Manuale della Professione Medica

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Manuale della Professione Medica
contiene CD-Rom
Manuale della Professione Medica
Deontologia Etica Normativa
e 23,50
Manuale della
Professione Medica
Deontologia Etica Normativa
Manuale della
Professione Medica
Deontologia Etica Normativa
EDITOR IN CHIEF
Aldo Pagni
Past President FNOMCeO
Sergio Fucci
Giurista e bioeticista, già consigliere
presso la Corte d’Appello di Milano
Presentazione a cura di
Presidente della Federazione Nazionale
degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri
FNOMCeO
Amedeo Bianco
C.G. EDIZIONI MEDICO SCIENTIFICHE s.r.l.
Via Candido Viberti, 7 - 10141 TORINO
Tel. 011.33.85.07 r.a. - Fax 011.38.52.750
Sito Web: www.cgems.it - E-mail: [email protected]
Manuale della Professione Medica. Deontologia Etica Normativa
Volume unico
© 2011 C.G. Edizioni Medico Scientifiche s.r.l. Tutti i diritti riservati.
Questo libro è protetto da Copyright. Nessuna parte di esso può essere riprodotta, contenuta in un
sistema di recupero o trasmessa in ogni forma con ogni mezzo meccanico, di fotocopia, incisione o
altrimenti, senza il permesso scritto dell’Editore.
ISBN 978-88-7110-270-2
Realizzato in Italia
Duplicazione Datatex - Torino
Hanno collaborato
EDITOR IN CHIEF
Aldo Pagni
Past President FNOMCeO
Sergio Fucci
Giurista e bioeticista, già consigliere presso la
Corte d’Appello di Milano
HANNO COLLABORATO
Alesssandro Alimonti
Dipartimento Ambiente e prevenzione primaria,
Istituto Superiore di Sanità
Giancarlo Aulizio
Presidente OMCeO Forlì-Cesena
Mauro Barni
Professore Emerito di Medicina Legale,
Università di Siena
Paolo Benciolini
Ordinario di Medicina Legale,
Università degli Studi di Padova
Cristina Boni
FIMMG, Federazione Italiana Medici di Famiglia
Sergio Bovenga
Presidente OMCeO, Grosseto
Fabio Cembrani
Simona del Vecchio
Direttore S.C. Medicina Legale, ASL 1 Imperiese
Vittorio Fineschi
Ordinario di Medicina Legale,
Università degli Studi di Foggia
Sergio Fucci
Giurista e bioeticista già consigliere presso la
Corte d’Appello di Milano
Walter Gatti
Direttore portale web FNOMCeO
Bartolomeo Griffa
Presidente CAO, Torino
Mario Greco
Pubblicista, già Direttore FNOM
Dirigente sup. ar. Min. Lavoro e P.S., Roma
Alessandro Innocenti
Presidente OMCeO, Sondrio
Bruno Magliona
Ricercatore presso la Sezione
di Medicina Legale del Dipartimento
di Anatomia Umana, Farmacologia
e scienze medico-forensi,
Università degli Studi di Parma
Carlo Manfredi
Presidente OMCeO, Massa Carrara
Direttore Unità Operativa di Medicina Legale,
Azienda provinciale per i Servizi Sanitari di Trento
Massimo Martelloni
Fabio Centini
Patrizia Masciovecchio
Associato di tossicologia forense,
Università degli studi di Siena
Luigi Conte
Presidente OMCeO, Udine
Direttore UO Medicina Legale AUSL 2, Lucca
Direttore medico-legale, ASL L’Aquila
Daniela Mattei
Dipartimento Ambiente e prevenzione primaria,
Istituto Superiore di Sanità
VI
Manuale della Professione Medica
Giuseppe Miserotti
Aldo Pagni
Giovanni Morrocchesi
Antonio Panti
Gian-Aristide Norelli
Chiara Riviello
Presidente OMCeO, Piacenza
Dirigente OMCeO, Firenze
Ordinario di Medicina Legale,
Università degli Studi di Firenze
Past President FNOMCeO
Presidente OMCeO, Firenze
Presidente OMCeO, Taranto
Specialista in Ginecologia e Ostetricia,
Dipartimento di Anatomia Istologia e Medicina Legale, Università di Firenze
Alberto Oliveti
Giovanbattista Sisca
Cosimo Nume
Vice Presidente ENPAM e Medico di famiglia,
Senigallia (AN)
Aristide Paci
Presidente ONAOSI
Presidente OMCeO, Terni
Federico Pagano
FIMMG, Federazione Italiana Medici di Famiglia
Specialista in Medicina dello Sport
Elena Terrosi-Vagnoli
Dottore di Ricerca in Deontologia ed Etica
Medica, Università di Siena
Emanuela Turillazzi
Professore 0HGLFLQDAssociato Legale,
Università di Foggia
Indice
Riflessioni per una nuova deontologia
Etica e deontologia
Il contributo della bioetica
L’attività medica tra doverosità e legittimità
Dovere di relazione e certezza di consenso
Il dovere d’informare
Segretezza e informativa
Il Codice di Deontologia
Il dovere dell’appropriatezza
Percorsi dell’appropriatezza
Conclusioni
Appendice: doveri legali di informativa
1
4
8
10
11
17
21
24
29
29
31
Capitolo 1 - L’Ordine professionale e il Codice deontologico Art.1 Definizione
L’evoluzione nel corso del tempo della deontologia professionale
Il valore del Codice nell’ordinamento generale
L’uso delle norme deontologiche nella motivazione delle sentenze
Art. 2 Potestà e sanzioni disciplinari
Il potere disciplinare dell’Ordine e il suo esercizio
Il procedimento disciplinare
Rapporti tra l’Ordine professionale e le Aziende sanitarie
in materia disciplinare
Art. 64 Doveri di collaborazione
45
45
46
49
50
52
53
54
Capitolo 2 - La responsabilità professionale
Introduzione al tema della responsabilità professionale per malpratica
La responsabilità penale per malpratica – colpa medica. Definizione
57
58
61
61
64
VIII
Manuale della Professione Medica
La responsabilità penale per malpratica – colpa medica. Casistica
La responsabilità penale per malpratica – nesso di causalità.
Definizione e casistica
Il concorso di diverse condotte colpose e di più cause. La responsabilità
penale nel lavoro in équipe
La responsabilità penale per intervento sanitario “arbitrario”
La responsabilità civile per malpratica. Definizione e contenuto
La responsabilità civile per malpratica – colpa e nesso di causalità
Cenni alla responsabilità della struttura sanitaria
Cenni alle problematiche assicurative in campo sanitario
La responsabilità davanti alla Corte dei Conti per “danno erariale”
Introduzione
Il concetto di dolo o colpa grave rilevante nel danno erariale
La responsabilità a carico del medico di medicina generale per “iperprescrizione”
70
Capitolo 3 - Doveri del medico e diritti del cittadino
Art. 3 Doveri del medico
Art. 4 Libertà e indipendenza della professione
Indipendenza ed autonomia nell’esercizio della professione
all’interno delle strutture sanitarie o in convenzione
Art. 7 Limiti dell’attività professonale
Art. 20 Rispetto dei diritti del cittadino
Art. 28 Fiducia del cittadino
Art. 21 Competenza professionale
Art. 6 Qualità professionale e gestionale
Qualità gestionale
Qualità professionale
103
103
105
Art. 70 Qualità delle prestazioni
L’efficacia e l’efficienza delle prestazioni (fare solo ciò che è utile a chi ne ha
veramente bisogno)
L’efficienza e l’appropriatezza organizzativa (utilizzare al meglio le risorse disponibili)
La tempestività e la continuità delle cure (la risposta giusta al momento giusto: il paziente al centro della organizzazione)
L’accessibilità e l’equità (garantire agli utenti un accesso equo al servizio di cui hanno bisogno)
123
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108
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124
126
126
IX
Indice
La soddisfazione degli utenti (ascolto dell’utente)
Responsabilizzazione e miglioramento continuo della qualità (valutazione, monitoraggio e MCQ… chi si ferma è perduto!)
Art. 14 Sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico
Art. 33 Informazione al cittadino
Art. 34 Informazione a terzi
Art. 35 Acquisizione del consenso
Art. 37 Consenso del legale rappresentante
Art. 32 Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili
Art. 27 Libera scelta del medico e del luogo di cura
127
127
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131
134
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143
146
Capitolo 4 - Gli obblighi del medico
Art. 19 Aggiornamento e formazione professionale permanente
L’Ordine per la qualità della professione ed il ruolo dell’ECM
Art. 10 Segreto professionale
Art. 11 Riservatezza dei dati personali
Il dovere della riservatezza
Esercizio della medicina e tutela della riservatezza
Art. 12 Trattamento dei dati sensibili
La protezione dei dati sensibili
Normativa
Trattamento dei dati personali in ambito sanitario
L’informazione della persona assistita
Deroghe ammesse
Reclami alle ASL e qualità del SSN
Il trattamento dei dati genetici
Art. 51 Obblighi del medico
Art. 52 Tortura e trattamenti disumani
Art. 53 Rifiuto consapevole di nutrirsi
Art. 40 Donazione di organi, tessuti e cellule
Art. 41 Prelievo di organi e tessuti
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167
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179
179
X
Manuale della Professione Medica
Capitolo 5 - Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e
ambiente
183
Art. 5 Educazione alla salute e rapporti con l’ambiente
183
Attenzione per l’ambiente e prevenzione della salute
183
Art. 8 Obbligo d’intervento
190
Art. 9 Calamità
191
Art. 36 Assistenza d’urgenza
191
Art. 74 Trattamento sanitario obbligatorio e denunce obbligatorie 192
La tutela della salute mentale
192
Fonti normative
192
Il Dipartimento di Salute Mentale
195
La profilassi delle malattie infettive
196
La notifica di malattia infettiva
197
Provvedimenti sulle fonti di infezione
202
Vaccinazioni
220
Notifica delle malattie infettive e altre denunce sanitarie
229
Art. 75 Prevenzione, assistenza e cura della dipendenza da sostanze da abuso
234
Le tossicodipendenze
234
Aspetti generali
234
Definizione di “stupefacente”
243
Definizione di tossicodipendenza
245
L’aspetto penalistico
249
Il trattamento medico dei tossicodipendenti
252
Tossicodipendenze e deontologia medica
254
Le comunità terapeutiche
255
Appunti su “tabagismo” e “alcolismo”
257
Il tabagismo
257
L’alcolismo
259
Capitolo 6 - Pubblicità e informazione sanitaria
Art. 55 Informazione sanitaria
Art. 56 Pubblicità dell’informazione sanitaria
Art. 57 Divieto di patrocinio
263
263
263
267
Allegato: Pubblicità dell’informazione sanitaria. Linea-guida inerente
l’applicazione degli artt. 55-56-57 del Codice di Deontologia medica 270
XI
Indice
Capitolo 7 - Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti
terapeutici
Art. 13 Prescrizione e trattamento terapeutico
Art. 23 Continuità delle cure
La prescrizione dei farmaci
La scelta terapeutica
Le attese del paziente
L’alleanza terapeutica
I condizionamenti del medico
La prescrizione delle cure primarie
La conoscenza scientifica come base della terapia
Efficienza farmacologica, efficacia clinica
Terapia ed EBM
La prescrizione tra linee-guida ed esigenze di personalizzazione
Il processo terapeutico
L’appropriatezza prescrittiva
Il medico come prescrittore pubblico
La terapia: una trama di arcaico e di nuovo
La prescrizione di farmaci on-label e off-label
Farmacovigilanza
Art. 22 Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica
Art. 15 Pratiche non convenzionali
Art. 29 Fornitura di farmaci
Art. 30 Conflitto di interesse Allegato: Conflitto d’interesse. Linea-guida inerente l’applicazione
dell’art. 30
Art. 31 Comparaggio L’interpretazione della Giurisprudenza sui rapporti “di confine” tra
comparaggio e gli altri reati ipotizzabili a carico del medico
Capitolo 8 - La sperimentazione
Art. 47 Sperimentazione scientifica
Art. 48 Ricerca biomedica e sperimentazione sull’uomo
Art. 49 Sperimentazione clinica
Conflitto d’interesse
Art. 50 Sperimentazione sull’animale
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277
277
278
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306
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319
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322
324
325
XII
Manuale della Professione Medica
Capitolo 9 - La documentazione dell’attività medica
Art. 24 Certificazione
Art. 25 Documentazione clinica
Art. 26 Cartella clinica
La cartella clinica
Definizione e normativa
Cartella clinica: verso una nuova definizione
Il DLgs 318/1999, art. 9 punto 4
Inquadramento giuridico
Cartella clinica e segreto professionale
Requisiti formali
Cartella clinica: compilazione
Cartella clinica: conservazione
Gli archivi
La circolazione della cartella clinica
Gestione della documentazione sanitaria
Cartella clinica orientata per problemi (CMOP)
Controllo di qualità e cartella clinica
Cartella clinica e responsabilità secondo il diritto vivente
La scheda di dimissione ospedaliera (SDO)
Il registro operatorio
La scheda sanitaria
329
329
329
334
334
334
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349
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356
358
360
365
368
370
Capitolo 10 - Assistenza al malato inguaribile
Art. 39 Assistenza al malato a prognosi infausta
Art. 16 Accanimento diagnostico-terapeutico
Art. 17 Eutanasia
Art. 18 Trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica
Art. 38 Autonomia del cittadino e direttive anticipate
L’assistenza al malato inguaribile: consentita e appropriata
Le scelte mediche: tra desistenza e accanimento
Il rifiuto del trattamento
Le direttive anticipate
Definizioni
373
373
373
373
373
374
376
378
380
382
384
Capitolo 11 - Sessualità e riproduzione
Art. 42 Informazione in materia di sessualità, riproduzione
e contraccezione
387
387
Indice
XIII
La contraccezione e la sterilizzazione
La contraccezione
La sterilizzazione
Il transessualismo e il mutamento di sesso
Le procedure
Art. 43 Interruzione volontaria di gravidanza
L’interruzione volontaria di gravidanza
Le procedure della legge 194/1978
L’impiego della RU486: necessità di un aggiornamento normativo
La storia dell’aborto e dell’intercezione medica
RU486: meccanismo di azione
Evoluzione politica italiana, dall’indagine conoscitiva del Senato alla compatibilità della RU486 con la legge n. 194/1978
Art. 44 Fecondazione assistita
La procreazione medicalmente assistita
Art. 45 Interventi sul genoma umano
Art. 46 Test predittivi
387
387
389
391
392
394
394
394
400
400
402
402
408
408
412
414
Capitolo 12 - Rapporti con i colleghi
Art. 58 Rispetto reciproco
Art. 59 Rapporti con il medico curante
Art. 60 Consulenza e consulto
Art. 61 Supplenza
Art. 62 Attività medico-legale
Art. 63 Medicina fiscale
417
417
418
419
421
421
422
Capitolo 13 - Rapporti con il SSN e con enti pubblici e privati
Art. 54 Onorari professionali
Art. 65 Società tra professionisti
Art. 66 Rapporto con altre professioni sanitarie
Art. 67 Esercizio abusivo della professione e prestanomismo
Premessa
L’interdizione della professione come sanzione disciplinare
L’esercizio abusivo della professione come reato
Art. 68 Medico dipendente o convenzionato
Art. 69 Direzione sanitaria
431
431
434
436
438
439
440
441
442
444
XIV
Manuale della Professione Medica
Capitolo 14 - Medicina dello sport
Art. 71 Accertamento della idoneità fisica
Art. 72 Idoneità - Valutazione medica
Art. 73 Doping
La legislazione
Capitolo 15 - La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo
Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI
Il sistema previdenziale della Fondazione ENPAM
Solidarietà, sostenibilità ed equità generazionale: la convenienza
per i futuri contribuenti
La contribuzione e le prestazioni dei Fondi
Il Fondo di Previdenza Generale
La composizione del Fondo
La contribuzione al Fondo “Quota A”
La contribuzione proporzionale al “Quota B” o Fondo della Libera
Professione: requisiti
Le prestazioni del Fondo Generale
Pensione di invalidità assoluta e permanente
Pensione indiretta ai superstiti
Pensione di reversibilità ai superstiti
Restituzione dei contributi
Indennità di maternità, adozione e affidamento preadottivo
Indennità di aborto
Prestazioni assistenziali all’iscritto e ai suoi superstiti: Fondo Generale
“Quota A”
Prestazioni assistenziali aggiuntive all’iscritto e ai suoi superstiti: Fondo
Generale “Quota B”
Integrazione al trattamento minimo INPS
Maggiorazione della pensione per gli ex combattenti e loro superstiti
I riscatti nel Fondo
Il Fondo Speciale dei Medici di Medicina Generale
La composizione del Fondo
La contribuzione al Fondo
Le prestazioni del Fondo
I riscatti nel Fondo
Il Fondo Speciale degli Specialisti Ambulatoriali
La composizione del Fondo
449
449
449
451
452
di
453
453
454
456
462
462
464
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470
471
471
472
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473
474
476
476
477
481
481
482
483
488
493
493
XV
Indice
La contribuzione al Fondo
Le prestazioni del Fondo
I riscatti nel Fondo
Il Fondo Speciale degli Specialisti e degli Accreditati Esterni
La composizione del Fondo
La contribuzione al Fondo
Le prestazioni del Fondo
I riscatti nel Fondo
Aliquota Modulare su base volontaria
La ricongiunzione
La totalizzazione
La previdenza complementare
“Fondo Sanità”
Riscatto di laurea, riscatto di allineamente o Fondo Pensione
La previdenza integrativa ONAOSI
La legge istitutiva dell’obbligo di contribuzione
Il DPR 616/1977 e la legge 167/1991
La privatizzazione degli enti di previdenza dei professionisti
Giurisprudenza della Corte Costituzionale sull’obbligatorietà di contribuzione
all’ONAOSI
Legge 298/2002: l’estensione dell’obbligo di contribuzione a tutti i sanitari
Finanziaria 2007: restrizione di obbligo di contribuzione
Le prestazioni e i servizi ONAOSI
Misura della contribuzione ONAOSI
Contribuenti volontari
Il nuovo Statuto ONAOSI
Cosa fare per iscriversi volontariamente all’ONAOSI
Le nuove sfide della previdenza ed assistenza delle professioni sanitarie
Perché iscriversi all’ONAOSI
494
494
499
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501
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525
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526
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529
529
530
532
532
533
535
535
538
Capitolo 16 - La libera circolazione nell’Unione Europea
Il diritto di stabilimento e la prestazione di servizi Le “direttive medici” e le norme di attuazione
Le “direttive odontoiatri” e le norme di attuazione
539
539
540
541
Capitolo 17 - L’esercizio dell’odontoiatria
Presupposti formativi Normativa Requisiti giuridici per l’esercizio Campo di attività dell’odontoiatra 543
543
546
548
548
XVI
Manuale della Professione Medica
Lo studio odontoiatrico L’autorizzazione all’esercizio dell’attività L’impianto elettrico Le apparecchiature radiologiche I dispositivi medici Lavori odontotecnici nello studio odontoiatrico La prevenzione del contagio professionale da HIV Norme per gli operatori odontoiatrici (art. 4) Obblighi degli operatori (art. 9) Lo smaltimento dei rifiuti sanitari Appendice - Web e medici: elementi per un uso corretto
del web
549
549
551
554
559
562
563
565
565
565
571
Sommario per articolo
Codice Deontologico
Titolo I – Oggetto e campo di applicazione
Art. 1 – Definizione
Art. 2 – Potestà e sanzioni disciplinari
Titolo II – Doveri generali del medico
Capo I – Libertà, indipendenza e dignità della professione
Art. 3 – Doveri del medico
Art. 4 – Libertà e indipendenza della professione
Art. 5 – Educazione alla salute e rapporti con l’ambiente
Art. 6 – Qualità professionale e gestionale
Art. 7 – Limiti dell’attività professionale
Capo II – Prestazioni d’urgenza
Art. 8 – Obbligo d’intervento
Art. 9 – Calamità
Capo III – Obblighi peculiari del medico
Art. 10 – Segreto professionale Art. 11 – Riservatezza dei dati personali Art. 12 – Trattamento dei dati sensibili Capo IV – Accertamenti diagnostici e trattamenti terapeutici
Art. 13 – Prescrizione e trattamento terapeutico Art. 14 – Sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico Art. 15 – Pratiche non convenzionali Art. 16 – Accanimento diagnostico-terapeutico Art. 17 – Eutanasia Art. 18 – Trattamenti che incidono sulla integrità psico-fisica Art. 19 – Aggiornamento e formazione professionale permanente 45
52
103
105
183
116
108
190
191
155
156
167
277
128
304
373
373
373
149
XVIII
Manuale della Professione Medica
Titolo III – Rapporti con il cittadino
Capo I – Regole generali di comportamento
Art. 20 – Rispetto dei diritti del cittadino Art. 21 – Competenza professionale Art. 22 – Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica Art. 23 – Continuità delle cure Art. 24 – Certificazione Art. 25 – Documentazione clinica Art. 26 – Cartella clinica 108
112
301
277
329
329
334
Capo II – Doveri del medico e diritti del cittadino
Art. 27 – Libera scelta del medico e del luogo di cura Art. 28 – Fiducia del cittadino Art. 29 – Fornitura di farmaci Art. 30 – Conflitto di interesse Art. 31 – Comparaggio 146
110
306
306
314
Capo III – Doveri di assistenza
Art. 32 – Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili 143
Capo IV – Informazione e consenso
Art. 33 – Informazione al cittadino Art. 34 – Informazione a terzi Art. 35 – Acquisizione del consenso Art. 36 – Assistenza d’urgenza Art. 37 – Consenso del legale rappresentante Art. 38 – Autonomia del cittadino e direttive anticipate 130
131
134
191
139
374
Capo V – Assistenza ai malati inguaribili
Art. 39 – Assistenza al malato a prognosi infausta 373
Capo VI – Trapianti di organi, tessuti e cellule
Art. 40 – Donazione di organi, tessuti e cellule Art. 41 – Prelievo di organi e tessuti 179
179
Capo VII – Sessualità e riproduzione
Art. 42 – Informazione in materia di sessualità, riproduzione
e contraccezione 387
XIX
Sommario per articolo
Art. 43 – Interruzione volontaria di gravidanza Art. 44 – Fecondazione assistita Art. 45 – Interventi sul genoma umano Art. 46 – Test predittivi 394
408
412
414
Capo VIII – Sperimentazione
Art. 47 – Sperimentazione scientifica Art. 48 – Ricerca biomedica e sperimentazione sull’uomo Art. 49 – Sperimentazione clinica Art. 50 – Sperimentazione sull’animale 319
320
322
325
Capo IX – Trattamento medico e libertà personale
Art. 51 – Obblighi del medico Art. 52 – Tortura e trattamenti disumani Art. 53 – Rifiuto consapevole di nutrirsi 176
177
178
Capo X – Onorari professionali nell’esercizio libero professionale
Art. 54 – Onorari professionali 431
Capo XI – Pubblicità e informazione sanitaria
Art. 55 – Informazione sanitaria Art. 56 – Pubblicità dell’informazione sanitaria Art. 57 – Divieto di patrocinio 263
263
267
Titolo IV – Rapporti con i colleghi
Capo I – Rapporti di collaborazione
Art. 58 – Rispetto reciproco Art. 59 – Rapporti col medico curante 41
418
Capo II – Consulenza e consulto
Art. 60 – Consulenza e consulto 419
Capo III – Altri rapporti tra medici
Art. 61 – Supplenza 421
Capo IV – Attività medico-legale
Art. 62 – Attività medico legale Art. 63 – Medicina fiscale 421
422
XX
Manuale della Professione Medica
Capo V – Rapporti con l’Ordine professionale
Art. 64 – Doveri di collaborazione 58
Titolo V – Rapporti con i terzi
Capo I – Modalità e forme di espletamento dell’attività professionale
Art. 65 – Società tra professionisti Art. 66 – Rapporto con altre professioni sanitarie Art. 67 – Esercizio abusivo della professione e prestanomismo 434
436
438
Titolo VI – Rapporti con il Servizio Sanitario Nazionale
e con enti pubblici e privati
Capo I – Obblighi deontologici del medico a rapporto di impiego
o convenzionato
Art. 68 – Medico dipendente o convenzionato Art. 69 – Direzione sanitaria Art. 70 – Qualità delle prestazioni 442
444
123
Capo II – Medicina dello Sport
Art. 71 – Accertamento della idoneità fisica Art. 72 – Idoneità – Valutazione medica Art. 73 – Doping 449
449
451
Capo III – Tutela della salute collettiva
Art. 74 – Trattamento sanitario obbligatorio e denunce obbligatorie Art. 75 – Prevenzione, assistenza e cura della dipendenza da sostanze
da abuso 192
234
Indice
XXI
Il Giuramento Professionale
Consapevole dell’importanza e della solennità
dell’atto che compio e dell’impegno che assumo,
giuro:
• di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento;
• di perseguire la difesa della vita, la tutela della
salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo
della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e
sociale, ogni mio atto professionale;
• di curare ogni paziente con eguale scrupolo e
impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e
promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario;
• di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di
una persona;
• di astenermi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico;
• di promuovere l’alleanza terapeutica con il paziente fondata sulla fiducia e
sulla reciproca informazione, nel rispetto e condivisione dei principi a cui
si ispira l’arte medica;
• di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie
conoscenze;
• di mettere le mie conoscenze a disposizione del progresso della medicina;
• di affidare la mia reputazione professionale esclusivamente alla mia competenza e alle mie doti morali;
• di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il decoro e la dignità della professione;
XXII
Manuale della Professione Medica
• di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni;
• di rispettare e facilitare il diritto alla libera scelta del medico;
• di prestare assistenza d’urgenza a chi ne abbisogni e di mettermi, in caso di
pubblica calamità, a disposizione dell’autorità competente;
• di osservare il segreto professionale e di tutelare la riservatezza su tutto ciò
che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio
della mia professione o in ragione del mio stato;
• di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano
l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto
con gli scopi della mia professione.
Presentazione
Amedeo Bianco
Presidente della Federazione Nazionale
degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri
Il nuovo Manuale della Professione Medica, edito dalla C.G. Edizioni Medico
Scientifiche, si presenta come opera pregevole e di notevole valore editoriale
realizzata con il contributo di autorevoli rappresentanti istituzionali e della professione, nonché di studiosi che da sempre si dedicano, con competenza e attenzione, alle problematiche della moderna professione medica e odontoiatrica.
Si tratta di un’opera prestigiosa nei suoi contenuti e nella sua struttura, la
cui lettura ci sentiamo di consigliare vivamente a tutti i medici, anche a quei
colleghi giovani che stanno per entrare nel mondo della professione. Essa infatti offre spunti ed elementi di profonda riflessione per quanto attiene alla
attività del medico.
Ci troviamo di fronte ad un volume che spazia nei più svariati campi del
mondo medico: dall’etica alla responsabilità, dalla materia tecnico-scientifica
ad elementi di diritto sanitario che sempre devono supportare il medico nello
svolgimento della propria attività. Rappresenta pertanto un valido strumento
di apprendimento e di conoscenza sia per chi debba acquisire maggiore destrezza nella pratica professionale che per chi voglia essere pronto al confronto
con le nuove problematiche della professione sempre emergenti.
Non mancano riferimenti alle nostre istituzioni ordinistiche, alla legislazione sanitaria e soprattutto al Codice Deontologico i cui principi sottendono a
tanti aspetti fondamentali e a tante problematiche nuove rispetto al passato, cui
il professionista della salute è quotidianamente posto di fronte.
Esprimo pertanto il mio compiacimento più sincero, certo di riportare il
parere positivo del Comitato Centrale della FNOMCeO, sia alla Casa Editrice
del resto già ampiamente nota per la proficua attività da lungo tempo svolta
in campo sanitario, sia agli Autori che con il loro pregevole contributo hanno
dato maggiore lustro all’iniziativa.
XXIV
Manuale della Professione Medica
Per un nuovo professionalismo medico fondato sull’alleanza terapeutica*
La malattia, al centro del tradizionale paradigma biomedico e al quale, a
partire dalla metà dell’800, si è saldamente ancorata la travolgente ascesa del
professionalismo medico del ventesimo secolo, oggi configura in realtà una
sorta di oggetto fluttuante all’interno dello spazio definito da tre diverse ed a
volte conflittuali rappresentazioni: quella del malato, quella del medico, quella
della società.
In questo spazio si muovono con discrete fortune culture della salute e
della cura “non ortodosse”, alcune relativamente vecchie (medicine e pratiche
non convenzionali), altre del tutto nuove: il self-care, il well-being.
La malattia, territorio indiscusso dei dottori, rappresenta in questi tempi,
o meglio in questo nuovo secolo, un fenomeno multidimensionale in costante
mutamento non solo per gli aspetti tecnico scientifici, ma anche come prodotto dell’interazione delle esperienze soggettive delle persone malate e dei numerosi condizionamenti che la società nel suo complesso, per scelte economiche,
politiche ed etiche, impone alle pratiche professionali ed alle stesse possibilità
di scelta dei cittadini.
La moltiplicazione e la segmentazione dei saperi e delle competenze in
medicina ed in sanità è paradossalmente diventato un tallone d’Achille della
tradizionale dominanza tecnica del medico, laddove ha prima determinato e
poi incentivato lo sviluppo di nuovi professionalismi sanitari che oggi lambiscono e talora invadono gli storici territori di attività esclusiva del medico e
dell’odontoiatra.
Questi processi destabilizzano in modo pervasivo le basi cognitive e relazionali dell’esercizio professionale, producendo evidenti disagi nella misura in
cui impongono risposte efficaci e coerenti ai cambiamenti che coinvolgono
medici, medicina e sanità, salvo scontare una sostanziale marginalità tecnica,
civile e sociale della professione.
Anche questo ci insegna la storia che abbiamo inteso raccontare in questo volume dedicato a cento anni di professione, naturalmente vissuta in contesti sociali, civili e tecnico scientifici diversi ma straordinariamente accomunata da ragioni
e passioni professionali che intatte dobbiamo consegnare al secolo che verrà.
*Introduzione al volume Centenario della istituzione degli Ordini dei Medici, pubblicato da
FNOMCeO (2010). Per gentile concessione FNOMCeO.
Indice
XXV
Abbiamo infatti bisogno della forza di quelle passioni e di quelle ragioni
per comprendere il fenomeno, all’apparenza paradossale, secondo il quale, nel
vissuto e nel percepito dei medici, siano avvertite profonde incertezze sui fini
e sugli scopi della medicina, della sanità e dello stesso esercizio professionale
in una fase in cui è invece in crescita esponenziale il grande patrimonio civile e
sociale che ha costruito l’ascesa e l’affermazione della dominanza del professionalismo medico e cioè i saperi e i poteri della medicina sulla salute e sulla vita.
Queste incertezze vanno affrontate individuando i determinanti dei grandi processi di cambiamento, valutando il loro impatto tecnico professionale,
etico e sociale sul complesso sistema delle cure e dell’assistenza, sulle pratiche
professionali, per contrastarne le derive minacciose, per accettarne invece le
sfide capaci di produrre miglioramenti e prospettare in tal modo un riposizionamento, autonomo e responsabile, della professione medica nel core di quei
processi decisionali che oggettivamente le competono e dai quali sempre più
spesso risulta emarginata. Oggi, forse più di ieri, non è facile rivendicare ruoli
autonomi ed avocare responsabilità in un contesto che, sempre più spesso,
mette in evidenza preoccupanti inadeguatezze del decisore politico ad assumere le scelte che gli competono sugli aspetti direttamente connessi con il
corpo umano e con i suoi valori etici e civili e più in generale con le questioni
di carattere sanitario concernenti le garanzie dell’equità e dell’efficacia della
tutela della salute.
Le scelte in sanità coinvolgono diritti dei cittadini e libertà delle persone e,
anche per questo, hanno bisogno di una politica buona, capace cioè di scegliere
gli indirizzi con autorevolezza, trasparenza e responsabilità, così come di una
gestione dei servizi di cura ed assistenza competente ed efficiente nell’uso delle
risorse.
Questo cerchio virtuoso fatica a chiudersi, se i professionisti sono tenuti
nell’angolo, ridotti ad una anonima prima linea, esposta su un fronte sconfinato di mediazioni difficili tra presunte infallibilità e i limiti oggettivi della
medicina e dei medici, tra domande infinite e risorse definite, tra speranze ed
evidenze, tra accessibilità e equità, tra chi decide e che cosa si decide.
In questi nuovi contesti, assume una straordinaria rilevanza il compito di
esercitare un ruolo efficace di indirizzo e governo della qualità dell’esercizio
professionale non solo inteso come buona pratica tecnica ma anche come
consapevole e responsabile assunzione di responsabilità civili e sociali nella
garanzia del diritto alla tutela della salute nel secolo che verrà.
La storia che proponiamo ci consegna la speranza di una missione possi-
XXVI
Manuale della Professione Medica
bile, quella cioè di poter responsabilmente e legittimamente saldare interessi
professionali ad interessi generali della comunità.
È ancora possibile che la professione medica possa cessare di subire e cominciare a stupire se abbandonerà logiche e culture del passato, troppo spesso
ridotte a mera difesa di interessi immediati e parcellizzati, nell’illusione miope
che salvando le rispettive parti si possa salvare il tutto.
Queste logiche e queste culture hanno chiuso i medici nelle varie ridotte
professionali, i Sindacati di categoria, gli Ordini, le Società Medico-scientifiche, ognuno legittimamente ed orgogliosamen el nuovo paziente-impaziente
ed esigente, ma il frutto più prezioso di intelligenze, di culture, di esperienze
e sofferenze che hanno profondamente caratterizzato e talora condizionato i
profili etici, civili e sociali di grandi questioni attinenti a diritti costituzionalmente protetti.
Il Codice Deontologico, approvato nel dicembre 2006, si colloca all’interno di questa tradizione e, rispetto al precedente del 1998 che aveva recepito
i principi bioetici della Convenzione di Oviedo, appare ancora più positivo
e propositivo, ancora meno paternalista e più lontano dalle suggestioni dei
vecchi poteri e dei tradizionali autoritarismi della medicina e dei medici, per
rafforzare invece una relazione medico paziente, equilibrata, di pari dignità,
fondata sull’informazione e sul consenso che, nel momento di ogni scelta, diventa un’alleanza.
Un passaggio culturale e professionale non facile e non scontato che per alcuni suona ancora come una rinuncia o quantomeno come una intollerabile limitazione all’esercizio di una delega storicamente dominio indiscusso dei medici, in
altre parole una sorta di capitolazione dell’autonomia del medico al prorompente emergere di un forte protagonismo del cittadino nelle scelte, a questo titolo
variamente ridefinito come impaziente, consumatore, prepotente, esigente.
Può così accadere, ed alcune esperienze lo confermano, che i conflitti oggi
effettivamente comprimenti l’autonomia dei medici ed oscuranti ruoli e poteri,
quali ad esempio i limiti oggettivi della medicina e dei medici a fronte di attese
illimitate, la sostenibilità economica dei servizi sanitari scioccamente giocata su
vincoli burocratici imposti, l’esasperato contenzioso medico legale, predatore
di fiducia e di risorse ed alla base di devastanti pratiche difensive, i laceranti
conflitti etici sulle scelte di inizio e fine vita, vengano talora identificati come
il prodotto di una ipertrofia del principio di autodeterminazione del paziente.
Il tramonto della storica “dominanza medica” rischia così di scaricare tutto
il suo potenziale di frustrazioni professionali nella relazione di cura, sollecitan-
Indice
XXVII
do una sorta di restaurazione di un neo paternalismo illuminato, un ritorno al
passato improponibile ed per giunta incapace a curare quel disagio.
La centralità dell’alleanza terapeutica è dunque rafforzata in uno scenario
di esercizio professionale nel quale i due soggetti della relazione di cura sono
attraversati da profondi e travolgenti cambiamenti.
Il paziente è più consapevole dei suoi diritti, più informato e quindi più attento a rivendicare ed esercitare il proprio protagonismo nelle scelte; il medico
è sempre più schiacciato tra i crescenti obblighi verso questo paziente e i vincoli del contenimento dei costi, spesso malamente imposti e quindi percepiti
come invadenti ed invasori delle sfere di autonomia e responsabilità proprie
dell’esercizio professionale.
Ma è soprattutto cambiato il contenuto della relazione di cura:
• sul piano tecnico professionale, l’esplosione delle biotecnologie, della post
genomica, delle nanotecnologie, mentre esalta le potenzialità del tradizionale paradigma biomedico della diagnosi e cura della malattia accendendo attese e speranze quasi miracolistiche di nuovi straordinari poteri della
medicina e dei medici sulla vita biologica dal suo inizio alla sua fine, fatica
invece a far comprendere i propri limiti e a motivare gli insuccessi senza
perdere fiducia e ruoli;
• sul piano etico alcune di queste straordinarie conquiste si accompagnano
a conflitti bioetici che toccano (e lacerano) valori profondi della persona
e della collettività, altre pongono seri ed inquietanti dilemmi di giustizia in
ragione delle risorse limitate;
• sul piano civile e sociale l’accesso equo a servizi di tutela efficaci, appropriati e sicuri sostanzia un diritto di cittadinanza, contribuendo a determinare senso di appartenenza ad una comunità ed ai suoi valori di solidarietà,
di libertà, di tutela dei più fragili.
Ai medici di questo nuovo secolo spetta pertanto il difficile compito di
trovare il filo del loro agire posto a garanzia della dignità e della libertà del
paziente, delle sue scelte, della sua salute fisica e psichica, del sollievo della
sofferenza e della sua vita in una relazione di cura costantemente tesa a realizzare un rapporto paritario ed equo, capace cioè di ascoltare ed offrire risposte
diverse a domande diverse.
L’autonomia decisionale del cittadino, che si esprime nel consenso/dissenso informato, è l’elemento fondante di questa alleanza terapeutica al pari
dell’autonomia e della responsabilità del medico nell’esercizio delle sue funzioni di garanzia. In questo equilibrio, alla tutela ed al rispetto della libertà di
XXVIII
Manuale della Professione Medica
scelta della persona assistita deve corrispondere la tutela ed il rispetto della
autonomia e responsabilità del medico, in ragione della sua scienza e coscienza.
Lo straordinario incontro, ogni volta unico e irripetibile, di libertà e responsabilità non ha dunque per il nostro Codice Deontologico natura meramente
contrattualistica, ma esprime l’autentico e moderno ruolo del medico nell’esercizio delle sue funzioni di garanzia.
In questo nucleo forte di relazioni etiche, civili e tecnico-professionali il
soggetto di cura e il curante, ciascuno “auto-re” di scelte, esprimono entrambi
l’autonomia e la responsabilità che caratterizza ogni alleanza terapeutica e che
in tal senso compiutamente rappresenta il luogo, il tempo e lo strumento per
dare forza, autorevolezza e legittimazione a chi decide e a quanto si decide.
Più in generale, in un progetto che si propone di superare il disagio professionale di questi tempi, ci deve animare il comune disegno di una Professione
vicina alle Istituzioni sanitarie, a supporto dei loro compiti di tutela della salute
pubblica, ed ai cittadini soprattutto dove e quando sono oltraggiati da disinformazione, silenzi, incapacità amministrative e colpiti nei loro diritti alla tutela
della salute da una devastazione dei territori e degli ambienti di vita e di lavoro.
Una vicinanza ai cittadini, ai loro bisogni, alle loro inquietudini è oggi più
che mai indispensabile per dare risposte forti ed equilibrate ai dubbi e alle
incertezze tecniche, civili, etiche, che il travolgente sviluppo della medicina
inevitabilmente propone, non dimenticando mai che anche in un mondo dominato dalle tecnologie, le parole, gli sguardi e le emozioni sono straordinari
strumenti di cura.
Dobbiamo tutelare i nostri giovani, garantendone l’ottimale formazione di
base e specialistica, favorendo il loro ingresso esperto nella professione, promuovendo lo sviluppo delle conoscenze e delle competenze derivanti da fonti
autorevoli e libere da conflitti di interesse.
È nostro compito contribuire a rendere il sistema sanitario affidabile per
i cittadini, a vincere la sfida della sostenibilità economica assumendoci la responsabilità morale e tecnico-professionale dell’uso appropriato delle risorse.
Credo che questo sia l’appuntamento a cui ci chiama l’avvio del secolo
nuovo che si spalanca dinnanzi a noi. Non lo possiamo mancare per ritornare
ad essere autori orgogliosi del nostro futuro e cittadini responsabili del nostro
paese.
Prefazione
Aldo Pagni
La deontologia, intesa come il complesso delle norme di comportamento
del professionista, ha carattere essenzialmente etico, ma il rapporto del medico
con la società, e la potenza della tecnologia sanitaria, hanno reso certamente
complessi e ineliminabili, anche se discussi, i collegamenti tra la morale e le leggi.
Anche perché la deontologia (deon + logos), il discorso su ciò che si deve fare, o
la scienza del dovere, resta un ampio ed elastico spazio etico-teorico, nel quale
l’aggiunta professionale richiama ai doveri etico-sociali inerenti l’esercizio di una
professione.
Tuttavia, la deontologia e il Codice deontologico non sono la stessa cosa,
anche se strettamente collegati. Il Codice contiene norme deontologiche giuridiche (che aspirano a divenire leggi), che disciplinano la pratica relativa a questioni concrete e specifiche frequentemente rivisitate, in relazione ai cambiamenti sociali e tecnici emergenti. La deontologia rimane il fondamento della
riflessione filosofica intorno a quei principi di etica medica, che prendendo
le mosse dal Giuramento di Ippocrate sono giunti fino al giuramento attuale.
Etica
In generale è la scienza della condotta, e si riferisce «all’insieme di scritti e
discorsi nei quali si presentano riflessioni sui problemi che si pongono per
gli esseri umani quando agiscono e cercano regole e principi da seguire nelle
diverse dimensioni della loro vita pratica» (E. Lecaldano)
Nella storia del pensiero umano, dall’antichità ai nostri giorni, si sono
intrecciate variamente due concezioni fondamentali, che devono essere tenute
sempre presenti quando si discute di etica.
1. Una la considera come la scienza del fine cui la condotta degli uomini deve
essere indirizzata e dei mezzi per raggiungerlo. Sia il fine che i mezzi sono
dedotti dalla natura dell’uomo.
Essa parla il linguaggio dell’ideale a cui l’uomo è indirizzato dalla sua natura,
e per conseguenza dalla “natura” o “essenza” o “sostanza” dell’uomo.
XXX
Manuale della Professione Medica
In questa concezione la nozione del bene corrisponde a una realtà perfetta
(Aristotele e S. Tommaso: «il bene è la felicità» deducibile dalla natura razionale dell’uomo).
2. L’altra la concepisce come la scienza del movente della condotta umana e cerca di
determinare tale movente per dirigere o disciplinare la condotta stessa.
Essa, quindi, si occupa dei “motivi” o delle “cause” della condotta umana
o delle forze che la determinano, e pretende di attenersi al riconoscimento
dei fatti.
In questa concezione la nozione di bene è un oggetto di desiderio, normalmente istintivo, di qualcosa che sentiamo come mancante e il cui possesso
da soddisfazione («il bene è il piacere», come movente abituale e costante
della condotta umana).
Considerazioni generali
1. L’Etica non è immutabile ed è oggetto di continue riflessioni e polemiche.
Sartre aveva osservato che i periodi nei quali si avverte il bisogno di etica
sono quelli di conflitto, di incertezza e di ricerca di nuovi orizzonti, non
quelli in cui certi ideali sembrano realizzarsi, bensì quelli di trasformazione,
di ricerca di disorientamento.
2. Poiché la nozione di bene mostrava una certa ambiguità, corrispondente alle
due concezioni prima citate (Bene significa ciò che è (per il fatto che è), o
ciò che è oggetto di aspirazione e di desiderio ?), nel XIX secolo la nozione di
valore soppiantò quella di bene nelle discussioni morali, anche per l’ampliamento dato al significato economico del termine.
E tuttavia, nello stesso periodo, si ebbe nella teoria dei valori una distinzione analoga a quella che aveva caratterizzato la teoria del bene: 1. Un
valore metafisico o assolutistico, indipendente dai suoi rapporti con l’uomo. 2.
Un valore empiristico o soggettivistico, in stretto rapporto con l’uomo, o con le
attività e il mondo umano.
3. La filosofia morale suscita oggi i maggiori interessi e i maggiori dibattiti,
ma secondo B. Williams, J. Mackie, T. Nagel e altri, non riuscirebbe a fornire motivazioni plausibili alle sue pretese legiferanti per molteplici motivi:
a. La crisi delle credenze morali comuni.
b. Il declino delle visioni totalizzanti della realtà e della storia.
c. Gli sviluppi della scienza e della tecnica in grado di intervenire e modificare la costituzione biologica e psichica dell’uomo.
Prefazione
XXXI
d. La complessità del vivere moderno e l’individuazione di nuovi codici di
comportamento.
e. La necessità di garantire la coesistenza tra razze, culture e forme di vita
diverse.
La combinazione di questi motivi spiega perché, a partire dagli anni ’70, la riflessione di alcuni pensatori sui problemi concreti degli esseri umani sia divenuta una
denuncia e una contestazione dell’utilità di una ricerca esclusivamente meta-etica e
astratta, irrilevante per i problemi pratici e reali degli uomini.
La svolta è stata definita l’irruzione dell’etica applicata, il proliferare di una
serie di ricerche etiche interessate alla soluzione di questioni morali specifiche:
la bioetica, l’etica degli affari, l’etica dell’ambiente e quella degli animali, l’etica
dei differenti trattamenti di persone di sesso diverso, l’etica delle generazioni
future, l’etica dell’intelligenza artificiale ecc.
Insieme alla ricchezza di queste riflessioni, e del dibattito che ne consegue,
non possiamo neanche escludere che, in assenza di teorie generali e di un
nucleo etico comune, questo specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi
dell’etica applicata non possa provocare una pericolosa frammentazione.
L’etica medica non corre, tuttavia, questo pericolo perché, dagli anni ’90,
sulla base dei principi che risalgono agli albori della civiltà, i medici hanno
sempre affrontato responsabilmente i nuovi problemi etici generati dagli sviluppi della medicina in tema di nascita, morte e cura degli esseri umani, che
richiedevano soluzioni urgenti, e non potevano essere soddisfatte né dalle leggi
né dalla meta-etica.
In questa prospettiva, scrisse S.E. Toulmin nel 1986, la medicina ha salvato
l’etica dall’astrattezza.
Etica medica
Da sempre filosofia e medicina sono state intrecciate, e tale intreccio è
continuato almeno fino al XVI secolo quando gli studi medici e quelli filosofici
facevano parte del curriculum degli studi di coloro che volevano esercitare la
professione di medico.
La separazione avvenne nel XIX secolo con l’introduzione del metodo sperimentale in medicina di C. Bernard, quando la disciplina si trasformò in una scienza.
Dalla metà del secolo scorso i progressi compiuti dalle conoscenze mediche
hanno sollevato molti problemi filosofici, sia sotto il profilo dell’epistemologia
XXXII
Manuale della Professione Medica
del sapere medico, che dell’analisi dell’agire medico, e il cammino della medicina e quello della filosofia hanno ricominciato nuovamente ad incontrarsi.
Quei progressi hanno richiamato anche l’attenzione dei sociologi sui rapporti tra società e medicina, l’interesse per le valutazioni economiche nelle
decisioni dei medici, e nel ’70 la nascita della bioetica, definita come «lo studio
sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura
della salute, quando tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei
principi morali».
Le riflessioni e le ricerche della bioetica hanno preso in esame una grande
quantità di problemi: dall’eutanasia all’aborto, dallo statuto dell’embrione alla
fecondazione assistita, dall’accanimento terapeutico alla fine della vita, dalla
natura della persona al suo rispetto, dalla genetica alla sperimentazione animale
e a quella clinica, e sicuramente hanno influenzato positivamente la deontologia medica.
In questi ultimi tempi, tuttavia, la bioetica, trasformatasi da riflessione di
filosofia morale in un’etica normativa ispiratrice di provvedimenti legislativi ad
hoc, ha rischiato di far sparire i confini tra bioetica, etica medica e deontologia,
ignorando che l’etica medica, ispiratrice della deontologia, è per tradizione millenaria equidistante da etiche laiche e religiose contrapposte.
La medicina in quanto tale non si configura come una ricerca scientifica
della verità, bensì come un’applicazione pratica delle conoscenze scientifiche
in rapporto alle esigenze imposte dal contesto umano, unico e irripetibile, nel
quale si svolge l’incontro clinico
La medicina, infatti, è una prassi particolare, un’attività scientifica volta al
bene del paziente. Le decisioni prese dal medico sono intese soprattutto a individuare il procedimento terapeutico “buono e giusto” per il singolo paziente
che ha in cura. È questa specifica constatazione a legare la medicina all’etica,
perché una decisione clinica non è mai un atto puramente cognitivo, ma ha
sempre un fine che è di natura etica e si identifica con il bene del paziente.
E.D. Pellegrino, insieme al suo collaboratore D.C. Thomasma, ha sostenuto che ciò che chiamiamo il bene del paziente è composto da quattro elementi diversi: 1. Il bene biomedico. 2. Il bene percepito dal paziente. 3. Il bene
del paziente in quanto persona. 4. Il bene supremo, secondo cui il paziente
regola le sue scelte.
«Per esercitare la professione medica in modo virtuoso, hanno scritto,
sono necessarie alcune disposizioni: senza dubbio l’attenzione scrupolosa alla
Prefazione
XXXIII
conoscenza e anche all’abilità tecnica, ma anche la compassione (…), la beneficità e la benevolenza (…), l’onestà e la fedeltà alle promesse; forse talvolta
anche il coraggio. Si tratta dell’intero elenco delle virtù definite da Aristotele:
giustizia, coraggio, temperanza, magnanimità, generosità, mitezza, prudenza,
saggeza».
Deontologia
La deontologia medica si alimenta, come scrive Barni, «ancora dell’inesausta sorgente dell’etica medica, ispiratrice dei doveri di ogni tutore della salute,
che nei millenni della civiltà occidentale si è deprivata, sia pure in parte, delle
arcane suggestioni e dei fatalismi esoterici, ancora peraltro dominanti sull’altra
medicina».
La deontologia essendo la traduzione dei principi etici della medicina, non
deve mai contrastare con questi e deve rispettare l’equilibrata coesistenza tra
diritti del cittadino e doveri del medico.
“La notevole mole di documenti diffusi nel corso degli ultimi anni (rispetto
alla storia millenaria della medicina), aveva scritto F. Introna nel 1996, dimostra
che l’Etica professionale medica (e quindi la somma dei doveri da osservare
per rispettare quell’Etica), non tanto è cambiata (né poteva cambiare) quanto
si è complicata per due motivi principali:
1. Ai doveri del medico (che sono sostanzialmente quelli di sempre), si affiancano i diritti dei cittadini onde più chiaro diventa il principio secondo cui
il primo dovere del medico sta nel rispettare “i diritti dell’uomo”, sano,
malato, fanciullo o anziano, libero o prigioniero, povero o ricco, modesto
oppure illustre.
2. Il progresso tecnologico della medicina, nella diagnosi e nella terapia,
suscita dubbi, timori e interrogativi nel medico impegnato in uno specifico caso, e poiché egli non sempre ha un’autentica sensibilità e una preparazione culturale nel campo dell’etica, il Codice deontologico gli fornisce
una Guida (ovverosia un reticolo di norme etiche dettagliate) per decidere
come comportarsi.
Riflessioni per una
nuova deontologia
Nel centenario degli Ordini dei Medici
Indice
1
Etica e deontologia
Le radici storico-culturali della bioetica e del biodiritto, categorie convenzionali atte a ispirare e definire un’armoniosa biopolitica, forse inattingibile
ma necessariamente perseguibile a livello globale e nazionale, si alimentano
ancora dalla inesausta sorgente dell’etica medica, ispiratrice dei doveri di ogni
tutore della salute, che nei millenni della civiltà occidentale si è deprivata, sia
pure in parte, delle arcane suggestioni e dei fatalismi esoterici, ancor peraltro
dominanti sull’altra medicina (nota 1). Le alterne vocazioni relazionali tra garanti, operatori e fruitori del progresso tecnico-scientifico hanno in effetti serbato, pur nella tensione massima del nostro tempo, la continuità del filo rosso
dell’umanesimo. E il medico, oggi meno che mai solista nella concertazione e
nell’esecuzione di un’adeguata tutela della salute, raccoglie ed esprime, nell’essenzialità simbolica e nella responsabilità delle scelte, la chiave di lettura del
camaleontico scibile conoscitivo essenziale e variabile in ogni vicenda diagnostica e curativa della malattia dell’uomo, intesa sempre di più in un’accezione di
benessere, ieri sconosciuta, oggi controversa.
L’etica medica ha dunque percorso e innervato la storia della medicina, anzi
ne ha supplito la scientificità in proporzione inversa dall’aurora ippocratica
del nostro tempo sanitario, costituendosi, d’altronde, come garanzia per una
incompiuta liberazione dalle ormai remote presunzioni magiche e paternalistiche e dall’agghiacciante dottrina moderna della onnipotenza scientifica e per
una rispettosa valorizzazione di un patrimonio sociale, la salute, la vita, sempre
meglio inteso nella sua duplice pertinenza individuale e collettiva e scandito nei
termini non necessariamente coincidenti di sacralità e di qualità.
Il rivoluzionario incontro tra buona medicina e buona filosofia, soprattutto
politica, non rifiuta in effetti il retaggio di un mito, di un giuramento (nota 2) che
il tempo ha peraltro sfumato e sfrondato serbandone non tanto le ridondanze
retoriche, quanto il magistero civile per una sintonia vecchia e nuova tra scienza
e coscienza, tra autonomia e responsabilità: termini che definiscono il senso
della vera alleanza terapeutica da perseguire non tanto tra persone quanto tra
doverosità intimamente sentite e/o coerentemente disciplinate, seguendo un
percorso tortuoso ma essenziale al fine di offrire giusti indirizzi alla missione
medica, verso una acquietante ed equa dimensione giuridica. Si staglia così
e si alimenta proficuamente una categoria nomologica, incisa nella coscienza
prima che nelle tavole, la deontologia medica, magmatico ma imprescindibile complesso di precetti, variamente intesi, talvolta solo teoricamente sentiti e spesso
non compresi dai personali egoismi e dal pubblico potere: ma pur sempre
2
Manuale della Professione Medica
posti a salvaguardia reciproca dei protagonisti della vicenda sanitaria (nota 3),
così come esige la nostra Costituzione repubblicana.
Nel nostro paese il ruolo formativo della dottrina deontologica anche nei
suoi riflessi giuridici è stato da almeno tre secoli assunto da una disciplina, la
medicina legale, sviluppatasi nella sua autonomia in ossequio alla necessità tutta
moderna e civile di stabilire regole e metodi e di fornire specialisti per un impegno pubblico e privato, alimentato da un modus operandi tecnico-culturale e da
una forma mentis professionale, sempre più arricchiti e potenziati dal progresso
scientifico, essenzialmente versati sulla condizione umana, attenti allo sviluppo
della persona sino alla fine della vita e oltre, passando attraverso le categorie della maturazione somatica e mentale, della sessualità, della riproduzione,
della malattia, della lesività, delle inabilità; una disciplina che non poteva non
assumere connotazioni e responsabilità socio-politiche ed etiche oltre che meramente criminalistiche, quest’ultime, di peculiare e specifico interesse forense
(nota 4).
Così la deontologia italiana si è qualificata sempre di più e sempre meglio
(nota 5), a sua volta diversificando la nostra medicina legale dalle consorelle anglosassoni e nordeuropee (inflessibilmente rimaste a presidiare la fucina delle
funzioni criminalistico-forensi, d’altronde connaturate al sistema di common law)
(nota 6), rendendola sensibile stazione ricevente di stimolazioni sociali, opificio operoso di soluzioni e di valutazioni in ambito assicurativo, assistenziale,
pensionistico, sempre presente là dove la società organizzata recluta paradigmi
scientifici e capacità d’apprezzamenti tecnici equi e controllabili, assolutamente
necessari allorché previsioni normative e pulsioni etiche esigano giudizi relativi
al substrato biologico, fisico e mentale della persona. Così si è consolidata una
vocazione al biodiritto specialmente in ambito di medicina pubblica, allorché si
è resa necessaria la doverosa e talvolta ineludibile collaborazione della medicina
e del medico e dei professionisti sanitari ai fini dell’affermazione e del soddisfacimento di esigenze umane, non soltanto protettive della salute e della vita
di ciascuna persona (anch’esse peraltro esperibili solo nel rispetto dei diritti
fondamentali dell’individuo: alla riservatezza, alla libertà, alla dignità) ma anche (e in armonia con le prime) strumentali per una difesa sociale sempre più
attenta e matura contro il delitto, le inabilità e le disuguaglianze, contribuendo così all’edificazione di un sistema sociosanitario ispirato all’efficienza, alla
qualità, alla sicurezza, all’eticità. Ed è qui che la deontologia acquisisce anche
una necessaria dimensione giuridica per opera di norme non solo autoctone,
ma anche strettamente correlate alla giurisdizione che peraltro non possono
né debbono forzare (queste ultime) né la libertà professionale, né l’autonomia
Riflessioni per una nuova deontologia
3
scientifica, né la coscienza dell’operatore e tanto meno la libertà e la dignità dei
cittadini, come è in altri momenti sciaguratamente occorso (nota 7).
Le regole giuridiche, e in primo luogo quelle penali e quelle afferenti al diritto
sanitario, dalla tutela del segreto medico (art. 622 cp), all’obbligo di referto (art.
365 cp), di denuncia delle malattie infettive e diffusive e di certificazioni (fino
alle questioni inerenti la sperimentazione nell’uomo e la tutela della privacy) e
l’etica medica, genuinamente laica seppure attenta e non indifferente a una cultura assistenziale permeata di messaggi d’ispirazione pastorale (nota 8), hanno
slatentizzato la prevalente essenza pubblicistica della deontologia italiana. Essa
ha saputo rendersi sensibile più di ogni altra disciplina medica, nella seconda metà del Novecento, alle raccomandazioni sopranazionali d’indole bioetica relative alle intemperanze della ricerca (fin dalla sentenza di Norimberga di
condanna dei medici nazisti), alle grandi vulnerabilità globali quali colpiscono
segnatamente il bambino, la donna, gli handicappati, i diversi, alle degradazioni
dell’ecosistema, all’esasperarsi delle disuguaglianze, trovandosi così nelle condizioni ideali per raccogliere il messaggio esaltante (e ormai tradito) di una bioetica sorta non tanto dal magma delle speculazioni di filosofia politica e morale,
quanto da soprassalti di responsabilità nei confronti delle energie slatentizzate
dal progresso e intesa come presidio atto a denunciare e, se del caso, a contrastare la pervasività della speculazione scientifica (spinta talora dall’avventurismo) fin nelle più intime matrici biologiche della vita, e quindi appassionata ai
temi di frontiera che indagano e prospettano l’essere e il divenire dell’uomo,
ma anche felicemente interessata ai problemi del quotidiano, inerenti la tutela
della salute, della riservatezza, della sicurezza, della dignità personale.
Si è così affermata – ed è questo un dato fortemente positivo – la nuova
deontologia (doverosità) del medico e degli altri esercenti le professioni sanitarie, che tende a ricercare nel professionista sanitario spazi di attenzione e di
sensibilità per gli aspetti umanistici e morali, essenziali quanto quelli tecnici,
per l’esercizio dell’arte sanitaria e che permea di saldezza giuridica e di significatività etica i nuovi codici comportamentali ispirati anche e sempre di più da
direttive sopranazionali generali (come la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo
e la bioetica, siglata il 4 aprile 1997 e da tempo ratificata dal Parlamento italiano)
(nota 9) e da codificazioni particolari e nuovissime (sulle tossicodipendenze,
sulla sperimentazione dei farmaci, sulla tutela della privacy, sulla terapia del dolore, sull’accertamento della morte, sui trapianti d’organo ecc.) (nota 10).
La deontologia ha fatto tesoro dei principi bioetici fondamentali condensandoli e consolidandoli nel Codice di Deontologia medica, trasferendoli quali doveri ineludibili nella propria trattatistica e affidandoli alla coscienza del medico
4
Manuale della Professione Medica
(nota 11). E sebbene nella profusione di regole deontologiche si senta vivissima l’ispirazione proficua di una bioetica sostenitrice (nota 12), l’obiettivo
epistemologico anela comunque all’armonia possibile tra scienza, diritto (qui
espresso in primo luogo dalla Carta costituzionale) e morale cui è essenziale
l’accettazione consapevole e preparata ad accogliere da parte di ciascuno responsabilità eticamente e giuridicamente irrifiutabili.
Il contributo della bioetica
La deontologia medica fino agli ultimi decenni del secolo scorso è stata limitata, nell’insegnamento universitario e nell’aggiornamento spinto sino
all’Educazione Medica Continua, all’enunciazione dottrinaria e all’applicazione
pratica degli articoli dei codici penale e di procedura penale, e delle leggi speciali di rilievo penale e sanitario, nonché del Testo Unico delle leggi sanitarie a
stento sopravvissuto al furore delle autonomie, dedicati alla refertazione, alla
certificazione, alle denunce sanitarie, all’accertamento della morte, ai trapianti
di organi ecc. Venne dunque il tempo, intorno agli anni ’90 dello scorso secolo,
della permeazione bioetica, di chiara matrice nordamericana, spesso fideisticamente invocata quasi che il medico italiano fosse stato fino ad allora insensibile
al richiamo dell’umanesimo solidaristico, carattere sempre, in realtà, presente e
in lui vivido per l’antico influsso ippocratico e per i richiami culturali recepiti
anche dalla Costituzione. Se ne fecero promotori e partecipi filosofi e moralisti
nel sogno e nel segno di una medicina finalmente sensibile alla realtà sociale,
intesa non tanto alla stregua di oggetto di pietas e obiettivo di “beneficità” oltre
che di scienza, quanto come matrice di diritti civili non necessariamente blindati dalle norme del diritto positivo. Eppure molto era già stato scolpito con
vigorosa precisione ma, peraltro troppo lentamente inteso, nella Costituzione
della Repubblica entrata in vigore fin dal 1° gennaio 1948.
La medicina legale se ne fa ancora una volta protagonista e con prontezza ne
rivendica il magistero nel Documento di Erice sui rapporti della bioetica e della deontologia medica, entrato più tardi in un oblio senza orizzonti (nota 13). Il ruolo
decisivo del documento di Erice, e il riflesso pragmatico nell’applicazione del
messaggio della bioetica, era già stato sussunto dalla Società italiana di Medicina
legale stessa nella felice armonia del suo patrimonio (nota 14) scientifico e didattico (Congresso della SIMLA di Bari del 1989). La Federazione Nazionale
dei Medici (FNOMCeO), interpretando il malessere di una professione lusingata dal novum bioetico e, per contro, raggelata nell’interpretazione in chiave
difensivistica dei doveri della medicina e del medico quali delineati dalla Magistratura e in particolare dalla Cassazione penale ed espressivi di un rigore
Riflessioni per una nuova deontologia
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inusitato nei confronti del medico poco avvezzo al rispetto dell’autonomia del
paziente (negata d’altronde dai più accaniti esegeti del paternalismo e della beneficità), riscopriva contemporaneamente il senso più ampio della deontologia,
offrendole un respiro nuovo, straordinario, ancor più profondo nei subentranti
Codici di Deontologia medica e soprattutto nelle edizioni del 7 ottobre 1998
e del 12 dicembre 2006, ove sono riversati principi e direttive di ispirazione
sopranazionale e sono ripercorse le stesse ragioni istituzionali e giudiziarie non
pedissequamente considerate e subite, ma scolpite con la forza della ragione
insita nell’etica della responsabilità. Del che sarà più ampiamente trattato.
Certamente due fattori esterni vi hanno contribuito, l’uno di segno negativo, l’altro di valenza assolutamente positiva: da una parte l’implosione della bioetica, “otre dei venti” improvvisamente apertosi fino a scatenare una
devastante tempesta ideologica, dottrinaria e legislativa intorno ai valori della
persona e, quindi, agli scopi stessi della medicina, dall’altra parte l’interpretazione autentica della Costituzione della Repubblica, da parte della Corte Costituzionale, ribelle a ogni pretesa del legislatore, regionale o nazionale che sia, di
legiferare in tema di scelte anche tecniche del medico: tendenza da respingere
in quanto espressiva di un preoccupante e progressivo disconoscimento della
libertà professionale e scientifica che troverà in Italia, nella legge 40 del 19
febbraio 2004 sulla procreazione assistita e nei puntigliosi orientamenti legislativi sulle direttive anticipate, le più evidenti espressioni. Ne riemerge (anche
grazie al continuo messaggio della Consulta), tutto da difendere e sostenere,
una deontologia professionale, fondata su scienza e coscienza, su autonomia e
responsabilità, su informazione e consenso. Ed essa soccorre e salvaguarda
il medico sensibile all’ascolto della voce del cittadino, ferma restando la sua
posizione di garanzia nei confronti della tutela della pubblica salute e della
pubblica incolumità quando entrino in gioco interessi della collettività e del
mondo del lavoro democraticamente riconosciuti. D’altronde, le bioetiche vieppiù si dividono, e in modo sconvolgente sul ruolo da attribuire all’autonomia
del paziente, alimentando spesso il pallido ricorso all’astensionistica medicina
della prudenza (melius deficere quam abundare).
Ed è così che si è affermato con forza il significato normativo e disciplinare
degli Ordini professionali e in particolare dei medici, ma anche degli infermieri
e degli altri professionisti sanitari (nota 15), attraverso Codici non più corporativi o autoreferenziali, ma esplicitamente capaci di recuperare, a motivo della
preminente funzione formativa e disciplinare degli Ordini, l’ordito e il retaggio
codicistico, prevalentemente orientandoli al rispetto di dettami etici e pratici che
(pur nel quadro e sotto l’imperio delle regole generali dell’ordinamento ovvia-
6
Manuale della Professione Medica
mente valide erga omnes, medici compresi) esprimono il senso proprio di direttive
operanti nel particolare contesto di delicatissimi impegni, relativi, ad esempio,
ai trattamenti di fine vita, alla contemporanea reiezione dell’eutanasia attiva e
dell’accanimento terapeutico, alla legittimazione della leniterapia e delle terapie
del dolore, al rispetto della vita che si forma e dell’autonomia della persona (che
non può essere mortificata al solo ruolo di paziente). Ne emergono una fisionomia del medico e un afflato professionale, sensibili al contemporaneo apporto
della scientia e della humanitas. L’ultimo atto che i giuristi auspicano (nota 16)
è il riconoscimento della deontologia, non solo come dottrina e come guida
comportamentale, ma anche come autentica espressione di disciplina giuridica,
ancorché molta strada debba percorrersi – ma il tempo è ormai venuto – per
stabilire ex lege un più chiaro compito e onere degli Ordini dei Medici chirurghi
e degli odontoiatri che trasformi, oltre il centenario, un discusso aggregato rappresentativo in un’autorità garante per la professione e per la società (nota 17).
Ma qualcosa è già presente nel Giuramento del medico, premesso al più recente
Codice deontologico, l’impegno cioè, «di prestare la mia opera con diligenza, perizia
e prudenza secondo scienza e coscienza e osservando le norme deontologiche della medicina e
quelle giuridiche che non risultino in contrasto con la mia professione». Si afferma così che
la dignità della professione non è orpello corporativo ma espressione di autonomia scientifica e morale, bisognosa di contorni severi (quale tra l’altro l’ascolto
della voce di chi soffre) eppur capace di incidere ancora in difesa delle proprie
libertà e delle proprie dignità con l’inderogabilità dell’obbligo di rendere conto
immediato e documentario delle proprie scelte), ma non turbativi della sacralità
anche etimologica dell’essere professionista (da profiteor). E tutto ciò va inteso nel
suo ordito civile e non solo “morale”, in quanto contiene e documenta precetti
squisitamente medico-legali, fondati sul convinto e contagioso principio per cui
la deontologia è e resta momento formativo di un aperto e duttile biodiritto, anche
perché già regolata da uno statuto o da uno strumento giurisprudenziale e disciplinare fatto di prescrizioni la cui inosservanza è (dovrebbe essere) produttiva di
sanzioni disciplinari, ben più efficaci, a mio avviso, del calvario giudiziario.
La massima beneficità della bioetica si è per l’appunto espressa in ambito
culturale-normativo, tanto nello sviluppo di idee e di impegni (basti pensare
ad alcuni fondamentali prodotti del Comitato nazionale per la Bioetica), quanto nella permeazione etico-deontologica dei codici professionali e in primis di
quelli dei medici (2006) e degli infermieri (2009): e non è davvero un piccolissimo merito, se è ormai certo come vetuste norme di mera prassi operativa e corporativa si siano tradotte in regole di vita professionale concepita
nell’effettivo rapporto del sanitario con la persona assistita in ordine ai valori
Riflessioni per una nuova deontologia
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della vita, della libertà, del benessere individuale e collettivo. Meno fertile si è
rivelato invece il rapporto bioetica-diritto soprattutto nell’elaborazione legislativa quando ha manifestamente posto in crisi il principio di laicità, su cui tutti
concordano ma solo a parole (nota 18). Bisogna tuttavia convenire che se è
vero che alle parole e alle norme dovrebbero infine seguire i fatti, le scelte, è
altrettanto innegabile la vischiosità del come, dove, quando. La difficoltà maggiore
sta forse e ancora nell’equivoco etimo della parola bioetica – purtroppo – sempre più nebuloso (nota 19).
D’altronde, il bisogno di riflessione è sentito anche a livello internazionale da
parte di chi ritiene che la bioetica sia «diventata una costellazione di giudizi intuitivi o addirittura di principi assoluti in nome dei quali si pretende di sciogliere
le questioni più delicate nel campo della ricerca scientifica e della pratica medica
[…] con il risultato che spesso viene privilegiata una linea di condotta apodittica,
in quanto priva di qualsiasi condivisione». Evidentemente è qui riproponibile il
problema di una riconsiderazione della materia non solo sotto il profilo filosofico e/o epistemologico ma soprattutto nel cimento della pratica, che in definitiva
investe e responsabilizza la temperie deontologica e – per logica derivazione – la
medicina legale.
Il problema di base se l’è posto uno psicologo lucidissimo, Jonathan Baron,
nel suo studio Against Bioethics (2006, edito in Italia nel 2008), ove viene esaltata
la teoria delle decisioni responsabili. Come scrive Massarenti nella prefazione
all’edizione italiana, «tale teoria assomma i pregi della prospettiva morale utilitaristica con l’analiticità della teoria delle decisioni razionali» sicché «la bioetica, affrontando questioni come la sperimentazione sull’uomo, la possibilità di
migliorare la natura attraverso la genetica e i farmaci, la riproduzione assistita,
le questioni di fine vita (che racchiudono le direttive anticipate, l’eutanasia e la
donazione d’organi), il paternalismo medico e il consenso informato, il conflitto d’interesse e la ricerca farmaceutica, dovrebbe far tesoro – almeno – di uno
dei progressi di ricerca scientifica del ’900: la teoria delle decisioni razionali,
appunto». Forse, come per ogni sapere, serviva alla bioetica applicata un metodo
di lavoro (almeno quello) condiviso: «nella formulazione dei pareri, della diffusione degli insegnamenti, nella trattazione delle emergenze (proprie della pratica
professionale), nella funzione, infine, degli operatori» (nota 20), un metodo
che a essa è sfuggito di mano.
In definitiva, la summa dei doveri del medico cui questa trattazione è dedicata merita ormai una nuova interpretazione dei doveri che superi le vecchie
elencazioni e classificazioni, traducendo lo scibile operativo scandito da una
complessa serie di impegni e di garanzie assolutamente diversificata, molti dei
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Manuale della Professione Medica
quali offrono plurime modalità e compiti aggiuntivi al nucleo centrale e unitario dell’attività medica, che non è solo diagnosi e terapia, che non è più esclusivamente prevenzione, assistenza, riabilitazione (nota 21) ma sussume nella
sua inscindibile unicità il rapporto, la relazione (che è ben più di una alleanza)
tra medico e cittadino, tra medicina e società: un rapporto che non è orpello
formale sia pur doveroso, ma condizione di perfezione di un’attività articolata
ormai su chiare fasi, talune delle quali oserei definire precliniche. Sicché la
relazione, antecedente e successiva al consenso informato, rappresenta, più che un
dovere, una componente preliminare dell’atto medico, senza la quale o in difetto della quale l’atto è di per sé imperfetto quando non illecito. Ed è un concetto,
questo, che tratto com’è dal principio fondante della bioetica (l’autonomia) ma
anche e soprattutto, per quanto ci riguarda, dalla Costituzione della Repubblica
(art. 32), trasforma un dovere medico in un diritto e al contempo in un carattere
essenziale della professione medica al duplice livello culturale e operativo. Ne
deriva l’obbligo di una riconsiderazione complessiva dei doveri del medico, che
vanno ormai distinti in doveri propri del professionista esercente di un servizio
di pubblica necessità, impegnato a soddisfare esigenze generali di tutela della salute e doveri etico-giuridici del professionista verso la persona, verso il singolo
cittadino, verso il paziente (se ancora si voglia utilizzare un termine assai discutibile), intrinseci tutti all’atto medico, al rapporto di cura, all’essenziale momento della
specifica tutela contemporaneamente tecnico-scientifica e relazionale.
Il dovere fondamentale del medico resta quello di ben operare e di armonicamente
gestire le varie e variamente scandite fasi del rapporto che vanno dall’instaurarsi
relazionale all’esecuzione dell’attività diagnostica, unicum di doveri di buona condotta, non solo tecnica ma anche e responsabilmente relazionale: e non abbisogna di polverose salvaguardie penalistiche (come lo stato di necessità) per essere
legittimo in sé medesimo se reso tale dalla partecipazione decisionale della persona.
L’attività medica tra doverosità e legittimità
La riflessione più attenta sulla pregressa giurisprudenza e sulla più autorevole
dottrina convince pienamente sulla bontà della tesi della autolegittimazione dell’attività medica, la quale trae fondamento non tanto dalla scriminante tipizzata del
consenso informato dell’avente diritto (quale definito dall’art. 50 del vigente Codice
penale), quanto dalla stessa intrinseca finalità di tutela della salute, bene costituzionalmente garantito. Il riferimento alla scriminante di cui all’art. 50 cp (consenso
dell’avente diritto) sembra addirittura eccentrico, se inteso quale espressione di semplice non antigiuridicità dell’atto medico, anche senza invocare la lettura, a suo tempo
scandita da parte della Consulta, dei limiti tracciati dal fantomatico art. 5 del Codi-
Riflessioni per una nuova deontologia
9
ce civile, norma precostituzionale, la cui ratio doveva ritenersi esaurita nel divieto
di fare illimitato mercimonio del proprio corpo (nota 22). Se di scriminanti (in
mancanza di crimine) si volesse in ogni caso ricercare la ricorrenza, il riferimento
dovrebbe essere unicamente e soltanto limitato alle eccezioni autorizzative dei
trattamenti sanitari obbligatori previste dall’art. 32 Cost. (nota 23) dal quale nasce
la certezza che i doveri del medico non sono, per quanto riguarda informazione
e consenso e quindi rapporto con l’autonomia della persona, soltanto momenti
preliminari (indubbiamente importanti) all’impegno di cura e di assistenza, ma
costituiscono parte integrante dell’attività medica e cioè della tutela della salute.
A parte le sottili argomentazioni profuse in una recente sentenza della Cassazione penale in Sezioni unite (nota 24), sembra di estremo interesse già rilevare
come in questo fermissimo senso si sviluppi la teoria che integralmente e inscindibilmente considera l’atto medico di per sé giusto (anche etimologicamente),
non solo nella sua estrinsecazione tecnica ma anche e “necessariamente” nella
sua preliminare dinamica relazionale che per l’appunto si realizza – ordinariamente – nei momenti essenziali dell’informazione e della raccolta (documentazione) del consenso. È da questa fase che prende vita l’atto medico ordinario
unitariamente inteso nella sua perfezione sostanziale e nella sua indivisibilità
sequenziale, specialmente ma non esclusivamente in ambito chirurgico, ove la
sospensione della coscienza (anestesia) è attuabile ma solo nel quadro di una
complessiva programmazione illustrata al paziente e da questi consentita. E l’atto
operativo in se stesso rappresenta così non tanto un dovere (ovvio), quanto una
porzione della condotta terapeutica (meglio, direi, del rapporto medico-paziente)
che trae il suo primo fondamento dalla informazione e dalla esplicitazione del
consenso. Se consentito ed eseguito lege artis, l’atto, ad esempio del chirurgo, ha
una sua compiuta fisionomia e una sua complessiva legittimità, sempre che non
sia stata la monologante autorevolezza del medico a orientare e tracciare gli obiettivi
terapeutici da perseguire “negligendo” ciò che il paziente abbia potuto intendere o
mal compreso al riguardo. L’atto medico è per contro privo della necessaria dimensione etica e della specifica copertura costituzionale allorché vi faccia difetto
la componente relazionale che ordinariamente si esprime, per l’appunto, attraverso il consenso debitamente informato, produttivo di un reciproco impegno
enfaticamente definito come alleanza terapeutica, categoria relazionale suggestiva, ma subdola quando, in dispregio dei diritti della persona interessata, chiama
in causa soggetti diversi dai protagonisti del rapporto duale, promuovendoli al
rango di coro greco dei persuasori più o meno occulti e interessati (nota 25).
In definitiva, solo in presenza di consenso informato l’atto medico è “perfetto” se
compiuto e se eseguito secondo le leges artis (nota 26).
