giobbe
chiama l'inferno «terra dell'oscurità»: lo chiama «terra» ossia creta, perché esso è solido e sconfinato,
«dell'oscurità», perché chi è all'inferno manca materialmente di luce. Infatti la fosca luce che emana da
quel fuoco sempre acceso serve ad avviare il peccatore alla sua pena, rivelandolo agli orribili diavoli che lo
tormentano. «Coperta dal buio della morte» significa che chi è all'inferno è privo della visione di Dio, quella
visione di Dio che invece è vita eterna. «Il buio della morte» sono i peccati che il misero ha commesso, i
quali gl'impediscono di vedere il volto di Dio, proprio come fa un'oscura nube fra noi e il sole. «Terra di
miseria», perché vi sono tre tipi di privazioni, corrispondenti a tre cose a cui tiene la gente di mondo in
questa presente vita, vale a dire: onori, piaceri e ricchezze. Invece di onori, all'inferno essi avranno
vergogna e confusione. Sapete bene che si chiama onore il rispetto che un uomo porta all'altro: ebbene,
all'inferno non c'è né onore né rispetto; là non si deve certo portare più rispetto ad un re che ad un servo. E
perciò Dio dice per bocca del profeta Geremia: «Coloro che mi disprezzano, saranno disprezzati». L'onore si
chiama anche gran signoria: ebbene, là nessuno servirà l'altro se non nel male e nel tormento. L'onore si
chiama anche gran dignità ed eminenza, ma nell'inferno tutti saranno calpestati dai diavoli, onde Dio dice:
«Diavoli orribili andranno e verranno sulle teste dei dannati». E quanto più in alto saranno stati nella vita
presente, tanto più all'inferno saranno umiliati e maltrattati. Invece della ricchezza di questo mondo
proveranno il tormento della povertà, e tale povertà consisterà in quattro cose: nella mancanza di beni,
onde Davide dice: «I ricchi, che rivolsero e dedicarono tutto il loro cuore ai beni di questo mondo,
dormiranno il sonno della morte, e di tutti i loro beni non si troveranno in mano nulla». Altro tormento
dell'inferno sarà la mancanza di cibi e bevande, onde per bocca di Mosè Dio dice: «Saranno dilaniati dalla
fame e infernali uccelli li strazieranno con morte atroce e fiele di drago sarà la loro bevanda e veleno di
drago il loro cibo». Un altro tormento dell'inferno consisterà nella mancanza di vesti: saranno infatti nudi
nel corpo e non avranno altra veste che il fuoco in cui bruciano ed altri tormenti; e nudi saranno nell'anima,
privi cioè d'ogni virtù che dell'anima sia vestimento. Dove saranno allora le vesti eleganti e le soffici stoffe e
le attillate camicie? Ecco che cosa dice Dio per bocca del profeta Isaia: «Sotto saranno invase dalle tarme e
sopra saranno coperte di vermi infernali». Altro tormento sarà poi la mancanza di amici. Non è povero
infatti chi ha buoni amici, ma là non ci saranno amici, perché né Dio né alcuna creatura proverà amicizia
verso di loro ed essi si odieranno l'un l'altro a morte. «I figli e le figlie si ribelleranno contro il padre e la
madre, famiglia contro famiglia, e notte e giorno ciascuno insulterà e oltraggerà l'altro», come Dio dice per
bocca del profeta Mica. E gli affettuosi figli, che una volta s'amavano così teneramente, vorranno, potendo,
mangiarsi a vicenda. Come potrebbero infatti amarsi fra i tormenti dell'inferno, quando nel rigoglio di
questa vita si odiavano? In verità l'affetto derivante dalla loro consanguineità altro non era che odio
mortale, perché, come il profeta Davide dice, «chi ama il male, odia la propria anima». E chi odia la propria
anima non può certo amare nessuno. Così all'inferno l'amicizia non recherà alcun sollievo, anzi: quanto
maggiore sarà la consanguineità, tanto maggiori saranno all'inferno le maledizioni, gli improperii e l'odio
mortale. All'inferno poi ci sarà la più totale mancanza di piaceri. Voi sapete che i piaceri derivano dagli
appetiti dei cinque sensi, cioè vista, udito, odorato, gusto e tatto: ebbene, là all'inferno gli occhi saranno
nell'oscurità e nel fumo e perciò sempre pieni di lacrime; gli orecchi pieni di lamenti e di digrignar di denti,
come dice Gesù Cristo; le narici saranno piene d'un fetore nauseabondo; «il gusto» come dice il profeta
Isaia «sarà colmo d'amaro fiele»; ed infine il tatto, come Dio dice ancora per bocca di Isaia, sentirà tutto il
corpo coperto «di fuoco che non si spegne mai e di vermi che non muoiono mai». Eppure nessuno morirà di
dolore, sfuggendo così al dolore con la morte: ecco perché Giobbe dice che là «è l'ombra della morte».
Certo un'ombra s'assomiglia alla cosa di cui è ombra, ma l'ombra non è la cosa stessa di cui è ombra.
Questo vale per la pena dell'inferno: essa è senz'altro simile alla morte per la sua terribile angoscia; e
tuttavia, pur soffrendo una morte eterna, nessuno all'inferno muore mai. San Gregorio dice: «Per i miseri
dannati ci sarà morte senza morte, fine senza fine e privazione senza difetto, perché la loro morte sarà
sempre in vita, la loro fine comincerà sempre e la loro privazione non verrà mai meno». San Giovanni
Evangelista dice: «Cercheranno la morte e non la troveranno, desidereranno morire e la morte li sfuggirà».
Giobbe poi dice che all'inferno non esiste alcun ordine. Infatti, sebbene Iddio abbia creato tutte le cose
secondo un preciso ordine, nessuna senza un proprio assetto, ma tutte ordinate e numerate, pure i dannati
non sono nell'ordine e non hanno ordine alcuno: per loro la terra non produrrà alcun frutto, anzi, come dice
il profeta Davide, «in quanto a loro, Dio distruggerà i frutti della terra; né l'acqua darà loro refrigerio, né
l'aria alcuna freschezza, né il fuoco alcuna luce». San Basilio dice: «A coloro che sono all'inferno dannati Dio
serberà il bruciore del fuoco del mondo, mentre darà luce e chiarore ai suoi figli in cielo», proprio come il
buon padre che dà la carne ai figli e le ossa ai cani. E poiché nessuno avrà speranza di fuggire, il santo
Giobbe alla fine dice che «vi sarà orrore e cieco terrore senza fine». E' orrore la continua paura d'un male
che sta per venire, e sarà questa la paura che per sempre rimarrà nel cuore dei dannati. Essi non avranno
più alcuna speranza per sette motivi: innanzi tutto perché Dio, il loro giudice, non avrà per loro nessuna
misericordia, poi perché essi non potranno più appellarsi né a lui né ai suoi santi, non potranno offrir nulla
per il loro riscatto, non avranno voce per parlargli, non potranno ormai evitare la punizione, non avranno in
sé e non potranno perciò dimostrare bontà alcuna che possa liberarli dalla pena. Dice infatti Salomone: «Il
malvagio morirà e, una volta morto, non avrà speranza di sfuggire alla pena». Chi dunque ben comprenda
queste pene e ben rifletta d'averle meritate per propria colpa, dovrebbe sicuramente aver più voglia di
singhiozzare e piangere che di cantare e ridere. Salomone dice infatti: «Triste sarebbe chi avesse la capacità
di conoscere quali pene siano stabilite e ordinate per il peccato». Quella è una scienza, dice Sant'Agostino,
che fa piangere il cuore!
Il quarto punto che dovrebbe indurre un uomo alla contrizione è il triste ricordo del bene ch'egli su questa
terra ha tralasciato di fare nonché del bene ch'egli ha perduto. Le buone opere ch'egli ha perduto, o sono le
buone opere da lui compiute prima di cadere in peccato mortale, o sono altrimenti le buone opere da lui
compiute mentre era in peccato. Le buone opere da lui compiute prima di cadere in peccato sono tutte
mortificate e svilite e annullate dal frequente peccare. Le altre buone opere, da lui compiute mentre era in
peccato mortale, quelle sono del tutto morte per la vita eterna in cielo. Inoltre le buone opere mortificate
dal frequente peccare, opere da lui compiute mentre era in stato di carità, non possono mai ravvivarsi
senza vera penitenza. E perciò Dio dice per bocca di Ezechiele: «Vivrà il giusto che si ritrae dalla sua
rettitudine ed opera malamente?». No, perché tutte le buone opere da lui compiute non verranno mai
ricordate, perché egli morirà nel suo peccato. A questo proposito San Gregorio dice: «Dobbiamo
principalmente comprendere questo: che una volta commesso un peccato mortale, è inutile rivangare o
richiamare alla memoria le buone opere che abbiamo compiuto prima». Infatti, commettendo il peccato
mortale, non possiamo più confidare nelle opere buone che abbiamo prima compiuto, ossia non possiamo
più sperare d'ottenere per esse la vita eterna in cielo. Le buone opere tuttavia si ravvivano e ritornano e
giovano e valgono ad ottenere la vita eterna in cielo, quando noi abbiamo la contrizione. Certo, le buone
opere che si compiono in peccato mortale, proprio perché compiute in peccato mortale, non possono
ravvivarsi: non può infatti ravvivarsi ciò che non ha mai avuto vita! Eppure, quantunque non valgano ad
ottenere la vita eterna, esse giovano ad abbreviare la pena dell'inferno o ad ottenere la ricchezza
temporale oppure Dio può valersene per illuminare ed accendere il cuore del peccatore affinché si penta;
ed esse così servono anche in quanto danno all'uomo l'abito al buon operare, cosicché il demonio ha minor
potere sulla sua anima. Ecco perché il Signore nostro Gesù Cristo non vuole che alcuna opera buona sia
perduta, ma a qualcosa valga. Ora, siccome le buone opere compiute in vita onesta vengono tutte annullate
dal peccato seguente, e poiché le buone opere compiute in peccato mortale sono completamente morte
agli effetti della vita eterna, ben potrebbe colui che nessuna opera compie intonare quel nuovo canto
francese: «"J'ay tout perdu mon temps et mon labour"». (2) Il peccato infatti priva l'uomo sia della bontà
naturale che della bontà della grazia. La grazia dello Spirito Santo fa come il fuoco, che non può mai star
fermo; e come il fuoco si spegne appena cessa la sua opera, così manca la grazia appena la sua opera cessa.
E allora il peccatore perde il bene di quella gloria che è soltanto promessa ai giusti che operano e lavorano.
Ben potrà allora lamentarsi chi, dovendo a Dio tutta la sua vita, per quanto l'abbia vissuta e la vivrà, non
abbia alcun bene con cui pagare il proprio debito a Dio, al quale deve tutta la vita. Perché, badate bene,
«egli dovrà rendere conto», come dice San Bernardo, «di tutti i beni che gli siano dati in questa vita, e di
come li abbia spesi, in quanto non ci sarà capello caduto dal capo né un'ora consumata del suo tempo, di
cui non debba rendere conto!».