10
Manuale della Professione Medica
Dovere di relazione e certezza di consenso
La giurisprudenza rafforzata anche recentemente dalla Corte Costituzionale (nota 27) è dunque sempre più omogenea, nel ridisegnare l’insopprimibile
garanzia del consenso informato (per usare ancora un’espressione semanticamente
poco limpida ma che comunque semplifica il linguaggio medico-legale) sempre
più integrandolo nella fisionomia generale dell’attività medica e, dottrinariamente, nella definizione stessa di atto (attività) del medico che, per esplicita e
predominante dottrina giuridica, trae, come si è detto, la sua legittimazione dalla matrice costituzionale piuttosto che da contorte cause di giustificazione (discriminanti penalistiche). In altri termini, grazie anche al positivo e convergente messaggio di una bioetica ancora non asservita ai dettami ideologici e di una
deontologia “europea”, onorata dal Codice di Deontologia medica del 2006,
la volontà del paziente (espressione usata, anche questa, molto disinvoltamente)
ha un significato essenziale, ben disegnato dalle norme costituzionali, che non
può essere inteso alla stregua di perentoria esaltazione dell’autodeterminazione
del paziente, ma deve pur sempre confrontarsi (e viceversa) con l’autonomia
del medico in funzione di una possibile convergenza resa limpida dalla massima informazione, ferma restando l’insuperabilità di un esplicito, convincente
e consapevole dissenso. Dopo un travaglio quasi ventennale, la Cassazione
penale va inoltre precisando come il non espresso dissenso o il difetto di consenso,
in particolari circostanze quali si sviluppano nell’attività medica, non possano
essere considerati produttivi di illiceità penale di un intervento anche diverso
e ultroneo rispetto a quello convenuto, specialmente quando non ne derivi un
danno e, ancora meno, quando ne derivi invece un beneficio per il paziente. Il
maggior problema verte invece sulle situazioni nelle quali l’informazione e la
raccolta e/o la verifica del consenso informato non siano possibile; e semplicistica
appare in proposito l’idea, anche di recente riaffiorata, di fondare il giudizio
sulle conseguenze, fauste o infauste introducendo alla stregua di discriminante
l’esito favorevole di una operatività ispirata al best interest, concetto ostico, soprattutto al medico legale. In sostanza, la c.d. autolegittimazione dell’atto medico si
distingue per la sua virtù di restituire dignità alla professione medica e anche
maggior responsabilità deontologica per l’atto medico legittimato dalla conforme volontà del paziente. Ma quando venga meno questo decisivo connotato
etico-giuridico che a esso conferisce assoluta e originale compiutezza e inscindibiltà, l’atto medico (non consentito) non può non venire necessariamente
considerato entro parametri, limiti e censure sperimentati che devono trovare
e troveranno soluzioni magari e preferibilmente deontologiche, piuttosto che
giuspenalistiche. Essi si fondano prevalentemente sull’autonomia professionale
Riflessioni per una nuova deontologia
11
che, piaccia o no, è anch’essa garanzia prima di una buona tutela della salute
costituzionalmente garantita e non necessariamente, anzi eccezionalmente, traducibile
in termini di antigiuridicità. Si tratta, in ogni caso, di operare con quella ragionevolezza consapevole che non intacchi i principi fondamentali e che deve
essere propria di chi lavora sulle modalità di espressione del consenso stesso,
come di recente è occorso in sede giurisprudenziale per sfumare, ad esempio,
l’attendibilità del dissenso del testimone di Geova: evenienza ancora una volta
paradigmatica per una ragionevole riconsiderazione e verifica di un rifiuto (alla
emotrasfusione), quando affidato alla semplice e sola appartenenza alla particolare confessione religiosa (nota 28).
In altri termini, occorre confidare ai principi dell’ordinamento professionale
e ai canoni delle discipline deontologiche l’individuazione dei percorsi lungo
i quali indirizzare la responsabilità delle scelte, quando queste non siano suffragate dalla convergente volontà del paziente, espressa in un unico contesto
temporale e relazionale. E qui si ripresentano con forza le casistiche, sempre
nuove e mutevoli e quindi ribelli alle semplificazioni nomologiche, tra le quali
spicca la condizione di sopraggiunta perdita della capacità intellettiva e valutativa del paziente e quindi della possibilità di comunicare le proprie volontà,
la questione del testamento biologico (dichiarazione anticipata di trattamento?!)
che ancora non ha trovato – e tanto meno nel laboratorio legislativo – quella
acquietante ed esaustiva soluzione “umanistica” che pure molti giuristi, eticisti
e medici legali auspicano (nota 29).
Il dovere d’informare
Il primo dovere del medico è, in definitiva, quello di garantire l’autonomia del paziente ed è questo, a mio avviso, il significato primo da attribuire alla posizione
di garanzia del medico, di fronte alla società e al singolo, in difesa della salute e
della vita della persona, sì, ma in coerente armonia con la tutela della sua libertà
e della sua dignità. E così l’autonomia del paziente, valore di essenziale pregnanza etica e giuridica, deve essere garantita dal medico, attraverso puntuali
e ininterrotte informazioni propedeutiche al consenso (o al dissenso) stesso.
L’informazione è in realtà un momento critico della bimillenaria vicenda sanitaria, di cui l’esposizione al paziente di certezze e di ipotesi diagnostiche e prognostiche, di programmi o di indirizzi terapeutici, e talvolta di ansie e di speranze, è ormai espressione di crescita del dialogo tra medico e persona assistita,
quale segno di una rivoluzione culturale, connotata e sostenuta dall’intervenuta
dimensione etica, pubblica e politica della medicina. Da decenni, l’interesse
politico-sanitario rivolto alla tutela della salute ha cessato di essere esclusiva-
12
Manuale della Professione Medica
mente assegnato alle private sollecitudini o al solidarismo assistenziale, assumendo gradualmente il senso di una titolarità collettiva e sociale in un contesto
che programmi e legittimi una stretta cooperazione tra scienza e società ai fini
della salvaguardia di beni, la salute e la vita, contemporaneamente individuali e
collettivi. L’informazione si fa, così, tramite e viatico per assicurare un’attività
tanto più efficace quanto più pervasiva dell’intimità personale e per offrirla
al più elevato livello di efficacia, nel quadro di una generale strategia difensiva elaborata secondo i moduli della prevenzione e della politica sanitaria, ed
espressiva quindi di una medicina pubblica, votata alla trasparenza e quindi dotata
di vocazione informativa. E mentre l’igiene si occupa dell’informazione nel quadro della documentazione epidemiologica e della difesa preventiva, la medicina
legale si preoccupa anche di offrire contorni di certezza al diritto singolare, alla
privacy e al parallelo e classico impegno del medico al segreto professionale,
stemperata ma solo fino a un certo punto, dall’esigenza sociale di conoscere il
rischio per meglio difendere la comunità dalle insidie per la sicurezza e la salute
umana. Si realizza così il grande compromesso deontologico, grazie al quale
sopravvivono la riservatezza del dialogo e il rispetto umbratile dei dati sensibili,
l’uno e l’altro non insensibili a iniziative, a esigenze per quanto possibile chiare,
dirette a soddisfare interessi pubblici, non solo sanitari.
L’esercizio della medicina acquisisce, in altre parole, una complessa valenza
informativa, cui afferiscono valori etico-politici quasi costantemente contemperabili, salvo che per talune contingenze potenzialmente conflittuali in rapporto ai diritti fondamentali della persona. Il dovere di informare diviene siffattamente un connotato complesso della medicina attuale, insufficientemente
analizzato anche in sede filosofica e giuridica; ma è solo accantonando per un
attimo l’abusato slogan del “consenso-informato” che si può meglio comprendere il ruolo singolare e preliminare dell’informazione, spesso clinicamente
ed eticamente più rilevante (vedi il caso dei minori) del consenso stesso che
comunque non può prescinderne. È relativamente facile, anche sul piano giuridico, documentare l’evidenza, la prova del consenso, ma è molto arduo assicurare e comprovare una perfetta e corretta informazione. Tornando al rapporto
col paziente, lo stesso concetto semanticamente inteso di informazione entra in
crisi quando si considera la palese disparità di linguaggi e di conoscenze tra
chi offre e chi riceve il relativo flusso di notizie. L’autonomia del paziente, se
letteralmente intesa, è poco più di una figura retorica, proprio per difetto degli
elementi di giudizio derivabili dalle informazioni: e in carenza di informazione,
anche l’alleanza terapeutica, di cui tanto si parla, diviene illusoria, fittizia, declamatoria. Di qui l’opportunità che a garanzia della buona informazione sia rivendi-
Riflessioni per una nuova deontologia
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cato il ruolo della comunicazione, che ha in sé ben precisi connotati non d’indottrinamento o di predica, ma di dialogo, di comunione, di simpatia tra dispari e
talvolta tra stranieri morali. Esiste, è vero, un’amplissima e dotta letteratura di
classificazioni, di algoritmi, di propositi e di intenti, prodotta da clinici, psicologi, bioeticisti, e – oggettivamente – corredata da indicatori delle valenze terapeutiche ed esistenziali: ma forse è scaduto il tempo delle astrazioni dottrinarie! Le
inquietanti vicende giudiziarie del nostro tempo impongono un approccio che
dia atto della fallacia di una schematizzazione del problema considerato sotto il
mero profilo dei presunti rischi e dei reali pericoli di un’informazione apodittica
o evasiva e carente (caratteristica quest’ultima della nostra attitudine culturale),
e in pari tempo rintracci meglio le coordinate deontologiche del tema. Il difetto
informativo è in campo giudiziario un momento di illiceità, che si afferma anche nella giurisprudenza italiana. Le coordinate soggettive, oggettive e materiali
dell’informazione si possono così brevemente descrivere:
a) Il medico, prima e più d’ogni altro sanitario, è regista insostituibile di un impegno, che si esercita attraverso un diretto interessamento, non occasionale
né incidentale, trasmissibile ai collaboratori con tutte le garanzie proprie del
segreto professionale, e ciò vale soprattutto per il curante abituale, coordinatore a lungo termine delle iniziative diagnostiche e terapeutiche (nota 30).
b) L’informazione va data al paziente, mentre il diritto a sapere dei parenti va ridimensionato con risolutezza (come vuole anche il Codice italiano di Deontologia medica), pur restando comprensibilmente tenace (nota 31).
c) A parte ogni considerazione sulle modalità dell’approccio e del rapporto informativo considerato in termini relazionali e psicologici, sembra assolutamente
prioritaria l’enunciazione di criteri generali sull’equità quali-quantitativa dell’informazione stessa, perché essa divenga giuridicamente rilevante e corretta,
fermo restando il suo carattere d’invito, di premessa e di promessa di partecipazione al programma terapeutico, anche nei casi gravi e addirittura disperati.
L’informazione deve concernere in effetti ogni elemento del rapporto: la
diagnosi, la prognosi, il programma diagnostico-terapeutico e le notizie relative alle patologie in atto che impongono una buona qualità del messaggio,
connotato di intonazioni etico-deontologiche, fondato soprattutto sul rispetto
della verità, sulla proprietà e compatibilità del linguaggio, sulla chiarezza dei
termini: il che non significa né indebita edulcorazione né terroristica crudezza.
In tale quadro possono, sul piano medico-legale, aver negativo rilievo la falsità
per volontaria omissione o per comunicazione pietisticamente menzognera
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Manuale della Professione Medica
o manifestamente erronea di una diagnosi o di una prognosi sì da realizzare
conseguenze d’ordine penalistico o civilistico. Più complessa è l’informazione
relativa al programma diagnostico-terapeutico, ch’è parte integrante dell’atto
medico e ne costituisce parte essenziale. La relativa vicenda informativa si
compone di successivi momenti: l’enunciazione del programma tanto più esaustiva quanto più invasivo è l’adempimento previsto e proposto; l’indicazione dei
benefici e soprattutto dei rischi, considerati in un duplice versante alternativo,
l’accettazione o la non accettazione da parte del paziente del programma proposto.
Mentre il primo compito non implica che una ragionevole esposizione dei
percorsi operativi (con l’importante variante della possibile emergenza intrachirurgica di indicazioni ultronee rispetto al primitivo programma per il rilievo
di patologie non previste, il che implica quanto meno un assenso preventivo
dell’eventuale maggior attività chirurgica talvolta demolitiva), il secondo compito
non può non realizzare un confronto sulla “quantità” dell’informazione e sulla
“densità” dei rischi. I sostenitori della costante prevalenza dell’autonomia del
medico individuano nel quantum informativo sui rischi del trattamento (e del non
trattamento) il punctum dolens della vicenda comunicativa: idea, peraltro, da respingere, dovendosi privilegiare invece la via della diligenza informativa, fondata sul
buon senso e sulla frequenza dei rischi, con ragionevole trascuranza di evenienze rare o del tutto irregolari che, necessariamente, sfumano nell’imponderabile
e nella generale aleatorietà connaturata alla stessa condizione umana, talvolta
imprevedibilmente fragile e labile di fronte a qualsiasi stimolo esterno persino
minimale o anche indipendente da esso.
La documentazione dell’avvenuta comunicazione è anch’essa un falso problema come ha più volte specificato la Corte di Cassazione, stigmatizzando
specifiche direttive, in specie se espresse attraverso la pratica del “modulo”
da sottoscrivere (spesso frettolosamente), anche se l’impiego di moduli è in
qualche caso necessario e persino stabilito ex lege per speciali cogenze (emotrasfusione e sperimentazione, ad esempio). Ma non si può non esprimere dubbi
sull’eccessivo dettaglio della parte informativa di qualche modulo (specie di
derivazione anglosassone), la cui comprensione e il cui valore a fini decisionali
impongono un elevato livello culturale, non tanto generale quanto specifico,
tanto più se le possibili conseguenze avverse di un determinato trattamento
sono cavillosamente elaborate e riservate agli specialisti e non agli ignari pazienti che tali restano anche dopo la più attenta lettura. Va detto in proposito,
e con estrema chiarezza, che la caccia alla reazione individuale, all’anomalia
iatrogena, anche a quelle più improbabili, rivela l’aspetto meno gradevole e
Riflessioni per una nuova deontologia
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accettabile del processo informativo, che è quello – assai pilatesco – di lavarsi
le mani prima di operare (e non è qui in questione la sola prassi chirurgica).
La ratio dell’informazione è in definitiva connaturata all’essenza stessa del
rapporto tra medico e paziente: che va dismettendo più per le esterne pressioni
che per virtù sanitaria, le prerogative della non maleficità e della beneficità intese
come attributo di una potestà decisionale insuscettibile di confronto, e assumendo invece le connotazioni di un complesso dialogo in cui la reciproca autonomia
tende a un’intesa decisionale resa perfetta, piuttosto che dall’informazione, dalla
leale comunicazione. Ne deriva un significato sempre più ricco di valenze etiche
e giuridiche del processo informativo. Naturalmente l’essenzialità e l’intensità
informative, come non possono essere racchiudibili in protocolli polivalenti e
omnicomprensivi, non sono del pari uniformi e valide per ogni patologia o condizione. La banalità terapeutica (futilità) da un lato, e dall’altro l’impenetrabilità
comunicativa legata alla mancata coscienza o all’incompetenza assoluta del paziente, sostanzialmente esonerano dalla realizzazione di un’attività informativa
puntigliosa, salvo che a essa non richiami una precisa richiesta del soggetto nel
primo caso, dei parenti nell’altro. Vanno inoltre considerate la rinuncia a conoscere, la delega ad altri del diritto all’informazione, situazioni tutte possibili, che
il medico dovrà affrontare prevedendo garanzie che, in casi di forte impegno
decisionale, non possono non tradursi in una documentazione liberatoria (che
anch’essa non scusa né l’imprudenza, né l’imperizia).
L’evenienza della prognosi infausta resta infine l’area grigia che si frappone
alla limpidezza informativa, e che va in ogni caso affrontata con la forza di due
certezze comportamentali: il rifiuto della menzogna e l’impegno alla solidale, dignitosa, rispettosa comunicazione sulla negativa evoluzione della malattia, che
non apra all’illusione ma non chiuda alla speranza, che non sia disperante ma
propedeutica a una gestione serena delle fasi terminali, anche sotto il profilo delle
terapie palliative e della qualità della vita. L’esperienza ha d’altronde dimostrato
che la conoscenza costituisce per il malato, nella maggior parte dei casi, il migliore
ausilio per affrontare la sofferenza e per prepararsi alla fine. Da queste considerazioni emerge un imperativo non facile e solo apparentemente ovvio, ch’è quello
del dovere di informare con razionalità e coscienza, con lo stesso spirito con il
quale si cura e si assiste: e non tanto per evitare guai giudiziari o fastidiose recriminazioni, ma per compiere bene il proprio lavoro di medico. E l’informazione
fa parte, ancora prima della conferma giurisprudenziale, della buona condotta
medica così come volle il Codice di Deontologia medica, sostenendola alla stregua di componente insindacabile d’ogni atto medico, promuovendola al valore
di fondamentale premessa a una convinta adesione del paziente, modulandola
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Manuale della Professione Medica
ovviamente al gradiente comprensivo e reattivo della persona, pur raccomandandosi nei casi molto gravi la circospezione non elusiva né preclusiva di elementi
di speranza, ridimensionando (art. 34) e definitivamente delineando il diritto dei
parenti all’informazione.
Sul piano più strettamente giuridico e sulla scorta dei diritti costituzionalmente tutelati all’uguaglianza e alla dignità, la valorizzazione dell’informazione
e del consenso come presupposti dell’atto medico, come garanzie di giuridicità,
assolutamente imprescindibili in quanto probative del corretto modo di sentire
e di professare la medicina, allinea la nostra disciplina a quella sopranazionale.
Riprendendo infatti la Convenzione di Oviedo (4 aprile 1997), il Codice italiano
(2006) tenacemente ripropone il riferimento al diritto del paziente di rifiutare
l’informazione sulle proprie condizioni e sulle opzioni mediche tanto diagnostiche quanto terapeutiche (nota 32). Procedendo con ordine non si possono a
tal proposito che prospettare alcune situazioni esemplificative:
a) Il diritto di non sapere fa parte della sfera dei diritti minori e secondari, da
rispettare solo se la “non conoscenza”, quasi sempre motivata da problemi di
emotività, di ansietà ecc., impedisca ogni opzione e ogni controllo su possibili
conseguenze (non necessariamente negative) di una decisione solo medica
sulle prospettive esistenziali (verrebbe da dire sulle scelte di vita del paziente)
e fa meraviglia che il pieno “rispetto” del rifiuto di sapere sia propugnato da
eccessi di solidarismo di una bioetica che magari nega, ad esempio, al paziente e al medico scelte (naturalmente non eutanasiche) di fine vita.
b) Il diritto di non sapere deve pertanto essere “discusso” col paziente da parte del medico nella fase (non sempre onorata) della “informazione” propedeutica al consenso verso il trattamento proposto, deve essere documentato
con le ordinarie procedure (scheda ambulatoriale, cartella clinica, lettera del
paziente), deve tuttavia essere respinto dal medico ove siano in pericolo interessi vitali per la persona o per altri soggetti, per la società e per il medico
stesso che non può tranquillamente incorrere in un’accusa di trattamento
arbitrario, con tutto ciò che può seguirne in termini di responsabilità professionale (anche suscettibile di sequele disciplinari e/o giurisdizionali).
c) L’obbligo informativo è in ogni caso operante anche in caso di rifiuto (malattie infettive in genere e immunodeficienza acquisita, possibile verificarsi
di danni a carico di funzioni relazionali quali l’estetica, la sessualità, la capacità riproduttiva, la vita lavorativa e sociale, sempre che si tratti comunque
di serie compromissioni o modificazioni, i trapianti d’organo ecc.).
d ) Il rifiuto di sapere deve comunque essere seguito dall’indicazione da parte
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del paziente dell’eventuale destinatario dell’informazione, un familiare in
genere, ma non necessariamente. Se il soggetto insiste, e sempre in circostanze
ovviamente rilevanti, il medico può sospendere la cura informando i parenti
del rifiuto (e solo del rifiuto informativo); può eventualmente proporre la
nomina di un amministratore di sostegno da parte del giudice tutelare che, in
casi di “fragilità” del paziente, può favorire la comunicazione e il dialogo;
può (deve) informare del caso l’autorità sanitaria se trattasi di malattia infettiva e diffusiva, nei termini stabiliti dalla legge (e qui si delinea il ruolo
dell’obbligatorietà d’informativa di cui sarà più oltre detto).
e) La prognosi non può essere del tutto nascosta al paziente che non voglia
conoscere il proprio destino che si sta compiendo, ma va quanto meno
enunciata in forma possibilistica lasciando elementi di speranza, anche per
rispetto del diritto del paziente a un bilancio della propria vita, nel compiersi di un definitivo cammino (nota 33).
L’informazione e il consenso realizzano dunque l’auspicata sintonia tra potestà
medica e autonomia del paziente e delineano il primo dovere del medico nel
contesto della legittima attività medica (nota 34). Il difetto di comunicazione si
pone sullo stesso piano del difetto tecnico professionale, integrando una condizione di colpevole negligenza che delinea non solo trascuranza di un dovere
ma soprattutto un autonomo profilo di illiceità.
Segretezza e informativa
L’informazione non è peraltro solo propedeutica a ogni fase dell’atto medico, né monodirezionale, in ossequio al principio, vecchio come la medicina,
dell’inviolabilità della riservatezza della persona assistita che fa parte della tutela della salute garantita dalla Costituzione, fatte salve le condizioni di interesse “pubblico” che, peraltro, sono stabilite dalla legge (nota 35). Per quanto
riguarda il nostro paese, l’armonia dei valori e degli impegni, ben modulata
sul vecchio art. 622 cp, rafforza notevolmente, blinda (come si direbbe giornalisticamente) la tutela del segreto, prevedendo peraltro generiche (e solo in
poche circostanze esplicite) deroghe, ora facoltative, ora obbligatorie. Da una
parte il segreto non è violabile (e tanto meno impiegabile a profitto del medico
stesso o di altri) neppure di fronte alle esigenze del processo penale (art. 200
cpp.), dall’altro si stabilisce la possibile ricorrenza di giuste cause di rivelazione,
ma en passant, senza cioè dire né quando, né come, né perché (almeno nella
nuda formula del precetto): il tutto delegato alla sensibilità del privato verso
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Manuale della Professione Medica
l’offesa, come si evince dall’esigenza di querela di parte, in costanza, peraltro,
di un nocumento e in palese contrasto con le procedure d’ufficio previste da
una serie di norme, a cominciare dall’obbligo di denuncia e di referto definiti
dagli artt. 361, 362, 365 cp e in relazione alla posizione del medico (pubblico
ufficiale, incaricato di un pubblico servizio o esercente un servizio di pubblica
utilità). Sull’ambiguo e solo ingannevolmente limpido concetto di giusta causa si
è molto discusso in dottrina, ma troppo poco in giurisprudenza: cause previste
e prefigurate da norme generali (stati di necessità, ad esempio) e speciali (obbligo di referto, denunce sanitarie, adempimenti previdenziali) talune ondivaghe
nel tempo e oscillanti tra garanzia e solidarietà (come quelle relative alle tossicodipendenze, all’AIDS, ecc.); ovvero cause anche non previste dal diritto ma indubbiamente emergenti dalla sensibilità medica verso esigenze-bisogni-valori
individuali e/o collettivi contrastanti con il diritto del paziente alla riservatezza.
Ed è su questo terreno che ha profuso teorizzazioni e linee-guida la sola deontologia medico-legale, peraltro lungamente rimasta isolata a “presidiare” le
poche (e ormai insufficienti condizioni previste dall’art. 622 cp): una deontologia, quindi, limitata alle previsioni del diritto penale e civile, anche dopo che la
Costituzione aveva aperto nuovi spazi di impegno e di sintesi per la tutela dei
diritti personali da un lato, e per la realtà pubblica dall’altro, a cominciare dalle
indicazioni relative alla “libertà” della persona.
L’emanazione (nota 36) del Codice (Testo Unico) in materia di protezione dei
dati personali ha rappresentato il punto di arrivo, di limpida matrice dottrinaria
e di moderna tecnica legislativa, di un lungo processo di affermazione di un
diritto costituzionalmente garantito (artt. 76-87), iniziato in Italia con la legge
del 31 dicembre 1996, n. 675, e seguito da una impressionante serie di decreti
e pareri del Garante della privacy. Il pregio fondante del “TU” (come per brevità di seguito si indica) è l’elevatezza concettuale e l’ispirazione democratica,
che profondamente permeano uno degli aspetti emblematici (la riservatezza)
dell’esercizio della medicina connotato dall’armonia di valori, di diritti, di doveri, di interessi che vi ineriscono. Ed è questo aspetto del TU che investe
come un ciclone di modernità gli archetipi stessi della deontologia medica e della
medicina giuridica, tanto da imporre un riordinamento delle idee e dei “luoghi
comuni” propri dell’antica (ma perenne) concezione del segreto professionale inerente l’esercizio delle professioni sanitarie, che già peraltro, dall’avvento in poi
della medicina pubblica, aveva subito (e in maniera per lo più assolutamente
legittima) le erosioni prodotte dall’affermazione di “attività di rilevante interesse
pubblico” (cui fa preciso ed esplicito riferimento il TU).
La tutela della privacy garantisce dunque la protezione dei dati personali, con
Riflessioni per una nuova deontologia
particolare riguardo ai dati sensibili, così definiti dall’art. 4 del TU, quando inerenti la salute e la vita sessuale della persona (nota 37). E sono proprio questi
ultimi quelli che particolarmente interessano il cittadino, il medico (nonché ogni
altro esercente di professioni sanitarie), il sistema sanitario pubblico e privato,
soggetti tutti impegnati nel legittimo trattamento dei dati inerenti salute e
sessualità. Mentre nel rapporto sin qui scandito da principi etici, deontologici, giuridici ha sempre goduto di enfatico rilievo la riservatezza del medico
che venga a conoscenza di un segreto, la tutela della privacy si pone invece a
precipua garanzia del trattamento dei dati sensibili. Da un illuministico divieto
di base si è passati così a una regolamentazione dell’inevitabile gestione dei
dati, che nascono e si formano nella e per la persona sana e malata, ma che
incessantemente si precisano e si moltiplicano nel rapporto della persona con
i presidi sanitari e non solo con essi. Si può dunque affermare che l’uno o
l’altro ordine di tutela (segreto, privacy), in buona misura coincidenti e, comunque, non alternativi, si muovono su diversi percorsi: la rivelazione del primo
solo per giusta causa, e la corretta gestione (trattamento) dei dati nel rispetto
del diritto alla riservatezza.
Per meglio intendere la garanzia di tutela della privacy, occorre ricordare
alcune definizioni a cominciare da quella di trattamento (art. 4 del TU), identificato in qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuate anche senza l’ausilio
di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il
raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distribuzione dei dati, anche se non registrati in una banca dati, definita quest’ultima come qualsiasi complesso organizzato di dati personali ripartito in una o più unità
dislocate in uno o più siti. L’atto medico, anche il più elementare, comporta un
primo trattamento di dati sensibili già nella raccolta stessa dell’anamnesi (da cui
scaturiscono dati identificativi e dati sensibili inerenti soprattutto la salute e la
vita sessuale), nell’esecuzione e descrizione dell’esame obiettivo, nella formulazione
diagnostica e prognostica a fini diagnostici e curativi posto che già le prime due
forme e fasi del trattamento dei dati (anamnesi, esame obiettivo) connotano
ab initio ogni rapporto medico-paziente e presuppongono pertanto un consenso
informato. Ma si tratta di un consenso preliminare e assolutamente diverso da
quello classico e fin qui esaminato riguardante la gestione tecnica (diagnostica
e terapeutica) del caso clinico. In altri termini, il medico deve informare il paziente anche dell’uso che si intende fare dei dati personali sensibili e ottenere il
consenso, senza burocrazia, evocando le leggi non scritte della fiducia reciproca. Il paziente (e potenzialmente il cittadino) è pertanto l’interessato, cui deve
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Manuale della Professione Medica
essere assicurato un trattamento dei dati personali, connotato da «un elevato
livello di tutela dei diritti e della libertà fondamentali, nonché della dignità personale,
con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto
alla protezione dei dati personali» (art. 2, TU) (nota 38).
In sintesi, la rivelazione dello stato di salute attraverso i dati che vi si inseriscono può avvenire con il consenso dell’interessato e anche senza autorizzazione
del Garante della privacy se il trattamento riguarda dati e operazioni indispensabili per perseguire le finalità di tutela della salute e dell’incolumità fisica dell’interessato; ovvero anche senza il consenso dell’interessato e previa autorizzazione
dell’autorità garante se la finalità di tutela della salute riguarda un terzo o la collettività (art. 76, TU).
La rivelazione per giusta causa condiziona, come si è visto, l’assolutezza del
segreto medico e analogamente operano le deroghe alla riservatezza previste dal
TU, in presenza di un consenso che il carattere della norma ritiene solo in parte
liberatorio (dati gli interessi che si alimentano della conoscenza dei dati sensibili)
e anche di un mancato consenso/dissenso dell’interessato. Le previsioni di specifiche deroghe in tutto l’arco del trattamento nei casi in cui s’impongono cogenti
esigenze di tutela di salute della collettività hanno trovato un’attenta formulazione di carattere generale laddove (art. 24 del TU) sono state riunite, in ragione
della sostanziale omogeneità della disciplina, le disposizioni che autorizzano il
trattamento dei dati personali anche in assenza del consenso dell’interessato,
unificando, in sostanza, le plurime condizioni a suo tempo previste dalla legge
675/1996. L’art. 24 fa salve le specificità riconosciute, in alcuni casi, per la comunicazione e, soprattutto, per la diffusione dei dati a fini giudiziari. La disciplina risulta ora più chiara, essendo state eliminate alcune duplicazioni contenute
nella previgente normativa. Il presupposto di liceità del trattamento relativo
alla sussistenza di un obbligo legale è riferito correttamente alla necessità di
adempiere comunque a un obbligo previsto dalla legge e non più al solo caso
di “dati raccolti e detenuti” in base al medesimo obbligo. Inoltre il legislatore ha
inteso chiarire che il presupposto di liceità del trattamento riferito all’esigenza
di salvaguardare la vita o l’incolumità di un terzo è comunque applicabile anche
fuori dai già previsti casi in cui veniva specificato che l’interessato non potesse,
per incapacità o altri motivi, prestare il proprio consenso. In relazione al caso
in cui la medesima finalità riguardi la vita o l’incolumità dell’interessato, la disciplina risulta conforme a quella vigente (art. 78) in relazione al trattamento
di dati idonei a rilevare lo stato di salute per finalità di cura della persona, che
in base alle disposizioni previgenti risultava più rigorosa rispetto a quella del
trattamento di dati comuni o sensibili effettuato da soggetti diversi da quelli
Riflessioni per una nuova deontologia
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sanitari. La disciplina prevede ora che anche in queste ultime evenienze, se
manca il consenso della persona incapace o altrimenti impossibilitata a prestarlo, è necessario ricorrere al consenso dei prossimi congiunti o familiari, al
fine di procedere al trattamento dei dati personali dell’interessato ma solo se sia
impossibile acquisire anche il consenso di tali soggetti o vi sia rischio grave e
imminente per la salute della persona, il consenso potrà essere acquisito anche
successivamente (art. 82, comma 2), ma non alla stregua di usuale sanatoria. Si
può in questo quadro stabilire l’esistenza di un corollario di “doveri minori” ma
tutti discendenti dall’atto medico come particolarità dell’informazione, necessario preludio dell’atto medico.
Il Codice di Deontologia
La codificazione deontologica è il prodotto della nuova cultura dei doveri
medici tradotti in norme, la cui recente plasticità, da taluni mal tollerata, non
è né vuol essere intesa quale condizione di corriva duttilità nei confronti di
pulsioni eterogenee ed eterodosse bensì come garanzia attiva e attivatrice di
vitalità, di creatività e infine di responsabilità solidali e consapevoli nel professionista, cognito del suo essere tecnicamente e moralmente impegnato, nella
sua attitudine all’ascolto delle “voci” tanto della scienza e della società quanto
dell’interlocutore debole, nella sua sensibilità – infine – nei confronti dell’autonomia della persona. E tutto ciò senza compromessi e defezioni dalla propria
scienza, dalla propria cultura, dalla propria visione del mondo, dalla propria
autonomia a un tratto irrinunciabile e coraggiosamente ispiratrice di scelte in
una solitudine da non rifiutare, cui tuttavia sovviene il Codice di Deontologia
medica (analogo, in buona misura, ai codici degli altri professionisti sanitari, gli
infermieri in primo luogo). E il Codice ha compiuto nel tempo un autentico e
virtuoso viraggio da strumento di garanzia reciproca (galateo?) tra i partecipi della
corporazione, da autorevole, magistrale monito del grande clinico (Frugoni) esornato dal carisma di scienza e d’umanesimo, da registro della ricaduta professionale delle crescenti e ingravescenti esigenze di medicina pubblica cogenti anche
per il “libero professionista”, a guida severa eppure incisiva per il medico, capace
di accompagnarlo (volente o nolente), lungo i frastagliati, impervi e scivolosi
sentieri della prassi quotidiana resi vieppiù incerti da prescrizioni-indicazioni
equivoche, da segnaletiche non aggiornate ovvero viziate da lusinghe ora ideologiche ora sottese da interessi economici, da inviti delle sirene abili e fascinose
suggeritrici di conflitti di interesse, dalle fobie ed enfatizzazioni dell’errore e
della malasanità, del contenzioso e dalle sequele giudiziarie e giurisprudenziali,
nonché tormentati dal fervore burocratico regionale, dalle tentazioni, infine,
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Manuale della Professione Medica
di fermarsi in un atteggiamento di resistenza opportunistica e di desistenza
difensivistica.
Il Codice deontologico si è così felicemente tradotto in presidio di garanzia
non solo dell’atto professionale o, non soltanto, del medico deontologicamente corretto ma anche del diritto dei cittadini e delle istituzioni (un codice ormai
accessibile alle esigenze della utenza e della pubblica tutela) al rispetto dei reciproci diritti di partecipazione e di sostegno per la condizione professionale
nel quadro di una gestione della sanità che tenga conto dell’equità, dell’adeguatezza, della qualità (art. 6) anche con gli strumenti di clinical governance. In questa
auspicata armonia si iscrive il dovere medico di informazione, di formazione
continua, di indipendenza deontologica anche nelle condizioni di “dipendenza” lavorativa e operativa. E anche le accezioni pubblicistiche della nuova deontologia che impegna il medico non solo nelle calamità (art. 9) ma anche nella
tutela dell’ambiente (art. 5), nell’attenzione non occhiuta o “paternalisitica” ma
solidaristica nei confronti degli stili di vita negativi per la salute nonché nella
discutibile ma legittima e doverosa rilevazione dell’errore (non già confessione e tanto meno delazione), esprimono l’irresistibile crescita di una presenza
e di un ruolo costanti nella prevenzione e nella garanzia di vita e di qualità
della vita delle future generazioni. La fertilità normativa del Codice trae, in
definitiva, origine da fonti essenziali: la deontologia medica ha assunto, come si è
visto, sempre più consapevolmente la caratteristica di matrice del Codice (fino
a identificarsi in esso), esprimendo la propria evoluta fisionomia di deontologia
medico-legale, nell’essenza-valenza di moniti e divieti tradotti in summa di norme
articolate, finalizzate non solo a responsabilizzare in senso anche pubblicistico
la figura del medico, ma anche e soprattutto necessarie per individuare e oggettivare le trasgressioni al fine di produrre una giustizia ordinistica o quanto
meno a rendere efficace ed esemplare nel duplice senso ammonitore e repressivo il processo disciplinare proprio della giurisdizione categoriale; l’etica medica ha visto disperdersi il suo essenziale ancorché vago significato umanistico,
praticamente solo complementare alla deontologia; la bioetica ha poi fortemente
influito sull’evoluzione del Codice deontologico, ovviamente nelle sue ultime
edizioni e particolarmente in quelle del 1998 e del 2006 nelle quali ha trasfuso i
suoi principi fondamentali che non si fermano alla non maleficità (neminem laedere!) ma si estendono al rispetto dell’autonomia della persona (nota 39).
Anche le poche leggi dello Stato, emanate tra il 1998 e il 2006, hanno trovato
una eco ben precisa nel più recente Codice: come la legge dell’8 aprile 1998, n.
94, nota come legge “Di Bella” sulla libertà prescrittiva anche off label, la legge
del 9 gennaio 2006, n. 7, che vieta le mutilazioni genitali femminili, la legge (TU,
Riflessioni per una nuova deontologia
23
2003) sulla privacy che ha avuto grande ascolto nella deontologia ufficiale (artt.
11-12) per quanto riguarda la tutela e il trattamento dei dati sensibili, la disciplina dei dati e documenti clinici e specialistici, la cartella clinica (che meritava più
estese previsioni), e infine la valorizzazione dell’interessato come unico depositario del diritto al trattamento dei dati esperibile di regola con il consenso informato e del medico curante cui fanno capo la titolarità del dato oggetto di tutela
e la responsabilità per ogni legittimo impiego dei dati stessi: problemi complessi e
delicati, sui quali non sono ancora sufficientemente esperiti la sensibilizzazione
e la partecipazione dei sanitari e il loro rapporto con l’autorità garante. Ultima
ma non secondaria ispirazione al progresso delle nuove norme è venuta dalla
dottrina e dalla giurisprudenza il cui costante interesse verso la tutela della salute
e la condotta dei medici merita una sempre più attenta riflessione e una migliore
attitudine all’ascolto e all’aggiornamento permanente ormai fondamentale momento di riflessione, assunto al ruolo di dovere preciso e non eludibile. Va infine
ricordato l’intervento delle società scientifiche e, in particolare, della Società
italiana di Medicina legale (SIMLA) per quanto attiene la consulenza medica per
l’autorità giudiziaria (art. 62) (nota 40).
Se in una sola frase si dovesse esprimere lo spirito animatore della nuova
deontologia, si potrebbe parlare di presa di coscienza dell’autonomia professionale,
nel rispetto dei diritti delle persone e della società, rivendicata insieme con la
consapevole coerente assunzione da parte del medico di piena responsabilità
professionale.
Questo è, d’altronde, l’obiettivo che perseguono la dottrina giuridica e la
giurisprudenza più autorevoli, le quali pretendono tanto l’autonomia operativa
del medico quanto l’autonomia disciplinare e sanzionatoria degli Ordini professionali (art. 4). Ed è qui che il legislatore dovrebbe con urgenza esprimere
un atto di fiducia negli Ordini professionali e procedere al loro adeguamento
istituzionale alle nuove esigenze anche disciplinari. In altri termini, le rinnovate
regole deontologiche non possono trovare piena e giusta attuazione se non
nel quadro di una nuova realtà ordinistica, cui anela una professione, eccessivamente turbata da ingerenze geopolitiche, tecnocratiche, sociologiche e, malauguratamente, bioetiche che ne sconvolgono o scoraggiano la peculiare missione. Mi piace davvero concludere questo capitolo, ricordando un autorevole
e appassionato studio, che documenta la valenza del Codice di Deontologia e
auspica erga omnes una più incisiva giurisdizione deontologica (nota 41). Tale
giurisdizione dovrà sempre più penetrare nell’intimo anche caratteristico delle
scelte, della loro compatibilità con linee-guida aggiornate e accreditate, della sostenibilità delle opzioni anche erroneamente comminate con l’equa distribuzio-
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Manuale della Professione Medica
ne delle risorse. Anche su questi punti dovrà esprimersi una nuova deontologia
che postula un nuovo riconoscimento giuridico degli Ordini (dopo cento anni)
sul piano generale e un’effettiva rilevanza della governance clinica sulle varie situazioni e contestualizzazioni culturali.
Un capitolo tutto da rivedere è quello dell’appropriatezza delle scelte che mi
permetto di accennare come una nuova frontiera della deontologia medicolegale, capace di legare l’autonomia alla professione.
Il dovere dell’appropriatezza
La categoria dell’appropriatezza sembra, tradotta com’è in slogan, estranea alla
classica cultura medica italiana troppo spesso eteroispirata, ancorché in realtà
implicita alla vicenda sanitaria (nota 42) se intesa alla stregua di ovvia garanzia
di sicurezza, di capacità, di responsabilità. La decisione medica deve essere, in
effetti, il risultato di una serrata logica (che faccia cioè a meno di ogni archetipo
e conflitto d’interesse); e “logos” vuol dire discorso problematico (non verbum
che sottende etimologicamente una presupposta verità): un discorso cioè che
si articoli su proposizioni chiave, si colorisca di suggestioni antiche e recenti, si
articoli su un metodo indefettibile (eco ammonitrice della méthode cartesiana), sia
espressione di una cultura in costante divenire per quanto, avvalendosi di punti
fermi (le conquiste della scienza) ma non paralizzanti, si rifletta e si rifranga su
tutte e su ciascuna delle contingenze cliniche. E ciò attraverso il ragionamento
clinico che può essere definito come il prodotto delle operazioni razionali che
il medico compie per diagnosticare, spiegare e curare i fenomeni patologici o
come il complesso dei processi della logica che il medico impegna per spiegare
e comprendere la condizione del paziente. Come saggiamente afferma Pagni
(nota 43), l’appropriatezza sta a significare la scelta «giusta, da parte dell’operatore giusto, nella struttura giusta». Nel quadro della logica clinica non può quindi che operare tanto la medicina dell’esperienza, ambiguo frutto della certezza
naturalistica e dell’osservazione casistica e sperimentale, quanto la medicina
della deduzione, arricchita dal transfer delle evidenze, quanto infine la medicina dell’induzione capace di dare pericoloso rilievo alle suggestioni statistiche.
S’impone così un’appropriatezza capace di umanizzarsi, di individualizzarsi,
di confluire nell’alveo della medicina della persona, di una medicina cioè che
si ponga al rispettoso servizio dell’ammalato che è la medicina dell’amore, del
dolore, della felicità, dell’autonomia e della dignità di ciascuno, in un amalgama
sereno e flessibile, anelante all’alleanza, non precipitato dalle ideologie e dalle
scorciatoie culturali (preconcette).
Ebbene, la decisione medica appropriata, che altrimenti può dirsi scelta, opzione,
Riflessioni per una nuova deontologia
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indirizzo, costituisce la sintesi finale, operativa o desistiva; ed è qui che si ripropone
il senso vero dell’obbligo di garanzia che il medico trae dal messaggio costituzionale,
il quale pone in armonia valoriale gli scopi primari della medicina e cioè la tutela
della salute da perseguire nel rispetto della libertà e della dignità personali. E così
la logica clinica resta ancora il fondamentale ma non il solo fattore delle scelte appropriate. Pochi e definiti margini restano in effetti per consentire l’influenza di
impegni diversi: da una parte l’interesse pubblico eccezionalmente preponderante
se e quando definito dalla legge, dall’altra il rispetto degli indirizzi morali del singolo medico da contenere peraltro entro i limiti dell’autonomia giunta solo ex lege
sino all’obiezione di coscienza. Il resto può essere oggetto solo di scansione deontologica e medico-legale: che, in definitiva, rappresenta il parametro della correttezza “sociale” della decisione medica, fatta di scienza e di umanità, concretizzata
ed espressa nell’ambito del “logico” protagonismo del medico. Ecco perché è andato vieppiù scemando, a differenza di quanto occorre nel mondo anglosassone,
il significato dell’intervento a livello casistico della consulenza etica e del comitato
etico e sta vieppiù svanendo, non solo in Italia, l’idea del bioeticista ospedaliero
strutturato, ed ecco perché in altri presidi appare deprecabile l’apporto di figure
diverse (come i volontari della “fede” o della “non fede” specialmente nei consultori familiari). La decisione è un atto di coscienza e di volontà del medico e del
paziente. Dall’esterno può operarsi solo accentuando gli strumenti di conoscenza
e di responsabilità nei protagonisti reali o potenziali della decisione, attraverso la
formazione e l’informazione, la crescita scientifica e morale.
Le fasi diverse e le competenze diverse non possono né debbono in effetti scomporre l’unicità di un percorso, ma semmai porre in luce, a monte
della contingenza, la gamma delle opzioni possibili su cui scienza e morale si
confrontino e da cui derivi a valle un’armonia tra le varie istanze e prospettive
anche quando la scelta non dovrebbe tecnicamente che essere una. Non può,
in effetti, frapporsi tra il medico decisore e l’atto della decisione una trama di
suggerimenti, che non sono comunque, né metodologicamente, né scientificamente, né eticamente vincolanti anche ai fini della scelta (ed è in questo senso
giusto il richiamo al limite delle linee-guida) e tanto meno scriminanti in senso deontologico-giuridico. Altrimenti, l’opera del medico è destinata a cedere
all’inerzia e alla predominanza dei dogmi (scientifici o etici) sui giudizi, alla
deresponsabilizzazione, cioè, dei soggetti interessati, frantumando così ogni
unitarietà e titolarità del processo decisionale. Esso non deve mai scostarsi né
dalla razionalità scientifica né dal colloquio tra medico curante e soggetto assistito che sottende, come si è visto, un dialogo pregnante, semplice o complesso
che sia: non più monologo del medico, come in passato, ma impresa plurisog-
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Manuale della Professione Medica
gettiva da perseguire con il paziente, ovvero con chi lo tutela e lo rappresenta,
in una trepida e lucida atmosfera di ascolto dei motivi espressi o inespressi da
una sorta di coro eschileo composto dalla famiglia, dalla società, dalla giustizia
tanto distributiva quanto retributiva. La soggettività del discorso viene siffattamente recuperata nel senso profondo di una missione quale è sentita nella
coscienza individuale, ma non fino all’inderogabilità o all’obiezione apodittica.
Fin qui, il substrato, il senso della decisione.
Nell’ambito della bioetica si è fatto strada il parallelo concetto di deliberazione: un modus molto complesso e ricco di significati e di percorsi metodologici
che non può, a mio avviso, né deve uscire dall’analisi speculativa propria del
pensiero filosofico in quanto può solo pervenire a varie opzioni, ciascuna delle
quali resta ispirata da un principio morale e pertanto tende a problematicizzare
fino alla nebulosità sofistica e a spingere verso il manicheismo il percorso decisionale, diluendolo nel tempo, in un tempo che esonda dai canali della tempestività operativa e della libertà individuale, per non citare neppure il problema
della riservatezza, anch’essa garantita dalla legge.
Con queste premesse in ordine alla razionalità decisionale, occorre prospettare alcune integrazioni di valenza soprattutto medico-legale.
La decisione medica si articola, come vuole anche la Giurisprudenza, su
tre momenti fondamentali: della diagnosi; della terapia (trattamento); e della riabilitazione, essendone peraltro presupposto l’informazione e il consenso e corollari
la prevenzione, la prognosi, l’eventuale determinazione anche medico-legale
delle provvidenze socio-economiche. Traducendo in termini deontologici le
problematiche della decisione stessa, per quanto attiene la diagnosi hanno dunque particolare significato la repertazione e l’analisi delle evidenze (anamnestiche, sintomatologiche, oggettive), emergenti da interventi metodologicamente
corretti e ripetibili, di natura clinica, laboratoristica, eidologica ecc. In questo
essenziale approccio al trattamento, la decisione si avvale oltre che della capacità individuale, della fondamentale appropriatezza metodologica, che deve
garantire la rispondenza delle indagini a una logica ermeneutica sequenziale,
ispirata a indirizzi generali, riferiti peraltro dal clinico al singolo caso se non
per altro motivo, per quello di offrire le garanzie provenienti da una corretta
informazione e da un consenso espresso con la massima possibile consapevolezza. Avvalendosi della suggestione probabilistica che non contraddice, anzi
valorizza, il confronto con le linee-guida accreditate, il processo deliberativo diagnostico deve essere chiaro, trasparente, motivato e non velleitario e pertanto
scientificamente logico. Non è censurabile, del resto, l’errore diagnostico se non
quando incompatibile con paradigmi patogenetico-clinici elementari. Lo sbaglio
Riflessioni per una nuova deontologia
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inescusabile si realizza invece per la trascuranza (da imperizia o da negligenza)
di fondamentali indirizzi pratici non pleonastici ma corrispondenti a direttive o
paradigmi operativi promossi e accolti dalla comunità scientifica, ovvero di elementari regole di condotta. Ma questi sono concetti troppo risaputi per essere
ripercorsi. Importante è, comunque, dal punto di vista medico-legale, la segnalazione e la registrazione dettagliata dell’iter diagnostico seguito, che dovrebbe essere preceduta dalla descrizione (in cartella clinica) dell’ipotesi primaria e
delle varianti ipotetiche successive su cui si muove il processo investigativo.
Basterebbe in proposito che il medico acquisisse il senso dell’opportunità di
una enunciazione diligente e descrittiva dei passaggi e dei ripensamenti, tale da
documentare onestamente la serietà dell’impegno.
La fase fondamentale del comportamento logico, una volta esperito nella maniera migliore possibile l’approccio diagnostico, risiede nel trattamento
o anche nel non trattamento (o nella cessazione del trattamento o desistenza
terapeutica), fasi essenziali dell’atto medico che presuppongono una decisione
non sempre revocabile e a un certo punto inflessibile. La decisione definitiva
deve evocare e rispettare sempre il fine della medicina, che è quello di garantire
il recupero della salute e di salvaguardare la vita, ma entro i termini della logica
(ragionevolezza) clinica e mai al di fuori della duplice potestà individuale di far
valere la propria libera volontà e di imporre il rispetto della propria dignità.
E ciò vale tanto per il medico quanto per l’ammalato e va commisurato, non
piegato, ai parametri dell’equità e della sostenibilità. Giova in proposito ricordare che l’opera del medico e della medicina non può non tener presente la
nozione di salute a suo tempo fatta propria dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità, testualmente ripresa in ogni assise socio-politica (almeno fino a pochi
anni fa) e introdotta (1978) nella legge fondativa del nostro Servizio Sanitario
Nazionale. La categoria “salute” è per sua stessa natura antinomica non solo
di malattia ma anche di tutto ciò che mina il benessere psico-fisico, la qualità
cioè della vita percepita e accettata. Si è proposta recentemente (con ricadute
bioetiche inquietanti) l’indisponibilità del substrato corporeo, oltre che della
vita stessa, e si è revocata, mettendola in dubbio, la legittimità del rifiuto di
curarsi ma anche di prodursi o di sollecitare una modificazione “morfofunzionale” non direttamente correlata a condizioni patologiche, riconducendo così la
malattia e la salute nelle strettoie del mero organicismo. E così d’un colpo si è
rischiato, ad esempio, di delegittimare ogni separazione medicalmente prodotta o assistita tra sessualità e procreazione e ogni discrezionalità correttiva non
motivata da malattie organiche. E così, per fare un altro esempio, buona parte
della medicina estetica e di ogni altra espressione della “esecrabile” medicina
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Manuale della Professione Medica
dei desideri, sta andando incontro a una preconcetta condanna. Questa escalation di divieti moralistici non è tuttavia accettabile, posto che nella temperie
civile e democratica la scelta deve solo derivare da un’effettiva armonia tra
libertà di curarsi e libertà di essere curati: ed è questo un principio basilare della professione medica, un principio del resto prevalente della stessa bioetica,
quale è stata e si è nel tempo affermata.
Al di là delle indicazioni normative dirette a soddisfare interessi generali,
non possono che valere in definitiva le potestà della medicina, legittime se indirizzate verso una virtuosa gamma di obiettivi: che non possono tuttavia tradursi in obblighi sul se e sul come, tanto per il medico (di cui tuttavia sono ammessi
e l’obiezione di coscienza e il rifiuto deontologicamente corretto) quanto per il
paziente. La Corte Costituzionale, come si è già riferito, ha d’altronde negato a
più riprese (nota 44) allo stesso legislatore la discrezionalità di intervenire nella
materia decisionale delle scelte curative (se e quando, ad esempio, siano ammissibili l’elettroshock, il ricorso a medicine alternative, le remore extrabiologiche alla procreazione medicalmente assistita), ammonendo sulla esperibilità
di prescrizioni normative regolatrici della responsabilità operativa. E anche il
legislatore ordinario (non a caso) ha ammesso la prescrivibilità dei farmaci offlabel (nota 45), e persino dei placebo, dando giusto ed equilibrato rilievo ai diritti
individuali nonché alla scienza e alla responsabilità dei medici (nota 46). Un
discorso a parte meritano (si fa per dire) le medicine alternative: capitolo che
non può peraltro essere affrontato se non partendo dai medesimi principi. La
decisione curativa deve emergere in definitiva da presupposti di relazionalità, di
razionalità, di equità, di sperimentalità, di responsabilità, essenziali momenti cui si
ispira una letteratura immensa e intensa che non occorre ripercorrere se non
in alcuni passaggi esemplificativi del tutto attuali in quanto persistente oggetto
di animata discussione. In primo luogo, la relazionalità va comunque tenuta
presente come condizione di base. Essa risiede nel rispetto della volontà del
paziente, liberata dall’enfasi della resistibile ascesa del consenso informato, ieri formalisticamente ritenuto unico lasciapassare della medicina e preteso in forma
scritta su moduli ufficiali e onnivori, concepiti, quasi alla stregua di atti notarili,
oggi assunto alla stregua di naturale componente dell’atto medico.
Poche parole occorrono infine sulla razionalità che sottende e legittima la
decisione. Linee-guida, protocolli, genialità deduttive: antiche e nuove chiavi di
lettura della realtà patologica, sono tutte condizioni necessarie ma insufficienti
ad autorizzare certezze. Resta l’ineludibile titolarità (e vulnerabilità) della scelta
che deve tendere all’equilibrio tra scienza ed etica: un’etica – soprattutto – di
rapporto, come suggestivamente insegna la terapia del dolore! Sullo sfondo
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emerge pur sempre anche il tema dell’equità distributiva e del conflitto di interesse,
che tuttavia si pongono in forme e con forza crescente non certo esorcizzabile. E così la decisione medica ritorna, compiendo un circolo indubbiamente
virtuoso, al punto di partenza, insito nella potestà del medico, del singolo medico, in modo molto più sottile, penetrante e coinvolgente rispetto a quanto
possano suggerire le classiche e nuove giustificazioni etiche come quelle della
beneficità o del best interest, ovvero del rapporto ponderale tra ricerca e clinica
(il più pericoloso agli effetti decisionali in quanto alla base del più subdolo dei
conflitti di interesse). Su questo e altri dubbi della bioetica e della deontologia
non sono peraltro da attendere dal diritto risposte sicure e definitive, capaci
di sollevare il medico da ogni incertezza e rischio. D’altronde è sul principio
della responsabilità che si fonda l’autonomia del medico ed essa resta tale se
garantita da un corretto, sereno e coraggioso potere decisionale.
Così il principio di appropriatezza trae forza e coerenza dal binomio scienza
e coscienza; non già da un’aprioristica e generale indicazione, cui altro significato non compete se non quello di guida ai percorsi operativi; deve invece
concretizzarsi in un’analisi fortemente personalizzata, così come esige ogni
serio intervento medico, cui sia estranea da un lato la soggettività immotivata, dall’altro la futilità, e sia implicita l’aspirazione a un principio di giustizia
e di equità distributiva delle risorse. L’inanità terapeutica autorizza infine un
definitivo giudizio medico, di desistenza, in quanto ciò che è inutile ormai,
esula dalla potestà di curare e sfuma in un autoritario velleitarismo spesso
condizionato da presunzioni, ideologismi, conflitti d’interesse che finiscono
per indurre un’inappropriatezza fatalmente prossima all’illecito.
Resterebbe da considerare l’impegno del medico al contenimento della spesa sanitaria: un difficile, complesso impegno che peraltro il principio
dell’appropriatezza, può rendere meno estraneo alla sensibilità del medico.
Percorsi dell’appropriatezza
Nella visione generale del tema deontologico ben si attiene dunque la categoria dell’appropriatezza applicabile anche all’informazione, al consenso,
alla tutela del rapporto (nota 47). E così si compie il ciclo virtuoso della nuova
deontologia in costante divenire, da arricchire con riflessioni ben più approfondite e diffuse rispetto a quelle che sin qui ho modestamente espresso.
Conclusioni
Il più recente orientamento giurisprudenziale, sistematicamente proposto nel 2009 dalle Sezioni Unite della Cassazione penale, definisce finalmen-
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Manuale della Professione Medica
te l’attività medica come un complesso di competenze e di impegni che non
sono solo quelli meramente teorici, di cui si impone l’appropriatezza oltre che
la coerenza con le inderogabili pulsioni della scienza e della coscienza, ma si
armonizzano con il rispetto profondo dei diritti di libertà e di dignità, con
l’autonomia della persona assistita.
Ne deriva l’esigenza di una più matura deontologia, che vada oltre le suggestioni
pur provvide della bioetica e si esprima nei termini di una biopolitica espressiva di un rapporto, di un’ideologia, di una sensibilità capaci di esaltare il dovere
nel senso dell’ascolto, del dialogo, del rispetto delle persone e delle istituzioni,
nell’auspicio di un biodiritto armonizzato con la diversità e le libertà compatibili.
A livello formativo, il capitolo medico-legale della deontologia va quindi ridisegnato su basi più ampiamente realistiche, a livello operativo fondato sulle
regole in primo luogo ordinistiche, e il Codice merita un ulteriore approfondimento di alcuni momenti di diversità più recentemente in altre sedi richiamati,
senza alterarne i principi che ne hanno prodotto nel tempo una straordinaria
elevazione etica e una grande maturazione sociale.
La recentissima, illuminata e illuminante storia dei “cento anni degli Ordini
dei Medici” idealmente si conclude con la parola-auspicio: continua…!
Ed è questo auspicio che sarà bello coltivare… (nota 48).
APPROPRIATEZZA
EFFICIENZA
allocativa, tecnica,
organizzativa
EFFICACIA CLINICA
COMPLIANCE
(adesione)
Riflessioni per una nuova deontologia
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Appendice: doveri legali di informativa
Si riassumono qui i fondamentali atti medici stabiliti dalle norme (nota 49).
UO di Igiene e Sanità Pubblica dell’AUSL
Notifica delle malattie infettive e diffusive (DM 15 dicembre 1990);
Denuncia delle malattie veneree (DM 15 dicembre 1990);
Denuncia dei casi d’intossicazione da antiparassitari (legge 2 dicembre 1975, n. 638);
Segnalazione delle vaccinazioni (desueta);
Segnalazione di neonati immaturi (DM 16 luglio 2001, n. 349);
Segnalazione di interruzione di gravidanza (legge 22 maggio 1978, n. 194).
Sindaco
Denuncia delle cause di morte (DPR 10 settembre 1990, n. 285).
Sindaco e UO di Igiene e Sanità Pubblica dell’AUSL
Denuncia della nascita di infanti deformi (DM 16 luglio 2001);
Denuncia dei casi di lesioni invalidanti (desueta).
INAIL
Denuncia di infortunio del lavoro del titolare di impresa artigiana (DLgs 23
febbraio 2000, n. 38).
INAIL e Servizio di Prevenzione Igiene e Sicurezza Luoghi di Lavoro dell’AUSL
Denuncia delle malattie professionali (DPR 30 giugno 1965, n. 1124);
Denuncia delle malattie e delle lesioni causate da raggi X e da sostanze radioattive (DLgs 23 febbraio 2000, n. 38).
Assessorato Regionale alla Sanità e COA presso Istituto Superiore di Sanità
Notifica AIDS conclamato (DM 15 dicembre 1990).
Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco, Servizio di Prevenzione Igiene e Sicurezza
Luoghi di Lavoro dell’AUSL
Denuncia della detenzione di apparecchi radiologici e di sostanze radioattive
(DLgs 26 maggio 2000, n. 241, in attuazione di Direttive 96/29 EURATOM).
Servizio di Farmacovigilanza dell’AUSL
Denuncia delle reazioni avverse ai medicamenti (DLgs 8 aprile 2002, n. 85).
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Manuale della Professione Medica
Tribunale dei Minorenni
Denuncia di situazioni d’abbandono di minore (legge 4 maggio 1983, n. 184).
Autorità giudiziaria
Referto (art. 365 cp), nel rispetto delle norme di salvaguardia della persona ivi
previste.
Note
1. Questa trattazione è ispirata dall’idea di una nuova impostazione (anche
didattica) della Deontologia medica e si propone come sviluppo coerente
del prezioso contributo di Pagni A e Benato M. 1910-2010 – I cento anni
degli Ordini, dei Sindacati medici e della professione, tra composizione e concertazione
dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri in Professione e Clinical Governance, n. 3,
2010.
2. La versione attualizzata del c.d. giuramento di Ippocrate è ufficializzata
come premessa al Codice di Deontologia Medica (FNOMCeO, 2006) ma non
ha che il significato di un solenne ammonimento.
3. Fu Federico Stella sul primo numero della Rivista italiana di Medicina legale (1979) a promuovere il superamento delle incomprensioni tra scienza giuridica e scienza medico-legale: un pericolo da scongiurarsi. Dieci anni dopo (Barni M.
Medicina e Diritto, in Rivista italiana di Medicina legale, 1989) concludevo il
mio editoriale con un omaggio alla «deontologia del biologo e del medico,
presupposti entrambi del progresso scientifico ed esistenziale, armonizzabili
solo in termini giuridici, validi se scanditi in una temperie democratica, se
capaci di essere compresi e se realmente corrispondenti ai veri problemi: per
cui la medicina legale si propone come garante di una alleanza perenne tra
medicina e diritto».
4. Fu Paolo Zacchia, archiatra pontificio del Seicento a indurvi un assetto dottrinario “definito”, indicando per le questioni medico-legali termini e potestà
originali nell’accertamento e nell’interpretazione dell’oggettività a fini forensi e nell’epicrisi specialistica. Nel De rebus medicis sub specie juris sono dettate le
norme esecutive, le alchimie deduttive di un presidio di coraggiosa validità,
concepito in un torbido clima postconciliare, oggi evoluto e garante di giustizia, in quanto capace di trarre prove, evidenze, traducendole in certezze causali, dalla materia biologica, per sua natura assolutamente ribelle a uniformità
semantiche, a esasperazioni schematiche e a interpretazioni dogmatiche e
pertanto stimolatrice di incessanti e progressivi “metodi” tecnici (sempre più
affinati dalla progressione conoscitiva) e di una parallela capacità di giudizio
Riflessioni per una nuova deontologia
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tutta permeata dalla conoscenza delle categorie e delle aspettative del diritto
(necessariamente da intendere, ante litteram, come biodiritto).
5. Cfr. Zatti P. Verso un diritto per la bioetica: ricorso e limiti dell’istituto giuridico. Riv
dir civ 1995; 1: 43 ss.
6. E non è questo né un apprezzamento critico e tanto meno una presunzione
di superiorità, se si tiene conto del più chiaro approfondimento sperimentale e, quindi, scientifico delle scienze forensi nel mondo anglosassone che
ha promosso la trionfale acquisizione della teoria delle evidenze e della loro
imprescindibilità professionale senza deleghe (come da noi) a principi tecnologici non ispirati dal principio della verità.
7. Per un preciso inventario delle regole giuridiche tradotte in doveri del medico, si rinvia, in primis, ai trattati e manuali di Medicina legale (cfr., da
ultimo: Buccelli C, Norelli G, Fineschi V. Medicina legale e delle Assicurazioni.
Piccin, Padova, 2009). L’analisi delle doverosità è presente, tra l’altro, nel
mio Diritti, doveri, responsabilità del medico. Giuffrè, Milano, 1999, capitolo
XVIII: I doveri di informativa, pp. 299-318 (vedi Appendice).
8. Non si dimentichi in proposito la lezione di Vincenzo M. Palmieri che non
sacrificò la serietà scientifica al tormento dogmatico.
9. Legge di ratifica 28 marzo 2002, n. 145, che peraltro non è stata mai depositata presso il Consiglio d’Europa né corredata dai decreti attuativi, peraltro
non necessari.
10. In ordine cronologico si riportano le principali fonti di doverosità: legge 29
dicembre 1998, n. 578 (GU 8 gennaio 1994): Norme per l’accertamento precoce
della morte, regolamento con DM 22 agosto 1994, n. 582 (GU 19 ottobre
1994); legge 1° aprile 1999, n. 91 (GU 15 aprile 1999, n. 87): Disposizioni in
materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti; DPR 9 ottobre 1990, n. 309
(GU suppl. ord. 31 ottobre 1999): Testo unico delle leggi in materia di disciplina
degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza; DM Sanità 15 dicembre 1990: Malattie infettive e diffusive.
DLgs 30 giugno 2003, n. 196 (GU suppl. ord. 29 luglio 2003, n. 174) (Codice
(TU) in materia di dati personali).
11. Senza alcuna pretesa di gerarchizzazione vi si considerano l’indipendenza e
la dignità della professione sanitaria (autonomia); l’imperativo della prestazione di assistenza (dovere di curare); l’obbligo, di antico retaggio ippocratico, del segreto professionale e il più oggettivo rispetto della riservatezza; il
conseguente trattamento (raccolta, rivelazione, trasmissione, elaborazione,
assicurazione, utilizzazione a fini leciti) dei dati personali identificativi e
sensibili, inerenti cioè la salute e la vita sessuale (tutela della privacy); la cor-
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Manuale della Professione Medica
retta e legittima ispirazione, scientifica e coscienziosa, del trattamento medico, cui siano estranei l’abusivismo, il ricorso a cure prive di fondamento e,
per contro, l’accanimento terapeutico; la doverosa sfida dell’aggiornamento; il rispetto dei diritti, costituzionalmente garantiti, alla dignità, libertà,
salute (leit motiv di un costante ammonimento della Corte Costituzionale);
lo scrupolo metodologico e ideologico (veridicità) nella certificazione e
nell’informazione richiesta dalle leggi; la particolare amorevole attenzione verso i minori, gli anziani, i disabili; il dovere di informare la persona
assistita e di acquisirne il consenso avendo assoluto rispetto dell’autonomia del paziente e delle sue scelte diagnostico-terapeutiche, soprattutto in
caso di dissenso; l’astensione da ogni forma di attività di aiuto al suicidio,
ma anche di accanimento terapeutico; la cura particolare dei malati terminali e gravemente sofferenti ispirata alla massima apertura nei confronti della leniterapia e della terapia del dolore; l’attenzione collaborativa al
prelievo di organi a fini di trapianto; l’ottemperanza alle leggi in ambito di
sessualità e riproduzione cui è peraltro opponibile l’obiezione di coscienza quando essa sia prevista ex lege (che si stempera anche in una libertà
di coscienza essenziale all’autonomia del singolo medico); l’osservanza
delle regole di buona condotta clinica e di rispetto dell’integrità personale
e della vita nella sperimentazione nell’uomo e nell’animale; la condanna
della tortura e dei trattamenti inumani e dispregiativi della persona (e, in
particolare della donna, dei minori, dei soggetti privati della libertà), ivi
compresa l’alimentazione forzata di chi la rifiuta; la coscienza dei doveri
verso l’organizzazione e l’amministrazione civica come le denunce di nascita e le certificazioni di morte; verso l’igiene pubblica come le denunce
delle malattie infettive e diffusive e della malattia mentale pericolosa; verso l’amministrazione della giustizia come il rapporto e il referto; verso le
finalità di natura sociale come le denunce degli infortuni, delle malattie
professionali ecc.).
12. Berlinguer G. Bioetica quotidiana. Giunti, Firenze, 2000.
13. Il documento di Erice è riportato in Riv it med leg, 1990.
14. Gianformaggio L. Valori etici, costituzionali e giuridico-sociali ed attività sanitaria.
Atti del XXX Congresso Nazionale della Società italiana di Medicina legale
e delle assicurazioni, Bari, 23-30 settembre 1989.
15. Il ruolo dei professionisti sanitari nella vicenda curativa ha subito una fortissima accelerazione quantitativa fondata sulla qualifica “universitaria”
conseguita, sulla soppressione dei mansionari, sulla formazione dei percorsi formativi e dei codici deontologici, sull’esigenza di una razionalizzazione
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delle attività di équipe che peraltro non può prescindere dal primato medico, in termini di scelte e di responsabilità.
16. Cfr. Bellelli A. Il codice di deontologia medica e il suo valore giuridico, in Barni M
(a cura di), Bioetica, Deontologia e Diritto per il nuovo codice professionale del medico.
Giuffrè, Milano, 1999; Busnelli F. Bioetica e Diritto privato: frammenti di un dizionario. Giappichelli, Torino, 2001; Comporti GD. La deontologia medica nella
prospettiva degli orientamenti giuridici. Riv it med leg 2002, 24: 855; Iadecola G.
Il nuovo codice di Deontologia medica, CEDAM, Padova, 1996; Quadri E. Il codice
deontologico medico e il rapporto tra etica e diritto. Resp civ e prev 2002, pp. 925948; Rodotà S. Modelli culturali e orizzonti di bioetica (2002, estratto ottenibile
dall’Autore).
17. Si veda in proposito la monografia di Raimondi L. Il procedimento disciplinare
nelle professioni sanitarie. Giuffrè, Milano, 2007.
18. Cfr. Baron J. Contro la Bioetica. Raffaele Cortina ed., Milano, 2008.
19. Come scriveva Engelhardt HT Jr: «Una nuova parola spesso richiama elementi di realtà da controllare nel nostro scibile culturale, e anche se si esprime con precisione sulle ragioni del suo potere e della sua utilità, è spesso
imprecisa nei suoi limiti al punto di poter sottintendere molte aree di interesse, posto che una giusta parola può assemblare un ricco set di immagini e
di significati e aiutare a scorgere le relazioni tra elementi della realtà fin qui
separati nel nostro orizzonte visuale […] Lasciata a se stessa […] such a word
has a fertile or strategic ambiguity. This has been the case with Bioethics» (art. n. 14).
20. Per Varnus et al. su Science (2003, 302: 398-399), la Bioetica, se vuole mantenere la sua autonomia almeno formale, non può non delimitare – a questo
punto – il suo campo d’azione occupandosi almeno dei temi epistemologici
che riguardano i diritti e le ragioni dell’essere (o del non essere), e interessandosi maggiormente a problematiche che hanno assai più a che fare con
la salute e il benessere di un gran numero di mortali; e – aggiungo – dovrà
raccomandare una segnaletica indubbiamente laica, ma fortemente umanistica e umanitaria, a una pratica comportamentale liberata dal moralismo
e dal laicismo, tendente anzi all’armonizzazione dei nostri desideri, delle
nostre ambizioni, dei nostri personali (e legittimi) ideali nel quadro delle
regole democratiche.
21. È bello ricordare come nell’istituzione (1978) del Servizio Sanitario Nazionale le funzioni erano identificate nella prevenzione, nella cura, nella
riabilitazione ma anche nella medicina legale: ed è stato un ruolo non tenuto
nel debito conto.
22. Corte Cost. n. 471/1990.
36
Manuale della Professione Medica
23. La tesi dell’autolegittimazione del trattamento sanitario affermata in dottrina dalla Cassazione civile e, ora, penale, risale, come ricorda Iadecola, a Giuliano
Vassalli (Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel
trattamento medico-chirurgico. Arch pen 1973; 81) il quale afferma che sussistono principi positivi aventi valore normativo ricavabili (solo) per analogia
del sistema delle cause di giustificazione, in forza dei quali il trattamento
medico-chirurgico si impone di per se stesso, quando sia condotto in vista
delle supreme esigenze della salute del paziente e secondo la lex artis, come
fonte di incriminazione dell’atto (Cfr. Iadecola G e Bona M. La responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie. Milano, Giuffrè, 2009).
24. Cass. pen. Sez. un. 21 gennaio 2009, n. 2347 in Barni M. La legittimazione
dell’attività medica e la cura del paziente. Resp. Civ. prev. 2009; 2170 ss.
25. Significativo è in proposito il richiamo al valore dei documenti deontologici e, in particolare alla Convenzione di Oviedo (1997) e al nostro Codice di
Deontologia medica (2006), e segnatamente all’art. 35, secondo il quale
«il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza
l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente» aggiungendo, quale ulteriore conferma del principio di rilevanza del dissenso come
limite ultimo e invalicabile all’esercizio dell’attività medica, un precetto secondo il quale «in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico
deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi non essendo consentito alcun
trattamento medico contro la volontà del paziente».
26. Alcuni stereotipi, in buona misura abbandonati dalla dottrina giuridica
ma ancora pervicacemente “cari” ai custodi di una cittadella di residuale
concettualità medico-legale, sono stati in buona misura “superati”. Essi riguardano anzitutto alcune presunte e abusate cause di giustificazione (idoli
infranti o lesionati) quali:
- Le scriminanti del consenso dell’avente diritto (art. 50 cp), categoria penalistica
definita come inapplicabile, non necessaria e addirittura eccentrica in quanto
estranea a una attività che trae la sua precisa legittimazione in se stessa e nel
dettato costituzionale (sez. VI penale del 14 febbraio 2006 n. 11640, Caneschi.
- Quella dell’esercizio di un diritto (art. 51 cp) non essendo attribuibile al
medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun
rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico stesso potrebbe ad libitum intervenire con il solo
limite della propria coscienza forte di una «posizione di garanzia» vissuta alla
stregua di precipuo dovere.
Riflessioni per una nuova deontologia
- Quella dello stato di necessità (art. 54 cp) che per prevalente opinione dottrinaria e giurisprudenziale non è evocabile in quanto l’atto medico, specie
se urgente, è legittimo e non abbisognevole di scriminanti, ed è ininfluente
allorché l’intervento medico si ponga in contrasto con la volontà del paziente e, in particolare, con un suo motivato, consapevole dissenso, attuale
o chiaramente documentato che sia. In effetti, si afferma che (Cocco G. Un
punto sul diritto di libertà di rifiutare terapie mediche anche urgenti. Resp civ prev
2009; 74: 485) «l’art. 54 cp opera in campo medico-chirurgico quando la
situazione di urgenza non consenta di attendere che il paziente riprenda
conoscenza o comunque non consenta (per le condizioni cliniche in atto)
di accertare l’effettiva sussistenza del consenso del paziente. Se invece il
paziente manifesta espressamente il suo dissenso al trattamento medico,
decidendo anche per il momento in cui diverrà incosciente e coprendo così
l’intero percorso dell’intervento sanitario fino ai suoi effetti ultimi, egli non
può certo essere obbligato a sottoporvisi perché la libertà personale non
può essere compressa in forza di una pretesa eterotutela della vita in palese
contrasto con la volontà dell’individuo (…)».
- Sul reato di violenza privata (art. 610 cp) non è da avanzare, a mio avviso, alcuna
ulteriore riflessione medico-legale, essendo peraltro da notare come non sia
da condividere la tesi secondo la quale la violenza non sarebbe da porre subito
in rapporto con una sopraffazione dell’altrui libera espressione del volere, ma
si realizzerebbe necessariamente con un comportamento concreto di azione
di tolleranza o di omissione non voluta dal soggetto passivo (anche se ormai
incapace di dissentire o consentire, come, appunto, il soggetto anestetizzato).
In altri termini, e a mo’ di esempio, «il chirurgo nell’eseguire un intervento
diverso da quello consentito, esplicherebbe una energia fisica sul corpo del
paziente, tenendo una condotta violenta, una vis absoluta sul paziente che, per
le condizioni in cui si trova, non può opporre alcuna resistenza». La Cassazione a Sezioni penali unite (2009) ha invece considerato che per la configurazione
dell’art. 610 cp, il requisito della violenza, sia essa fisica (propria) o psicologica (impropria) s’identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente
l’offeso della libertà di autodeterminarsi, sia che l’elemento soggettivo del
reato implichi una violenza (appunto) o una minaccia che abbiano l’effetto
di costringere taluno a fare, tollerare o ammettere una determinata cosa: “il che
sembra rendere del tutto impraticabile l’ipotesi che siffatti requisiti possano
ritenersi soddisfatti nell’ipotesi” dell’attività medico-chirurgica in quanto «la
violenza […] è un connotato […] di una condotta che […] deve atteggiarsi
alla stregua di mezzo destinato a ottenere qualcosa di diverso dal fatto in cui
38
Manuale della Professione Medica
essa si esprime»: questi i termini enunciati dalle Sezioni unite, in maniera davvero assai convincente.
- E infine la indisponibilità dell’integrità corporea (art. 5 cc) è ritenuta superata dal
dettato costituzionale e va interpretata nel senso che il “negato” potere di disporre non esclude la libertà di disporre del proprio corpo e quindi di decidere e
di autodeterminarsi in ordine a comportamenti che coinvolgono e interessino
il proprio corpo: e questo concetto ben affermato in dottrina è espressamente
richiamato dalle Sezioni unite, in modo del tutto conforme ai principi costituzionali.
27. Sentenza “stranamente negletta” è la Corte Cost. del 15 dicembre 2008, n.
438, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge regionale
del Piemonte n. 21/2007, in materia di uso di sostanze psicotrope su bambini e adolescenti, intervenendo nelle modalità stesse del consenso che, inteso come
espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si
configura invece quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi
espressi dall’art. 2 della Costituzione che ne tutela e promuove i diritti fondamentali,
e negli artt. 13 e 32 i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale
è invalicabile e che nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario se non per
disposizione di legge, che a sua volta non può violare la dignità della persona.
28. Cass. sez. II civ., 15 settembre 2008, n. 2376, con commento di: Barni M.
Sul rifiuto di sangue: un compromesso onorevole, e di Silingardi E e Santunione
AL. Il rifiuto del trattamento trasfusionale: la Cassazione ancora in bilico tra un passato che non passa e un futuro ipotetico, in Riv it med leg 2009; 31: 211 ss.
29. Si rende necessaria la previsione di istituti nuovi (per me non necessariamente affidati al legislatore) quali appunto il testamento biologico, funzionalmente rivolti all’autoregolazione per il tempo della sopravvenuta incapacità, quali l’autodeterminazione rispetto alle nuove tecnologie biomediche
e la difesa del trattamento sanitario ritenuti indesiderati in quanto valutati
lesivi della propria identità e dignità personali e non rispondenti al proprio
progetto di vita: istituti che rendano cruciale la dichiarazione di volontà, posto
che essa è il veicolo stesso attraverso il quale non soltanto il disponente pianifica le proprie cure ma rende noto qual è l’insieme dei suoi valori, delle sue
convinzioni etiche e morali, delle sue idee filosofiche, del suo credo religioso (in una parola della sua personale concezione dell’identità e della dignità
umana) rispetto alla vita, in malattia e in incoscienza. Ed è da questa lettura
rispettosa e umile, che il fiduciario e il medico debbono trarre ispirazione
per le loro scelte. Cfr. Pizzetti F. Alle frontiere della vita: il testamento biologico tra
valori costituzionali e promozione della persona. Giuffrè, Milano, 2009.
Riflessioni per una nuova deontologia
39
30. È naturale che in proposito si sollevino quesiti e dubbi sul ruolo dei consulenti, degli specialisti, dei laboratoristi, degli infermieri, degli anestesisti, dei
radiologi ecc.; ma è difficile dire come il compito possa essere delegato e
condiviso. Se ne può solo individuare la titolarità, densa di un’irrinunciabile
responsabilità, che grava sul decision maker, sempre e a ogni effetto medicolegale (consenso, segreto ecc.).
31. Il duplice diritto alla riservatezza e alla contemporanea conoscenza del
proprio stato implica una prerogativa assoluta ed esclusiva della persona
interessata, trattandosi di un diritto costituzionalmente tutelato, rifiutabile e
delegabile solo mediante un preciso atto di volontà dell’interessato e mai in
forza di un’iniziativa o di una presunzione da parte del medico. Solo in caso
di minori o psichicamente infermi, l’onus conoscitivo può essere trasferito
su chi esercita la tutela. Sono da tener presenti, in proposito: l’opportunità
della comunicazione relativa allo stato di salute anche al minore o al malato di
mente, che, ove ragionevolmente possibile, deve saper partecipare alle decisioni terapeutiche, ancorché non in modo dominante; il ruolo informativo
del consultorio, del comitato etico o della équipe informativa non esclusivamente medica (counselling) per particolari patologie, indagini, scelte ecc. Si tratta
di un ruolo che potrebbe scardinare il legame fondamentale medico-malato
e che comunque è subordinato a un atto di volontà da parte dell’utente; la
delicatezza informativa da riservare alle persone a rischio per condizioni di pericolosità o di trasmissibilità proprie di patologie tenute nascoste
dal paziente: problema legato da sempre, nel primo caso, a talune malattie
mentali, nel secondo a malattie infettive e diffusive, e oggi alle malattie
geneticamente trasmissibili. L’informazione alla persona direttamente o indirettamente interessata è anche qui prioritaria, ma dev’essere fortemente
estesa a ogni possibile conseguenza anche penale dell’eventuale rifiuto di
illuminare la persona a rischio. La sindrome da immunodeficienza acquisita
ha attualizzato il problema, che è oggetto anche di protocolli comportamentali e operativi sui quali si basa ad esempio il contact tracing, e sul quale
si articola il sistema delle notifiche e delle denunce all’autorità sanitaria. Il
medico deve illustrare al paziente anche il rischio giudiziario e avere il coraggio di agire al di fuori delle regole del segreto, così come suggerisce l’art.
9 del Codice di Deontologia medica (2006), previa «valutazione sull’opportunità della deroga allorché sia in grave pericolo la salute o la vita di terzi».
Una riflessione a parte merita l’informazione nei casi d’intervento medico
d’elezione, non corrispondenti, cioè, a condizioni patologiche intese nel
comune significato nosologico. È il caso della chirurgia estetica e di taluni
40
Manuale della Professione Medica
interventi nella sfera della sessualità e della riproduzione. Già la giurisprudenza ha duramente sanzionato il difetto informativo in contingenze come
la fallita plastica mammaria, la fallita interruzione volontaria di gravidanza,
la fallita correzione dei caratteri sessuali secondari nel transessuale. Informazione e obbligazione di risultato si attualizzano così e si embricano in
diacronica sequenza.
Il ruolo dell’informazione assume connotati quasi biblici, propri della responsabile premonizione e del vaticinio esistenziale, quando si tratta della possibile deriva dei test genetici (medicina predittiva) e delle responsabilità anche
giuridiche connesse alla fecondazione artificiale. L’informazione, in questo
caso, deve investire una pluralità di soggetti: il donatore dei gameti (anonimato
assoluto o relativo!), la coppia o la donna sola (sempre che ne sia consentito
l’accesso alla fecondazione artificiale), la candidata madre portatrice, con l’inquietante e ammonitrice incombenza di colui del quale si progetta l’esistenza.
32. Per l’art. 33, ultimo capoverso: «la documentata volontà del paziente di non essere
informato o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata». Molto
vaga e ininfluente sul piano medico-legale è la letteratura sul tema, cui mi
piace dedicare un primo commento: il dovere di informare il paziente si arresta di
fronte al rifiuto e alla manifestazione di totale fiducia e di leale affidamento, ma non in
ogni caso può essere considerato come assoluto, per la sussistenza o la possibile emergenza
di responsabilità mediche rilevanti. Il medico deve pertanto evitare di assumersi
autonome iniziative d’importante incidenza sulla salute, sulla futura validità
e sulla vita stessa del soggetto, salvi naturalmente i casi di urgenza e di indifferibilità dell’intervento, sentendo in tutta la sua gravità la problematica
etico-giuridica della scelta, tanto maggiore quanto maggiore è appunto il
rischio clinico, inteso come rischio per la vita, la salute, ma anche per le
opzioni e le chances della persona nella sua sfera esistenziale e in rapporto
con la famiglia, la società, il lavoro, la vita affettiva, sessuale ecc.
33. Occorre dire in definitiva che le possibili conseguenze d’indole deontologico-giudiziaria pesano molto e vanno considerate con grande serietà. Basti
citare l’esigenza che il paziente, ad es., sappia e comunichi al partner la sua possibile contagiosità; che il paziente sappia che nella struttura in cui si trova non
esistono sufficienti opportunità di diagnosi e di cura; basta ricordare al medico che il difetto d’informazione elide la regolarità “contrattuale” del rapporto di cura. Si ricordi intanto che il medico curante è il titolare dei dati sensibili
relativi alla salute e alla sessualità del paziente e che anche la comunicazione
al paziente ne costituisce trattamento ai sensi del codice della “privacy”, per
cui è sempre fondamentale il consenso o il rifiuto (documentato) del paziente.
Riflessioni per una nuova deontologia
34. Ogni aspetto ne è ampiamente trattato nel capitolo successivo, che ne
stabilisce i confini e i limiti, e le modalità espressive, sino al testamento
biologico, soffermandosi sulle condizioni che delimitano e sorreggono la
capacità di consentire.
35. Si potrebbe dire “in principio era Ippocrate”; ma l’imperativo di riservatezza
contenuto nel giuramento è di per se stesso ben più estensivo e denso di
impegni e di impulsi morali di quanto non lo sia, ad esempio, la previsione
penalistica vigente (art. 622 cp): costituisce infatti la struttura portante di
un rapporto di fiducia, tanto più essenziale in era pre-scientifica allorché
l’affidamento al medico era più completo, la soggezione, filiale quasi, mentre, per converso, il senso del dovere e la soggettività (non controllabile) del
potere paludato da contenuti di serietà (di riservatezza, anche) connotavano il rapporto paziente-medico, venendo a occupare il sanitario una posizione di garanzia ante litteram, quella propria della salvaguardia della salute.
36. DLgs 30 giugno 2003, n. 196, in GU, suppl. ord., del 29 luglio 2003, n. 174.
37.Dati personali: qualunque informazione relativa a persona fisica, persona
giuridica, ente o associazione, identificati o identificabili, anche direttamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un
numero di identificazione personale.
Dati sensibili: i dati personali atti a rivelare l’origine razziale ed etnica, le
convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, le
adesioni a partiti, sindacati, associazioni e organismi a carattere religioso,
filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale.
38. Le altre figure coinvolte nel processo del trattamento sono anch’esse definite
(art. 4 TU) e oltre all’interessato, che è il cittadino, la persona, il paziente, sono il:
- Titolare: la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione e organismo cui competono, anche
unitamente ad altro titolare, le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità
del trattamento dei dati personali e agli strumenti utilizzati, ivi compreso il
profilo della sicurezza.
- Responsabile del trattamento: la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica
amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione e organismo preposti
dal titolare al trattamento dei dati personali.
- Garante: l’autorità istituita dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675, all’articolo 153.
Non ci sembra necessario illustrare ulteriormente i soggetti interessati, bastandoci ricordare che nel rapporto medico-paziente, il primo è il titolare, il
secondo l’interessato.
42
Manuale della Professione Medica
39. In questa ottica si colloca una bioetica posta a tutela delle frontiere della vita
e il Codice si distingue per averne tratto esemplari indicazioni riguardanti la
tutela della volontà del paziente consapevole della qualità stessa della vita e
di chi non lo è più, in una delicata e sfumata interpretazione della posizione
di garanzia del medico e del potere di scelta del paziente tentando una possibile conciliazione (meglio, mediazione) tra tutela della salute e diritto alla
qualità del vivere e del morire (terapia del dolore, rifiuto dell’ostinazione
terapeutica, leniterapia e amorevole rispetto e capacità di accompagnamento anche nella fase del declino estremo della vita, trattamento rianimatorio dei prematuri, attenzione particolare ai soggetti minori, fragili, “non
competenti”, adeguata considerazione verso eventuali direttive anticipate,
disponibilità nei confronti dei legali rappresentanti e in particolare verso gli
amministratori di sostegno che non si traduca in deresponsabilizzazione).
La cultura dell’autonomia è sufficientemente valorizzata e assimilata senza
tuttavia consentire l’adesione e la soggezione a ideologie confessionali o laiciste che hanno finito per vanificare l’ansiosa ricerca di un’etica condivisa e,
ancora, sul piano pratico per marginalizzare i comitati etici, di cui, un tempo in sede ordinistica si paventò persino – e non a torto – un’autorevolezza
vicaria in tema di deontologia medica. A questa fonte d’ispirazione vanno
così ascritte non solo le più recenti e aggiornate indicazioni della Dichiarazione di Helsinki dell’AMM (in tema, ad esempio, d’uso del placebo), emanata
nella sua primitiva stesura (1964) sull’onda della sentenza di Norimberga,
ma soprattutto della traduzione in decreti legislativi delle direttive europee
in ordine a: sperimentazione dei nuovi farmaci sull’uomo, sperimentazione
animale, impiego dei dispositivi medici, direttive che non interessano solo
le Aziende sanitarie, e in particolare ospedaliere, e i centri di ricovero e cura
a carattere scientifico, che non sono rivolte soltanto ai relativi comitati etici
ma che riguardano direttamente il medico, anche di MMG, abilitato (DM
10 maggio 2001), in base a percorsi operativi regionali, alla sperimentazione dei farmaci soprattutto in fase IV. Una considerazione a parte merita la
sinossi culturale ed etica proposta dalla Convenzione di Oviedo del 4 aprile
1997 sui diritti della persona e la biomedicina particolarmente incidente,
dopo la sua ratifica parlamentare (legge 145 del 28 marzo 2001) ancorché
in qualche misura disattesa dall’inerzia governativa nella preparazione ed
emanazione dei decreti attuativi ma per prevalente e autorevole dottrina e
giurisprudenza (pressoché costante) è da considerare operativa e vincolante. È comunque fondamentale il fatto che il Codice di Deontologia medica
del 2006 ne abbia accolto i risultati essenziali come, per ricordare i più forti:
Riflessioni per una nuova deontologia
43
a) la stringente dinamica dell’informazione e del consenso informato diretto e attuale del paziente (se consapevole) indicati come essenziali requisiti
di liceità del trattamento medico, con la conseguente incoercibilità del dissenso, pur se produttivo di desistenza terapeutica anche in condizioni di
rischio per la vita;
b) la particolare attenzione nei confronti dei minori e dei soggetti che versino in condizioni di défaillance mentale, il cui contributo alle scelte curative
anche in direzione della qualità della vita, va comunque sollecitato e, ove
possibile, seguito ricercando una convinta armonia con le opzioni di chi
esercita la tutela;
c) il tema delle direttive anticipate (art. 38) viste come non obbligatorie, né
notarili, né cogenti, ma meritevoli di effettiva considerazione da parte del
medico cui è richiesta una leale motivazione in caso di eventuale rifiuto
medico di ottemperanza per ragioni ideologiche o di serietà professionale;
d) la rinuncia all’accanimento terapeutico, ben definito nel Codice, e la prevista
attenzione alla salvaguardia della qualità della vita, alla terapia del dolore
e alla leniterapia, nella decisa condanna di ogni forma di eutanasia attiva,
definita come messa in atto di comportamenti intenzionalmente diretti a
produrre il decesso.
40. Gli influssi positivi della norma deontologica si sono scontrati col più complesso,
inquietante e drammatico riflesso delle leggi in atto o in fieri (testamento biologico)
che in sconvolgente misura invadono l’ambito dell’autonomia del medico, non
tanto nelle scelte morali quanto in quelle tecniche, e ciò nonostante la diffida
della Corte Costituzionale. Per fare un esempio, basterà ricordare la presenza nel
Codice deontologico del tema della fecondazione assistita (art. 44) con il riferimento alle
procedure già deontologicamente vietate nel 1988 prima dell’approvazione della
legge 19 febbraio 2004, n. 40 (e cioè la maternità surrogata, post-menopausale e
post-mortem del partner), riaffermandosi invece l’esigenza della stabilità di coppia
mentre non si ripetono nel testo ordinistico del 2006 altri divieti contenuti nella
legge 40: diagnosi preimpianto, produzione e impianto di più di tre embrioni,
fecondazione eterologa. E non si tratta di un’imperdonabile svista e nemmeno di
un invito alla violazione della legge 40; ma solo di un fermo, dignitoso richiamo
alla non illiceità deontologica di procedure e di metodi che non contrastino con le
finalità scientifiche ed etiche della medicina, cioè, di prevenzione e di tutela della
salute intesa nelle accezioni più ampie del termine, come condizione, cioè, di benessere
fisico e psichico della persona (art. 3). Non è questo, d’altronde, il solo esempio
di rivendicazione della volontà autodisciplinare dei medici italiani, palesemente
documentate anche dalla novità degli allegati al Codice stesso (certamente non
44
Manuale della Professione Medica
più che indirizzi o linee-guida) sulla pubblicità, sull’informazione sanitaria, sulla
ricerca sperimentale, sui conflitti di interesse, sull’aggiornamento e la formazione,
sulla prescrizione dei farmaci.
41. Raimondi F e Raimondi L. Il procedimento disciplinare nelle professioni sanitarie.
Giuffrè, Milano, 2007.
42. Federspil G. Logica clinica: i principi del metodo in medicina. McGraw-Hill, Milano, 2006.
43.Pagni A. Medici e management sanitario: il difficile dialogo tra due culture. C.G. Edizioni Medico Scientifiche, Torino, 2009.
44. Pagni A. Medici e management sanitario: il difficile dialogo tra due culture. vedi cap.
3.2. C.G. Edizioni Medico Scientifiche, Torino, 2009.
45. Cfr. Del Tacca M. Impiego clinico dei farmaci off-label. Professione 2005; 5.
Iadecola G. Prescrizione dei farmaci “off-label” e responsabilità penale del medico,
ibidem, 2006.
46. Legge 8 aprile 1998, n. 94.
47. Da Pagni A. Medici e management sanitario. C.G. Edizioni Medico Scientifiche,
Torino, 2003.
48. Pagni A e Benato M. 1910-2010 – I cento anni degli Ordini, dei Sindacati medici
e della professione, tra composizione e concertazione dalla fine dell’Ottocento ai giorni
nostri. Professione 2010; 3 (fascicolo monografico).
49. Da Norelli GA, Buccelli C, Fineschi V. Medicina legale e delle Assicurazioni.
Cedam, Padova, 2009.
1
L’Ordine professionale
e il Codice deontologico
S. Fucci, G. Morrocchesi, A. Panti
Art. 1- Definizione
Il Codice di Deontologia medica contiene principi e regole che il medicochirurgo e l’odontoiatra, iscritti agli albi professionali dell’Ordine dei Medici
Chirurghi e degli Odontoiatri, di seguito indicati con il termine di medico,
devono osservare nell’esercizio della professione.
Il comportamento del medico, anche al di fuori dell’esercizio della professione, deve essere consono al decoro e alla dignità della stessa, in armonia
con i principi di solidarietà, umanità e impegno civile che la ispirano.
Il medico è tenuto alla conoscenza delle norme del presente Codice e degli
orientamenti espressi nelle allegate linee-guida, l’ignoranza dei quali, non lo
esime dalla responsabilità disciplinare.
Il medico deve prestare giuramento professionale.
Quest’articolo, nel primo comma, contiene la definizione di ciò che rappresenta il Codice, indica chi sono i destinatari delle relative norme e ne sancisce
l’obbligatorietà per tutti gli iscritti all’Ordine, indipendentemente dalle modalità di esercizio della professione.
Impone ai medici e agli odontoiatri, nel secondo comma, di tenere un
comportamento consono ai principi etici che devono improntare l’esercizio
professionale anche nelle attività estranee alla professione onde evitare che
possano essere lesi il decoro e la dignità della stessa.
Quest’ultima disposizione trova il suo fondamento etico nella circostanza
che anche comportamenti extra professionali possono essere lesivi del decoro e
46
Manuale della Professione Medica
della dignità di questa comunità di professionisti che ne potrebbe essere, quindi,
danneggiata quantomeno sul piano dell’immagine rispetto all’opinione pubblica.
Sancisce, inoltre, il dovere degli iscritti all’Ordine di conoscere il contenuto
normativo del Codice e le linee-guida interpretative emanate dalla Federazione
e stabilisce l’irrilevanza dell’ignoranza delle regole e dei principi della deontologia medica eventualmente eccepita dal sanitario incolpato di averli trasgrediti.
Questa disposizione richiama alla mente l’art. 5 del Codice penale che stabilisce che «nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale» che è
stata oggetto di un attento esame da parte della Corte Costituzione che, nella
sentenza n. 364/88, ne ha sancito la parziale incostituzionalità solo nella parte
in cui «non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile». Appare opportuno evidenziare, peraltro, che la Corte ha sottolineato che
esiste a carico di ciascuno un dovere di essere diligente nella conoscenza dei
precetti dell’ordinamento e che deve ritenersi rimproverabile l’ignoranza della
legge penale da parte di chi «professionalmente inserito in un determinato campo d’attività, non s’informa sulle leggi penali disciplinanti lo stesso campo». Queste autorevoli
affermazioni, sia pure riferite alla normativa penale, possono essere utilizzate
per avvalorare la correttezza sostanziale della disposizione deontologica in
commento, laddove impone agli iscritti all’Ordine di attivarsi diligentemente
per conoscere le relative regole, non ammettendo alcuna ignoranza al riguardo.
D’altra parte la notizia dell’approvazione del nuovo Codice deontologico è
stata data dai mass media e gli Ordini provinciali a loro volta ne hanno diffuso il
testo e illustrato in convegni il contenuto, accessibile sempre anche via internet.
Questo articolo stabilisce, infine, l’obbligatorietà del giuramento professionale che costituisce un atto formale diretto a ribadire l’importanza per ciascun
medico delle regole e dei principi della deontologia.
L’evoluzione nel corso del tempo della deontologia
professionale
Il Codice deontologico dei medici rappresenta il complesso delle norme
che definiscono i doveri degli appartenenti ad una determinata comunità professionale e viene emanato dalla Federazione nazionale attraverso una complessa procedura che vede coinvolti tutti gli Ordini professionali provinciali e,
quindi, potenzialmente tutti gli iscritti.
1. L’Ordine professionale e il codice deontologico
47
Il primo Codice è stato approvato nel 1954 e successivamente ne sono state
elaborate nel tempo altre edizioni, fino all’attuale del dicembre 2006.
Nel corso del tempo il Codice ha assunto una maggiore completezza, tale
da farne certamente un corpus iuris sempre più aggiornato rispetto all’evoluzione normativa dei testi di legge che riguardano le nuove attività di competenza dei medici, basti citare la procreazione medicalmente assistita (PMA) e
gli interventi sul genoma umano.
L’evoluzione del testo delle norme appare evidente anche laddove si è riconosciuto nel tempo l’importanza del coinvolgimento del cittadino nelle decisioni che riguardano la tutela della sua salute e, quindi, degli aspetti relazionali
del rapporto di cura che non può essere ricondotto solo alla semplice applicazione di principi tecnici.
Tenendo conto dell’importanza nella nostra società dell’istituzione costituita dalla famiglia non deve essere sottovalutato anche il segnale che il Codice
ha voluto dare laddove nel tempo ha cancellato il riferimento ai congiunti come
soggetti destinatari di una informazione privilegiata sulle condizioni cliniche
dell’ammalato, in conformità all’orientamento assunto sul punto sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza.
Anche la normativa deontologica sul segreto professionale, che costituisce
uno dei principi fondamentali dell’esercizio dell’attività medica, ha subito nel
tempo delle modifiche per adeguare le regole professionali ai principi giuridici
contenuti nella legislazione sul trattamento dei dati personali dell’assistito.
Occorre, quindi, che i sanitari tutti siano sempre più attenti all’evoluzione
della normativa deontologica per evitare di rimanere ancorati a principi che
nel tempo sono stati rielaborati proprio per adeguarli a quelli contenuti nella
legislazione di carattere generale.
Quest’opera di adeguamento dei principi deontologici al contenuto delle
leggi appare importante perché dimostra che i medici e gli odontoiatri sono
consapevoli del ruolo che svolgono all’interno della comunità nazionale e della
loro appartenenza a questa comunità.
Un’eventuale difformità sostanziale della normativa deontologica rispetto
al contenuto della legislazione nazionale non è comunque auspicabile perché
porrebbe gli iscritti nella difficile situazione di dovere scegliere tra l’ottemperanza alla deontologia professionale ovvero alla normativa emanata dal Parlamento.
48
Manuale della Professione Medica
Nello stesso tempo il legislatore nella sua opera di normazione primaria
dovrebbe evitare di emanare leggi che si pongano senza alcuna valida giustificazione in contrasto i principi deontologici comuni a tutti i sanitari e, soprattutto,
rispettare l’autonomia professionale degli operatori, senza la quale difficilmente
i medici e gli odontoiatri potrebbero contribuire all’attuazione del principio
costituzionale che sancisce il diritto alla salute e, quindi, riconosce implicitamente il valore sociale delle attività professionali dirette alla tutela della salute.
Purtroppo è accaduto, invece, che il legislatore nazionale abbia inteso
emanare norme dirette a disciplinare anche le modalità tecniche dell’esercizio
professionale, com’è avvenuto con la legge n. 40 del 2006 sulla PMA che,
laddove all’art. 14, imponeva agli operatori di non creare più di tre embrioni
e di procedere ad un unico e contestuale impianto degli embrioni prodotti,
stabiliva una modalità tecnica che non teneva conto della necessità di adeguare
il trattamento alle condizioni di età e di salute della donna, come poi statuito
dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 151 del 2009.
In questa sentenza la Corte ha dichiarato l’illegittimità di questa disposizione perché «non riconosce al medico la possibilità di una valutazione, sulla base delle
più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, del singolo caso sottoposto al trattamento, con conseguente individuazione, di volta in volta, del limite numerico di embrioni
da impiantare, ritenuto idoneo ad assicurare un serio tentativo di procreazione assistita,
riducendo al minimo ipotizzabile il rischio per la salute della donna e del feto». Questa
decisione, richiamando le precedenti sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del
2002, ha ribadito l’importanza del rispetto, anche da parte del legislatore, del
principio che garantisce l’autonomia del medico nell’esercizio della sua attività di cura, ricordando che «la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto
l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e
sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in
materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere l’autonomia e la responsabilità
del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali».
È importante, inoltre, che sulle questioni di rilevanza bioetica il legislatore
eviti di emanare disposizioni forti intese a regolare la materia in modo rigido,
senza tenere conto dei diversi orientamenti presenti nella popolazione e anche
nelle comunità dei sanitari.
In questa materia, qualora giudicato veramente necessario, l’intervento
normativo dovrebbe avere una connotazione non ideologica, che lasci aperta
1. L’Ordine professionale e il codice deontologico
49
a tutti la possibilità di effettuare le scelte che, nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento, ciascuno sarà chiamato ad operare per suo conto e sotto la
propria autonoma responsabilità.
Non si muove, evidentemente, in questa direzione il disegno di legge sulle
dichiarazioni anticipate di trattamento (cosiddetto DDL Calabrò) laddove
intende impedire ai medici di sospendere la nutrizione artificiale anche quando
questo trattamento non apporta alcun beneficio alla persona interessata.
Il valore del Codice nell’ordinamento generale
Per molto tempo si è ritenuto, in passato, che la normativa deontologica
contenesse principi e regole extragiuridiche, pur non mancando nella giurisprudenza qualche isolata sentenza che ne sanciva la loro rilevanza ai fini della
colpa penale perché riconducibili al concetto di disciplina, la cui inosservanza
è idonea a qualificare come colposo un determinato comportamento ai sensi
dell’art. 43 del Codice penale (vedi, al riguardo, Corte di Cassazione, quarta
sezione penale, sent. n. 1516/92).
Anche la Suprema Corte ne ha affermato per lungo tempo un valore limitato nell’ordinamento generale affermando che «le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli Ordini professionali, se non recepite da una norma di legge (ad esempio
in materia di segreto professionale, tutelato anche nei confronti dell’autorità giudiziaria), non
hanno né la natura né le caratteristiche di norme di legge, come tali assoggettabili al criterio
interpretativo di cui all’art. 12 delle preleggi, ma sono espressione dei poteri di autorganizzazione degli Ordini (o Collegi) sì da ripetere la loro autorità – come evidenziato in dottrina
– oltre che da consuetudini professionali anche da norme che i suddetti Ordini (o Collegi)
emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi e per
regolare la loro funzione disciplinare» (vedi, al riguardo, Sezioni Unite Civili Corte
di Cassazione, sent. n. 10842/03).
In base a questo principio non era possibile al medico condannato in sede
disciplinare ricorrere in Cassazione avverso la sentenza emanata dalla Commissione Centrale per denunziare un vizio interpretativo delle norme disciplinari qualificandolo come violazione delle norme che disciplinano l’interpretazione della legge.
Questo tradizionale orientamento è stato ribaltato recentemente dalla
Suprema Corte che in sostanza ha affermato che nell’ambito della violazione
50
Manuale della Professione Medica
di legge, va ricompresa anche la violazione delle norme dei Codici deontologici
degli Ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli
per gli iscritti all’albo che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare (vedi, al riguardo, Sezioni Unite Civili, Corte di
Cassazione, sent. n. 26810/07).
Questo innovativo principio in relazione al valore da attribuire alle norme
deontologiche consente, quindi, al medico incolpato l’esercizio di un più ampio
diritto di difesa davanti alla Suprema Corte a tutela dei suoi diritti perché la
Cassazione può procedere direttamente all’interpretazione della norma deontologica contestata per verificare la correttezza dell’interpretazione fornita al
riguardo dai giudici nel grado di giudizio precedente.
D’altra parte nel momento in cui la normativa vigente affida agli Ordini
professionali l’esercizio del potere disciplinare sugli iscritti, le regole deontologiche applicate non possono essere ritenute extragiuridiche perché costituiscono
la fonte dell’eventuale contestazione di illecito disciplinare mossa al medico
o all’odontoiatra che, all’esito del giudizio, può finire con l’incidere sui diritti
soggettivi del sanitario, come quando, ad esempio, ne determina la radiazione
dall’albo.
Questo orientamento appare condiviso anche dalla terza sezione della Cassazione penale che, nella sentenza n. 16145/08, dopo avere ritenuto che le
disposizioni disciplinari « hanno valenza normativa ed integrativa delle clausole generali,
le quali vanno interpretate anche facendo ricorso a fonti normative diverse, sia pure di rango
infralegislativo, come le norme di etica professionale», ha riaffermato che il Codice
deontologico «rappresenta una fonte normativa qualificabile come “norma di diritto”,
la cui interpretazione costituisce una “quaestio iuris” prospettabile in sede di legittimità».
L’uso delle norme deontologiche nella motivazione
delle sentenze
Gli avvocati e i giudici non sono indifferenti rispetto alla normativa deontologica che, sempre più negli ultimi tempi, viene richiamata negli atti giudiziari
per avvalorare le tesi sostenute e nelle sentenze civili, penali e amministrative a
sostegno della decisione presa.
Questo comportamento dei giudici appare degno di nota perché dimostra
che anche i giuristi pratici, quali sono certamente gli avvocati e i giudici, consi-
1. L’Ordine professionale e il codice deontologico
51
derano comunque rilevante per l’ordinamento generale il contenuto dei Codici
deontologici.
È interessante notare che le norme deontologiche richiamate più frequentemente sono quelle che disciplinano la relazione con i pazienti, sia sotto
l’aspetto del necessario rispetto della loro autonomia decisionale sia per quanto
concerne i doveri di diligenza e perizia che il Codice impone ai medici e agli
odontoiatri.
In una situazione nella quale manca nei Codici – sia penale che civile - una
specifica disciplina dell’attività medica, il richiamo alle norme del Codice deontologico probabilmente appare utile nella misura in cui tende a rendere più evidenti e specifici i doveri di rispetto della dignità delle persone, di correttezza e
di trasparenza nell’attività professionale che già possono desumersi dai principi
generali posti dal legislatore, costituzionale e ordinario.
Le norme deontologiche finiscono, quindi, per svolgere una funzione integrativa rispetto, ad esempio, al principio di autodeterminazione in relazione
alla cura della propria salute sancito dall’art. 32 della Costituzione, in quanto
tendono a specificare il comportamento che i sanitari devono tenere nel rapporto con il paziente quando lo informano del suo stato di salute, delle opzioni
terapeutiche esistenti, dei potenziali benefici e dei rischi connessi alla loro esecuzione, prima di comunicare le loro proposte di cura.
Questa è probabilmente la ragione del richiamo degli articoli del Codice
operato dai giuristi quando, rispetto ad un episodio specifico, viene sottolineata l’importanza del principio deontologico del consenso informato ovvero di
quello del dissenso informato che, peraltro, trovano la loro generale fonte di legittimazione nella Costituzione, nella normativa generale ed anche nelle convenzioni internazionali.
Il richiamo alle norme deontologiche, inoltre, appare utile laddove specifica
il contenuto della procedura informativa nei confronti del paziente sottolineandone l’importanza ai fini della reale possibilità di effettuare le proprie scelte
con la necessaria consapevolezza.
La stessa definizione di processo informativo contenuta nell’art. 35 del Codice
deontologico, ad esempio, è stata utile ad evidenziare che il dovere d’informazione non può esaurirsi in un unico atto, ma permea il rapporto di cura
nel corso del suo svolgimento e, quindi, è parte integrante della complessiva
relazione che si instaura tra il medico e il paziente.
52
Manuale della Professione Medica
Ecco perché, anche leggendo le sentenze della Corte Costituzionale e della
Corte di Cassazione troviamo citata la normativa contenuta nel Codice deontologico sul diritto del paziente di scegliere se sottoporsi o meno ad un trattamento e sul contenuto del dovere di informazione (vedi, ad esempio, Cass. Civ.
sent. n. 23676/08 e n. 2354/10).
Anche nella valutazione del comportamento del curante ai fini della verifica della eventuale gravità della colpa, rilevante nel procedimento relativo al
cosiddetto danno erariale, non mancano i richiami alle regole deontologiche
che impongono al medico di seguire le metodiche diagnostiche e terapeutiche accreditate dalla scienza medica e, quindi, di agire in modo scrupoloso e
attento, seguendo le relative regole cautelari e quelle suggerite dalla comune
esperienza (vedi, al riguardo, Corte dei Conti Sicilia, sezione giurisdizionale,
sent. n. 1146/06 e C. Conti Puglia, sezione giurisdizionale, sent. n. 11/99).
Il Codice deontologico, d’altra parte, è uno strumento la cui conoscenza
diventa utile anche nella pratica professionale quotidiana proprio perché individua e specifica principi etici fondamentali che appaiono condivisibili nelle
loro linee generali anche dalla popolazione destinataria dell’essenziale attività
di cura svolta dai medici e dagli odontoiatri.
Art. 2 - Potestà e sanzioni disciplinari
L’inosservanza dei precetti, degli obblighi e dei divieti fissati dal presente
Codice di Deontologia medica ed ogni azione od omissione, comunque
disdicevoli al decoro o al corretto esercizio della professione, sono punibili
dalle Commissioni disciplinari con le sanzioni previste dalla legge.
Le sanzioni, nell’ambito della giurisdizione disciplinare, devono essere adeguate alla gravità degli atti.
Il medico deve denunciare all’Ordine ogni iniziativa tendente ad imporgli
comportamenti non conformi alla deontologia professionale, da qualunque
parte essa provenga.
La Corte Costituzionale ha affermato che «per il fatto dell’appartenenza
all’Ordine si crea un vincolo tra iscritto e gruppo professionale che impone
comportamenti conformi ai fini che quest’ultimo deve perseguire» (sentenza n.
110 del 12 luglio 1967). Con l’iscrizione all’albo il professionista assume, quindi,
1. L’Ordine professionale e il codice deontologico
53
uno status specialis subiectionis nei confronti dell’Ordine, cui compete di esercitare
il potere disciplinare nei confronti dell’iscritto che si renda responsabile di comportamenti che violino i doveri deontologici propri della professione.
Il potere disciplinare dell’Ordine e il suo esercizio
Secondo la previsione dell’art. 38 del DPR 221/1950, «il procedimento
disciplinare è promosso d’ufficio o su richiesta del Prefetto o del Procuratore
della Repubblica». Lo stesso articolo precisa che l’Ordine competente è quello
nel cui albo il professionista risulta iscritto, anche se il fatto addebitabile sia
avvenuto in provincia diversa. I soggetti investiti del potere di iniziativa sono,
dunque, l’Ordine, il Prefetto o il Procuratore della Repubblica. È da chiarire,
però, che i poteri del Prefetto non sono più quelli di autorità sanitaria provinciale, come si configurava nel DPR 221/1950. Tali poteri, dopo la istituzione
del Ministero della Sanità (legge 13 marzo 1958 n. 296) sono stati trasferiti
al Medico Provinciale e al Veterinario Provinciale e, dopo la legge di riforma
sanitaria n. 833/1978, sono stati trasferiti alle Regioni. Ma si tratta del trasferimento della funzione amministrativa in materia di sanità, dalla quale rimane
esclusa la funzione amministrativa in materia di Ordini professionali, che è
rimasta invece attribuita alla competenza del Ministero della Sanità. Il potere
di iniziativa attribuito dall’art. 38 al Prefetto, deve oggi considerarsi attribuito al
Ministro della Salute, organo che deve intendersi sostituito al Prefetto in tutte
le norme che regolano sia il procedimento disciplinare sia le altre materie di
competenza dell’Ordine. È opportuno sottolineare che quando l’azione disciplinare viene promossa d’ufficio dall’Ordine, essa scaturisce dal potere discrezionale che ha il Presidente nel valutare se il fatto, di cui riceve notizia, abbia
o meno rilevanza sul piano disciplinare, mentre la richiesta del Ministro della
Salute o del Pro­curatore della Repubblica determina, nei confronti dell’Ordine,
l’obbligo a dare inizio al procedimento disciplinare, anche se poi l’esito di tale
procedimento può essere di pieno proscioglimento. L’Ordine, comunque, non
può sottrarsi a tale obbligo e, nel caso ometta di iniziare il procedimento, l’art.
48 prevede l’esercizio di un potere sostitutivo da parte del Ministro della Salute.
Per stabilire quando il procedimento disciplinare può essere promosso, occorre
aver chiaro il quadro normativo di riferimento. Le norme che hanno rilievo, a
questo fine, sono gli artt. 38, 39 e 44 del DPR 221/1950. Cominciamo ad esa-
54
Manuale della Professione Medica
minare l’art. 44, il quale prescrive che «il sanitario a carico del quale abbia avuto
luogo procedimento penale è sottoposto a giudizio disciplinare per il medesimo
fatto imputatogli purché egli non sia stato prosciolto per la non sussistenza del
fatto o per non averlo commesso». Sembra chiaro, quindi, che, secondo quanto
previsto dall’art. 38, l’Ordine, ogni qualvolta abbia notizia di fatti rilevanti sul
piano disciplinare, può iniziare il relativo procedimento a sua discrezione, ma
nel caso in cui il professionista sia sottoposto a procedimento penale occorre
attendere che questo abbia avuto luogo e cioè sia stato definito con sentenza
irrevocabile. Questa interpretazione ben si raccorda con l’art. 653 cpp, il quale
prevede che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non
sussiste o l’imputato non lo ha commesso ha efficacia di giudicato nel giudizio
per responsabilità disciplinare. È pur vero che nel nuovo Codice di procedura
penale non è stata riprodotta la norma dell’art. 3 del vecchio Codice che obbligava a sospendere il procedimento disciplinare fino alla definizione di quello
penale, ma rimane pur sempre vincolante per l’Ordine il combinato disposto
degli artt. 44 DPR 221/1950 e 653 cpp. È da ritenere temerario sottoporre a
giudizio disciplinare il professionista verso il quale pende, per lo stesso fatto, un
procedimento penale, se si pensa che il giudice penale, con l’uso del suo ampio
potere di indagine e di acquisizione delle prove, può pervenire all’assoluzione
perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso. Sussiste,
dunque, per l’Ordine, l’obbligo di promuovere un procedimento disciplinare
nei confronti del professionista, il quale sia già stato sottoposto a procedimento
penale, dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Il procedimento disciplinare
In forza di quanto previsto dall’art. 39, il Presidente nei casi in cui acquisisca, quale che ne sia la fonte, notizia di fatti che possano configurarsi come
illeciti disciplinari, svolge gli accertamenti necessari a suffragare gli estremi
di un comportamento sanzionabile. Egli svolge, quindi, un’istruttoria, raccogliendo le prove testimoniali e documentali che ritiene utili, convoca e sente il
professionista interessato. Con l’entrata in vigore della legge 24 luglio 1985 n.
409 istitutiva, in seno ai Consigli direttivi e al Comitato centrale, di due distinte
Commissioni, rispettivamente per gli iscritti all’albo dei Medici Chirurghi e
all’albo degli Odontoiatri, con l’attribuzione, tra le altre, della competenza in
1. L’Ordine professionale e il codice deontologico
55
materia disciplinare, e con l’entrata in vigore del DL 27 agosto 1993 n. 324,
convertito nella legge 423/1993, che prevede la figura del Presidente delle
Commissioni odontoiatriche, la dizione “il Presidente”, di cui all’art. 39, deve
oggi intendersi riferita, non più al Presidente dell’Ordine, bensì al Presidente
della rispettiva Commissione. L’audizione del professionista, ai sensi dell’art.
39, costituisce, peraltro, atto necessario, nella fase istruttoria preliminare
all’apertura del procedimento, e costituisce requisito richiesto ad substantiam
per la validità del giudizio disciplinare. Esaurita l’istruttoria, il Presidente della
competente Commissione, qualora ritenga che sussistano elementi tali da suffragare un illecito disciplinare, riferisce alla Commissione, che decide, con deliberazione, se promuovere procedimento disciplinare, individuando gli addebiti
da contestare, o se archiviare il caso. Qualora il Presidente non rilevi, invece,
fatti disdicevoli al decoro professionale, può, a sua discrezione, procedere
direttamente all’archiviazione del caso. Dopo che la competente Commissione
ha deliberato di promuovere il procedimento disciplinare, spetta al relativo
Presidente di Commissione svolgere tutti quegli atti formali previsti dall’art. 39
e che sono da ritenere essenziali per la validità del procedimento. Egli, quindi,
deve provvedere, mediante raccomandata con a.r. a notificare all’interessato:
gli addebiti circostanziati, il termine, non inferiore a venti giorni, entro il quale
egli può prendere visione degli atti relativi al suo deferimento a giudizio e produrre le proprie controdeduzioni scritte; l’indicazione del luogo, giorno e ora
in cui sarà celebrato il giudizio disciplinare; l’espresso avvertimento che, qualora non si presenti alla seduta della Commissione, si procederà al giudizio in
sua assenza. Malgrado le innovazioni introdotte dalla legge 409/1985, è rimasto a carico del Presidente dell’Ordine il dovere, previsto dall’art. 49 del DPR
221/1950, di dare immediata comunicazione dell’inizio del procedimento al
Ministro della Salute e al Procuratore della Repubblica territorialmente competente ed eventualmente al Procuratore o all’Ordine di altra circoscrizione che
abbia promosso il giudizio. Per tale ragione, il Presidente della Commissione
per gli Odontoiatri, una volta assunta la deliberazione, che deve essere sottoscritta dal Segretario verbalizzante e dal Presidente, deve trasmetterla al Presidente dell’Ordine affinché possa darne comunicazione alle autorità previste
ai sensi dell’art. 49 già citato. Il Presidente della Commissione nomina, quindi,
il relatore tra i componenti della Commissione stessa. La nomina del relatore
ha lo scopo di semplificare lo svolgimento del procedimento disciplinare, affi-
56
Manuale della Professione Medica
dando a uno dei componenti del Collegio lo studio degli atti e il compito di
relazionare in seduta. Nel caso, però, che non si sia provveduto alla nomina
del relatore o nel caso di impedimento di questo a partecipare alla seduta, il
procedimento è ugualmente valido se tutti gli atti siano stati letti in seduta, in
quanto in tal modo sono ugualmente raggiunte le finalità di legge. Per la validità
dell’adunanza della Commissione è sufficiente l’intervento della maggioranza
dei componenti, in quanto essa, anche se in funzione disciplinare, si configura
pur sempre come un organo collegiale amministrativo. Esaurita l’esposizione
dei fatti da parte del relatore, viene sentito, se presente, l’incolpato; l’art. 45
DPR 221/1950 esclude la possibilità, per quest’ultimo, di farsi assistere da
un avvocato o da un consulente tecnico. Tale norma, però, è stata dichiarata
illegittima dalla Corte di Cassazione, in quanto nel procedimento disciplinare
a carico di esercente professione sanitaria, il diritto di difesa dell’incolpato, da
assicurarsi anche nella fase amministrativa davanti alla competente Commissione ordinistica (fase preordinata e funzionalmente connessa a quella successiva di natura giurisdizionale) implica la facoltà di comparire ed essere ascoltato
personalmente, ma anche quella di farsi assistere da un difensore o esperto
di fiducia, sempre che venga avanzata istanza al riguardo. Chiusa la fase della
trattazione orale, ed allontanato l’incolpato, la Commissione passa alla fase
della decisione. Nel caso in cui si renda necessario svolgere il procedimento
disciplinare in più sedute, non è consentita un’alternanza dei componenti; la
decisione è considerata valida solo se viene assunta dall’organo collegiale di
cui facciano parte gli stessi componenti presenti nelle varie fasi del procedimento. A conclusione del giudizio, viene assunta una deliberazione, la quale
deve recare la data, l’indicazione degli addebiti, la motivazione ed il dispositivo.
Particolare rilievo assume, ai fini della validità della decisione, la motivazione,
nella quale devono porsi in raffronto le risultanze degli atti istruttori con le
dichiarazioni rese dall’incolpato, in modo tale che il dispositivo risulti coerente con argomentazioni logico-giuridiche atte a suffragare il convincimento
di colpevolezza dell’inquisito. Oltre alla deliberazione conclusiva del giudizio,
deve essere redatto il verbale nel quale va riportato tutto quanto si è svolto
nel corso del giudizio disciplinare. Riguardo alla deliberazione conclusiva del
giudizio disciplinare, l’art. 47 del DPR 221/1950 prescrive che essa deve essere
sottoscritta da tutti i componenti della Commissione che hanno preso parte
alla seduta. Si deve in proposito prendere atto che tale norma regolamentare
1. L’Ordine professionale e il codice deontologico
57
è da ritenersi disapplicata a seguito del mutamento intervenuto nel quadro
normativo-ordinamentale in cui opera il principio secondo cui le sentenze rese
da un giudice collegiale – costituenti il paradigma al quale si è ispirato il citato
art. 47 – devono essere sottoscritte soltanto dal Presidente e dall’estensore. La
decisione è pubblicata mediante deposito dell’originale negli uffici della segreteria a cura del Segretario, che provvede a notificarne copia all’interessato. Tali
adempimenti sono di competenza del Segretario dell’Ordine, anche quando
si tratti di decisione adottata dalla Commissione per gli iscritti all’albo degli
Odontoiatri, e sarà il Presidente dell’Ordine a darne comunicazione alle autorità competenti. Peraltro, la pubblicazione della decisione comporta la possibilità, per gli iscritti, di prendere visione della medesima, in quanto essa assume
anche carattere di orientamento deontologico esemplificativo.
Rapporti tra l’Ordine professionale e le Aziende sanitarie
in materia disciplinare
La legge istitutiva dell’Ordine è ispirata alla concezione tradizionale del
libero esercizio professionale e si riferisce essenzialmente all’attività medica
che si esplica e si esaurisce nel rapporto diretto con il paziente-cliente; essa
trascura, quindi, l’attività professionale esercitata, sia con rapporto giuridico
di lavoro dipendente sia convenzionato, nell’ambito di un sistema di sicurezza
sociale pubblico. Tuttavia il legislatore ha voluto coinvolgere l’Ordine, relativamente alle implicazioni di carattere deontologico-disciplinare, nella responsabilità della corretta applicazione degli accordi con i medici convenzionati
col SSN, avuto riguardo ai comportamenti degli iscritti nell’ambito del rapporto convenzionale. Ne è un esempio l’art. 48 della legge 23 dicembre 1978
n. 833, ove si prevede che gli Ordini e i Collegi professionali sono tenuti a
valutare sotto il profilo deontologico i comportamenti degli iscritti agli albi
professionali che si siano resi inadempienti agli obblighi convenzionali. Inoltre il terzo comma dell’art. 8 del DLgs 30 dicembre 1992 n. 502 ribadisce il
medesimo principio con particolare riferimento ai medici di medicina generale
e ai pediatri di libera scelta, precisando altresì che i ricorsi avverso le sanzioni
comminate dagli Ordini e dai Collegi sono decisi dalla Commissione centrale
per gli esercenti le professioni sanitarie. Le disposizioni ora ricordate non sono
state invece introdotte nell’art. 47 della legge n. 833/1978, a proposito della
58
Manuale della Professione Medica
disciplina dei rapporti di pubblico impiego con le stesse strutture pubbliche. In
questo caso, le sanzioni irrogate dall’Ordine hanno efficacia sull’attività liberoprofessionale, senza incidere sul rapporto di lavoro dipendente. Soltanto la
radiazione, che consiste nell’espulsione dall’albo, comporta effetti sul rapporto
di pubblico impiego, in quanto fa venir meno uno del requisiti prescritti per
l’instaurazione e il mantenimento in vita del rapporto stesso.
Art. 64 - Doveri di collaborazione
Il medico è tenuto a comunicare al Presidente dell’Ordine i titoli conseguiti utili
al fine della compilazione e tenuta degli albi.
Il medico che cambia di residenza, trasferisce in altra provincia la sua attività o
modifica la sua condizione di esercizio o cessa di esercitare la professione, è
tenuto a darne tempestiva comunicazione al Consiglio provinciale dell’Ordine.
Il medico è tenuto a comunicare al Presidente dell’Ordine eventuali infrazioni
alle regole, al reciproco rispetto e alla corretta collaborazione tra colleghi e
alla salvaguardia delle specifiche competenze che devono informare i rapporti della professione medica con le altre professioni sanitarie.
Nell’ambito del procedimento disciplinare le mancate collaborazione e
disponibilità del medico convocato dal Presidente della rispettiva Commissione di albo costituiscono esse stesse ulteriore elemento di valutazione a fini
disciplinari.
Il Presidente della rispettiva Commissione di albo, nell’ambito dei suoi poteri
di vigilanza deontologica, può convocare i colleghi esercenti la professione
nella provincia stessa, sia in ambito pubblico che privato, anche se iscritti
ad altro Ordine, informandone l’Ordine di appartenenza per le eventuali
conseguenti valutazioni.
Il medico eletto negli organi istituzionali dell’Ordine deve adempiere all’incarico con diligenza e imparzialità nell’interesse della collettività e osservare
prudenza e riservatezza nell’espletamento dei propri compiti.
Questo articolo detta norme riguardo ai rapporti tra Ordine e singolo
iscritto. Di fatto, per dare maggior peso alla norma, inserisce regole pratiche
sulla tempestiva comunicazione delle variazioni di status professionale degli
iscritti. Il richiamo forte alla deontologia si ha nell’obbligo, contenuto nel terzo
1. L’Ordine professionale e il codice deontologico
59
comma, alla segnalazione da parte del medico di possibili infrazioni disciplinari
e, più che altro, nell’indicazione etica del dovere di collaborazione tra colleghi
e alla salvaguardia delle rispettive competenze sia tra medici sia tra tutti i professionisti della sanità. Il medico che non collabora durante lo svolgimento di
un procedimento disciplinare crea per sé un’aggravante o, comunque, un ulteriore elemento di valutazione disciplinare. Il Presidente può convocare anche
iscritti ad altri Ordini che esercitino nella propria provincia, dandone notizia
al Presidente dell’Ordine di iscrizione. Questa norma tenta di rimediare a una
situazione spesso incresciosa: dal momento che la normativa comunitaria consente l’iscrizione nella provincia di residenza o in quella di esercizio professionale, capita di dover giudicare colleghi che operano in lontanissime province
e che hanno mantenuto l’iscrizione nel comune di residenza. Questo pone il
Consiglio nella condizione di non avere sufficiente conoscenza del contesto
ai fini del giudizio disciplinare. La norma infine obbliga il medico eletto in
Consiglio alla diligenza e all’imparzialità. Un’obbligazione ovvia, ma non per
questo meno opportuna.
2
La responsabilità professionale
S. Fucci
Introduzione al tema della responsabilità professionale
per malpratica
Ciascuno è “responsabile” e si assume la “responsabilità” del lavoro che
svolge nei diversi campi dell’agire umano.
Volendo focalizzare il significato dei termini sopra indicati con riferimento
all’attività medica potremmo affermare che un sanitario si comporta in modo
responsabile quando si aggiorna continuamente al fine di acquisire le conoscenze
tecniche e pratiche necessarie per effettuare il proprio lavoro professionale in
modo corretto.
In questo modo, infatti, consegue gli strumenti tecnici utili a salvaguardare
gli interessi relativi al bene “salute” degli assistiti affidati alle proprie cure.
Durante l’esercizio della professione può capitare abbastanza frequentemente di avere la sensazione del dejà-vu, cioè di potere incasellare subito una
situazione di malessere denunziata da un paziente in uno schema mentale già
predisposto. Questo comportamento rischia di far perdere al medico il senso
critico rispetto alla specifica situazione in esame che, quindi, non viene valutata
nella sua particolarità e nelle sue varie sfaccettature.
Si può, quindi, affermare che un medico si comporta in modo “responsabile” se si interroga continuamente sul senso e sul significato del proprio lavoro,
con la necessaria attenzione e con la prudenza utile ad evitare ogni automatismo
decisorio in campo clinico, sottoponendo sempre a revisione critica le conclusioni raggiunte, soprattutto quando la diagnosi alternativa – esclusa in base ai
primi rilievi – riguarda una ipotesi di malattia altamente rischiosa per l’ammalato.
Per un medico essere responsabile, peraltro, significa anche essere consapevole della rilevanza – anche sul piano sociale – del lavoro che si svolge che ha
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Manuale della Professione Medica
riflessi non solo sulla salute del singolo, ma anche sul piano contabile, amministrativo e giuridico per l’intera collettività.
Occorre, quindi, essere in grado di evitare di trovarsi in situazioni che possono configurare un conflitto di interessi e di rifiutare condizionamenti impropri
di terzi diretti a sviare l’agire professionale dalle regole giuridiche generali e
da quelle proprie della deontologia medica allo scopo di raggiungere profitti
indebiti a scapito degli interessi degli assistiti e della comunità.
Essere responsabili, infine, significa essere consapevoli di potere essere chiamati
a rispondere del proprio operato sul piano etico e giuridico in senso lato e, quindi,
dovere essere in grado non solo di dimostrare le ragioni del comportamento tenuto
e la correttezza dello stesso rispetto alle regole dell’arte, ma anche, eventualmente, di
risarcire i danni cagionati al paziente attraverso la propria attività di cura.
Il tema della responsabilità per malpratica merita di essere approfondito in
questa sede visto il notevole incremento di importanza che ha avuto la questione della responsabilità professionale anche sul piano strettamente giuridico, ma non solo.
Basta leggere un qualsiasi quotidiano ovvero ascoltare un notiziario radiofonico
o televisivo per sentire parlare, non sempre appropriatamente, di questioni attinenti
la responsabilità professionale dei medici e degli altri professionisti della sanità.
Le ragioni di tutto ciò sono numerose e non sempre sufficientemente indagate con adeguato spirito critico.
In questa sede ci si può limitare ad osservare che i sanitari agiscono sul
corpo degli individui che, nel tempo, sono sempre più attenti a verificare l’esito
di questi interventi al fine di addebitare l’eventuale insuccesso al medico e/o
alla struttura ove opera.
La salute è, infatti, un bene che tutti vorrebbero preservare o migliorare e,
quindi, ogni eventuale esito negativo delle cure, pur correttamente proposte e
adeguatamente eseguite, viene sempre più spesso attribuito a comportamenti
integranti malpratica.
D’altra parte questo campo dell’agire dell’uomo muove anche enormi interessi economici che finiscono con l’influenzare l’attività di cura, ma anche le
reazioni degli interessati.
Si creano così aspettative sempre più forti di miglioramento della salute
attraverso una medicina fondata sulla miracolosa e innovativa tecnologia, i cui supposti effetti positivi vengono poi amplificati dai mass media e dalla pubblicità.
2. La responsabilità professionale
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Si tende, quindi, a spingere i pazienti a sottoporsi a cure non sempre appropriate e a sottovalutare l’incertezza propria dell’intervento medico sul corpo
umano, le cui reazioni non sempre sono prevedibili.
Le lamentele dei pazienti, supportate da consulenze medico-legali di parte
non sempre adeguatamente critiche rispetto alle narrazioni dei malati, finiscono poi sulla scrivania dei sempre più numerosi avvocati (non esiste numero
chiuso per questa professione protetta) che spesso le patrocinano nella convinzione di potere poi addebitare l’eventuale esito negativo del giudizio agli errori
professionali dei giudici che, pertanto, nella fantasia dei malati, finiscono con il
sommarsi a quelli dei sanitari.
Fermo restando l’esigenza sempre più avvertita dalla migliore dottrina di
non criminalizzare in modo eccessivo l’attività medico-chirurgica, rimane forte il
richiamo ad un maggiore rispetto, da parte di tutti i soggetti coinvolti nel contenzioso, della propria deontologia professionale che individua nella salvaguardia dell’interesse dell’assistito ovvero del cliente lo scopo ultimo del lavoro svolto.
Non sembra, infatti, che il problema dell’eccessivo contenzioso in campo
sanitario, che spaventa anche le compagnie che assicurano questi rischi professionali, possa risolversi attraverso una depenalizzazione degli illeciti medici,
come qualcuno spera e sostiene.
L’opinione pubblica, invero, non accetterebbe una depenalizzazione non
accompagnata da altri seri strumenti che assicurino comunque adeguata tutela
ai pazienti effettivamente danneggiati dalle attività di cura svolte in modo
improprio ovvero inadeguato.
Né appare realmente disincentivante la nuova legge (DLgs n. 28 del
4/3/2010) che prevede come obbligatorio per le nuove cause civili un tentativo
preventivo di conciliazione attraverso l’intervento di un organo terzo con funzioni di mediazione. Questo passaggio procedurale rischia, infatti, di rimanere
solo rituale, se non accompagnato da adeguate strutture di supporto in grado di
offrire agli interessati una tempestiva e professionale proposta di mediazione che
costituisca una risposta seria e indipendente alla loro domanda di giustizia.
D’altra parte non sembra che tutte le organizzazioni dei legali siano soddisfatte del testo emanato dal Parlamento, come si evince dalle numerose critiche
al riguardo e richieste di rinvio dell’applicazione di questo tentativo obbligatorio di conciliazione.
Occorre, pertanto, un recupero dell’etica professionale, non meno di quella
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Manuale della Professione Medica
pubblica, ma occorre innanzitutto una migliore organizzazione delle strutture
sanitarie che devono sempre di più agire per prevenire i cosiddetti errori di
sistema attraverso i loro reparti di risk managment.
Occorre, inoltre, utilizzare gli errori realmente accertati e quelli che solo per
un caso non hanno prodotto effetti negativi (near miss) quale strumento di conoscenza e di formazione per tutti i soggetti interessati, incentivando le segnalazioni
anonime ad un organo terzo e indipendente anche dall’Autorità Giudiziaria.
La responsabilità penale per malpratica – colpa medica.
Definizione
In questa sede viene esaminata la problematica inerente la responsabilità
professionale penale del medico che, per colpa, cagiona all’assistito lesioni personali ovvero ne provoca la morte.
Questi due reati sono previsti e puniti rispettivamente dall’art. 590 del
Codice penale che, al primo comma, stabilisce che «chiunque cagiona ad altri per
colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino ad
euro 309,00», con aumenti di pena sanciti dai successivi commi in relazione alla
gravità delle lesioni, e dall’art. 589 cp che statuisce che «chiunque cagiona per colpa
la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni».
Come si evince anche dal testo sopra riportato si tratta di disposizioni che
riguardano qualunque soggetto e, quindi, anche i medici nell’esercizio della
loro attività professionale, mancando nel Codice penale una disciplina specifica al riguardo relativa ai sanitari.
Mentre le lesioni colpose cagionate dal medico vengono valutate sul piano
penale solo in presenza di una istanza di punizione (querela) proveniente dalla
parte danneggiata, il delitto di omicidio colposo è sempre procedibile d’ufficio
e, quindi, il relativo processo verrà iniziato a prescindere dalla volontà degli
eredi del paziente deceduto.
Per realizzare in concreto uno degli illeciti, penali, sopra menzionati occorrono tre essenziali elementi: a) un comportamento colposo; b) una lesione
personale in danno del paziente o l’evento morte dell’assistito; c) l’esistenza di
nesso tra il comportamento e l’evento che consenta di ritenere che quel determinato evento sia stato causato da quella condotta.
L’area della responsabilità penale del medico può, quindi, essere più o meno
2. La responsabilità professionale
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ampia a seconda della maggiore o minore rigidità nella definizione del concetto
di colpa rilevante in questa sede ovvero nell’accertamento del nesso di causalità.
È evidente, infatti, che se si ritenesse, come avvenuto in un passato ormai
lontano, che in sede penale rilevano solo colpe assolutamente inescusabili per
la loro gravità, l’area della responsabilità del medico verrebbe ristretta solo a
questi casi e, quindi, sarebbe esclusa per tutti quei comportamenti integranti
una colpa di lieve entità.
In base al disposto dell’art. 43 del codice penale: «il delitto [...] è colposo, o
contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica
a causa di negligenza o imprudenza o imperizia [colpa generica], ovvero per inosservanza
di leggi, regolamenti, ordini o discipline» [colpa specifica].
L’art. 43 del Codice penale detta, quindi, un ampia definizione di colpa
senza alcun riferimento alla sua eventuale gravità ovvero al suo grado.
In sede penale il grado della colpa rileva, pertanto, essenzialmente ai fini della
determinazione della pena ex art. 133 Codice penale; il giudice, infatti, nell’irrogazione in concreto della pena deve tenere conto anche di quanto l’autore
del reato si è discostato dalla misura della diligenza prescritta in base allo stato
dell’arte e della normativa esistente.
Secondo alcuni Autori nella valutazione della colpa medica occorre evitare
un eccessiva penalizzazione dell’attività di cura che potrebbe avere la conseguenza di indurre i sanitari ad affrontare solo i casi meno complicati ovvero
quelli nei quali è più difficile sbagliare.
In realtà il rifiuto indebito degli interventi di maggiore difficoltà potrebbe a
sua volta rilevare sul piano penale, quantomeno per i medici delle strutture del
Servizio Sanitario Nazionale e i medici che operano in convenzione che assumono la qualifica di pubblici ufficiali per i quali è ipotizzabile il delitto di cui
all’art. 328 cp (il delitto [...] è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voIl pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che indebitamente
rifiuta un atto che, per ragioni [...] di igiene o sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è
punito con la reclusione da sei mesi a due anni»).
Inoltre l’omissione ingiustificata di un intervento rischioso, ma indicato
dallo stato dell’arte perché, ad esempio, risolutivo della patologia che affligge il
paziente, potrebbe comunque rilevare sul piano penale qualora fosse possibile
collegare in modo certo sul piano causale questo comportamento omissivo
con l’evento negativo per la salute o la vita patito dall’interessato.
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Manuale della Professione Medica
Sul piano penale, invero, l’omissione della condotta doverosa perché imposta dall’ordinamento o da un obbligo assistenziale è parificata al comportamento attivo non corretto ex art. 40 cp («Nessuno può essere punito per un fatto
preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza
del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione. Non impedire un reato, che si ha
l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo»).
È noto che in medicina conta molto l’appropriata valutazione ex ante del
rapporto rischio (dell’intervento) - beneficio (atteso per il paziente in conseguenza dell’intervento stesso) e, quindi, dovrebbero comunque ritenersi dovuti
quei trattamenti dai quali – se correttamente eseguiti – ci si può ragionevolmente aspettare un reale beneficio per l’assistito.
Nella sentenza penale n. 20595/10 relativa ad una ipotesi di lesioni personali volontarie commesse, durante un incontro sportivo, da un calciatore in
danno di un altro della squadra avversaria, la Cassazione, in motivazione, ha
affrontato in linea generale il tema del rischio consentito in quelle attività, tra cui va
inserita anche quella medica, che per la loro utilità sociale sono consentite dall’ordinamento, pur potendo essere giudicate pericolose intrinsecamente ovvero per
le modalità di esercizio o per i mezzi adoperati. In quest’occasione la Corte ha
precisato che queste attività devono essere svolte nel rispetto delle regole cautelari
proprie dell’attività svolta – regole che di norma sono idonee a ridurre il margine
di rischio, ma non ad eliminarlo – e che «la regola del bilanciamento tra gli interessi
contrapposti costituisce la chiave di volta per individuare l’eventuale superamento del rischio
consentito, superamento che sarà ammesso solo per la tutela di beni di pari o superiore valore».
Ha aggiunto, peraltro, la Corte che «rischio consentito non significa però esonero
dall’obbligo di osservanza delle regole di cautela ma semmai rafforzamento: solo in caso di
rigorosa osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi effettivamente “consentito” per
quella parte del rischio che non può essere eliminato». In definitiva, di norma, nelle
“attività pericolose consentite”, rispetto alle attività comuni, «maggiore deve essere il
livello di diligenza, prudenza e perizia nel precostituire le condizioni idonee a ridurre nei
limiti del possibile il rischio ineliminabile».
Sembra potersi concludere, in sostanza, che se un chirurgo esegua d’urgenza un intervento rischioso – ma indicato in quanto potenzialmente risolutore di una grave patologia – rispettando scrupolosamente le regole cautelari
proprie della sua disciplina non potrà essere ritenuto in colpa anche se, in ipotesi, si realizzi quella parte del rischio che pur prevedibile non era prevenibile.
2. La responsabilità professionale
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Questa conclusione appare ragionevole e conforme al pensiero espresso
dalla Cassazione in questa sentenza che, tra le attività pericolose obbligatorie o necessitate cita l’attività medico chirurgica d’urgenza osservando, in linea generale, che in
questi casi «avviene talvolta che la necessità improrogabile dell’intervento possa ridurre l’esigibilità dell’osservanza delle regole nei limiti di una valutazione comparativa (spesso da operare
nell’immediatezza e, quindi, con un più ampio margine d’errore) tra costi e benefici».
Questo passaggio, sia pure non specificamente riferito all’attività del
medico, appare interessante perché sembra farsi carico del problema – tipico
della medicina d’urgenza – di una decisione clinica da prendere nell’immediatezza e della conseguente maggiore possibilità di sbagliare quando si deve
intervenire senza possibilità di dilazionare l’intervento, stante l’evidente gravità
delle condizioni di salute del paziente.
La giurisprudenza della Suprema Corte, quindi, pur escludendo l’applicabilità diretta in campo penale dell’art. 2236 del Codice civile (che, in via eccezionale, stabilisce che il professionista risponde solo per dolo o colpa grave qualora
la sua prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà)
si è fatta carico – in un certo senso – di questo problema laddove tende a rapportare il giudizio sulla colpa alla situazione reale in cui il medico si è trovato
ad operare per verificare se era o meno esigibile un diversa e più appropriata
condotta, soprattutto in quelle situazioni nelle quali occorre intervenire d’urgenza e, quindi, decidere cosa fare in un lasso di tempo molto ristretto perché
le (gravi) condizioni del paziente non consentono ulteriori accertamenti.
La reale difficoltà di una diagnosi ovvero di esecuzione di un intervento
chirurgico, d’altra parte, andrebbe tenuta comunque in considerazione in sede
penale per valutare se è possibile giudicare colposo in queste situazioni il comportamento tenuto dal medico.
Il giudizio sulla correttezza professionale sul piano della diligenza tecnica
del comportamento del sanitario non può, inoltre, non tenere conto del grado
di specializzazione del medico in quanto diversa è l’abilità tecnica che si deve
pretendere da un professionista eventualmente munito di specializzazione nel
campo rispetto a quella che si può esigere da un medico non specializzato che
si trovi ad operare d’urgenza in mancanza di un collega più esperto.
Sul punto appare opportuno richiamare la sentenza n. 13942/08 della
Cassazione penale relativa ad un caso nel quale una ostetrica si era trovata – in
sostanza – nella necessità di assistere una partoriente durante un parto non
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Manuale della Professione Medica
eutocico in quanto i ginecologi, pur sollecitati, non avevano potuto intervenire
perché già impegnati nell’assistenza ad altre donne partorienti.
L’ostetrica era stata denunziata per lesioni colpose perché nel corso dell’assistenza aveva cagionato al neonato una paresi al braccio sinistro, di carattere
irreversibile, dovuta ad un errata manovra di estrazione del feto e, ritenuta
colpevole dal Tribunale, condannata in primo grado alla pena di tre mesi di
reclusione, oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede.
L’esito del giudizio veniva ribaltato dalla Corte d’Appello che assolveva
l’imputata con ampia formula dal reato ascritto ritenendo che la professionista – che non è abilitata dalla legge a prendere parti non fisiologici – avesse
operato in una situazione di emergenza e nell’interesse della partorente e del
nascituro, altrimenti a rischio di ipossia.
La Suprema Corte, nel confermare l’assoluzione dell’ostetrica, ha affrontato il diverso e più interessante problema relativo alla condotta esigibile dalla
predetta in presenza di una dilatazione ormai completa e del mancato intervento dei medici, pur richiesto, e alla sua eventuale rilevanza o meno sul piano
della colpa per assunzione avendo agito in contrasto con le leges artis e compiuto
un’attività che non poteva svolgere.
Rileva la Cassazione che il problema dell’individuazione della condotta esigibile riguarda, nella “normalità” dei casi, le competenze specifiche di ciascun sanitario a
qualunque livello operi e l’agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha previsto
(e prevenuto) le evitabili conseguenze della sua condotta che conosceva o era
tenuto a conoscere in base alla sua professione e alla sua condizione.
Non può, invece, ravvisarsi alcuna colpa (nemmeno per assunzione)
dell’agente (nella fattispecie in oggetto l’ostetrica) nel caso di attività specializzata svolta da chi non ha la necessaria specializzazione (nel caso di specie:
ostetrica che compie manovre di competenza del ginecologo), se questi si trovi
in condizioni di urgenza indifferibile e, quindi, deve agire pur senza avere la necessaria professionalità.
Il richiamo in questa sentenza, da parte della Cassazione – alle competenze
specifiche che ogni professionista specializzato in una determinata branca
della medicina deve possedere sottolinea l’importanza, anche in campo penale,
delle cosiddette regole dell’arte che dovrebbero costituire un patrimonio comune
a ciascun operatore in un determinato settore.
Queste regole sembrano porsi come regole cautelari laddove indicano criteri
2. La responsabilità professionale
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tecnici e percorsi diagnostico-terapeutici diretti ad evitare danni al paziente e
a raggiungere lo scopo di tutelare positivamente la salute dell’interessato attraverso una corretta assistenza.
Di norma queste regole sono contenute in protocolli operativi ovvero in lineeguida che, con diversa forza cogente, costituiscono un importante ausilio per
l’esercizio professionale in quanto siano state correttamente elaborate, accettate nella pratica e continuamente aggiornate per renderle sempre più idonee a
fotografare quello che viene definito lo stato dell’arte.
Va, peraltro, sottolineato che difficilmente una regola scientifica o statistica assume carattere incondizionato e integralmente applicabile al singolo
caso senza passare attraverso il vaglio critico del medico che, quindi, si assume
comunque la responsabilità della diagnosi formulata e della terapia proposta.
La peculiarità di ogni singolo caso impone, infatti, all’operatore sanitario
la costante verifica dell’esistenza, in concreto, delle condizioni per applicare
o meno una determinata regola che è riferita ad un paziente astratto, non alla
persona, eventualmente portatrice di una pluralità di patologie, che il curante
si trova a dovere assistere.
Il richiamo alla diretta responsabilità professionale e etica del medico nella
prescrizione degli accertamenti diagnostici e delle conseguenti terapie è contenuto anche nell’art. 13 del vigente Codice deontologico del 2006 che, peraltro,
impone ai sanitari di utilizzare nel loro lavoro acquisizioni scientifiche aggiornate e sperimentate e di adeguare le sue decisioni ai dati scientifici accreditati e alle
evidenze metodologicamente fondate.
In quest’ottica il codice vieta l’utilizzo e la diffusione di terapie e di presidi
diagnostici «non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione»,
quasi a porre un argine anche alle situazioni incresciose vissute non molto
tempo fa quando il mondo della sanità e, in particolare, quello dell’oncologia
medica fu attraversato dal ciclone della multiterapia Di Bella così chiamata dal
nome del medico che l’aveva creata.
Sulla responsabilità personale del medico in merito alle scelte terapeutiche
da lui operate, in presenza di altre opzioni curative astrattamente applicabili
perché anch’esse indicate nelle linee-guida, è intervenuta di recente la Cassazione penale con la sentenza n. 10454/10 relativa ad un anestesista imputato
di omicidio colposo.
La Corte ha affermato che questo specialista era in colpa perché, a fronte di
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Manuale della Professione Medica
un imprevisto ed imprevedibile shock anafilattico conseguente ad una reazione
allergica provocata dai farmaci utilizzati per procedere all’anestesia di una
paziente da sottoporre ad un intervento chirurgico di colecistectomia, aveva
proceduto inutilmente a tre tentativi di intubazione seguiti da altre procedure
incongrue, invece di attivarsi tempestivamente per l’effettuazione dell’intervento risolutore costituito nella fattispecie dalla tracheotomia.
Nella motivazione di questa decisione la Suprema Corte, nel rigettare la tesi
difensiva dell’anestesista che aveva sostenuto di essersi comportato in conformità alle linee-guida applicabili alla fattispecie, ha osservato che la situazione di
emergenza conseguente allo shock anafilattico imponeva di eseguire la tracheotomia, l’unica scelta che in concreto si rendeva chiaramente risolutiva per contrastare l’ipossia, precisando che le astratte e alternative indicazioni delle lineeguida devono, infatti, essere correttamente valutate rispetto alla situazione da
fronteggiare, non potendo essere messe tutte sullo stesso piano quando una
sola è idonea nel caso concreto a risolvere una pericolosa patologia.
La responsabilità penale per malpratica – colpa medica.
Casistica
Nella casistica giudiziaria tra i profili di colpa più frequentemente rilevati e
accertati emerge la sottovalutazione di elementi che avrebbero dovuto indurre
il curante a svolgere accertamenti diagnostici più approfonditi, idonei ad effettuare una diagnosi corretta.
Dall’analisi della giurisprudenza della Cassazione penale sembra emergere
– sia pure non sempre in modo esplicito – l’invito ai sanitari a coltivare una
cultura del dubbio tale da evitare di dare per acquisite certezze in situazioni che,
invece, meritano ancora di essere indagate in presenza di elementi di sospetto.
Al riguardo è intervenuta, di recente, la quarta sezione penale della Cassazione, che, nella sentenza n. 10452/10, ha ritenuto “colposo” il comportamento
di un medico di famiglia che sottovalutando la sintomatologia dolorosa presentata da una paziente (persistenti dolori addominali, gonfiore al fegato e scariche di feci), il rischio connesso all’età (68 anni) e quello derivante dall’anamnesi
familiare, ha omesso per lungo tempo di svolgere accertamenti diagnostici più
approfonditi, idonei a accertare tempestivamente l’esistente patologia tumorale
(neoplasia al colon) così ritardando la conseguente terapia chirurgica.
2. La responsabilità professionale
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Anche nella sentenza penale n. 2474/10 la Cassazione afferma che è
in colpa il medico ospedaliero che, omettendo di effettuare dovuti esami clinici, dimetta con la diagnosi errata di gastrite un paziente affetto da patologia
tumorale. In questo caso il sanitario è stato ritenuto responsabile del delitto
di lesioni personali colpose in quanto, in seguito all’errata diagnosi, ha prolungato per un tempo significativo le alterazioni funzionali riscontrate (nella
specie, vomito, acuti dolori gastrici ed intestinali) e lo stato di complessiva
sofferenza, di natura fisica e morale, in cui versava il paziente, così favorendo
un processo patologico che, se tempestivamente curato, sarebbe stato evitato
o almeno contenuto.
Nella sentenza penale n. 13070/10 la Cassazione ritorna sul tema della
colpa medica per negligenza e imperizia ritenendo colposo il comportamento di un
chirurgo che non compiendo una accurata e approfondita anamnesi familiare
di un malato – che avrebbe evidenziato importanti elementi di familiarità con la
neoplasia da cui poi il paziente era risultato affetto e determinato l’esecuzione
di utili accertamenti clinici (rettocolonscopia) – e omettendo l’esecuzione di
una colonscopia, pur insistentemente richiesta dallo stesso paziente, cagionava
al predetto lesioni colpose per il ritardo nella diagnosi e nella cura della malattia.
In questa sentenza la Cassazione ha evidenziato che la mancata annotazione nella cartella clinica dei dati dei familiari affetti dal carcinoma al colon
ovvero da poliposi avvalorava la circostanza addebitata al chirurgo circa l’esecuzione in modo superficiale dell’anamnesi familiare.
Emerge, quindi, anche da questa decisione l’importanza non solo dell’esecuzione di determinate attività mediche ma anche della loro regolare annotazione
nella documentazione clinica onde provare l’effettività della loro esecuzione.
In linea generale si può osservare che se le condizioni del paziente sono
puntualmente riportate nella relativa documentazione sanitaria e se le ragioni
delle scelte di cura sono adeguatamente motivate sul piano tecnico, sarà più
facile per il medico dimostrare la situazione clinica in cui versava il paziente e
fornire elementi idonei a ricostruire a distanza di tempo il proprio comportamento di cura.
Ecco perché, da più parti, si sottolinea come la puntuale tenuta della documentazione sanitaria può costituire un utile strumento di difesa del medico
chiamato a rispondere in sede giudiziaria del suo operato, talvolta a notevole
distanza di tempo da quando ha agito.
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Manuale della Professione Medica
Ciò vale anche in sede penale perché, se è vero che nel giudizio penale è
l’accusa a dovere dimostrare la fondatezza della propria tesi circa la colpevolezza dell’imputato, i periti nominati dal Pubblico Ministero nella fase delle
indagini preliminari ovvero dal giudice nel corso del giudizio saranno chiamati
a dare il loro giudizio tecnico sull’esistenza di un eventuale profilo di colpa
anche sulla base degli elementi risultanti dalla cartella clinica e dall’altra documentazione sanitaria esistente che viene, di norma, acquisita alla procedura.
L’accurata tenuta della cartella clinica non costituisce, quindi, solo un
dovere deontologico alla luce del disposto dell’art. 26 del Codice di Deontologia del 2006, ma anche un indice della correttezza dell’assistenza prestata, qualora venga redatta con chiarezza, puntualità e diligenza e contenga le necessarie
informazioni.
Nella casistica giudiziaria emergono anche profili di colpa per omessa diagnosi di patologia emergente dagli esami clinici effettuati ovvero per la sottovalutazione delle possibili complicanze di una condotta terapeutica.
Nella recente sentenza penale n. 15637/10 la Cassazione ha ritenuto
colposo il comportamento di un sanitario in servizio presso la divisione di
medicina di un nosocomio che – pur in possesso dei referti ecografici che attestavano una situazione di anomalia della colecisti (stante l’ispessimento della
parete della colecisti e la sua anomala morfologia) e in presenza di un dolore
persistente, di leucocitosi, di vomito e della sostanziale inefficacia della terapia
antibiotica attivata in precedenza – aveva omesso di diagnosticare tempestivamente la patologia colecistica che affliggeva la paziente.
Nella sentenza penale n. 35307/08 la Cassazione ha, invece, ritenuto colposo il comportamento di un ortopedico che aveva ridotto la frattura scomposta del quarto distale radio destro riportata da una minorenne in conseguenza di una caduta a mano tesa e aveva poi applicato alla piccola paziente
un apparecchio gessato braccio-manuale in presenza di edema e tumefazione
nella regione del braccio interessata alla frattura, sottovalutando le probabili
complicanze vascolari derivanti dalla sua condotta diagnostica e terapeutica e
omettendo di rimuovere tempestivamente l’apparecchio gessato, così cagionando alla paziente un indebolimento dell’organo della prensione e una deformazione dell’arto superiore destro.
Nella sentenza penale n. 30804/08 la Cassazione ha ravvisato profili di
colpa a carico del medico di un reparto di ginecologia che aveva omesso di
2. La responsabilità professionale
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prescrivere la necessaria terapia a base di eparina calcica – utile a prevenire
l’insorgenza di trombosi – ad una paziente sottoposta ad un intervento di isterectomia che aveva manifestato già dal giorno successivo all’operazione fastidi
all’arto inferiore sinistro.