La quinta cosa che dovrebbe muovere un uomo alla contrizione è il ricordo della passione che nostro
Signore Gesù Cristo soffrì per i nostri peccati. San Bernardo dice: «Finché vivo devo aver ricordo dei travagli
che nostro Signore Cristo soffrì nel predicare, della sua stanchezza nel viaggiare, della sua tentazione nel
digiuno, delle sue lunghe veglie nella preghiera, delle lacrime ch'egli pianse per pietà dei buoni, del dolore e
della vergogna per le scurrilità che gli dissero, dello schifoso sputo che gli sputarono in faccia, degli schiaffi
che gli diedero, delle sconce parole e delle brutalità che gli dissero, dei chiodi con cui fu inchiodato alla
croce, e di tutto il resto della passione ch'egli sofferse per i miei peccati, e non per sua colpa!». Dovete
capire che col peccato dell'uomo qualsiasi ordine e ordinamento viene capovolto. E' vero che Dio, la
ragione, i sensi e il corpo dell'uomo sono ordinati in modo che ognuno dei quattro abbia autorità sull'altro,
cioè che Dio abbia autorità sulla ragione, la ragione sui sensi e i sensi sul corpo umano: ma appena l'uomo
pecca, tutto quest'ordine e ordinamento viene capovolto. E allora la ragione umana, non volendo esser
soggetta ed obbediente a Dio, che è per diritto suo signore, perde l'autorità che dovrebbe avere sui sensi e
sul corpo dell'uomo. Sapete perché? Perché i sensi si ribellano alla ragione: ecco perché la ragione perde
l'autorità sui sensi e sul corpo! E come la ragione si ribella a Dio, così i sensi e il corpo si ribellano alla
ragione. In verità nostro Signore Gesù Cristo col suo prezioso corpo pagò assai caro questo disordine e
questa ribellione, e sentite in che modo. Siccome la ragione si ribella a Dio, l'uomo merita di soffrire e
d'essere mandato a morte: questo patì per l'uomo nostro Signore Gesù Cristo, dopo che fu tradito dal suo
discepolo, preso e legato, col sangue che gli stillava da ogni unghia delle mani, come dice Sant'Agostino.
Inoltre, siccome la ragione umana, pur potendo, non vuol domare i sensi, l'uomo merita d'essere
svergognato: e anche questo patì per l'uomo nostro Signore Gesù Cristo, quando gli sputarono in viso. E poi
ancora, siccome il misero corpo dell'uomo si ribella sia alla ragione che ai sensi, esso merita la morte: e
questo patì per l'uomo nostro Signore Gesù Cristo senza avere mai peccato. Perciò a ragione di Gesù si può
dire: «Troppo ho sofferto per cose che non ho meritato, e troppo sono stato macchiato dall'onta
dell'uomo». Il peccatore poi dovrebbe dire come dice San Bernardo: «Maledetta sia l'amarezza del mio
peccato, per cui tant'amarezza dev'essere sofferta». Difatti ai vari sconvolgimenti prodotti dalla nostra
malvagità, corrisponde col suo ordine la passione di Gesù Cristo, proprio così. L'anima del peccatore è
certamente ingannata dal demonio per cupidigia di prosperità temporale, e scornata con doppiezza quando
sceglie i piaceri della carne, ed è pure tormentata dall'insofferenza alle avversità, e avvilita dalla schiavitù e
dalla soggezione al peccato; e alla fine viene inevitabilmente uccisa. Per questo sconvolgimento del
peccatore Gesù Cristo prima fu tradito, e dopo venne legato, lui che era qui per scioglierci dal peccato e dal
dolore; poi venne insultato, lui che avrebbe dovuto essere in tutto e per tutto onorato; poi il suo volto, che
tutti gli uomini dovrebbero desiderare di vedere, quel volto in cui gli angeli desiderano contemplare, fu
villanamente coperto di sputi; poi venne flagellato, lui che non aveva nessuna colpa; e alla fine poi fu
crocifisso e ucciso. Allora si compì la parola d'Isaia che dice: «Egli fu trafitto a motivo delle nostre
trasgressioni, fiaccato a motivo delle nostre iniquità». Ora, siccome Gesù Cristo si prese su di sé la pena
d'ogni nostra malvagità, il peccatore dovrebbe piangere e lamentare che, per i suoi peccati, il Figlio di Dio
del cielo debba sopportare tutta questa pena.
La sesta cosa che dovrebbe muovere alla contrizione è la speranza di tre cose, vale a dire: il perdono dei
peccati, il dono della grazia per operar bene e la gloria del cielo, con la quale Dio compenserà l'uomo per le
sue buone opere. Siccome è Gesù Cristo che, nella sua magnificenza e sovrana bontà, ci fa questi doni, ecco
ch'egli viene chiamato "Jhesus Nazarenus rex Judeorum". "Jhesus", cioè «salvatore» o «salvazione», in cui
bisogna sperare per ottenere il perdono dei peccati, che è appunto salvezza dei peccati. Ecco perché
l'angelo disse a Giuseppe: «Tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati».
E San Pietro dice: «Non vi è sotto il cielo alcun altro nome che sia stato dato agli uomini, per il quale noi
abbiamo ad essere salvati, eccetto Gesù». "Nazarenus" vuol dire «fiorente», onde l'uomo spera che chi gli
concede la remissione dei peccati gli concederà anche la grazia per operar bene, perché nel fiore sta la
speranza del frutto in un tempo venturo, e nel perdono dei peccati la speranza della grazia per operar bene.
«Ero alla porta del tuo cuore» dice Gesù «e chiamavo per poter entrare. Chi mi aprirà avrà il perdono dei
peccati: per mia grazia entrerò da lui e cenerò con lui, con le buone opere da lui compiute, le quali opere
sono il cibo di Dio, ed egli cenerà con me, con la gioia grande che io gli darò.» Così deve sperare l'uomo che,
per le sue opere di penitenza, Dio gli conceda il regno che gli promette nel vangelo.
Bisogna ora comprendere come debba essere la contrizione. Io dico che dev'essere universale e totale. Ciò
vuol dire che bisogna veramente pentirsi di tutti i peccati, anche di quelli commessi per distrazione di
pensiero, perché è una distrazione assai pericolosa. Ci sono infatti due maniere di consentimento: una si
chiama consentimento per predilezione, quando qualcuno, mosso a far peccato, si diverte a pensare a
lungo su quel peccato; e la sua ragione, pur scorgendo bene che si tratta di peccato contro la legge di Dio,
non raffrena il suo folle piacere o talento, anche se vede chiaramente che è contro il rispetto di Dio. E pur
se la ragione non consente che il peccato sia effettivamente commesso, certi dotti affermano che quel
piacere nutrito a lungo, per quanto sia piccolo, è assai pericoloso. E bisognerebbe dolersi anche
specialmente per tutto ciò che s'è mai desiderato contro la legge di Dio col perfetto consentimento della
ragione; perché allora non c'è dubbio che quel consenso sia peccato mortale. Perché, in effetti, non c'è
peccato mortale che prima non sia nel pensiero dell'uomo, poi nel suo diletto, e così di seguito fino al
consentimento e al fatto. Vi assicuro che molti non si pentono mai di questi pensieri e di questi diletti, e
non se ne confessano mai, a meno che non diventino di fatto peccati gravi. Vi dico invece che questi
malvagi diletti e malvagi pensieri sono sottili tentatori che portano alla dannazione. Bisognerebbe dolersi
anche delle parole cattive oltre che delle cattive azioni. Perché in realtà, pentirsi di un solo peccato, senza
pentirsi di tutti gli altri, oppure pentirsi di tutti gli altri, ma non di quello, non serve a nulla. Dio onnipotente
infatti è tutto bontà; e quindi perdona tutto o non perdona nulla. E perciò Sant'Agostino dice: «So con
certezza che Dio è nemico di tutti i peccatori». Potrà allora, chi conserva anche un solo peccato, ottenere il
perdono per tutti gli altri? No. E anzi, occorre una contrizione estremamente amara e angosciosa, perché
Dio conceda pienamente la sua misericordia: ecco perché, quando dentro avevo l'animo pieno d'angoscia,
pensavo che la mia preghiera potesse giungere a Dio. E occorre anche che la contrizione sia continua, e
bisogna aver fermo proposito di confessarsi e di cambiar vita. Difatti, finché dura la contrizione, si può
sempre aver speranza di perdono; e deriva da ciò un odio del peccato che distrugge il peccato, tanto in noi
che negli altri, secondo la sua forza. Ecco perché Davide dice: «Voi che amate Dio, odiate il male».
Convincetevi, infatti, che amar Dio significa amare ciò ch'egli ama e odiare ciò ch'egli odia.
L'ultima cosa che bisogna capire sulla contrizione è questa: a che serve la contrizione. Ebbene, vi dico che
qualche volta la contrizione libera dal peccato; e a questo proposito Davide dice: «Io affermai» dice Davide,
(come per dire, io mi proposi fermamente) «di confessarmi, e tu, o Signore, mi liberasti dal peccato». Come
dunque non serve a nulla la contrizione senza il fermo proposito di confessarsi, appena se ne presenti
l'occasione, così la confessione e la penitenza senza contrizione valgono ben poco. La contrizione poi
distrugge la prigione dell'inferno, e rende deboli e fiacche tutte le forze dei diavoli, ristabilisce i doni dello
Spirito Santo e di tutte le buone virtù; e purifica l'anima dal peccato, liberandola dalle pene dell'inferno,
dalla compagnia del demonio e dalla schiavitù del peccato, e la restituisce a tutti i beni spirituali, alla
compagnia e alla comunione della Santa Chiesa: e rende inoltre chi prima era figlio dell'ira, figlio della
grazia: tutte queste cose sono confermate dalla sacra scrittura. E perciò chi volesse prestarvi attenzione,
sarebbe molto saggio; perché non avrebbe poi, per tutta la vita, intenzione di peccare, ma si darebbe corpo
e anima al servizio di Gesù Cristo e di essi gliene farebbe omaggio. In verità, il nostro dolce Signore Gesù
Cristo ci ha risparmiati così benevolmente nelle nostre follie che, se non avesse avuto pietà dell'anima
umana, dovremmo tutti cantare una ben triste canzone.
EXPLICIT PRIMA PARS PENITENTIAE.
ET SEQUITUR SECUNDA PARS EIUSDEM.
La seconda parte della penitenza è la confessione, che è il segno della contrizione. Bisogna perciò
comprendere in che cosa consista la confessione, se debba o non debba praticarsi, e quali cose siano
necessarie per una buona confessione.
Occorre innanzi tutto comprendere che la confessione consiste in una verace esposizione dei propri peccati
al sacerdote. «Verace», in quanto bisogna confessargli nel modo più completo possibile tutte le condizioni
che determinarono il peccato. Bisogna dire tutto, senza scusare, nascondere o coprire nulla, e senza
vantarsi delle proprie buone azioni. Dopo di che, è necessario comprendere da dove sorgano i peccati,
come crescano e in che cosa consistano.
Del sorgere dei peccati San Paolo parla in questo modo: «Siccome per mezzo d'un uomo il peccato è
entrato la prima volta nel mondo, e per mezzo del peccato v'è entrata la morte, così la morte è passata su
tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato». E quest'uomo fu Adamo, per mezzo del quale il peccato entrò
in questo mondo, appena lui infranse il comandamento di Dio. E così, lui che prima era così forte da non
dover mai morire, diventò tale da dover morire per forza, sia che lo volesse o no; e con lui tutta la progenie
di questo mondo, che peccò in quell'unico uomo. Ecco infatti che in quello stato d'innocenza, nel quale
Adamo ed Eva se ne stavano nudi nel paradiso, senza vergognarsi affatto della loro nudità, venne il
serpente, il più scaltro degli animali che Dio avesse creato, e disse alla donna: «Perché Dio vi ha comandato
di non mangiare del frutto di tutti gli alberi del giardino?». La donna rispose: «Del frutto degli alberi del
giardino ne possiamo mangiare; ma del frutto dell'albero ch'è in mezzo al giardino, Dio ci ha proibito di
mangiare, e di toccarlo, che non abbiamo a morire». Il serpente disse alla donna: «No, no, non morirete
affatto; ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri s'apriranno, e sarete come Dio, avendo
la conoscenza del bene e del male». La donna allora vide che il frutto dell'albero era buono da mangiare,
piacevole all'occhio e attraente allo sguardo. Prese del frutto dell'albero, ne mangiò e ne diede a suo
marito, ed egli ne mangiò, e improvvisamente a tutte e due si apersero gli occhi. E appena si resero conto
d'essere nudi, cucirono con foglie di fico delle cinture per nascondere le loro membra. Si può dunque
vedere che il peccato mortale dispone, prima di tutto, del suggerimento del demonio, qui rappresentato dal
rettile; poi del piacere della carne, qui rappresentato da Eva; e infine, dal consenso della ragione, qui
rappresentato da Adamo. Potete infatti star certi che, pur avendo il serpente tentato Eva, cioè la carne, e
pur trovando la carne piacere nella bellezza del frutto proibito, tuttavia, finché la ragione, cioè Adamo, non
avesse consentito a mangiare il frutto, l'uomo sarebbe ancora in stato d'innocenza. Da Adamo noi abbiamo
preso il peccato originale: difatti noi carnalmente discendiamo tutti da lui, generati da una materia vile e
corrotta. Il peccato originale viene contratto appena l'anima è posta nel corpo; e ciò che prima era soltanto
pena di concupiscenza, diventa poi sia pena che peccato. E così nasceremmo tutti come figli dell'ira e della
dannazione eterna, se non fosse per il battesimo che riceviamo, che ci toglie quella colpa. In realtà però, la
pena ci rimane come tentazione, pena che si chiama di concupiscenza. E questa concupiscenza, quando
nell'uomo sia ordinata o disposta erroneamente, gli fa desiderare, col desiderio della carne, il peccato
carnale, con la vista degli occhi le cose terrene, e la smania d'eccellere con la superbia di cuore.
Ora, per parlare del desiderio primo, cioè della concupiscenza, secondo la legge delle nostre membra, che
furono create ordinatamente e secondo il giusto giudizio di Dio, io dico che, siccome l'uomo non è
obbediente a Dio, suo signore, la carne è disobbediente a lui per concupiscenza, che è detta anche
nutrimento e occasione di peccato. Perciò, finché un uomo abbia in sé pena di concupiscenza, è impossibile
che ogni tanto non venga tentato e spinto a peccare nella sua carne. E finché egli vive, questa cosa non può
cessare; può senz'altro indebolirsi o venir meno per virtù del battesimo e, per grazia di Dio, attraverso la
penitenza; ma non si spegnerà mai completamente, e ogni tanto lui si sentirà rimescolare dentro, a meno
che non sia tutto intirizzito da una malattia, da un malefizio di stregoneria o da bevande fredde. Ecco infatti
che cosa dice San Paolo: «La carne ha desideri contro lo spirito, e lo spirito contro la carne; essi sono così
diversi e in contrasto tra loro, che non si può sempre fare quel che si vorrebbe». Lo stesso San Paolo, dopo
tanti patimenti per mare e per terra (notte e giorno per mare, in gran pericolo e pena; per terra, nella
carestia e nella sete, nel freddo e nella nudità, e una volta lapidato quasi a morte), pure disse: «Ahimè,
misero uomo! chi mi trarrà dalla prigione del mio misero corpo?». E San Gerolamo, dopo aver a lungo
dimorato nel deserto, senza nessuna compagnia eccetto quella di animali selvaggi, senza nessun cibo
eccetto erba e acqua per bere, né alcun letto eccetto la nuda terra, tanto che la sua carne per il caldo
diventò nera come quella d'un etiope, e poi quasi dissolta dal freddo, pure diceva che «il fuoco della
lussuria gli bolliva per tutto il corpo». Io so perciò sicuramente che s'ingannano quanti dicono di non essere
tentati nel corpo. Lo conferma San Giacomo apostolo, quando dice che «ognuno è tentato dalla propria
concupiscenza»; ciò significa che ognuno di noi ha motivo ed occasione d'essere tentato da quel
nutrimento di peccato ch'egli ha nel proprio corpo. E perciò San Giovanni Evangelista dice: «Se diciamo
d'esser senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi».
Bisogna ora comprendere in che modo il peccato si sviluppi e cresca nell'uomo. La prima cosa è quel
nutrimento di peccato, di cui prima parlavo, quella concupiscenza carnale. Segue ad essa l'istigazione del
demonio, cioè il mantice del demonio, col quale egli soffia nell'uomo il fuoco della concupiscenza carnale.
Dopo di che l'uomo si mette a riflettere se voglia o non voglia fare quella tal cosa per cui è tentato. Se
resiste e allontana da sé le prime tentazioni della carne e del diavolo, allora peccato non c'è; ma se non fa
così, verrà ben presto avvolto dalla fiamma del piacere. E' bene perciò che stia attento e si contenga,
altrimenti cadrà presto nel consentimento del peccato; e poi lo commetterà, appena ne avrà il tempo e
l'occasione. A questo proposito, parlando del diavolo, Mosè si esprime in questa maniera: «Dice il maligno:
'Caccerò e perseguiterò l'uomo con malvagia istigazione, e lo manderò alla rovina tentandolo e
invogliandolo al peccato. E spartirò il mio premio o la mia preda con deliberazione, e la mia voglia verrà
soddisfatta nel piacere. Trarrò la mia spada nel consentimento (infatti, appunto come una spada spacca
una cosa in due, così il consentimento separa l'uomo da Dio) e allora lo ucciderò con le mie mani nell'atto di
peccare!'. Ecco che cosa dice il maligno». E allora l'uomo è completamente morto nell'anima. Così il
peccato si compie attraverso la tentazione, il piacere e il consentimento; e si chiama allora peccato attuale.
In realtà, vi sono due maniere di peccato: peccato veniale o peccato mortale. Quando si ama una creatura
qualsiasi più di Gesù nostro Creatore, allora è peccato mortale. Ed è peccato veniale se si ama Gesù Cristo
meno di quanto si dovrebbe. In verità, l'effetto di questo peccato veniale è pericolosissimo, perché
diminuisce l'amore che per Dio dovrebbe sempre più aumentare. E perciò, se un uomo si addossa molti di
questi peccati veniali, certo, quand'anche ogni tanto se ne scarichi con la confessione, questi a poco a poco
diminuiscono in lui tutto il suo amore per Gesù Cristo; e in questo modo, da veniale diventa mortale.
Perché infatti, più uno si carica l'anima di peccati veniali, più è inclinato a cadere in peccato mortale.
Cerchiamo perciò di non essere negligenti nello sgravarci dei peccati veniali. Dice infatti il proverbio che «il
molto vien dal poco». E sentite questo esempio. Ogni tanto viene una grande onda di mare, così violenta
che la nave affonda. La stessa disgrazia qualche volta viene invece provocata da tante piccole gocce d'acqua
che penetrano, attraverso una piccola fenditura, nella chiglia, e poi nella stiva della nave, se si è tanto
negligenti da non sgombrarle in tempo. E perciò, per quanto vi sia differenza fra queste due cause di
affondamento, la nave ad ogni modo affonda. Succede lo stesso per il peccato mortale, e per i peccati
veniali minori, quando in un uomo questi si moltiplicano tanto che l'amore delle cose terrene, per le quali
pecca venialmente, diventa nel suo cuore grande come l'amore di Dio, o più grande. E perciò, l'amore di
ogni cosa che non sia rivolta a Dio o fatta principalmente per amor suo, per quanto la si ami meno di Dio, è
tuttavia peccato veniale; ed è peccato mortale, quando l'amore di qualcosa ha nel cuore dell'uomo lo
stesso peso dell'amore di Dio, o maggiore. «Il peccato mortale» come dice Sant'Agostino «si ha quando
l'uomo distoglie il suo cuore da Dio, che è pura bontà sovrana che non può mutare, e rivolge il suo cuore a
cosa che può cambiare e finire», cioè a tutto, fuorché a Dio del cielo. Perché in realtà, se un uomo dà il suo
amore, ch'egli tutto e con tutto il cuore dovrebbe a Dio, a una creatura, certo, quanto egli del proprio
amore concede a tale creatura, tanto ne toglie a Dio, e quindi pecca. Perché egli, che è debitore a Dio, non
rende a Dio tutto il suo debito, cioè tutto l'amore del suo cuore.
Ora siccome in genere si comprende quale sia il peccato veniale, conviene parlare particolarmente di
peccati che forse molti non riconoscono come tali, e non se ne confessano, e invece sono peccati; come
infatti hanno scritto i dotti, ogni volta che uno mangi o beva più di quanto sia necessario al sostentamento
del suo corpo, egli in realtà pecca. E anche quando parli più che non sia necessario, è peccato. Anche
quando non ascolti benevolmente il lamento del povero; anche quando è in salute di corpo e non vuol
digiunare mentre altri digiunano, senza un ragionevole motivo; anche quando dorme più del necessario, o
quando per la stessa ragione arriva tardi in chiesa, o ad altre opere di carità; anche quando si serve della
moglie, senza il sovrano desiderio di procreare in onore a Dio, o con l'intento di concedere il debito del
proprio corpo alla moglie; anche quando, potendo, non vuol visitare gli ammalati e i prigionieri; anche s'egli
ami la moglie o il figlio o altra creatura terrena, più di quanto la ragione non richieda; anche se per qualche
necessità lusinghi o blandisca più di quanto dovrebbe; anche se diminuisca o sopprima l'elemosina ai
poveri; anche se prepari il proprio cibo più delicatamente di quanto occorra, o mangi troppo rapidamente
per ingordigia; anche se parli di frivolezze in chiesa o durante il servizio divino, o chiacchieri con parole
oziose d'insensatezza o vituperio, perché ne dovrà rendere conto nel giorno del giudizio; anche quando
prometta o assicuri di fare cose che non sa compiere; anche quando per leggerezza o per frenesia critichi o
schernisca il suo vicino; anche quando abbia cattivi sospetti di cosa che non conosca con sicurezza: queste
cose e innumerevoli altre, secondo quanto dice Sant'Agostino, sono peccati.
Bisogna ora comprendere che, anche se nessuno su questa terra riesce ad astenersi da tutti i peccati
veniali, può tuttavia contenersi con l'ardente amore che ha per nostro Signore Gesù Cristo, con le
preghiere, la confessione ed altre opere buone, così da non aver che poco da dolersi. Come infatti dice
Sant'Agostino, «se si ama Dio tanto da compiere tutto sempre e solo per amor suo, ardendo d'amore per
lui, ecco, come disturba o dà noia una goccia d'acqua che cade in una fornace piena di fuoco, così dà noia
un peccato veniale a chi sia perfetto nell'amore di Gesù Cristo». Il peccato veniale si può anche frenare
ricevendo degnamente il prezioso corpo di Gesù Cristo, e ricevendo anche l'acqua benedetta, facendo
elemosine, recitando tutto il "Confiteor" sia alla messa che al vespro, e ottenendo la benedizione di vescovi
e di sacerdoti e facendo altre opere buone.
EXPLICIT SECUNDA PARS PENITENTIE.
Sequitur de septem peccatis mortalibus et eorum dependenciis, circumstanciis et speciebus.
E' ora opportuno parlare dei sette peccati mortali, vale a dire dei peccati capitali. Percorrono tutti la stessa
linea, ma in maniera diversa. Essi dunque vengono detti capitali in quanto sono i maggiori, e da loro
derivano tutti gli altri peccati. Radice di questi sette peccati è la superbia, che è in genere radice di tutti i
mali: da questa radice spuntano rami diversi, come l'ira, l'invidia, l'accidia o pigrizia, l'avarizia o ingordigia
(come comunemente s'intende), la gola e la lussuria. E ciascuno di questi principali peccati ha i suoi rami e
ramoscelli, come si dirà nei capitoli seguenti.
DE SUPERBIA.