Dalla casistica giudiziaria emergono a carico dei sanitari ulteriori profili di colpa
per avere omesso l’emanazione di specifiche direttive agli infermieri di reparto in modo
da prevenire adeguatamente situazioni di rischio per i pazienti ivi ricoverati.
In questo senso è la decisione n. 48292/08 della Cassazione penale che ha
ritenuto colposo il comportamento dei medici psichiatri operanti in un nosocomio
che avevano omesso di informare il personale infermieristico del forte rischio di
gesti autolesivi e di emanare disposizioni sul divieto di uscita dal reparto, senza
accompagnamento, in relazione a un paziente – affetto da un disturbo depressivo
maggiore – ricoverato nel reparto psichiatrico ove aveva già tentato di suicidarsi,
ragione per la quale era stata aumentata la dose della terapia farmacologica in atto,
non ancora, peraltro, in grado di produrre un risultato efficace.
La Suprema Corte ha, inoltre, avuto modo di occuparsi del rapporto tra
colpa del medico che interviene per primo e il cosiddetto principio di affidamento nel
corretto svolgimento dell’attività specialistica di competenza di altri sanitari cui
i paziente viene poi indirizzato.
Nella sentenza penale n. 43958/09 la Cassazione ha osservato che il principio di affidamento nel corretto espletamento dell’attività medica specialistica
di competenza di altri professionisti non è invocabile dal sanitario che a sua
volta non osservi le regole precauzionali, specifiche o comuni, inerenti l’assistenza da lui prestata.
Il caso giudicato dalla Suprema Corte riguarda un medico del Pronto Soccorso di un nosocomio che, pur nell’impossibilità di accertare in modo definitivo la situazione clinica di un paziente caduto da una pianta – stante l’impossibilità di effettuare tutti gli accertamenti radiologici in distretti rilevanti della
colonna dorsale e cervicale – lo ha dimesso senza adottare le necessarie precauzioni atte ad evitare che potessero avere inizio fenomeni di scivolamento
dei metameri, con conseguente compromissione midollare.
Questo comportamento è stato giudicato colposo proprio per l’omissione
delle indicate precauzioni e la Cassazione ha ritenuto non applicabile nella fattispecie il principio di affidamento invocato dal medico del Pronto Soccorso perché chi agisce non correttamente non può poi fare affidamento sul fatto che
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Manuale della Professione Medica
altri (in questo caso l’ortopedico cui era stato indirizzato il paziente) mettano
in atto tutti i presidi necessari per salvaguardare la salute del paziente visitato.
La responsabilità penale per malpratica – nesso di causalità.
Definizione e casistica
Nei paragrafi precedenti è stato sottolineato che il medico può essere
ritenuto colpevole del reato di lesioni personali colpose previsto dall’art. 590
del codice penale ovvero del delitto di omicidio colposo di cui all’art. 589 cp
in presenza di tre essenziali elementi: a) un comportamento colposo; b) una
lesione personale in danno del paziente o l’evento morte dell’assistito; c) l’esistenza di nesso tra il comportamento e l’evento che consenta di ritenere che
quel determinato evento sia stato causato da quella condotta.
In questa sede verrà approfondito il tema del nesso di causalità che, nei processi, è oggetto di accese discussioni tra i medici legali consulenti dell’accusa e
della difesa perché il mancato accertamento dell’esistenza di questo elemento
deve comportare, da parte dei giudici, l’assoluzione del sanitario incolpato.
I consulenti della difesa tenderanno, di norma, ad escludere che l’evento
lesivo rilevante in sede penale (lesioni o morte in danno dell’assistito) si è
verificato a causa del comportamento del medico incolpato, sostenendo in
linea generale l’erroneità delle conclusioni sul punto del perito nominato dal
Pubblico Ministero e, in particolare, l’irrilevanza causale del comportamento
incriminato essendo intervenute cause, non prevedibili ovvero non prevenibili,
idonee a realizzare l’evento predetto in via autonoma.
La modalità più o meno rigorosa dell’accertamento del nesso di causalità
incide evidentemente sulla possibilità o meno di sanzionare in sede penale
un comportamento colposo tenuto dal medico, produttivo, in ipotesi, di una
lesione penalmente rilevante.
Nel corso degli anni vi è stato un andamento oscillante della giurisprudenza sul punto perché in alcune sentenze si è ritenuto sussistente il nesso di
causalità tra il comportamento del medico e l’evento negativo per il paziente
sulla base di elementi non sempre puntuali e tali da fornire certezze, quantomeno processuali.
Ciò è avvenuto quando si è ritenuto sussistente il nesso di causalità, ad
esempio, sulla base di semplici dati statistici sull’astratta idoneità del corretto
2. La responsabilità professionale
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comportamento terapeutico omesso di evitare le lesioni o la morte del paziente.
Si è obiettato, rispetto a questa tendenza poco garantista, che il valore del
bene in gioco in sede penale (la libertà personale dell’imputato) richiede un
accertamento della responsabilità sulla base di elementi idonei a fornire una
certezza assoluta al riguardo, restando altrimenti aperta per il paziente danneggiato la strada del risarcimento del danno in sede civile.
È evidente che la prima tendenza giurisprudenziale, motivata probabilmente anche da fattori extragiuridici (valore della vita umana), ha finito con
l’allargare l’area della responsabilità medica, mentre il secondo filone interpretativo lo ha ristretto eccessivamente laddove ha richiesto una certezza assoluta
del nesso di causalità di non agevole accertamento nel campo della medicina
dove non tutti gli effetti sono sempre riconducibili con certezza sul piano biologico ad una determinata condotta, attiva o omissiva e dove non sempre tutte
le cause sono individuabili in modo preciso.
Sul punto, visto il perdurante contrasto in seno alle stesse sezioni della
Suprema Corte, sono intervenute le Sezioni Unite Penali della Cassazione con
la famosa sentenza Franzese, n. 30328/02, che ha cercato di ricondurre il
tema dell’accertamento del nesso di causalità alle evidenze emerse nel corso
del processo, con l’invito ai giudici di merito di indagarle con particolare attenzione per verificarne la rilevanza sul piano probatorio di questo elemento fondamentale e, quindi, per valutarne la loro idoneità a fornire la prova processuale
dell’esistenza o meno del nesso in oggetto.
In sostanza per le Sezioni Unite non si tratta di verificare la certezza assoluta
del nesso, ma, in presenza di una condotta idonea (anche come causa concorrente) a cagionare le lesioni patite dal paziente o la sua morte, di verificare, alla
luce degli elementi forniti dalla difesa, se vi sono fondate spiegazioni alternative idonee ad escludere la responsabilità dell’imputato in quanto, in ipotesi,
l’evento incriminato è stato prodotto da altra diversa causa non contrastabile,
idonea da sola a realizzarlo. Il nesso di causalità deve essere escluso, altresì,
quando la morte dell’assistito non sarebbe stata evitata (o significativamente
ritardata) anche se si fosse tempestivamente realizzata la condotta terapeutica contestata come ingiustamente omessa o ritardata, stante l’estrema gravità
delle condizioni cliniche dell’ammalato.
Questa importante decisione – che indubbiamente ha un contenuto più
garantista per il medico rispetto a precedenti decisioni della stessa Corte –ha
76
Manuale della Professione Medica
stabilito, in particolare, che il nesso di causalità non può essere accertato esclusivamente in base ad un astratto criterio probabilistico fondato su leggi scientifiche o su massime di esperienza, ma occorre un serio esame di tutti gli elementi
della fattispecie per giungere ad un giudizio di certezza processuale fondato su una
motivazione razionalmente credibile, che escluda diverse attendibili spiegazioni
alternative.
Sulla congruità e sulla razionalità della motivazione dell’esistenza o dell’inesistenza del nesso come accertato dai giudici di merito opererà poi il controllo
di legittimità della Suprema Corte.
In mancanza di questa certezza processuale perché, ad esempio, sussistono
ragionevoli dubbi sulla reale efficacia condizionante della condotta sanitaria incriminata rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, il
giudice deve procedere all’assoluzione del professionista imputato.
Applicando questo principio la Corte di Cassazione, con sentenza penale n.
19334/07, in riforma della decisione della competente Corte d’Appello di Brescia, ha assolto i medici imputati di omicidio colposo in danno di un paziente,
deceduto per «acuta insufficienza cardiocircolatoria in soggetto in stato di shock emorragico»
ritenendo che la condotta colposa loro contestata – mancata esecuzione dei controlli clinici (seconda ecografia) necessari per diagnosticare la progressiva lenta
emorragia in atto – pur avendo ritardato il necessario intervento chirurgico d’urgenza non aveva con certezza prodotto l’exitus dell’ammalato, essendo comunque
limitate le possibilità di successo anche di una più tempestiva terapia chirurgica.
In sostanza, quindi, è irrilevante l’errore medico se manca la certezza processuale sull’idoneità della condotta terapeutica omessa di evitare o ritardare
sensibilmente, con elevato grado di credibilità razionale, il decesso del paziente.
L’impatto della sentenza “Franzese” delle Sezioni Unite Penali sulla giurisprudenza di merito è stato notevole, anche se capita ancora di leggere delle
sentenze di merito che richiamano i principi espressi autorevolmente dalla
Cassazione applicandoli poi in modo non sempre puntuale.
Come sempre avviene l’interpretazione del contenuto dei principi generali
espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte non è stata omogenea anche
all’interno della stessa quarta sezione della Cassazione, cioè di quella sezione
che si occupa prevalentemente di responsabilità professionale medica.
Una attenta esegesi della sentenza “Franzese” è contenuta nella più recente
sentenza penale n. 17523/08 della quarta sezione della Cassazione che ha
2. La responsabilità professionale
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cercato di fare il punto in relazione al valore e al contenuto dei principi espressi
dalle Sezioni Unite.
Quest’ultima decisione ritiene che la portata della decisione delle Sezioni
Unite n. 30328-02 «oggetto di differenti letture da parte della dottrina ed all’interno della
quarta sezione», secondo la dottrina più convincente «non è da rinvenire nell’affermazione della perdurante validità della teoria condizionalistica e della necessità di procedere
al giudizio controfattuale, non poste mai in dubbio, ma nel fatto che il nesso di causalità non
può essere accertato con criteri di valutazione diversi da quelli utilizzati per gli altri elementi
costitutivi del reato, sostenendo un’argomentazione ovvia, ma, non pacifica in tema di colpa
professionale, in cui si faceva riferimento a criteri metagiuridici quali ad esempio il valore
della vita umana».
Quindi il nesso di causalità deve essere accertato in modo corretto e puntuale così come tutti gli elementi necessari della fattispecie delittuosa in esame.
Aggiunge questa ultima decisione che le Sezioni Unite hanno richiamato
anche «un principio lampante, secondo cui per pronunciare una condanna sono necessarie le
prove, che possono essere anche indiziarie e logiche, ed introducendo il criterio della probabilità
logica rispetto a quella statistica in modo da ridimensionare “in modo equilibrato” quella
teoria seguita da autorevole voce dottrinale della certezza e della probabilità prossima ad
uno e l’altra della probabilità statistica e delle serie ed apprezzabili probabilità di successo».
Sono parole forti perché richiamano l’ovvia necessità di non condannare
l’incolpato in mancanza di valide prove che, peraltro, possono essere anche
indiziarie e logiche come in tutti i processi e perché sottolineano la soluzione
equilibrata offerta dalle Sezioni Unite laddove introducendo il criterio della probabilità logica (perché in grado di resistere alle argomentazioni contrarie) prendono le distanze sia dall’uso indiscriminato della cosiddetta probabilità statistica
sia da quella teoria eccessivamente garantista che richiede la certezza assoluta
nella verifica del nesso di causalità.
Precisa, ancora, questa decisione, usando un tono didascalico, che: «Il giudice
deve quindi abbandonare l’illusione di poter ricavare deduttivamente la conclusione sull’esistenza del rapporto di causalità da una legge scientifica (anche se a carattere universale) che
riproduca in laboratorio la sua ipotesi di ricostruzione dell’evento e dovrà fare ricorso, sempre,
alla ricerca induttiva, verificando l’applicabilità delle leggi scientifiche eventualmente esistenti alle
caratteristiche del caso concreto portato al suo esame; tenendo in considerazione tutti gli specifici
fattori presenti e quelli interagenti e pervenendo quindi ad un giudizio di elevata credibilità razionale, secondo i criteri di valutazione della prova previsti per tutti gli elementi costitutivi del reato».
78
Manuale della Professione Medica
Non sono ammesse, quindi, scorciatoie nell’accertamento del nesso attraverso l’uso delle cosiddette leggi scientifiche la cui idoneità a spiegare le cause
dell’evento deve essere verificata nel caso concreto alla luce delle sue specifiche
caratteristiche e anche degli altri fattori presenti.
Aggiunge, infine, la Corte che «non deve chiedersi al giudice di spiegare l’intero
meccanismo dell’evento; il nesso di condizionamento deve ritenersi infatti provato non solo
(caso assai improbabile) quando venga accertata compiutamente la concatenazione causale
che ha dato luogo all’evento ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente descritto o accertato il complessivo succedersi tale meccanismo, l’evento sia comunque
riconducibile alla condotta colposa dell’agente sia pure con condotte alternative: e purché sia
possibile escludere l’efficienza causale di diversi meccanismi eziologici».
In questo passaggio la Suprema Corte sembra riaffermare che, in base al
testo degli artt. 40 e 41 del Codice penale (quest’ultima norma, tra l’altro, stabilisce che «Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti
dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da
sole sufficienti a determinare l’evento») è sufficiente, per l’accertamento del nesso, che
la condotta colposa del medico abbia contribuito al verificarsi dell’evento, sempre che non sia provata in modo attendibile l’esistenza di un diverso (e talvolta
autonomo) meccanismo causale, non contrastabile, da solo idoneo a realizzare
l’evento.
Questo passaggio della motivazione diventa più comprensibile se si ricorda
che nella fattispecie esaminata a suo tempo dalle Sezioni Unite si trattava di
omessi e ritardati accertamenti clinici, la cui tempestiva adozione avrebbe fatto
verificare l’evento negativo per il paziente in tempi significativamente più lontani ovvero avrebbe rallentato o escluso i tempi di latenza di una malattia,
anche se provocata da altre cause, neppure accertate e, comunque, non ricollegabili sul piano dell’eziologia alla condotta omessa. Il nesso di causalità rileva,
quindi, sul piano giuridico non solo quando la condotta terapeutica colposamente omessa era idonea a sconfiggere la malattia, ma anche quando poteva
ritardarne significativamente la negativa evoluzione.
Il contributo della dottrina medico-legale nell’accertamento del nesso di
causalità e l’importanza del lavoro svolto dai periti d’ufficio e di parte emerge
da numerose sentenze della Suprema Corte.
Nella recente sentenza penale n. 15637/10 la Cassazione ha ritenuto che
2. La responsabilità professionale
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la decisione d’appello impugnata aveva giustamente accertato la sussistenza del
nesso di causalità tra la condotta omissiva e attendista tenuta da un medico «nel
formulare una diagnosi corretta e nel richiedere una consulenza chirurgica ed eventualmente una
laparoscopia esplorativa» e la morte della paziente, dato che, secondo i consulenti
dell’accusa, l’ammalata si sarebbe potuta salvare «con alto grado di probabilità logica»
se si fosse intervenuti tempestivamente sull’esistente patologia della colecisti.
Ecco perché per il medico incolpato è utile farsi assistere sin dalle prime
fasi delle indagini non solo da un avvocato, ma anche da un perito di parte
specialista in medicina legale che, coadiuvato dallo specialista nella branca interessata, sia in grado di evidenziare le eventuali lacune ovvero le contraddizioni
contenute nella relazione del perito d’ufficio.
Trattandosi, invero, di una materia nella quale spesso sorgono problemi di
interpretazione sul piano tecnico della condotta tenuta dal medico imputato,
l’opportunità di un ausilio tecnico di parte è evidente perché è utile a corroborare le tesi che la difesa legale poi supporterà sul piano giuridico.
Quid iuris nel caso, invero frequente, di presenza agli atti del giudizio di perizie
contrastanti su temi rilevanti quali la colpa medica e il nesso di causalità?
Sul punto è intervenuta di recente la quarta sezione della Suprema Corte
che, nella sentenza penale n. 23942/10, ha escluso che il Giudice d’appello
possa respingere l’esistenza dei profili di colpa e del nesso di causalità accertati
dal giudice di primo grado attraverso il semplice richiamo al «lacerante e palese
contrasto di valutazioni tecniche» tra le conclusioni sul punto dei consulenti delle
parti e dei consulenti d’ufficio.
Ha precisato, inoltre, la Cassazione che, fermo restando l’obbligo di puntuale motivazione sulle ragioni per le quali in appello non si ritengono condivisibili le conclusioni del primo giudice, in ogni caso il giudicante «quando presceglie
una tesi scientifica deve motivare le ragioni per le quali la preferisce ad altre, pur poste alla
sua attenzione».
Ha aggiunto, ancora, la Corte che il giudice ha piena libertà di apprezzamento anche delle risultanze della perizia d’ufficio, libertà che è, però, temperata dall’obbligo di puntuale motivazione del proprio dissenso in modo da
dimostrare di essersi soffermato sulla tesi scientifica che ha poi ritenuto di non
accogliere. In questo caso non è necessario nominare un nuovo perito d’ufficio
perché il giudice per disattendere l’elaborato del perito da lui nominato può
avvalersi degli esiti della consulenza di parte, qualora la ritenga condivisibile.
80
Manuale della Professione Medica
Sul tema della causa sopravvenuta eccezionale e imprevedibile ovvero dei
fattori causali alternativi idonei da soli a produrre l’evento lesivo – con conseguente eliminazione del rapporto causale ipotizzato dall’accusa con la condotta colposa del medico – appare opportuno richiamare la sentenza penale
n. 840/08 della Suprema Corte, avente ad oggetto il ricorso di un neurologo
condannato per omicidio colposo per avere sottovalutato gli effetti del sovradosaggio dei principi attivi dei farmaci utilizzati per la cura di una paziente
affetta da una sindrome depressiva.
Il neurologo si era difeso sostenendo che l’intossicazione poteva essere
stata provocata da un’ingestione per via orale – volontaria o casuale – da parte
della paziente di un farmaco contenente il principio attivo clormipramina che,
invece, doveva essere somministrato per via parenterale.
La Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito avevano correttamente
escluso l’esistenza di questa causa alternativa e autonoma – idonea, qualora
sussistente ad escludere il contestato nesso di causalità – sulla scorta delle
conclusioni dei periti d’ufficio che avevano correttamente evidenziato, tra l’altro, un progressivo aggravamento della situazione patologica della paziente
nell’arco di un paio di settimane in seguito all’accumulo nel corso del tempo
dei pericolosi principi attivi contenuti nei farmaci utilizzati nella terapia, idonei
a produrre l’evento letale.
Secondo i giudici della Cassazione, a fronte dell’esistenza di un’ipotesi
alternativa e plausibile nella ricostruzione del nesso di causalità è sempre consentito al giudice di merito di escludere tale ipotesi non solo in base ad una
dichiarata e motivata maggiore affidabilità dell’ipotesi accusatoria formulata,
ma anche tenendo conto delle evidenze probatorie esistenti nel processo che
consentano di negare, in termini di elevata credibilità razionale, l’ipotesi alternativa allegata dall’imputato.
Il concorso di diverse condotte colpose e di più cause.
La responsabilità penale nel lavoro in équipe
Nell’odierna attività di cura il paziente viene assistito di norma da più professionisti che possono prestare la loro opera in un unico contesto di luogo e
di tempo (ad esempio, sala operatoria) oppure in tempi successivi (e talvolta
luoghi diversi), collaborando tra di loro (ad esempio, assistenza in corsia orga-
2. La responsabilità professionale
81
nizzata per turni svolti da diversi medici che, poi, nel dimettere l’assistito lo
indirizzano per il prosieguo dell’assistenza al loro medico di fiducia). Queste
forme di collaborazione – sincronica o diacronica – si fondano sul principio
etico e giuridico della responsabilità personale – ciascuno nel proprio lavoro
deve rispettare le regole dell’arte e risponde della loro violazione – e su quello
dell’affidamento – ciascuno, in linea di principio, confida sul fatto che gli altri
rispettino le regole cautelari proprie della loro disciplina.
Il principio di affidamento, peraltro, non può essere correttamente invocato in
presenza di evidenti circostanze che costituiscono concreti e rilevabili indizi di
un comportamento altrui non rispettoso delle generali regole cautelari proprie
della medicina, tale da creare un serio rischio per la salute del paziente. In queste
situazioni, chi è presente nel momento in cui viene tenuta la condotta incongrua,
cui è possibile porre rimedio stante il suo carattere di manifesta violazione delle
regole dell’arte, deve intervenire per rimediare all’errore del collega, altrimenti ne
risponde a titolo di concorso. Lo stesso comportamento deve essere tenuto da chi
interviene successivamente nell’assistenza al malato e rileva (o è in grado di rilevare) l’errore, con le caratteristiche sopra evidenziate, commesso in precedenza.
Il principio di affidamento, ancora, non può essere correttamente invocato
qualora vi sia un soggetto (il dirigente di un reparto ovvero il c.d. capo-équipe)
che, per la sua posizione gerarchica e/o funzionale, abbia l’obbligo giuridico
di coordinare e controllare l’operato dei suoi collaboratori, verificandone la
rispondenza alle generali regole cautelari dell’arte medica (in caso di cooperazione nell’intervento da parte di più specialisti di branche diverse, ciascuno, di
norma, risponderà solo del mancato rispetto delle regole del settore di appartenenza, per rispettare il principio del carattere “ersonale della responsabilità
penale sancito dall’art. 27 della Costituzione).
La giurisprudenza della Suprema Corte ha affrontato più volte il tema della
responsabilità nel lavoro svolto in équipe da più sanitari nell’ambito della sala
operatoria ovvero nella collaborazione professionale realizzatasi in tempi diversi.
Partendo dal principio secondo il quale la posizione di garanzia assunta da ciascun sanitario impone a colui che assiste un paziente, affidato anche alle cure
specialistiche di altri medici, di salvaguardare comunque la salute dell’interessato operando in conformità alle regole dell’arte che dettano principi idonei ad
evitare l’aggravamento dei sintomi inizialmente riscontrati, la Suprema Corte
ha finito, di norma, con l’affermare la responsabilità concorsuale di ciascuno
82
Manuale della Professione Medica
degli operatori, coinvolti nell’assistenza, che hanno tenuto un comportamento
colposo idoneo a cagionare l’evento negativo, proprio perché non è stato ritenuto legittimo invocare il “principio dell’affidamento” da parte di coloro cui
era addebitabile una colpa di carattere personale.
D’altra parte, in applicazione del principio di equivalenza delle cause, la
responsabilità in questi casi è concorsuale, a meno che possa affermarsi l’efficacia
esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere avuto caratteristiche di eccezionalità ed imprevedibilità, tali da elidere ogni precedente contributo causale,
come statuito dall’art. 41 del Codice penale.
Nella sentenza penale n. 21594/07, ad esempio, la Cassazione ha confermato la responsabilità concorsuale per lesioni colpose gravissime del chirurgo
capo-équipe – allontanatosi dalla sala operatoria dopo avere autorizzato l’anestesista a procedere all’anestesia di tipo spinale sul malato – nel grave errore
commesso dagli specializzandi che, nel portare a termine da soli l’intervento di
ernia inguinale, avevano reciso l’arteria epigastrica omettendo poi di suturarla,
con conseguente compressione del testicolo per l’imponente fenomeno emorragico e danno atrofico della gonade.
In questo caso il profilo di colpa a carico del capo-équipe è stato individuato
nel mancato controllo del lavoro svolto dagli specializzandi che possono operare solo in presenza del loro tutor che deve potere sorvegliare l’esecuzione
dell’intervento e correggere gli eventuali errori commessi dai sanitari in formazione.
La Suprema Corte ha precisato che nell’ipotesi in cui il chirurgo capo-équipe
sia costretto ad allontanarsi dalla sala operatoria per assistere altri pazienti o
per altri giustificati motivi occorre differire l’atto operatorio, oppure sollecitare la sua sostituzione o, infine, adottare altre misure idonee ad evitare che
il paziente rimanga affidato esclusivamente alle cure degli specializzandi che
possono operare solo sotto la guida del loro tutor proprio perché non hanno
ancora completamente acquisito le cognizioni tecniche e l’esperienza necessaria per lavorare in autonomia. Il loro errore non può, quindi, essere considerato imprevedibile da chi ha la funzione di tutor.
Nella sentenza penale n. 19755-09, invece, la Cassazione ha annullato la
sentenza d’appello che aveva dichiarato prescritto il delitto di omicidio colposo
contestato a sei medici di un reparto di neurochirurgia di un ospedale per
non avere diagnosticato tempestivamente la sindrome di Lyell ad una paziente
2. La responsabilità professionale
83
ivi ricoverata per un meningioma, rilevando l’assoluta carenza di motivazione
in relazione all’individuazione delle singole condotte criminose, con particolare riferimento al ruolo che ciascun sanitario aveva avuto nell’assistenza alla
paziente e nella produzione dell’evento mortale.
La Suprema Corte ha sottolineato che, anche quando si lavora in équipe,
occorre sempre esaminare e individuare il ruolo specifico svolto da ciascuno degli
imputati nell’assistenza e nelle cure prestate alla paziente, soprattutto quando
l’omessa diagnosi riguarda una patologia specialistica non correlata a quella
(meningioma) per la quale la paziente era stata ricoverata. La puntuale verifica
da parte del giudice dei comportamenti tenuti dai singoli soggetti, infatti, deve
essere particolarmente attenta nelle ipotesi di lavoro in équipe e, più in generale,
di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica anche se svolta
non contestualmente, cioè in tutti i casi in cui alla cura del paziente concorrono
sanitari diversi. È necessario, invero, contemperare il principio di affidamento, in
forza del quale il medico titolare di una posizione di garanzia nei confronti del
paziente può andare esente da responsabilità quando la verificazione dell’evento
dannoso può essere ricondotta al comportamento esclusivo di un altro sanitario, contitolare della predetta posizione, sulla cui correttezza nella prestazione
professionale il primo abbia fatto legittimo affidamento, con l’obbligo di garanzia verso il paziente che è a carico di tutti gli operatori che contestualmente
ovvero successivamente intervengono nella cura del malato. Proprio il principio
di affidamento, infatti, secondo la Cassazione, consente di confinare l’obbligo di
diligenza che è a carico di ciascun sanitario entro limiti compatibili con l’esigenza del carattere necessariamente personale della responsabilità penale, sancito dall’art. 27 della Costituzione, che esclude la possibilità di configurare una
responsabilità di gruppo, indipendentemente dall’esame della rilevanza causale
di ciascuna condotta nella determinazione dell’evento dannoso per il paziente.
Nella sentenza penale n. 1866/09, infine, la Cassazione, dopo avere ribadito che l’instaurazione della relazione terapeutica comporta l’assunzione – da
parte del medico che assume la veste di curante – dell’obbligo di agire a tutela
della salute e della vita dell’assistito, ha giustamente affermato che questo
obbligo non può avere una dimensione irrealistica e una estensione illimitata,
tale da comportare anche il dovere di porre in essere prestazioni professionali
non dovute, non possibili ovvero radicalmente estranee all’ambito dell’obbligazione di cura assunta.
84
Manuale della Professione Medica
La posizione di garanzia, infatti, come ogni posizione giuridica soggettiva,
riveste in ciascuna fattispecie concreta una specifica dimensione che deve essere
preliminarmente definita dal giudice al fine di individuare le condotte esigibili
da ciascun operatore, sia in relazione alla propria sfera di competenza specialistica e professionale, sia per il ruolo esercitato in concreto all’interno dell’organizzazione della struttura sanitaria.
La Suprema Corte, pertanto, ha stabilito che non è corretto desumere
l’esistenza di una responsabilità penale per omicidio colposo di un medico
di guardia all’interno di una casa circondariale solo dall’omesso controllo da
parte sua dell’effettiva esecuzione di un’indagine clinica prescritta in favore di
una detenuta per accertare se fosse affetta da tubercolosi, senza verificare la
natura della funzione assistenziale svolta in concreto dall’interessato e senza
analizzare il contenuto della relazione gerarchica esistente con il dirigente della
struttura sanitaria del carcere.
La Cassazione, confermata la condanna per omicidio colposo del medico
responsabile della struttura del carcere che non aveva rilevato la stretta correlazione tra l’endometrite e l’affezione tubercolare sofferta dalla detenuta, ha
invitato i giudici di merito a riesaminare la posizione dei due medici di guardia,
condannati nel precedente grado di giudizio ex art. 589 cp, chiamati in tesi ad
eseguire solo interventi di cura episodici, per verificare anche se potesse loro
attribuirsi un potere di sindacare attivamente le scelte operate dal dirigente.
La posizione di garanzia assunta dal singolo medico che è intervenuto nel
processo di cura di una paziente, secondo questa interessante sentenza, non
ha sempre l’identico contenuto, potendo essere limitata al controllo ed eliminazione solo di alcuni specifici rischi in corrispondenza alle effettive mansioni
delegategli dal dirigente all’interno dell’organizzazione sanitaria della struttura.
La responsabilità penale per intervento sanitario “arbitrario”
Nella relazione di cura è in gioco anche la libertà del paziente che non può
essere messa in discussione da parte dei sanitari solo in base ad un giudizio di
appropriatezza clinica del trattamento proposto.
Il rispetto della libertà dell’individuo, infatti, è strettamente collegato al
rispetto della sua dignità di uomo e ai valori che sono espressione di questa
dignità anche nell’ipotesi di malattie gravemente invalidanti.
2. La responsabilità professionale
85
La gestione del proprio corpo secondo i propri principi morali rientra nelle
libertà della persona in quanto strumento finalizzato alla sua realizzazione come
soggetto che intende costruire una propria identità nella libertà, senza ledere
quella altrui.
Nel concetto di libertà può rientrare, quindi, anche il diritto del soggetto,
maggiorenne e capace, di rifiutare consapevolmente i trattamenti sanitari non
desiderati.
In presenza di un dissenso consapevolmente manifestato dal paziente capace
di autodeterminarsi la posizione di garanzia che l’ordinamento attribuisce ai sanitari
a tutela della salute degli assistiti si riduce di contenuto in quanto ai medici è inibito di porre in essere quei trattamenti oggetto del rifiuto del paziente.
La posizione di garanzia, peraltro, non viene meno anche in queste situazioni estreme perché rimane l’obbligo di assistere il malato conformemente
ai suoi legittimi desideri, salvo la possibilità di sollevare l’obiezione di coscienza
in presenza di richieste che contrastino in modo irrisolvibile con la propria
coscienza, fermo restando il dovere di non abbandonare il malato prima che
un altro sanitario non se ne possa fare carico.
Codice deontologico del 2006, invero, all’art. 22 afferma che «il medico al
quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia
di pregiudizievole nocumento per la salute della persona assistita e deve fornire ogni utile
informazione e chiarimento».
L’obiezione di coscienza non è, peraltro, disciplinata in via generale nell’ordinamento pubblico che la prevede solo per singole specifiche situazioni, come, ad
esempio, quella prevista dall’art. 9 della legge n. 194/78 in tema di interruzione
della gravidanza, e, quindi, occorre molta prudenza nell’utilizzare questo strumento, soprattutto per i sanitari che rivestono la qualifica di pubblici ufficiali, per
i quali si potrebbe ipotizzare un indebito rifiuto della loro attività (art. 328 cp).
Le considerazioni sopra esposte sul dovere per i sanitari di rispettare la
libertà del paziente trovano riscontro nella giurisprudenza che ha esaminato in
modo approfondito il tema della relazione medico-paziente.
Ad esempio, la Cassazione, nella sentenza penale n. 11640/06, dopo avere
ribadito che l’attività medica, di norma, «richiede per la sua validità e concreta liceità la
manifestazione del consenso del paziente, che non si identifica con quello di cui all’art. 50 cp,
ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento», ha affermato che: «Il consenso
86
Manuale della Professione Medica
afferisce alla libertà morale del soggetto e alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà
fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporale», che sono «profili tutti
attinenti alla libertà personale, proclamata inviolabile dall’art. 13 della Costituzione».
Ha aggiunto la Suprema Corte nella sentenza penale n. 11335/08 che
«non è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe
alcun rilievo la volontà dell’ammalato, che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui
il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria coscienza» e che «Il
consenso informato ha, come contenuto concreto, la facoltà non solo di scegliere tra le diverse
possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere
consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale» (così
Cass. civ. sent. n. 21748/08 richiamata dalla Cass. pen. nella sent. 11335/08).
In definitiva, secondo la Cassazione «il criterio di disciplina della relazione medicomalato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso
delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare
il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario» (così
Cass. pen. sent. n. 11335/08).
È molto importante in questa sentenza il passaggio della motivazione laddove i giudici della Suprema Corte mettono i paletti alla potestà di curare del
medico affermando che questa potestà non ha carattere generale e assoluto in
quanto trova un limite proprio nella volontà negativa espressa dal paziente che,
eventualmente, rifiuti la terapia proposta.
Questo passaggio trova un preciso riscontro anche nel Codice di Deontologia
medica del 2006 laddove, all’art. 35, quarto comma, si afferma che «In ogni caso, in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici-curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà dell’interessato».
Rimane fermo il dovere del medico di verificare che quel rifiuto sia realmente informato, sia espresso liberamente, sia autentico e, qualora espresso in
via anticipata, riguardi la situazione di cura nel quale il trattamento proposto
dovrebbe trovare applicazione.
Come affermato dalla Suprema Corte nella sentenza civile n. 21748/07,
quindi, per il medico «di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato c’è
spazio per una strategia della persuasione e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel
rifiuto sia informato, autentico e attuale; ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è
possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi».
Emerge, peraltro, essenzialmente in sede penale, una diversa rilevanza del
2. La responsabilità professionale
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consapevole rifiuto espresso dal paziente capace rispetto alla semplice mancanza di un
consenso in determinate situazioni.
Sul punto è intervenuta la recente sentenza n. 2437/09 delle Sezioni Unite
penali della Cassazione che riguarda un chirurgo che aveva sottoposto una
paziente a un intervento di laparoscopia regolarmente acconsentito e, senza
soluzione di continuità, anche a salpingectomia con asportazione della tuba
sinistra, trattamento quest’ultimo non oggetto del consenso informato dell’interessata o di un rifiuto espresso. La paziente si era lamentata del fatto che
questo intervento invasivo fosse stato eseguito senza la previa raccolta del suo
assenso e ne era nato un contenzioso in sede penale in quanto erano state ipotizzate la configurabilità del reato di violenza privata di cui all’art. 610 cp ovvero
del delitto di lesioni personali dolose di cui all’art. 582 cp. La Cassazione, essendo
stato accertato che anche il secondo intervento era stato eseguito nel rispetto
delle leggi dell’arte medica ed aveva avuto esito fausto (positivo per la salute
dell’interessata), ha escluso sia l’esistenza del reato di lesioni personali, per il
complessivo miglioramento delle condizioni di salute della paziente, che quello
di violenza privata, per la mancanza del requisito autonomo della violenza, non
praticabile, peraltro, su paziente anestetizzato.
In motivazione la Cassazione, peraltro, ha ribadito in questa sentenza la
sicura illiceità penale della condotta del medico che operi contro la volontà del
paziente, direttamente o indirettamente manifestata, a prescindere dall’esito
fausto o infausto dell’intervento praticato, trattandosi di attività che assume i
caratteri dell’arbitrarietà. La natura del reato ipotizzabile dipende, evidentemente, dalle modalità della condotta criminosa e dalle sue conseguenze; in linea
di massima si può fare riferimento ai reati (582 cp e 610 cp) sopra menzionati.
La Cassazione, inoltre, ha aggiunto che, anche se l’esito sia stato fausto,
«l’eventuale mancato consenso del paziente al diverso tipo di intervento praticato dal chirurgo, rispetto a quello originariamente assentito, potrà rilevare su altri piani, ma non su
quello penale», così lasciando impregiudicata un’eventuale azione in sede civile o
disciplinare, salvi gli effetti degli artt. 652 e segg. cpp.
Appare opportuno soffermarsi sui passaggi sopra riassunti di questa importante decisione che tiene conto delle preoccupazioni espresse anche dalla dottrina sui rischi di un eccesso di penalizzazione dell’attività chirurgica offrendo,
peraltro, il lato ad alcuni rilievi critici, soprattutto laddove sembra non tenere
conto del diverso valore che per ciascuno ha il bene salute.
88
Manuale della Professione Medica
Per escludere l’illiceità penale ex art. 582 cp del mutamento, in assenza del
consenso della paziente, del tipo di intervento operatorio effettuato, la sentenza, infatti, richiama il concetto di esito fausto dell’intervento, affermando che
il concetto di malattia e di tutela della salute devono ricevere una lettura obiettiva
che è quella che deriva dai dettami della scienza medica, che prescinde dall’apprezzamento dell’interessato. Questa affermazione, peraltro, viene in parte
contraddetta quando poi viene argomentato che «per esito fausto dovrà intendersi
soltanto quel giudizio positivo sul miglioramento apprezzabile delle condizioni di salute del
paziente, ragguagliato non soltanto alle regole proprie della scienza medica, ma anche alle
alternative possibili, nelle quali devono necessariamente confluire le manifestazioni di volontà
positivamente o indirettamente espresse dal paziente».
La Cassazione sembra non avere tenuto in debito conto la circostanza che
il bene salute non è un dato oggettivo, ma si riempie della concezione che
l’individuo ne ha; le sue scelte, pertanto, non solo non possono essere pretermesse nel distinguere tra esito fausto e infausto, ma deve essere comunque
consentito all’interessata di esprimerle qualora sia prevedibile ex ante l’ipotesi
dell’esecuzione di intervento chirurgico così invasivo come la salpingectomia
con asportazione della tuba sinistra, che, invece, non risulta essere stato prospettato in precedenza nel caso di specie.
Occorre, quindi, evitare non giustificabili riserve mentali da parte dei chirurghi
che – in un rapporto di lealtà e trasparenza – dovrebbero correttamente informare i pazienti della possibilità, qualora prevedibile, di procedere ad ulteriori
trattamenti oltre quelli già programmati, consentendo così ai soggetti interessati
di accettarli o rifiutarli, soprattutto quando, come nel caso di specie si tratta di
interventi estremamente invasivi del corpo della donna. Altrimenti sarà solo la
monologante scelta del chirurgo ad orientare gli obiettivi terapeutici da perseguire,
in contrasto con i principi costituzionali che impongono la consapevole partecipazione del paziente alle decisioni che riguardano la sua salute come, peraltro,
ribadito anche nella motivazione della sentenza in commento.
Sulla questione che ci occupa in linea generale e cioè sul valore del dissenso
del paziente rispetto alla proposta terapeutica del medico è intervenuta, da
ultimo, la quarta sezione penale della Cassazione che, con sentenza n. 2179910, ha ribadito che «si deve ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto
eventualmente manifestato dal paziente, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare
il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino la sua morte».
2. La responsabilità professionale
89
La Suprema Corte, con questo passaggio della motivazione, sembra volere
tutelare la libertà del paziente maggiorenne e capace di rifiutare consapevolmente – previa adeguata informazione sui rischi che la sua decisione può comportare per la sua salute o per la sua stessa vita – l’esecuzione di un trattamento
pur giustamente proposto dal sanitario.
Non sembra condivisibile, per superare il dissenso espresso dal paziente,
il richiamo allo stato di necessità di cui all’art. 54 cp perché è molto discutibile
l’applicazione di questa norma estremamente generica alla pratica medica e
perché, comunque, una norma ordinaria non può consentire un comportamento in contrasto con il disposto degli artt. 13 e 32 della Costituzione in tema
di libertà delle cure.
Appare utile richiamare, sul punto, la recente sentenza penale n. 26159/10
della quinta sezione della Cassazione che, in un caso concernente un rapimento di una persona al fine di disintossicarla, in risposta alla tesi dell’imputato
(non medico) che sosteneva di avere agito in stato di necessità afferma, in motivazione, che «In primo luogo, la Carta Costituzionale all’art. 32 stabilisce due principi
fondamentali: non è mai possibile, nemmeno al legislatore, violare i limiti imposti dal rispetto
della persona umana ed è sempre vietato il trattamento sanitario obbligatorio, se non in
forza di legge. Inoltre, all’art. 13, proscrive in ogni modo la violenza fisica (e morale) sulle
persone “comunque” sottoposte a restrizioni di libertà. Non è, quindi, possibile assegnare
alla lettura dell’art. 54 cp un significato che urti direttamente contro questi radicali divieti
posti dalla Costituzione».
Il medico, pertanto, in presenza di un rifiuto espresso dal paziente, non
può legittimamente invocare lo stato di necessità per intervenire contro la sua
volontà. Diversa è evidentemente la situazione in cui vi è una urgenza sanitaria
indifferibile cui fare fronte, urgenza che non consente alcuna dilazione dell’intervento medico, e il paziente interessato non si oppone al trattamento, né ha
in precedenza manifestata una volontà contraria.
La responsabilità civile per malpratica. Definizione e contenuto
Il medico e l’odontoiatra possono essere chiamati a rispondere solo in sede
civile qualora il soggetto danneggiato dalla loro colposa condotta professionale abbia deciso di agire esclusivamente per avere il ristoro dei danni (patrimoniali e non patrimoniali) subiti.
90
Manuale della Professione Medica
La responsabilità civile comporta, infatti, a carico del soggetto che con
il suo comportamento li ha causati, l’obbligo giuridico del risarcimento dei
danni che riguardano sia la perdita economica patita dal paziente (lucro cessante per la perdita o riduzione della capacità di guadagno e danno emergente per
le spese sostenute) sia il cosiddetto danno non patrimoniale che ricomprende il
risarcimento non solo della lesione dell’integrità fisica o psichica (cd. danno
biologico quantificato, di norma, in base a tabelle elaborate tenuto conto dell’età
del soggetto e della natura e entità del pregiudizio al bene salute subito ), ma
anche delle sofferenze sul piano morale patite (sempre che vi sia stato un fatto
costituente anche un illecito penale) nonché della lesione di altri diritti della
persona costituzionalmente garantiti (se, ad esempio, l’illecito ha inciso negativamente su un altro soggetto legato al paziente danneggiato da un preesistente
legame familiare), come autorevolmente stabilito dalle Sezioni Unite civili nella
sentenza n. 26972/08.
Un esempio delle diverse voci di danno risarcibile può essere desunto da una
recente sentenza civile della Suprema Corte (n. 13/2010) relativo all’omessa
diagnosi di malformazioni del concepito con conseguente lesione del diritto
della donna di interrompere la gravidanza alle condizioni stabilite dalla legge
n. 194/78. Questa sentenza è utile anche per evidenziare che titolare del diritto
al risarcimento dei danni nei confronti di un sanitario (ovvero della struttura
in cui opera) può essere anche un soggetto diverso da quello danneggiato nel
corso dell’assistenza prestata.
Nel caso di specie, infatti, il soggetto malformato non è stato ritenuto titolare
di un diritto al risarcimento perché la sua malattia era congenita e, quindi, non
riconducibile ad una condotta colposa dei curanti. L’ASL ove prestava la sua attività professionale l’ecografista responsabile dell’omissione diagnostica, invece, è
stata ritenuta responsabile (oltre che per una propria disfunzione organizzativa
che aveva ritardato l’esecuzione della seconda ecografia) anche per l’omessa tempestiva diagnosi da parte del suo dipendente delle esistenti malformazioni del
feto, con conseguente lesione del diritto della donna alla procreazione responsabile.
I giudici, ritenuto provato attraverso presunzioni che la donna, qualora tempestivamente informata delle malformazioni, avrebbe deciso di interrompere
la gravidanza, hanno riconosciuto in favore della stessa (e del padre) del neonato una congrua somma a titolo di risarcimento delle spese da sostenere per
il mantenimento del bimbo sino al raggiungimento della sua autonomia eco-
2. La responsabilità professionale
91
nomica e un’altra a titolo di lucro cessante. Oltre a questo danno di natura
patrimoniale sono stati liquidate anche altre voci di danno a ristoro del danno non
patrimoniale, in particolare quella relativa alla lesione del diritto di ciascuna persona a non dovere essere costretta a cambiare ingiustamente la propria agenda
esistenziale e a condurre una vita diversa e peggiore di quella che avrebbe vissuto
in assenza della non desiderata nascita di un bimbo gravemente malformato
perché affetto da agenesia dell’arto inferiore destro e focomelia di quello sinistro e quella relativa alle sofferenze morali dovute alla scoperta solo all’atto della
nascita della malformazione.
Nel concetto di danno risarcibile rientra, quindi, non solo il danno alla salute
in senso stretto e la lesione di altri diritti della persona costituzionalmente
garantiti, ma anche il danno economico conseguente, in termini di causalità
adeguata, all’inadempimento del sanitario (ovvero della struttura).
I sanitari possono, peraltro, essere chiamati a rispondere del loro comportamento sul piano della responsabilità civile anche in conseguenza dell’accertamento in sede penale di un reato (di norma lesioni colpose ovvero omicidio
colposo) da loro commesso. La parte lesa può, infatti, costituirsi parte civile
nel processo penale e, quindi, esercitare in quella sede l’azione civile diretta al
risarcimento dei danni patiti.
La sentenza penale irrevocabile di condanna per un reato, inoltre, in base
al disposto dell’art. 651 cpp, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile diretto
ad ottenere il ristoro dei conseguenti danni per quanto riguarda l’accertamento
della sussistenza del fatto contestato, la sua illiceità penale e l’affermazione
di responsabilità dell’imputato. Queste circostanze, quindi, non possono più
essere messe in discussione nel giudizio civile.
È opportuno, peraltro, ricordare in questa sede che l’accertamento in sede
penale dell’insussistenza del fatto addebitato al sanitario ovvero della sua
non colpevolezza ha efficacia di giudicato, alle condizioni e nei limiti stabiliti
dall’art. 652 cpp, anche nel giudizio civile di risarcimento dei danni eventualmente promosso dal danneggiato.
Le disposizioni sopra richiamate dimostrano la forte correlazione che può
sussistere tra il giudizio concernente l’illecito penale e quello relativo all’illecito
civile eventualmente commessi da un medico o da un odontoiatra e la necessità,
comunque, di difendersi adeguatamente in entrambe le sedi onde evitare le negative ripercussioni del giudizio penale di condanna su quello civile risarcitorio.
92
Manuale della Professione Medica
La responsabilità civile per malpratica – colpa e nesso
di causalità
Per ottenere il ristoro dei danni subiti occorre, in linea generale, che sussista
agli atti la prova dell’esistenza di un fatto illecito produttivo di un danno (patrimoniale o non patrimoniale) per il paziente (ovvero per la parte lesa) e del nesso di
causalità tra il comportamento del sanitario e l’evento negativo indicato come
integrante l’illecito.
Il comportamento del medico o dell’odontoiatra rileva, sul piano civilistico,
sempre che sia addebitabile al sanitario un difetto di perizia, un’imprudenza o
una negligenza nella sua condotta professionale tale da consentire di accertare un
suo inadempimento all’obbligazione di cura di natura contrattuale da lui assunta
ovvero, comunque, una lesione colposa del bene salute tutelato erga omnes, ex art.
2043 cc, indipendentemente dalla presenza di un contratto (cd. illecito extracontrattuale).
Il paziente danneggiato che agisce in giudizio, di norma, chiede il risarcimento sia in base alle norme che regolano l’inadempimento contrattuale
(applicabili pacificamente anche ai sanitari che lo hanno avuto in cura indipendentemente dall’effettiva presenza di un contratto da loro direttamente
stipulato, come ribadito più volte dalla Cassazione anche nelle sentenze n.
589/99, 8826/07 e S.U. civ. sent. n. 577/08) sia in base alle disposizioni che
implicano una responsabilità extracontrattuale.
Il cumulo di queste due azioni consente al paziente di avvalersi del maggior
termine di prescrizione dell’illecito previsto per quello contrattuale (dieci anni,
decorrenti, ex sent. n. 581/08 delle S.U. civili della Cassazione, dal momento in
cui il paziente, usando l’ordinaria diligenza, percepisce o sarebbe stato in grado di
comprendere che la malattia o il peggioramento delle condizioni di salute costituiscono un danno ingiusto conseguente al fatto colposo del medico curante)
e anche del disposto dell’art. 1218 del Codice civile che, in sostanza, pone a
carico del medico l’onere di provare che il danno non è stato prodotto dalla sua
condotta colposa perché inevitabile nonostante l’uso della prescritta diligenza
professionale (vedi, al riguardo, Cass. sent. n. 8826/07 e S.U. civ n. 13533/01).
La posizione del sanitario diventa, quindi, più difficile in sede civile perché la
giurisprudenza, qualificandolo come un qualsiasi debitore di una determinata prestazione, gli impone – in base al disposto dell’art. 1218 cc – di provare che l’ina-
2. La responsabilità professionale
93
dempimento contestatogli (ad esempio, diagnosi errata) ovvero l’inesatto adempimento (ad esempio, diagnosi tardivamente posta pur in presenza di una evidenza
clinica) «è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non
imputabile» al fine di evitare di essere condannato a risarcire i conseguenti danni.
In questo modo la Suprema Corte ha messo anche in crisi la tradizionale,
tralatizia distinzione tra le obbligazioni di mezzi – proprie dei professionisti
secondo il vecchio orientamento – e le obbligazioni di risultato, rilevando che
«anche nelle cd. obbligazioni di mezzi lo sforzo diligente del debitore è in ogni caso rivolto
al perseguimento del risultato dovuto» (così Cass. sent. n. 8826/07). Il sanitario,
quindi, deve tenere un comportamento diligente, diretto a perseguire il risultato che intende raggiungere il paziente che si è a lui rivolto per la cura di una
malattia, informando preventivamente e nel corso della relazione l’assistito
delle difficoltà che il suo caso presenta nel raggiungerlo. Tant’è che, proprio i
doveri di informazione e di avviso, definiti accessori, ma integrativi rispetto all’obbligo primario di cura e di tutela dell’interesse del paziente, hanno contribuito,
secondo la sentenza n. 16394/10 della Cassazione, «ad operare quasi una sorta di
metamorfosi dell’obbligazione di mezzi in quella di risultato».
È evidente, peraltro, che non un qualsiasi inadempimento alle proprie
obbligazioni rileva ai fini della responsabilità civile del medico, ma solo quello
qualificato, cioè astrattamente idoneo a causare il danno lamentato.
L’accertamento del nesso di causalità in sede civile, peraltro, deve essere
effettuato, secondo la giurisprudenza, seguendo principi di diritto diversi da
quelli che è tenuto a seguire il giudice nel processo penale dove non è in gioco
solo il patrimonio dell’imputato, ma anche la sua libertà.
Mentre nel processo penale vige la regola della prova del nesso “oltre il
ragionevole dubbio”, in sede civile, invece, deve trovare applicazione la regola
probatoria della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non (vedi, sul
punto, Cass. S.U. civ. sent. n 576/08) che indubbiamente consente di accertare il nesso di causalità con meno difficoltà che in penale.
Ne consegue che una volta che in sede processuale civile venga accertato che
il sanitario ha omesso di espletare la sua attività professionale seguendo i prescritti
canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice potrà ritenere, in assenza
di altri fattori alternativi, che tale comportamento omissivo sia stato la causa
dell’evento lesivo che il medico avrebbe potuto evitare agendo secondo le regole
professionali, cautelari e tecniche (vedi, al riguardo, Cass. civ. sent. n. 16123/10).
94
Manuale della Professione Medica
Un maggiore onere probatorio a carico del paziente sussiste solo laddove
l’interessato lamenti di avere subito un danno alla salute per un difetto di adeguata
informazione. In questo caso, infatti, la giurisprudenza più recente pone a carico
del paziente l’onere di dimostrare che se avesse ricevuto l’informazione omessa
(ad esempio, in relazione ad uno dei rischi collaterali iatrogeni di un intervento
chirurgico) non si sarebbe sottoposto alla terapia in questione (vedi, al riguardo,
Cass. sent. n. 2487/10). Si tratta, invero, di dimostrare, da parte del paziente,
che, qualora adeguatamente informato, avrebbe effettuato, in base a criteri soggettivi personali, una scelta diversa da quella effettivamente compiuta di accettazione dell’intervento proposto dal sanitario. Se il paziente non è in grado di
fornire questa prova viene a mancare il nesso di causalità tra la condotta incriminata e l’evento verificatosi perché l’interessato anche se avesse ricevuto l’informazione ingiustamente omessa si sarebbe comunque sottoposto all’intervento.
Le considerazioni che precedono in relazione all’accertamento della responsabilità civile dei sanitari dimostrano l’importanza al riguardo della regolare e
puntuale tenuta della cartella clinica ovvero dell’altra documentazione sanitaria,
inclusa la scheda personale del paziente utilizzata dal medico di medicina generale.
Solo così il medico sarà in grado di potere dimostrare, spesso a notevole
distanza di tempo, le ragioni e la correttezza tecnica del suo operato e, quindi,
che l’insuccesso diagnostico o terapeutico si è verificato nonostante abbia
agito con la prescritta diligenza professionale.
È opportuno sottolineare che la giurisprudenza della Suprema Corte ha più
volte affermato che «la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia accertata,
ove risulti provata l’idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento
ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel
quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal
fine la “vicinanza alla prova”, e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla»
(così S.U. civ. Cass. sent. n. 577/08 e di recente Cass. civ. sent. n. 10060/10).
Cenni alla responsabilità della struttura sanitaria
La struttura sanitaria (ASL, ospedale pubblico, casa di cura convenzionata,
casa di cura privata) in cui il medico o l’odontoiatra eventualmente lavora
2. La responsabilità professionale
95
assume a sua volta una responsabilità circa la corretta esecuzione della prestazione di cura eseguita dal sanitario dipendente ovvero collaboratore.
Ai fini della responsabilità civile è, quindi, irrilevante, come precisato dalla
giurisprudenza (S.U. civili Cassazione sent. n. 577/08), «che si tratti di una casa di
cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello
normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi», perché non
è possibile ritenere sussistenti limitazioni di responsabilità ovvero differenze
nei doveri di cura a seconda della natura, pubblica o privata, della struttura
essendo pur sempre in gioco il bene salute dell’interessato.
Tale responsabilità, secondo la costante giurisprudenza della Suprema
Corte è di natura contrattuale perché, di norma, il contratto di cura è direttamente stipulato dal paziente con la struttura che mette a disposizione la sua
organizzazione per l’espletamento delle prestazioni richieste dall’ammalato su
indicazione dei sanitari (vedi, tra le altre, Cass. civ., sent. n. 1698/06).
La responsabilità della struttura, peraltro, non coincide sempre con quella
del medico che eventualmente ha commesso un errore produttivo di danno
nell’esecuzione della prestazione sanitaria di sua competenza, perché le obbligazioni assunte dall’ospedale o dalla casa di cura verso il paziente con la stipula
del contratto di assistenza sanitaria ovvero di spedalità sono più ampie di quelle
proprie del professionista, suo collaboratore.
Esistono, infatti, prestazioni di stretta competenza della struttura (ad esempio, quelle alberghiere in senso lato e quelle relative alla fornitura di medicinali
ovvero alla messa a disposizione delle attrezzature necessarie per l’esecuzione
delle prestazioni da parte dei professionisti) che possono comportare, qualora
non adempiute correttamente, la responsabilità diretta ed esclusiva dell’ospedale o casa di cura nei confronti del paziente.
La giurisprudenza, nell’ambito delle prestazioni proprie della struttura, ha
evidenziato quelle relative ad una corretta organizzazione in modo da essere in
grado di far fronte puntualmente e senza colpevoli ritardi alle obbligazioni
di cura assunte con il paziente. La responsabilità per difetto di organizzazione
è stata, ad esempio, riscontrata dalla giurisprudenza nella mancata puntuale
esecuzione, nei termini previsti dalle linee-guida, dell’ecografia prescritta ad
una donna gravida (vedi, sul punto, Cass. sent. n. 13/10 già citata).
La struttura risponde, inoltre, anche per il fatto del proprio medico o infermiere dipendente ovvero collaboratore (anche se chiamato ad operare nella casa
96
Manuale della Professione Medica
di cura perché di fiducia del paziente), in base al disposto dell’art. 1228 del Codice
civile che stabilisce, in linea generale e salvo patto contrario, che se il debitore
della prestazione convenuta nel contratto, nel nostro caso di assistenza sanitaria,
si avvale dell’opera di terzi soggetti, «risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro».
Nel caso in cui venga ipotizzato un errore medico produttivo di danno
per il paziente, quest’ultimo potrà convenire in giudizio sia la struttura che il
professionista che lo ha curato al fine di ottenere il ristoro dei danni patiti. Il
giudice, riscontrata la fondatezza della domanda di risarcimento danni avanzata
dal paziente o dai suoi eredi, emanerà una condanna al pagamento delle somme
liquidate a tale titolo a carico, in via solidale, sia della struttura che del medico.
L’art. 2055, primo comma, del Codice civile dispone, infatti, che «se il
fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento
del danno», salvo il diritto di regresso come disciplinato in linea generale dal
secondo comma della norma in oggetto.
Se, invece, il sanitario ha svolto la sua attività come libero professionista al
di fuori della struttura ovvero in via autonoma, come accade per i medici di
medicina generale o i pediatri di libera scelta, non è ipotizzabile una responsabilità concorsuale dell’ospedale ovvero dell’ASL (vedi, sul punto, Cass.
penale sent. n. 36502/08 e n. 34460/03 che hanno escluso la possibilità
per il paziente di esercitare l’azione civile nel processo penale nei confronti
dell’ASL con la quale il medico di base imputato era convenzionato, sul presupposto che il relativo rapporto non è di impiego pubblico, ma di collaborazione coordinata e continuativa, e che l’ASL non può interferire con l’attività
autonoma professionale del medico di medicina generale o del pediatra convenzionato).
Cenni alle problematiche assicurative in campo sanitario
La problematica della responsabilità civile dei sanitari e l’obbligo di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio professionale impongono un cenno
alle questioni inerenti l’opportunità o meno – per i medici e gli odontoiatri – di
procedere in via autonoma alla stipula di adeguate forme di assicurazione contro
la propria responsabilità civile in modo da tutelare il proprio patrimonio da eventuali aggressioni da parte di terzi insoddisfatti delle prestazioni di cura ricevute.
L’opportunità sussiste certamente per coloro che esercitano in proprio un’at-
2. La responsabilità professionale
97
tività libero professionale (come, ad esempio, gli odontoiatri e medici di medicina generale) che non godono di alcuna certa copertura assicurativa stipulata
da soggetti terzi come, invece, di norma avviene per i medici dipendenti delle
strutture sanitarie afferenti al Servizio Sanitario Nazionale. Per questi ultimi,
infatti, è previsto, di norma, dai rispettivi contratti che l’ASL ovvero la struttura
convenzionata stipulino una polizza che copra anche i danni dei loro collaboratori e dipendenti, senza, peraltro, coprire la responsabilità per dolo o colpa grave.
Appare opportuno, quindi, che anche i dipendenti e collaboratori delle
strutture appartenenti al Servizio Sanitario Nazionale stipulino quantomeno
una polizza integrativa di quella eventualmente contratta dall’ospedale o dalla
casa di cura per assicurare i rischi non ricompresi nella polizza aziendale e per
evitare di essere poi soggetti ad una azione di regresso – della struttura ovvero
della compagnia di assicurazione – diretta ad ottenere il rimborso di quanto
eventualmente pagato per un rischio non coperto o non totalmente coperto.
Va, infatti, ricordato che le polizze più recenti prevedono, di norma, delle
franchige (che escludono la copertura per eventi che implicano un risarcimento
al di sotto di un determinato importo minimo ovvero per la quota parte, inferiore alla franchigia, di eventi di entità maggiore) oltre che dei massimali (che
escludono la copertura per somme che eccedono l’importo indicato come
massimale).
Tutti i medici che sono interessati a stipulare una polizza – in particolare quelli che esercitano la libera professione – devono poi porre attenzione
all’oggetto dell’attività assicurata che deve corrispondere a quella effettivamente
svolta onde evitare che la compagnia eccepisca validamente che l’evento accaduto non rientri tra quelli coperti dal contratto e al massimale assicurato onde
evitare che non sia congruo rispetto ai rischi inerenti al lavoro svolto (un
chirurgo svolge, di norma, un’attività più rischiosa di quella di un internista
ovvero un medico di medicina generale).
Le nuove polizze – a differenza di quelle meno recenti – di norma contengono, infine, la clausola claims made che indica che la polizza copre solo i
rischi denunziati dall’assicurato durante il periodo di vigenza del contratto, con
conseguente opportunità di stipulare polizze che non lascino i sanitari scoperti
quantomeno per un congruo tempo anche successivo alla cessazione della loro
attività professionale. Le denunzie per malpratica dei pazienti, infatti, possono
pervenire anche a distanza di tempo dalla cessazione, per pensionamento o
98
Manuale della Professione Medica
altro, dell’attività dei sanitari e non sempre è facile sostenere validamente che
è maturata la prescrizione (decennale per l’azione civile contrattuale) del loro
diritto ad essere risarciti.
La responsabilità davanti alla Corte dei Conti per “danno
erariale”
Introduzione
La responsabilità per danno erariale riguarda, per quel che interessa in questa
sede, i sanitari che sono legati alle ASL e agli ospedali da un rapporto di impiego
ovvero di servizio che, con dolo o colpa grave, abbiano cagionato a questi enti
un danno con il loro comportamento (vedi, al riguardo, art. 52 RD 1214/34, art.
1 legge n. 20/1994 e art. 3 DL n. 543/96, convertito in legge n. 639/96).
L’azione per l’accertamento dell’esistenza del danno erariale e per la sua
quantificazione viene esercitata dalla Procura della Corte dei Conti innanzi
alla sezione giurisdizionale regionale della Corte predetta competente per territorio, su segnalazione – obbligatoria per legge – ex art. 53 RD 1214/34, dei
responsabili dell’ASL o dell’ospedale.
L’azione in oggetto si prescrive in cinque anni dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso; tale momento, per le azioni di rivalsa per danni conseguenti
a condotte gravemente colpose che abbiano comportato la condanna dell’ASL
al pagamento di somme di denaro in favore del paziente, si identifica con il
momento in cui l’ente ha effettuato il relativo esborso.
La casistica giurisprudenziale relativa alle ipotesi di danno erariale si arricchisce sempre di più di nuove fattispecie, stante l’attento controllo esercitato sulla
finanza pubblica e sulle modalità con le quali viene amministrata la spesa inerente
ad attività di pubblico interesse, come quelle svolte dalle Asl e dagli ospedali.
La materia del contendere – oltre alla sopra citata rivalsa per condotte gravemente imperite, negligenti o imprudenti dei medici che hanno comportato
esborsi, in favore dei pazienti danneggiati, a carico delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale in seguito, di norma, all’accertamento della loro responsabilità in
sede civile o penale – ha riguardato anche emolumenti o indennità ingiustamente
percepite dai sanitari in difetto dei presupposti di legge (ad esempio, indennità di
esclusività del rapporto per i medici ospedalieri o indennità di informatica per i
medici di medicina generale) ovvero il fenomeno della cosiddetta iperprescrizione di
medicinali con il ricettario regionale da parte dei sanitari convenzionati.
2. La responsabilità professionale
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Oltre queste fattispecie si deve sottolineare che sempre più spesso l’azione
della Procura della Corte dei Conti è diretta anche ad ottenere la condanna del
medico convenuto al risarcimento del danno all’immagine del Servizio Sanitario Nazionale (o dell’Università) provocato dal comportamento del sanitario
tenuto in contrasto con le disposizioni di legge e con quelle che regolano il
servizio cui è adibito (vedi, sul punto, Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per il Veneto, sent. n. 322/09, e sezione giurisdizionale per la Lombardia, sent. n. 298/09, e, da ultimo, terza sezione Centrale d’Appello, sent. n.
564/10 relativa ad un concorso pubblico di ammissione ad una scuola di specializzazione nel quale era stato favorito un candidato).
Il concetto di dolo o colpa grave rilevante nel danno erariale
Occorre meglio definire il concetto di dolo o colpa grave, stante la sua rilevanza
ai fini dell’accertamento della responsabilità del medico per avere procurato un
danno erariale all’ente dal quale dipende o con il quale ha un rapporto di servizio.
La giurisprudenza, in una ipotesi relativa alla percezione indebita dell’indennità di esclusività da parte di un medico dirigente di una struttura dipartimentale che aveva lavorato anche in strutture private, ne ha delineato il concetto affermando che «l’elemento psicologico della colpa raggiunge la rilevanza della
gravità in presenza di comportamenti omissivi connotati dalla consapevolezza, equiparabile
alla colpevole ignoranza, della necessità di agire per eliminare o far cessare la situazione
generatrice del danno» (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, terza sezione Centrale
d’Appello, sent. n. 520/10).
In un’altra fattispecie, relativa alla presunta responsabilità per danno erariale
di un medico militare per un trattamento incongruo di natura ortopedica in
favore di un assistito affetto da sospetta frattura dello scafoide tarsale, l’organo
giudicante, all’esito della CTU espletata, ha escluso l’esistenza della colpa grave
perché il comportamento diagnostico e terapeutico del sanitario non appariva
connotato «da sicura ed estrema negligenza, trascuratezza e imprudenza professionale,
né in chiara violazione degli ordinari protocolli medici» (vedi, al riguardo, Corte dei
Conti, sezione giurisdizionale per il Lazio, sent. n. 1597/10).
In un’altra fattispecie, infine, relativa, tra l’altro, a un trattamento a base
di “fluconazolo” in pillole per la cura di un’assistita affetta da “Tinea Versicolor”,
con prescrizione di dosi “pari a 5 volte quelle che la paziente avrebbe dovuto ingerire
secondo la letteratura medica”, l’organo giudicante ha ritenuto che la terapia fosse
100
Manuale della Professione Medica
frutto di una “gravemente colposa scelta di irragionevolezza prescrittiva” operata dal
medico curante (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per
la Lombardia, sent. n. 9/10).
La responsabilità a carico del medico di medicina generale
per “iperprescrizione”
Negli ultimi anni si è accentuato il controllo sulle prescrizioni effettuate dai
medici di medicina generale per verificarne la correttezza sul piano procedurale e l’appropriatezza clinica.
Le indagini, di norma, sono partite dall’uso di elementi statistici che segnalavano, per il medico interessato, il superamento di medie ponderate di spesa farmaceutica
“pro capite” nel medesimo bacino di utenza (cosiddetta iperprescrizione in senso lato).
L’uso di questo criterio, senza ulteriori elementi di prova, non è stato ritenuto, di norma, dalla giurisprudenza della Corte dei Conti, sufficiente ad accertare la sussistenza di un danno erariale da iperprescrizione.
Questo criterio, invece, è stato ritenuto, di norma, una buona base per la
verifica, caso per caso, della correttezza prescrittiva del medico indagato, la
cui discrezionalità tecnica non può divenire impunemente arbitrarietà ovvero
irragionevolezza.
Si è ritenuto sussistente il danno erariale da iperprescrizione in senso stretto solo
qualora l’indagine abbia portato, anche alla luce di eventuali CTU, ad accertare
che il medico di medicina generale, nella sua attività prescrittiva con il ricettario regionale, abbia esorbitato in casi specifici dai limiti derivanti dalla logica, dalla
ragionevolezza e dai basilari approdi della letteratura scientifica (vedi, al riguardo,
Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Lombardia, sent. n. 9/10).
Le conclusioni cui è giunta questa sentenza appaiono condivisibili perché l’attività del medico di medicina generale è connotata da fisiologici margini di apprezzamento valutativo nella diagnosi e cura delle malattie e, quindi, in quest’ambito, non
possono essere contestate, a titolo di danno erariale, scelte terapeutiche effettuate, in
maniera non irragionevole e senza grave colpa, per tenere conto della particolare situazione in cui versava l’assistito e, anche, delle sue preferenze al riguardo.
In ogni caso, nella valutazione del comportamento prescrittivo del medico,
non si può prescindere «dalla considerazione del contesto generale e particolare (persino
locale) all’interno del quale ha assunto le sue decisioni», come giustamente osservato
dalla Corte dei Conti nella citata sentenza n. 9 del 2010.
2. La responsabilità professionale
101
Nessuna attenuante può, invece, essere riconosciuta per il medico di medicina generale che effettui prescrizioni illecite perché relative a farmaci che i
pazienti beneficiari delle prescrizioni stesse hanno credibilmente dichiarato di
non avere mai richiesto, né assunto.
Si tratta, in questa ipotesi, di un’attività solo apparentemente di natura professionale in quanto diretta, attraverso un disegno criminoso, a trarre indebito
profitto da queste prescrizioni prive di qualsiasi valenza terapeutica, con conseguente danno erariale per il Servizio Sanitario Nazionale che le ha rimborsate
al farmacista, di norma, compiacente (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, terza
sezione Centrale d’Appello, sent. n. 199/08).
3
Doveri del medico e diritti del cittadino
S. Bovenga, S. Del Vecchio, S. Fucci, A. Pagni
Art. 3 - Doveri del medico
Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo
e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della
persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di
nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo
di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.
La salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizione
cioè di benessere fisico e psichico della persona.
Questo articolo del Codice deontologico pone in evidenza che il dovere
principale del medico non è solo quello di tutelare la vita e la salute, intesa
quest’ultima come benessere fisico e psichico, della persona assistita, ma anche il
sollievo dalla sofferenza, sempre nel rispetto della sua libertà e dignità.
Anche la nostra Carta Costituzionale, al primo comma dell’art. 32, sottolinea
l’importanza del bene salute nella nostra società, affermando che la Repubblica
lo tutela «come fondamentale diritto dell’individuo», nonché come «interesse della collettività», così legittimando l’attività di cura del medico, stante la sua rilevanza sociale.
Ecco perché, in qualche sentenza, si legge che la prima fonte di legittimazione dell’attività di cura si rinviene nell’art. 32 della Costituzione che, peraltro,
nel secondo comma, ribadisce che quest’attività, di norma, può essere legittimamente esercitata solo con il consenso della persona assistita, essendo del
tutto eccezionale l’ipotesi del trattamento sanitario obbligatorio per legge.
A sua volta la Corte Costituzionale ha più volte affermato che una legge
impositiva di un trattamento sanitario obbligatorio è conforme alla Costituzione solo se ha lo scopo di tutelare contemporaneamente la salute del singolo
104
Manuale della Professione Medica
e l’interesse alla salute della collettività, messo a rischio, ad esempio, dal pericolo di diffusione di una malattia infettiva.
La rilevanza sociale dell’attività di cura, quindi, non legittima di per sé una
sua imposizione coattiva da parte del medico che, come si evince dall’art. 3 del
Codice deontologico del 2006, deve agire nel rispetto della libertà e della dignità
della persona.
Il richiamo alla libertà della persona sottolinea appunto che, nella quotidiana
attività di cura, occorre coinvolgere l’assistito per effettuare, in un contesto di
auspicabile condivisione della proposta diagnostico-terapeutica del medico, i
trattamenti utili a salvaguardarne la salute e la vita.
Il richiamo alla dignità implica che il cittadino, anche se affetto da una
grave malattia, non perde la sua identità di persona che deve essere rispettata dal
curante anche se non ne condivide le scelte di vita.
La consonanza di questo articolo del Codice deontologico con la Costituzione vigente emerge anche nella sottolineatura del fatto che l’assistenza medica
deve sempre realizzarsi senza distinzioni – ad esempio, di età e di sesso ovvero di
etnia e di religione – e, quindi, senza operare ingiuste discriminazioni tra persone che
hanno tutte pari dignità e, pertanto, meritano tutte ugualmente rispetto.
Invero la nostra Carta Costituzionale, all’art. 3, primo comma, nell’affermare
che «tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»
afferma il fondamentale principio di eguaglianza che vieta ogni discriminazione.
L’importanza dell’attività medica diretta al sollievo della sofferenza – che è
posta sullo steso livello di quella diretta alla tutela della salute e della vita –
ribadisce il carattere umanitario dell’attività di cura che non si ferma anche nel
caso in cui la malattia è inguaribile e sta conducendo la persona alla fine della
sua esperienza di vita.
Anche il legislatore ordinario, con la recente legge n. 38 del 2010, ha evidenziato l’importanza della terapia diretta al trattamento del dolore proprio
perché finalizzata alla tutela della dignità, dell’autonomia e della qualità di vita
della persona affetta da una patologia dolorosa.
Occorre ricordare, infine, che i doveri del medico elencati in questo articolo del Codice deontologico devono essere adempiuti, non solo in tempo
di pace, ma anche in tempo di guerra, e, comunque, indipendentemente dalle
condizioni istituzionali e sociali in cui si trovi ad assistere e curare le persone.
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
105
Art. 4 - Libertà e indipendenza della professione
L’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della
professione che costituiscono diritti inalienabili del medico.
Il medico nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche e ispirarsi ai valori etici della professione, assumendo come principio il rispetto
della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona;
non deve soggiacere ad interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura.
Il medico deve operare al fine di salvaguardare l’autonomia professionale e
segnalare all’Ordine ogni iniziativa tendente a imporgli comportamenti non
confacenti alla deontologia professionale.
Questo articolo del Codice deontologico, al primo comma, afferma con forza
il valore della libertà e dell’indipendenza nell’esercizio della professione del medico,
tant’è che il medico deve considerare questi valori etici come diritti inalienabili sui
quali si deve fondare la sua complessiva attività, dovunque e comunque svolta.
Nel secondo comma di questa norma deontologica si riafferma l’importanza dei valori etici della professione cui deve essere ispirata l’attività svolta dai
medici, valori che impongono il rispetto della vita e della salute, nonché della
libertà e della dignità della persona assistita, ma anche la dovuta attenzione
all’evoluzione delle conoscenze scientifiche, onde evitare un eccesso ingiustificato
di soggettivismo nell’esercizio della professione.
La medicina, infatti, non è una scienza esatta – essendo connotata da elementi probabilistici che, talvolta, ne accentuano l’incertezza – ma ha elaborato
una metodologia scientifica per un approccio logico, critico e cautelare alle
diverse situazioni che non può essere completamente messa da parte da chi,
in nome della propria indipendenza, pretenda di usare come metro di giudizio
solo la propria, talvolta obsoleta, conoscenza ed esperienza, scollegata da qualsiasi riferimento scientifico e logico.
Il rispetto da parte del medico della vita e della salute della persona sono
strettamente collegati, anche in questa norma, al rispetto della libertà e della
dignità dell’individuo perché nella singola relazione di diagnosi e di cura,
accanto alla definizione sul piano scientifico del contenuto del bene salute,
occorre dare spazio anche al significato che ciascuno attribuisce a questo bene
in un determinato contesto.
106
Manuale della Professione Medica
Solo in questo modo – ascoltando, quindi, le motivazioni che spingono la
persona malata a chiedere di essere assistita – sarà possibile creare una relazione che porti ad una decisione condivisa perché rispettosa dell’autonomia professionale del medico, ma anche delle considerazioni personali del paziente
sul percorso di cura proposto dal sanitario, valutato positivamente perché ha
tenuto anche conto delle scelte esistenziali effettuate dall’interessato.
Il medico, quindi, nella sua attività non deve fare scelte che, per compiacere
l’assistito, contrastino con l’etica professionale, ma, nell’effettuare le sue corrette proposte di diagnosi e cura, deve tenere anche conto del vissuto soggettivo della malattia, come emerge dalla narrazione della persona malata, e degli
scopi leciti che il cliente vuole ottenere con l’ausilio delle competenze, tecniche
e umane, del sanitario.
Indipendenza ed autonomia di giudizio, che caratterizzano le professioni
intellettuali come quella medica, comportano, peraltro, anche dei profili di
responsabilità per le scelte di cura, incongrue ovvero errate, effettuate. L’esercizio indipendente e autonomo della professione non può, quindi, essere
disgiunto dall’utilizzo della necessaria prudenza, attenzione e perizia e anche
dal rifiuto di condizionamenti esterni, impropri perché si riflettono negativamente sulla capacità di giudizio del curante, sviandola dal suo scopo primario
e cioè dalla tutela del benessere della persona assistita.
Ecco perché, nella parte finale del secondo comma di questa norma, si afferma
che il medico «non deve soggiacere ad interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura».
Aggiunge questo articolo, nel suo terzo e ultimo comma, che il medico,
qualora si trovi ad affrontare situazioni e iniziative di qualsiasi genere dirette ad
imporre comportamenti in contrasto con le regole deontologiche – perché, ad
esempio, lo sollecitano ad effettuare in tempi troppo ravvicinati le visite programmate, non consentendogli in tal modo di svolgere con il dovuto scrupolo
la sua attività di diagnosi e cura – deve in prima persona cercare di salvaguardare la sua autonomia professionale e, nel contempo, segnalare al competente
Ordine provinciale i fatti che possono incidere negativamente sulla stessa.
Indipendenza ed autonomia nell’esercizio della professione
all’interno delle strutture sanitarie o in convenzione
Non solo nella libera professione, ma anche all’interno degli ospedali e
delle altre strutture sanitarie complesse, così come nella collaborazione in con-
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
107
venzione al Servizio Sanitario, deve essere assicurato l’esercizio indipendente
dell’attività professionale.
In questi casi, evidentemente, vanno rispettati i vincoli che nascono dal
rapporto di impiego o dal contratto di collaborazione intercorso con la struttura ovvero dalla convenzione stipulata con il Servizio Sanitario Nazionale e
Regionale, ma deve rimanere integra la capacità di svolgere l’attività professionale nel rispetto dei principi e delle regole deontologiche che non possono
essere trascurate perché dirette anche a salvaguardare l’esercizio autonomo e
indipendente della medicina.
Il medico, infatti, anche quando sottoposto a vincoli che ne regolano i
turni e l’orario di lavoro, rimane pur sempre un prestatore d’opera di natura
professionale che, quindi, deve potere svolgere la sua attività in modo non
impiegatizio. Deve, pertanto, essere comunque rispettata la sua autonomia e
indipendenza di giudizio nella relazione di cura che deve restare connotata
dagli aspetti culturali, scientifici e umani che la contraddistinguono.
Anche per questo la giurisprudenza ritiene che il medico, che lavora in
una posizione subordinata rispetto a quella del dirigente della struttura o del
reparto, deve rispondere in via concorrente delle scelte di cura incongrue effettuate dal sanitario in posizione apicale se, qualora in disaccordo, non se ne sia
dissociato manifestando il suo dissenso nel corso dell’assistenza prestata ad
una persona ivi ricoverata e affidata anche alle sue cure.
La posizione del medico in posizione subordinata non è, infatti, quella del
mero esecutore di ordini provenienti dal dirigente apicale, ma un suo collaboratore professionale e, quindi, deve rimanere integra la sua capacità di dare giudizi
diagnostici e terapeutici indipendenti e autonomi anche da quelli del sanitario
che riveste una posizione funzionale superiore.
La particolare natura dell’attività medica, diretta alla salvaguardia della salute
del paziente, consente, infine, secondo la giurisprudenza, anche l’espressione
di un giudizio critico sull’operato di un collega, sempre che sia manifestato in
termini corretti, misurati e connotati da obiettività rispetto al fatto giudicato.
Anche un giudizio critico, soprattutto se espresso nel corso di un consulto
o di una richiesta di un secondo parere, può rappresentare, infatti, una manifestazione di libertà e di indipendenza nell’esercizio della professione medica.
L’importante, per evitare spiacevoli conseguenze sul piano disciplinare,
civile o penale, rispettare il principio di verità, in base al quale il comportamento
108
Manuale della Professione Medica
di cura oggetto di critica deve essere realmente accaduto, e il principio di continenza, che presuppone l’uso di espressioni attinenti al fatto e misurate nel loro
contenuto.
Art. 7 - Limiti dell’attività professionale
In nessun caso il medico deve abusare del suo status professionale. Il medico
che riveste cariche pubbliche non può avvalersene a scopo di vantaggio
professionale.
L’articolo richiama e rafforza il precedente art. 4 sui limiti dell’indipendenza e della libertà professionale e ricorda al medico che in nessun caso l’esercizio della professione deve degenerare in arbitrio e abuso e che la tutela dei
diritti del professionista viene meno ove questi trascuri i suoi doveri violando
i diritti delle persone di cui si prende cura.
Ancora più grave mancanza deontologica, oltre a configurarsi come
un’eventuale ipotesi di reato, si ha nel caso in cui il medico tragga un indebito
vantaggio dalla posizione che occupa nelle istituzioni pubbliche e/o abusi del
potere derivante dalla sua carica.
Art. 20 - Rispetto dei diritti del cittadino
Il medico nel rapporto con il cittadino deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona.
Questo articolo apre la sezione del Codice deontologico dedicata alle
regole generali di comportamento nei rapporti con il cittadino.
La parola cittadino che già nella precedente versione del 1998 del Codice
deontologico aveva sostituito quella di paziente identifica un soggetto che, seppure non ha le competenze tecniche del medico, si pone su un piano paritario
nella relazione con il sanitario in quanto titolare di una posizione giuridica che
deve essere rispettata dal curante.
Il medico, in base a quanto disposto in questa norma deontologica, deve
agire nel corso della sua attività professionale nel rispetto dei diritti fondamentali
della persona.
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
109
Quali siano questi diritti fondamentali non viene specificato e, quindi, compete
all’interprete cercare di delinearne in linea generale il contenuto, tenendo presente
che alcuni di questi diritti, come ad esempio quelli inerenti l’informazione e il consenso, trovano una loro specificazione già nei successivi articoli del titolo terzo del
codici mentre altri, ad esempio quelli inerenti la tutela del segreto professionale e
della riservatezza dei dati personali, sono stati indicati nel titolo secondo.
In linea generale si può affermare che rientrano certamente nei diritti fondamentali tutti quei diritti di libertà inerenti la persona indicati nella nostra Costituzione che, tra l’altro, nell’art. 32, indica specificamente la salute come «fondamentale diritto dell’individuo».
Tra questi diritti deve essere ricordato, visto il carattere di società multiculturale con diverse identità religiose che sta assumendo la nostra società, anche
quello sancito dall’art. 19 che stabilisce il diritto di ciascuno di «professare la
propria fede religiosa in qualsiasi forma».
Tra i diritti fondamentali di ogni persona devono altresì ritenersi compresi
quelli indicati nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali del 1950, ratificata dall’Italia nel 1955, tra cui vanno ricordati
i diritti alla vita, alla libertà e alla sicurezza, al rispetto della propria vita privata e
familiare, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione che devono essere
garantiti senza alcuna distinzione e, quindi, senza discriminazioni di alcun genere.
Alla Convenzione ha aderito l’Unione Europea con il recente trattato di
Lisbona e l’interpretazione fornita dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
di Strasburgo degli artt. 8 e 14 di questa Convenzione, in tema di rispetto della
vita privata e familiare e sul divieto di discriminazione, è stata posta dal Tribunale di Firenze alla base dell’eccezione di incostituzionalità della nostra legge
sulla procreazione medicalmente assistita (n. 40/04) laddove contiene il divieto
della fecondazione eterologa, sollevata con ordinanza depositata il 6/9/10.
Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 contiene
degli utili riferimenti per l’individuazione dei diritti fondamentali, tra cui vengono
indicati, tra l’altro, il diritto alla «propria integrità fisica e psichica» e, nell’ambito della
medicina, il diritto dell’assistito correlato al dovere dei curanti di rispettare «il
consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità stabilite dalla legge».
La Carta in questione si apre con l’affermazione, all’art. 1, dell’inviolabilità della
dignità umana, dignità che deve essere sempre rispettata e tutelata e che costituisce
indubbiamente il presupposto di ogni diritto fondamentale della persona.
110
Manuale della Professione Medica
Un cenno, infine, merita per la sua specificità la Convenzione sui diritti
dell’uomo e la biomedicina del 1996, ratificata dall’Italia nel 2001, che, tra
l’altro, afferma, all’art. 2, che «l’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere
sul solo interesse della società e della scienza», all’art. 5 che, in linea generale, «un
trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato
il proprio consenso libero e consapevole», e che sottolinea, all’art. 9, l’importanza
delle volontà espresse in via anticipata dal paziente rispetto alle cure future
e, all’art. 10, il diritto di ogni persona «di essere a conoscenza di ogni dato raccolto
sulla propria salute».
Art. 28 - Fiducia del cittadino
Qualora abbia avuto prova di sfiducia da parte della persona assistita o dei
suoi legali rappresentanti, se minore o incapace, il medico può rinunciare
all’ulteriore trattamento, purché ne dia tempestivo avviso; deve, comunque,
prestare la sua opera sino alla sostituzione con altro collega, cui competono
le informazioni e la documentazione utili alla prosecuzione delle cure, previo
consenso scritto dell’interessato.
La fiducia è un elemento essenziale nella relazione medico-paziente che
deve essere presente non solo all’atto iniziale del rapporto, ma anche nel corso
del suo svolgimento.
È importante che via sia fiducia perché altrimenti il paziente rischia di non
trarre dall’assistenza i possibili benefici, essendo sorti in lui dubbi sulla capacità
professionale del medico e, quindi, anche sull’utilità delle cure prestate.
Ma la fiducia deve essere reciproca, perché anche il medico deve potere contare sulla leale collaborazione del paziente nel perseguimento degli scopi delle
cure proposte o in corso di esecuzione.
In sostanza, nella relazione di cura si incontrano due persone (medico e
assistito) che devono avere reciproca fiducia per potere raggiungere l’obiettivo
comune costituito dalla salvaguardia della salute del cittadino.
In un rapporto basato su trasparenza e lealtà, il paziente dovrebbe potere
liberamente manifestare al medico i propri dubbi e le proprie incertezze e
discuterne con il curante al fine di ristabilire il rapporto fiduciario incrinato
ovvero di risolverlo.
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
111
Se questo non avviene, l’iniziativa può essere presa dal medico che si senta
sfiduciato da atteggiamenti del cittadino incompatibili con il proseguimento di
una proficua collaborazione di cura nel reciproco rispetto.
La norma deontologica in commento è diretta a disciplinare la questione
fornendo al medico le necessarie indicazioni comportamentali da utilizzare
qualora decida di interrompere il rapporto, perché ha avuto prova di sfiducia da
parte dell’assistito ovvero del legale rappresentante della persona, minore o
incapace, che ha in cura.
Il medico che si trovi in una di queste situazioni deve dare tempestivo avviso,
cioè comunicare all’interessato o al suo rappresentante la sua decisione di non
continuare oltre nell’assistenza.
La funzione di questa comunicazione è quella consentire all’interessato di
procedere alla scelta di un altro medico, cui poi il sanitario rinunciante fornirà
tutte le notizie utili alla prosecuzione delle cure, inclusa la relativa documentazione in suo possesso, previo consenso scritto del paziente per evitare di
incorrere in violazioni della normativa sul trattamento dei dati personali.
Il medico deve comunque continuare a prestare la propria opera sino alla
sua sostituzione con altro collega per evitare rischi per la salute dell’interessato.
La convenzione che disciplina lo svolgimento dell’attività del medico
di medicina generale, che viene liberamente scelto dal paziente nell’ambito
di quelli disponibili in un determinato contesto territoriale, contiene una
norma specifica per l’esercizio di quella che viene chiamata revoca e ricusazione
della scelta.
Il cittadino può revocare la scelta liberamente fatta in precedenza, dandone
comunicazione all’Azienda e effettuando una nuova scelta del sanitario di fiducia.
Il medico, a sua volta, ove intenda non proseguire nella sua opera di assistenza, deve ricusare il paziente, dandone comunicazione all’Azienda e motivando quest’atto sulla base di eccezionali ed accertati motivi di incompatibilità, tra i
quali assume particolare importanza la turbativa del rapporto di fiducia; la ricusazione avrà effetto dal sedicesimo giorno successivo alla comunicazione.
La normativa inserita nella convenzione contiene anche una disciplina specifica per evitare che il cittadino rimanga privo di assistenza qualora a ricusarlo
sia l’unico medico operante in quell’ambito territoriale.
Negli ospedali e nelle strutture sanitarie complesse il cittadino, di norma,
non è messo in grado di scegliere colui che l’assisterà per le sue necessità di cura.
112
Manuale della Professione Medica
Deve ritenersi che anche in queste situazioni occorra cercare, per quanto
possibile, di salvaguardare il principio etico e deontologico della reciproca fiducia
tra curante e assistito, consentendo ad entrambi di verificarne la persistenza
nella relazione e agendo di conseguenza qualora venga a mancare.
L’importante, qualora sia il medico a ritenere che non vi siano le condizioni
per proseguire nell’assistenza, stante la sfiducia manifestata dal paziente, che
il paziente non venga mai abbandonato, ma venga altrimenti assistito onde
evitare rischi per la sua salute.
Il medico, infatti, una volta assunta la posizione di garante della salute del
cittadino assistito, deve continuare ad assisterlo fin quando un collega non
se ne faccia carico ovvero fin quando il paziente non decida di abbandonare il nosocomio assumendosi la responsabilità della scelta liberamente
effettuata.
Il rifiuto indebito delle cure che non possono essere dilazionate in quanto
vanno compiute senza ritardo, manifestato da parte di un medico del Servizio Sanitario Nazionale o Regionale, è un comportamento, infatti, che integra
quantomeno il delitto di cui all’art. 328 del Codice penale, a prescindere dalle
negative conseguenze eventualmente verificatesi sulla salute del paziente.
Art. 21 - Competenza professionale
Il medico deve garantire impegno e competenza professionale, non assumendo obblighi che non sia in condizione di soddisfare.
Egli deve affrontare nell’ambito delle specifiche responsabilità e competenze
ogni problematica con il massimo scrupolo e disponibilità, dedicandovi il
tempo necessario per una accurata valutazione dei dati oggettivi, in particolare dei dati anamnestici, avvalendosi delle procedure e degli strumenti
ritenuti essenziali e coerenti allo scopo e assicurando attenzione alla disponibilità dei presidi e delle risorse.
Già nella Roma antica, con l’organizzazione del Servizio Sanitario pubblico
istituito dall’imperatore Nerone, era prevista la figura dei protomedici (archiatri) che, riuniti in collegio, deliberavano sulla competenza professionale dei
“medici secondari”, una sorta di “medici della mutua”, eletti dalla popolazione
e stipendiati dalla pubblica amministrazione.
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
113
Il protomèdico era il pubblico funzionario preposto a coadiuvare l’attività
sanitaria dello Stato. I principali compiti del protomedico erano di valutare le
effettive capacità di coloro che chiedevano di intraprendere la professione di
medico o farmacista e di vigilare sull’attività di questi.
In Italia, la figura del protomedico sopravvive fino alla metà del XIX secolo,
quando viene cancellata dal primo governo D’Azeglio nel 1851.
Sulla base di quella legge, le funzioni formative professionali vennero assegnate alle autorità preposte alla Pubblica Istruzione, mentre le funzioni organizzative e di controllo furono demandate al Consiglio superiore di sanità,
precedentemente istituito nel 1847.
Cito queste curiosità di storia della medicina unicamente per rendere evidente da subito come il tema della competenza professionale, come del resto
anche della qualità e della sicurezza, sono da sempre connaturate ai delicati
compiti attribuiti ai medici ed agli odontoiatri.
L’articolo 21 del Codice di Deontologia medica è espressamente dedicato
alla ‘Competenza Professionale e così recita.
La competenza professionale si esplicita e si esercita in molteplici aspetti
che, in estrema sintesi, possiamo ridurre a due:
1. La competenza riferita alle attività cliniche.
2. La competenza riferita alle attività organizzativo-gestionali.
La competenza professionale riferita ai professionisti clinici comporta:
– La necessità (e obbligo deontologico) di prolungare il percorso formativo
ben oltre il conseguimento dell’abilitazione alla professione ovvero di prolungarlo per tutta la vita professionale (articolo 19 del Codice deontologico: «Aggiornamento e formazione professionale permanente»). Si noti
che il citato articolo fa esplicitamente riferimento “all’obbligo di mantenersi aggiornato in materia tecnico-scientifica, etico-deontologica e gestionale-organizzativa”.
– L’esigenza di essere sempre al corrente dei più recenti sviluppi della medicina (art 19 CD «sviluppo continuo delle conoscenze e competenze in
ragione dell’evoluzione dei progressi della scienza»); oggi l’ignoranza non è
più scusabile!
– La disponibilità a sottoporsi a forme di verifica e monitoraggio delle proprie prestazioni secondo principi di valutazione professionalmente condi-
114
Manuale della Professione Medica
visi (art 19 CD «confrontare la sua pratica professionale con i mutamenti
dell’organizzazione sanitaria e della domanda di salute dei cittadini».
Alcuni degli strumenti per raggiungere i summenzionati obiettivi sono rappresentati da:
– Educazione Continua in Medicina (ECM) intesa nel suo senso sostanziale
e non certo come un mero adempimento “burocratico”.
– Monitoraggio continuo e sistematico della propria pratica professionale
attraverso gli Audit Clinici e le Mortality & Morbility (che potremmo tradurre liberamente come “rassegne per la sicurezza”).
– Benchmarking con altri Professionisti e con altre Strutture (il cd benchmarking è un processo continuo di misurazione di prodotti, servizi e prassi
mediante il confronto con i concorrenti più forti).
La competenza professionale riferita ai professionisti gestionali (medici
delle direzioni di presidio, delle direzioni sanitarie e generali), oltre a quanto già
detto per i professionisti clinici comporta:
– La pianificazione delle competenze tecnico-professionali necessarie a garantire il corretto svolgimento dei percorsi clinico-assistenziali.
– La valutazione del livello di competenze possedute dal personale.
– La pianificazione della formazione e l’addestramento per l’adeguamento e
la “manutenzione” delle competenze.
– La valutazione dell’efficacia delle azioni intraprese.
Alcuni degli strumenti per raggiungere i summenzionati obiettivi sono rappresentati da:
– Piano della formazione/addestramento finalizzato a sviluppare ed
aggiornare le competenze in rapporto ai reali bisogni formativi ed alla
domanda di salute.
– La “garanzia” della formazione e dell’addestramento permanente del personale sanitario.
– La verifica, attraverso indicatori predefiniti, del raggiungimento degli obiettivi formativi.
Ci sono perlomeno altri tre temi strategici sui quali lavorare e che sono
legati in qualche modo alla competenza professionale in tutti i suoi aspetti
(clinici e gestionali):
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
115
– Gli aspetti etici dell’ECM e del conflitto di interesse.
– La relazione fra ricerca e qualità (la ricerca sanitaria finalizzata per essere
efficace e produttiva, ossia in grado di tradurre rapidamente i risultati in
azioni migliorative per le attività di prevenzione, cura, riabilitazione e assistenza, deve essere caratterizzata dalla pervasività, dalla capacità cioè, di
operare trasversalmente nei servizi sanitari attraverso il coinvolgimento del
maggior numero di professionisti, nella logica di migliorare le competenze
a beneficio della popolazione curata).
– Etica dell’errore: “Errando discitur” – imparare dagli errori: l’attitudine critica in medicina e il fabbisogno di una nuova etica. Imparare soltanto dai
propri errori sarebbe un processo lento e doloroso ed inutilmente costoso
per i propri pazienti. Le esperienze devono essere condivise in modo da
poter imparare dagli errori altrui. Questo richiede umiltà nell’ammettere
di aver sbagliato e nel discutere i fattori che hanno influenzato l’errore.
Richiede un atteggiamento critico nei confronti del proprio lavoro e di
quello degli altri… L’esperienza generi apprendimento…
Alla luce di quanto detto, gli articoli 19 e 21 del CD vanno letti ed interpretati come espressione del massimo rispetto dei diritti del cittadino da parte
del medico. Infatti nell’articolo 21 viene chiaramente enunciato l’obbligo del
medico di garantire il massimo impegno e il massimo scrupolo in tutti i suoi
rapporti professionali con il cittadino. Nel primo comma dell’articolo è stato
anche inserito il principio che il medico non deve assumersi obblighi che non
sia in condizione di soddisfare. Evidentemente questa affermazione si riferisce
alle obbligazioni di risultato essendo pacifico che il medico utilizzerà (deve utilizzare) tutti i mezzi a sua disposizione per garantire la qualità della prestazione.
Viene anche enunciata chiaramente la necessità di un rapporto stretto con il
cittadino attraverso l’approfondito colloquio e la necessità dell’utilizzazione
di tutto il tempo necessario per garantire i risultati attesi (e di questo aspetto
i medici con profilo “gestionale” non possono non tenere conto nella pianificazione delle attività dei Colleghi clinici). Gli articoli 21 e 19 del CD (come
del resto molti altri articoli del Codice di Deontologia medica) si possono
anche considerare come un interessante esempio di trasposizione in termini
deontologici di obblighi giuridici. Il primo comma dell’articolo 21 (ed in un
certo senso anche dell’articolo 19), laddove sancisce il dovere del medico di
116
Manuale della Professione Medica
«garantire al paziente impegno e competenza professionale», opera infatti in
termini sintetici ed efficaci una individuazione del modello comportamentale
in grado di evitare al medico ciò che in campo giuridico è la responsabilità per
colpa professionale che, come è noto, può derivare da negligenza, imperizia o
imprudenza.
La cultura tecnica evidentemente ha prodotto molte specializzazioni e
così facendo ha favorito l’incremento degli standard di benessere dell’uomo
malato, ma ne ha sovente frantumato l’identità e quindi i legami e le alleanze
affettive e cognitive tra chi cura e chi è curato. Da un paio di decenni la sanità
è sollecitata da un grande processo di cambiamento, determinato dall’impatto
delle nuove tecnologie mediche e dall’introduzione di nuovi criteri di gestione,
responsabilità ed economicità.
È ora necessaria una nuova formulazione culturale del ruolo del medico,
che consideri le sue competenze tecnico-specialistiche non il fine dell’azione
professionale, ma il mezzo per il benessere biologico e psicologico della persona. Le strutture ed i servizi sanitari non devono essere organizzati solo per
rispondere alle esigenze professionali di chi lavora, ma per soddisfare le aspettative delle persone per le quali lavorano.
L’umanizzazione della sanità non consiste pertanto in una riduttiva idea di
marketing relazionale, favorita per esempio dalle attività di customer satisfaction,
ma da un profondo riesame del rapporto tra etica, competenza, partecipazione
e responsabilità del risultato finale.
Art. 6 - Qualità professionale e gestionale
Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse.
Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure.
«La Qualità non è facilmente definibile ma è immediatamente percepibile»,
questo perché come è difficile definirla così è facile percepirla nel clima, nei
comportamenti, nelle voci, nei volti, negli occhi, nell’ordine, nella risposta,
nella disponibilità di chi lavora. La qualità non è infatti casuale ma è il risul-
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
117
tato di una precisa volontà organizzativa e di una gestione attenta. La qualità
gestionale non garantisce soltanto la qualità dei servizi erogati agli utenti, ma si
occupa di tutto il funzionamento del sistema erogatore. Una gestione che offre
solamente dei buoni servizi, ma tralascia l’economicità dell’azienda, l’efficienza
e la sostenibilità a lungo termine non è una gestione di qualità. Il Codice di Deontologia medica tratta l’argomento nell’articolo 6, in modo
tanto conciso quanto efficace.
Qualità gestionale
È rivolta al perseguimento, a tutti i livelli e con il coinvolgimento di tutti, del
miglioramento continuo della qualità tecnica e professionale dei servizi erogati,
per raggiungere il migliore soddisfacimento delle aspettative dell’utenza.
In tal senso le priorità gestionali individuate sono legate alle tre dimensioni
della qualità condivise dalla comunità scientifica ed istituzionale in ambito sanitario:
1. qualità come percepita dall’utente, intesa come “qualità del servizio”, collegata
al modo in cui i singoli utenti la percepiscono in relazione alle loro aspettative; si misura con indicatori legati all’affidabilità, alla capacità di rassicurazione, alla tempestività ed accessibilità del servizio ed ai tempi di attesa;
2. qualità tecnico-professionale, correlata alla correttezza tecnica e all’appropriatezza delle prestazioni; si misura con indicatori di sistema, processo ed
esito legati all’autovalutazione;
3. qualità organizzativa, riferita al razionale utilizzo delle risorse interne sia nei
processi sanitari primari, sia nei processi di supporto; si misura con indicatori di processo e indicatori legati al raggiungimento degli obiettivi di
budget.
Metodologie e strumenti. Il carattere multidimensionale della qualità rende
conto della pluralità di metodologie sino ad oggi proposte per la sua gestione
(Accreditamento istituzionale, Certificazione ISO 9001, Accreditamento professionale, EFQM, ecc.); il Sistema Qualità può essere sviluppato utilizzandole
indifferentemente in relazione agli obiettivi che si vogliono privilegiare.
Questo vuol dire che un arroccamento in difesa di questo o quel modello, di
questo o quello strumento potrebbe lasciare il tempo che trova se lascia spazio
alla finalità rispetto al metodo. Come dire… qualunque percorso e/o metodo può
essere valido se l’obiettivo che si prefigge è quello di un miglioramento misurabile.
118
Manuale della Professione Medica
Infatti tutti i sistemi di qualità “maturi” si assomigliano e richiedono:
1. Approccio sistemico (sistema di gestione della qualità).
2. Decisioni basate su dati di fatto (un sistema informativo efficiente ed efficace).
3. Miglioramento continuo come obiettivo permanente dell’organizzazione
(radicato e sistematico, non occasionale)… e quindi dei professionisti…
4. Utilizzare al meglio le risorse disponibili.
Approccio
sistemico (sistema di gestione della qualità)
Cosa vuol dire approccio sistemico?
«Un sistema è un insieme di elementi che interagiscono per un unico fine».
Un SISTEMA non è una semplice collezione di elementi.
Facciamo un esempio: quando motore, carburante, ali, fusoliera, carrello
e così via vengono messi insieme nel modo giusto, il complesso diventa un
aeroplano capace di volare; ma nessuna delle sue parti, da sola, è in grado di
farlo. L’aereo che vola è un sistema. A pensarci solo un attimo nella moderna
sanità accade la stessa cosa.
Sistema qualità: insieme di tutti gli elementi che in una organizzazione
interagiscono per garantire la qualità (in una ASL: formazione, ingegneria clinica, controllo di gestione, ecc., UU.OO. cliniche, UU.OO. diagnostiche, ecc.).
Ma anche la medicina di famiglia o la pediatria o la specialistica ambulatoriale
ecc. interagiscono con le altre parti del sistema sanitario.
Un sistema di gestione della qualità deve essere in grado di governare e
monitorare, attraverso attività coordinate e in maniera stabile, l’insieme di tutti
questi elementi reciprocamente correlati, orientandoli verso il miglioramento
continuo della qualità.
Un altro esempio di sistema, il corpo umano: l’organismo si sviluppa e
rimane in vita grazie alla interazione fra i vari organi ed apparati. Per comprendere il funzionamento del corpo, la medicina non si limita a studiare come
sono fatti i singoli organi (anatomia), ma si interessa di come essi interagiscono
fra loro (fisiologia). Pertanto, come una malattia di un organo compromette la
salute dell’individuo, così un settore aziendale inefficiente (anche se apparentemente “lontano”) procura danni all’intera impresa. La buona salute dei cittadini
e dell’azienda è dunque una questione che riguarda tutti i settori e tutti i professionisti. Il corretto funzionamento di un sistema dipende da tutte le sue parti.
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
119
L’implementazione di un sistema di gestione della qualità richiede l’integrazione di tutti gli attori del sistema e pertanto è necessario che tutti abbiano
chiari, indipendentemente dalla specifica posizione ricoperta nel sistema, quali
siano la mission, gli obiettivi, le funzioni e le responsabilità e siano in grado di
renderne conto agli altri.
Noi medici dobbiamo ricordare di non essere “soli” e pertanto dobbiamo rendere conto (accountability delle culture anglosassoni) non solo ai “nostri” pazienti
ma anche a tutti gli altri attori che intervengono nel percorso assistenziale.
L’idea, invero un po’ ingenua, che compiere bene il proprio pezzo di attività
sia sufficiente per giungere ad un buon risultato deve essere, laddove ancora
presente, rapidamente abbandonata.
Il sistema nel suo complesso può essere paragonato, con una metafora, ad
una catena, la cui forza (in termini di efficacia, efficienza, outcome ecc.) corrisponde a quella dell’anello più debole.
Se ad esempio la radiologia o il laboratorio non rispondono nei tempi o per
la qualità dei referti alle richieste dei clinici, ciò potrebbe pregiudicare la qualità
finale dell’assistenza. Ma è anche vero che se le richieste di prestazioni diagnostiche dei clinici non sono appropriate (ad esempio per ragioni di cosiddetta
“medicina difensiva”) si crea una domanda eccessiva che induce inefficienze
nella erogazione delle prestazioni (senza contare tutte le altre criticità per la
tenuta del sistema ed omettendo, per ovvietà, le ripercussioni in alcuni casi
anche sulla salute dei pazienti).
Allo stesso modo se l’obiettivo è praticare la trombolisi a tutti i pazienti
con ictus ischemico entro sei ore, tutti i professionisti devono integrarsi per
permettere il raggiungimento di tale obiettivo (dal medico di medicina generale
al medico dell’emergenza territoriale, al medico del Dipartimento di Emergenza, al radiologo, neurologo ecc.). Chiunque non svolge adeguatamente la
sua parte nel processo comprometterà la qualità finale della prestazione e di
conseguenza la salute del paziente.
Quindi relativamente ad ogni attività e/o percorso di diagnosi e cura devono
essere esplicitati obiettivi, tipologia e volume dell’attività, responsabilità attribuite, risorse destinate, tempi di realizzazione, indicatori di verifica, ecc.
Il perché dell’approccio sistemico
«Essendo tutte le cose causanti e causate, aiutate e adiuvanti, mediate e
immediate, e tutte essendo legate da un vincolo naturale e insensibile che uni-
120
Manuale della Professione Medica
sce le più lontane e le più disparate, ritengo sia impossibile conoscere le parti
senza conoscere il tutto, così come è impossibile conoscere il tutto senza conoscere particolarmente le parti» (Pascal).
Decisioni
basate su dati di fatto (un sistema informativo efficiente ed efficace)
Dati e informazioni certe portano a decisioni ed interventi efficaci.
Sei bravo? dimostralo…!!
«Quando la valutazione dei risultati non è basata su metodi scientifici [...]
non c’è modo per distinguere un chirurgo da un geniale ciarlatano».
«Ogni ospedale dovrebbe seguire ciascun paziente abbastanza a lungo per
verificare il successo del trattamento e, in caso contrario, ricercarne le cause
per evitare fallimenti simili nel futuro (Ernest Amory Codman)».
Qualsiasi organizzazione deve avere un set di indicatori che gli permetta di
monitorare la qualità delle proprie prestazioni, individuare eventuali criticità e
prendere le decisioni giuste.
Quindi:
Responsabilizzazione: in particolare il perseguimento di una buona qualità
dell’assistenza non è un generico compito professionale del singolo operatore,
ma un impegno dei team di operatori nel loro insieme, diretta conseguenza del
quale vi è la necessità di, e la disponibilità a, sottoporsi a forme di controllo e
monitoraggio delle proprie prestazioni secondo principi di valutazione professionalmente condivisi.
Miglioramento continuo come obiettivo permanente dell’organizzazione
(radicato e sistematico, non occasionale)... e quindi dei professionisti...
MCQ (Monitoraggio Continuo della Qualità): «un insieme di attività dirette
a tenere sotto controllo e a migliorare i processi e gli esiti. Fanno parte di un
sistema di MCQ il monitoraggio di processi ed esiti importanti mediante un
sistema di indicatori, l’effettuazione di progetti di MCQ, lo sviluppo o l’adattamento e l’aggiornamento di procedure organizzative e di linee-guida professionali e la verifica della loro applicazione (Morosini e Perraro, 2001)». I medici
DEVONO monitorare il grado di implementazione delle procedure e delle
linee-guida EBM attraverso la programmazione e l’effettuazione di audit clinici
e verifiche interne. Da questo monitoraggio continuo vengono evidenziate e
121
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
trattate tutte le criticità rilevate nell’ottica del miglioramento continuo della
qualità e sicurezza.
È indispensabile ormai assumere il metodo PDCA (Plan – Do – Check –
Act) in ogni settore espressione della professione.
I processi di autovalutazione e di autoregolamentazione professionale rappresentano peraltro i concetti chiave della clinical governance.
Utilizzare
al meglio le risorse disponibili
Nei servizi sanitari, come in generale nei servizi alla persona, le risorse più
importanti sono rappresentate dalle risorse umane, quindi utilizzare le risorse
umane per le loro qualità umane: tutti i professionisti possono e devono essere
coinvolti non dando niente per scontato:
–
–
–
–
informazione e comunicazione continua e aperta;
formazione ed addestramento adeguati;
politica dei riconoscimenti (sistema incentivante);
valutazione clima interno.
«…il segreto del successo sta nella responsabilizzazione di tutto il personale chiamato
a mettere al servizio dell’azienda non solo la “mano d’opera” ma anche il proprio
“cervello” e il proprio “cuore”… »
Tratto da Verso la Qualità di Andrea Gardini
Nelle strutture sanitarie (ma anche nei professionisti che non operano in
strutture sanitarie) la motivazione che sostiene la maggior parte degli operatori è legata al senso del dovere, alla consapevolezza di aiutare il prossimo,
di operare con e su delle persone che sono esseri umani condizionati dalla
sofferenza e dalla paura. Questi valori devono essere sostenuti e mai messi
in discussione, perché nessun modello gestionale per la qualità potrà in alcun
modo sostituirli.
Cultura e valori da perseguire, incentivare e sostenere:
Trasparenza, Dedizione, Lealtà, Competenza, Capacità di lavorare insieme,
Altruismo altrimenti definite non technical skills.
122
Manuale della Professione Medica
Qualità professionale
Se la qualità gestionale va distinta dalla qualità percepita, cosa diversa è
per la qualità professionale che – in quanto essenza stessa della professione
– deve interessare tutti i medici e ciascun medico allo stesso tempo. Mentre
accade spesso di verificare opinioni differenti su chi debba essere preposto
alla gestione dei servizi sanitari ed in che modo, con particolare riferimento
alla figura del medico-manager, non pare esservi dubbio alcuno sulla necessità che tutte le caratteristiche che trasformano una buona prestazione in una
performance “di qualità” possano e debbano essere patrimonio di tutti i professionisti. Nel recente passato si è fatto riferimento alla necessità di creare un
ambiente organizzativo adeguato a favorire la fornitura di servizi sanitari di alta
qualità definita con il termine di clinical governance. Nel Regno Unito, laddove il concetto è nato, la clinical governance viene
definita come «il contesto in cui i servizi sanitari si rendono responsabili del
miglioramento continuo della qualità dell’assistenza e mantengono elevati
livelli di prestazioni creando un ambiente che favorisce l’espressione dell’eccellenza clinica» (liberamente tradotto da A first class service, Department of
Health, 1998).
La clinical governance si è diffusa nel Regno Unito, a cominciare dall’avvento
del governo laburista nella seconda metà degli anni ’90, come cambiamento
radicale del NHS (National Health Service). Questa emergente forma di
governo della sanità desiderava ricondurre al centro del sistema la qualità professionale dei servizi sanitari, rimasta in ombra dopo un decennio di prevalente
attenzione al controllo della spesa. La clinical governance si basa su due dimensioni fondanti: la concezione di sistema e l’integrazione delle istituzioni, delle
strutture organizzative e degli strumenti clinici e gestionali. Nasce dalla constatazione che gli approcci alla qualità di natura prettamente
manageriale non hanno avuto un grande impatto sui professionisti, mentre
quelli di natura clinica (basati sull’aderenza alle regole professionali) tendono
a respingere l’innovazione organizzativa. Il fatto che la visione manageriale
e quella clinica tenderebbero ad essere intrinsecamente differenti, ha impedito uno sviluppo armonico del concetto di qualità. La clinical governance viene
intesa come un processo di sviluppo della mentalità delle persone e dell’organizzazione, in cui management e professionalità giungono a concordare
regole e misure adeguate sulla base dell’esperienza e dei risultati dei profes-
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
123
sionisti, punto di partenza per il miglioramento. Si vedono quindi necessari
sia la gestione della qualità delle prestazioni professionali che la qualità gestionale. Una qualità prevalentemente gestionale riguardante solo l’organizzazione
si traduce in una gestione attenta ma eccessivamente burocratica e priva di
attenzione per la qualità delle prestazioni. D’altro canto una forte ed esclusiva
attenzione alla qualità delle prestazioni non supportate da una valida qualità
gestionale determina strutture attente ai comportamenti ed alle spontaneità a
tutti i costi, ma incapaci di attuare un’adeguata organizzazione. Si tratta di un
processo costante attraverso il quale i diversi interessi che tenderebbero a confliggere trovano accomodamenti (o mediazioni) e nel quale si possono avviare
virtuosi processi cooperativi.
La qualità professionale impone l’esigenza che efficacia e appropriatezza
clinica diventino parte predominante dei criteri che sono alla base delle scelte
operative e che il successivo monitoraggio, indirizzo e regolazione dei processi
assistenziali sia effettuato sulla base degli esiti a breve e lungo termine.
Art. 70 - Qualità delle prestazioni
Il medico dipendente o convenzionato deve esigere da parte della struttura in
cui opera ogni garanzia affinché le modalità del suo impegno non incidano
negativamente sulla qualità e l’equità delle prestazioni nonché sul rispetto
delle norme deontologiche. Il medico deve altresì esigere che gli ambienti
di lavoro siano decorosi e adeguatamente attrezzati nel rispetto dei requisiti
previsti dalla normativa compresi quelli di sicurezza ambientale.
Il medico non deve assumere impegni professionali che comportino eccessi
di prestazioni tali da pregiudicare la qualità della sua opera professionale e
la sicurezza del malato.
Tutti i medici pertanto hanno come mission quella di rispondere ai bisogni
di salute della popolazione fornendo cure sicure e di qualità. A tal fine devono
“routinariamente” garantire:
1. L’efficacia e l’efficienza delle prestazioni.
2. L’efficienza e l’appropriatezza organizzativa.
3. La tempestività e la continuità delle cure.
124
Manuale della Professione Medica
4. L’accessibilità e l’equità.
5. La soddisfazione degli utenti.
6. Responsabilizzazione e miglioramento continuo della qualità.
L’efficacia e l’efficienza delle prestazioni (fare solo ciò che è utile
a chi ne ha veramente bisogno)
Indirizzi generali e strumenti:
– possedere uno spirito critico sia nei confronti della propria pratica professionale, sia delle evidenze scientifiche;
– essere capaci di ricercare, valutare e applicare le migliori evidenze scientifiche (EBP core-curriculum);
– valutare sempre il profilo beneficio-rischio degli interventi sanitari;
– essere disponibili ad implementare linee-guida Evidence Based Practice (EBP)
e a tradurle in percorsi diagnostico-terapeutici condivisi (condivisione multidisciplinare ed inter-professionale, ecc.);
– capacità di monitorare continuamente e in maniera sistematica la propria
pratica professionale (ad esempio attraverso gli audit clinici e le M&M).
Appare del tutto evidente (anche se purtroppo non sempre scontato) che
quando ci sono azioni di efficacia dimostrata (prove incontrovertibili e universalmente condivise) queste devono essere adottate (ad esempio igiene delle
mani, profilassi tromboembolica, profilassi antibiotica, check list, processo di
identificazione del paziente, del sito chirurgico, del lato, ecc.). Ancora una volta
è facile dimostrare come la contravvenzione di corrette pratiche professionali
ha una ricaduta (oltre che deontologica) molto concreta in termini di responsabilità professionale (civile, penale e amministrativa).
L’efficienza e l’appropriatezza organizzativa (utilizzare al meglio
le risorse disponibili)
Indirizzi generali e strumenti:
– utilizzare al meglio le “poche” risorse disponibili, un dovere etico in un
contesto di risorse limitate (ma anche un preciso dovere deontologico
come è scritto all’art. 6 «tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse»);
– “condivisione e responsabilizzazione”: tutti i professionisti della sanità
devono rendere conto di come vengono investite ed utilizzate le risorse in
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
125
sanità. Efficienza operativa ed economica (efficienza interna): far in modo che
siano eseguiti gli interventi voluti con risparmio di risorse (tempo, denaro).
Efficienza allocativa (efficienza esterna): far in modo che siano finanziati gli
interventi più convenienti, con un rapporto efficacia/costi più elevato;
– Health care tecnology assessement: per decidere “cosa fare” (necessità di valutare
l’appropriatezza delle procedure diagnostico-terapeutiche, delle tecnologie
da utilizzare nell’assistenza e dei modelli organizzativi, con l’obiettivo di
individuare l’allocazione ottimale delle risorse disponibili);
– assicurare il percorso di cura attraverso un approccio centrato sul paziente
e sull’insieme del suo percorso assistenziale attraverso la condivisione multidisciplinare, la responsabilizzazione e la partecipazione.
Raramente, infatti, un problema di salute in una organizzazione sanitaria
è trattato da un solo professionista o da professionisti di una sola disciplina. Per lo più vi contribuiscono più professionisti della stessa disciplina,
più discipline, più categorie professionali, più unità organizzative e talvolta
anche più organizzazioni. Più aumentano la varietà e la specializzazione
dei contributi, più sono le “interfacce”, più diventa utile l’approccio per
processi per ridurre la complessità e ottimizzare l’uso delle risorse;
– monitorare continuamente e in maniera sistematica la propria pratica professionale attraverso audit organizzativi (o verifiche interne o audit di sistema).
Un tema strettamente correlato è rappresentato dalla economia sanitaria e
farmaco-economia («la salute non ha prezzo ma ha dei costi»).
«L’economia è la scienza che studia come le comunità usano le risorse
scarse per produrre beni utili e distribuirli tra i membri della comunità»
(Samuelson).
Economia sanitaria: rappresenta l’applicazione della scienza economica al
settore sanitario. Perché «le risorse limitate devono essere allocate in modo tale
da massimizzare i benefici e allo stesso tempo assicurare che i servizi sanitari
siano ripartiti in modo giusto (priorità ed equità)» (Mooney, 1996).
La farmaco-economia, branca dell’economia sanitaria, è una nuova disciplina che si occupa di valutare diversi interventi sanitari, almeno uno dei quali
di carattere farmacologico, sotto il profilo economico. Le conseguenze cliniche
(efficacia) e quelle economiche (costi) di ogni intervento sono alla base di ogni
studio di farmaco economia:
126
Manuale della Professione Medica
–
–
–
–
Analisi costo-efficacia (ACE).
Analisi costo-utilità (ACU).
Analisi costo-beneficio (ACB).
Analisi di minimizzazione dei costi (AMC).
Il fine della farmaco-economia non è (e non deve essere) quello di ridurre
la spesa sanitaria bensì di individuare la priorità dell’allocazione di risorse
scarse fra utilizzi alternativi (razionalizzare e non razionare).
La tempestività e la continuità delle cure (la risposta giusta al momento
giusto: il paziente al centro della organizzazione)
Indirizzi generali e strumenti:
– definire percorsi di cura integrati, con chiara identificazione di chi fa che
cosa, come, quando;
– garantire il raccordo tra ospedale e territorio, l’integrazione tra le varie professionalità e la continuità dei percorsi sanitari;
– prediligere l’approccio per processi;
– conoscere e rispettare le competenze, le responsabilità, gli incarichi dei colleghi;
– conoscere ed osservare norme, regole, linee-guida, codici di condotta pertinenti con la propria professione.
L’accessibilità e l’equità (garantire agli utenti un accesso equo al servizio
di cui hanno bisogno)
Questo tema è particolarmente specifico per i medici (ma non soltanto
loro) che si occupano di macro organizzazione e/o per quelli impegnati nella
proposta, programmazione e attuazione delle politiche sanitarie.
Indirizzi generali e strumenti:
– assicurare parità di trattamento, a parità di condizione del servizio prestato,
a prescindere dall’area geografica di residenza e/o dalla fascia sociale di
appartenenza del cittadino. Maggiore accesso andrebbe garantito a chi ha
più bisogno sulla base di criteri espliciti (in presenza di limitate risorse,
l’accesso deve essere maggiore per chi ha più necessità);
– programmazione sanitaria: distribuire in modo razionale sul territorio le
strutture di assistenza sanitaria al fine di garantire uguale accesso ai servizi
disponibili a fronte di uguali bisogni;
– equità nell’accesso alle informazioni. L’equità è un principio fondante del Servizio Sanitario pubblico. Vi sono evidenze che dimostrano che spesso chi è
più svantaggiato socialmente – paradossalmente – ha minore accesso ai servizi
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
127
sanitari efficaci e maggiore accesso ai servizi non efficaci e che alla base di questo fenomeno vi è spesso una differenza nella conoscenza ed informazione;
– sanità d’iniziativa: le comunità più a rischio sono anche quelle che usufruiscono di meno della gamma completa di servizi preventivi secondo la
cosiddetta “legge inversa di prevenzione”;
– garantire imparzialità, che si concretizza in un comportamento di neutralità
rispetto alle diverse tipologie di cittadini utenti, e nell’impegno ad erogare
prestazioni sanitarie evitando ingiustificate ‘discriminazioni’ nell’osservanza della pari dignità tra gli utenti.
La soddisfazione degli utenti (ascolto dell’utente)
Indirizzi generali e strumenti:
– fornire informazioni, ove disponibili, basate su prove di efficacia, in grado di
aiutare gli utenti a comprendere il percorso assistenziale e metterli in grado di
partecipare attivamente ai percorsi di diagnosi e cura (EMPOWERMENT);
– metodo story-telling: raccogliere “LE STORIE” del paziente per avere
opportunità vere di capire la percezione dell’utente;
– medicina narrativa (NBM, Narrative Based Medicine): prendersi cura della
gente tenendo conto del personale vissuto esperienziale della propria condizione umana;
– saper integrare EBM e NBM: «L’EBM riduce (non annulla) l’incertezza delle
conoscenze … la NBM facilita la relazione e la partecipazione delle Persone»;
– tener conto dell’esperienza degli utenti per costruire percorsi davvero condivisi.
World Health Organization Declaration of ALMA-ATA
International Conference on Primary Health Care 6-12 September 1978
ART. 4
Le persone hanno il diritto e il dovere di partecipare individualmente e collettivamente
alla progettazione e alla realizzazione dell’assistenza sanitaria di cui hanno bisogno
Responsabilizzazione e miglioramento continuo della qualità (valutazione,
monitoraggio e MCQ… chi si ferma è perduto!)
Indirizzi generali e strumenti:
– definire standard professionali di elevato valore tecnico (proceduralizzare
in protocolli, linee-guida, ecc., la conoscenza scientifica EBM; identificare
ed utilizzare standard riconosciuti e condivisi di best practice);
128
Manuale della Professione Medica
– documentare la qualità delle prestazioni e dei servizi erogati attraverso criteri di valutazione, indicatori e standard di riferimento appropriati. Confronto sistematico tra ciò che viene fatto (indicatore) e quanto si dovrebbe
fare (standard) attraverso audit clinici, M&M e verifiche interne;
– attuare la metodica del PDCA (Plan (pianifico), Do (faccio), Check (misuro),
Act (miglioro)…) su tutti i processi per garantire il MCQ (Miglioramento
Continuo della Qualità): stabilire un sistema di misurazione continua della
qualità a livello di processo, struttura, esito, soddisfazione dell’utenza, costi,
ecc. al fine di perseguire il circolo virtuoso del MCQ.
Una sintesi perfetta del concetto di qualità in sanità:
«Nessuna occasione, responsabilità o dovere più importante può capitare a un essere
umano che quello di diventare medico. Nella cura di chi soffre egli necessita di competenza tecnica, conoscenza scientifica e umana comprensione. Chi
è capace di usare queste doti con coraggio, umiltà e buonsenso assicurerà un servizio
senza uguali al suo occasionale compagno …
Dal medico ci si aspetta tatto, attenzione e comprensione in quanto il paziente non è una
semplice collezione di sintomi, segni, funzioni alterate, organi lesi o sensazioni disturbate. Egli
è invece un essere umano con paure e speranze che cerca sollievo, aiuto e assicurazione …
Per il medico … nulla dell’uomo è strano o ripugnante … il vero medico ha un interesse profondo per il saggio e per il pazzo, per l’orgoglioso e per l’umile, per l’eroe stoico
e per il vagabondo lamentoso: egli si prende cura della gente …».
[dalla Prefazione alla 1° edizione dell’Harrison]
Art. 14 - Sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico
Il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del
paziente e contribuire all’adeguamento dell’organizzazione sanitaria, alla prevenzione e gestione del rischio clinico anche attraverso la rilevazione, segnalazione e valutazione degli errori al fine del miglioramento della qualità delle cure.
Il medico a tal fine deve utilizzare tutti gli strumenti disponibili per comprendere le cause di un evento avverso e mettere in atto i comportamenti necessari per evitarne la ripetizione; tali strumenti costituiscono esclusiva riflessione
tecnico-professionale, riservata, volta alla identificazione dei rischi, alla correzione delle procedure e alla modifica dei comportamenti.
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
129
Basta la semplice lettura di questo articolo, introdotto per la prima volta
nell’ultima revisione del Codice di Deontologia medica del dicembre 2006,
per cogliere in tutta la sua evidenza l’importanza che, unanimemente, il Consiglio nazionale della FNOMCeO ha inteso attribuire al tema della sicurezza
delle cure traducendo in chiave moderna quel primum non nocere di ippocratica
memoria.
Fino a non molti anni or sono sembrava quasi strano parlare di sicurezza
in sanità e la cultura dell’errore era indissolubilmente legata a quella della colpa
accompagnandosi sempre a riprovazione da parte della stessa comunità professionale oltre che, ovviamente, a riprovazione sociale. Negli ultimi anni vi è
stato ed è tuttora in corso un profondo mutamento culturale rispetto al tema
dell’errore sempre più visto con occhio proattivo (ovvero cosa fare per evitare
che accada) ma anche con sguardo esperenziale positivo (ovvero quali insegnamenti è possibile trarre da quanto è accaduto).
Senza la pretesa di trattare in questa sede un argomento che per sua natura
mal si concilia con una sintesi estrema, è tuttavia possibile richiamare per spot
gli indirizzi generali e strumenti:
– promuovere la cultura della sicurezza in tutti gli operatori, a cominciare
dalla formazione;
– adeguare le strutture a tutti gli standard strutturali, tecnologici ed organizzativi previsti dalle normative nazionali e regionali (Autorizzazione, Accreditamento istituzionale e di eccellenza);
– attuare e, se possibile, attestare le Buone Pratiche per la sicurezza del paziente;
– garantire la sicurezza dei percorsi sanitari e prevenire i rischi derivanti da
comportamenti non conformi a standard condivisi, soprattutto di tipo professionale e/o organizzativo;
– valutare accuratamente le criticità e le situazioni a rischio e conseguentemente, individuare ed adottare tutti gli accorgimenti, atti a minimizzare gli
eventuali rischi individuati;
– implementare le metodologie e gli strumenti della Gestione del Rischio Clinico;
– identificare le aree a rischio (Incident reporting, Eventi Sentinella, Analisi
dei reclami, Analisi del Contenzioso e della sinistrosità, Dati amministrativi
attraverso le SDO, Studio delle cartelle cliniche, ecc.);
– analizzare i rischi (Audit Clinici, M&M, RCA e FMEA);
130
Manuale della Professione Medica
– attuare interventi per la sicurezza (oltre le già citate Buone Pratiche per la
sicurezza del paziente anche con l’adozione di check list, scheda unica di
terapia, procedure di corretta identificazione del paziente, del lato e del sito
chirurgico ecc.);
– monitorare continuamente (verifiche interne) sia i near miss che gli eventi ed
eventi avversi; monitorare anche la propensione del sistema (compliance) a
segnalare e valorizzare queste esperienze.
La qualità delle prestazioni (che presuppone competenza, qualità professionale e gestionale, sicurezza ecc.) ha rappresentato da sempre una necessità
del genere umano e non una opzione fra le tante.
La spinta verso la qualità deriva da una insoddisfazione di base unita alla
necessità di usare sempre meglio le risorse che con grande fatica si riesce a
recuperare o ad avere a disposizione.
Questo è stato il meccanismo che in tutti i campi del genere umano ha
portato al progresso: non accontentarsi dei risultati raggiunti anche se questi
appaiono soddisfacenti o addirittura buoni.
Questa è la sfida continua che in medicina, come nella vita, dobbiamo
accettare e, se possibile, vincere.
Art. 33 - Informazione al cittadino
Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi,
sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate.
Il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle
scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche.
Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere
soddisfatta. Il medico deve, altresì, soddisfare le richieste di informazione al
cittadino in tema di prevenzione.
Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare
preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza,
usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza.
La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di
delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata.
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
131
Art. 34 - Informazione a terzi
L’informazione a terzi presuppone il consenso esplicitamente espresso dal
paziente, fatto salvo quanto previsto all’art. 10 e all’art.12, allorché sia in
grave pericolo la salute o la vita del soggetto stesso o di altri.
In caso di paziente ricoverato, il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili.
Sin dall’antichità Ippocrate aveva esattamente individuato la finalità
dell’atto medico e la sua legittimità; basti ricordare, infatti, ciò che quest’ultimo
affermava: «Medico neminem laedere est propositum».
Con l’evolversi delle conoscenze in campo medico e attraverso gli orientamenti giurisprudenziali in merito si è andato consolidando il concetto di
rapporto medico/paziente alla pari ove il paziente non è più colui che si affida
incondizionatamente alle cure del medico, ma al contrario chiede e pretende
da questi di ottenere le informazioni necessarie affinché possa decidere, con gli
elementi a disposizione ed in piena autonomia, se e a quale trattamento aderire.
È assodato quindi il concetto che la liceità dell’atto medico sia subordinata
al consenso dell’avente diritto cioè il paziente stesso o in alcuni casi di soggetto
minore, interdetto o inabilitato, da chi detiene il potere di legale rappresentante
(genitore, tutore, giudice tutelare); salvo casi in cui ricorra lo “stato di necessità”
per cui il medico è chiamato ad agire tempestivamente per salvare la vita del
paziente anche senza il consenso del paziente o dei suoi legali rappresentanti.
La legislazione italiana manca di una normativa sul consenso all’atto medico
ed è quindi necessario far riferimento ad alcuni articoli di legge per capire dove
risieda l’obbligatorietà da parte del medico di richiedere il consenso ai trattamenti stessi.
La liceità dell’atto medico trova oggi legittimazione anzitutto nel dettato
costituzionale dell’ art. 32 secondo il quale «La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» e stabilisce che
nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non
per disposizione di legge. Parimenti, l’art. 13 della Costituzione afferma che
«la libertà personale è inviolabile», rafforzando quindi il dato di indipendenza
dell’individuo nelle scelte che lo riguardano personalmente.
132
Manuale della Professione Medica
Ciononostante l’art. 5 cc stabilisce che «gli atti di disposizione del proprio
corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica», di conseguenza molti trattamenti medici potrebbero essere considerati illeciti in quanto procurano una lesione dell’integrità fisica del soggetto
configurando l’evento “lesione di un diritto”. Di contro l’art. 50 cp ammette
che «non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con consenso della
persona che può validamente disporne», ne deriva che l’autorizzazione del
paziente ad una diminuzione della propria integrità fisica data validamente
rende l’atto medico legittimo. Il consenso ex art. 50 cp riguarda solo diritti
di cui la persona può validamente disporre e, evidentemente, rinunciare alla
propria integrità fisica al fine di raggiungere un bene superiore cioè il miglioramento dello stato di salute proprio o di quello altrui, si pensi agli espianti
da vivente, è un diritto disponibile: il primo perché procura un beneficio al
paziente, il secondo in quanto è previsto dalla legge.
I sanitari adempiono a questo dettato attraverso le attività di prevenzione,
di diagnosi, di terapia e di riabilitazione mirate al controllo, alla preservazione
e al recupero della salute individuale e collettiva.
Il consenso del paziente entra quindi in gioco ogni qual volta un paziente
debba essere sottoposto ad un trattamento sia esso diagnostico, chirurgico o
farmacologico e prevede l’accettazione volontaria al trattamento stesso.
Il consenso del paziente costituisce inoltre un elemento essenziale del
contratto d’opera professionale che regola i rapporti tra il paziente e il
medico. In questo senso l’obbligo di informazione assume importanza nella
fase precontrattuale, fase in cui si forma il consenso al trattamento sanitario
e in cui si rileva il dovere per i contraenti di comportarsi secondo buona fede
(art. 1337 cc).
Il consenso, pertanto, deve sempre essere richiesto in quanto è l’unica
espressione che autorizza un qualsiasi atto medico. Altra figura sanitaria che
non può essere mai delegata a sostituire il medico in questo compito, ma partecipa all’informazione per quanto di sua competenza, è l’infermiere al quale è
richiesta una fondamentale opera di assistenza al malato.
L’obbligo dell’informazione è a carico del medico che formula la proposta
terapeutica e che dà esecuzione alla stessa. Negli ospedali, poiché i sanitari si avvicendano nel rapporto con il paziente, la responsabilità diventa corresponsabilità.
Un consenso privo di informazione completa si può configurare alla stregua
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
133
di un reato di truffa: infatti solo attraverso una completa informazione relativa
a tutte le fattispecie dell’intervento medico (diagnosi, prognosi, scopi dell’intervento, rischi generici e specifici di ogni fase dello stesso, alternative terapeutiche)
il consenso può dirsi espressione piena della volontà del paziente e non semplice
e inconsapevole adesione alle direttive del sanitario già intraprese.
La regola generale deve dunque essere quella di fornire tutte le informazioni che si ritengono necessarie e utili affinché il paziente possa scegliere consapevolmente. Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) ha orientato verso
lo standard soggettivo laddove sostiene che «[…] l’informazione non è finalizzata a colmare la inevitabile differenza di conoscenze tecniche tra medico
e paziente, ma a porre un soggetto (il paziente) nella condizione di esercitare
correttamente i suoi diritti e quindi di formarsi una volontà che sia effettivamente tale, in altri termini in condizioni di scegliere».
La radice linguistica della parola consenso si ritrova nelle parole “con”
(base semitica, in latino “cano”: comporre, porre insieme, predire) e “sentes”
(dall’accadico “sintu”: destino) da cui la lettura del significato di consentes e consens cioè “Porre insieme, comporre, predire un destino”.
È compito quindi del medico il quale è custode di conoscenza comporre
un legame con il paziente e con il senso della sua sofferenza, della sua malattia
o stato morboso, della sua esistenza, della sua personalità.
Consenso deve significare partecipazione, consapevolezza, informazione,
libertà di scelta e di decisione delle persone ammalate; deve essere inteso come un
momento di quella alleanza terapeutica fondamentale per affrontare la malattia.
L’equilibrato comportamento che il medico assume di caso in caso dipende
in modo precipuo dal tipo di rapporto che egli e suoi collaboratori hanno
saputo e voluto instaurare con il paziente al fine di conoscere pienamente la
sua reale condizione psichica e morale per ottenere un valido consenso.
Una volta concesso il consenso da parte del paziente può essere revocato
in qualsiasi momento.
L’assenza del consenso corrisponde a violazione di un diritto del paziente e
può configurare, a seconda dei casi, i reati di violenza privata, lesione personale
e omicidio preterintenzionale. L’articolo 50 del Codice penale stabilisce la non
punibilità di chi lede un diritto, o lo mette in pericolo, con il consenso di chi
può validamente disporne. Disattendere a questa norma può comportare il
reato di lesioni personali (art. 582) o lesioni personali colpose (art. 590).
134
Manuale della Professione Medica
Dei casi di mancato consenso l’esperienza giurisprudenziale ha avuto
modo di occuparsi: torna in mente la nota vicenda relativa all’opposizione
dei genitori, appartenenti ai Testimoni di Geova, rispetto alla indispensabile
trasfusione di sangue nei confronti della loro figlia.
In tale situazione deve ritenersi doveroso da parte del medico, rivolgersi
all’autorità giudiziaria, evidenziando la situazione sanitaria del paziente ed il
rifiuto del suo rappresentante legale. Sempre che, naturalmente, non sussistano
ragioni tanto gravi di urgenza, da non consentire alcun ritardo. È evidente, in
tale ultima ipotesi, che il sanitario debba attivarsi immediatamente.
In ordine al rifiuto da parte del paziente stesso, viceversa, i problemi sono
ancor più accentuati, anche come conseguenza del totale vuoto normativo, ciò
che lascia il medico completamente solo di fronte a scelte di così evidente rilevanza.
Ad ogni modo il medico dovrà spiegare al suo assistito: quale trattamento
(diagnostico, chirurgico o farmacologico) sta proponendo; quali benefici il
paziente può attendersi dal trattamento stesso; quali complicanze potrebbero
verificarsi in caso di accettazione; a quali rischi per la salute si espone il paziente
con un eventuale rifiuto; quali trattamenti alternativi, se ve ne sono, sono disponibili.
Nelle situazioni a prognosi infausta, comunicare con eccessiva crudezza la
gravità di una situazione patologica può causare sentimenti di ansia, angoscia e
depressione nel malato. Ove non necessario, perciò, il medico non deve compromettere l’equilibrio psicologico del paziente che, oltre a essere un suo diritto
tutelato dalla legge, è un fattore capace di incidere sul decorso della malattia.
Il paziente, tuttavia, ha diritto di chiedere e ricevere informazioni più dettagliate, oppure può scegliere di non essere informato o delegare una terza
persona a ricevere le informazioni ed esprimere il consenso.
Art. 35 - Acquisizione del consenso
Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza
l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente.
Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in
cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per
le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
135
una manifestazione documentata della volontà della persona, è integrativo e
non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 33.
Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l’incolumità della persona devono essere intrapresi
solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso.
In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico
deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona.
Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente
incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita,
evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti
volontà del paziente.
Il consenso deve essere quindi espresso liberamente e la forma scritta è
obbligatoria nei seguenti casi: terapia con emoderivati e plasmaderivati (DM
15/1/1991, art. 19; DM 1/9/1995, art. 4); espianto di organi (legge 458/1967,
art. 2, donazione rene da vivente; legge 91/1999: dissenso all’ espianto da
cadavere); sperimentazione clinica; procedimenti diagnostici e terapeutici con
grave rischio per la incolumità.
Può definirsi “raccomandata” la forma scritta anche in caso di: atti chirurgici, procedure invasive terapeutiche o diagnostiche o con mezzi di contrasto,
trattamenti oncologici, trattamenti con radiazioni ionizzanti, trattamenti psichiatrici di maggior impegno, terapie con elevata incidenza di reazioni avverse,
prescrizioni di medicinali al di fuori delle indicazioni ministeriali.
L’articolo 1325 del Codice civile sancisce l’obbligo dell’accordo tra le parti
per il perfezionamento del contratto, accordo la cui carenza dà luogo a nullità
del contratto stesso (art. 1418).
Nella Convenzione del Consiglio d’Europa, invece, la materia è molto più
dettagliata. In particolare il testo afferma: «I desideri precedentemente espressi
a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento
dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in
considerazione» (art. 9); inoltre: «Ogni persona ha il diritto di conoscere ogni
informazione raccolta sulla propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona
di non essere informata deve essere rispettata» (art. 10).
Riassumendo, in Italia le norme più esplicite e complete sull’argomento si
136
Manuale della Professione Medica
ritrovano nel Codice deontologico del medico, che contiene la disciplina cui
ogni professionista si deve attenere nell’esercizio della professione.
Più precisamente in maniera molto dettagliata l’attuale Codice deontologico del 16 dicembre 2006, sancisce al Capo IV (Informazione e consenso),
l’obbligo di informazione al cittadino (art. 33) o ai terzi (art. 34), nonché l’obbligo di acquisizione del consenso informato del paziente (art. 35) o del legale
rappresentante nell’ipotesi di minore (art. 37). Lo stesso Codice deontologico
stabilisce poi l’obbligo di rispettare l’autonomia del cittadino anche per quanto
riguarda le direttive anticipate (art. 38) nonché i comportamenti da tenere
nell’ipotesi di assistenza d’urgenza (art. 36).
Si può pertanto sostenere che sussiste un obbligo diretto, di natura deontologica, all’informazione al paziente, nonché all’acquisizione del consenso informato. Obbligo che, ove non ottemperato, potrebbe dar luogo di per sé, indipendentemente da eventuali danni in capo al paziente, all’apertura di procedimento
disciplinare a carico del sanitario, davanti all’Ordine professionale competente.
Il consenso, per essere valido, deve essere rilasciato esclusivamente dal
diretto interessato, salvo alcune eccezioni.
Nel caso in cui il paziente sia minorenne ovvero incapace di intendere e di
volere, il valido consenso dovrà esser prestato da chi ne esercita la potestà: i
genitori o il tutore legalmente designato, ovvero il rappresentante legale (tutore
o curatore) dell’incapace. Il minorenne, però, ha diritto a essere informato e a
esprimere i suoi desideri, che devono essere tenuti in considerazione.
Lo stesso vale per la persona interdetta, che ha diritto a essere informata e
di veder presa in considerazione la sua volontà. Nel caso in cui il diniego del
consenso provenga da un tutore legale il medico ha il dovere di sottoporre la
questione all’autorità giudiziaria.
Accade spesso, nel caso di paziente temporaneamente impossibilitato a fornire il proprio consenso (ad esempio perché in coma), che il medico si rivolga ai
prossimi congiunti, chiedendo loro il preventivo consenso ad un intervento di particolare difficoltà. Sotto il profilo strettamente giuridico, e specificamente penale,
occorre sottolineare che il consenso dei prossimi congiunti non ha alcun valore.
Nelle ipotesi in cui il paziente non possa prestare alcun valido consenso,
pertanto, il medico dovrà assumersi in prima persona ogni responsabilità, e,
qualora decidesse di intervenire, non sarà punibile. Sia il Codice penale (art.
54), infatti, sia il Codice deontologico (artt. 8 e 36) prevedono che, in situazioni
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
137
d’emergenza, il medico è tenuto a prestare la sua opera per salvaguardare la
salute del paziente.
Il destinatario dell’informazione può non essere esclusivamente il malato
nella sua qualità di avente diritto; nel suo stesso interesse, tutto ciò che riguarda
il trattamento chirurgico deve essere disponibile per altri medici che, a diverso
titolo, possano o debbano proseguire il percorso terapeutico, ovvero valutarne
i risultati. Una successiva strategia terapeutica può infatti essere resa necessaria
da complicazioni o da concause sopravvenute, ed il chirurgo intervenuto in
seconda istanza ha l’assoluta necessità di conoscere perfettamente quanto può
essersi verificato nella prima fase di cura.
Un altro importante aspetto è che la persona che deve dare il consenso,
deve essere informata inoltre sulle capacità della struttura sanitaria di intervenire in caso di manifestazione del rischio temuto; il consenso scritto deve
essere controfirmato dal paziente e dal medico. Comunque, in caso di ricovero,
il consenso deve far parte della cartella clinica.
La rinnovata cultura sociale sul modo di intendere il rapporto medico/
paziente ha influenzato anche la giurisprudenza, che ha prima recepito e poi
ritenuto fondamentale il principio della obbligatorietà del cosiddetto “consenso informato”. I principi della Carta Costituzionale e la stessa legge 833/78
hanno fatto da cornice alle diverse stesure dei Codici deontologici ed oggi a
precise norme di legge che hanno costruito una giurisprudenza che sempre più
ha “allargato” il proprio fronte a favore dei cittadini eliminando la “sacralità”
dello stesso ruolo del medico. Quindi, oggi alcune sentenze di Cassazione,
hanno individuato che la responsabilità e i doveri del medico non riguardano
più solo l’attività propria e dell’eventuale “équipe” che a lui risponde, ma si
estende allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria
in cui egli presta la propria attività, traducendosi in un dovere di informazione
diretto al paziente, nel rispetto dell’obbligatorietà del “consenso informato”.
La Cassazione ha stabilito con sentenza (Cass. civ. sez. III 15/1/1997, n. 364)
che il medico non può intervenire senza il consenso informato del paziente,
aggiungendo che «se le singole fasi assumono un’autonomia gestionale e presentano varie soluzioni alternative, ognuna delle quali comporti rischi diversi,
il suo dovere di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi
rischi». Inoltre, la Cassazione con una altra sentenza più recente (Cass. civ. sez.
III 16/5/2000, n. 6318) ha stabilito meglio il principio “dell’estensione ogget-
138
Manuale della Professione Medica
tiva”: «il principio del consenso informato in vista di un intervento chirurgico
o di altra terapia specialistica o accertamento diagnostico invasivo, non riguardano soltanto i rischi oggettivi e tecnici in relazione alla situazione soggettiva
e allo stato dell’arte della disciplina, ma riguardano anche la concreta, magari
momentaneamente carente situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni
e alle attrezzature, e al loro regolare funzionamento, in modo che il paziente
possa non soltanto decidere se sottoporsi o meno all’intervento, ma anche se
farlo in quella struttura ovvero chiedere di trasferirsi in un’altra». L’omessa
informazione sul punto può configurare una negligenza grave, della quale
il medico risponderà in concorso con l’ospedale sul piano della responsabilità civile, quindi del risarcimento del danno, ed eventualmente anche sul
piano professionale, deontologico-disciplinare (Cass. civ. sez. III 30-07-2004,
n. 14638).
In ogni caso il principio che nasce da quanto affermato è che il paziente deve
essere messo in condizione non soltanto di decidere se sottoporsi o meno all’intervento, ma anche se farlo in quella struttura, ovvero chiedere di trasferirsi in un’altra.
Per tali presupposti il modulo di consenso dovrà essere adattato all’attività
concretamente svolta dal medico ed alle caratteristiche del singolo paziente.
Il modulo di consenso informato entra a far parte della documentazione
clinica del paziente; pertanto, in caso di contestazioni relative al corretto svolgimento della prestazione compiuta, costituisce un elemento di valutazione
della sussistenza o meno della responsabilità professionale del medico.
Come affermato in precedenza, i requisiti di validità del consenso escludono la possibilità di avere un modulo “unico” adeguato a tutti i casi ed a tutti
i tipi di intervento.
Nell’acquisizione di un consenso che possa considerarsi lecito e consapevole nonché valido, sarà opportuno esplicitare tutte le alternative terapeutiche
in relazione alla patologia o a i sintomi accusati: per ognuna di queste vanno
chiariti i rischi e gli effetti sfavorevoli (in sostanza va spiegato il motivo per cui
si è deciso di non scegliere tali tipi di trattamenti); le terapie da effettuare prima
del trattamento chirurgico: vanno descritte le cure, anche farmacologiche a
cui il paziente dovrà sottoporsi prima dell’intervento, indicandone i benefici
e gli effetti indesiderati. Vanno specificati inoltre gli eventuali accorgimenti
da adottare in attesa dell’intervento e gli eventuali interventi di altro tipo che
potrebbero rendersi necessari od opportuni nel corso dell’intervento presta-
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
139
bilito. Da non sottovalutare affatto le complicanze: vanno indicate tutte quelle
che si possono manifestare durante l’intervento, specificando se possibili o
probabili in relazione al la patologia ed al singolo paziente. Si dovranno inoltre
descrivere gli interventi che sarà necessario eseguire in caso di complicazioni,
elencandone i rischi, ma anche gli effetti indesiderati che possono manifestarsi dopo il trattamento chirurgico: complicanze postoperatorie, sintomatologia dolorosa successiva ed effetti visibili sul segmento corporeo operato. Il
paziente dovrà essere meso a conoscenza anche dei trattamenti da effettuare
dopo l’intervento chirurgico: il tipo di riabilitazione e il trattamento farmacologico e tutti gli accorgimenti che si dovranno adottare. Infine, il paziente dovrà
dichiarare:
a. Di essere pienamente cosciente.
b. Di avere letto attentamente il documento.
c. Di avere ricevuto dal medico proponente (identificato nel modulo) le spiegazioni richieste per la piena comprensione.
d. Di averne pertanto compreso interamente il contenuto.
e. Di autorizzare l’équipe sanitaria ad effettuare il trattamento sopradescritto.
f. Di autorizzare fin da subito gli eventuali interventi alternativi previsti.
Dovrà essere presente ovviamente sul documento sia la firma del medico
che quella del paziente, oltre la data comprensiva di giorno, mese, anno.
Art. 37 - Consenso del legale rappresentante
Allorché si tratti di minore o di interdetto il consenso agli interventi diagnostici
e terapeutici, nonché al trattamento dei dati sensibili, deve essere espresso
dal rappresentante legale.
Il medico, nel caso in cui sia stato nominato dal giudice tutelare un amministratore di sostegno deve debitamente informarlo e tenere nel massimo conto
le sue istanze.
In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento
necessario e indifferibile a favore di minori o di incapaci, il medico è tenuto
a informare l’autorità giudiziaria; se vi è pericolo per la vita o grave rischio
per la salute del minore e dell’incapace, il medico deve comunque procedere
senza ritardo e secondo necessità alle cure indispensabili.
140
Manuale della Professione Medica
In caso di impossibilità o difficoltà di lettura il documento dovrà essere
letto al paziente in presenza di un testimone e sottoscritto da entrambi.
Nel caso di pazienti minori d’età o in stato di incapacità legale (interdetto o
inabilitato), salvo la ricorrenza dello stato di necessità, il consenso dovrà essere
prestato dal genitore esercente la patria potestà o al giudice tutelare.
In alcuni casi specifici però, ad esempio nel caso dei TSO (trattamento
sanitario obbligatorio) cioè quando si realizzano le condizioni per effettuare
accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in tutte quelle situazioni in cui
l’interesse della collettività alla salute risulta prevalere sui diritti dell’individuo,
la sottoposizione a un trattamento sanitario di un paziente può non essere
spontanea o addirittura può avvenire contro la sua volontà. È solo il concreto
rischio di danni a terzi a costituire il limite oltre il quale il consenso libero e
informato può essere prevaricato e solo in questi casi la potestà di curare può
essere considerata alla stregua di un obbligo, tanto per il medico che per il
paziente. Lo Stato può legittimamente imporre determinati trattamenti sanitari ai cittadini, sia non coattivi (quei trattamenti nei quali l’obbligo è sanzionato solo indirettamente) che coattivi. Il sanitario, pur vincolato al rispetto
della libertà, della dignità e della riservatezza del paziente, non può sottrarsi
al rispetto di queste norme, ma ciò non lo autorizza a porre direttamente in
essere i procedimenti di coazione, potendo infatti avanzare la proposta alle
autorità preposte e seguire la procedure specificamente dettata dalla legge.
Prendiamo ad esempio lo sciopero della fame: non esiste una legge che
consideri l’alimentazione forzata un TSO vero e proprio che possa essere
imposto ai detenuti o ai soggetti liberi. Infatti, se una persona, sana di
mente, rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, il medico ha il
dovere di informarla sulle conseguenze che tale decisione può comportare
sulle sue condizioni di salute. Se una persona è consapevole delle possibili
conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative
costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve
continuare ad assisterla. Un tale conflitto, sicuramente grave e che si realizza
anche ogni qual volta una persona rifiuta un trattamento necessario alla sua
sopravvivenza per ragioni fondate, consapevolmente e liberamente accolte,
non può dunque in nessuna maniera essere risolto in termini coattivi della
volontà dell’assistito.
Se poi la situazione in cui il medico si può trovare è quella in cui il paziente
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
141
sia privo di coscienza, non siano note le sue volontà e tuttavia versi in uno stato
di urgente pericolo di vita o corra il rischio di gravi danni il problema non si
pone, poiché il sanitario compirà tutti gli atti possibili, non procrastinabili e
necessari in modo specifico per superare quel pericolo o quel rischio.
Questa situazione trova la sua giustificazione giuridica nello stato di necessità in base all’art. 54 del codice penale: «non è punibile chi ha commesso il
fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo
di un danno grave alla persona …».
È necessario chiarire quali sono confini entro i quali tale potestà del medico
può essere esercitata:
a) la potestà medica vale solo nel caso in cui il paziente non abbia manifestato
in precedenza una volontà in proposito, non costituisce in nessun modo un
obbligo all’intervento in ogni caso, ed entra in gioco in queste circostanze
poiché è assente la volontà esplicita del paziente;
b) ai familiari, che non hanno rappresentanza legale del paziente, non è riconosciuto potere decisionale; dovranno essere informati e coinvolti, se del caso,ma
le decisioni spettano autonomamente al medico, unico legale responsabile.
In alcuni casi il medico dovrà confrontarsi per quanto concerne l’informazione e il consenso con persone differenti da quella del paziente che ha in cura
e che ne rappresentano gli interessi. La legge, infatti, prevede alcune figure di
rappresentanza dei soggetti incapaci di cui diamo qui breve elenco.
– La potestà dei genitori, che è quel complesso di poteri e doveri attribuiti
dalla legge ai genitori legittimi, naturali e adottivi nei confronti dei figli
minori non emancipati (articoli 315 ss. cc). La finalità di tale funzione è il
mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli (sono questi diritti dei
minori art. 30 della Costituzione) e nei rapporti verso l’esterno, e quindi
anche verso i medici curanti, i genitori hanno il dovere, quali rappresentanti, di sostituire il minore incapace (funzione sostitutiva).
– La tutela, che è una forma di protezione prevista per gli interdetti giudiziali
e legali e per minorenni i cui genitori siano morti entrambi o per altra causa
impediti; il tutore è nominato dal giudice tutelare e ha cura della persona
del tutelato, ricomprendendo in tale termine anche l’obbligo di provvedere
alla soddisfazione di ogni esigenza dell’incapace, tra cui la cura delle malattie e dunque l’organizzazione dei trattamenti sanitari necessari.
142
Manuale della Professione Medica
– L’amministratore di sostegno, figura prevista dalla legge 9 gennaio 2004,
n. 6, modificando il nostro Codice civile, ha creato una nuova figura, con
la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di
agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento
delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente. La nomina del’amministratore di sostegno, di facile
attivazione e che può avvenire anche su richiesta dello stesso interessato che
eventualmente indica la persona da cui desidera essere sostenuto, avviene
con un atto nel quale il giudice prevede, tra l’altro, l’oggetto dell’incarico
conferito e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e
per conto dell’interessato. Tra gli atti che possono essere compiuti in nome
dell’interessato vi sono ovviamente anche quelli di cura della persona e dunque anche il potere di fornire valido consenso alle prestazioni mediche.
– Per i minorenni il medico dovrà interagire con i genitori o con il tutore:
essi saranno informati e daranno il consenso in quanto rappresentanti del
minore, ma se uno dei genitori non può esercitare la potestà a causa di
lontananza, di incapacità o di altro impedimento, la potestà è esercitata in
modo esclusivo dall’altro genitore (art. 317 cc); nel caso in cui i genitori
sono separati o divorziati l’esercizio della potestà spetta al genitore al quale
il figlio è stato affidato, fatta eccezione per le questioni di più forte interesse, come possono essere gravi problemi di salute, per i quali è necessario l’accordo anche dell’altro genitore. Il medico che deve sottoporre un
minore a un intervento chirurgico o ad accertamenti diagnostici in relazione a malattia di una certa gravità, farà bene a richiedere il consenso di
entrambi i genitori a dimostrazione del fatto che vi sia l’accordo o comunque che gli siano mostrate le particolari condizioni eventualmente stabilite
dal Tribunale o dal giudice tutelare. Se tra i genitori c’è disaccordo essi
possono ricorrere informalmente al Tribunale per i minorenni, chiedendo
che siano presi i provvedimenti più idonei; ovviamente se è stato nominato
un tutore il medico farà riferimento a esso quale rappresentante del minore.