Anche se non si può dire con esattezza il numero dei rami e dei mali che derivano dalla superbia, ve ne
voglio indicare una parte, perché voi comprendiate. C'è la disobbedienza, la millanteria, l'ipocrisia, il
disprezzo, l'arroganza, l'impudenza, la gonfiezza d'animo, l'insolenza, l'esaltazione, l'impazienza, la
litigiosità, la contumacia, la presunzione, l'irriverenza, la pertinacia, la vanagloria e molte altre ramificazioni
che non sto ad elencare. Disobbediente è chi trasgredisce per dispetto i comandamenti di Dio, dei superiori
e del padre spirituale. Millantatore è chi si vanta del male o del bene che ha fatto. Ipocrita è chi evita di
mostrarsi com'è e si mostra invece come non è. Sprezzante è chi reputa di nessun pregio il suo vicino, cioè il
cristiano suo simile, o non si degna di fare quel che dovrebbe. Arrogante è chi crede di avere delle virtù che
non ha o pensa che dovrebbe averle per i suoi meriti o ritiene comunque di essere ciò che non è.
Imprudente è chi per superbia non si vergogna dei suoi peccati. Gonfiezza d'animo si ha quando qualcuno è
contento del male che ha fatto. Insolente è chi giudica e disprezza tutti gli altri vantando il proprio valore, le
proprie capacità, il proprio parlare e il proprio comportamento. Esaltazione si ha quando uno non riesce a
tollerare d'aver padroni o compagni. Impaziente è chi non vuole essere ammaestrato o rimproverato per il
suo vizio, e che con litigi combatte puntigliosamente la verità e difende la propria insensatezza. "Contumax"
è chi per indignazione si mette contro ogni autorità o potere di coloro che invece sono i suoi superiori.
Presunzione si ha quando uno pretende di fare quel che non dovrebbe o non sa fare; e questa si chiama
anche saccenteria. Irriverenza si ha quando non si fa atto d'omaggio a chi si dovrebbe e s'aspetta d'esser
riveriti. Pertinacia si ha quando qualcuno persiste nella propria pazzia o si fida troppo del proprio giudizio.
Vanagloria è menar vanto o compiacimento per il proprio successo temporale, gloriandosi del proprio stato
mondano. Vaniloquio si ha quando si parla troppo in presenza della gente e si macina come mulini senza
tener conto di ciò che si dice.
E vi è anche una specie nascosta di superbia, in chi aspetta d'esser salutato prima di voler salutare, pur
essendo forse di minor conto dell'altro; in chi aspetta o desidera di sedersi o d'aver precedenza per via, di
baciar la pace, (3) d'essere incensato e di passare all'offertorio prima del vicino, e altre cose simili; contro il
proprio dovere, forse, ma sempre con l'intenzione e col proposito fissi nel superbo desiderio d'essere
magnificati e onorati prima degli altri.
Ci sono dunque due maniere di superbia: una è dentro il cuore dell'uomo e l'altra fuori. Molte di queste
cose che ho nominato, infatti, e molte altre che non ho nominato, appartengono alla superbia che sta nel
cuore dell'uomo; le altre specie di superbia sono, invece, esterne. Ma tuttavia ciascuna di queste specie di
superbia è indizio dell'altra, come la gaia pergola alla porta della taverna lo è del vino che è in cantina. Lo si
vede da molte cose, come dal modo di parlare e di comportarsi, e dal modo sfacciato di vestirsi. Se
veramente non ci fosse peccato nel modo di vestirsi, Cristo nel vangelo non avrebbe tanto insistito a
parlare degli abiti del ricco. Come infatti dice San Gregorio, «l'abito prezioso può essere criticabile per
scarsità, per mollezza, per stravaganza e smanceria, come per essere eccessivamente sfarzoso o
sregolatamente succinto». Ahimè! non vedete come, anche al giorno d'oggi, sia peccaminoso e caro il
modo di vestire, e tutto appunto per sfarzo eccessivo o per sregolata insufficienza?
Quanto al primo peccato, vale a dire l'eccessivo sfarzo nel vestire, esso è così caro, da mandare la gente in
rovina; e non si tratta solo del costo dei ricami, delle dentellature o delle smerlature alla moda, delle
pieghettature, delle riportature, delle increspature o delle bendature e simile sperpero di stoffa in cose
inutili; ma ci sono anche le costose pellicce dei mantelli, il lungo sforbiciare per far buchi e un gran
smerlettare di cesoie; e poi l'eccessiva lunghezza di detti mantelli, strascicati nel letame e nel fango, sia a
cavallo che a piedi, tanto da uomo che da donna, e tutto lo strascico è in realtà sprecato veramente,
consumato, liso e insozzato nel letame, invece d'essere distribuito ai poveri, con grave danno della sopra
detta povera gente. E questo in diversi modi; vale a dire che quanto più la stoffa viene sperperata, tanto più
essa aumenta di costo per il popolo, data la scarsità. E per di più, se anche si distribuissero alla povera
gente quei vestiti a buchi e merletti, essi non sarebbero convenienti alla loro condizione, né basterebbero a
proteggerli dalle intemperie della stagione. D'altra parte, per parlare d'orribili abiti esageratamente
succinti, ci sono uomini che portano certi striminziti giubbetti o giacchettini, che sono così corti da non
coprire a bella posta i loro vergognosi membri. Ahimè! ce ne sono alcuni che, anzi, ne mettono in mostra la
protuberanza della forma, con certi orribili gonfiori, che sembra abbiano la malattia dell'ernia sotto le
brache; e le loro natiche si muovono come il posteriore d'una scimmia femmina nel plenilunio. E oltre a
quei miseri membri rigonfi che mettono in mostra per moda, con le brache spartite a colori bianco e rosso,
sembra che abbiano le loro segrete vergogne divise a metà. Se poi per caso le loro brache sono spartite in
altri colori, come bianco e nero, bianco e blu, oppure nero e rosso, allora dalla varietà dei colori sembra che
i loro membri segreti siano infetti a metà dal fuoco di Sant'Antonio, dal cancro o altro simile malanno. La
parte inferiore delle loro natiche, poi, è schifosa da guardare. E' infatti da quella parte del corpo che
spurgano la loro fetida sozzura, eppure la mettono orgogliosamente in mostra alla gente a sprezzo d'ogni
decenza, quella decenza che Gesù Cristo e i suoi amici cercarono sempre in vita loro di rispettare. Riguardo
poi allo sfacciato abbigliamento delle donne, Dio sa che, per quanto dal viso alcune sembrino molto caste e
buone, si vede dallo sfarzo degli abiti che in realtà sono lussuriose e superbe. Io non dico che sia
sconveniente, sia per l'uomo che la donna, vestirsi decentemente, ma quello che è vituperevole è vestirsi in
modo superfluo o sregolatamente succinto. C'è anche peccato di lusso e di sfarzo in cose che appartengono
al cavalcare, come molti eleganti cavalli che vengono mantenuti per diletto, belli, grassi e costosi; e così
molti viziosi garzoni che devono accudirli, e poi stravaganti bardature, selle, groppiere, pettorali, briglie
coperte di stoffe preziose e ricche, traversini e piastre d'oro e d'argento. Per bocca del profeta Zaccaria Dio
dice: «Quelli che sono montati su simili cavalli saran confusi». Questa gente fa poco caso a come cavalca il
Figlio di Dio del cielo, alle bardature che aveva quando montò sull'asino, al fatto che per bardature aveva
solo i poveri mantelli dei suoi discepoli; e non sta neppure scritto che si servisse mai d'altra cavalcatura.
Dico questo contro il peccato di eccesso, non contro una ragionevole decenza quando sia veramente
ragionevole. E poi è chiaro segno di superbia mantenere una gran masnada, quando sia di poco o di nessun
vantaggio; per esempio, quando la masnada è rissosa e pericolosa verso la gente, per la durezza della sua
gran prepotenza e per via di prestazioni. In realtà quei signori che appoggiano la cattiveria della loro
masnada, vendono la loro signoria al diavolo dell'inferno. Ma ci sono anche uomini di basso rango, come
quelli che tengono osteria, i quali nascondono le ruberie dei loro garzoni, il che è un modo come un altro
d'ingannare. Gente simile s'assomiglia alle mosche che inseguono il miele, o ai cani che inseguono la
carogna. E' gente che spiritualmente affoga la propria signoria; ecco che cosa ne dice il profeta Davide:
«Scenda su quei signori la mala morte! E Dio voglia ch'essi precipitino nel profondo dell'inferno, perché
nelle loro case c'è iniquità e malizia, e non Dio del cielo!». In verità se non faranno ammenda, come Dio
diede la sua benedizione a Laban (4) mandandogli a servizio Giacobbe, e al Faraone mandandogli a servizio
Giuseppe, così Dio a questi signori che sostengono le iniquità dei loro servi manderà la sua maledizione,
sempre che non facciano ammenda. Anche a tavola compare molto spesso la superbia; perché mentre i
ricchi vengono chiamati ai banchetti, i poveri vengono mandati via ed umiliati. Anche nell'eccesso di diversi
cibi e bevande, come certi tipi di sfornati e manicaretti, bruciati a fuoco alto, dipinti e incastellati con carta,
e simile spreco, tanto che vien vergogna a pensarci. E anche nella esagerata preziosità del vasellame e nella
stravaganza delle musiche, per cui un uomo viene tanto più spinto alle delizie del lusso, e tanto meno
rivolge il cuore a nostro Signore Gesù Cristo, e questo è certamente peccato; e anzi, in circostanze simili, le
delizie possono essere tali da indurre in peccato mortale. Non c'è dubbio infatti che i peccati che derivano
dalla superbia sono mortali, specialmente quando derivano da una viziosità rimuginata, pensata e
preveduta, oppure dall'abitudine. Quando invece sorgono inaspettatamente da una debolezza improvvisa,
e subito vengono di nuovo ritratti, pur essendo peccati gravi, non credo siano mortali. Qualcuno potrebbe
poi chiedere da dove sorga e derivi la superbia: ebbene, vi dico che qualche volta sorge dai beni della
natura, qualche volta dai beni della fortuna e qualche volta dai beni della grazia. I beni della natura
praticamente consistono nei beni del corpo o nei beni dell'anima. I beni del corpo sono la salute del corpo,
come la forza, l'agilità, la bellezza, la finezza e la distinzione. Beni naturali dell'anima sono buona
intelligenza, mente acuta, ingegno sottile, virtù naturale e buona memoria. I beni della fortuna sono la
ricchezza, le alte posizioni di comando e gli onori della gente. I beni della grazia sono la scienza, la capacità
di sopportare travagli spirituali, la benignità, la virtuosa contemplazione, la resistenza alle tentazioni e cose
simili. Di questi beni che ho detto, sarebbe certamente grandissima follia insuperbire, qualunque essi siano.
Riguardo poi ai beni della natura, Dio sa che qualche volta in natura li abbiamo sia a nostro danno che a
nostro vantaggio. Riguardo poi alla salute del corpo, essa, in realtà, passa molto facilmente, ed è anche
molto spesso occasione d'infermità alla nostra anima, perché Dio sa che la carne è una grandissima nemica
dell'anima; perciò, quanto più il corpo è sano, tanto più siamo in pericolo di cadere. Anche insuperbire per
la forza del proprio corpo è una gran follia, perché in realtà la carne smania contro lo spirito, e quanto più la
carne è forte, tanto più grama può essere l'anima; e oltre a tutto questo, la forza fisica e la mondana
baldanza causano molto spesso pericoli e disgrazie. Anche insuperbire per il proprio nobilume è
grandissima follia, perché spesso la nobiltà del sangue porta via la nobiltà d'animo; e poi siamo tutti d'un
padre e d'una madre, tutti della stessa natura marcia e corrotta, sia ricchi che poveri. In verità c'è da
ammirare solo un tipo di nobiltà, quella che dona all'animo dell'uomo virtù e moralità e lo rende figlio di
Cristo. Perché, state pur certi, solo chi si fa comandare dal peccato diventa col peccato un vero plebeo.