Può accadere che si versi in una situazione di emergenza e nessuno dei
rappresentanti legali del minore sia presente o raggiungibile rapidamente, il
medico dovrà intervenire comunque a tutela del diritto alla salute del minorenne. I casi complessi sono quelli in cui i genitori rifiutano i trattamenti
per i minori. In tutti quei casi in cui il medico si trovi in una situazione di
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
143
tal natura o, comunque, di forte contrasto con i genitori relativamente alle
terapie ritenute necessarie, e non ricorrano le circostanze che abbiamo visto
costituire in sé una scriminante, il medico può e deve informare il Tribunale
per i minorenni. Nelle località nelle quali non vi è un Tribunale per i minorenni, può rivolgersi al giudice tutelare presso il Tribunale più vicino. Ma se
il rifiuto di un trattamento, anche se per motivi religiosi o di convincimento
morale, fosse accompagnato dalla richiesta o dalla disponibilità ad altro trattamento pure possibile e che non presenti rischi particolarmente più alti,
allora la richiesta dei genitori dovrà essere soddisfatta e la loro decisione
non potrà essere considerata una violazione dei doveri della potestà.
Tra i minori sono compresi anche gli adolescenti i quali, se non completamente autonomi, sono spesso perfettamente in grado di rendersi conto di
ciò che gli accade, di maturare opinioni autonome e di esprimere in proposito la loro volontà. Il medico deve comunque richiedere il consenso al
paziente adolescente (che in molti sistemi legali viene considerato valido di
per sé), in quanto questi è in grado di apprezzare le ragioni e il significato
dell’intervento che gli viene proposto; al fine della valutazione generale
deve essere anche tenuta in conto la natura e l’entità dell’intervento.
Art. 32 - Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili
Il medico deve impegnarsi a tutelare il minore, l’anziano e il disabile, in particolare quando ritenga che l’ambiente, familiare o extrafamiliare, nel quale
vivono, non sia sufficientemente sollecito alla cura della loro salute, ovvero sia
sede di maltrattamenti fisici o psichici, violenze o abusi sessuali, fatti salvi gli
obblighi di segnalazione previsti dalla legge.
Il medico deve adoperarsi, in qualsiasi circostanza, perché il minore possa
fruire di quanto necessario a un armonico sviluppo psico-fisico e affinché
allo stesso, all’anziano e al disabile siano garantite qualità e dignità di vita,
ponendo particolare attenzione alla tutela dei diritti degli assistiti non autosufficienti sul piano psico-fisico o sociale, qualora vi sia incapacità manifesta di
intendere e di volere, ancorché non legalmente dichiarata.
Il medico, in caso di opposizione dei legali rappresentanti alla necessaria cura
dei minori e degli incapaci, deve ricorrere alla competente autorità giudiziaria.
144
Manuale della Professione Medica
Il medico, analogamente a tutti gli altri professionisti della salute, è tenuto
a collaborare al normale funzionamento dell’amministrazione della giustizia in
forza di esplicite e puntuali indicazioni di natura sia deontologica che normativa; in tal senso le previsioni della deontologia medica, nel confermare, tra le
giuste cause di rivelazione del segreto professionale, la necessità di ottemperare ad inderogabili doveri che derivano da specifiche norme legislative, sono
molto esplicite.
Innanzitutto esortano il medico a porre particolare attenzione nei riguardi
delle persone più fragili (anziani, minori e persone diversamente abili), anche
attraverso l’obbligo di referto o di denuncia all’autorità giudiziaria in tutti i casi
previsti dalla legge e nel ricordare al medico il dovere di informativa all’autorità giudiziaria nel caso in cui il rappresentante legale si opponga a trattamenti
necessari ed indifferibili a favore della persona minore e/o incapace.
Quindi il sanitario che ha prestato la sua opera e/o assistenza in un caso
che prefiguri l’ipotesi di un delitto perseguibile d’ufficio, potrà, in qualità di
pubblico ufficiale e/o incaricato di pubblico servizio, appellarsi alla natura
della prestazione professionale ricorrendo alla deroga prevista dal secondo
comma dell’ art. 365 del Codice penale.
La tutela dei soggetti fragili risulta come un obiettivo fondamentale della
politica sanitaria del paese e inserirle l’obiettivo al centro degli interventi di
tutela della salute è un impegno etico soprattutto se si pensa che il nostro è
un sistema sanitario basato sui principi della solidarietà e della universalità, e
quindi, in un tale sistema, operare una discriminazione nell’accesso alle cure
sarebbe ingiustificabile.
Ricordiamo come la legge 328 del 2000 all’art. 22 comma 2 precisa che:
«Ferme restando le competenze del Servizio Sanitario Nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, nonché le disposizioni in materia di integrazione socio-sanitaria di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni,
gli interventi di seguito indicati costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali
erogabili sotto forma di beni e servizi secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla
pianificazione nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale
per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali
alla spesa sociale:
a) misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento,
con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora;
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
145
b) misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone
totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana;
c) interventi di sostegno per i minori in situazioni di disagio tramite il sostegno al nucleo familiare di origine e l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza
di tipo familiare e per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza;
d ) misure per il sostegno delle responsabilità familiari, ai sensi dell’articolo 16, per favorire
l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare;
e) misure di sostegno alle donne in difficoltà per assicurare i benefici disposti dal regio decretolegge 8 maggio 1927, n. 798, convertito dalla legge 6 dicembre 1928, n. 2838, e dalla
legge 10 dicembre 1925, n. 2277, e loro successive modificazioni, integrazioni e norme
attuative;
f) interventi per la piena integrazione delle persone disabili ai sensi dell’articolo 14; realizzazione, per i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992,
n. 104, dei centri socio-riabilitativi e delle comunità-alloggio di cui all’articolo 10 della
citata legge n. 104 del 1992, e dei servizi di comunità e di accoglienza per quelli privi di
sostegno familiare, nonché erogazione delle prestazioni di sostituzione temporanea delle
famiglie;
g) interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, per
l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione della elevata fragilità personale o di limitazione
dell’autonomia, non siano assistibili a domicilio;
h) prestazioni integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcol e
farmaci, favorendo interventi di natura preventiva, di recupero e reinserimento sociale;
i) informazione e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi
e per promuovere iniziative di auto-aiuto».
L’aumento della durata di vita ad esempio è un ottimo traguardo, ma non
ha eliminato una caratteristica sempre presente nell’invecchiamento: anche se
aumenta l’aspettativa di vita, al termine di questa, vi è un periodo di malattie
croniche, spesso di non autosufficienza.
Per non parlare del sostegno e dell’affiancamento alle famiglie in cui sono
presenti disabili totalmente non autosufficienti, anche giovani o adulti, e la
necessità da parte degli organi sanitari di migliorare le condizioni di salute
anche dei minori e degli adolescenti, migliorando così la qualità di vita di tutti,
146
Manuale della Professione Medica
dovendo e potendo per far questo, potenziare certamente i servizi, ma anche
avere la possibilità di ricorrere, ove doveroso, all’autorità giudiziaria.
Art. 27 - Libera scelta del medico e del luogo di cura
La libera scelta del medico e del luogo di cura da parte del cittadino costituisce il fondamento del rapporto tra medico e paziente.
Nell’esercizio dell’attività libero professionale svolta presso le strutture pubbliche
e private, la scelta del medico costituisce diritto fondamentale del cittadino.
È vietato qualsiasi accordo tra medici tendente a influire sul diritto del cittadino
alla libera scelta.
Il medico può consigliare, a richiesta e nell’esclusivo interesse del paziente e
senza dar luogo a indebiti condizionamenti, che il cittadino si rivolga a determinati presidi, istituti o luoghi di cura da lui ritenuti idonei per le cure necessarie.
Ogni cittadino ha la necessità di essere rispettato nella libertà di scelta del
medico, del luogo di cura. Viene affermata, in buona sostanza, che la cura e
la correlativa esigenza di garanzia di scelta finale sui presidi, istituti o luoghi
di cura da privilegiare per garantire la cura stessa deve essere del cittadino. Il
rapporto medico-cittadino rimane sempre e comunque di carattere fiduciario
e deve sussistere, a garanzia della migliore riuscita delle cure, perché in sua
mancanza difficilmente il rapporto potrebbe garantire risultati positivi.
Per quanto attiene alla libera scelta del medico, questa è ribadita anche nella
normativa del Servizio Sanitario Nazionale e trova applicazione nei provvedimenti regolamentari: rappresenta un principio fondamentale ed inalienabile
che deve improntare il rapporto medico-paziente, proprio per la natura fiduciaria che caratterizza tale rapporto. La libertà di scelta e la natura fiduciaria
del rapporto professionista-cliente, trovano riscontro effettivo nell’art. 2232
cc che al 1° comma sancisce l’obbligo di «eseguire personalmente l’incarico
assunto» evidenziando, così, indirettamente, l’aspetto fondamentale della fiducia che connota il rapporto in esame con conseguenze notevoli anche per il
diritto. Il Codice deontologico ribadisce come dovere comportamentale del
medico il rispetto del diritto del paziente alla libera scelta del curante, prendendo anche in considerazione la sostanziale disparità che spesso connota il
3. Doveri del medico e diritti del cittadino
147
rapporto medico-paziente e che può consentire al primo di influenzare l’altro
su scelte di tipo sanitario.
In effetti uno dei primi diritti in sanità della persona assistita è quello di scegliere liberamente il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta.
La libertà di opzione riconosciuta ai cittadini può essere esercitata entro un
limite massimo di assistiti per medico, ha validità annuale ed è tacitamente rinnovata. L’assistenza include numerose prestazioni quali visite in ambulatorio,
assistenza domiciliare, prescrizione di farmaci e/o accertamenti diagnostici,
certificazioni ecc.
Si ricorda che è anche tutelata la libertà di scelta del luogo di cura, alle
condizioni previste negli articoli 8-ter e seguenti del DLgs 502/92 e successive
modifiche: «Al fine di favorire l’esercizio del diritto di libera scelta del medico e del presidio di cura, il Ministero della sanità cura la pubblicazione dell’elenco di tutte le istituzioni
pubbliche e private che erogano prestazioni di alta specialità, con l’indicazione delle apparecchiature di alta tecnologia in dotazione nonché delle tariffe praticate per le prestazioni più
rilevanti».
4
Gli obblighi del medico
L. Conte, S. Del Vecchio, B. Magliona
Art. 19 - Aggiornamento e formazione professionale permanente
Il medico ha l’obbligo di mantenersi aggiornato in materia tecnico-scientifica,
etico-deontologica e gestionale organizzativa, onde garantire lo sviluppo
continuo delle sue conoscenze e competenze in ragione dell’evoluzione dei
progressi della scienza, e di confrontare la sua pratica professionale con i
mutamenti dell’organizzazione sanitaria e della domanda di salute dei cittadini.
Il medico deve altresì essere disponibile a trasmettere agli studenti e ai colleghi le proprie conoscenze e il patrimonio culturale ed etico della professione
e dell’arte medica.
L’Ordine per la qualità della professione ed il ruolo dell’ECM
In occasione della celebrazione del centenario della creazione dell’Ordine
dei Medici, nel nostro paese, ci troviamo a vivere un momento di grande crisi
economico-finanziaria, ma anche politica (nel senso della buona politica),
morale e civile. Ed anche la nostra professione vive una crisi più profonda
che in altri periodi perché culturalmente non sufficientemente e generalmente
attrezzata a dare risposte adeguate ad una società in rapidissima evoluzione ed
una politica pervasiva talvolta irrispettosa dei valori fondanti dell’arte medica.
È necessario ricomporre l’unitarietà della nostra professione che negli
ultimi anni si è frammentata e dispersa in molte gloriose identità e diversità
perdendo di vista l’obiettivo finale e soprattutto perdendo autorevolezza ed
“appeal sociale”. Questo non deve significare la rinuncia alle proprie peculiarità
ma semplicemente un’armonizzazione di posizioni e linguaggi per proporre un
nuovo patto, una nuova alleanza, tecnica, civile e sociale fondata sul riconosci-
150
Manuale della Professione Medica
mento di una compiuta autonomia professionale, quale condizione favorente
l’assunzione piena di nuove responsabilità, per restituire dignità all’impegno
professionale, per ridare slancio alla solidarietà ed equità per quei diversi e quei
diseguali che lo sviluppo economico e sociale immancabilmente produce e
dimentica, per irrobustire la fiducia dei professionisti e dei cittadini nelle istituzioni democratiche e nei valori costituzionali che esse custodiscono.
Il paradosso di un medico sempre più piccolo in quanto confinato al rango
di anonimo ed eterodiretto prestatore d’opera in una medicina ed una sanità
sempre più grandi e complesse, è superabile solo attraverso una più attuale ed
incisiva rinegoziazione con i cittadini e con le istituzioni di nuovi ruoli e compiti.
E da questo punto di vista gli Ordini hanno condiviso il progetto di Educazione Continua in Medicina come strumento utile allo scopo di attrezzare culturalmente i propri medici ad assumere il giusto autorevole ruolo nella società
moderna.
Quindi è obbligo del medico, per tutta la durata della sua attività professionale, mantenere uno standard ottimale di conoscenze e di abilità in relazione
ai progressi del sapere scientifico ed all’impetuoso sviluppo delle nuove tecnologie sanitarie.
Questo è il presupposto fondamentale per garantire al cittadino un corretto e proficuo rapporto di fiducia con il medico, che trova puntuale riscontro
anche nelle norme legislative che regolano l’esercizio della professione.
Ma come è cambiato lo scenario legislativo per quanto attiene l’aggiornamento e la formazione del medico nel nostro paese?
Fin dal 1978 è stato uno degli obiettivi primari del SSN ed era sottolineato
come una esigenza indiscutibile e lo stesso nostro Codice deontologico del
1998 l’aveva richiamato soltanto come un dovere morale del medico.
Successivamente con il DLgs n. 502/92, integrato con gli artt. 16 bis, 16
ter e 16 quater del DLgs n. 229/99, l’obbligo dell’Educazione Continua in
Medicina (ECM) per i medici è divenuto istituzionale nel nostro paese come in
quasi tutti i paesi del mondo.
Quindi i medici in passato si sono sempre aggiornati liberamente secondo
i propri bisogni e le loro preferenze.
Oggi la legge prevede un controllo sistematico e “misurato” del livello di
conoscenze mantenute ed aggiornate, sulla base del numero di crediti acquisiti
annualmente dal professionista con la frequenza di “formazione accreditata”,
4. Gli obblighi del medico
151
residenziale, a distanza o sul campo. E soprattutto, pur prevedendo una parte
formativa lasciata alla libera scelta del professionista, il SSN ed i SSSSRR stabiliscono gli obiettivi formativi in linea con le proprie esigenze di sviluppo.
È per questo scopo che, in tutti i paesi del mondo, sono nati i programmi
di Educazione Continua in Medicina (ECM); essa comprende l’insieme organizzato e controllato di tutte quelle attività formative, sia teoriche che pratiche,
promosse da chiunque lo desideri (si tratti di una Società scientifica o di una
Società professionale, di una Azienda ospedaliera, o di una Struttura specificamente dedicata alla formazione in campo sanitario, ecc.), con lo scopo di
mantenere elevata ed al passo con i tempi la professionalità degli operatori
della sanità.
Partecipare ai programmi di ECM è un dovere degli operatori della sanità,
richiamato anche dal Codice deontologico, ma è anche – naturalmente – un diritto
dei cittadini, che giustamente richiedono operatori attenti, aggiornati e sensibili. Ciò è oggi particolarmente importante ove si pensi che il cittadino è
sempre più informato sulle possibilità della medicina di rispondere, oltre che a
domande di cura, a domande più complessive di salute.
Per quanto attiene le sanzioni, mancando dei riferimenti di legge per chi
non si aggiorna, il riferimento diventa il Codice di Deontologia medica con la
possibilità di sanzioni disciplinari, non prima però di aver espletato una opportuna azione di “recupero”.
Né va dimenticato che il venir meno di conoscenze ed abilità aggiornate
può configurare “responsabilità professionale” del medico laddove si dimostri
che l’esito infausto di un trattamento od il ritardo di una diagnosi siano addebitabili alla sua imperizia, alla mancanza di una adeguata conoscenza tecnica e
scientifica.
Ma quale significato deve essere attribuito ai termini Aggiornamento e Formazione? L’ECM non è o non è solo “aggiornamento professionale” che, di
fatto, si limita ad interventi informativi per l’implementazione di nuove conoscenze teoriche, al recupero di nozioni dimenticate o alla sostituzione di teorie
obsolete.
Nel concetto di Formazione è insito un apprendimento che si avvale
dell’esperienza, in quanto finalizzato all’applicazione delle conoscenze.
Apprendere dall’esperienza è una modalità tipica dell’adulto: comprende la
capacità di fare sintesi tra le informazioni teoriche ricevute ed il loro conte-
152
Manuale della Professione Medica
sto applicativo, tenendo conto in modo critico e riflessivo della variabilità dei
diversi contesti, recepita nell’esperienza del singolo professionista.
La continua sfida della formazione permanente è sintetizzabile nell’impegno a far coincidere i bisogni di salute del cittadino con il bisogno del singolo
professionista di sentirsi sempre adeguato ad affrontarli.
La professionalità di un operatore della sanità può venire definita da tre
caratteristiche fondamentali:
– il possesso di conoscenze teoriche aggiornate (il sapere);
– il possesso di abilità tecniche o manuali (il fare);
– il possesso di capacità comunicative e relazionali (l’essere).
Il rapido e continuo sviluppo della medicina e, in generale, delle conoscenze biomediche, l’accrescersi continuo delle innovazioni sia tecnologiche
che organizzative, rendono sempre più difficile per il singolo operatore della
sanità mantenere queste tre caratteristiche al massimo livello: in altre parole
mantenersi “aggiornato e competente”.
L’ECM deve:
– mantenere la capacità dei professionisti della salute di recepire criticamente
sempre nuove conoscenze;
– affinare le capacità metodologiche nell’applicarle;
– rendere feconde nell’esercizio professionale quotidiano le nozioni acquisite;
– far crescere i valori personali professionali ed umani.
Su questa strada c’è la totale coincidenza di interesse con l’etica ed il mandato istituzionale e giuridico degli Ordini: garantire la qualità della professione a
tutela della salute dei cittadini.
Facendo riferimento all’esperienza quinquennale “sperimentale” ECM
conclusa che ha avuto il merito di creare attenzione al problema possiamo
dire che tale sperimentazione ha avuto il merito di implementare una nuova
e più forte attenzione verso la necessità che tutti gli operatori sanitari devono
mantenersi costantemente aggiornati e competenti per garantire una costante
qualità dell’assistenza.
Sono state molte le critiche rivolte al sistema che non è riuscito a garantire
uno sviluppo equilibrato per l’emergere di interessi talvolta non chiari e non
conciliabili.
4. Gli obblighi del medico
153
Purtroppo i crediti che dovevano essere uno strumento di mero supporto
alla gestione organizzativa del sistema ECM sono diventati il fine prevalente
della maggioranza dei provider e dei professionisti-discenti.
Il burocratismo distributivo dei crediti attuato a livello nazionale e di qualche regione:
– non è stato per niente modulato dall’intervento spesso inefficiente dei
“referee”;
– ha distrutto ogni parvenza di equità;
– ha distrutto la valutazione effettiva della qualità educativa degli eventi formativi;
– ha indotto i professionisti della salute a palesare senza reticenza l’unica
aspirazione ad accumulare il numero obbligato di crediti;
– ha creato talvolta il paradosso che alcuni professionisti affidano per lo più
la propria formazione efficace ad occasioni non accreditate;
– c’è stato un quasi esclusivo ricorso ad eventi residenziali;
– qualsiasi convegno pur di garantirsi audience chiede l’accreditamento per
garantire un certo numero di crediti (facendo leva molto spesso sulla professione infermieristica).
Tutto ciò ha gettato discredito su tutto il progetto ECM a cui la nuova
Commissione Nazionale in collaborazione con il Comitato Tecnico delle
Regioni, facendosi carico delle criticità emerse nella sperimentazione, ha cercato di dare risposte adeguate per contrastare un malcostume contagioso e
diffuso nell’esercizio della formazione continua.
L’Autorità Centrale Nazionale ha dimostrato di essere pronta a porre rimedio a questa situazione e ripartire con la nuova esperienza: accreditamento dei
provider e non più degli eventi, valorizzazione di Formazione a Distanza e Formazione sul Campo, Dossier Formativo Individuale e di Gruppo, ecc.
D’altra parte una riflessione critica dell’esperienza maturata nel primo
quinquennio sperimentale ECM non può non tener conto anche di un dato
già validato da una vasta letteratura internazionale, secondo il quale, in ambito
sanitario un sistema di formazione permanente fondato prevalentemente sulla sistematica
implementazione ed aggiornamento delle conoscenze degli operatori manifesta una bassa
efficacia quando rapportato ad indicatori di qualità di processo e di esito.
Va invece riconosciuto al sistema ECM il grande merito di aver prima sollecitato e poi mantenuta alta l’attenzione del management e dei professionisti sul
154
Manuale della Professione Medica
valore della formazione permanente che sempre più si deve connotare con le
caratteristiche, gli strumenti e le finalità dello Sviluppo Continuo Professionale.
Questo viraggio deve consolidarsi sempre più attraverso la promozione di
metodologie formative che meglio di altre appaiono in grado di cambiare le performances professionali, migliorare gli skills e quindi incidere sulla qualità degli outcomes.
Nonostante le non poche difficoltà organizzative e gestionali manifestatesi
a livello centrale e periferico, determinate dal sovrapporsi spesso incoerente
di scelte politiche sui ruoli e compiti degli attori in campo e soprattutto dalla
povertà di risorse pubbliche dedicate, il sistema ha comunque ricevuto una
spinta formidabile “dal basso” mobilitando, in questi anni, intorno ad una
straordinaria mole di eventi prodotti da migliaia di fornitori, circa 12 milioni di
partecipazioni di professionisti.
L’Ordine quindi si propone a garanzia della qualità professionale ed a tutela
della salute dei cittadini:
–
–
–
–
–
di essere il punto di “garanzia terza” tra i diversi attori dell’ECM;
di essere il controllore dell’equità e dell’efficacia dell’ECM;
di essere il garante della trasparenza del sistema;
di monitorare l’efficienza del sistema e proporre le modifiche necessarie in itinere;
di contribuire direttamente allo sviluppo culturale dei propri iscritti.
Ma nel ribadire che ECM non può semplicemente limitarsi ad una “manutenzione tecnico-professionale” del singolo professionista, occorre rilevare
che nella identificazione dei nuovi obiettivi formativi si è tenuto ampiamente
conto della necessità di garantire anche una sufficiente formazione umana nel
senso di humanities.
Ed appare condivisibile la riflessione di Salvino Leone: «È ormai indifferibile un recupero della formazione umana del medico da affiancare e integrare a
quella sempre più tecnologica che rischia di inaridirlo facendone solo un freddo
tecnocrate, bravissimo a decodificare indagini, leggere numeri e gestire apparecchiature elettroniche ma poco attento ai “bisogni” empatico-relazionali del
malato che, non solo non sono diminuiti nel tempo ma, semmai, sono diventati
più impellenti data la scarsa attenzione del medico a tali componenti umane».
La Società, la Salute, la Sanità, la Medicina evolvono in scenari e contesti sempre più complessi ed adattativi; questa evoluzione necessita di uno
sviluppo sincrono e correlato: il moderno modello di erogazione delle cure
4. Gli obblighi del medico
155
si presenta sempre più complesso e ad alta integrazione multispecialistica e
multiprofessionale. Per garantire qualità professionale e risposte adeguate ed
efficienti ai bisogni dei cittadini il sistema ECM si deve far carico di queste
esigenze formative e predisporsi a transitare progressivamente verso un più
maturo sistema di Sviluppo Professionale Continuo.
Nel ricordo del prof. Mario Austoni, clinico emerito dell’Università di
Padova, riportiamo la considerazione che la rilevanza delle conoscenze rimane
indeterminata finché queste non si dimostrano capaci a risolvere problemi
pratici: «Sono infatti le soluzioni dei problemi che hanno il potere di dare, ad
un’informazione irrilevante, un senso che la trasformi in rilevante e prescrittiva
o che ne promuova la critica ed il rigetto».
E, quindi, in conclusione, l’ECM deve insegnare a tutti i professionisti della
salute a risolvere i problemi di salute di ogni cittadino che gli si rivolge ovvero
informarlo ed indirizzarlo adeguatamente negli ambiti specifici e deve anche
favorire una progressiva implementazione della cultura oltre che multidisciplinare anche interprofessionale quale fondamento indispensabile per conseguire
obiettivi di salute e non semplici prestazioni sanitarie.
Art. 10 - Segreto professionale
Il medico deve mantenere il segreto su tutto ciò che gli è confidato o di cui
venga a conoscenza nell’esercizio della professione.
La morte del paziente non esime il medico dall’obbligo del segreto.
Il medico deve informare i suoi collaboratori dell’obbligo del segreto professionale. L’inosservanza del segreto medico costituisce mancanza grave quando
possa derivarne profitto proprio o altrui ovvero nocumento della persona assistita o di altri.
La rivelazione è ammessa ove motivata da una giusta causa, rappresentata
dall’adempimento di un obbligo previsto dalla legge (denuncia e referto
all’Autorità Giudiziaria, denunce sanitarie, notifiche di malattie infettive, certificazioni obbligatorie) ovvero da quanto previsto dai successivi artt. 11 e 12.
Il medico non deve rendere al Giudice testimonianza su fatti e circostanze
inerenti il segreto professionale.
La cancellazione dall’albo non esime moralmente il medico dagli obblighi del
presente articolo.
156
Manuale della Professione Medica
Art. 11 - Riservatezza dei dati personali
Il medico è tenuto al rispetto della riservatezza nel trattamento dei dati personali del paziente e particolarmente dei dati sensibili inerenti la salute e la vita
sessuale. Il medico acquisisce la titolarità del trattamento dei dati sensibili nei
casi previsti dalla legge, previo consenso del paziente o di chi ne esercita
la tutela.
Nelle pubblicazioni scientifiche di dati clinici o di osservazioni relative a
singole persone, il medico deve assicurare la non identificabilità delle stesse.
Il consenso specifico del paziente vale per ogni ulteriore trattamento dei dati
medesimi, ma solo nei limiti, nelle forme e con le deroghe stabilite dalla legge.
Il medico non può collaborare alla costituzione di banche di dati sanitari, ove
non esistano garanzie di tutela della riservatezza, della sicurezza e della vita
privata della persona.
Il dovere della riservatezza
Esercizio della medicina e tutela della riservatezza
I. Il radicale mutamento – organizzativo, strutturale e, in un certo senso,
anche e soprattutto culturale – cui la realtà sanitaria è andata incontro negli
ultimi anni ha coinvolto anche il tema del segreto professionale, che ha progressivamente perso quel significato di principio assoluto che, in un importante contributo di oltre quaranta anni fa, aveva consentito di parlarne nei
termini di «pietra angolare dell’esercizio professionale» e di prerogativa della
professione «che più ha sollecitato il senso di responsabilità etica e morale del
medico».
Le esigenze pubbliche che caratterizzano l’odierno esercizio della medicina, infatti, hanno corroso le basi del rispetto della riservatezza nell’ambito
del rapporto medico-paziente, rendendo problematico il bilanciamento tra
diritti del singolo ed esigenze della collettività.
Le ragioni di tale mutamento sono molteplici.
In primo luogo si è assistito alla progressiva scomparsa della connotazione
privatistica del rapporto medico-paziente, che si è dapprima disperso in una
serie di rapporti interpersonali e si è quindi quasi completamente spersonalizzato, venendo sostituito da un rapporto tra struttura sanitaria e utente della
4. Gli obblighi del medico
157
medesima, alla cui configurazione non sono estranee istanze organizzative,
burocratiche e soprattutto economiche molto distanti dalla tradizione deontologica di matrice ippocratica.
Si è fatta strada, in secondo luogo, una diversa percezione sociale della
malattia, che ha perso, almeno in parte, la connotazione negativa e quasi di
disvalore che sembrava accompagnarla, per cui la persona malata tende a configurarsi più come portatore di diritti che come soggetto bisognoso di cure,
con la conseguenza che il ruolo del medico corre il rischio di essere relegato a
quello di esecutore tecnico dell’altrui volontà.
In terzo e ultimo luogo, l’interpretazione improntata al rigorismo dogmatico proprio della tradizione ippocratica, in cui i principi dell’etica medica
godevano di una sorta di autoreferenzialità, ha lasciato il campo a un’impostazione più duttile, volta a conciliare, in un contesto pluralistico, istanze divergenti, attraverso l’adozione di regole minime e di per se stesse prive di valore
assoluto, che disegnano uno scenario in cui l’agire secondo scienza e coscienza
è sempre meno regola aurea nella definizione del corretto comportamento del
medico e sempre più soltanto uno dei tanti valori in gioco nel delicato intreccio
di rapporti tra professionisti sanitari, cittadini e società.
In questo contesto, la regola del silenzio, che connotava l’esercizio della
medicina, non costituisce più un principio assoluto, ma piuttosto un principio
la cui validità potrebbe definirsi, mutuando il termine dalla riflessione bioetica,
prima facie, nel senso che la sua cogenza è assoluta solo in quelle situazioni in
cui esso non entra in conflitto con altri principi.
In altre parole, quando il medico si trova, come ormai accade sempre più spesso,
a dover fronteggiare situazioni in cui il principio di segretezza si pone in contrasto
con gli interessi, parimenti rilevanti, di altri soggetti o della collettività, l’impegno
alla riservatezza sembra configurarsi più come opzione che come obbligo.
La già richiamata necessità di «conciliare le esigenze del segreto con le esigenze della vita moderna che sono portatrici di interessi prevalentemente di
natura pubblica» ha portato, inoltre, anche a una delimitazione del contenuto
del segreto professionale, il cui orizzonte, una volta così ampio da poter essere
definito nei termini di visa audita atque intellecta, sembra ora restringersi e ridisegnarsi alla luce di molteplici fattori.
Segreto deve allora essere ritenuto «ciò che non è comunemente noto, che
fa ragionevolmente parte dell’intimità dell’individuo, del suo modo di vivere e
158
Manuale della Professione Medica
del suo modo di essere non ovviamente palesi, non destinati comunque all’altrui comune conoscenza», di cui il sanitario abbia nozione a motivo della sua
attività professionale, in analogia con la nozione di dati sensibili di cui alla
normativa in tema di privacy.
L’articolato corpo di norme delineato dal DLgs 196/2003, lungi dal mortificare la libertà e la coscienza del professionista, attribuisce infatti un valore
decisionale di grande rilievo alla responsabilità del singolo, restituendo alla
riservatezza il ruolo di carattere distintivo della vita professionale del medico.
La normativa deontologica del 2006 in tema di segreto professionale e
riservatezza dei dati personali, pur non menzionando espressamente il testo
unico sulla privacy di cui al DLgs n. 196 del 2003, ne riprende nella sostanza il
contenuto per quanto concerne i doveri dei sanitari in questa materia, doveri
che sono esplicitati anche nei vari provvedimenti emanati dall’autorità garante
che dettano disposizioni specifiche in materia
L’analisi deontologica, talvolta, si è soffermata, non senza enfasi retorica, su
vere e proprie situazioni limite, che sembrano appartenere più al campo delle
ipotesi di scuola che a quello del quotidiano operare del medico, tralasciando di
richiamare l’attenzione su tutta una serie di comportamenti corrivi e lesivi – ora
subdolamente ora palesemente – del diritto alla riservatezza della persona assistita, così largamente divenuti consuetudine da non essere più occasione né di
scandalo né di indignazione, e nemmeno di stupore, quasi che si diano per pacificamente scontati il fatto che la norma – sia deontologica che giuridica – abbia
ormai perso il suo carattere imperativo e una sorta di benevola tolleranza (di cui
si ravvisa eloquente traccia nel ritardo rispetto ad altri paesi europei con il quale
il nostro paese si è dotato di un’articolata normativa in tema di trattamento dei
dati personali) nei confronti dello scarso rispetto dell’altrui riservatezza, anche
da parte di chi di tale scarso rispetto rappresenta il soggetto passivo (come
dimostra l’esiguità della casistica giurisprudenziale in materia).
La questione riguarda l’intera realtà sanitaria ed è spia di quel divario tra
principi deontologici e prassi professionale che non investe il solo tema della
riservatezza, ma coinvolge l’esercizio professionale nella sua interezza e fa
amaramente dubitare dell’effettivo ruolo e della concreta efficacia della normativa deontologica, la cui conoscenza spesso non va oltre la ristretta cerchia
degli addetti ai lavori.
Alcuni esempi valgono a esplicitare quanto affermato: nessun medico «si
4. Gli obblighi del medico
159
permetterebbe mai di rivelare nomi, fatti, ad altri, senza una giusta causa o
senza un preciso obbligo giuridico», eppure quello stesso medico «può interrompere tranquillamente un colloquio per ricevere una telefonata durante la
quale cita apertamente persone, eventi, luoghi, non curandosi della presenza di
un interlocutore esterno»; allo stesso modo, in nessuna struttura «si rilascerebbero mai fascicoli o indirizzi, senza una preventiva autorizzazione o una precisa procedura», eppure in quella stessa struttura talvolta «si riceve il pubblico
in locali arredati con scrivanie traboccanti di fascicoli, documenti, nei quali
sono facilmente leggibili nomi, indirizzi, recapiti telefonici»; e ancora: «nessun
dipendente di un servizio riferirebbe, a chiunque lo domandi, il contenuto
degli interventi effettuati nei confronti di un paziente, eppure lo stesso dipendente fornisce informazioni relative agli utenti al telefono, senza controllare
preventivamente l’identità dell’interlocutore che li richiede».
A questo proposito opportunamente – stante la molteplicità e l’eterogeneità delle incombenze amministrativo-burocratiche che affaticano quotidianamente il sanitario – la normativa deontologica (art. 11) fa obbligo al medico
di rispettare la riservatezza nel trattamento dei dati personali del paziente e, in
particolare, di quelli sensibili perché «inerenti la salute e la vita sessuale» dell’interessato, nonché «di non collaborare alla costituzione di banche di dati sanitari, ove non esistano garanzie di tutela della riservatezza, della sicurezza e della
vita privata della persona».
Occorre sempre rispettare un principio di cautela anche nella trasmissione
dei dati personali ad enti che svolgono attività in campo sanitario in modo
da fornire solo le notizie che è strettamente necessario ovvero obbligatorio
segnalare, escludendo comunque quelle che non hanno interesse per la cura
del paziente del pari, nel caso di denunce obbligatorie aventi per destinatari
enti o autorità, alla doverosità della denuncia si affianca per il medico l’obbligo
di attenersi alle sole notizie richieste dalla legge e di vigilare affinché la trasmissione del segreto avvenga nella garanzia della tutela della riservatezza della
persona assistita e, ove la legge lo prevede, del diritto all’anonimato.
Particolare cautela deve inoltre adoperarsi relativamente alla pubblicazione
scientifica – come recita ancora la normativa deontologica – «di dati clinici o
di osservazioni relative a singole persone», avendo cura, quando la correttezza
della comunicazione scientifica impone di rivelare dettagli che potrebbero
consentire l’identificazione del paziente, di ottenere il consenso informato del
160
Manuale della Professione Medica
medesimo, del quale si dovrà dare atto nella pubblicazione a stampa, così come
prescritto dalle raccomandazioni sovranazionali in materia (si tratta in particolare degli Uniform Requirements for Manuscripts Submitted to Biomedical Journals:
Writing and Editing for Biomedical Publication: il documento è consultabile al sito
internet www.icmje.org).
Infine, il riferimento alla obbligatorietà del consenso ritorna – e si tratta
di una significativa innovazione rispetto alla versione previgente, frutto della
mutata sensibilità sociale e della più ampia tutela giuridica in tema di trattamento dei dati personali – anche in quella parte dell’art. 11 del Codice deontologico che detta le indicazioni comportamentali cui il medico deve attenersi.
Particolare attenzione occorre nella redazione di bollettini medici, la cui diffusione deve essere preceduta dall’acquisizione del consenso dell’interessato o
dei suoi legali rappresentanti. In siffatte evenienze, anche in presenza di un valido
consenso, il comportamento del sanitario deve essere improntato a prudenza e
discrezione e le notizie sulle condizioni cliniche del paziente, ancorché si tratti di
persone eminenti o di larga notorietà, devono limitarsi alle informazioni strettamente necessarie; la diffusione ai mezzi di informazione di particolari relativi
alla sfera più intima della persona o l’esasperato dettaglio nell’illustrazione dei
presidi diagnostico-terapeutici messi in atto, così come, per converso, l’alterazione dei dati clinici, integrano infatti un agire deontologicamente censurabile,
in cui la necessaria deroga al dovere generale di riservatezza che origina dal ruolo
pubblico della persona assistita diventa occasione di strumentalizzazioni politiche o di un illecito sfruttamento pubblicitario delle proprie abilità professionali.
Anche in un contesto, quale l’attuale, molto diverso rispetto a quello in
cui il principio del segreto professionale è nato e si è sviluppato, l’impegno
alla riservatezza deve dunque continuare a connotare il quotidiano operare
del medico, in una tensione che la considerazione dell’esistenza e talora della
predominanza di altri interessi non deve svilire, ma anzi esaltare, e nella consapevolezza che la garanzia della conciliazione tra interessi confliggenti va
ricercata in un’adeguata formazione medico-legale del sanitario, che sola «può
preservare dalla pericolosa frattura derivante dai conflitti fra interesse privato e
interesse pubblico, tra impegni deontologici e diritti della società».
II. La stessa antinomia che caratterizza la norma deontologica connota
anche quella penalistica.
4. Gli obblighi del medico
161
L’art. 622 cp, come noto, punisce la rivelazione senza giusta causa di segreto
professionale ovvero il suo impiego a proprio o altrui profitto, sempre che dal
fatto possa derivare un nocumento, inteso come «qualunque detrimento giuridicamente apprezzabile, patrimoniale o non patrimoniale, fisico o morale,
pubblico o privato».
Secondo un’interpretazione aderente alla chiara lettera della norma, l’articolo
in questione configura dunque «due obblighi negativi, consistenti l’uno nel divieto
di rivelare il segreto e l’altro nel divieto di utilizzarlo. Basta la violazione di uno
solo di tali divieti per integrare il reato. Ma mentre il primo di essi viene meno se
sussiste una giusta causa – e venendo meno l’obbligo viene meno la possibilità
della sua violazione e quindi la configurabilità del reato – l’altro sussiste sempre
incondizionatamente non essendo prevista alcuna causa che ne limiti la portata».
Ora, mentre l’impiego a proprio o altrui profitto configura una fattispecie che
non pone particolari problemi interpretativi e appare di rara evenienza, anche se
gli interessi economici che in misura crescente gravitano intorno alla realtà sanitaria possono rappresentare un rischio concreto in questo senso, la rivelazione
senza giusta causa (che rappresenta una fattispecie il cui elemento intenzionale si
identifica nel dolo generico, ossia nella coscienza e volontà di rivelare un segreto,
indipendentemente dalla finalità) ha dato luogo, nonostante l’esiguità della casistica giurisprudenziale, a una querelle dottrinaria ormai annosa e tuttora irrisolta,
di cui è agevole ritrovare traccia nella manualistica medico-legale, alla quale in
questa sede si rimanda per un approfondimento della questione.
Se infatti non v’è dubbio che nella nozione di giusta causa rientrino sia le
cause imperative (nel senso che esse obbligano alla rivelazione del segreto),
la cui ricorrenza si ha allorché la rivelazione si configura, ex art. 51 cp, come
adempimento di un dovere da parte del medico (rientrano in questo ambito
le denunce sanitarie obbligatorie, i certificati obbligatori, il referto, la denuncia
di reato, la perizia e la consulenza tecnica, l’ispezione corporale ordinata dal
giudice, l’arbitrato, le visite medico-legali richieste ed espletate per conto della
struttura sanitaria pubblica), sia le cause permissive (nel senso che esse consentono la rivelazione del segreto), nell’ambito delle quali rientrano le ipotesi
scriminanti espressamente previste dal codice penale agli artt. 45 (caso fortuito
o forza maggiore), 46 (costringimento fisico), 47 (errore di fatto), 48 (errore
determinato dall’altrui inganno), 50 (consenso dell’avente diritto), 51 (esercizio
di un diritto), 52 (difesa legittima) e 54 (stato di necessità); molto invece si è
162
Manuale della Professione Medica
discusso e si discute sulla cosiddetta giusta causa sociale, il cui apprezzamento
trascende la norma penale.
Le ipotesi di scuola hanno classicamente riguardato il caso del conducente
di veicoli portatore di una patologia che ne mette a rischio la capacità di guida
o, più recentemente, quello del rapporto tra psicoterapeuta e paziente pericoloso, che ha avuto larga eco soprattutto negli Stati Uniti, dove, dopo la vicenda
Tarasoff, si è giunti, anche sulla spinta di una non esigua casistica giurisprudenziale, alla elaborazione di un vero e proprio duty to warn.
Nel nostro paese, dove scarsa attenzione è stata dedicata al problema della
tutela della riservatezza nell’ambito del setting psicoterapeutico, nuova linfa al
dibattito è stata portata, come già accennato in precedenza, dall’emergere del
fenomeno AIDS, che ha reso particolarmente delicata la scelta per il medico
tra tacere o rivelare relativamente al problema della liceità della comunicazione
dello stato di infezione del proprio paziente al partner sessuale di questi, liceità
che può ammettersi o attraverso un’interpretazione estensiva – che sembra
prescindere cioè dal requisito dell’attualità del pericolo – dello stato di necessità di cui all’art. 54 cp ovvero invocando, per l’appunto, la legittimità di «giuste cause di rivelazione per così dire sociali o comunque non previste dalla
norma», che assumerebbero conseguentemente dignità giuridica.
Mentre per parte della dottrina nell’interpretazione della nozione di giusta
causa occorre attenersi al suo significato giuridico letterale, per cui è giusta solo
quella causa che tale è ritenuta e prevista dalla legge, non assumendo pertanto
la causa socialmente rilevante alcun rilievo nella fattispecie in commento, per
altra parte della dottrina la rivelazione dettata dall’esigenza di tutelare la salute
altrui non è meritevole di riprovazione penale, essendo riscattata dalla finalità
sociale perseguita e dall’interesse collettivo attuato, in quanto, poiché il precetto morale di non violare il segreto precede e informa l’analogo precetto
penale, quest’ultimo risente delle stesse deroghe che impediscono al primo
di «ergersi come la consacrazione di un principio assolutamente inalterabile e
intangibile».
L’estrema genericità della norma sembra invero autorizzare entrambe le
interpretazioni.
Il riferimento all’art. 5, 4° comma, della legge n. 135/1990 consente tuttavia di fugare alcune incertezze relativamente alla questione in commento.
Nello stabilire che «la comunicazione di risultati di accertamenti diagnostici
4. Gli obblighi del medico
163
diretti o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla persona cui tali esami sono riferiti», tale previsione di legge non sembra lasciare
alcuno spazio a interpretazioni diverse, salvo, come già accennato, il ricorso
alla scriminante dello stato di necessità ovvero – ma la legittimità di tale soluzione è in realtà alquanto discussa – a quanto stabilito dall’art. 132 del RD 3
febbraio 1901, n. 45 e successive modificazioni, in base al quale «in tutti i casi
di malattia infettiva e diffusa il medico curante dovrà dare alle persone, che
assistono e avvicinano l’infermo, le istruzioni necessarie per impedire la propagazione del contagio».
In questo senso si pone del resto anche la recente legislazione in tema di
privacy. Se è vero, infatti, che l’insieme dei provvedimenti in materia ha in un
certo senso valorizzato il concetto di giusta causa sociale attraverso la previsione della possibilità di trattare i dati inerenti allo stato di salute, anche in
mancanza del consenso dell’interessato, quando vi sia il perseguimento di finalità di tutela dell’incolumità fisica e della salute di un terzo o della collettività,
subordinando tale possibilità all’autorizzazione del Garante, è del pari vero che
nel caso dell’infezione da HIV esiste una specifica disciplina normativa che
esplicitamente vieta ogni possibilità di partner notification.
Su questo punto ha ritenuto di dover intervenire – proprio per fugare ogni
dubbio in merito all’armonizzazione tra le due discipline – lo stesso Garante
per la protezione dei dati personali con la pronuncia del 19 dicembre 1997,
nella quale è stato precisato che la previsione di cui all’art. 5, comma 4, legge n.
135/1990 («la comunicazione dei risultati degli accertamenti diagnostici diretti
o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla persona
cui tali esami sono stati riferiti») deve considerarsi vigente a tutti gli effetti.
Anche in tema di riservatezza, dunque, così come del resto si è verificato
anche nel caso di altri recenti interventi legislativi aventi per oggetto – direttamente o indirettamente – l’infezione in questione (il riferimento è alle disposizioni
in tema di incompatibilità tra condizioni di salute e detenzione di cui alla legge 12
luglio 1999, n. 231), sopravvive (retaggio di un tempo, peraltro non lontano, in
cui forte era lo stigma sociale nei confronti dei soggetti affetti da HIV/AIDS?)
la previsione di un regime particolare, parzialmente derogatorio rispetto a quello
comune, per i soggetti affetti da HIV/AIDS, che sembra quasi postulare una
dicotomia – più o meno netta a seconda dei casi – tra infezione da HIV e altre
patologie.
164
Manuale della Professione Medica
La necessità o per lo meno l’opportunità di una protezione speciale trae
origine dalla potenzialità discriminatoria di un determinato dato inerente alla
salute; non stupisce, dunque, che nel caso dell’infezione da HIV tale esigenza
sia stata particolarmente avvertita e si sia tradotta in specifiche disposizioni
normative, volte a rafforzare il sistema di garanzie posto a tutela dei diritti
fondamentali della persona.
Tuttavia, ora che lo stigma sociale si è indubbiamente stemperato, anche
grazie – il che solo apparentemente può essere considerato un paradosso –
alla strenua difesa dei diritti umani e all’orientamento garantista che hanno
caratterizzato gli interventi adottati all’insorgere del fenomeno AIDS (si veda
in particolare “UNAIDS/WHO Policy Statement on HIV Testing”, giugno
2004), viene da chiedersi se non sia auspicabile una maggiore duttilità da parte
del legislatore, in modo da riequilibrare – nel rispetto di ben precise condizioni
– il rapporto tra diritti del singolo e interesse della collettività.
In questo senso si pongono le International guidelines on HIV/AIDS and
Human rights proposte nel febbraio del 1998 dalla “United Nations High
Commission for Human Rights” e dal “Joint United Nations Programme on
AIDS”, che ammettono (punto 28 g della Guideline 3) la possibilità da parte
delle legislazioni nazionali di autorizzare gli operatori sanitari, in singoli casi,
a informare i partner sessuali dei propri pazienti dello stato di sieropositività
per l’infezione dei pazienti medesimi, in accordo con i seguenti criteri (il documento è consultabile al sito internet www.unaids.org):
– che la persona sieropositiva per l’infezione da HIV sia stata inserita in un
adeguato programma di counselling;
– che il counselling non sia riuscito a determinare opportune modificazioni
comportamentali;
– che la persona sieropositiva abbia rifiutato di comunicare, direttamente o
indirettamente, il rischio di esposizione all’infezione al suo (o ai suoi) partner;
– che esista un rischio reale di trasmissione al (o ai) partner;
– che l’identità della persona sieropositiva sia taciuta al (o ai) partner, sempre
che ciò sia possibile in pratica;
– che sia garantito un adeguato sostegno alle persone coinvolte.
La stessa esigenza di pervenire a un punto di equilibrio nel bilanciamento tra
diritti individuali e interessi della collettività è del resto attualmente particolarmente
4. Gli obblighi del medico
165
pressante anche nel caso dei dati genetici, per il cui trattamento lo stesso Garante
per la protezione dei dati personali ha posto condizioni estremamente selettive,
ma non ha posto un divieto assoluto, subordinando il trattamento non consensuale di tali dati, in presenza di finalità di tutela dell’incolumità fisica e della salute
di un terzo o della collettività, a un’apposita autorizzazione del Garante, in piena
armonia – a testimonianza della legittimità dell’ipotizzato parallelismo con il caso
dell’infezione da HIV – con quanto stabilito in tema di disclosure e confidentiality
dalle raccomandazioni sovranazionali: il riferimento è in particolare alle Proposed
international guidelines on ethical issues in medical genetics and genetic services emanate nel
dicembre del 1997 dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (il documento è
consultabile al sito internet www.who.int/en/), che ammettono, in determinati casi
e nel rispetto di precise condizioni, la rivelazione del dato genetico.
Tornando all’inquadramento penalistico della questione, deve essere ricordato che, oltre all’art. 622 cp, può trovare applicazione, allorché il medico rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, anche
l’art. 326 cp, relativo alla rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio.
Se rispetto all’art. 622 cp eguale è il principio etico di riferimento, diverso è
invece l’interesse tutelato, in quanto nell’ipotesi sanzionata dall’art. 326 cp tale
interesse riguarda la Pubblica Amministrazione, donde la perseguibilità d’ufficio
e la maggior pena comminata dal codice penale; diverso è inoltre anche l’oggetto
della rivelazione, che nel caso in commento concerne le «notizie di ufficio, le
quali debbano rimanere segrete», mentre nella fattispecie precedentemente analizzata si fa riferimento al più ampio concetto di segreto professionale.
Le ipotesi sanzionate riguardano la rivelazione di segreti d’ufficio, l’agevolazione
della loro conoscenza (punita anche a titolo di colpa) e l’utilizzazione illegittima del
segreto d’ufficio, il cui fine (indebito profitto patrimoniale per sé o altri nella forma
più grave; ingiusto profitto non patrimoniale per sé o altri o danno ingiusto ad altri
nella forma più lieve) rende ragione della diversa previsione edittale.
Non è necessario, perché si perfezioni il reato, che l’informazione d’ufficio
destinata a rimanere segreta sia resa pubblica o divulgata, ma è sufficiente «che
essa sia utilizzata fuori dell’ambito istituzionale in cui deve restare confinata»,
né è necessario che il profitto prospettato si realizzi. Occorre infine precisare
che il reato è punibile a titolo di dolo specifico, nel senso che «la volontà deve
riguardare sia la condotta di chi si avvale» del segreto sia «l’obiettivo del profitto indebito o del danno ingiusto arrecato ad altri».
166
Manuale della Professione Medica
Si tratta di evenienze di raro riscontro in campo sanitario, anche se il verificarsi di tale fattispecie di reato è ipotizzabile in riferimento al rapporto con
industrie farmaceutiche o, più in generale, con terzi estranei al rapporto tra
persona assistita e pubblica amministrazione.
La questione centrale dal punto di vista dell’analisi medico-legale è invero
un’altra, e riguarda «l’esigenza di stabilire, relativamente al carattere di riservatezza proprio dei vari documenti sanitari e delle varie situazioni concretizzabili,
quale delle due norme [tra art. 326 e art. 622 cp] sia applicabile in caso di violazione dell’obbligo di segreto».
L’orientamento della dottrina giuridica su questo punto – almeno relativamente alle ipotesi di rivelazione del contenuto della cartella clinica – si è
mostrato discorde, ora affermando la sussistenza della violazione della norma
di cui all’art. 622 cp ora vedendovi la violazione dell’art. 326 cp ora infine
sostenendo un’ipotesi di concorso formale di reati.
Al di là delle divergenze interpretative della dottrina, ciò che preme qui rilevare
è – proprio in riferimento alla cartella clinica e, più in generale, a tutte quelle forme
di registrazione dell’attività sanitaria a essa assimilabili – che nella conservazione di
tale documento, di cui la giurisprudenza di legittimità ha costantemente ribadito
la natura di atto pubblico, troppo spesso il medico indulge a comportamenti corrivi e talvolta in palese violazione non soltanto della norma penale, ma anche di
quella deontologica. È vero che la normativa in materia è scarsa e ormai inadeguata
rispetto alle esigenze dell’attuale realtà sanitaria, ma è altrettanto vero che si tratta
del principale e più diffuso mezzo al quale è tuttora affidata la registrazione dell’insieme dei dati anamnestici, clinici e diagnostico-terapeutici della persona assistita
(o, se si preferisce utilizzare l’espressione fatta propria dalla legislazione in tema di
privacy, dei dati sensibili), per cui è più che mai doveroso per il medico conformarsi
a un modello comportamentale improntato a prudenza e diligenza.
Un ultimo cenno merita la previsione di cui all’art. 200 cpp, che esonera il
medico dall’obbligo di deporre nel processo penale su quanto ha conosciuto
per ragione della propria professione, salvi i casi i cui vige l’obbligo di riferirne
all’autorità giudiziaria.
La previsione in questione, che sancisce una facoltà e non un dovere e che
può essere superata dal giudice qualora vi sia il dubbio che la dichiarazione
resa per esimersi dal deporre sia infondata, ha un corrispettivo nella norma
deontologica (art. 10), che stabilisce un dovere assoluto, vietando al medico di
4. Gli obblighi del medico
167
«rendere al Giudice testimonianza su ciò che gli è stato confidato o è pervenuto a sua conoscenza nell’esercizio della professione».
Ancora una volta, dunque, si ripropone l’antinomia tra diritto del singolo
e interesse della collettività che percorre l’intero capitolo della riservatezza e
che costituisce, per così dire, un leitmotiv ora sotterraneo ora drammaticamente
manifesto dell’intera riflessione deontologica.
Ai conflitti a essa sottesi il medico non può sottrarsi; deve, invece, ricercare –
si potrebbe dire caso per caso – la composizione tra istanze divergenti, nella consapevolezza che ai molteplici interrogativi che l’argomento in questione pone
all’agire quotidiano del sanitario non è data una risposta universalmente valida.
Art. 12 - Trattamento dei dati sensibili
Al medico, è consentito il trattamento dei dati personali idonei a rivelare
lo stato di salute del paziente previa richiesta o autorizzazione da parte di
quest’ultimo, subordinatamente ad una preventiva informazione sulle conseguenze e sull’opportunità della rivelazione stessa.
Al medico peraltro è consentito il trattamento dei dati personali del paziente
in assenza del consenso dell’interessato solo ed esclusivamente quando sussistano le specifiche ipotesi previste dalla legge ovvero quando vi sia la necessità di salvaguardare la vita o la salute del paziente o di terzi nell’ipotesi in
cui il paziente medesimo non sia in grado di prestare il proprio consenso per
impossibilità fisica, per incapacità di agire e/o di intendere e di volere; in
quest’ultima situazione, peraltro, sarà necessaria l’autorizzazione dell’eventuale legale rappresentante laddove precedentemente nominato. Tale facoltà
sussiste nei modi e con le garanzie dell’art. 11 anche in caso di diniego
dell’interessato ove vi sia l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi.
La protezione dei dati sensibili
Normativa
Il settore sanitario rappresenta ratione materiae uno dei più sensibili alle
novità introdotte e per questo la protezione dei cosiddetti dati sensibili, ossia di
quei dati che, riferendosi alla sfera più intima dell’individuo (la salute e la vita
sessuale, oltre agli estremi anagrafici), possono essere usati in modo distorto e
168
Manuale della Professione Medica
illegittimo per finalità estranee alla loro raccolta, rappresenta attualmente una
delle problematiche giuridiche ed etico-deontologiche maggiormente discusse
e soggette a interventi di carattere interpretativo e normativo. D’altra parte,
l’informatizzazione e l’ampia disponibilità dei dati sanitari implica la registrazione e il trasferimento degli stessi fra più utenti e continua a sollevare vari
quesiti proprio in materia di riservatezza e di sicurezza delle reti, con il correlativo problema degli obblighi e delle responsabilità degli operatori coinvolti e
con l’osservanza dei precetti deontologici specifici delle professioni sanitarie.
Il diritto alla riservatezza, ossia a non rendere noti e utilizzabili i propri dati
personali (anagrafici, di residenza ecc.), le proprie generalità, abitudini, preferenze ecc. ha oggi trovato piena e organica disciplina nel nostro ordinamento
con il recente DLgs 30 giugno 2003 n. 196, consolidato con la legge 26 febbraio 2004 n. 45 di conversione con modifiche dell’art. 3 del DL 24 dicembre
2003 n. 354.
Il decreto recepisce secondo la delega contenuta nella legge 127/2001 i
contenuti della Direttiva 2002/58 CE, norma di diritto comunitario di attuazione degli artt. 7 e 8 della menzionata Carta di Nizza.
I primi articoli (1-10) sono dedicati alla disciplina delle “regole generali” in
materia di diritto alla riservatezza e trattamento dei dati sensibili.
Gli artt. 11-22 dettano le regole generali per il trattamento dei dati personali
(informative, trattamento illecito e risarcimento danni, trattamento effettuato da
soggetti che effettuano il trattamento dei dati e il trasferimento dei dati all’estero).
La seconda parte della norma è dedicata alle diverse fattispecie di trattamento dei dati personali con risvolti pubblicistici (ambito giudiziario, di polizia, sanitario, con scopi di ricerca ecc.) al settore bancario e al settore del lavoro
e della previdenza sociale.
Infine la terza parte della norma racchiude negli artt. 141-186 le regole
dedicate alla tutela giurisdizionale avanti il giudice ordinario e il reclamo avanti
il Garante con le relative sanzioni.
Trattamento dei dati personali in ambito sanitario
Il titolo V del DLgs 196/2003 disciplina il trattamento di dati personali in
ambito sanitario. L’art. 77 in deroga alla normativa generale del Codice in materia di
protezione dei dati personali indica le modalità semplificate che dovranno seguire
gli esercenti le professioni sanitarie per l’informativa e l’acquisizione del consenso.
4. Gli obblighi del medico
169
I medici e gli odontoiatri ai sensi dell’art. 76 trattano i dati idonei a rivelare
lo stato di salute:
a) con il consenso dell’interessato senza l’autorizzazione del Garante, se il
trattamento riguarda dati e operazioni indispensabili per perseguire la finalità della tutela della incolumità fisica dell’interessato;
b) anche senza il consenso dell’interessato, ma previa autorizzazione del Garante
se la tutela della salute e dell’incolumità fisica riguarda un terzo o la collettività.
Nel caso di cui al comma a il consenso è prestato con le modalità semplificate.
Sempre nelle fattispecie di cui al primo comma lett. a), e abolita la successiva
lettera a l’autorizzazione del Garante è rilasciata sentito il Consiglio Superiore di
Sanità a meno che si tratti di particolare urgenza.
L’art. 81 del DLgs in questione disciplina la prestazione del consenso che
può essere manifestato anche con una dichiarazione orale. In tal caso il consenso
è documentato anziché con atto scritto dell’assistito con annotazione dell’esercente la professione sanitaria riferita al trattamento di dati effettuati da uno o più
soggetti e alla informativa all’interessato, nei modi indicati negli artt. 78-79-80.
Detta documentazione, anche al fine di renderla riconoscibile ad altro professionista, può essere resa conoscibile dal medico di famiglia o dal pediatra
di libera scelta con apposita annotazione o apposizione di un bollino su carta
elettronica o tessera sanitaria. In tutti i casi l’annotazione deve contenere il
richiamo all’art. 78, comma 4.
La previsione dell’annotazione o dell’apposizione di un bollino sulla carta
elettronica o sulla tessera sanitaria favorisce la circolazione del consenso dei
dati che fa carico, nella fattispecie, esclusivamente al medico di famiglia.
Peraltro il medico di famiglia, il pediatra di libera scelta e il libero professionista medico e odontoiatra possono acquisire il consenso in forma scritta
attraverso la sottoscrizione di un modello predefinito. Il modello dovrà essere
custodito dal medico o dall’odontoiatra e potrà essere esibito in caso di contestazione dell’avvenuto consenso.
L’informazione della persona assistita
Circa le modalità dell’informazione al paziente, il codice della privacy punta
ad uno snellimento della disciplina attraverso l’adozione di modalità semplificate in base alle quali:
– l’interessato o la persona presso la quale sono raccolti i dati personali deve
170
–
–
–
–
–
Manuale della Professione Medica
essere previamente informato per iscritto o oralmente circa le finalità/
modalità del trattamento cui i dati sono destinati;
la natura obbligatoria/facoltativa del conferimento dei dati;
le conseguenze di un eventuale rifiuto a rispondere;
i soggetti/le categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere
comunicati o che possono venirne a conoscenza in quanto responsabili/
incaricati, o nell’ambito della diffusione dei dati stessi;
i diritti dell’interessato;
gli estremi identificativi del titolare o di un suo rappresentante.
In ambito sanitario l’articolo 78 individua le modalità di semplificazione
per l’informativa all’interessato da parte del medico “di famiglia” (o del pediatra), sotto tre profili:
– per quanto riguarda l’ambito “oggettivo” di applicazione, l’informativa
può essere fornita, con un unico atto, per il complessivo trattamento di
dati relativo al paziente (diagnosi, cura, riabilitazione ecc.) e può riguardare
anche dati raccolti presso terzi;
– sotto il profilo “soggettivo”, essa può riguardare anche il trattamento di
dati “correlato” a quello del medico “di famiglia”, ef­­fettuato da altro professionista che con quello venga, in vario modo, in contatto professionale
nell’interesse del paziente;
– infine, circa le modalità, l’informativa è resa preferibilmente per iscritto,
ma anche con modalità alternativa come le più recenti carte tascabili o altri
simili strumenti, integrandola oralmente se necessario.
Appare allora evidente, che anche se semplificata, l’informazione al
paziente dovrà comunque essere adeguata alla sua cultura, alle sue possibilità
cognitive, alle sue condizioni psichiche e di emotività; deve garantire, inoltre,
una comprensione corretta e completa dei dati che possono essere trattati,
delle operazioni eseguibili e delle rilevanti finalità dell’interesse pubblico perseguito. Se questo è vero, non si può, tuttavia, fare ancora una volta a meno
di rilevare la peculiarità del sistema normativo predisposto dal legislatore
atteso che il medico di medicina generale si trova a dover fornire al paziente
una serie piuttosto vasta e articolata di informazioni, in modo semplificato,
ma omnicomprensivo e a dover affrontare tematiche delicatissime (AIDS,
HIV positività, tossicodipendenza, interruzione volontaria della gravidanza)
4. Gli obblighi del medico
171
nei confronti delle quali è tuttora presente una certa forma di diffidenza e
di pudore.
Proprio per questo, al fine di non pregiudicare il rapporto fiduciario che
necessariamente deve essere alla base del rapporto medico-paziente, appare
difficile inquadrare le modalità dell’informazione in regole standardizzate e
rigide, dovendosi semmai rivalutare il ruolo delle norme deontologiche che
sembrano, ancora una volta, da sole in grado di indicare quali siano i presupposti che il medico deve rispettare affinché la comunicazione possa dirsi corretta.
Deroghe ammesse
La previsione di specifiche deroghe, nei casi in cui si impongono cogenti esigenze di tutela della salute e della collettività, ha trovato un’attenta normazione nel
codice della privacy laddove nell’art. 24 sono state riunite, in ragione della sostanziale omogeneità della disciplina, le disposizioni che autorizzano il trattamento di
dati personali anche in assenza del consenso, unificando, in sostanza, i previgenti
articoli 12 e 20 della legge n. 675/1996. L’art. 24 fa salve le specificità riconosciute,
in alcuni casi, per la comunicazione e, soprattutto, per la diffusione dei dati (lett.
c, f, e g). La disciplina risulta ora più chiara, essendo state eliminate alcune duplicazioni e apportate talune opportune precisazioni; in relazione alle lettere a) e b),
è stato meglio specificato, in conformità a quanto previsto dalla direttiva europea
(art. 7, par. 1, lett. c), Dir. 95/46/CE), il presupposto di liceità del trattamento
relativo alla sussistenza di un obbligo legale, riferita ora correttamente alla necessità di adempiere comunque ad un obbligo previsto dalla legge, e non più solo al
caso di “dati raccolti e detenuti” in base al medesimo obbligo. Inoltre il legislatore
ha inteso chiarire che il presupposto di liceità del trattamento riferito all’esigenza
di salvaguardare la vita o l’incolumità di un terzo è comunque applicabile anche
fuori dei precedenti casi in cui veniva specificato che l’interessato non può, per
incapacità o altri motivi, prestare il proprio consenso. In relazione al caso in cui
la medesima finalità riguardi la vita o l’incolumità dell’interessato, la disciplina
risulta conforme a quella vigente in ambito sanitario in relazione al trattamento
di dati idonei a rivelare lo stato di salute per finalità di cura della persona, che in
base alle disposizioni previgenti risultava più rigorosa rispetto a quella del trattamento di dati comuni o sensibili effettuato da soggetti diversi da quelli sanitari. La
disciplina prevede, ora, che anche in questi ultimi casi, se manca il consenso della
persona incapace o altrimenti impossibilitata a prestarlo è necessario acquisire il
172
Manuale della Professione Medica
consenso dei prossimi congiunti o familiari, e si può procedere al trattamento dei
dati personali dell’interessato solo se sia impossibile acquisire anche il consenso di
tali soggetti o vi è rischio grave e imminente per la salute della persona, purché il
consenso sia acquisito successivamente (art. 82, comma 2).
Questa novità legislativa è stata sostanzialmente recepita nel nuovo Codice
di Deontologia del 2006 che, nell’ultimo periodo dell’art. 12, contiene anche il
riconoscimento, in favore del medico, della facoltà di procedere al trattamento
dei dati personali di un assistito, anche in presenza del diniego dell’interessato,
ove vi sia «l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi», senza la necessità di
richiedere un’autorizzazione al Garante, come invece era previsto nell’art. 9 del
Codice deontologico del 1998.
Riguardo al DPR 10 novembre 1999 (Tutela salute mentale 1998-2000) che
prevede che presso la direzione del Dipartimento di salute mentale (DSM) sia
collocato il sistema informativo dipartimentale che raccoglie, elabora e archivia
i dati di struttura, processo di esito, il Garante precisa che ciò non impone alle
strutture di ricovero private di fornire al DSM competente l’elenco nominativo
dei soggetti che abbiano fatto ricorso a esse. È da verificare, codice alla mano,
se debbano essere inviati al sistema informativo del DSM solo dati anonimi e
aggregati e non anche i loro dati identificativi.
Reclami alle ASL e qualità del SSN
Riguardo al trattamento di dati raccolti dalle ASL, telefonicamente o tramite altri strumenti di indagine, relativamente alla gestione dei reclami, o per
il rilevamento della qualità sanitaria, si precisa che – nonostante venga considerato di rilevante interesse pubblico dal codice – tali indagini possono essere
effettuate solo dopo aver individuato i tipi di dati trattabili e le operazioni su di
essi eseguibili secondo il Codice.
In materia di consegna dei referti medici, l’Autorità – ricordando numerosi
casi di ASL che li trasmettevano tramite fax di altri soggetti (tabaccheria, uffici
privati ecc.) – ricorda come il Codice preveda che i dati personali inerenti lo
stato di salute possano essere resi noti al paziente solo per il tramite del medico
designato dallo stesso. Il Codice stabilisce, inoltre, che il personale di assistenza
sanitaria, non tenuto per legge al segreto professionale, possa venire a conoscenza delle informazioni sullo stato di salute dei pazienti, solo per quanto
riguarda quelle strettamente necessarie per il migliore svolgimento delle sue
4. Gli obblighi del medico
173
funzioni, e di trattarle comunque in conformità alla normativa in materia di
protezione dei dati personali.
Con l’introduzione di un modello di ricetta medica a lettura ottica e la
costituzione di una banca-dati centralizzata (contenente il codice fiscale degli
assistiti) in cui confluiscono i dati riguardanti le prescrizioni di farmaci e di
prestazioni specialistiche, al fine di monitorare meglio e tenere sotto controllo
la spesa sanitaria, si incorre però anche nel problema (e nel rischio) di permettere abusivamente la ricostruzione analitica della storia sanitaria di ciascun
soggetto.
Riguardo alla ricorrente sollecitazione di pronunciarsi in merito alla possibilità di comunicare ai familiari lo stato di sieropositività di un paziente con prognosi grave, il Codice non contiene deroghe alle disposizioni di legge vigenti,
soprattutto la legge 5 giugno 1990, n. 135 che stabilisce l’obbligo di comunicare
i risultati di accertamenti diagnostici, diretti o indiretti, per l’infezione dell’HIV,
alla sola persona cui tali esami si riferiscono. Pertanto la comunicazione ai familiari non può prescindere dal consenso dell’interessato. Particolarmente controverso è invece – anche in termini di responsabilità penale – la valutazione
dell’opportunità che il medico provveda a sensibilizzare la persona sieropositiva
e cerchi di persuaderla a comunicare al coniuge la propria sieropositività oppure
a manifestare il proprio consenso alla rivelazione da parte del medico stesso.
Sono da valutare, infatti, le possibili responsabilità penali del soggetto che, consapevole del proprio stato patologico, ometta di informare il coniuge, nonché le
riflessioni in ambito giuridico e scientifico sui presupposti per l’eventuale applicazione del cosiddetto “stato di necessità” nel caso in cui la sieropositività sia
resa nota dal medico, senza un consenso, ad un familiare del paziente. Il difficile
bilanciamento dei diversi interessi – sostiene il Garante – non può essere risolto
applicando tout court le recenti disposizioni che prevedono, in caso di impossibilità fisica, di agire o di intendere, o di volere dell’interessato, che il consenso
possa essere validamente prestato anche da persone diverse da quest’ultimo,
dovendosi considerare anche la norma che la riguarda, in termini omogenei
rispetto a tutto il quadro normativo. Senza una forte tutela delle loro informazioni, le persone rischiano sempre di più d’essere discriminate per le loro opinioni, credenze religiose, condizioni di salute: la privacy si presenta così come
un elemento fondamentale della società dell’eguaglianza. Senza una forte tutela
dei dati riguardanti i loro rapporti con le istituzioni o l’appartenenza a partiti,
174
Manuale della Professione Medica
sindacati, associazioni, movimenti, i cittadini rischiano d’essere esclusi dai processi democratici: così la privacy diventa una condizione essenziale per essere
inclusi nella società della partecipazione. Senza una forte tutela del “corpo elettronico”, dell’insieme delle informazioni raccolte sul nostro conto, la stessa
libertà personale è in pericolo e si rafforzano le spinte verso la costruzione di
una società della sorveglianza, della classificazione, della selezione sociale.
In materia di dati personali in ambito sanitario, il Garante ha adottato un
provvedimento ove sono individuati i trattamenti di dati idonei a rivelare lo stato
di salute esonerati dall’obbligo di notificazione di cui all’art. 37 del Codice (Deliberazione n. 1, del 31 marzo 2004). Sono esonerati da tale obbligo esclusivamente i trattamenti effettuati dai singoli professionisti e dagli altri medici che, in
forma associata, condividono il trattamento con altri professionisti, specie all’interno di uno stesso studio medico. L’esenzione riguarda solo tali soggetti e si
riferisce unicamente al trattamento di dati genetici e biometrici, di dati relativi alla
procreazione assistita, ai trapianti, alle indagini epidemiologiche, alla rilevazione
delle malattie mentali, infettive, diffusive e alla sieropositività che siano effettuati nell’ambito degli ordinari rapporti con il paziente. L’esonero non opera,
invece, se il trattamento è sistematico e assume il carattere di costante e prevalente attività del medico come, ad esempio, quello dei dati genetici effettuato da
un genetista. Non è previsto esonero neppure per i trattamenti di dati genetici e
biometrici effettuati da strutture sanitarie pubbliche o private (ospedali, case di
cura e di riposo, Aziende sanitarie, laboratori di analisi, associazioni sportive).
Il Garante precisa che devono essere notificati solo i trattamenti relativi ad
una banca-dati on-line. Non vanno quindi notificati i trattamenti di dati sanitari
nell’ambito della tele-assistenza (consultazione di specialisti per via telefonica)
e quelli organizzati in archivi cartacei, o informatizzati ma non collegati ad
una rete telematica. Non devono notificare dati, infine, i medici che usano il
computer, unicamente nel proprio ufficio, utilizzando posta elettronica per
dialogare con i pazienti e per effettuare prenotazioni per gli assistiti.
L’Autorità interviene in collaborazione con il Ministero della Salute in
ordine alle modalità di attuazione dell’art. 17 della legge n. 40/2004 nella parte
in cui prevede che le strutture e i centri in cui si praticano tecniche di procreazione medicalmente assistita trasmettano al Ministero «un elenco contenente
l’indicazione numerica degli embrioni prodotti […] nonché», nel rispetto delle
vigenti disposizioni sulla tutela della riservatezza dei dati personali, l’indica-
4. Gli obblighi del medico
175
zione nominativa di coloro che hanno fatto ricorso alle tecniche medesime a
«seguito delle quali sono stati formati gli embrioni». Il Ministero ha poi specificato che non si sarebbe più sollecitata una comunicazione nominativa di tutti
gli interessati che avevano fatto ricorso alla procreazione assistita presso i centri e che, al contrario, si sarebbe proceduto alla sola richiesta di inviare al Ministero una serie di codici numerici riferiti al centro, alla Regione di riferimento e
a un numero sequenziale per ogni embrione congelato, in collegamento con i
dati identificativi (che rimarranno in possesso esclusivamente dei centri).
Il trattamento dei dati genetici
Il Garante per la protezione dei dati personali ha emanato in data
22/2/2007, un’autorizzazione generale al trattamento dei dati genetici, pubblicata sulla GU n. 65 del 2007 e reperibile sul sito www.garante privacy.it.
Questo provvedimento ha la precisa finalità di assicurare un’adeguata protezione ai dati genetici, categoria nella quale la Raccomandazione n. R(97) inserisce «tutti i dati, di qualunque tipo, che riguardano i caratteri ereditari di un individuo
o che sono in rapporto con i caratteri che formano il patrimonio di un gruppo di individui
affini» e che, pur rientrando nella più ampia categoria dei dati sanitari, per la loro
particolarità possono essere trattati solo a determinate condizioni.
Il provvedimento in esame, dopo avere definito il dato genetico come «il dato
che, indipendentemente dalla tipologia, riguarda la costituzione genotipica di un individuo,
ovvero i caratteri genetici trasmissibili nell’ambito di un gruppo di individui legati da vincoli di
parentela», individua e precisa l’ambito di applicazione dell’autorizzazione generale, le finalità consentite del trattamento e le modalità di trattamento, nonché
le modalità con le quali deve essere fornita all’interessato l’informativa e deve
essere raccolto il consenso e individua la durata massima della conservazione
dei campioni biologici prelevati e dati genetici trattati.
In relazione all’informativa che deve essere fornita all’assistito, appare utile
evidenziare che per il medico di medicina generale e il pediatra di libera scelta
rimangono ferme le prescrizioni al riguardo contenute nell’art. 78 del DLgs n.
196 del 2003 in quanto nell’autorizzazione generale del 22/2/2007 è stabilito
che per i trattamenti «non sistematici di dati genetici – [effettuati da queste categorie di sanitari] nell’ambito degli ordinari rapporti con l’interessato per la tutela della
salute e dell’incolumità fisica di quest’ultimo» – non si applicano gli ulteriori obblighi
informativi previsti nel provvedimento in esame.
176
Manuale della Professione Medica
L’autorizzazione in oggetto aveva, in origine, efficacia dal 1 aprile 2007 al
31 dicembre 2008; questa durata è stata poi prorogata con successivi provvedimenti del Garante, tra cui va menzionata la delibera del 27 aprile 2010,
pubblicata sulla GU n. 108 dell’11/5/2010, nella quale si evidenzia che, tenuto
anche conto delle proposte di modifica e integrazione sottoposte all’attenzione
del Garante da parte della Società di genetica umana, è stato elaborato un
nuovo schema di autorizzazione che è stato trasmesso al Ministero della Salute
al fine di acquisire il parere dell’Istituto Superiore di Sanità, prescritto dall’art.
90, primo comma, del codice in materia di protezione dei dati personali di cui
al DLgs n. 196 del 2003.
La materia, anche per la sua peculiarità, non ha ancora trovato, quindi, una
sua stabile regolamentazione normativa.
Art. 51 - Obblighi del medico
Il medico che assista un cittadino in condizioni limitative della libertà personale è tenuto al rispetto rigoroso dei diritti della persona, fermi restando gli
obblighi connessi con le sue specifiche funzioni.
In caso di trattamento sanitario obbligatorio il medico non deve richiedere o
porre in essere misure coattive, salvo casi di effettiva necessità, nel rispetto
della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge.
Il Capo IX del Codice di Deontologia medica è dedicato a “trattamento
medico e libertà personale”. Con il termine “trattamento medico” si viene
a confermare l’ampliamento dell’ambito di pertinenza che precedentemente
faceva riferimento in modo esclusivo ai pazienti reclusi.
L’art. 51 del Codice sottolinea pertanto che il medico è comunque sempre
tenuto a rispettare i diritti della persona assistita, anche se questa versa in condizioni restrittive e/o limitative della libertà personale per motivi giudiziari, mentre
il secondo comma precisa che il sanitario non deve porre in essere misure coattive se il soggetto passivo rifiuta il trattamento sanitario obbligatorio, salvo i casi
di effettiva necessità, e sempre nel pieno rispetto della dignità umana.
Si è pertanto ribadito come il medico, se non in casi eccezionali e previsti
dalle normative vigenti, non possa e non debba mai essere fonte di violenza
e di costrizione nei confronti di un paziente che non voglia essere sottoposto
4. Gli obblighi del medico
177
a determinati trattamenti e terapie, come suggerisce il dettato costituzionale.
Lo stato di reclusione del paziente in istituti di pena non comporta per
il medico alcuna modifica dei doveri di rispetto dei diritti e della dignità
dell’assistito. Il dovere del medico, individuato nell’art. 3 nella «tutela della
vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel
rispetto della libertà e della dignità della persona umana», non deve subire
condizionamenti nel caso la persona assistita si trovi in condizioni limitative
della libertà personale.
Viene quindi in tal modo recepito il principio costituzionale per il quale
tutti i cittadini hanno pari dignità senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.
Il medico anche in considerazione degli obblighi connessi con le sue specifiche
funzioni, al rispetto delle quali il contenuto dell’art. 51 si richiama, non potrà contravvenire a quei doveri deontologici che caratterizzano la sua attività professionale.
Art. 52 - Tortura e trattamenti disumani
Il medico non deve in alcun modo o caso collaborare, partecipare o semplicemente presenziare a esecuzioni capitali o ad atti di tortura o a trattamenti
crudeli, disumani o degradanti.
Il medico non deve praticare, per finalità diversa da quelle diagnostiche e
terapeutiche, alcuna forma di mutilazione o menomazione, né trattamenti crudeli, disumani o degradanti.
Tra i divieti previsti all’art. 52, per il medico si rileva anche la sola collaborazione, la partecipazione (diretta o indiretta) ad atti di tortura o a trattamenti
crudeli, disumani e degradanti contro i suoi simili, e financo la presenza alle
esecuzioni capitali, anche se nel nostro paese la pena di morte non è prevista
dall’ordinamento giuridico; inoltre in tal senso è stato modificato anche l’ordinamento militare che la stabiliva solo in caso di guerra. Il fatto che nella nostra
nazione il problema delle esecuzioni capitali non esista avvalora il rilievo che
il Codice dà al divieto sopraindicato, intendendolo come volontà esplicativa
anche internazionale in merito alla tematica della pena di morte.
In certi paesi, per esempio alcuni stati degli USA, questa pena ancora esiste ed è prevista nell’ordinamento giudiziario, nonostante il dibattito pubblico
contro la stessa ferva continuamente a livello sanitario, sociale e politico.
178
Manuale della Professione Medica
In situazioni di questo tipo la presenza del medico è richiesta, e pertanto
chi vi partecipa non è poi sanzionato sotto nessun profilo.
L’ultimo comma dell’art. 52 pone divieto al medico di praticare qualsiasi
forma di mutilazione sessuale femminile, per finalità che non siano diagnostiche e/o terapeutiche, e certamente risente della nuova struttura multirazziale
della società, venendosi a configurare come forma di rifiuto di qualunque tipo
di attività, sia pure sostenuta da motivazioni ideologiche, filosofico-spirituali
e religiose, che è però da ritenere illecita sotto il profilo squisitamente eticodeontologico, configurandosi per esempio l’infibulazione una forma di mutilazione che non può venire accettata nella società moderna e progredita.
Il dettato dell’art. 52 del Codice di Deontologia medica sancisce anche
l’assoluta incompatibilità dell’esercizio della medicina con pratiche lesive della
libertà, della dignità e dell’integrità dell’essere umano, e dovunque tali pratiche
vengano effettuate il medico non può neanche solamente presenziare.
Anche nei codici di altri paesi europei, per esempio Francia, Spagna, Portogallo e Lussemburgo, al medico è vietato partecipare direttamente o indirettamente a torture e trattamenti degradanti per la natura umana, sia in tempo di
pace sia in occasioni belliche, e in alcuni casi è specificato che egli può sporgere denuncia all’autorità giudiziaria qualora visitando un detenuto constati
che questi abbia subito maltrattamenti o trattamenti inumani o crudeli (anche
se nel codice del Lussemburgo è necessario il consenso dell’interessato a meno
che non versi in condizioni tali da non poterlo esprimere).
Per quanto rileva comunque l’obbligo del medico di denunciare all’autorità giudiziaria situazioni delittuose di maltrattamenti o lesioni a reclusi dallo stesso constatate, ricordiamo come l’obbligo sia giuridicamente stabilito dal Codice penale
agli artt. 361, 362 e 365, riguardanti, rispettivamente, l’omessa denuncia da parte
di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio e l’omissione di referto.
Art. 53 - Rifiuto consapevole di nutrirsi
Quando una persona rifiuta volontariamente di nutrirsi, il medico ha il dovere
di informarla sulle gravi conseguenze che un digiuno protratto può comportare sulle sue condizionni di salute. Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere
iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale
nei confronti della medesima, pur continuando ad assisterla.
4. Gli obblighi del medico
179
L’argomento trattato nell’articolo ha una valenza generale, in quanto prevede che una qualunque persona sana di mente possa rifiutare volontariamente
e consapevolmente di nutrirsi, rilevando l’importanza e l’attualità di fenomeni
ormai piuttosto abituali nella nostra società moderna, soprattutto a livello adolescenziale, che sempre più di frequente il medico si trova a dover affrontare.
Questo articolo fornisce al sanitario delle direttive e linee-guida che, da un
lato, ribadiscono il dovere di informare il soggetto sulle conseguenze della
sua azione e, dall’altro, sottolineano la libertà dello stesso, con l’assunzione
da parte sua della responsabilità delle conseguenze della propria decisione.
Il medico, inoltre, non è tenuto ad assumere iniziative di tipo costrittivo, in
piena coerenza con le preposizioni già esplicitate nel Codice in tema di consenso informato. Viene evidenziato sempre il dovere primario del medico, cioè
quello di fornire assistenza al soggetto qualora ne necessitasse, in ogni caso.
Art. 40 - Donazione di organi, tessuti e cellule
È obbligo del medico la promozione della cultura della donazione di organi,
tessuti e cellule anche collaborando alla idonea informazione ai cittadini.
Art. 41 - Prelievo di organi e tessuti
Il prelievo di organi e tessuti da donatore cadavere a scopo di trapianto terapeutico può essere effettuato solo nelle condizioni e nei modi previsti dalla legge.
Il prelievo non può essere effettuato per fini di lucro e presuppone l’assoluto
rispetto della normativa relativa all’accertamento della morte e alla manifestazione di volontà del cittadino.
Il trapianto di organi da vivente è una risorsa aggiuntiva e non sostitutiva del
trapianto da cadavere, non può essere effettuato per fini di lucro e può essere
eseguito solo in condizioni di garanzia per quanto attiene alla comprensione
dei rischi e alla libera scelta del donatore e del ricevente.
I trapianti di organi e tessuti costituiscono certamente uno dei più rilevanti
progressi della medicina nella cura di un grande numero di malattie per le quali
non esiste nessuna soluzione alternativa e i progressi delle tecniche chirurgiche
180
Manuale della Professione Medica
associati alla scoperta di nuovi farmaci hanno migliorato moltissimo la tolleranza
dell’organo trapiantato nel ricevente, facendo sì che migliaia di persone che ne
avevano assoluto bisogno beneficiassero con successo della trapiantologia. Con
la legge del 1° aprile 1999, n. 91, l’Italia ha sviluppato ormai un modello efficace
per la donazione e il trapianto di organi che ha permesso al paese di raggiungere una buona posizione a livello europeo: tuttavia il grande problema rimane
sempre quello della domanda, che inevitabilmente supera l’offerta. Per questo
è necessario che il medico innanzitutto sensibilizzi le persone sul fatto che la
collaborazione di ciascuno di noi in questo campo è fondamentale per poter
diminuire il divario tra la disponibilità la necessità di organi.
Le principali istanze etico-deontologiche rispetto ai trapianti sono rappresentate dalle seguenti fattispecie, nel caso di donazione da donatore vivente:
1) la donazione stessa non deve essere considerata un obbligo morale, ma un
grande atto positivo; 2) i valori morali di una libera donazione di rene non
possono essere oggetto di scelta da parte dei centri di trapianto, ma debbono
essere lasciati alla libera e consapevole decisione dei singoli; 3) la vendita degli
organi è immorale in quanto esclude il meno abbiente, mortifica la dignità
del donatore, viola il principio della capacità di accesso alle prestazioni; 4) il
donatore dovrebbe essere un consanguineo che dia un libero consenso o può
essere un non consanguineo, se legato affettivamente; 5) un minorenne non
dovrebbe essere donatore vivente; 6) i rischi generici per il donatore sono da
mettere in bilancio con il vantaggio per il malato.
Nel caso di donazione da donatore cadavere, invece, dovrebbe verificarsi
quanto segue: 1) il consenso dei familiari, in assenza di altre disposizioni del
de cuius, dovrebbe essere ottenuto, o quanto meno il non rifiuto all’espianto; 2)
il prelievo degli organi va eseguito dopo la definizione della morte cerebrale
con i parametri dettati dalle norme per accertarla, con accertamento di morte
eseguito da équipe indipendenti da quelle che espiantano e da quelle che trapiantano; 3) l’esecuzione di tutte le indagini diagnostiche a oggi conosciute per
escludere il rischio di trasmissione di malattia attraverso il trapianto; 4) la scelta
del trapianto come terapia per un dato paziente deve sempre essere considerata in alternativa ad altre, mediante la valutazione costi-benefici e dei rischibenefici e la considerazione innanzitutto del bene del paziente, caso per caso e
situazione per situazione, della cultura che le persone esprimono nei confronti
del trapianto e anche della morte; 5) la scelta dei riceventi dalle liste di attesa
4. Gli obblighi del medico
181
deve avvenire sulla base di criteri predeterminati e condivisi, che tengono
conto della compatibilità degli organi, delle condizioni di gravità dei pazienti e
del tempo di attesa; 6) gli organi prelevati in una regione devono essere attribuiti ai centri trapianto della stessa regione, con eccezioni regolamentate per le
urgenze, le emergenze, i prestiti e le restituzioni a livello interregionale, nazionale e internazionale; 7) i prelievi e i trapianti di organi (non di cornea) devono
essere eseguiti solo in strutture pubbliche, con autorizzazione del Ministero
della Sanità; 8) rendicontazione pubblica dell’attività, della provenienza degli
organi, dei trapianti eseguiti e dei loro risultati immediati e a distanza.
Il trapianto a scopo di lucro non è deontologicamente ammesso, perché
prevede il pagamento di un compenso a un donatore vivente, che in cambio
offre un proprio organo: in questo caso il trapianto può interessare solo organi
e tessuti non vitali (per esempio il rene) o capaci di rigenerarsi (fegato, midollo
osseo). Il crescente sviluppo che riguarda tale pratica è da imputarsi alla maggiore richiesta di trapianti, alla minor disponibilità di trapianto da cadavere e
a un allungamento delle liste di attesa, oltre che a una crescente offerta sul
mercato internazionale.
Il trapianto a scopo di lucro non sempre è un atto volontario di un singolo
donatore, ma è spesso associato al traffico di organi umani. Desta infatti preoccupazione la scomparsa ogni anno di migliaia di bambini, mai più ritrovati,
in Italia e altri paesi europei, e il fatto che le adozioni internazionali registrate
nei paesi UE sono molte meno del numero di bambini partiti per l’Europa
secondo le anagrafiche dei paesi di origine; a questi si sommano i feti di aborti
clandestini (cellule staminali) dei quali non si conosce la fine e l’ipotesi di un
mercato degli aborti nelle fasce povere della popolazione, dovuti non a una
libera scelta della puerpera, ma alla possibilità di prelievo e vendita degli organi
da cadavere.
5
Tutela della salute collettiva, igiene
pubblica e ambiente
A. Alimonti, F. Centini, S. Del Vecchio, D. Mattei, A. Pagni
Art. 5 - Educazione alla salute e rapporti con l’ambiente
Il medico è tenuto a considerare l’ambiente nel quale l’uomo vive e lavora
quale fondamentale determinante della salute dei cittadini.
A tal fine il medico è tenuto a promuovere una cultura civile tesa all’utilizzo
appropriato delle risorse naturali, anche allo scopo di garantire alle future
generazioni la fruizione di un ambiente vivibile.
Il medico favorisce e partecipa alle iniziative di prevenzione, di tutela della
salute nei luoghi di lavoro e di promozione della salute individuale e collettiva.
Attenzione per l’ambiente e prevenzione della salute
La ricerca applicata, l’evoluzione delle tecnologie, il progresso delle conoscenze in tutte le discipline scientifiche in particolar modo nel campo medico,
l’incremento delle risorse destinate alla prevenzione delle malattie sono tra i
principali fattori che hanno contribuito e contribuiscono al prolungamento delle
aspettative di vita e al miglioramento dello stato di salute della popolazione.
D’altra parte, invece, il vertiginoso sviluppo delle attività industriali e produttive, non più confinate in determinate aree, mostra evidenti ripercussioni in
zone del pianeta sempre più estese e lontane, minacciando il diritto alla salute
di intere popolazioni. Molti fenomeni, infatti, tra i quali basti citare il surriscaldamento globale, dimostrano come l’equilibrio uomo/ambiente sia di gran
lunga influenzato dalle esigenze indotte da rapporti economici e sottovaluti
l’impatto di tali cambiamenti sulla salute umana.
Un esempio eclatante è rappresentato dalla progressiva riduzione di una
risorsa essenziale per la vita dell’uomo come l’acqua potabile. Attualmente,
184
Manuale della Professione Medica
anche per effetto della significativa riduzione delle risorse idriche superficiali
e profonde, compromesse dalla contaminazione antropica, un miliardo e 500
milioni di persone non hanno accesso all’acqua ed oltre 2,5 miliardi non ne
hanno abbastanza per soddisfare le proprie esigenze igieniche. Si tratta di
carenze che non rappresentano solo un disagio, ma negano il diritto alla vita a
milioni di persone.
Più in generale, gli effetti delle attività antropiche sull’ambiente comportano il trasferimento di fattori di rischio di natura chimica, fisica e/o biologica
dall’ambiente all’uomo attraverso un’esposizione diretta o indiretta, ad esempio mediante il consumo di alimenti contaminati (Tabella 5.1).
Tabella 5.1. Esempi dell’influenza dell’ambiente sulla salute
(modificata da: http://www.sepa.org.uk/publications/state_of/2006/main/d_human_health.html)
Implicazioni sanitarie
Aria
Una scarsa qualità dell’aria può contribuire al peggioramento dei sintomi
in caso di disturbi respiratori quali bronchite ed asma e può determinare
l’aumento dell’incidenza di malattie cardiovascolari.
Suolo
La contaminazione dei suoli aumenta il rischio di esposizione ad agenti
chimici attraverso la rete alimentare, il contatto diretto o la contaminazione delle risorse idriche. Tale esposizione può dar luogo a patologie (acute) anche gravi come ad esempio quelle causate da agenti microbiologici (Escherichia coli type 0157) o può determinare effetti a lungo termine
(ad es., aumento dell’incidenza di casi di tumore).
Acqua
L’inquinamento può interessare le risorse di acqua potabile, le acque di balneazione e ricreazionali e infine, tutte quelle aree dove ad es. viene praticato l’allevamento e la raccolta di molluschi. Un particolare aspetto riguarda
anche le patologie gastrointeistinali idrodiffuse dovute a contaminazione
microbica.
Clima
I cambiamenti climatici possono determinare l’aumento di infezioni associate
ad una variazione selettiva del profilo microbiologico.
Agenti chimici
L’accumulo nell’ambiente di metalli e di composti organici persistenti può
rappresentare un rischio per la salute (aumento dei casi di cancro).
Radiazioni
L’esposizione diretta a radiazioni e l’accumulo di radioattività nella rete alimentare può contribuire ad aumentare il rischio di cancro. L’esposizione al
radon da fonti naturali in casa è correlata all’aumento di incidenza di cancro
ai polmoni.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
185
Azoto e fosforo di diversa origine (ad es. allevamenti) possono determinare
effetti negativi sulla qualità dell’acqua, come ad es. l’insorgere di fioriture
Eutrofizzazione
algali potenzialmente dannose per l’uomo (irritazioni cutanee, disturbi gastrointestinali, danni epatici).
Rifiuti
Rifiuti urbani possono produrre germi nocivi. Durante il ciclo di smaltimento si
possono produrre sostanze tossiche e cancerogene in grado di innalzare i tassi
di mortalità per cancro e il numero di malformazioni nelle popolazioni residenti
vicino alle discariche.
Che l’ambiente giochi un ruolo essenziale nel determinare le condizioni di
salute e la qualità di vita dell’individuo e di una popolazione è, del resto, drammaticamente evidenziato dalle molteplici “emergenze ambientali” verificatesi
negli ultimi anni e contraddistinte da eccezionali intensità ed estensione, tanto
da dover essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari. È del resto ben
noto che il 75% delle patologie e delle cause di morte è legato all’ambiente più
o meno degradato, ad esposizione occupazionale a sostanze potenzialmente
dannose, nonché a stili di vita inappropriati.
In questo scenario appare evidente che è necessario focalizzare l’attenzione ed investire risorse nell’ambito della prevenzione, intesa come un
insieme di «atti finalizzati a eradicare o a eliminare le malattie e le disabilità
o a minimizzare il loro impatto». Il concetto di prevenzione è usualmente
articolato in livelli, che definiscono una prevenzione convenzionalmente chiamata primaria, una secondaria e una terziaria (Figura 5.1). La prevenzione
terziaria, attraverso ad esempio i classici studi di follow-up, interviene nel caso
di patologie conclamate ed ha il compito di ridurre l’impatto negativo di una
patologia già avviata, ripristinando le funzioni, riducendo le complicanze e le
probabilità di recidive, puntando, in ultima analisi, ad una riduzione del suo
incremento stimato.
Con le tecniche di prevenzione secondaria, invece, attuate su individui singoli o gruppi di popolazione attraverso programmi di screening (ad esempio
programmi di biomonitoraggio) si tende ad effettuare una diagnosi precoce
e quindi rallentare e/o contenere la progressione della malattia grazie ad un
tempestivo intervento di carattere normativo o terapeutico, normalmente da
parte delle autorità sanitarie. Un programma di screening sarà tanto più efficace
quanto maggiormente sarà mirato ed in grado di diminuire l’incidenza di una
patologia della popolazione biomonitorata.
186
Manuale della Professione Medica
La prevenzione primaria consiste, infine, nell’analisi e nella rimozione delle
sorgenti di esposizione, così eliminando o riducendo l’esposizione dell’organismo e riducendo, quindi, la possibilità dell’organismo di sviluppare patologie
collegate allo specifico rischio ambientale. In questo caso si opera sull’individuo sano e/o sull’ambiente, attraverso due tipi di interventi:
– l’allontanamento delle cause di insorgenza o sviluppo di patologie o stati di
disagio, come nel caso di attività di risanamento di siti inquinati;
– il potenziamento di fattori utili alla salute come ad esempio l’intensificazione
dell’attività fisica o l’implementazione di misure di profilassi immunitaria.
Figura 5.1. Strumenti e obiettivi della prevenzione
Su tali basi l’evoluzione del ruolo professionale e civile del medico e di ogni
operatore della salute implica una migliore consapevolezza ed un crescente
orientamento verso la promozione della salute umana anche attraverso scelte
di tutela ambientale, prevenzione degli inquinamenti ed indicazione di corretti
stili di vita. Nell’accezione corrente con il termine inquinamento si intende una
serie di fenomeni alterativi dei cicli biogeochimici e/o dei flussi energetici degli
ecosistemi, per effetto di eventi naturali – quali terremoti, incendi o fenomeni
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
187
erosivi – o per cause antropiche – centrali energetiche, impianti industriali,
inceneritori, discariche, uso di prodotti chimici in agricoltura, traffico veicolare.
L’estensione, la portata e gli effetti dei fenomeni di inquinamento sono evidentemente correlati alla natura ed entità degli agenti inquinanti e alla loro proprietà
di diffondersi attraverso differenti matrici, con conseguente trasferimento della
contaminazione da un comparto ambientale all’altro (aria, suolo, acque superficiali e sotterranee). Sotto il profilo dell’esposizione ad agenti inquinanti appare
evidente come le aree urbane rappresentino un punto critico dal punto di vista
della salute pubblica dato che circa il 48% della popolazione mondiale vive oggi
in agglomerati urbani dove è significativamente maggiore il rischio di esposizione a miscele di agenti fisici e chimici potenzialmente dannosi.
Per orientare le scelte strategiche volte a ridurre l’impatto dell’inquinamento ambientale sulla salute risulta di fondamentale importanza valutare
l’esposizione umana ai diversi fattori di rischio, inclusi potenziali effetti sinergici, attraverso la definizione delle forme chimiche delle differenti sostanze e
gli effetti di trasformazione di queste nelle matrici ambientali, la misura della
biodisponibilità degli inquinanti assimilabili, la stima dell’effettiva capacità di
produrre effetti biologici dannosi.
Tale valutazione rappresenta uno dei punti critici del risk assessment (analisi
del rischio) e degli studi epidemiologici. Il risk assessment si articola in una serie
di azioni pianificate consistenti nell’identificazione delle sorgenti di rischio e
dei conseguenti potenziali rischi di esposizione nonché nella stima dell’entità
di tali rischi di esposizione. È attualmente l’approccio di elezione a supporto di
decisioni per la gestione di molteplici situazioni in cui si configuri un inquinamento ambientale con possibili ricadute sulla salute umana, come ad esempio
nel caso della gestione di siti inquinati. L’analisi di rischio consente, infatti,
di definire e progettare interventi su un territorio dove insistano fenomeni
di contaminazione sulla base dei rischi sanitari ed ambientali oggettivamente
definiti e valutati, consentendo così di decidere sulla necessità di intervento, e
dimensionare ed ottimizzare le risorse necessarie.
Parallelamente, gli studi epidemiologici costituiscono un eccellente strumento d’indagine per evidenziare eventuali effetti a lungo termine di uno o più
fattori di rischio (ad esempio all’esposizione a campi elettromagnetici). In confronto agli studi di laboratorio in vivo o in vitro, tali studi consentono di osservare direttamente le risposte degli individui in condizioni reali, riducendo il
188
Manuale della Professione Medica
tasso di incertezza correlato, tra l’altro, a fenomeni di variabilità inter- ed intraspecifica. Negli studi epidemiologici la stima delle diverse esposizioni ambientali e delle loro interazioni costituisce un elemento conoscitivo fondamentale
anche se è incline a numerose sorgenti di incertezza. Incertezze che derivano
sia da alcune caratteristiche intrinseche dell’inquinamento ambientale sia dalla
molteplicità ed eterogeneità dei possibili scenari di esposizione influenzati da
stili di vita, condizioni socio-economiche, suscettibilità individuale, dieta, ecc.
A ciò si aggiunga la problematicità delle esposizioni a miscele di composti e la
difficoltà nella definizione degli effetti di tali esposizioni.
A fronte della complessità delle valutazioni in precedenza accennate, in
particolare per gli aspetti correlati alla definizione dell’esposizione della popolazione, è comunque indispensabile che i processi decisionali in sanità pubblica
si avvalgano di modelli epidemiologici validi e di strumenti appropriati derivanti da un approccio integrato multidisciplinare.
Tra gli strumenti più validi in tal senso sono da annoverare i sistemi di
sorveglianza sanitaria basati su indicatori specifici di relazione tra ambiente e
salute, alcuni approcci valutativi innovativi (ad esempio, la Valutazione di Impatto
sulla Salute - VIS) e il monitoraggio biologico o biomonitoraggio.
In particolare per sorveglianza sanitaria – secondo la definizione dei Centers
for Disease Control and Prevention americani – si intende un processo consolidato,
consistente nella raccolta sistematica in continuo, nell’analisi e nell’interpretazione di dati sanitari essenziali per pianificare, implementare e valutare la salute
della popolazione, da integrare strettamente all’attività di diffusione di tali dati
nei confronti di tutti coloro che sono interessati. L’anello finale della catena è
costituito dall’applicazione di questi dati nella prevenzione e controllo.
La maggior parte dei sistemi di sorveglianza precedentemente elencati
mostra alcuni limiti intrinseci che li porta a fornire misure di rischio con elevati margini di incertezza. D’altra parte, invece, è necessario sottolineare come
l’approccio basato sul biomonitoraggio presenti la peculiarità di essere relativamente indipendente da effetti sinergici/antagonisti dei diversi inquinanti e
di poter tenere conto dell’azione combinata di tutte le possibili fonti di esposizione (aria, acqua, suolo, polveri, alimenti). Il biomonitoraggio, sebbene sia
una procedura complessa e di non facile realizzazione, consiste in un insieme
di azioni attuate che permette di avere informazioni sull’effettivo grado di
esposizione dell’individuo o di un gruppo di popolazione. Con esso, infatti, si
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
189
è in grado di dosare direttamente il contaminante o i suoi metaboliti nell’organismo bersaglio (dose interna) tenendo in considerazione anche la diversa
suscettibilità individuale allo xenobiotico dovuta ad età e a particolari condizioni fisiologiche, patologiche e/o genetiche.
Il biomonitoraggio, in effetti, sta ricevendo crescente attenzione dalla
comunità scientifica europea se si pensa che il programma di azione comunitario all’interno dell’Environment and Health Action Plan (2004-2010) “Action
3” ribadisce esplicitamente la necessità di sviluppare piani di biomonitoraggio
delle popolazioni in Europa, in stretta collaborazione tra gli stati membri.
Per quanto riguarda il contesto nazionale, campagne di sorveglianza della
popolazione generale sono state condotte finora solo da alcuni gruppi di lavoro
per lo più in ambito di medicina occupazionale o di controllo dell’inquinamento
ambientale. I risultati di tali attività hanno fornito un panorama dell’esposizione
della popolazione italiana frammentario e lacunoso sia per rappresentatività che
per gli xenobiotici studiati, spesso senza definizione delle priorità di intervento,
senza garanzie qualitative delle procedure adottate (nella selezione, analisi e valutazione dei dati). Ciò non ha agevolato l’attuazione di accurate e permanenti
campagne di sorveglianza dell’esposizione della popolazione.
Per superare le evidenti limitazioni nel contesto precedentemente illustrato
è stato avviato in Italia il progetto PROBE (programma di biomonitoraggio
dell’esposizione della popolazione generale, 2008-2010), che pone il nostro
paese tra i pochi stati europei che sono riusciti ad attivarsi nella direzione indicata dall’Action 3. Tale programma di sorveglianza, coordinato dall’Istituto
Superiore di Sanità e finanziato dal CCM (Centro nazionale per la prevenzione
e il Controllo delle Malattie, del Sottosegretariato alla Salute), si propone di
fornire alle istituzioni normative una base di dati affidabile e sufficientemente
completa del grado di esposizione della popolazione generale a contaminanti,
in particolar modo ai metalli, attraverso campagne di monitoraggio a cadenza
biennale di gruppi omogenei e rappresentativi della situazione italiana.
Attualmente, quindi, gli strumenti cognitivi e programmatici sono disponibili
ed utilizzabili per intraprendere politiche di promozione della salute attraverso
l’adozione di strategie finalizzate alla riduzione dell’impatto dei fenomeni inquinanti sulla salute e al miglioramento della salubrità degli ambienti di vita. Nel contempo, tuttavia, è importante sollecitare la partecipazione della comunità alle scelte
e alle decisioni che riguardano la propria salute, sviluppare le capacità personali a
190
Manuale della Professione Medica
partire da una educazione basata su responsabilità e partecipazione, indirizzare i
servizi sanitari, a partire dalla formazione del personale, per arrivare ad un modello
di assistenza che privilegi un approccio più globale di promozione della salute.
Quest’ultimo obiettivo è distintamente individuato nelle linee-guida dell’OMS
che prevedono il raggiungimento di una serie di traguardi entro il 2015 riguardanti tra l’altro la riduzione significativa degli effetti dannosi derivanti da stili
di vita inadeguati e che portano, per esempio, al consumo di sostanze che
causano dipendenza quali tabacco, alcool e droghe. In modo del tutto analogo,
anche il programma europeo Guadagnare Salute prevede la programmazione di
una serie di interventi di tutela della salute pubblica, distribuiti tra istituzioni e
governi, capaci di ridurre i principali fattori di rischio. Sul piano nazionale è da
segnalare che il Programma Nazionale della Prevenzione 2007-2009 prevede
quali ambiti di intervento la sorveglianza e la prevenzione dell’obesità, delle
malattie cardiovascolari, degli incidenti stradali, degli infortuni nei luoghi di
lavoro e degli incidenti domestici.
In conclusione appare evidente come, in questo contesto, la figura professionale del medico e degli altri operatori sanitari rappresenti un’eccellente
interfaccia tra il mondo della ricerca scientifica e la sanità pubblica per una
corretta diffusione ed applicazione delle conoscenze relative ai problemi della
salute legati all’ambiente, passando attraverso i media, la scuola, il mondo politico e quello economico. In quest’ottica, il medico dovrebbe in maniera sempre
più concreta rappresentare una figura di riferimento per il sostegno delle altre
categorie professionali e per le amministrazioni pubbliche affinché vengano
promosse politiche di prevenzione della salute e, quindi, di sviluppo sostenibile
e salvaguardia ambientale.
Art. 8 - Obbligo d’intervento
Il medico, indipendentemente dalla sua abituale attività, non può mai rifiutarsi
di prestare soccorso o cure d’urgenza e deve tempestivamente attivarsi per
assicurare assistenza.
Il medico ha il dovere vincolante d’essere disponibile a prestare assistenza
e di soccorrere il malato in situazioni d’emergenza, «indipendentemente dalla
sua abituale attività».
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
191
Questo obbligo morale, che discende dal più ampio principio di solidarietà
a difesa della vita e dell’incolumità personale, previsto anche dal Codice penale
per tutti i cittadini, è ancora più cogente per il medico titolare del monopolio
della tutela della salute in quanto esercente un “servizio di pubblica necessità”.
Art. 9 - Calamità
Il medico in caso di catastrofe, di calamità o di epidemia, deve mettersi a
disposizione dell’Autorità competente.
Questo articolo, dopo il precedente che impegna il medico a prestare la propria
opera di fronte a un’emergenza che riguarda un singolo caso, esplicita il dovere
deontologico (ma anche giuridico) del medico di «mettersi a [completa] disposizione dell’Autorità competente» (anche in assenza di precise disposizioni e indipendentemente dall’instaurazione di un qualsiasi rapporto a carattere continuativo),
per prestare la propria opera di fronte a un imprevedibile disastro che colpisca la
collettività.
Art. 36 - Assistenza d’urgenza
Allorché sussistano condizioni d’urgenza, tenendo conto delle volontà della
persona se espressa, il medico deve attivarsi per assicurare l’assistenza indispensabile.
Il trattamento medico-chirurgico in urgenza presenta aspetti particolari perché individua quelle situazioni in cui un determinato intervento è certamente
opportuno, anche se non assolutamente necessario e indifferibile come nei casi
di emergenza. Solo nel caso in cui il malato non possa esprimere al momento
una volontà contraria, il medico deve prestare la sua assistenza, ovviamente nei
limiti delle cure indispensabili, perché chiaro risulta che il paziente può consapevolmente scegliere di non curarsi o rifiutare particolari trattamenti (si veda il
caso delle emotrasfusioni). Pertanto, nei casi di specie, solo la persona assistita è
in grado di valutare se il trattamento medico o chirurgico che gli viene proposto
gli può consentire una qualità di vita residua compatibile con la sua dignità personale e con le sue aspettative al riguardo, rilevandosi come la norma deontologica
192
Manuale della Professione Medica
in questi casi privilegi in modo esclusivo la volontà consapevole dell’interessato.
Anche in caso di urgenza il consenso informato a una determinata cura
può essere espresso da un’altra persona solo se questa è stata delegata chiaramente dal malato stesso. Se la persona malata è minorenne, il consenso è
automaticamente delegato ai genitori. Il minorenne, però, ha diritto a essere
informato e a esprimere i suoi desideri, che devono essere tenuti in considerazione. Se il malato è maggiorenne ma è incapace di decidere, è il tutore legale
a dover esprimere il consenso alla cura, ma la persona interdetta ha diritto a
essere informato e di veder presa in considerazione la sua volontà.
Art. 74 - Trattamento sanitario obbligatorio e denunce obbligatorie
Il medico deve svolgere i compiti assegnatigli dalla legge in tema di trattamenti sanitari obbligatori e deve curare con la massima diligenza e tempestività la informativa alle autorità sanitarie e ad altre autorità nei modi, nei tempi
e con le procedure stabilite dalla legge, ivi compresa, quando prevista, la
tutela dell’anonimato.
La tutela della salute mentale
Fonti normative
La tutela del diritto alla salute è sancita dalla Costituzione ed è comprensiva
ovviamente del diritto della persona alla salute mentale. Questo comporta una
prima riflessione sulla definizione stessa di equo trattamento e accesso alle cure
nel concetto dell’osservanza dei principi della dignità dell’uomo, in quanto definire
i criteri per un giusto trattamento nei confronti dei pazienti psichiatrici richiede
un approccio complesso, che contempera la necessità del rispetto dei diritti del
paziente con quello della sicurezza della società. Ogni idoneo criterio deve essere
posto in essere e considerato, pertanto, al fine di trovare giuste corrispondenze
tra piano etico e normativo, proprio alla luce della difesa dei diritti umani fondamentali. Di certo, quello che va assicurato alle persone affette da malattia mentale
sono i diritti di tutti gli altri membri della comunità, indipendentemente poi dalla
concreta possibilità che i primi abbiano di esercitarli direttamente.
Riguardo all’assistenza psichiatrica nel nostro paese, opportuna è una considerazione sulla legge n. 180 del 13 maggio 1978 poi trasferita negli artt. 33, 34
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
193
e 35 del Servizio Sanitario Nazionale. La legge succitata rappresenta certamente
una conquista scientifica, culturale e civile, in quanto, ponendo fine all’istituzione
manicomiale e aprendo nuove strade all’organizzazione di un sistema di assistenza
sanitaria senza meno ha costruito le condizioni per restituire piena cittadinanza
alle persone con malattie psichiatriche, anche se a distanza di quasi trent’anni dalla
sua entrata in vigore forse solo oggi si cominciano a cogliere i frutti della sua
applicazione.
Certamente, dall’epoca dell’emanazione della legge a oggi l’assistenza psichiatrica in Italia ha subito un profondo cambiamento e ha visto passare il
malato psichiatrico dalla struttura manicomiale, dove venivano eseguiti interventi per il controllo sociale, al Dipartimento di Salute Mentale (DSM), dove
gli interventi mirano invece alla prevenzione, cura e riabilitazione.
Un primo cambiamento era già stato introdotto nel 1968 dalla cosiddetta
legge Mariotti (legge 431/1968) che, oltre a istituire i Centri di Igiene mentale a
scopo di prevenzione e cura, introdusse la possibilità del ricovero volontario e
l’abolizione dell’iscrizione del ricovero manicomiale nel casellario giudiziario. Il
malato cominciava a essere percepito in funzione del suo diritto alla salute e pertanto poteva essere curato anche se non pericoloso sia al domicilio, sia fuori che
dentro il manicomio, sulla base di una sua semplice richiesta, ma non subiva più
l’interdizione d’ufficio, restando potenzialmente libero di decidere sulla propria
vita e sulla propria salute, salvo si ravvisasse una necessità tutelare: il concetto
custodialistico cominciava a farsi da parte per far posto a quello assistenzialistico.
Numerosi Autori hanno sottolineato la difficoltà di fronteggiare le necessità esistenziali dei malati di mente emerse con la legge 180/1978 attraverso gli archetipi
normativi del Codice civile del 1942, ispirati però a un’ottica custodialistica, che
lasciava ben poco spazio alla capacità di autodeterminazione del sofferente psichico.
La persistenza di norme obsolete ha finito per continuare a frapporre alla realizzazione esistenziale dell’infermo un folto reticolo di impedimenti, conferendo «al
tramonto del manicomio il significato di un puro e semplice passaggio di consegne
tra un apparato di costrizioni ospedaliere e una camicia di forza giuridica» (Cendon).
Inoltre, la legge ha previsto, con l’abolizione degli ospedali psichiatrici,
l’inserimento della psichiatria nell’ambito sanitario, affermando la centralità
dell’intervento a livello dei Servizi psichiatrici territoriali o Centri di salute
mentale, e ha collocato le strutture psichiatriche di ricovero negli ospedali
generali istituendo i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC) ed ha carat-
194
Manuale della Professione Medica
terizzato gli interventi obbligatori (TSO) come provvedimenti eccezionali e di
breve durata, autorizzandoli per esigenze terapeutiche urgenti non arginabili
in altro modo.
Più tardi, con il Progetto Obiettivo “Tutela della salute mentale” 1994-1996
erano state individuate delle importanti questioni da affrontare per dare basi
più solide al settore dell’assistenza psichiatrica e migliorarne la qualità complessiva, come la costruzione di una rete di servizi in grado di fornire un intervento
integrato, con particolare riguardo alla riabilitazione e alla gestione degli stati di
crisi; veniva inoltre favorito sia lo sviluppo dell’organizzazione dipartimentale
del lavoro, dotando la rete dei servizi di una precisazione tecnica e gestionale in
grado di garantire il funzionamento integrato e continuativo dei servizi stessi, che
l’aumento delle competenze professionali degli operatori per far fronte a tutte
le patologie psichiatriche con particolare riguardo a quelle più gravi, attraverso
interventi diversificati. Inoltre, si affrontava il problema del definitivo superamento dell’ospedale psichiatrico mediante l’attuazione di programmi mirati.
Con il DPR del 10 novembre 1999, pubblicato sulla GU n. 274 del 22 novembre 1999, è stato approvato il nuovo Progetto Obiettivo Nazionale per la Tutela
della salute mentale, che ha costituito adempimento prioritario previsto dal Piano
Sanitario Nazionale 1998-2000, e che ha individuato la salute mentale fra le tematiche a elevata complessità e per le quali era necessaria l’elaborazione di specifici
atti di indirizzo. Appare opportuno evidenziare che il Ministero della Salute, nel
Piano sanitario nazionale 2006-2008, ha affermato che «le precedenti azioni programmatiche in tema di salute mentale hanno portato al consolidamento di un modello organizzativo
dipartimentale e alla individuazione di una prassi operativa mirata ad intervenire attivamente e
direttamente sul territorio (domicilio, scuola, luoghi di lavoro, ecc.) in collaborazione con le associazioni dei familiari e di volontariato, con i medici di medicina generale e gli atri servizi sanitari
e sociali» e che «la distribuzione quantitativa di tutti i servizi dei DSM soddisfa gli standard
tendenziali nazionali, con valori superiori per i Centri di salute mentale, i Centri Diurni e
le Strutture residenziali», pur evidenziando la presenza di alcune criticità ancora da
affrontare. Nel documento preliminare informativo sui contenuti del nuovo Piano
sanitario nazionale 2010-2012, infine, tra le patologie rilevanti di cui si occuperà il
Piano sanitario nazionale, viene inserita anche la dizione «salute mentale e disturbi del
comportamento alimentare», come comunicato dal Ministero alla Conferenza StatoRegioni. Il Progetto prevede infatti l’istituzione di una rete di servizi sul territorio,
fruibili dai cittadini 24 ore su 24, e potenzia le attività di assistenza e cura soprat-
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
195
tutto di soggetti in età evolutiva. La strategia di intervento proposta nel Progetto
Obiettivo ha fornito un quadro di riferimento determinante e ha dato avvio alla
riorganizzazione sistematica dei servizi deputati all’assistenza psichiatrica.
Prioritaria è diventata l’esigenza di istituire un DSM in tutte le ASL e il
Progetto ha proposto obiettivi più specifici di salute da perseguire incentrando
l’attenzione sulla definizione di interventi più decisi sul piano della programmazione evidenziando quelli primari, con lo scopo di assicurare la presa in
carico del paziente e la risposta ai bisogni delle persone affette dai disturbi più
gravi che ne compromettono l’autonomia e l’esercizio dei diritti.
Il Dipartimento di Salute Mentale
Le strutture costitutive del DSM sono il Centro di salute mentale, il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, il Day hospital, il Centro diurno, le Strutture residenziali.
Il Centro di salute mentale è la sede di elaborazione del progetto terapeutico, dove lavora una équipe multiprofessionale che svolge nel centro molteplici
attività di prevenzione, cura e riabilitazione, quali la valutazione delle richieste
che giungono non solo dagli utenti ma anche dai loro familiari, dai servizi
sociali e dai medici di medicina generale; inoltre, effettua attività di filtro e
prevenzione dei ricoveri psichiatrici, visite ambulatoriali e domiciliari, colloqui
di supporto psicologico; ma vengono eseguite anche psicoterapie individuali
e di gruppo, terapia psicofarmacologica, attività di sostegno infermieristico,
attività riabilitative e risocializzanti, interventi socio-asssistenziali per gli utenti
presi in carico, proposte di ricovero nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura
e nelle strutture convenzionate all’uopo, e infine attività di filtro e di invio ad
altri servizi specialistici, a strutture semiresidenziali riabilitative o residenziali
del DSM o convenzionate. C’è la possibilità che il Centro di salute mentale
disponga di alcuni posti letto per situazioni di crisi o attività extraospedaliere.
Il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) invece, è collocato in un ospedale e accoglie i pazienti per i quali si renda necessario il ricovero in tale ambiente,
sia in forma volontaria che in regime di TSO, essendo la prima modalità comunque
quella prevalente. Durante il ricovero possono venire impostate terapie farmacologiche, effettuati accertamenti medici internistici e valutata, con la collaborazione
del personale del Centro di salute mentale, la situazione personale e relazionale del
paziente. A questo punto potranno successivamente essere messi in atto interventi
sia psicoterapeutici, sia sulle famiglie che interventi di tipo socio-assistenziale.
196
Manuale della Professione Medica
Il Day hospital è uno spazio di assistenza semiresidenziale per prestazioni
diagnostiche e terapeutico-riabilitative a breve termine, collocato in strutture
ospedaliere o esterne ma collegato con il Centro di salute mentale, e permette
la riduzione del periodo di ricovero e/o comunque garantisce l’effettuazione
coordinata di accertamenti diagnostici nonché l’avvio e il monitoraggio di
interventi farmacologici e psicoterapeutici riabilitativi.
Il Centro diurno è una struttura semiresidenziale con funzione terapeuticoriabilitativa, aperta almeno otto ore al giorno per sei giorni alla settimana, che
dispone di locali idonei e attrezzati e si avvale di un proprio gruppo di lavoro ed
eventualmente di operatori sociali o di organizzazioni di volontariato. Il centro
ha compiti volti a consentire lo sviluppo, nell’ambito di progetti terapeuticoriabilitativi, di abilità personali nella cura di sé e nelle attività quotidiane che si
fondano sulle relazioni interpersonali.
Le strutture residenziali rappresentano uno tra gli strumenti essenziali del
DSM e lo standard previsto era di un posto letto ogni 10.000 abitanti, oggi
però decisamente aumentato proporzionalmente al bisogno.
Le Strutture residenziali sono suddivise secondo le tre tipologie previste, in
base all’intensità assistenziale sanitaria: nelle 24 ore, nelle 12 ore, a fascia oraria.
La mission del DSM dovrebbe essere quella di coinvolgere anche le famiglie nella formulazione e nell’attuazione del piano terapeutico-riabilitativo, con
coinvolgimento volontario e responsabilità a carico del servizio e non della
famiglia; quella di recuperare gli utenti gravi che non si presentano agli appuntamenti o abbandonano il percorso terapeutico e la frequentazione del servizio,
in modo da ridurre anche la frequenza dei suicidi. Ma la mission comprende
anche il sostegno alla nascita di gruppi di auto-aiuto di familiari e di pazienti
da parte di cooperative sociali, specie di quelle per l’inserimento lavorativo dei
disabili, nonché iniziative di formazione rivolte alla popolazione sui disturbi
mentali con la finalità di diminuire i pregiudizi e diffondere atteggiamenti di
maggiore solidarietà.
La profilassi delle malattie infettive
Le malattie infettive, lungi dall’essere completamente sotto controllo come
erroneamente previsto negli anni ’60 e ’70, costituiscono ancora un rischio
rilevante per la salute degli individui e un carico assistenziale per il sistema
sanitario. Alcune di esse sono stigmate di povertà (malaria, tubercolosi, AIDS)
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
197
e in particolare una, la tubercolosi, è stata dichiarata dall’OMS, per la prima e
unica volta nella sua storia, un’emergenza globale.
Dal 1970 a oggi sono stati scoperti oltre quaranta nuovi agenti infettivi (da
Legionella spp ai virus delle febbri emorragiche, passando attraverso i virus epatitici non-A/non-B e all’HIV), buon ultimo un coronavirus agente di una pandemia fortunatamente già esaurita, la SARS. Inoltre sempre più si teme la possibilità di un uso intenzionale terroristico di agenti infettivi, manipolati in modo tale
da non essere controllati con i comuni presidi preventivi e terapeutici.
L’ultimo rapporto mondiale dell’OMS sulla salute conferma il primato
delle malattie infettive in termini di mortalità, morbosità e sofferenza, nonostante la disponibilità per molte di efficaci interventi preventivi e terapeutici.
Attualmente, in questo ambito esiste una discrasia tra i successi ottenuti per
alcune patologie infettive e, di contro, l’allarme per alcune infezioni emergenti
e riemergenti, che riconoscono, tra i principali determinanti:
– selezione di ceppi con maggiore virulenza, resistenza alle terapie, capacità
di adattamento a condizioni ecologiche diverse;
– mutate condizioni socioeconomiche ed epidemiologiche;
– comparsa e/ o identificazione di nuove specie di patogeni;
– mutamenti significativi del contatto uomo/animale (nel campo zootecnico
per la produzione intensiva di carni e uova; in ambito familiare per la presenza di animali da compagnia o da caccia);
– intenso e rapido scambio di merci e persone anche da paesi e continenti
lontani nell’ambito di una logica di globalizzazione.
La notifica di malattia infettiva
Per poter contrastare le malattie infettive ai fini della programmazione sanitaria e del controllo dell’efficacia degli interventi attuati è necessario conoscere
il numero esatto di casi che si verificano nel territorio e le loro modalità di
trasmissione. A tal fine è indispensabile la notifica di malattia infettiva accertata
o sospetta da parte dei sanitari.
La rilevazione statistica delle malattie infettive ebbe inizio in Italia nel 1888,
anno di promulgazione delle prime leggi organiche sulla sanità pubblica.
La notifica, obbligatoria in Italia dal 1934 con l’entrata in vigore del TULLS,
RD 27 luglio 1934, n. 1265, che agli art. 254-255 dispone quanto segue: «Il sanitario che nell’esercizio della sua professione sia venuto a conoscenza di un caso
198
Manuale della Professione Medica
di malattia infettiva e diffusiva o sospetta di esserlo, pericolosa per la salute pubblica, deve immediatamente farne denuncia al podestà e all’ufficiale sanitario
comunale e coadiuvarli, se occorra, nella esecuzione delle disposizioni emanate
per impedire la diffusione delle malattie stesse e nelle cautele igieniche necessarie
[...]. Le denunce di malattie infettive e diffusive o sospette di esserlo, pericolose
per la salute pubblica, debbono essere immediatamente comunicate dal podestà
al prefetto, dall’ufficiale sanitario al medico provinciale, dal prefetto al Ministro
della sanità. Quando la gravità del caso lo esiga, il prefetto, sentito il medico provinciale, può costituire commissioni locali, delegare persone tecniche per esaminare i caratteri della malattia, inviare medici, spedire medicinali e disporre gli altri
provvedimenti necessari per assicurare la cura dei malati ed evitare la diffusione
della malattia, informandone sollecitamente il Ministro della sanità».
Con la legge n. 572 del 17 maggio 1952 l’ISTAT divenne l’organo preposto
alla raccolta ed elaborazione statistica dei dati.
Dopo l’istituzione del Ministero della Sanità (legge n. 296/1958) e il conseguente passaggio di competenze dal Ministero dell’Interno, solo nel 1990 il termine
“denuncia”, legato a significati di polizia sanitaria, è stato modificato in “notifica”,
ovvero una segnalazione il cui principale fine inerisce alla sorveglianza e alla prevenzione.
Con l’entrata in vigore della legge n. 833/1978, istitutiva del SSN, lo Stato
ha deciso di mantenere (art. 6) le competenze connesse alla sanità transfrontaliera, intendendo con ciò l’attività di profilassi delle malattie infettive, delegando poi alle Regioni molte funzioni in campo sanitario: «[...] la profilassi
delle malattie infettive e diffusive, per le quali siano imposte la vaccinazione
obbligatoria o misure quarantenarie, nonché gli interventi contro le epidemie
e le epizoozie», fino ad allora competenze dello Stato.
Tale volontà, confermata dalle ultime disposizioni sull’argomento, assegna
definitivamente allo Stato, tramite gli Uffici di Sanità marittima, aerea e di frontiera, tutte le funzioni relative agli interventi di sanità transfrontaliera su persone,
merci e vettori (navi e aerei essenzialmente) in arrivo da altri paesi, volti a limitare
il rischio di “importazione” di alcune tra le malattie infettive trasmissibili.
Riconosciuta la necessità di aggiornare e modificare, alla luce delle attuali esigenze di controllo epidemiologico e di integrazione del sistema informativo sanitario nazionale, l’elenco delle malattie infettive e diffusive che danno origine a particolari misure di sanità pubblica, il Ministero della Sanità, con DM 15 dicembre 1990
199
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
(“Sistema informativo delle malattie infettive e diffusive”), ha modificato il precedente DM del 5 luglio 1975, aggiornando il sistema di acquisizione delle informazioni, finalizzato alla realizzazione di tempestive misure di profilassi (Tabella 5.2).
Tabella 5.2. Notifiche di malattia infettiva (DM 15 dicembre 1990)
Classe I
Malattie per le quali si chiede segnalazione immediata o perché soggette al regolamento sanitario
internazionale o perché rivestono particolare interesse: colera, febbre gialla, febbre ricorrente epidemica, febbri emorragiche virali (Lassa, Marburg,
Ebola), peste, poliomielite, tifo esantematico, botulismo, difterite, influenza con isolamento virale,
rabbia, tetano, trichinosi.
Segnalazione da parte del medico alla ASL entro
12 ore dal sospetto di un caso di malattia; segnalazione immediata dalla ASL alla Regione e da
questa al Ministero e all’Istituto Superiore di Sanità;
segnalazione immediata del Ministero all’OMS
dell’accertamento del caso, ove previsto.
Classe II
Malattie rilevanti perché a elevata frequenza e/o
passibili di interventi di controllo: blenorragia, brucellosi, diarree infettive non da salmonelle, epatite
virale A, B, NANB, epatite virale non specificata,
febbre tifoide, legionellosi, leishmaniosi cutanea e
viscerale, leptospirosi, listeriosi, meningite ed encefalite acuta virale, meningite meningococcica,
morbillo, parotite, pertosse, rickettsiosi diversa da
tifo esantematico, rosolia, salmonellosi non tifoidee, scarlattina, sifilide, tularemia, varicella.
Segnalazione alla ASL da parte del medico entro
due giorni dall’osservazione del caso, invio degli
appositi modelli dalla ASL alla Regione e da questa all’ISTAT e al Ministero per le vie ordinarie.
Classe III
Malattie per le quali sono richieste particolari do- Ove non sia disposto diversamente da provvedicumentazioni: aids, lebbra, malaria, micobatteriosi menti particolari, una parte della scheda di notifica
non tubercolare, tubercolosi.
che verrà inviata all’ISTAT (sezione A), analoga per
tutte le malattie notificabili, con i dati anagrafici del
soggetto e l’indicazione della malattia. La sezione
B dei moduli sarà invece differenziata per raccogliere informazioni epidemiologiche pertinenti.
Sono previsti flussi informativi particolari e differenziati: per l’AIDS si fa riferimento alle circolari del
Ministero della Sanità 13 febbraio1987 n. 5 e
13 febbraio1988 n.14; per la malaria e la lebbra
si fa riferimento rispettivamente alla circolare n. 32
del 28 novembre1989 e alla circolare n. 507/
G4/3136 del 13 maggio1983.
Classe IV
Malattie per le quali alla segnalazione del singolo
caso deve seguire quella della ASL solo quando si
verificano focolai epidemici: infezioni infestazioni
e tossinfezioni di origine alimentare, pediculosi,
scabbia, dermatofitosi.
Segnalazione da parte del medico alla ASL entro
24 ore; segnalazione dalla ASL alla Regione e
da questa al Ministero, all’ISS, all’ISTAT tramite
gli appositi modelli.
Classe V
Malattie infettive e diffusive notificate all’ASL e non
comprese nelle classi precedenti, zoonosi indicate
dal regolamento di polizia veterinaria di cui al DPR
8 febbraio 1954, n. 320.
Le ASL devono comunicare annualmente il riepilogo
di tali malattie alla Regione e da questa al Ministero per le vie ordinarie. Ove tali malattie assumano
le caratteristiche del focolaio epidemico, verranno
segnalate con le modalità previste per la classe IV.
200
Manuale della Professione Medica
Nel DM 15 dicembre 1990 si è proceduto, inoltre, alla classificazione delle
malattie infettive e diffusive in cinque classi aggregate sulla base della rilevanza
per gravità in termini di letalità, costo sociale, elevata frequenza, estrema rarità,
possibilità di intervento con azioni di profilassi e/o terapia e/o educazione
sanitaria, interesse sul piano nazionale e internazionale.
Il DM 29 luglio 1998 del Ministero della Sanità ha modificato la scheda di
notifica dei casi di tubercolosi e di micobatteriosi non tubercolare; il DM 14 ottobre 2004 del Ministero della Salute ha aggiunto nella terza classe la sindrome/
infezione da rosolia congenita e l’infezione da virus della rosolia in gravidanza.
Il DM 15 dicembre 1990 prevede che: «Il medico che nell’esercizio della
sua professione venga a conoscenza di un caso di qualunque malattia infettiva
e diffusiva o sospetta di esserlo, pericolosa per la salute pubblica, deve comunque notificarlo all’autorità sanitaria competente», indicando la malattia sospetta
o accertata, gli elementi identificativi del paziente, gli accertamenti diagnostici
eventualmente effettuati e la data di comparsa della malattia.
I Servizi di Igiene Pubblica competenti delle ASL devono, a loro volta,
attuare un sistema di raccolta delle informazioni finalizzato alla realizzazione
di tempestive misure di profilassi, convogliando il flusso informativo a livello
regionale e centrale secondo tempi, vie di trasmissione e modalità diverse in
rapporto al tipo e livello di provvedimenti sanitari da attuare.
La Commissione dell’Unione Euro­pea, con Decisione del 19 marzo 2002
(2002/253/CE) ha stabilito la definizione di caso ai fini della dichiarazione
delle malattie trasmissibili alla rete di sorveglianza comunitaria istituita ai sensi
della Decisione n. 2119/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio. Salvo
disposizioni contrarie, devono essere dichiarati soltanto i casi sintomatici; tuttavia le infezioni asintomatiche devono essere considerate casi qualora l’infezione abbia conseguenze terapeutiche o sulla salute pubblica.
Il sistema adottato dall’Unione Europea si articola su tre livelli:
– caso confermato: verificato da analisi di laboratorio;
– caso probabile: quadro clinico chiaro, ovvero collegato epidemiologicamente a un caso confermato, cioè un caso che è stato esposto a un caso
confermato oppure che ha avuto un’esposizione identica a quella di un
caso confermato (ad esempio, ha assunto lo stesso cibo, ha soggiornato
nello stesso albergo ecc.);
– caso possibile: quadro clinico indicativo, ma non caso confermato o probabile.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
201
Le classificazioni a tali livelli differenti possono variare in base all’epidemiologia delle singole malattie.
Figura 5.2. Flusso ordinario di notifica del SIMI (Fonte ISS)
Il Sistema Informativo Malattie Infettive (SIMI)
Il sistema informativo, denominato SIMI, attualmente copre l’82,5% della
popolazione italiana, e presenta molteplici vantaggi:
– migliora la qualità e la tempestività dei dati;
– rende possibili interventi rapidi sul territorio ai fini della prevenzione e del
controllo;
– facilita il ritorno delle informazioni;
– uniforma l’organizzazione e i contenuti del flusso informativo;
– rende
ottenibile un dato unico e ufficiale per gli organi centrali e le regioni.
L’Osservatorio epidemiologico regionale (OER), che dovrebbe essere
stato attivato in ciascuna Regione, ha assorbito laddove attivato le funzioni di
Centro regionale di coordinamento del Progetto SIMI. A livello locale, presso
il Servizio di Igiene Pubblica di ciascuna ASL, operano i referenti del SIMI,
che coordinano il flusso dei dati dalla periferia, svolgono le inchieste epidemiologiche e trasmettono mensilmente le notifiche all’OER (Figura 5.2).
202
Manuale della Professione Medica
Nel 2002 in Italia sono stati notificati 183.527 casi complessivi (ISTAT,
2005), pari a un tasso di circa 321/100.000 abitanti. Rispetto al 2001 notifiche e
tasso registrano un lieve aumento (rispettivamente, +1,01% e +1,02/100.000).
Analizzando le differenze di genere, gli uomini continuano a essere più colpiti delle donne: nel 2002 il tasso di notifica ammonta a 355 casi per 100.000
maschi contro 288 per 100.000 femmine. Lo svantaggio del sesso maschile
risulta evidente per tutte le malattie, con l’eccezione del tetano e della pertosse.
Escludendo le malattie dell’infanzia, soggette a variazioni molto ampie, si
registra un trend in calo per brucellosi, epatiti virali, salmonellosi non tifoidee.
Al contrario, si registra una sostanziale stabilità dei casi notificati di AIDS (che,
dopo la sensibile diminuzione della seconda metà degli anni ’90, si assestano
su un tasso pari a circa 3,3 casi/100.000 residenti) e un notevole aumento delle
notifiche di legionellosi.
Provvedimenti sulle fonti di infezione
Il riconoscimento di un caso di malattia infettiva e la sua notifica al Dipartimento di prevenzione della ASL, consentono di realizzare due obiettivi:
– informativo, in quanto attraverso l’insieme di questi atti è possibile valutare
la frequenza, l’avanzamento e la distribuzione nella popolazione e nel territorio delle malattie infettive e avere un aggiornato quadro epidemiologico
a livello locale, regionale e nazionale;
– operativo, in quanto la denuncia apre la strada a tutte quelle misure di profilassi che si rendano necessarie caso per caso.
È evidente che i provvedimenti sono differenziati a seconda del tipo di
malattia, della sua frequenza in un determinato territorio, della sua diffusibilità e trasmissibilità. Così, se la presenza di un caso di influenza generalmente
implica da parte delle Autorità sanitarie locali una semplice opera di registrazione, il manifestarsi di casi di altre malattie, come una tossinfezione alimentare, impone il dispiego di misure tempestive ed efficaci. La conferma diagnostica dei casi, la ricerca di eventuali portatori, le indagini rivolte all’ambiente
familiare o alla collettività e al territorio, costituiscono le condizioni preliminari
indispensabili alla messa in atto dei dispositivi (inchiesta epidemiologica) atti a
tutelare gli individui e la collettività. L’inchiesta epidemiologica mira dunque a
identificare la sorgente del contagio e le modalità di trasmissione dell’infezione,
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
203
la presenza di altre sorgenti di infezione (portatori) o di soggetti a rischio. L’accuratezza di questa operazione è una condizione essenziale per un efficace
intervento di prevenzione sia nei confronti delle persone che dell’ambiente.
La
contumacia per esigenze profilattiche
L’acquisizione di nuove conoscenze epidemiologiche e scientifiche, unitamente all’impatto prodotto sulla salute pubblica da malattie infettive emergenti
e riemergenti, hanno suggerito l’opportunità di sottoporre a revisione la Circolare n. 65 del 18 agosto 1983 “Disposizioni in materia di periodi contumaciali
per esigenze profilattiche” e la Circolare n. 14 del 31 marzo 1992 “Modifica
della Circolare 65/1983 sulle misure contumaciali Epatiti virali”. Tale processo
ha condotto all’emanazione della Circolare n. 4 del 13 marzo 1998 “Misure
di profilassi per esigenze di Sanità pubblica: Provvedimenti da adottare nei
confronti di soggetti affetti da alcune malattie infettive e nei confronti di loro
conviventi o contatti” in cui sono riportate le malattie, raggruppate sulla base
delle classi di notifica di cui al DM 15 dicembre 1990, per le quali sono applicabili misure di profilassi individuale e collettiva.
I provvedimenti relativi ai malati mirano all’interruzione della catena di
trasmissione della malattia mentre fra le misure relative a conviventi e contatti
un’attenzione particolare viene riservata alla possibilità di effettuare interventi
di prevenzione primaria.
In tale prospettiva, la vaccinazione, quando possibile, rappresenta il mezzo
più appropriato per la prevenzione e il controllo; tale provvedimento può,
in alcuni casi, ottenere obiettivi superiori quali l’eliminazione della malattia
e l’eradicazione dell’agente causale. Per alcune patologie, quali l’epatite B e il
morbillo, è stata dimostrata l’efficacia protettiva della vaccinazione anche a
esposizione già avvenuta.
Le misure di profilassi per esigenze di sanità pubblica previste dalla Circolare n. 4 del 13 marzo 1998 del Ministero della Sanità sono le seguenti:
Botulismo alimentare: ICD-9 005.1 (Classe di notifica: I).
– Periodo di incubazione: da 12 a 48 ore; in casi eccezionali può arrivare a 8 giorni.
– Periodo di contagiosità: è esclusa la trasmissione interumana di questa,
come di altre forme di botulismo.
– Provvedimenti nei confronti del malato: non previsti.
204
Manuale della Professione Medica
– Altre misure preventive: ricerca attiva della fonte di intossicazione, con prelievo di appropriati campioni degli alimenti consumati dal paziente nelle
48-12 ore precedenti l’insorgenza della sintomatologia. Indagine epidemiologica sui commensali.
Colera: ICD-9 001-001.9 (Classe di notifica: I).
– Periodo di incubazione: da poche ore a 5 giorni, abitualmente 2-3 giorni.
– Periodo di contagiosità: per tutto il periodo di incubazione e fintantoché V.
cholerae è presente nelle feci, abitualmente per alcuni giorni dopo la guarigione clinica; occasionalmente può instaurarsi lo stato di portatore cronico,
con escrezione del patogeno per alcuni mesi.
– Provvedimenti nei confronti del malato: ospedalizzazione con precauzioni
enteriche fino alla negatività di 3 coprocolture eseguite a giorni alterni
dopo la guarigione clinica, di cui la prima eseguita almeno 3 giorni dopo la
sospensione della terapia antimicrobica.
– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per 5 giorni dalla ultima esposizione dei conviventi e delle persone che hanno condiviso alimenti e bevande
con il paziente. Ricerca di eventuali portatori tra conviventi mediante coprocoltura. Allontanamento delle persone sottoposte a sorveglianza sanitaria dalle
attività che comportino direttamente o indirettamente la manipolazione di alimenti per almeno 5 giorni dall’ultimo contatto con il caso. In caso di elevata
probabilità di trasmissione secondaria in ambito domestico, chemioprofilassi
dei conviventi con tetraciclina o doxiciclina ai seguenti dosaggi: adulti: 500 mg
di tetraciclina per 4 volte al giorno per tre giorni, oppure 300 mg di doxiciclina
in dose singola per tre giorni; bambini: 6 mg/kg di doxiciclina in dose singola
per tre giorni, oppure 50 mg/kg/die di tetraciclina divisi in 4 somministrazioni
giornaliere per tre giorni. In caso di ceppi di V. cholerae resistenti alla tetraciclina,
i trattamenti alternativi sono rappresentati da: adulti: 100 mg di furazolidone
4 volte al dì per un giorno, oppure 2 g 2 volte al dì di cotrimossazolo per un
giorno; bambini: 1,25 mg di furazolidone 4 volte al dì per un giorno, oppure 50
mg/kg di cotrimossazolo in due assunzioni giornaliere per un giorno.
La vaccinazione anticolerica non è indicata.
Difterite: ICD-9 032-032.9 (Classe di notifica: I).
– Periodo di incubazione: abitualmente 2-6 giorni; occasionalmente può
essere più lungo.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
205
– Periodo di contagiosità: variabile da due settimane a poco più di quattro settimane, comunque fino a che i bacilli virulenti sono presenti nelle
lesioni; i casi di portatore cronico sono rarissimi.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento stretto nei casi di difterite laringea; isolamento da contatto nei casi di difterite cutanea; l’isolamento può essere interrotto dopo 14 giorni di terapia antibiotica o dopo
due risultati colturali negativi su campioni appropriati, prelevati a distanza
di almeno 24 ore e non meno di 24 ore dopo la cessazione della terapia
antibiotica.
– Altre misure preventive: sorveglianza clinica di conviventi e contatti stretti
per 7 giorni dall’ultimo contatto con il paziente, con effettuazione di indagini
di laboratorio per evidenziare eventuali portatori asintomatici.
Valutazione dello stato vaccinale con:
– somministrazione di una dose di richiamo in caso di ciclo vaccinale incompleto, o nel caso siano trascorsi più di 12 mesi dall’ultima dose di un ciclo
completo;
– ciclo vaccinale completo in caso di stato vaccinale non determinabile.
Antibioticoprofilassi, a prescindere dallo stato vaccinale e senza attendere i risultati degli esami colturali, con i seguenti farmaci e ai seguenti
dosaggi: adulti: 1.200.000 unità di benzilpenicillina in dose singola per via
im, oppure 1 g/die di eritromicina per os per 7-10 giorni; bambini: 600.000
unità di benzilpenicillina in dose singola per via im fino a 6 anni, oppure 40
mg/kg/die di eritromicina per os per 7-10 giorni.
Febbri emorragiche virali: ICD-9 078.8, 078.89 (Classe di notifica: I).
– Periodo di incubazione: febbre di Ebola: da 3 a 9 giorni; febbre di Marburg
da 2 a 21 giorni; febbre di Lassa da 6 a 21 giorni.
– Periodo di contagiosità: nella fase conclamata della malattia e fintantoché
particelle virali sono presenti nel sangue e nei fluidi biologici.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento strettissimo in unità di
alto isolamento o in reparti specializzati per malattie infettive, in stanze dotate
di sistema di ventilazione con cappe a flusso laminare, con rigide procedure
per lo smaltimento degli escreti e dei fluidi biologici. Disinfezione continua
di escreti e fluidi biologici e di tutti i materiali che siano stati a contatto con
il paziente, inclusi strumenti e materiale di laboratorio, con soluzioni di ipo-
206
Manuale della Professione Medica
clorito di Na allo 0,5%, oppure di fenolo allo 0,5%, oppure mediante trattamento in autoclave, oppure mediante termodistruzione. Scrupoloso rispetto
delle precauzioni standard e utilizzazione, in tutte le fasi dell’assistenza al
malato, compresa l’esecuzione degli esami di laboratorio, di indumenti e
mezzi di protezione individuale (mascherine, guanti, occhiali), possibilmente
monouso. Esecuzione degli esami di laboratorio per la ricerca e identificazione degli agenti virali responsabili di febbri emorragiche in strutture dotate
di sistemi di alto isolamento con livello di sicurezza biologica 4 (BSL 4); gli
esami ematochimici di routine possono essere eseguiti in strutture con livello
di sicurezza biologica 3 (BSL 3). Per quanto riguarda i casi di malattia da
virus Ebola-Marburg, astensione dai rapporti sessuali fino a dimostrazione
di assenza dei virus dallo sperma (circa 3 mesi).
– Altre misure preventive: ricerca attiva delle persone che hanno avuto contatti con il paziente durante le tre settimane seguenti all’inizio della malattia
e sorveglianza sanitaria delle stesse per tre settimane dall’ultimo contatto,
con misurazione della temperatura corporea due volte al dì e ospedalizzazione, con isolamento, al riscontro di temperature superiori a 38,3°C.
– Per ulteriori dettagli si rimanda alle Cir­colari del Ministero della Sanità n.
400.2/113.3.74/2808 dell’11 maggio 1995 e 100/67301/4266 del 26 maggio 1995.
Poliomielite: ICD-9 045-045.9 (Classe di notifica: I).
– Periodo di incubazione: da 3 a 35 giorni, con una media di 7-14 giorni per
i casi di polio paralitica.
– Periodo di contagiosità: non definibile con precisione; la contagiosità sussiste fintantoché i poliovirus vengono escreti. I poliovirus sono dimostrabili
nelle secrezioni oro-faringee e nelle feci rispettivamente dopo 36 e 72 ore
dall’esposizione, con persistenza fino a una settimana nel faringe e per 3-6
settimane e oltre nelle feci. Indagini di campo hanno dimostrato che per
ogni caso di poliomielite paralitica si verificano da 100 a 1000 infezioni subcliniche.
– Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche nel caso
di ricovero in ospedale (pur essendo altamente auspicabili, sono di scarso
significato in ambiente domestico perché al momento della comparsa dei
sintomi tutti i contatti domestici sono già stati infettati).
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
207
– Altre misure preventive: sorveglianza clinica di conviventi e contatti stretti
per individuazione di altri casi di paralisi flaccida acuta o di meningite asettica. Immediata somministrazione di una dose di OPV a tutti i conviventi,
ai contatti stretti e a tutti i bambini di età compresa tra 0 e 5 anni residenti
nella zona (quartiere, comune, provincia), a prescindere dal loro stato vaccinale antipolio. Attuazione di campagne straordinarie di vaccinazione antipolio con OPV in situazione epidemica (nella attuale situazione italiana, in
cui non si registrano casi autoctoni di poliomielite da virus selvaggio dal
1983, un caso costituirebbe di per sé un’epidemia). Astensione dalla pratica
di iniezioni intramuscolari non strettamente necessarie e differimento degli
interventi chirurgici otorinolaringoiatrici fino a definizione e controllo
della situazione.
Rabbia: ICD-9 071 (Classe di notifica: I).
– Periodo di incubazione: da un minimo di 4 giorni ad alcuni anni, abitualmente 3-8 settimane. La durata del periodo di incubazione è condizionata
da: ceppo virale e quantità inoculata, sede e caratteristiche della lesione.
– Periodo di contagiosità: da qualche giorno prima dell’inizio della sintomatologia all’exitus.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento stretto per tutta la
durata della malattia e adozione di precauzioni standard; disinfezione continua di tutti gli oggetti contaminati con saliva, liquor e, in caso di esecuzione di esame autoptico, di tessuto cerebrale del paziente.
– Altre misure preventive: trattamento post-esposizione di tutti coloro che
abbiano subito esposizione di ferite aperte o membrane mucose a saliva,
liquor o, in caso di esecuzione di esame autoptico, a tessuto cerebrale del
paziente. Per il trattamento pre- e post-esposizione vedere la Circolare n.
36 del 10 settembre 1993. Ricerca attiva dell’animale rabido e di altre persone o animali morsicati.
Epatite virale A: ICD-9 070.0-070.1 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: da 15 a 50 giorni, mediamente 28-30 giorni.
– Periodo di contagiosità: l’infettività è massima nell’ultima parte del periodo
di incubazione e si protrae per alcuni giorni (circa una settimana) dopo la
comparsa dell’ittero o dopo l’innalzamento dei livelli ematici degli enzimi
epatocellulari, nei casi anitterici.
208
Manuale della Professione Medica
– Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche per 15 giorni
dalla diagnosi di epatite A, ma per non più di una settimana dopo la comparsa
dell’ittero. In caso di insorgenza di epatite A in reparti di neonatologia, le precauzioni enteriche devono essere adottate per un periodo di tempo più lungo.
– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per la ricerca di casi
secondari, o di altri casi sfuggiti alla diagnosi, tanto in ambito familiare
quanto in un ambito più allargato, qualora si sospetti una epidemia da
fonte di esposizione comune (viaggio in zona endemica, consumo di
frutti di mare crudi). Indicata la somministrazione di immunoglobuline
specifiche, purché questa avvenga entro due settimane dall’esposizione.
Nel caso di coinvolgimento di scuole materne, le immunoglobuline
dovrebbero essere somministrate a tutti i compagni di classe del paziente
e, nel caso di asili nido in cui sono ammessi bambini che utilizzano il
pannolino, a tutti i bambini potenzialmente esposti e al personale, previa
acquisizione del consenso informato da parte dei genitori o dei tutori dei
minori. In caso di epidemia interessante in modo ampio la collettività
(epidemie a dimensione comunale o regionale), è indicata la vaccinazione
del personale impegnato in attività di assistenza sanitaria e alla prima
infanzia, oltre che dei contatti.
N.B.: Le stesse misure, con l’esclusione della somministrazione di immunoglobuline specifiche e del vaccino, si applicano anche ad altre epatiti a
trasmissione fecale-orale.
La vaccinazione è altresì consigliata per:
a) viaggiatori diretti in zone a elevata morbosità per epatite A;
b) addetti a raccolta, allontanamento e smaltimento dei liquami;
c) soggetti esposti nel corso di un’epidemia in comunità o in istituzioni;
d ) emofiliaci;
e) politrasfusi;
f ) tossicodipendenti;
g) omosessuali maschi;
h) ospiti di residenze assistenziali per soggetti con turbe mentali;
i) operatori sanitari esposti ad HAV.
Epatite virale B: ICD-9 072.2-072.3 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: da 45 a 180 giorni, mediamente 60-90 giorni.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
209
– Periodo di contagiosità: l’infettività inizia alcune settimane prima del manifestarsi della sintomatologia e permane per tutta la durata della malattia.
Tutti i soggetti HBsAg positivi sono da considerare potenzialmente infettanti.
– Provvedimenti nei confronti del malato: adozione delle precauzioni standard per prevenire l’esposizione e il contatto con sangue e altri fluidi
biologici.
– Altre misure preventive: vaccinazione di conviventi e partner sessuali di
soggetti portatori cronici di HBsAg, secondo le indicazioni del DM 4 ottobre 1991 (GU n. 251 del 27 ottobre 1991). Immunoprofilassi post-esposizione per tutti i soggetti vittime di lesioni con aghi o oggetti taglienti potenzialmente infetti e di partner sessuali di pazienti cui sia stata diagnosticata
l’epatite virale B. Le immunoglobuline specifiche vanno somministrate al
più presto dopo il contatto potenzialmente infettante, insieme con il vaccino, secondo gli schemi riportati nel DM 3 ottobre 1991 (GU n. 251 del
27 ottobre 1991) e successive modifiche e integrazioni. La profilassi postesposizione non è necessaria per le persone immunizzate in precedenza
che abbiano un titolo anticorpale maggiore o uguale a 10 mUI/ml. In caso
contrario, è indicata una dose booster di vaccino, ovvero di immunoglobuline, per la somministrazione delle quali è necessario acquisire il consenso
informato.
Febbre tifoide: ICD-9 002.0 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: abitualmente da 1 a 3 settimane, ma può variare da
3 giorni a 3 mesi a seconda della dose infettante.
– Periodo di contagiosità: fintantoché S. typhi è presente nelle feci, dalla prima
settimana di malattia per tutta la durata della convalescenza, nei soggetti
sottoposti a terapia antibiotica efficace; nel 10% dei casi non trattati l’eliminazione può continuare anche per mesi dall’esordio. Il 2-5% dei pazienti
diviene portatore cronico.
– Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche fino a risultato negativo di 3 coprocolture consecutive, eseguite su campioni fecali
prelevati a non meno di 24 ore di distanza l’uno dall’altro e a non meno di
48 ore dalla sospensione di qualsiasi antibiotico. In caso di positività anche
di una sola coprocoltura, ripetizione dell’intera procedura dopo un mese.
210
Manuale della Professione Medica
Allontanamento, fino a negativizzazione, dalle attività che comportino la
manipolazione o distribuzione di alimenti, l’assistenza sanitaria e quella
all’infanzia.
– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per la ricerca di altri casi
di infezione e della fonte di esposizione, con particolare riguardo a storie
di viaggi in aree endemiche e alle abitudini alimentari. Allontanamento di
conviventi e contatti stretti dalle attività che comportino la manipolazione
o distribuzione di alimenti, l’assistenza sanitaria e quella all’infanzia, fino
a risultato negativo di 2 coprocolture e di 2 urinocolture eseguite su campioni prelevati a non meno di 24 ore di distanza l’uno dall’altro e dopo
sospensione per 48 ore di qualsiasi trattamento antimicrobico.
La vaccinazione antitifica è di valore limitato in caso di esposizione a casi conclamati, mentre può essere utile in caso di convivenza con portatori cronici. La
vaccinazione è consigliata per:
a) viaggiatori diretti in zone a elevata morbosità per febbre tifoide;
b) addetti a raccolta, allontanamento e smaltimento dei liquami;
c) soggetti esposti nel corso di un’epidemia in comunità o in istituzioni;
d) personale di laboratorio con possibilità di frequenti contatti con S. typhi.
Legionellosi: ICD-9 482.8 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: per la malattia dei legionari, abitualmente da 2 a 10
giorni, più frequentemente 5-6 giorni. Per la febbre di Pontiac da 5 a 66 ore,
più frequentemente 24-48 ore.
– Periodo di contagiosità: non è stato documentato il contagio interumano.
– Provvedimenti nei confronti del malato: non previsti.
– Altre misure preventive: ricerca attiva della sorgente di infezione e dei soggetti eventualmente esposti. Sorveglianza sanitaria per la ricerca attiva di
segni di infezione nei soggetti esposti alla comune sorgente ambientale.
Controllo degli impianti di condizionamento dell’aria e di distribuzione
dell’acqua potabile. Bonifica e disinfezione degli stessi mediante clorazione
e/o riscaldamento dell’acqua circolante a temperature superiori a 60°C.
Pulizia periodica degli impianti di condizionamento e delle torri di raffreddamento con le modalità sopra indicate. Uso di sostanze ad azione biocida
per limitare la crescita di microrganismi quali amebe, cianobatteriacee e
alghe microscopiche, che favoriscono la sopravvivenza e la moltiplicazione
delle legionelle.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
211
Listeriosi: ICD-9 027.0 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: abitualmente tre settimane, ma può variare da 3 a
70 giorni dopo esposizione o consumo di un prodotto contaminato.
– Periodo di contagiosità: la Listeria può essere presente per mesi nelle feci
di individui infetti. Nelle madri di neonati affetti da listeriosi connatale
può essere riscontrata nelle secrezioni vaginali e nelle urine per 7-10 giorni
dopo il parto.
– Provvedimenti nei confronti del malato: non sono necessarie misure di
isolamento; sufficiente il rispetto delle comuni norme igieniche e di precauzioni enteriche.
– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per identificare possibili
focolai epidemici con ricerca della fonte comune di infezione/esposizione.