Ci sono invece segni evidenti di nobiltà, come lo sfuggire il vizio, la ribalderia e la schiavitù del peccato, nelle
parole, nelle opere e nel contegno; il praticare la virtù, la cortesia e la purezza, e l'essere liberali, vale a dire
moderatamente generosi: oltrepassare la misura è infatti follia e peccato. Un altro è il ricordarsi dei
benefici che si sono ricevuti dalla gente. Un altro ancora è l'essere benevoli verso i propri dipendenti,
perché, come dice Seneca, «non c'è nulla che più convenga a un uomo d'alta condizione della benevolenza
e della pietà. Perfino quegli insetti che si chiamano api, dovendosi scegliere una regina, se ne scelgono una
che non abbia pungiglione col quale pungere». E un altro è avere un cuore nobile e diligente, rivolto a
elevate cose virtuose. Ora, però, anche insuperbire per i beni della grazia è pazzia furiosa, perché allora,
come dice San Gregorio, «quei doni della grazia che avrebbero dovuto far bene e guarire, fanno male e
avveleniscono. Chi poi insuperbisce per i beni della fortuna è massimamente folle, perché succede spesso
che chi al mattino è un gran signore si trova prima di notte in schiavitù e miseria; qualche volta sono i
piaceri stessi che, provocando una grave malattia, fanno morire. In verità, l'applauso della gente è spesso
completamente falso o troppo instabile per fidarsene: chi oggi ti loda, domani ti critica. Eppure Dio sa che il
desiderio d'aver il plauso della gente ha fatto morire più d'un uomo intraprendente.
REMEDIUM CONTRA PECCATUM SUPERBIE.
Ora che avete compreso che cosa sia la superbia, e in quante specie si distingua, e da dove sorga e derivi
questa superbia, ora capirete quale sia il rimedio contro il peccato della superbia, e cioè l'umiltà o
modestia. Questa è una virtù mediante la quale l'uomo acquista vera conoscenza di se stesso, e di sé non
tiene alcun conto o nota, né dei propri meriti, avendo sempre presente la propria fragilità. Vi sono infatti
tre modi d'umiltà: umiltà di cuore, umiltà di parola e infine umiltà di opere. L'umiltà di cuore è di quattro
specie: una è quando l'uomo si considera un nulla di fronte a Dio del cielo; l'altra, quando non disprezza
nessun altro uomo; la terza è quando non si preoccupa anche se altri non lo tiene in nessun conto; la quarta
è quando non gli dispiace umiliarsi. Anche l'umiltà di parola sta in quattro cose: nel parlar moderato, nella
semplicità di parola, quando ciò che si dice con le labbra corrisponda a ciò che si pensa dentro il cuore, e
infine quando si lodino le qualità d'un altro senza sminuirle. Anche l'umiltà di opere è in quattro modi: il
primo è quando si pongano gli altri prima di sé; il secondo sta nello scegliere sempre il posto più basso, il
terzo nell'accettare lietamente un buon consiglio; il quarto è di rallegrarsi sempre per la decisione dei
propri superiori, di chi cioè sta più alto di grado. E questa davvero è una grande opera d'umiltà.
SEQUITUR DE INVIDIA.
Dopo la superbia parlerò del turpe peccato d'invidia, la quale, secondo le parole del filosofo, è «dispiacere
della prosperità altrui»; e, secondo le parole di Sant'Agostino, è «dispiacere del bene altrui e godimento
dell'altrui danno. Questo turpe peccato è palesemente contrario allo Spirito Santo. Per quanto ogni peccato
sia contrario allo Spirito Santo, tuttavia siccome allo Spirito Santo appartiene proprio la benevolenza,
mentre a rigore l'invidia proviene dalla malvagità, ecco che questa è esattamente contraria alla
benevolenza dello Spirito Santo. Ci sono poi due specie di malizia: vale a dire durezza d'animo nel male,
ossia la carne è così accecata che non s'accorge d'essere in peccato e non se ne cura, il che è durezza del
diavolo; l'altra specie di malizia si ha quando un uomo combatte la verità, sapendo che è verità, e anche
quando combatte la grazia che Dio ha fatto al prossimo, e tutto questo per invidia. L'invidia è dunque
certamente il peggior peccato che ci sia. Difatti mentre tutti gli altri peccati qualche volta s'oppongono a
una sola speciale virtù, l'invidia sta sempre contro ogni virtù e ogni bontà. Essa infatti si dispiace per ogni
bene altrui, ed è in questo modo diversa da tutti gli altri peccati. Certo è che non esiste quasi alcun peccato
che non abbia in sé qualche piacere, all'infuori dell'invidia, che porta sempre con sé angoscia e dolore. Ed
ecco le specie dell'invidia. La prima è dispiacere del bene e della prosperità altrui: la prosperità è per natura
motivo di gioia, onde l'invidia è un peccato contro natura. La seconda specie d'invidia è il godimento per il
danno altrui, ed è proprio come il demonio che si rallegra sempre per i mali dell'uomo. Da queste due
specie deriva la maldicenza, e tale peccato di maldicenza o detrazione è, a sua volta, di diverse specie. C'è
chi loda il vicino in mala fede, e alla fine gli prepara un brutto tiro, aggiungendo sempre alla fine del
discorso un «ma» che implica assai più biasimo di tutte le lodi fatte. La seconda specie è che, per quanto un
uomo sia buono, e faccia o dica tutto a buon fine, il maldicente girerà quella sua bontà sottosopra secondo
le sue ignobili intenzioni. La terza sta nello sminuire le qualità del vicino. La quarta specie di maldicenza è
questa: se si parla bene di qualcuno, allora il maldicente dirà: «Veramente, il tale è ancora migliore di lui»,
spregiando così colui che viene lodato. La quinta specie e questa: di consentire volentieri e volentieri
ascoltare il male che la gente dice d'altri; questo peccato è gravissimo, ed aumenta ancora a seconda della
mala fede del maldicente. Dopo la maldicenza viene il brontolamento o mormorazione, che deriva da
impazienza, talvolta contro Dio e talvolta contro l'uomo; contro Dio è quando qualcuno brontola contro le
pene dell'inferno, o contro la povertà, o la perdita di beni, o contro la pioggia e la tempesta; o borbotta
altrimenti che i disonesti hanno prosperità, mentre la brava gente ha solo disgrazie. Tutte cose invece che
andrebbero sopportate con pazienza, perché derivano dal giusto giudizio e ordinamento di Dio. Qualche
volta il brontolamento deriva da avarizia, come quando Giuda brontolò contro la Maddalena perché lei
unse di unguento prezioso il capo di nostro Signore Gesù Cristo. Questo tipo di brontolamento si ha quando
qualcuno brontola del bene ch'egli stesso compie o che altri compie a suo vantaggio. Qualche volta il
brontolamento deriva da superbia, come quando Simone il fariseo brontolò contro la Maddalena, perché
lei si avvicinò a Gesù Cristo e pianse ai suoi piedi per i propri peccati. Qualche altra volta il brontolamento
deriva dall'invidia, quando si rivelino i difetti altrui che altrimenti rimarrebbero nascosti o si attribuiscano
ad altri cose che siano false. Spesso c'è mormorio tra i servi che brontolano anche se il padrone comanda di
fare una cosa lecita; e pur non osando resistere apertamente al suo comando, si mettono però a dirne
male, a brontolare e a mormorare di nascosto per puro dispetto: tali mormorii vengono chiamati il
"Paternoster" del diavolo, anche se in realtà il diavolo non ha mai avuto un "Paternoster", ma è così che li
chiama la gente ignorante. A volte il brontolamento deriva dall'ira o da un odio nascosto che, come poi vi
dirò, nutre in cuore il rancore. Viene poi anche l'amarezza d'animo, attraverso la quale amarezza ogni
buona azione del prossimo sembra amara e insipida. Viene poi la discordia che disunisce ogni genere
d'amicizia. Viene poi il disprezzo, come quando si cerca ogni occasione per denigrare il prossimo, per
quanto bene egli faccia. Viene poi l'insinuazione, come quando si cerca l'occasione d'incolpare il prossimo,
con un'astuzia che è come quella del diavolo, il quale notte e giorno sta in agguato per incolparci tutti.
Viene poi la malignità per via della quale, quando è possibile, si danneggia il prossimo; e se ciò non è
possibile, non per questo diminuisce il mal volere, che anzi gli si può incendiare la casa di nascosto,
avvelenargli o uccidergli il bestiame, e così via.
REMEDIUM CONTRA PECCATUM INVIDIE.
Vi parlerò ora del rimedio contro il turpe peccato d'invidia. Innanzi tutto sta nell'amar Dio sopra ogni cosa, e
il prossimo come se stessi; perché l'uno non può stare senza l'altro. E bada bene che nel nome del tuo
prossimo devi intendere il nome di tuo fratello; perché in realtà tutti abbiamo un solo padre carnale e una
sola madre, vale a dire Adamo ed Eva; e anche un solo padre spirituale, cioè Dio del cielo. Il tuo prossimo
sei tenuto ad amarlo e a volergli ogni bene; e perciò Dio dice: «Ama il tuo prossimo come te stesso»,
quanto a dire per la salvezza della vita e dell'anima. E inoltre devi amarlo con la parola, e con benevoli
ammonimenti e rimproveri, e confortarlo nelle sue avversità, e pregare per lui con tutto il cuore. E in verità
devi amarlo a tal punto, da fare per lui in carità quanto vorresti fosse fatto alla tua stessa persona. E
pertanto non gli recherai alcun danno con malvagia parola, né alcun male al suo corpo, né ai suoi beni, né
alla sua anima, con la lusinga del cattivo esempio. Non desidererai la sua donna, né alcuna delle sue cose.
Bada che nel nome di prossimo è compreso anche il nemico. Certo bisogna amare il proprio nemico,
secondo il comandamento di Dio; e sicuramente amerai l'amico in Dio. Dico che devi amare il nemico per
amor di Dio, secondo il suo comandamento. Perché se fosse ragionevole che l'uomo odiasse il suo nemico,
Dio sicuramente non avrebbe accolto nel suo amore noi che siamo suoi nemici. Contro tre specie di torti
che il nemico gli fa, egli deve fare tre cose, così: contro l'odio e il rancore d'animo, egli in cuore deve
amarlo; contro l'insulto e le male parole, egli deve pregare per il suo nemico; contro le male azioni dei suo
nemico, egli deve fargli del bene. Perché Cristo dice: «Amate i vostri nemici, e pregate per coloro che
v'inseguono e vi perseguitano, e usate bontà con coloro che vi odiano». Ecco, così nostro Signore Gesù
Cristo ci comanda di fare con i nostri nemici. Perché, certo, per natura siamo portati ad amare i nostri amici,
ma in verità i nostri nemici hanno maggior bisogno d'amore dei nostri amici; e certo il bene va fatto a chi ne
abbia bisogno maggiormente; e certo così facendo dobbiamo avere in mente l'amore di Gesù Cristo che
morì per i suoi nemici. E quanto più quell'amore è difficile da provare, tanto maggiore è il merito; onde
l'amore del nostro nemico ha confuso il veleno del diavolo. Perché appunto come il diavolo viene sconfitto
dall'umiltà, così si sente ferito a morte dall'amore verso il nostro nemico. L'amore è dunque certamente la
medicina che espelle dal cuore il veleno dell'invidia. Le specie di questo passo saranno più ampiamente
dichiarate nei capitoli seguenti.
SEQUITUR DE IRA.
Dopo l'invidia descriverò il peccato dell'ira. Perché in verità chi prova invidia contro il prossimo,
generalmente trova presto motivo di sdegno, in parole o in atti, contro colui al quale porta invidia. E l'ira
proviene anche dalla superbia, oltre che dall'invidia; perché in verità chi è superbo o invidioso è facilmente
irascibile.
Questo peccato d'ira, secondo la descrizione di Sant'Agostino, consiste nel malvagio volere di vendicarsi sia
a parole che a fatti. L'ira, secondo il filosofo, è sangue in effervescenza che s'agita nel cuore dell'uomo,
facendogli desiderare il male di colui che odia. Perché certamente il cuore dell'uomo, per il fervore e la
congestione del sangue, s'altera al punto ch'egli perde ogni giudizio di ragione. Ma dovete capire che l'ira è
di due specie: una buona e l'altra cattiva. L'ira buona deriva da gelosia di bontà, per cui un uomo
s'accanisce con la malvagità e contro la malvagità; e perciò dice un saggio che è meglio l'ira dello scherzo.
Quest'ira è benigna e prorompe senza amarezza; e non prorompe contro l'uomo, ma prorompe contro le
male azioni dell'uomo, come dice il profeta Davide: «"Irascimini et nolite peccare"».(5) Comprendete ora
che l'ira cattiva è di due specie: vale a dire ira improvvisa o repentina, senz'avviso o consenso di ragione. Il
che significa e vuol dire che la ragione dell'uomo non consente a quest'ira improvvisa, e allora è veniale.
L'altra è ira pienamente malvagia, che deriva da perfidia di cuore pensata e prestabilita, col malvagio
proposito di far vendetta, e ad essa la ragione acconsente; e allora è sicuramente peccato mortale.
Quest'ira è così sgradita a Dio, che ne conturba la casa, scaccia lo Spirito Santo dall'anima dell'uomo e ne
guasta e distrugge la somiglianza con Dio, vale a dire la virtù che e nell'anima dell'uomo, e pone in lui
l'impronta del demonio, e sottrae l'uomo a Dio, che è suo legittimo signore. Quest'ira è di massimo
gradimento del demonio, perché essa è la fornace del demonio, che si riscalda col fuoco dell'inferno.
Perché certamente, appunto come il fuoco è più potente d'ogni altro elemento nel distruggere tutte le cose
materiali, così l'ira è capace di distruggere tutte le cose spirituali. Guardate come il fuoco di pochi tizzoni,
quasi morti sotto la cenere, si riaccenda appena siano toccati dallo zolfo: appunto così si riaccende l'ira,
appena è toccata dalla superbia che si nasconde nel cuore dell'uomo. Perché il fuoco non può certamente
nascere da nulla, a meno che non sia già dall'inizio per natura in qualcosa, come dall'inizio il fuoco nella
selce che s'estrae con l'acciaio. E come la superbia è spesso motivo d'ira, così il rancore ne fa da nutrice e
da custode. C'è una specie d'albero, secondo quanto dice Sant'Isidoro, (6) con il quale basta far fuoco e
coprire i carboni di cenere, perché quel fuoco duri per più di un anno. E lo stesso avviene del rancore: una
volta che sia concepito nel cuore di qualche uomo, dura certamente da una Pasqua all'altra, e anche più.
Ma per tutto quel periodo il cuore di quell'uomo è certo ben lontano dalla misericordia di Dio.
Nella suddetta fornace del demonio ci lavorano tre birbe: la superbia, che soffia sempre e alimenta il fuoco
con insolenze e male parole; poi c'è l'invidia, e trattiene il ferro rovente sul cuore dell'uomo con un paio di
lunghe tenaglie di lungo rancore; e poi c'è il peccato di contumelia, detta altrimenti ingiuria e vilipendio,
che batte e forgia con villani insulti. Certo, questo peccato maledetto offende sia l'uomo stesso che il suo
prossimo. In verità quasi tutto il male che ogni uomo fa al suo prossimo proviene dall'ira. Perché infatti la
smisurata ira fa sempre tutto ciò che il demonio le comanda, ed egli non risparmia né Cristo né la sua dolce
Madre. E nella sua rabbia ed ira smisurata, ahimè, ahimè, molto spesso in quel momento prova in cuor suo
rancore sia verso Cristo che verso tutti i suoi santi. Non è questo un vizio maledetto? Sì, certamente.
Ahimè, esso toglie all'uomo l'intelletto e la ragione ed ogni bene di vita spirituale che dovrebbe preservargli
l'anima! Distrugge infatti ciò che giustamente appartiene a Dio, e cioè l'anima dell'uomo e il suo amore per
il prossimo. E combatte continuamente contro il vero. Strappa la tranquillità dal cuore e sovverte l'anima.
Dall'ira provengono questi fetidi rampolli: prima l'odio, che è vecchia rabbia; la discordia, per cui un uomo
abbandona il vecchio amico al quale ha voluto bene per lungo tempo; e poi viene la guerra ed ogni specie di
male che l'uomo possa recare al suo prossimo, nella sua persona o nei suoi averi. Da questo maledetto
peccato d'ira proviene anche l'omicidio. E badate bene che l'omicidio, cioè l'uccisione di una persona, si ha
in diversi modi. C'è un omicidio spirituale ed uno corporale. L'omicidio spirituale consiste in sei cose. Prima
nell'odio, onde San Giovanni dice: «Chi odia suo fratello è un omicida». L'omicidio consiste poi nella
diffamazione, onde Salomone dice che i diffamatori «hanno due spade con le quali uccidono il loro
prossimo». Togliere infatti a un uomo il suo buon nome è come togliergli la vita. L'omicidio sta anche nel
dar cattivo consiglio con frode, come dar consiglio di aumentare dazi e tasse illecite. Onde Salomone dice:
«Simili al leone ruggente e all'orso affamato sono quei crudeli signori che trattengono o sottraggono il
gregge, il compenso o la paga dei propri servi, oppure praticano l'usura o non fanno elemosina alla povera
gente». E perciò il saggio dice: «Da' da mangiare a chi sta per morire di fame»; perché in verità, non
dandogli da mangiare, tu lo uccidi; e questi sono tutti peccati mortali. L'uccisione corporale d'una persona si
ha quando in altro modo tu l'uccidi con la tua lingua, come quando comandi, oppure dai consiglio,
d'assassinare un uomo. L'omicidio effettivo si ha in quattro maniere. La prima è per legge, quando appunto
un giudice condanna a morte chi è colpevole. Badi, però, il giudice d'agire rettamente, e non lo faccia per il
piacere di spargere sangue, ma per preservare la giustizia. Altro omicidio è quello compiuto per necessità,
come quando un uomo uccide un altro per difesa, non potendo in altro modo evitare la propria morte. Ma
certamente se, pur potendo scampare senza uccidere l'avversario, lo uccide, commette peccato e dovrà far
penitenza come di peccato mortale. Anche se un uomo, per caso o fatalità, scaglia una freccia, oppure
lancia un sasso, e uccide qualcuno, egli è un omicida. Così se una donna per negligenza si corica dormendo
sul suo bambino, commette omicidio e peccato mortale. Anche quando qualcuno disturba la concezione
d'un bambino, e rende sterile una donna facendole bere erbe velenose per mezzo delle quali non possa
concepire, o uccide intenzionalmente il piccolo con beveraggi, o mette altrimenti certi materiali oggetti
nelle parti segrete di lei per uccidere la creatura, o pecca altrimenti contro natura, cosicché uomo o donna
sparga il suo seme in modo o in luogo dove non si possa concepire, o se altrimenti una donna, avendo
concepito, si ferisca e uccida il piccolo, è sempre omicidio. E che dire delle donne che sopprimono le loro
creature per paura d'aver disonore dal mondo? E' senz'altro un omicidio terribile. Omicidio è anche se
l'uomo avvicini la donna per desiderio di lussuria, facendo perire il bambino, o altrimenti colpisca
intenzionalmente una donna, facendole perdere la creatura. Tutti questi sono omicidi e orribili peccati
mortali. Eppure dall'ira derivano molti altri peccati, sia nelle parole che nei pensieri e nelle azioni: come chi
fa carico a Dio, o rimprovera Dio, per ciò di cui egli stesso è colpevole, oppure bestemmia Dio e tutti i suoi
santi, come fanno in molti paesi certi dannati giocatori. E maledetto peccato si commette anche quando in
cuore si pensa malvagiamente di Dio e dei suoi santi. Quando poi si tratta in modo irriverente il sacramento
dell'altare, il peccato è così grave che non può essere assolto, se non dalla misericordia di Dio, che va oltre
tutte le opere sue: tanto esso è grave e tanto egli è buono! Dall'ira deriva poi la velenosa rabbia. Appena
qualcuno in confessione viene severamente ammonito ad abbandonare il peccato, ecco che s'arrabbia e
risponde sprezzantemente e irosamente, e difende o scusa il suo peccato con la fragilità della carne,
dicendo d'averlo commesso per far compagnia agli amici o perché tentato dal demonio o a causa della
propria gioventù o della propria natura, così irruente da non potersi contenere, o perché a una certa età si
è destinati o perché tutto proviene dalla nobiltà degli antenati e simili cose. Tutta questa gente è così
avvolta nei suoi peccati, che ormai neppure vuole liberarsene. Nessuno, infatti, che si scusi
intenzionalmente del suo peccato, può dal suo peccato liberarsi, finché non lo riconosca umilmente. Poi,
ecco che viene il bestemmiare, che è espressamente contrario al comandamento di Dio; e questo succede
spesso per rabbia e per ira. Dio dice: «Non nominerai il nome del tuo Signore Iddio invano o inutilmente».
Anche nostro Signore Gesù Cristo dice per bocca di San Matteo: «Non giurate in alcun modo: né per il cielo,
perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la
città d'un gran re; né per la tua testa, perché non puoi rendere bianco o nero neppure un capello. Ma sia il
vostro parlare: "sì, sì", e "no, no", poiché il di più proviene dal maligno»... Così dice Cristo. E per amor di
Cristo, non bestemmiate così peccaminosamente da smembrare Cristo in anima, cuore, ossa e corpo.
Perché sembra veramente che pensiate non l'abbiano già smembrata abbastanza i maledetti ebrei, la
preziosa persona di Cristo, per smembrarla ancora voi. E se la legge vi costringe a giurare, regolatevi allora
secondo la legge di Dio nel vostro giuramento, come dice Geremia, quarto "capitulo": «Osserverai tre
condizioni: giurerai con verità, con rettitudine e con giustizia». Vale a dire che giurerai il vero, perché ogni
menzogna è contro Cristo. Cristo infatti è pura verità. Bada bene che chiunque giura, senza essere costretto
dalla legge a giurare, avrà una ferita tale che non se ne andrà dalla sua casa finché continuerà così a giurare.
Giurerai inoltre con rettitudine, quando sarai costretto dal giudice a testimoniare il vero. E poi non giurerai
per invidia, né per favori o compensi, ma per giustizia, per renderne onore a Dio e per soccorrere i tuoi
fratelli cristiani. E perciò chiunque pronunzi inutilmente il nome di Dio, o chi giuri falsamente con la bocca o
chi adotti il nome di Cristo per esser chiamato cristiano, pur vivendo contrariamente alla vita di Cristo e al
suo insegnamento, tutti questi nominano il nome di Dio invano. Guarda anche che cosa dice San Pietro,
"Actuum, quarto, Non est aliud nomen sub celo, etc.": «Non v'è sotto il cielo alcun altro nome», dice San
Pietro, «che sia dato agli uomini, per il quale debbano essere salvati»; all'infuori cioè del nome di Gesù
Cristo. Pensa inoltre quanto sia prezioso il nome di Cristo! Dice San Paolo, "ad Philipenses, secundo, In
nomine Jhesu, etc.": «Nel nome di Gesù dovrebbe piegarsi ogni ginocchio di creatura celeste o terrena o
d'inferno». Esso infatti è così eccelso e venerabile, che il dannato demonio tremerebbe a sentirlo nominare.
E allora sembrerebbe che quanti giurano così orribilmente per il suo santo nome, lo disprezzino ancora più
baldanzosamente degli ebrei maledetti, o perfino del demonio, il quale trema a sentire il suo nome.
Ora però, se il giuramento è altamente proibito, a meno che non sia fatto per legge, assai peggio è giurare
falsamente e invano.
Che dire di coloro che si divertono a giurare, e credono che sia un vanto o un atto virile far grandi
giuramenti? E di coloro che a forza d'abitudine non smettono mai di far grandi giuramenti, fosse pure per
un motivo che non vale una paglia secca? Questo è certamente un orribile peccato. Come pure è peccato
giurare d'improvviso, senza pensare. Ma passiamo ora a quegli orribili giuramenti d'invocazione e di
scongiuro, che fanno certi ipocriti incantatori e negromanti con bacini pieni d'acqua, o con una spada
luccicante, con un cerchio, o con un fuoco, o con una scapola di pecora. Posso soltanto dire che agiscono
maledettamente e dannabilmente contro Cristo e tutto il credo della Santa Chiesa.
Che dire poi di coloro che credono in divinazioni per mezzo del volo o del suono di uccelli o di bestie,
oppure per mezzo di sortilegi, di negromanzia, di sogni, di porte che cigolano o di case che scricchiolano, di
topi che rodono o altre simili calamità? Certo son tutte cose proibite da Dio e dalla Santa Chiesa. Sono
perciò maledetti, finché non facciano ammenda, coloro che pongono fede a porcherie simili. Se per caso
hanno qualche effetto incantesimi per mezzo di ferite o di malattie d'uomini o di bestie, è Dio che lo
permette perché la gente presti maggior fede e rispetto al suo nome.
Vi parlerò ora delle menzogne, che sono generalmente falsa asserzione di parole allo scopo d'ingannare i
propri simili cristiani. Vi sono menzogne dalle quali non deriva alcun vantaggio per nessuno; e vi sono
menzogne che per alcuni sono di profitto e utile, e di perdita e danno per altri. Certe menzogne valgono per
salvare la propria vita e i propri averi, certe menzogne invece derivano dal puro piacere di mentire, per il
quale piacere s'inventa una lunga storia e la si colora di tutte le circostanze, mentre tutto il fondamento
della storia è falso. Certe menzogne derivano dal voler sostenere la propria parola; e certe derivano da
leggerezza senza riflessione e altre simili cose.
Passiamo ora al vizio dell'adulazione, che non proviene da alcun sentimento di gioia ma dal timore o dalla
bramosia. L'adulazione è in genere il lodare a torto. Gli adulatori sono le balie del demonio, che nutrono i
loro bambini col latte delle lusinghe. Salomone dice infatti che «l'adulazione è peggio della diffamazione».
Perché talvolta la diffamazione rende più umile un uomo altezzoso che teme d'essere denigrato, mentre
l'adulazione serve soltanto a esaltare un uomo nel suo animo e nel suo comportamento. Gli adulatori sono
gl'incantatori del diavolo, perché inducono un uomo a credersi simile a chi in realtà non assomiglia affatto.
Essi sono come Giuda e tradiscono un uomo per venderlo al suo nemico, cioè al demonio. Gli adulatori sono
i cappellani del diavolo che cantano "Placebo" (7) continuamente. L'adulazione va classificata fra i vizi
dell'ira, perché molto spesso, quando qualcuno è in collera con un altro, si mette ad adulare per farsi
sostenere nella sua lite.
Parliamo ora della maledizione che proviene da un cuore irato. In genere si può dire che sia maledizione
qualsiasi potere malefico. Tale maledizione, come dice San Paolo, allontana l'uomo dal regno dì Dio. E
molto spesso tale maledizione si ritorce erroneamente su colui che maledice, come un uccello che ritorni al
proprio nido. Bisognerebbe soprattutto evitare di maledire i propri figli, di mandare al diavolo la propria
progenie come tutto ciò che ad essa appartiene. Si tratta in verità d'un gran pericolo e d'un gran peccato.
Parliamo poi dell'insulto e dell'offesa che sono ferite molto gravi nel cuore dell'uomo, in quanto scuciono
nel cuore dell'uomo i vincoli dell'amicizia. Non c'è uomo infatti che possa andar d'accordo con chi l'abbia
apertamente insultato e offeso e oltraggiato. E' questo un peccato orribile, come dice Cristo nel vangelo. E
badate: chi insulta il suo prossimo, o lo insulta per qualche malanno o pena che abbia sul corpo
chiamandolo «lebbroso... brutto storpio», o lo insulta per qualche peccato che abbia commesso. Ora, se lo
insulta per qualche sua pena, l'insulto si rivolge allora a Gesù Cristo, in quanto non c'è pena che non sia
inviata secondo giustizia e col permesso di Dio, si tratti pure di lebbra, mutilazione o altro malanno. Se poi
lo accusa ingenerosamente di peccato, chiamandolo «scostumato... brutto ubriacone» e così via, questo
allora contribuisce ad aumentare la gioia del demonio che è sempre contento quando gli uomini peccano.
L'insulto, certo, non può derivare che da un cuore di villano. La bocca parla infatti come detta il cuore.
Attenti dunque: dovendo rimproverare qualcuno, bisogna cercare di non scadere nell'insulto e nell'offesa.
Se infatti non si sta attenti, si può facilmente accendere il fuoco della collera e dell'ira che invece andrebbe
spento, uccidendo così forse chi con benevolenza si sarebbe potuto correggere. Salomone dice: «Una
lingua amorevole è come un albero di vita». Di vita spirituale, vuol dire. Una lingua affilata, invece, uccide lo
spirito sia di chi rimprovera come di chi viene rimproverato. Ecco che cosa dice Sant'Agostino: «Non v'è
nessuno che assomigli tanto al figlio del diavolo quanto colui che spesso rampogna». E San Paolo: «Al servo
di Dio non s'addice l'insulto». Se dunque l'insulto è fra chiunque un atto villano, sconveniente al massimo è
fra uomo e donna: allora veramente non c'è più pace. Salomone dice: «Casa senza tetto e sgocciolante e
moglie rissosa si equivalgono». Chi si trovi in una casa che in molti punti sgoccioli, anche se in un punto
evita le gocce, in un altro esse gli cadono addosso. Così succede con una moglie rissosa: se non rampogna
per un verso, rampogna per l'altro. Onde Salomone dice: «Meglio un tozzo di pan secco in tranquillità che
una casa piena di delizie in agitazione». E San Paolo conclude: «Mogli, siate soggette ai vostri mariti come si
conviene nel Signore, e voi mariti amate le vostre mogli». "Ad Colossenses, tertio".
Parliamo poi dello scherno, che è un iniquo peccato, specialmente quando si schernisca un uomo per le sue
buone opere. Tali schernitori infatti si comportano come il sozzo rospo che non può tollerare di sentire il
dolce profumo del vigneto in fiore. (8) Questi schernitori sono fedeli compagni del diavolo, perché provano
gioia quando il diavolo vince, e dolore quando egli perde. Essi sono gli avversari di Gesù Cristo, perché
odiano ciò ch'egli ama, cioè la salvezza dell'anima.
Parliamo ora del cattivo consiglio. Colui che dà cattivo consiglio è un traditore, perché inganna chi si fida di
lui, "ut Achitofel ad Absolonem. (9) Ma tuttavia il suo cattivo consiglio si ritorce prima di tutto contro lui
stesso. Dice infatti il saggio: «Ogni falso vivere ha questa proprietà in se stesso, che chi vuol danneggiare gli
altri reca prima danno a se stesso». Occorre dunque capire che non bisogna prendere consiglio da gente
ipocrita, né da gente in collera o piena di rancore, né da gente che badi troppo al proprio interesse o da
gente troppo mondana, specialmente nel consiglio di anime.
Viene ora il peccato di coloro che seminano e producono discordia fra la gente, il che è un peccato che
Cristo odia sommamente. E non c'è da meravigliarsene, perché egli morì appunto per portare concordia.
Essi recano a Cristo maggior oltraggio di quanto non ne recassero coloro che lo crocifissero, perché Dio ama
più che vi sia amicizia fra la gente di quanto non amasse il suo stesso corpo, che offrì appunto perché vi
fosse unione. Perciò sono come il diavolo coloro che stanno sempre intorno a spargere discordia.
Viene poi il peccato di doppiezza, di coloro che davanti alla gente parlano bene, e male alle spalle; oppure
che fingono di parlare in buona fede, per gioco o per scherzo, mentre in realtà parlano in mala fede.
Viene poi il tradimento di consiglio, per cui un uomo viene diffamato e a stento può rimediare al suo danno.
Viene poi la minaccia, che è aperta follia, perché colui che spesso minaccia, spesso promette più di quanto
non sappia compiere.
Vengono poi le parole oziose, che non servono né a chi le dice né a chi le ascolta, Sono parole oziose quelle
che sono inutili o non tendono ad alcun vantaggio naturale. E per quanto talvolta le parole oziose siano
peccato veniale, bisognerebbe tuttavia temerne perché poi dobbiamo renderne conto a Dio.
Viene poi il chiacchierare che non può essere senza peccato e, come dice Salomone, «è segno di aperta
follia». Onde un filosofo, al quale fu chiesto come si potesse piacere alla gente, rispose: «Compi molte
opere buone e fa' poche chiacchiere».
Poi viene il peccato dei beffatori che sono le scimmie del demonio, perché con le loro beffe fanno ridere la
gente con atti da scimmia. San Paolo proibisce tali beffe. Badate che, come le parole virtuose e sante
confortano coloro che lavorano al servizio di Cristo, così le parole volgari e i lazzi beffardi incoraggiano
coloro che lavorano al servizio del diavolo. Sono peccati che provengono dalla lingua e derivano dall'ira e da
altri peccati ancora.
SEQUITUR REMEDIUM CONTRA PECCATUM IRE.
Il rimedio contro l'ira è una virtù che si chiama mansuetudine, cioè bonarietà; e anche un'altra virtù, che si
chiama pazienza o tolleranza.
La bonarietà limita e raffrena gli stimoli e le spinte impetuose che l'uomo ha nel cuore, in modo che non
trabocchino fuori in collera e ira. La tolleranza sopporta dolcemente tutte le seccature e i torti che ogni
uomo infligge all'altro. Così dice San Gerolamo della bonarietà: «Essa non fa o dice male ad alcuno; né per
male che sia fatto o detto ad alcuno, essa si riscalda oltre ragione». Talvolta questa virtù proviene da
natura, onde il filosofo dice: «Per natura l'uomo è pronto, disposto e inclinato alla bontà; ma quando la
bonarietà è ispirata dalla grazia, allora è ancor più meritevole».
La pazienza, che è un altro rimedio contro l'ira, è una virtù che tollera benignamente la bontà di ciascun
uomo e non s'adira per alcun torto che le venga fatto. Dice il filosofo che la pazienza è quella virtù che
sopporta benignamente tutti gli oltraggi dell'avversità e qualsiasi cattiva parola. Questa virtù rende l'uomo
simile a Dio, anzi, dice Cristo, lo rende suo figlio diletto. Questa virtù sconfigge il tuo nemico, onde il saggio
dice: «Se vuoi vincere il nemico, impara a sopportare». E bisogna capire che quattro sono i modi in cui
l'uomo soffre offesa nelle cose esterne, contro i quali deve avere quattro modi di pazienza.
La prima offesa sta nelle cattive parole: ne soffrì Gesù Cristo senza lamentarsi, molto pazientemente, ogni
volta che i giudei insultarono e l'oltraggiarono. Sopporta dunque pazientemente; il saggio dice infatti: «Se
te la prendi con uno stolto, sia che lo stolto s'incollerisca o rida, tu non avrai mai pace». L'altra offesa
esterna è l'aver danno nei tuoi beni: anche dì ciò Cristo soffrì molto pazientemente, quando venne
spogliato di tutto ciò che in vita possedeva, e non era che la sua veste. La terza offesa è che un uomo abbia
danno alla sua persona: e di questo soffrì molto pazientemente Cristo in tutta la sua passione. La quarta
offesa sta nel costringere a lavori gravosi, ond'io dico che chi fa lavorare i propri servi troppo duramente o
fuori tempo, come nei giorni santificati, commette senz'altro peccato grave: e anche di questo soffrì molto
pazientemente Cristo e ci ammaestrò nella pazienza portando sulle sue sante spalle la croce sulla quale
dovette poi subire una vile morte. Bisogna dunque imparare ad essere pazienti. Infatti non soltanto i
cristiani furono pazienti per amore di Gesù Cristo e per il premio di quella beata vita che è eterna, ma
perfino gli antichi pagani, che cristiani non furono mai, elogiarono e praticarono la virtù della pazienza.
Una volta un filosofo, volendo picchiare un suo discepolo per una grave mancanza che l'aveva molto
irritato, prese una verga per battere il ragazzo. Vedendo la verga, il ragazzo disse al suo maestro: «Che
intendete fare?» «Voglio batterti» disse il maestro «per castigo!» «In realtà» disse il ragazzo «dovreste
prima castigare voi stesso che avete perduto tutta la vostra pazienza per un ragazzo!» «E' vero» disse il
maestro in lacrime «hai ragione: prendi tu la verga, figlio mio caro, e castigami per la mia impazienza.»
Dalla pazienza deriva l'obbedienza, per cui l'uomo obbedisce a Cristo e a tutti coloro ai quali dovrebbe
essere obbediente in Cristo. Voi capite che l'obbedienza è perfetta quando si fa, lieti e svelti e di buon
animo, tutto ciò che bisogna fare. L'obbedienza sta in genere nel praticare la dottrina di Dio e dei propri
superiori, ai quali bisognerebbe sempre rettamente obbedire.
SEQUITUR DE ACCIDIA.
Dopo il peccato d'invidia e d'ira, ora voglio parlarvi del peccato d'accidia. L'invidia acceca il cuore dell'uomo,
l'ira l'uomo lo sconvolge, ma l'accidia lo rende greve, penoso e triste. Invidia ed ira producono amarezza di
cuore, la quale amarezza è madre d'accidia e lo priva dell'amore d'ogni cosa buona. L'accidia è dunque
angoscia e turbamento di cuore, e Sant'Agostino dice: «E' noia del bene e gioia del danno». Si tratta
certamente d'un abominevole peccato, perché fa torto a Gesù Cristo in quanto lo priva del servizio che
ciascuno dovrebbe rendergli con ogni diligenza, come dice Salomone. Ma l'accidioso non ha tale diligenza:
egli fa tutto con noia e rabbia e torpore e pretesti e indolenza e malavoglia; e perciò sta scritto: «Maledetto
chi serve Dio con negligenza!». L'accidia è poi nemica d'ogni stato umano, il quale stato può essere in tre
maniere: uno è lo stato d'innocenza com'era quello di Adamo prima che cadesse nel peccato, nel quale
stato egli era tenuto a operare in lode e onore di Dio; altro stato è quello dei peccatori, nel quale gli uomini
sono tenuti a faticare pregando Dio per la remissione dei loro peccati e perché egli voglia concedere loro di
sollevarsi dai loro errori; altro stato è quello di grazia nel quale l'uomo è tenuto alle opere di penitenza.
L'accidia è nemica e contraria a tutte queste cose, perché non ama alcuna occupazione: si tratta veramente
d'un turpe peccato, contrario perfino al mantenimento della vita del corpo, in quanto non provvede alle
necessità temporali e tralascia e trascura e distrugge per noncuranza qualsiasi bene.
La quarta cosa è che l'accidioso, per il suo torpore e la sua indolenza, è come quelli che sono già nelle pene
infernali: i dannati, infatti, sono così vincolati, che ormai non possono né fare né pensare bene. Deriva
soprattutto dall'accidia il fatto che l'uomo s'annoi e s'infastidisca a compiere qualsiasi bene, facendo sì che
Dio, come dice San Giovanni, abbia quest'accidia in abominio.
Viene poi l'indolenza che non sopporta alcuna durezza o pena. Dice infatti Salomone che l'indolente è così
molle e delicato, che non riesce a tollerare asperità o molestia e sforma tutto ciò che fa. Contro questo
putrido peccato d'accidia e d'indolenza bisogna invece esercitarsi nelle buone opere, avendo virilmente e
virtuosamente animo di fare bene e pensando che nostro Signore Gesù Cristo ripaga ogni opera buona, per
piccola che sia. Gran cosa è l'abitudine di lavorare, perché, come dice San Bernardo, fa sì che chi lavora
abbia braccia forti e muscoli saldi, mentre l'indolenza li rende deboli e molli. S'aggiunge poi a ciò il timore di
cominciare qualsiasi opera buona; infatti, chi è incline al peccato crede che sia così grande impresa il
dedicarsi a far opere di bene e si mette in mente che le circostanze del bene siano così gravose e pesanti da
sostenere, che, come dice San Gregorio, non ha proprio il coraggio di intraprendere opere di bene.
Viene poi lo sconforto che è disperazione della misericordia di Dio e deriva o da eccessivo dolore o da
eccessiva paura, per cui s'immagina d'aver talmente peccato, che ormai non servirebbe più pentirsi e
ravvedersi: è per tale disperazione e paura, dice Sant'Agostino, che l'uomo s'abbandona con tutto il cuore a
ogni sorta di peccati. Si tratta d'un detestabile traviamento che, portato alle sue estreme conseguenze,
diventa peccato contro lo Spirito Santo. Quest'orribile peccato è assai pericoloso, perché chi è disperato
non esita di fronte ad alcun traviamento o perfidia, come ben dimostra Giuda. E' questo, al di sopra di tutti i
peccati, il più spiacente a Cristo e a lui più avverso. Colui che dispera fa esattamente come il vigliacco
campione che indietreggia e dice «mi ritiro» senza necessità. Ah, non bisogna mai tirarsi indietro e
disperare! La misericordia di Dio è sempre pronta a offrirsi al penitente, al di sopra di tutti i peccati ch'egli
possa aver commesso. Ahimè, non può l'uomo ricordarsi del vangelo di San Luca (15), dove Cristo dice che
«vi sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravveda, che per novantanove giusti i quali non hanno
bisogno di ravvedimento»? Guardate più avanti, nello stesso vangelo, la gioia e la festa del buon uomo che
aveva perduto il figlio, quando il figlio pentito fece ritorno al padre. E perché non ricordare anche, come
dice San Luca (23), il ladrone appeso accanto a Gesù Cristo, che disse: «Signore, ricordati di me quando
sarai giunto nel tuo regno»? «In verità» rispose Gesù «io ti dico che oggi tu sarai meco in paradiso.» Non
esiste dunque nell'uomo alcun peccato che sia tanto orribile da non poter in qualche modo essere
annullato dalla penitenza, in virtù della passione e della morte di Cristo. Ah, perché disperare quando la sua
misericordia è così pronta e generosa? Chiedete e otterrete!... Viene poi la sonnolenza ossia quel greve
torpore che rende l'uomo pesante e torpido di corpo e di mente: è un peccato che deriva dall'indolenza.
Così la mattina, per esempio, non bisognerebbe mai dormire, a meno che non vi sia qualche ragionevole
motivo: l'ora mattutina, infatti, è la più opportuna per dire le preghiere, pensare a Dio, onorare Dio e fare
elemosina al povero che primo si presenti nel nome di Cristo. Ecco che cosa dice Salomone: «Coloro che la
mattina si destano e mi cercano, mi troveranno...». Viene poi la negligenza ossia la svogliataggine che non
si cura mai di nulla: se l'ignoranza è madre d'ogni danno, la negligenza ne è certo la nutrice. Chi è
negligente infatti non bada mai, quando fa qualcosa, se la fa bene o male.
Il rimedio di questi due peccati, dice il saggio, sta nel fatto che «chi teme Dio non risparmia di fare quel che
deve fare». Chi poi Dio lo ama, farà in modo di compiacerlo con le proprie opere, dedicando se stesso e
tutte le proprie forze a compiere il bene... Viene poi l'ozio che è come una porta aperta a tutti i vizi. Un
uomo pigro è infatti come una città senza mura: i diavoli possono entrarvi da ogni lato o colpire allo
scoperto con tentazioni da ogni parte. L'ozio è il bacino in cui si raccolgono tutti i cattivi e malvagi pensieri,
tutte le ciarle, le truffe ed ogni sozzura. Il paradiso verrà concesso a chi per esso lavora, non agli oziosi!
Anche Davide dice che «quanti con gli uomini non saranno stati al lavoro, con gli uomini non saranno
sferzati», intendendo in purgatorio; onde sembra senz'altro che saranno tormentati dal diavolo all'inferno,
a meno che non facciano penitenza.
Viene poi il peccato che si chiama "tarditas": si commette quando si è troppo tardi ossia lenti nel rivolgersi
a Dio, ed è certamente una gran follia. E come se uno cadesse in un fosso e non volesse risollevarsi. E' un
vizio che deriva dalla speranza illusoria d'aver sempre tempo, ma è una speranza che vien spesso delusa.
Viene poi la fiacchezza, per cui appena s'incomincia un'opera buona, subito la si tralascia e abbandona,
come fa certa gente che abbia in custodia qualche creatura e subito non se ne curi appena incontri qualche
contrarietà o noia. Così fan certi pastori novelli che consapevolmente lasciano correre il loro gregge
incontro al lupo che sta in mezzo ai rovi, o neppure vi badano. Da ciò deriva povertà e distruzione di cose
sia spirituali che temporali... Viene poi una specie di freddezza che raggela completamente il cuore
dell'uomo... Poi viene la mancanza di devozione, per cui l'uomo, dice San Bernardo, diventa così cieco e
prova nella sua anima un tale languore che non può né leggere o cantare pienamente in chiesa, né
ascoltare o pensare qualche devozione, né attendere con le proprie mani a qualche opera buona, senza
sentirsi scontento e insoddisfatto: diventa perciò torpido e pigro e presto monta in collera e si lascia
prendere dall'odio e dall'invidia... Viene poi il peccato del tedio del mondo, che si chiama "tristicia", il quale,
dice San Paolo, uccide: esso produce infatti la morte dell'anima e del corpo, in quanto rende l'uomo stanco
della sua stessa vita, portandolo spesso ad abbreviarsela prima ancora che per via naturale giunga la sua
ora.
REMEDIUM CONTRA PECCATUM ACCIDIE.
Contro quest'orribile peccato d'accidia e le sue ramificazioni c'è una virtù che si chiama "fortitudo" o forza,
che è un moto dell'animo per cui un uomo disprezza il tedio. Questa virtù è così potente e vigorosa da dar
coraggio a resistere validamente e saggiamente contro malèfici pericoli e a lottare contro gli assalti del
demonio. Essa infatti innalza e invigorisce l'anima, proprio dove l'accidia l'abbatte e l'indebolisce, in quanto
questa "fortitudo" riesce con prolungata tolleranza a sopportare qualsiasi travaglio che si presenti.
Questa virtù è di diverse specie, di cui la prima si chiama magnanimità, vale a dire grandezza d'animo:
occorre infatti un animo veramente grande contro l'accidia, affinché essa non inghiottisca l'anima col
peccato della tristezza o l'annienti con la disperazione. E' una virtù che saviamente e ragionevolmente
porta la gente a intraprendere di sua spontanea volontà anche imprese ardue e co