Raccomandazioni circa l’astensione dal consumo di carni crude e poco
cotte e di latte non pastorizzato e prodotti derivati, per le donne in stato di
gravidanza e per le persone con alterazioni dell’immunocompetenza.
Meningite meningococcica: ICD-9 036.0 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: da 2 a 10 giorni, in media 3-4 giorni.
– Periodo di contagiosità: fintantoché N. meningitidis è presente nelle secrezioni nasali e faringee. Il trattamento antimicrobico, con farmaci nei confronti dei quali è conservata la sensibilità di N. meningitidis e che raggiungano
adeguate concentrazioni nelle secrezioni faringee, determina la scomparsa
dell’agente patogeno dal naso-faringe entro 24 ore.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento respiratorio per 24
ore dall’inizio della chemioantibioticoterapia. Disinfezione continua degli
escreti naso-faringei e degli oggetti da essi contaminati. Non è richiesta
la disinfezione terminale ma soltanto una accurata pulizia della stanza di
degenza e degli altri ambienti in cui il paziente ha soggiornato.
– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria di conviventi e contatti
stretti per 10 giorni, con inizio immediato di appropriata terapia al primo
segno sospetto di malattia, in particolare modo iperpiressia. Nei conviventi
e nei contatti stretti di casi di meningite meningococcica chemio-antibioticoprofilassi eseguita mediante impiego dei seguenti farmaci ai seguenti
dosaggi: adulti: 600 mg di rifampicina due volte al dì per due giorni, oppure
250 mg di ceftriaxone in dose singola per via im, oppure 500 mg di cipro-
212
Manuale della Professione Medica
floxacina in dose singola per os; bambini: 10 mg/kg/die di rifampicina per
i bambini di età superiore a 1 mese, 5 mg/kg/die per quelli di età inferiore
a trenta giorni, oppure 125 mg di ceftriaxone in dose singola per via im.
Farmaci alternativi debbono essere utilizzati solo in caso di provata sensibilità del ceppo e in situazioni che ostacolino l’uso dei farmaci di prima
scelta. La decisione di instaurare un regime di chemioantibioticoprofilassi
non deve dipendere dalla ricerca sistematica di portatori di N. meningitidis,
che non riveste alcuna utilità pratica ai fini della profilassi.
Morbillo: ICD-9 055-055 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: da 7 a 18 giorni, mediamente 10-14 giorni.
– Periodo di contagiosità: da poco prima dell’inizio del periodo prodromico
fino a 4 giorni dopo la comparsa dell’esantema.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare per 5
giorni dalla comparsa dell’esantema. In caso di ricovero ospedaliero, isolamento respiratorio per analogo periodo.
– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per la ricerca di soggetti
suscettibili, cui va offerta la vaccinazione antimorbillosa (o antimorbilloparotite-rosolia). La vaccinazione, effettuata entro 72 ore dall’esposizione, ha
efficacia protettiva. Possibile anche la somministrazione di immunoglobuline
specifiche che va effettuata, previa acquisizione di consenso informato, tassativamente entro 6 giorni dall’esposizione: la somministrazione di immunoglobuline oltre il terzo giorno del periodo di incubazione non è in grado
di prevenire la malattia. Anche se non sono previste restrizioni o particolari
condizioni per la frequenza scolastica e dell’attività lavorativa di conviventi e
contatti suscettibili di un caso di morbillo, se ne raccomanda la vaccinazione
per controllare e prevenire epidemie nell’ambito di collettività.
Parotite: ICD-9 072-072.9 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: da 12 a 15 giorni, mediamente 18 giorni.
– Periodo di contagiosità: da 6 a 7 giorni prima e fino a 9 giorni dopo la
comparsa della tumefazione delle ghiandole salivari. L’infettività è massima
nelle 48 ore precedenti la comparsa dei segni clinici della malattia.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare e in caso di
ricovero ospedaliero. Isolamento respiratorio per 9 giorni dalla comparsa
della tumefazione delle ghiandole salivari.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
213
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: ricerca di soggetti
suscettibili in ambito familiare e della collettività scolastica, con restrizione
della frequenza di collettività dal 12° al 25° giorno successivo all’esposizione.
Pertosse: ICD-9 033-033.9 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: da 6 a 20 giorni. Dall’inizio del periodo catarrale
fino a tre settimane dall’inizio della fase parossistica.
– Periodo di contagiosità: in pazienti trattati con eritromicina la contagiosità
si estingue in circa 5 giorni dall’inizio della terapia.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare e, in caso
di ricovero ospedaliero, isolamento respiratorio per i casi accertati laboratoristicamente.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: per i casi sospetti,
restrizione dei contatti con soggetti suscettibili, particolarmente se si tratta
di bambini di età inferiore a 1 anno, per almeno 5 giorni dall’inizio di adeguata terapia antibiotica (eritromicina per 14 giorni). Sorveglianza sanitaria
per l’identificazione di soggetti suscettibili. Somministrazione, a prescindere dallo stato vaccinale, di eritromicina a tutti i conviventi e contatti di
età inferiore a 7 anni per ridurre il periodo di contagiosità. Restrizione
della frequenza scolastica e di altre collettività infantili di contatti non adeguatamente vaccinati per 14 giorni dall’ultima esposizione o per 5 giorni
dall’inizio di un ciclo di antibioticoprofilassi, con eritromicina. Nei bambini
di età inferiore a 7 anni è indicata una dose di richiamo di DTP o di DTaP
se sono trascorsi più di tre anni dall’ultima somministrazione.
Rosolia: ICD-9 056-056.9 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: da 14 a 21 giorni, mediamente 16-18 giorni.
– Periodo di contagiosità: da una settimana prima a non meno di 4 giorni
dopo la comparsa dell’esantema. I neonati affetti da sindrome da rosolia
congenita possono eliminare rubivirus per molti mesi.
– Provvedimenti nei confronti del malato: allontanamento dalla frequenza
scolastica o dall’attività lavorativa per 7 giorni dalla comparsa dell’esantema. In ambiente ospedaliero o in altre istituzioni, isolamento da contatto
e utilizzazione di stanza separata per 7 giorni dalla comparsa dell’esantema.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria per l’individuazione di contatti suscettibili, in particolar modo donne
214
Manuale della Professione Medica
in gravidanza, che dovranno astenersi da qualsiasi contatto con il paziente e
sottoporsi a esami sierologici per la determinazione del loro stato immunitario nei confronti della rosolia. La vaccinazione dei contatti non immuni,
anche se non controindicata, con l’eccezione dello stato di gravidanza, non
previene in tutti i casi l’infezione o la malattia. Un’epidemia di rosolia in
ambito scolastico o in altra collettività, d’altra parte, giustifica l’effettuazione di una campagna straordinaria di vaccinazione.
Salmonellosi non tifoidee: ICD-9 003-003.9 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: da 6 a 72 ore, abitualmente 12-36 ore.
– Periodo di contagiosità: da alcuni giorni prima a diverse settimane dopo la
comparsa della sintomatologia clinica. L’instaurarsi di uno stato di portatore cronico è particolarmente frequente nei bambini e può essere favorito
dalla somministrazione di antibiotici.
– Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche per i pazienti
ospedalizzati. Allontanamento dei soggetti infetti sintomatici da tutte le
attività che comportino la manipolazione o distribuzione di alimenti, l’assistenza sanitaria a pazienti ospedalizzati o istituzionalizzati, l’assistenza
alla infanzia. Riammissione alle suddette attività dopo risultato negativo
di 2 coprocolture consecutive, eseguite su campioni di feci prelevati a non
meno di 24 ore di distanza e a non meno di 48 ore dalla sospensione di
qualsiasi trattamento antimicrobico.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: ricerca attiva di
altri casi di malattia e della fonte di esposizione. Ricerca di casi asintomatici
di infezione mediante esame delle feci nei soggetti impegnati in attività
che comportino la manipolazione o distribuzione di alimenti, l’assistenza
sanitaria o a soggetti istituzionalizzati, l’assistenza all’infanzia, con allontanamento dei soggetti positivi fino a risultato negativo di due coprocolture
consecutive eseguite secondo la procedura precedentemente descritta.
Scarlattina: ICD-9 034.1 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: da 1 a 3 giorni.
– Periodo di contagiosità: da 10 a 21 giorni dalla comparsa dell’esantema, nei
casi non trattati e non complicati. La terapia antibiotica (con penicillina o
altri antibiotici appropriati) determina cessazione della contagiosità entro
24-48 ore.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
215
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare per 48
ore dall’inizio di adeguata terapia antibiotica. Precauzioni per secrezioni e
liquidi biologici infetti per 24 ore dall’inizio del trattamento antibiotico. In
caso di ricovero ospedaliero disinfezione continua di secrezioni purulente
e degli oggetti da queste contaminati.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria di conviventi e contatti stretti (inclusi compagni di classe e insegnanti)
per 7 giorni dall’ultimo contatto con il paziente, ed esecuzione di indagini
colturali (tamponi faringei) nei soggetti sintomatici. L’esecuzione sistematica di tamponi faringei è indicata nelle situazioni epidemiche e in quelle
ad alto rischio (più casi di febbre reumatica nello stesso gruppo familiare
o collettività ristretta, casi di febbre reumatica o di nefrite acuta in ambito
scolastico, focolai di infezioni di ferite chirurgiche, infezioni invasive da
streptococco emolitico di gruppo A).
Varicella: ICD-9 052 (Classe di notifica: II).
– Periodo di incubazione: da 2 a 3 settimane, abitualmente 13-17 giorni. Il
periodo di incubazione può essere prolungato in caso di soggetti con alterazione dell’immunocompetenza o sottoposti a immunoprofilassi passiva.
– Periodo di contagiosità: da 5 giorni prima a non più di 5 giorni dopo la
comparsa della prima gittata di vescicole. Il periodo di contagiosità può
essere prolungato in caso di soggetti con alterazione dell’immunocompetenza o sottoposti a immunoprofilassi passiva.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare per almeno
5 giorni dalla comparsa della prima gittata di vescicole, con restrizione dei
contatti con altri soggetti suscettibili, in particolar modo donne in stato di
gravidanza e neonati. In caso di ricovero ospedaliero, isolamento stretto,
in considerazione della possibilità di trasmissione dell’infezione a soggetti
suscettibili immunodepressi.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: nessuna restrizione
per la frequenza scolastica o di altre collettività. In caso di ricovero ospedaliero dei contatti, per altre cause, è indicata la separazione per un periodo di
10-21 giorni, prolungato a 28 giorni in caso di somministrazione di immunoglobuline specifiche, dall’ultimo contatto con un caso di varicella. Vaccinazione dei soggetti ad alto rischio di complicanze da infezione con virus VZ.
216
Manuale della Professione Medica
Lebbra: ICD-9 030-030.9 (Classe di notifica: III).
– Periodo di incubazione: da alcuni mesi a decine di anni.
– Periodo di contagiosità: l’infettività viene persa, nella maggior parte dei casi,
entro 3 mesi dall’inizio di un trattamento continuo e regolare con dapsone o
clofazimina o entro 3 giorni dall’inizio del trattamento con rifampicina.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento da contatto per i
pazienti affetti da lebbra lepromatosa; non sono necessarie misure di isolamento per le altre forme di lebbra. Restrizione dall’attività lavorativa o
scolastica fino a permanenza dello stato di infettività.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza clinica
mediante esame immediato e successivi esami periodici di conviventi e altri
contatti stretti, a intervalli non superiori a dodici mesi, per almeno 5 anni
dall’ultimo contatto con un caso infettivo.
Tubercolosi: ICD-9 010-/018 (Classe di notifica: III).
– Periodo di incubazione: circa 4-12 settimane dall’infezione alla comparsa di
una lesione primaria dimostrabile o della positività del test alla tubercolina.
L’infezione può persistere allo stato latente per tutta la vita; il rischio di
evoluzione verso la tubercolosi polmonare e/o extrapolmonare è massimo
nei primi due anni dopo la prima infezione.
– Periodo di contagiosità: fintantoché bacilli tubercolari sono presenti
nell’escreato e in altri fluidi biologici. La terapia antimicrobica con farmaci
efficaci determina la cessazione della contagiosità entro 4-8 settimane.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento respiratorio in stanze
separate e dotate di sistemi di ventilazione a pressione negativa per i soggetti affetti da tubercolosi polmonare, fino a negativizzazione dell’escreato;
precauzioni per secrezioni/drenaggi nelle forme extrapolmonari; sorveglianza sanitaria per almeno 6 mesi. In caso di scarsa compliance alla terapia,
di sospetta farmacoresistenza, o di condizioni di vita che possono determinare l’infezione di altre persone, in caso di recidiva è indicato il controllo
diretto dell’assunzione della terapia anti-tubercolare.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria di conviventi e contatti stretti per la ricerca di altri casi di infezione o
malattia. Esecuzione di test alla tubercolina con successiva radiografia del
torace dei casi positivi e, in caso di negatività, ripetizione del test a distanza
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
217
di 2-3 mesi dal momento della cessazione dell’esposizione. Chemioprofilassi nei contatti stretti cutipositivi; questa è, altresì, indicata per i contatti
cutinegativi ad alto rischio di sviluppare la malattia.
Dermatofitosi: ICD-9 110-110.9 (Classe di notifica: IV).
– Periodo di incubazione: da 4 a 10 giorni per Tinea cruris e Tinea corporis; da 10
a 14 giorni per Tinea capitis e Tinea barbae; non definito per le altre forme.
– Periodo di contagiosità: fintantoché sono presenti le lesioni e che miceti
vitali persistono sui materiali contaminati.
– Provvedimenti nei confronti del malato: in caso di Tinea capitis nessuna
restrizione, purché venga seguito un trattamento appropriato. Se il paziente
è ospedalizzato precauzioni per drenaggi/secrezioni. Esclusione dalla frequenza di palestre e piscine in caso di Tinea corporis, cruris e pedis per tutta
la durata del trattamento; se il paziente è ospedalizzato precauzioni per
drenaggi/secrezioni.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: ricerca di altri casi
di infezione nei conviventi e nei contatti scolastici e ricerca della fonte di
infezione, oltre che nei contatti umani, negli animali domestici, spesso portatori inapparenti. Educazione sanitaria dei conviventi e contatti allo scopo
di impedire la condivisione di oggetti contaminati.
Pediculosi - Ftiriasi: ICD-9 132-132.9 (Classe di notifica: IV).
– Periodo di incubazione: in condizioni ottimali per il ciclo vitale dei pidocchi,
da 6 a 10 giorni in caso di infestazione con uova.
– Periodo di contagiosità: fintantoché uova, forme larvali o adulte sono presenti e vitali sulle persone infestate o su indumenti e altri fomiti.
– Provvedimenti nei confronti del malato:
a) in caso di infestazione da Pediculus humanus corporis isolamento da contatto
per non meno di 24 ore dall’inizio di un adeguato trattamento disinfestante. Il trattamento disinfestante consiste nell’applicazione di polvere di
talco contenente DDT al 10% oppure malathion all’1% oppure permetrina allo 0,5% o altri insetticidi. Gli indumenti vanno trattati con gli stessi
composti applicati sulle superfici interne oppure lavati con acqua bollente;
b) in caso di infestazioni da P. humanus capitis, restrizione della frequenza di
collettività fino all’avvio di idoneo trattamento disinfestante, certificato
dal medico curante. Il trattamento disinfestante, consistente in appli-
218
Manuale della Professione Medica
cazione di shampoo medicati contenenti permetrina all’1% o piretrine
associate a piperonil-butossido, o benzilbenzoato o altri insetticidi, deve
essere periodicamente ripetuto ogni 7-10 giorni per almeno un mese.
Pettini e spazzole vanno immersi in acqua calda per 10 minuti e/o lavati
con shampoo antiparassitario;
c) in caso di infestazioni da Phthirus pubis le zone interessate vanno rasate; i
trattamenti disinfestanti sono simili a quelli da adottare per il P. humanus
capitis e, se non sufficienti, vanno ripetuti dopo 4-7 giorni di intervallo.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria per l’identificazione di altri casi di parassitosi, e conseguente trattamento disinfestante. I compagni di letto e i partner sessuali di soggetti
infestati da P. pubis devono essere trattati in via profilattica con gli stessi
prodotti impiegati per i casi di infestazione conclamata.
Scabbia: ICD-9 133 (Classe di notifica: IV).
– Periodo di incubazione: da 2 a 6 settimane in caso di persone non esposte
in precedenza, da 1 a 4 giorni in caso di reinfestazione.
– Periodo di contagiosità: fino a che gli acari e le uova non siano stati distrutti
da adeguato trattamento. Possono essere necessari 2 o più cicli di trattamento, eseguiti a intervalli di una settimana.
– Provvedimenti nei confronti del malato: allontanamento da scuola o dal
lavoro fino al giorno successivo a quello di inizio del trattamento. Per soggetti ospedalizzati o istituzionalizzati, isolamento da contatto per 24 ore
dall’inizio del trattamento.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza clinica
per la ricerca di altri casi di infestazione; per i familiari e per i soggetti che
abbiano avuto contatti cutanei prolungati con il paziente è indicato il trattamento profilattico simultaneo. In caso di epidemie è indicato il trattamento
profilattico dei contatti. Lenzuola, coperte e vestiti vanno lavati a macchina
con acqua a temperatura maggiore di 60°C; i vestiti non lavabili con acqua
calda vanno tenuti da parte per una settimana, per evitare reinfestazioni.
Dissenteria bacillare (Shigellosi): ICD-9 004 (Classe di notifica: V).
– Periodo di incubazione: da 12 ore a 7 giorni, abitualmente 1-3 giorni.
– Periodo di contagiosità: durante l’infezione acuta e fino a che l’agente patogeno è presente nelle feci (abitualmente 4 settimane).
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
219
– Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche, nei casi che
richiedono l’ospedalizzazione, fino a risultato negativo di due coprocolture
eseguite su campioni fecali raccolti a non meno di 24 ore di distanza l’uno
dall’altro e a non meno di 48 ore dalla cessazione del trattamento antimicrobico. In caso di positività persistente il soggetto, una volta dimesso, andrà
sottoposto a sorveglianza sanitaria fino a negativizzazione, con allontanamento dalle attività che comportino direttamente o indirettamente la manipolazione di alimenti e dalle attività di assistenza sanitaria e all’infanzia.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria per almeno 7 giorni dall’ultimo contatto con il paziente ed effettuazione
di coprocoltura di controllo per i conviventi di contatti sintomatici; trattamento dei positivi. Coprocoltura di controllo nei conviventi e contatti,
anche asintomatici, impegnati in attività che comportino manipolazione di
alimenti o assistenza sanitaria e all’infanzia e loro esclusione da tali attività
in caso di risultato positivo. Coprocoltura di controllo nelle situazioni in
cui sia verosimile un alto rischio di trasmissione. Istruzione dei conviventi
e dei contatti sulla necessità dell’accurato lavaggio delle mani e dello spazzolamento delle unghie dopo l’uso dei servizi igienici e prima della manipolazione di alimenti o della cura di malati e bambini.
Meningite da Haemophilus influenzae B: ICD-9 320.0 (Classe di notifica: V).
– Periodo di incubazione: non definito, probabilmente 2-4 giorni.
– Periodo di contagiosità: fintantoché il microrganismo è presente nelle
secre-zioni oro-faringee; l’infettività cessa entro 48 ore dall’inizio di un
adeguato trattamento antimicrobico.
– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento respiratorio per 24 ore
dall’inizio di appropriata terapia.
– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria
di conviventi e contatti stretti; chemioantibioticoprofilassi con rifampicina
per tutti i contatti domestici in ambienti familiari in cui siano presenti bambini, oltre al caso indice, di età inferiore a 6 anni; chemioantibioticoprofilassi
per i bambini fino a 6 anni e per il personale di scuole materne o asili nido.
Il dosaggio consigliato è 20 mg/kg/die, fino a un massimo di 600 mg, in
un’unica dose giornaliera per 4 giorni. Vaccinazione dei bambini di età compresa tra 0 e 6 anni. La pregressa vaccinazione non esclude il trattamento
220
Manuale della Professione Medica
profilattico. I contatti di età inferiore a 6 anni sono esclusi dalla frequenza di
comunità e possono essere riammessi al termine del periodo di profilassi, a
meno che non siano già stati vaccinati con schedula appropriata per l’età.
Vaccinazioni
Le vaccinazioni costituiscono uno degli interventi più efficaci della sanità pubblica, in quanto attraverso i vaccini è possibile prevenire in modo efficace e sicuro
molte malattie infettive ed evitare di conseguenza anche possibili complicanze e
sequele invalidanti o fatali. Le vaccinazioni costituiscono il possibile mezzo per
eradicare quelle malattie che riconoscono nell’uomo l’unico ospite (vaiolo, poliomielite, morbillo ecc.) e per controllare le altre. La relazione dimostrata fra alcune
infezioni e alcune patologie croniche degenerative fa sperare nella possibilità di
prevenire queste ultime mediante l’uso di vaccini (ad es. prevenzione dell’epatocarcinoma primitivo mediante vaccinazione anti epatite virale B; prevenzione del
carcinoma del collo dell’utero mediante vaccinazione anti papillomavirus).
Alcune
vaccinazioni di particolare interesse per il medico di medicina generale
Influenza
L’influenza costituisce un serio problema epidemiologico per la sua ubiquità,
contagiosità, l’esistenza di serbatoi animali e inoltre per la variabilità antigenica
dei virus influenzali. Poiché i suoi sintomi sono simili a quelli di altre malattie
respiratorie acute di minore importanza, spesso si minimizza l’importanza di
questa infezione, responsabile invece di elevata morbosità e indirettamente di
elevata mortalità soprattutto in soggetti con età superiore ai 65 anni o con patologie croniche. In Italia la sovramortalità dovuta a influenza varia da 3-4 mila a
8-9 mila decessi ogni anno, a seconda della diffusione della epidemia.
La malattia è causata da virus a RNA, della famiglia degli Orthomyxovirus,
che sulla base della ribonucleoproteina, vengono suddivisi in tre tipi antigenici
maggiori: A (responsabile della maggior parte delle epidemie), B e C; all’interno del tipo A si distinguono, a loro volta, ulteriori sottotipi, caratterizzati da
antigeni di superificie (emoagglutinina e neuroaminidasi) immunologicamente
diversi, di impatto epidemiologico fondamentale nella diffusione delle epidemie maggiori/pandemie. Quando si verifica un cambiamento di rilievo a carico
di uno di questi antigeni – il cosiddetto shift (spostamento) antigenico, evento
fortunatamente raro e proprio solo del tipo A – compare un virus dalle carat-
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
221
teristiche totalmente nuove e verso cui la popolazione è immunologicamente
suscettibile: ciò determina la comparsa di una pandemia. Gli shift antigenici
sono dovuti a ricombinazioni genetiche con virus animali (aviari o suini), per
eventi di coinfezione cellulare generalmente a carico di specie che presentano
affinità con il sistema immunologico umano.
Più frequente, spesso su base stagionale, è il cosiddetto drift (deriva) antigenico, che interessa sia il tipo A che, in misura minore, il tipo B, responsabile delle
epidemie stagionali che si verificano nella stagione invernale, dovuto a cambiamenti puntiformi nei due antigeni di superficie. Anche negli animali si possono
avere infezioni dovute a virus influenzali con diversi sottotipi antigenici. Gli
uccelli acquatici costituiscono un serbatoio naturale ed è stato dimostrato il passaggio di alcuni virus influenzali anche tra specie diverse (anatre, tacchini, polli,
suini). Nel 1997 a Hong Kong, in seguito a una epidemia tra i polli dovuta a un
sottotipo A(H5N1), si sono verificati alcuni casi di infezione nell’uomo, dovuti
a passaggio diretto del virus dall’animale all’uomo; la letalità è stata di oltre il
30%. Tale epidemia che sembrava sotto controllo è riesplosa nei primi anni di
questo secolo con una letalità per l’uomo pari al doppio rispetto al 1997. Fino
a ora il contagio è avvenuto tra animale e uomo ma si teme che nel prossimo
futuro il virus aviario, ricombinandosi con un virus “umano”, possa acquisire
la capacità di passaggio da uomo a uomo con grave rischio per la popolazione
mondiale. D’altra parte bisogna ricordare che l’epidemia di spagnola del 19181919 era dovuta a un virus suino passato nell’uomo e quindi diffuso da uomo a
uomo. L’esperienza ha insegnato che le pandemie si possono verificare a intervalli irregolari e possono rappresentare vere e proprie emergenze sanitarie. Tuttavia per poter parlare di potenziale epidemico o pandemico, i ceppi formatisi
in seguito a ricombinazione genica dovrebbero avere la capacità di trasmettersi
da persona a persona, evento che si realizza raramente.
L’influenza si diffonde da persona a persona mediante contatto diretto,
gocce di saliva od oggetti da poco contaminati da secrezioni nasofaringee.
L’influenza è altamente contagiosa, specialmente tra soggetti istituzionalizzati,
anche se i più colpiti sono i bambini in età scolare in quanto con minore esperienza di passate infezioni influenzali. I soggetti sono già contagiosi nelle 24
ore prima dell’inizio dei sintomi. La presenza del virus nelle secrezioni nasali
cessa generalmente entro 7 giorni dall’inizio della malattia, ma può persistere
più a lungo nei bambini più piccoli e nei pazienti immunocompromessi.
222
Manuale della Professione Medica
Nel periodo interpandemico è invece possibile intervenire su variabili
note, quali valutare l’assetto immunitario della popolazione, onde comprendere anche, in caso di rischio pandemico, quali debbano essere le strategie di
intervento e organizzazione da mettere in atto. Il vaccino e, in minor misura,
i farmaci antivirali e antibatterici sono le armi che, se impiegate in modo
esteso e associate a un piano preciso di utilizzo delle risorse strutturali disponibili (ospedali e, in particolare, reparti di terapia intensiva), permetteranno di
affrontare in modo congruo future emergenze pandemiche.
Per verificare quali virus circolino nella popolazione è stata istituita dall’OMS
una rete di sorveglianza epidemiologica e virologica dell’influenza. In Italia la
rete (Influnet) è coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità ed è costituita da
medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, con funzione di medici
sentinella, e da centri virologici regionali.
Vaccinazione antinfluenzale
I vaccini antinfluenzali disponibili, prodotti in uova embrionate di pollo,
sono immunogeni, sicuri e associati a minimi effetti collaterali.
Pur se sono allo studio diversi vaccini vivi e attenuati da somministrare per
via nasale o buccale, al momento quelli utilizzati in Italia sono tutti inattivati e
appartengono a tre categorie:
– virus interi, fluidi o adsorbiti a vari adiuvanti;
– split (virus frammentati), particelle da cui viene separata la componente
lipidica responsabile della gran parte degli eventi avversi riscontrati con i
vaccini a virus interi;
– ad antigeni purificati o subunità, costituiti dai soli antigeni emoagglutinina
(H) e neuroaminidasi (N).
I vaccini split e a subunità, pur lievemente meno immunogeni, sono da preferire nelle persone con particolare sensibilità agli effetti collaterali (bambini,
soggetti affetti da patologie croniche); i vaccini adiuvati sono indicati per la
vaccinazione degli ultrasessantacinquenni.
La composizione dei vaccini, che in genere contengono tre ceppi virali (di
solito due di tipo A e uno di tipo B), varia ogni anno secondo le indicazioni che
l’OMS annualmente fornisce separatamente per i due emisferi, quello australe
e quello boreale.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
223
Secondo la Circolare 5 agosto 2005 del Ministero della Salute devono
essere vaccinati i soggetti appartenenti alle seguenti categorie:
In ambito italiano ed europeo i principali destinatari dell’offerta del vaccino antinfluenzale sono gli ultrasessantacinquenni e quelli con patologie che
aumentano il rischio di complicazioni a seguito di influenza:
– soggetti con età pari o superiore a 65 anni;
– bambini di età superiore a 6 mesi e adulti affetti da malattie croniche
dell’apparato respiratorio (comprese l’asma persistente, la displasia broncopolmonare, la fibrosi cistica), malattie croniche dell’apparato cardiocircolatorio (comprese le cardiopatie congenite e quelle acquisite), diabete
mellito e malattie metaboliche, insufficienza renale, malattie degli organi
emopoietici ed emoglobinopatie, malattie congenite o acquisite che comportino carente produzione di anticorpi, immunosoppressione indotta da
farmaci o da HIV, sindromi da malassorbimento intestinale, patologie per
le quali sono programmati importanti interventi chirurgici;
– bambini e adolescenti in trattamento con acido acetilsalicilico a lungo termine a rischio di sindrome di Reye in caso di infezione influenzale;
– bambini pretermine (nati prima della 37a settimana di gestazione) e di basso
peso alla nascita (inferiore a 2500 g), dopo il compimento del sesto mese;
– donne che saranno al secondo/terzo trimestre di gravidanza durante la
stagione epidemica;
– individui di qualunque età ricoverati in strutture per lungodegenti;
– medici e personale sanitario di assistenza;
– contatti familiari di soggetti ad alto rischio;
– soggetti addetti a servizi pubblici di primario interesse collettivo (personale
degli asili nido, insegnanti scuole dell’infanzia e dell’obbligo; addetti poste
e telecomunicazioni; dipendenti Pubblica Amministrazione e Difesa; Forze
di Polizia inclusa polizia municipale; volontari servizi sanitari di emergenza;
personale di assistenza in case di riposo);
– personale che per motivi occupazionali, è a contatto con animali che potrebbero costituire fonte di infezione da virus influenzali non umani (detentori di
allevamenti; addetti all’attività di allevamento; addetti al trasporto di animali
vivi; macellatori e vaccinatori; veterinari pubblici e libero-professionisti).
Dall’età di 6 mesi a 36 mesi si somministra mezza dose (0,25 ml) ripetuta a
distanza di 4 settimane per i bambini vaccinati per la prima volta. Nei bambini
224
Manuale della Professione Medica
da 3 a 9 anni, non precedentemente esposti all’infezione influenzale o mai
vaccinati, sono necessarie due dosi di vaccino, somministrate a un mese di
distanza, per evocare una soddisfacente risposta anticorpale. Al di sopra dei 9
anni è sufficiente una sola dose.
La durata della protezione è limitata dal cambiamento degli antigeni di
superficie che circoleranno nell’epidemia successiva. Il vaccino antiinfluenzale
deve essere somministrato prima dell’inizio della stagione influenzale. Deve
essere conservato a temperature comprese tra +2°C e +8°C e somministrato
per via intramuscolare. Per tutti i soggetti con età maggiore di 9 anni è raccomandata l’iniezione in sede deltoidea; al di sotto di questa età la faccia anterolaterale della coscia.
La protezione indotta nei soggetti adulti sani è generalmente del 70-90%;
nelle persone anziane e in quelle con malattie croniche, che possono ridurre
l’efficienza della risposta immunitaria, i vaccini antinfluenzali sono comunque efficaci nel prevenire le complicanze e nel ridurre la sovramortalità da
influenza del 70-80%. L’uso del vaccino è controindicato nei soggetti con
anamnesi positiva per shock anafilattico da proteine dell’uovo e nei bambini
sotto i sei mesi di vita. In circa il 20% dei vaccinati la somministrazione del vaccino può dar luogo a reazioni locali nel punto di inoculo e a reazioni generali
come cefalea, malessere, mialgie, febbre, orticaria.
Infezioni invasive da pneumococco
Lo Streptococcus pneumoniae (pneumococco), germe ubiquitario, è un diplococco gram positivo lanceolato. Ne sono stati identificati 90 sierotipi differenti
in base alla composizione della capsula polisaccaridica, ma 23 tipi capsulari sono
da soli responsabili dell’86-98% di tutte le infezioni invasive pneumococciche
nei paesi occidentali. Lo pneumococco è responsabile di gravi infezioni invasive
quali batteriemie e meningiti, caratterizzate da elevata letalità. Tra gli aspetti che
rendono le infezioni invasive particolarmente temibili è la crescente diffusione
in tutto il mondo della multiantibiotico-resistenza che rende difficile la terapia di
queste malattie invasive.
In Italia l’infezione da Streptococcus pneumoniae è una delle principali cause di
meningite (36% di tutti i casi di meningite segnalati) con un’incidenza particolarmente rilevante negli adulti e negli anziani (80,3%) e di sepsi batterica; è
inoltre una delle principali cause di polmonite e otite media nei paesi industria-
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
225
lizzati. L’incidenza, oltre che nei primi anni di vita, è più elevata nella popolazione anziana, attestandosi a valori compresi tra 27 e 62 casi/100.000. In Italia
nell’anno 2003 sono stati notificati 309 casi di meningite da pneumococco e
di questi 121 (39%) in soggetti tra 25 e 64 anni, e 108 (28%) in soggetti ultrasessantaquattrenni.
Gruppi a rischio sono i soggetti cardiopatici, broncopneumopatici, persone
con età minore di 2 anni e maggiore di 65 anni, persone con immunodeficienze
congenite o acquisite (HIV), con asplenia anatomica o funzionale, alcolismo
cronico, sindrome nefrosica, insufficienza renale cronica, trapianti d’organi,
diabete mellito. I pazienti con perdite liquorali, fratture craniche complicate o
procedure neurochirurgiche possono soffrire di meningiti ricorrenti. Oltre il
91% degli adulti con infezione invasiva da pneumococco presenta almeno uno
dei sopracitati fattori di rischio.
La trasmissione, data l’alta percentuale di soggetti colonizzati a livello delle
alte vie respiratorie, avviene da persona a persona, presumibilmente tramite le
goccioline di Flügge.
Il periodo di contagiosità non è noto, ma dura meno di 24 ore dall’inizio
di un’efficace terapia antibiotica. Il periodo di incubazione varia a seconda del
tipo di infezione e può anche durare solo 1-3 giorni. Le infezioni virali delle
alte vie respiratorie, come l’influenza, predispongono all’infezione da pneumococco. Le infezioni pneumococciche sono prevalenti in inverno.
Vaccinazione antipneumococcica
Sono in commercio due tipi di vaccini antipneumococcici: vaccini polisaccaridici e vaccini coniugati.
Il vaccino comunemente usato negli adulti è un vaccino polisaccaridico,
contenente 23 antigeni capsulari purificati di Streptococcus pneumoniae, corrispondenti ai sierotipi più frequentemente implicati nelle infezioni invasive nei paesi
occidentali. La vaccinazione antipneumococcica provoca una risposta specifica in almeno l’80% dei soggetti sani adulti, l’immunogenicità è di poco inferiore nei soggetti anziani ed è pure soddisfacente nei soggetti affetti da patologie croniche non marcatamente immunodepressive, mentre è decisamente
inferiore nei soggetti immunodepressi. La risposta immunitaria si sviluppa,
nei confronti di tutti i 23 componenti, circa 2-3 settimane dalla vaccinazione.
Il vaccino è considerato tollerabile e sicuro, le lievi reazioni locali in sede di
226
Manuale della Professione Medica
inoculo (dolore, arrossamento, tumefazione) che si hanno in circa metà dei
vaccinati recedono entro 24-48 ore, le reazioni sistemiche (febbre, mialgie)
sono rare e l’anafilassi eccezionale.
Il vaccino a 23 componenti è dotato di efficacia compresa tra il 57-75% nel
prevenire le batteriemie pneumococciche nei soggetti di età pari a 65 anni e/o
affetti da patologie non immunodepressive.
La rivaccinazione di norma non è raccomandata nei soggetti immunocompetenti già vaccinati con vaccino 23 valente. Una sola rivaccinazione è
prevista nei soggetti con età ≥ 65 anni se la vaccinazione è avvenuta prima dei
64 anni da almeno 5 anni e nei soggetti con asplenia funzionale o anatomica o
immunocompromessi se vaccinati da oltre 5 anni (3 anni in soggetti ≤10 anni),
comunque prima dei 65 anni di età (Figura 5.3).
Il vaccino polisaccaridico non induce memoria immunitaria e non è efficace nei bambini di età inferiore ai 2 anni.
Tabella 5.3. Profilassi immunitaria antitetanica in caso di ferita
Stato vaccinale
Ferite superficiali pulite
Tutte le altre ferite
Assenza di vaccinazione, stato Inizio della vaccinazione con Inizio della vaccinazione e
vaccinale incerto
Td o DT
somministrazione in sito differente e con diversa siringa di
immunoglobuline antitetaniche
Ultima somministrazione del Una dose di richiamo di vac- Una dose di richiamo e somministrazione in sito differente
ciclo di base o dose di richia- cino Td o DT
e con diversa siringa di immumo da più di 10 anni
noglobuline antitetaniche
Ultima somministrazione del Una dose di richiamo di vac- Una dose di richiamo; la somministrazione di immunoglobuciclo di base o dose di richia- cino Td o DT
line antitetaniche non è necesmo tra 5 e 10 anni
saria
Ultima somministrazione del Nessun trattamento
ciclo di base o dose di richiamo da meno di 5 anni
Una dose di richiamo di vaccino solo in presenza di rischio di
infezione particolarmente alto;
la somministrazione di immunoglobuline antitetaniche non è
necessaria
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
227
Figura 5.3. Flow-chart della rivaccinazione nei soggetti ≥ 65 anni
Nell’anno 2001 è stato registrato un vaccino antipneumococcico eptavalente coniugato. Il vaccino è in grado di indurre una buona risposta anticorpale
a partire dal 3° mese di vita e stabilire una buona memoria immunologica nei
soggetti. Ciò consente di proteggere dalle infezioni pneumococciche invasive
i soggetti più giovani, quelli che non sono tutelabili dal vaccino 23 valente. Il
Ministero della Salute con Circolare n. 1 del 19 novembre 2001 ha raccomandato l’offerta gratuita di vaccino ai bambini sotto i 5 anni di età ad alto rischio
di contrarre patologia invasiva da Streptococcus pneumonite (anemia falciforme,
talassemia, asplenia funzionale, broncopneumopatie croniche, immunodepressione, diabete mellito, insufficienza renale e sindrome nefrosica, infezione da
HIV, immunodeficienze congenite, malattie cardiovascolari croniche, perdita
di liquor cefalo-rachidiano, portatori di impianto cocleare).
Il vaccino coniugato eptavalente ha un’efficacia complessiva dell’89% verso
le forme invasive e può ridurre l’incidenza di otiti del 10%.
Il vaccino va somministrato per via sottocutanea o intramuscolare. I richiami
sono raccomandati, ogni 5 anni, solo nei soggetti ad altissimo rischio.
È possibile somministrare nella stessa seduta, in sedi diverse di iniezione,
anche il vaccino antinfluenzale e antidiftotetano, senza variazioni negli effetti
collaterali o nella risposta anticorpale.
228
Manuale della Professione Medica
Tetano
Il tetano è causato da una esotossina prodotta dal Clostridium tetani, bacillo
gram positivo, sporigeno, anaerobio obbligato, tipicamente non invasivo. L’infezione sostenuta da questo germe rimane quindi localizzata nel punto di penetrazione e germinazione delle spore. Le ferite sporche o con tessuto necrotico,
le lesioni da schiacciamento e le ustioni sono particolarmente a rischio di tetano
se contaminate da Cl. tetani. La forma vegetativa produce una potente esotossina
(tetanospasmina), che si lega ai gangliosidi della giunzione neuromuscolare o
sulle membrane neuronali nel midollo bloccando l’impulso inibitorio ai nervi
motori; si hanno di conseguenza contrazioni muscolari dolorose, inizialmente
dei muscoli della mandibola e del collo e successivamente dei muscoli del tronco.
La tossina tetanica agisce in quantità minime: la dose letale per l’uomo è valutata
in meno 2,5 ng/kg. La letalità si aggira intorno al 30%.
In Italia vengono notificati circa 100 casi/anno. La fascia di età maggiormente colpita è quella adulto-anziana in quanto generalmente non vaccinata. Il
tetano non è trasmissibile da persona a persona. Il periodo di incubazione può
variare da 3 a 21 giorni e oltre.
Vaccinazione antitetanica
La vaccinazione costituisce il più efficace mezzo di prevenzione del tetano.
L’immunizzazione attiva con anatossina tetanica è indicata per tutti i soggetti non immunizzati di qualunque età.
Il ciclo vaccinale comprende tre dosi, da eseguirsi le prime due a distanza di
4-8 settimane e la terza a 6-12 mesi. Successivamente per mantenere l’immunità
sono raccomandati richiami ogni 10 anni. Dopo la vaccinazione primaria un titolo
protettivo persiste per almeno 10 anni. Il vaccino è altamente efficace nel prevenire
il tetano quando il ciclo di base è stato completato. Oltre la metà dei vaccinati non
presenta effetti collaterali. Tra i più frequenti si hanno reazioni locali come eritema,
edema e dolore nel sito di iniezione, e reazioni generali come febbre ≥ 38°C, sonnolenza, irritabilità. Sono state descritte sindrome di Guillain-Barré (SGB) e neurite brachiale associate alla vaccinazione antitetanica ma sono estremamente rare.
In caso di ferita chi ha ricevuto il ciclo di base o un richiamo da meno di
cinque anni non necessita di profilassi immunitaria. L’impiego delle immunoglobuline antitetaniche (TIG) o del vaccino nel trattamento delle ferite dipende
dalla natura della ferita e dallo stato immunitario del ferito.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
229
È pertanto particolarmente importante raggiungere, mediante campagne
di informazione e di offerta attiva della vaccinazione, con il coinvolgimento dei
medici di medicina generale, quella parte della popolazione priva di protezione
immunitaria nei confronti del tetano (anziani, donne non occupate in attività
lavorative per le quali è richiesta la vaccinazione antitetanica obbligatoria).
Non è necessario ricominciare il ciclo primario qualora non siano trascorsi
più di 12 mesi tra la prima e la seconda dose, e più di cinque anni tra la seconda e
la terza. Si consiglia l’avvio di un nuovo ciclo di base solo in caso di superamento
degli intervalli sopra indicati. Per quanto riguarda le vaccinazioni di richiamo,
anche se sono passati oltre dieci anni dall’ultima dose, si somministra una sola
dose, non essendovi la necessità di cominciare un nuovo ciclo (Tabella 5.3).
L’immunoprofilassi antitetanica è indicata per tutti i soggetti che abbiano
riportato ferite puntorie, ferite lacero-contuse o morsicature di animali, contaminate con terriccio o sporcizia. La profilassi immunitaria antitetanica è indicata anche in caso di ustioni e per qualsiasi lesione accompagnata da segni di
necrosi dei tessuti (ulcere trofiche, ulcere varicose ecc.).
Febbre ≤38°C e affezioni minori, quali raffreddori e altre infezioni delle vie
aeree superiori, non costituiscono controindicazioni, anche temporanee, alla
vaccinazione; ugualmente non è necessario rimandare la vaccinazione in caso
di trattamenti con cortisonici per uso locale o per uso sistemico a basso dosaggio, e in caso di affezioni cutanee quali dermatosi, eczemi, infezioni cutanee
localizzate (Circolare n. 9 del 26 marzo 1991).
La condizione di sieropositività per HIV non costituisce di per sé una controindicazione alla vaccinazione antitetanica. Lo stato di gravidanza non controindica la somministrazione di vaccini a base di anatossina; in alcuni paesi,
anzi, il vaccino antitetanico è espressamente raccomandato per le donne in
gravidanza, ai fini della prevenzione.
Notifica delle malattie infettive e altre denunce sanitarie
Una delle più importanti funzioni giuri­diche cui la professione medica è
chiamata a ottemperare, è sicuramente l’attività di informativa per cui, oltre al
referto e alla denuncia di reato all’autorità giudiziaria (artt. 361, 362 e 365 cp), le
denunce sanitarie, che di tale attività sono il fondamento, rappresentano un vero
e proprio obbligo legale per tutti gli esercenti la professione di medico chirurgo.
230
Manuale della Professione Medica
L’obbligo di denuncia, infatti, anche con riguardo a quella sanitaria, è da
inquadrare nella più vasta categoria degli atti tramite cui, operando in collaborazione con la pubblica autorità, il medico è tenuto a segnalare circostanze di
fatto o di diritto rilevanti ai fini dell’esercizio dei poteri di ufficio dell’Amministrazione, i quali si traducono nell’emanazione di successivi atti amministrativi.
Rientrano nella sfera “dell’interesse a conoscere” dell’autorità sanitaria quei
fatti di natura tecnica che il medico constata, conosce e accerta nell’esercizio della professione, indipendentemente dalla pur tipica e primaria finalità
diagnostico-terapeutica.
Nelle denunce si individuano caratteri comuni: la circostanza di fatto o di
diritto, cioè l’oggetto dell’informativa che presuppone particolare competenza
tecnica per l’identificazione e l’apprez­za­mento; la finalità, cioè la rilevanza
dell’oggetto di denuncia e lo scopo per cui la stessa si pone come obbligo; la
natura contravvenzionale dell’eventuale omissione.
Indipendentemente dalla qualifica rivestita dal sanitario (pubblico ufficiale:
art. 357 cp; incaricato di pubblico servizio: art. 358 cp; esercente un servizio
di pubblica necessità: art. 359 cp), il medico, sia esso libero professionista che
dipendente da istituzioni sanitarie pubbliche o private, è tenuto all’obbligo della
denuncia sanitaria, sempre che i fatti siano stati rilevati o conosciuti a motivo
delle attività prestate o comunque nell’espletare atti riconducibili alla sfera professionale; tant’è che, giustamente, l’informativa è stata descritta come «testimonianza scritta di fatti di natura tecnica constatati nell’esercizio professionale».
Poiché le finalità che si perseguono con l’inoltro della denuncia sanitaria
sono quelle di poter operare una migliore e più efficace tutela della salute
tramite il possibile allestimento di adeguate misure di ordine preventivo e di
igiene pubblica, individuale e collettiva, oltreché di poter effettuare indagini
di tipo statistico-epidemiologico, il medico, specifico interprete degli interessi
sociali e responsabile di una corretta gestione della salute, deve conoscere le
circostanze in cui è previsto di redigere l’atto, i termini e le modalità di presentazione previsti dalla legge e i canoni di compilazione, ricordando altresì
che è tenuto a inviarlo di propria iniziativa all’autorità competente, secondo le
statuizioni di legge. Trattasi, quindi, di momento fondamentale dell’esercizio
della professione da cui deve scaturire la consapevolezza di svolgere un’attività
importante per il benessere non solo del proprio “assistito”, ma dell’intera collettività, poiché l’informativa che deve essere fornita è essenziale per valutare
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
231
la necessità di specifici provvedimenti sanitari, ma non solo, tesi a migliorare
e a contenere il fatto morboso, a istruire provvidenze o, comunque, garantire
all’istituzione la possibilità di operare utilmente per il benessere individuale
e collettivo. È pertanto indispensabile che il medico, nell’adempiere all’obbligo previsto dalla legge, precisi con la massima diligenza le circostanze della
denuncia, ricordando sempre il «limite distintivo fra la vana burocrazia e la
consapevolezza di un irrinunciabile ruolo professionale».
L’importanza della denuncia sanitaria è sottolineata e richiamata anche
nell’articolo 23 del Codice di Deontologia medica del 1995 ove si sancisce che
«[…] nella redazione delle denunce obbligatorie […] il medico è tenuto alla
massima diligenza, alla più attenta e scientificamente corretta registrazione dei
dati e formulazione dei giudizi, nonché alla chiara esplicitazione dei propri dati
identificativi».
L’obbligo giuridico e deontologicamente sancito, proprio delle denunce
all’autorità sanitaria, è previsto da norme di legge (Testo Unico delle Leggi
Sanitarie – TULLSS; Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza – TULPS;
Regi Decreti e Decreti Ministero della Sanità, Circolari ecc.), la cui ignoranza,
in nessun caso, può essere invocata dal sanitario intervenuto nel caso, e, per
l’omissione o il ritardo nella compilazione di ciascuna di essa, è prevista apposita sanzione.
L’esigenza e l’obbligo della denuncia sanitaria del resto, e segnatamente
della denuncia di malattie infettive e diffusive, che rappresenta per il medico e
la sanità in genere quella di più frequente riscontro e di maggior interesse pratico, erano già stati avvertiti nel secolo XIX, tanto che la legge Crispi-Pagliani
del 1888 (legge 22 dicembre 1888, n. 549 “legge per la tutela dell’igiene e della
sanità pubblica” in GU 24 dicembre 1888, n. 301 e RD 9 ottobre 1889, n.
6442 “Regolamento esecutivo della Legge Crispi-Pagliani”, in GU 28 ottobre
1889, n. 256) stabiliva come il medico dovesse fare immediata denuncia di
ogni caso di malattia infettiva e diffusiva pericolosa o sospetta di esserlo, prevedendo inoltre per i contravventori della disposizione sanzioni rappresentate
da pene pecuniarie e, nei casi di danno alla persona causalmente riconducibile
all’omessa denuncia, da gravi pene, tra cui addirittura, la detenzione. L’ottenimento di dati statistici il più vicino possibile alla realtà, quali si ottengono
tramite il corretto inoltro della denuncia, d’altronde è condizione prioritaria
per una corretta e adeguata prevenzione ma, oltre a rappresentare fondamento
232
Manuale della Professione Medica
per la tutela della salute, ha rilievo e importanza anche per altri aspetti che incidono sul vivere civile dell’individuo e della collettività in maniera non meno
significativa. Basti citare a titolo di esempio l’ambito economico-politico, e
al modo in cui il recente problema della SARS e anche “l’influenza dei polli”
hanno scosso gli scambi e l’economia di intere nazioni. Si deve ricordare, inoltre, come il sistema sanitario italiano si trovi di fronte a una realtà sociale ben
diversa rispetto a quella di soli pochi anni addietro, con un mutamento demografico indotto da cospicui flussi migratori, provenienti da paesi caratterizzati
da una realtà patogena anche assai diversa dalla nostra, richiamandosi ipotesi
assistenziali prima di non frequente riscontro nella medicina nazionale o non
più avvisata come ipotesi endemica/epidemica. Il livello d’interesse sul tema è
stato, di recente, ulteriormente sottoscritto dalla legge 189/2002 (del 30 luglio
2002 “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, in GU
26 agosto 2002, n. 199), in cui si prevede l’impegno sempre più attivo del
medico nell’assistenza sanitaria ai cittadini extra-comunitari, con il necessario
presupposto di una attenzione professionale e di un aggiornamento continuo
e permanente per il medico, trattandosi tra l’altro di un preciso obbligo sancito dall’art. 19 del Codice di Deontologia medica del 2006, per provvedere
in modo adeguato alla diagnosi tempestiva di malattie, magari meno usuali
nelle attese del medico occidentale, e al relativo trattamento; dovendosi in ciò
anche considerare una importante sottolineatura all’obbligo di denuncia, nel
momento in cui solo la conoscenza adeguata e tempestiva dei fenomeni (non
solo di carattere infettivo) può consentire di prevedere interscambi istituzionali
essenziali al benessere individuale e della collettività intera.
Quanto agli aspetti deontologici, specificamente previsti nel Codice deontologico, l’omissione della denuncia sanitaria può comportare sanzioni disciplinari, ai sensi di molteplici previsioni, laddove l’art. 3 riconosce come dovere
del medico «la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo» e quindi,
più latamente, anche della collettività. L’art. 74 sancisce come il medico debba
«svolgere i compiti assegnatigli dalla legge in tema di trattamenti sanitari obbligatori e deve curare con la massima diligenza e tempestività l’informativa alle
Autorità sanitarie». Per gli esercenti un servizio di pubblica necessità (liberi
professionisti), le sanzioni sono erogate dagli organi disciplinari del Consiglio dell’Ordine, mentre per il medico dipendente (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) si incorre anche nelle sanzioni previste dalle norme
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
233
contrattuali, quali la censura, la riduzione dello stipendio, la sospensione della
qualifica, fino alla destituzione dall’incarico, oltre, ovviamente, per entrambe le
categorie, alla previsione specifica per l’inadempienza come tale.
Per le conseguenze d’indole giudiziaria, potendosi configurare in caso di
omessa denuncia gli estremi della colpa specifica, per violazione di precise
norme, a fronte di omessa notifica di malattia infettiva da parte di medico
dipendente o convenzionato può concretizzarsi l’ipotesi delittuosa di cui all’art.
328 cp, secondo cui «l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente
rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di igiene e sanità, deve essere
compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni»; trattasi di
ipotesi sanzionatoria penale, la cui rigorosa applicazione avrebbe senza dubbio
funzione di richiamo e monito per tutti i sanitari che sono tenuti alle denunce e
che ben attiene anche alla qualifica rivestita da coloro che maggiormente sono
coinvolti in questo tipo di attività, il pediatra o il medico di base, i quali, appunto,
sono da considerare a tutti gli effetti incaricati di pubblico servizio.
Il «superiore interesse a conoscere», che solo tramite il corretto atto medico
rappresentato dalla denuncia risulta pienamente soddisfatto, trova, quale principale destinatario, le Unità operative funzionali di igiene e sanità pubblica
delle ASL (così denominate dalla legge regionale della Toscana), ovvero le altre
strutture corrispondenti all’uopo previste nel contesto organizzativo del SSN.
Le molteplici norme di legge non fanno univoco riferimento al termine
“denuncia”, in quanto per i plurimi atti di informativa in ambito sanitario sono
state, nel tempo, adottate dizioni diverse che richiamano, peraltro, un significato univoco e conseguente di informativa quale desumibile anche dal vocabolario della lingua italiana (Devoto G., Oli G.C.):
– notifica (comunicazione scritta nei modi prescritti da una norma burocratica, amministrativa, giudiziaria);
– denuncia (atto formale, informativo, facoltativo o obbligatorio, con il quale
si dà notizia alla competente autorità);
– segnalazione (comunicazione o trasmissione breve di determinate notizie);
– relazione (mettere al corrente: esposizione informativa).
Trattasi di terminologia solo apparentemente difforme, la quale trova
spiegazione nei diversi richiami normativi, ma in specie nel differente rilievo
sociale dell’informativa sanitaria che, comunque, è sempre obbligatoria; nell’il-
234
Manuale della Professione Medica
lustrazione delle singole tipologie, proprio in rapporto al differente peso e
alla diversa importanza dell’atto, si farà riferimento ai suddetti termini, come
indicato nella normativa in vigore, fermo restando il contenuto di sostanza che
al termine stesso deve essere riservato.
Art. 75 - Prevenzione, assistenza e cura della dipendenza
da sostanze da abuso
L’impegno professionale del medico nella prevenzione, nella cura e nel recupero clinico e reinserimento sociale del dipendente da sostanze da abuso
deve, nel rispetto dei diritti della persona e senza pregiudizi, concretizzarsi
nell’aiuto tecnico e umano, sempre finalizzato al superamento della situazione
di dipendenza, in collaborazione con le famiglie e le altre organizzazioni sanitarie e sociali pubbliche e private che si occupano di questo grave disagio.
Le tossicodipendenze
Aspetti generali
Il fenomeno della tossicodipendenza, diffusosi nel nostro paese in modo
sporadico all’inizio del secolo scorso, ha subito, col trascorrere dei decenni,
una costante ed allarmante evoluzione quantitativa incidente in ambito sociale,
giuridico e sanitario tanto da imporre ripetuti interventi del legislatore.
Le cause e i fattori che hanno contribuito a un così drammatico fenomeno
non hanno tuttavia trovato una giusta definizione e reazione nei vari assetti
normativi, sia per l’intrinseca complessità e la globalità della soggezione alle
droghe d’abuso, sia per la carenza di una opportuna collaborazione pluridisciplinare capace di analizzarne i vari aspetti in termini complessivi e non parziali.
I risultati di una siffatta emergenza non si manifestano neanche sul versante
politico, limitato com’è dai continui cambiamenti di pensiero e dalle distanze
ideologiche nella considerazione degli stati di dipendenza. Ne sono un esempio le alternanze delle strategie di trattamento della tossicodipendenza, talora
relegate al mero ambito penalistico repressivo oppure spostate nel terreno
sanitario in quanto devianze sociali abbisognevoli di misure amministrative e
di recupero.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
235
Nell’evoluzione legislativa italiana, tra il 1975 ed il 1993, si è così assistito
ad un susseguirsi di variazioni normative, oscillando tra momenti di parziale
permissività e di totale repressione, che, a parte l’abrogazione della dose media
giornaliera e della punibilità dell’uso personale sanciti dal referendum del 1993,
tra il 1990 ed il 27 febbraio 2006 (data di pubblicazione della legge di conversione del DL 272/2005), non hanno mai prodotto modifiche efficaci sul complessivo impianto del provvedimento (TU 309/1990). Diversamente, la legge
del 15 marzo 2006, che recepisce, come dichiarato dal Ministro Giovanardi
«le osservazioni e i suggerimenti degli operatori presenti alla Conferenza di
Palermo sulle tossicodipendenze nonché le istanze della Consulta delle Tossicodipendenze [...]», pare introdurre importanti elementi sostanziali con rinnovata inversione della corrente di pensiero politico.
La modifica del TU sugli stupefacenti ci riporta infatti, per certi aspetti,
alla legge del 1990 reinserendo, nei casi di detenzione per uso personale, la
distinzione tra reato penale e amministrativo con la conseguente inammissibilità delle così dette “scorte” illimitate legittimate dall’abrogazione della dose
media giornaliera. Nella sua suddivisione in 12 titoli, ripartiti in 136 articoli, i
problemi della tossicodipendenza sono affrontati in maniera organica e pluridisciplinare delegando, per competenza, compiti operativi alle varie rappresentanze istituzionali:
1) al Consiglio dei Ministri sono riservate funzioni di coordinamento;
2) al Ministero della Salute: prevenzione, autorizzazioni alla produzione e al
commercio, dipendenze;
3) al Ministero degli Interni: controllo e repressione;
4) al Ministero degli Esteri e della Giustizia: promozione delle collaborazioni
internazionali.
Ma vediamo nel dettaglio quali sono i capisaldi che rendono il provvedimento innovativo.
La
nuova normativa
La crisi normativa del 1993, che culminò nelle abrogazioni referendarie convertite in legge il 6 giugno 1993, produsse sostanziali innovazioni nel pensiero
politico e nell’indirizzo normativo in tema di stupefacenti e di tossicodipendenze. Le novità introdotte dalla legge n. 49 del 2006 al TU 309/1990 sembrano
236
Manuale della Professione Medica
però ancor più incisive e profonde per le efficaci variazioni sull’intero assetto
normativo modificato: nei principi, nei contenuti, nelle competenze, nelle attività
di controllo e di repressione, nelle sanzioni e nelle loro modalità applicative e
negli aspetti socio-sanitari di carattere organizzativo e gestionale.
Va subito osservato che per ciò che riguarda le attribuzioni, al Ministro
della Salute è stata salvaguardata la gestione di elementi salienti quali:
a) le attività di prevenzione del consumo e delle dipendenze da sostanze stupefacenti o psicotrope e da alcol;
b) la partecipazione ai programmi internazionali di aggiornamento dei dati
relativi alle quantità di sostanze stupefacenti o psicotrope effettivamente
importate, esportate, fabbricate, impiegate, nonché alle quantità disponibili
presso gli enti o le imprese autorizzate;
c) la determinazione degli indirizzi per il rilevamento epidemiologico da parte
delle Regioni, delle sostanze stupefacenti o psicotrope;
d) le autorizzazioni per la coltivazione, la produzione, la fabbricazione, l’impiego, il commercio, l’esportazione, l’importazione, il transito, l’acquisto, la
vendita e detenzione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché quelle
per la produzione, il commercio, l’esportazione, l’importazione e il transito
delle sostanze suscettibili di impiego per la produzione di sostanze stupefacenti o psicotrope;
e) la tenuta dell’elenco annuale delle imprese autorizzate alla fabbricazione,
all’impiego e al commercio all’ingrosso di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui alle tabelle dell’articolo 13, sentito l’Istituto Superiore di
Sanità, curandone il tempestivo aggiornamento; delle indicazioni relative
alla confezione dei farmaci contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope;
f ) la verifica annuale e poliennale dell’entrata in commercio di nuovi farmaci,
la loro capacità di indurre dipendenza nei consumatori;
g) gli studi e le ricerche relativi agli aspetti farmacologici, tossicologici, medici,
psicologici, riabilitativi, sociali, educativi, preventivi e giuridici in tema di
droghe, alcol e tabacco;
h) le iniziative volte a eliminare il fenomeno dello scambio di siringhe tra
tossicodipendenti, favorendo anche l’immissione nel mercato di siringhe
monouso autobloccanti (art. 2. TU 309/1990).
Reintrodotta inoltre la discriminante “quantitativa”, tra attività amministrativamente e penalmente illecita, sono assegnate al Ministro della Sanità,
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
237
previo parere dell’Istituto Superiore di Sanità e del Comitato Scientifico di cui
all’art. 1-ter, i compiti di completare e aggiornare le tabelle delle sostanze stupefacenti e/o psicotrope (art. 13) e la individuazione (art. 78) delle procedure
diagnostiche, medico-legali e tossicologico-forensi, nell’accertamento del tipo,
del grado e dell’intensità dell’abuso delle sostanze stupefacenti o psicotrope ai
fini dell’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 75 e 75-bis.
È invece venuto meno ogni compito del Ministero in ordine alle modalità
d’impiego dei farmaci sostitutivi per i quali sono invece disposte misure restrittive con l’inserimento in apposite sezioni della tabella II secondo i criteri e le
modalità dell’art. 14.
Relativamente alla formulazione delle tabelle, vale osservare che l’equiparazione tra le così dette “droghe leggere” e le “droghe pesanti”, ha determinato,
oltre all’immediata parificazione del trattamento sanzionatorio finora differenziato dalla vecchia normativa, la tempestiva revisione della precedente distribuzione in sei gruppi ridotti a due così rappresentati:
a) nella I tabella sono comprese, tout court, tutte le sostanze stupefacenti vietate;
b) nella II tabella, divisa in cinque sezioni, distinte dalla lettera A alla lettera E,
sono invece allocate le specialità farmaceutiche, regolarmente registrate in
Italia, contenenti principi attivi considerati pericolosi e pertanto perseguibili se detenuti al di fuori delle prescrizioni ed esigenze mediche.
Ma in aggiunta alle sostanze vietate o soggette a controllo, la nuova formulazione tabellare riporta anche i valori soglia o massimi di detenibilità cui riferirsi,
nell’uso personale, per la distinzione delle trasgressioni amministrativamente
o penalmente perseguibili o, nello spaccio, per la valutazione della gravità del
reato (lieve o non) su cui modulare la pena. Vale inoltre osservare che più la
quantità di principio attivo detenuta eccede il valore di riferimento indicato, più
rigorosi dovranno essere gli elementi giustificativi prodotti per il superamento
della presunzione di reato così come più elevate risulteranno le pene nei casi di
detenzione, al di fuori dell’uso personale, previste dal revisionato art. 73. Nella
sua nuova formulazione, anche l’art. 78 si propone però di fornire, attraverso
la riproposizione del criterio oggettivo di valutazione, maggiori elementi di certezza nella individuazione dell’illecito penale. Infatti, l’adeguamento periodico
delle tabelle e l’individuazione di idonee procedure diagnostiche dovrebbe, nella
238
Manuale della Professione Medica
distinzione tra condotte detentive per uso personale da quelle per fini di spaccio, agevolare l’opera investigativa delle Forze dell’ordine attualmente basata su
esclusivi atti testimoniali e indiziari o sulla flagranza di reato.
Ma analizziamo per gradi ciò che il nuovo art. 73 prevede per i detentori di
sostanze vietate in quantità superiori ai valori massimi stabiliti.
Art. 73
Relativamente ai reati di cui al comma 1: «chiunque, senza l’autorizzazione
di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre
o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri,
invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze
stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14 [...]», e
del comma 2 chi: «[...] essendo munito dell’autorizzazione di cui all’articolo 17,
illecitamente cede, mette o procura che altri metta in commercio le sostanze
o le preparazioni indicate nelle tabelle I e II di cui all’articolo 14 [...]», si rileva
minor rigore e severità nell’attribuzione delle pene minime che risultano ridotte
da otto a sei anni di reclusione e che, con il nuovo art. 1-bis, sono applicate,
nella stessa misura, a «[...] chi, senza autorizzazione, importa, esporta, riceve a
qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:
a) stupefacenti e/o psicotropi che per quantità, in particolare se superiori ai limiti
massimi indicati nelle tabelle o per modalità di confezionamento o per peso
lordo o per altre circostanze, appaiano destinate al non esclusivo uso personale;
b) medicinali compresi nella tab. II sez. A eccedenti le quantità prescritte (in
questi casi è prevista la riduzione della pena da un terzo alla metà)».
Ma l’indirizzo repressivo, nei confronti della produzione e commercializzazione illecita di stupefacenti, si coglie al comma 2-bis dove si prevedono
pene, da 6 a 22 anni di reclusione, per chi produce o commercializza sostanze
chimiche di base o precursori di sintesi utilizzabili nella produzione degli stupefacenti.
Il comma 5, riguardante i reati, così detti di “lieve entità”, perseguiti con
pene da uno a sei anni di reclusione e con multe pecuniarie da 3000 a 26.000
euro evidenzia, con l’inserimento del comma 5-bis, l’orientamento del legislatore di preservare il tossicodipendente o l’assuntore di sostanze stupefacenti o
psicotrope dall’esperienza carceraria disponendo che «[...] il giudice, con la sen-
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
239
tenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma
dell’articolo 444 cpp, su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero,
qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della
pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di
pubblica utilità di cui all’articolo 54 del DLgs 28 agosto 2000, n. 274, secondo
le modalità ivi previste [...]».
Ma la volontà di salvaguardia dal carcere è ancor più manifesta quando si
offre: «[...] In deroga a quanto disposto dall’articolo 54 del DLgs 28 agosto
2000, n. 274, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella
della sanzione detentiva irrogata. Esso può essere disposto anche nelle strutture private autorizzate ai sensi dell’articolo 116, previo consenso delle stesse
[...]»; a garanzia quindi che la pena sia scontata è anche previsto che: «[...] In
caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, in deroga a quanto previsto dall’articolo 54 del DLgs 28 agosto
2000, n. 274, su richiesta del Pubblico Ministero o d’ufficio, il Giudice che
procede, o quello dell’esecuzione, con le formalità di cui all’articolo 666 cpp,
tenuto conto dell’entità dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone
la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita [...]», la possibilità di eludere, per ben due volte, la pena carceraria con lavori di pubblica
utilità eseguibili anche all’interno di strutture private.
Artt. 75 e 75-bis
Agli artt. 75 e 75 bis, è stata modificata la perseguibilità amministrativa di: «[...]
chiunque, al fine di farne uso personale, illecitamente importi, acquisti o comunque
detenga sostanze stupefacenti o psicotrope [...]», stante che, con la novità introdotta dalla tab. II sui medicinali, questa investe anche chi: «[...] al di fuori delle
condizioni di cui all’art. 72 comma 2 [...] (art. 72) riguarda i [...], farmaci debitamente prescritti secondo le necessità di cura in relazione alle particolari condizioni
patologiche [...]».In questi casi, le sanzioni previste, singole o combinate di durata
non inferiore a un mese e non superiore a un anno, sono ridotte da un terzo alla
metà qualora si tratti di medicinali compresi nelle sez. A e B e riguardano una o più
delle seguenti applicazioni:
a) sospensione della patente di guida o divieto di conseguirla;
b) sospensione della licenza di porto d’armi o divieto di conseguirla;
240
Manuale della Professione Medica
c) sospensione del passaporto o di ogni altro documento equipollente o
divieto di conseguirli;
d ) sospensione di permesso di soggiorno o divieto di conseguirlo se il cittadino è extracomunitario.
Inoltre, quando ne ricorrano i presupposti (comma 2), l’interessato è invitato: «a seguire il programma terapeutico e socio-riabilitativo di cui all’articolo
122 o ad altro programma educativo e informativo, personalizzato in relazione
alle proprie specifiche esigenze, predisposto dal servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio analogamente a quanto disposto al
comma 13 (competenza prefettizia) o da una struttura privata autorizzata ai
sensi dell’articolo 116».
Sanzioni che divengono più severe nelle circostanze previste dal comma 3
dello stesso articolo, dove, nei confronti dei detentori che «[...] abbiano diretta
e immediata disponibilità di veicoli a motore [...]», la sanzione è sensibilmente
aggravata prevedendosi il ritiro immediato della patente o del certificato di idoneità tecnica per i ciclomotori ai quali viene applicato anche il fermo amministrativo per un periodo di 30 giorni. Eventi per i quali, agli organi di polizia, è fatto
obbligo di contestazione immediata della violazione con trasmissione tempestiva
(senza ritardi e comunque non oltre 10 giorni) degli atti, completi degli esiti
analitici, al Prefetto. Per ciò che attiene gli accertamenti tecnico-analitici, questi
dovranno essere, ai sensi del comma 10, espletati presso: le strutture di medicina
legale, i laboratori di tossicologia forense, le strutture delle Forze di polizia o le
strutture pubbliche individuate da apposito decreto del Ministero della Salute.
L’erogazione delle sanzioni è decisa, per gravità, durata ed entro un termine di 40 giorni dalla segnalazione, con apposita ordinanza del Prefetto che
si avvarrà dell’assistenza di un nucleo operativo da costituirsi presso ciascuna
Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo. I ricorsi, avversi all’ordinanza prefettizia, potranno essere presentati al Giudice di pace entro i 10 giorni successivi alla notifica. Nel caso degli stranieri maggiorenni gli organi di polizia
riferiscono invece al Questore per le opportune azioni di competenza in sede
di rinnovo del permesso di soggiorno.
Nel caso di minori, il Prefetto, qualora ciò non contrasti con le esigenze
educative, convoca i genitori o chi ne esercita la potestà per informarli sui fatti
e sulle strutture di cui al comma 2.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
241
Al comma 6 è specificato invece che l’uso degli accertamenti e degli atti
di cui ai commi da 1 a 5 deve riguardare esclusivamente l’applicazione delle
misure e delle sanzioni previste dall’art. 75-bis.
La revoca delle sanzioni, nei casi di esiti positivi del programma di cui al
comma 2, è disposta dal Prefetto che ne dà comunicazione anche al Questore
e al Giudice di pace.
Il comma 14 relativamente ai casi di particolare tenuità della violazione
e limitatamente alla prima volta, prevede che il prefetto, quando ne ravvisi i
motivi, possa definire il procedimento con il formale invito a non fare più uso
delle sostanze stesse.
Con l’introduzione ex novo dell’art. 75-bis, le stesse violazioni di cui al
comma 1 dell’art. 75 sono, laddove sussistano condizioni di pericolo per la
tutela della sicurezza pubblica, sanzionate, ai sensi del comma 1 dell’art.75-bis,
con provvedimenti che, per i soggetti già condannati «[...] anche non definitivamente, per reati contro la persona, contro il patrimonio o per quelli previsti dal
presente testo unico o dalle norme della circolazione stradale [...]», si sostanziano in una o più delle seguenti misure:
a) obbligo di presentarsi almeno due volte a settimana presso il locale ufficio
della Polizia di Stato o presso dell’Arma dei Carabinieri territorialmente
competente;
b) obbligo di entrare nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora,
entro una determinata ora e di non uscirne prima di altra ora prefissata;
c) divieto di frequentare determinati locali pubblici;
d) divieto di allontanarsi dal comune di residenza;
e) obbligo di comparire in un ufficio o comando di polizia specificamente
indicato, negli orari di entrata e uscita dagli istituti scolastici;
f ) divieto di condurre qualsiasi veicolo a motore.
Pene che, per la loro erogazione, sono trasmesse dal Questore, con provvedimento motivato, al Giudice di pace competente per territorio e che rappresenta l’unico referente con poteri di modifica o di revoca. In tal senso va
segnalato che i ricorsi, per cassazione, non godono degli effetti sospensivi.
I decreti di revoca, ammessi per i soggetti sottoposti con esito positivo ai
programmi riabilitativi, sono invece trasmessi al Questore e al Giudice di pace
per la loro applicazione.
242
Manuale della Professione Medica
Con l’art. 78, le disposizioni sulle procedure diagnostiche per l’accertamento medico-legale e tossicologico-forense del tipo, del grado e dell’intensità,
dell’abuso delle sostanze stupefacenti e psicotrope sono demandate, previo
parere dell’Istituto Superiore di Sanità e del Comitato Scientifico, ad apposito
decreto del Ministero della Salute da sottoporre a periodici aggiornamenti.
L’art. 89 è chiaramente proteso a favorire, nei casi di reato commesso da tossicodipendente o alcoldipendente, l’arresto domiciliare e a garantire la prosecuzione di programmi terapeutici di recupero in corso. Programmi che possono
essere seguiti anche da chi sia già in custodia cautelare in carcere e che decida, con
istanza personale, di sottoporvisi. Risultano esclusi dai benefici dei commi 1 e 2 i
rei di delitti (di mafia) di cui all’art. 4-bis della legge 354/1975 a eccezione di quelli
degli artt. 628, comma 3 e 629, comma 2 cpp. Le violazioni al programma sono
trasmesse dal responsabile della struttura all’autorità giudiziaria e, laddove «[...]
integrino un reato, in caso di omissione, l’autorità giudiziaria ne dà comunicazione
alle autorità competenti per la sospensione o revoca dell’autorizzazione di cui
all’articolo 116 e dell’accreditamento di cui all’articolo 117, ferma restando l’adozione di misure idonee a tutelare i soggetti in trattamento presso la struttura[...]».
Per i reati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza di cui all’art. 90,
i benefici della sospensione si applicano ora alle pene non superiori ai sei anni o ai
quattro anni per le trasgressioni di cui all’art. 4-bis della legge 354/1975 così come,
in casi particolari, l’art. 94 detta le norme per l’affidamento in prova ai servizi sociali.
La parificazione tra i servizi pubblici e privati e le rinnovate opportunità conferite nella libera scelta della struttura dove sottoporsi ai programmi di prevenzione,
cura e riabilitazione (equiparazione tra assistenza pubblica o privata), costituisce un
valido incentivo nell’attivazione di nuovi centri di recupero e ha reso necessaria la
revisione degli artt. 113 e 114 sulle competenze attribuite alle Regioni e alle Province nella disciplina delle attività di prevenzione, cura e recupero delle tossicodipendenze. Equipollenza per la quale si sono rivisti anche gli art. 116 e 117 finalizzati
alla definizione dei requisiti necessari per l’accreditamento e per l’autorizzazione
allo svolgimento delle attività socio-sanitarie cui conseguono l’iscrizione agli Albi
regionali e agli elenchi ministeriali. Con gli artt. 128, 129 e 130 sono invece disciplinati i finanziamenti e le concessioni in uso delle strutture statali e degli enti locali.
È stato inserito l’art. 122-bis che, in materia di verifiche e controlli, dispone,
per l’annuale relazione al Parlamento, la trasmissione, dalle Regioni (comma 4,
art. 117) al Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro da lui delegato in
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
243
materia di politiche antidroga, dei risultati raggiunti dai SERT e dalle comunità
nei programmi di recupero definiti ed effettivamente eseguiti.
Definizione di “stupefacente”
L’approccio definitorio al termine “stupefacente”, che sotto il profilo
semantico potrebbe apparire di facile soluzione, non ha invece trovato, nei
vari ambiti disciplinari, una esauriente traduzione capace di esprimere il reale
significato del termine o invero di raccogliere, sotto un unico comma, l’intera
categoria di sostanze, in grado dì agire sulla sfera fisico-comportamentale.
L’intento di assegnare alla droga d’abuso una adeguata definizione che nei
dizionari della lingua italiana, si traduce in: «Sostanza naturale o di sintesi capace
di determinare artificiosi stati di benessere, ma che usata di continuo porta a
decadimento etico, psichico e somatico; tali l’oppio e suoi alcaloidi, l’eroina e
la cocaina», è, sul fronte scientifico, sistematicamente naufragato tanto che più
opportuna è apparsa, secondo alcuni Autori, la soluzione di considerare stupefacenti solo le sostanze d’abuso specificatamente elencate nelle tabelle ufficiali;
una soluzione indubbiamente adeguata a soddisfare la continua evoluzione
del settore farmacologico nel campo degli psicofarmaci, ma rispondente più a
esigenze giuridiche che non farmacologiche, mediche o sociali.
In questa logica, stupefacenti sono tutti quei composti indicati come tali
per legge, noti agli operatori del settore, ma spesso sconosciuti alla collettività,
deviata spesso dalla adozione di termini sostitutivi, talvolta mutuati dalla dizione
anglosassone e impiegati impropriamente per esprimere il reale concetto di
“stupefacente”. Ne sono esempio i termini drugs (che nella sua etimologia originale indica preparati medicamentosi o sostanze di uso gastronomico) o narcotics
(sinonimo di “sostanze stupefacenti”) che, nella traduzione letteraria, assume il
significato di “narcotico” (farmaco cioè ad azione simile a quella degli oppiacei
e quindi inutilizzabile per categorie farmacologiche ad azione diversa), spesso
usati, nel linguaggio comune, per indicare le sostanze d’abuso, ma anche per
incrementare la confusione nozionistica, resa già difficile dalla competizione
aperta, sulla definizione di “stupefacente”, dalle singole discipline fondate su
criteri di classificazione propri di ciascuna entità proponente.
Il caos definitorio, che ne è derivato, è stato tale da sortire l’effetto di confondere e di fondere spesso il termine “stupefacente”, con quello più generico
di “droga” intesa, nell’uso comune, come sostanza capace di produrre piacere,
244
Manuale della Professione Medica
ma da perseguire perché distrugge l’individuo, lo rende dipendente e deteriora
la società per le attività criminali a essa correlate. Si tratta di un risultato certamente non voluto, ma conseguito, grazie anche all’uso del termine “droghe”
negli approcci delle discipline giuridiche, mediche e farmacotossicologiche, alla
definizione di “stupefacenti” o di “sostanze d’abuso”.
In questo contesto:
– l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dal punto di vista medico,
assimila il termine “droga” a «ogni sostanza che introdotta in un organismo vivente può modificarne una o più funzioni» finendo, in tal modo, per
avvicinarle più ai tossici, nella loro generalità, che non alle reali sostanze
d’abuso;
– la farmacotossicologia, conferisce invece alle “droghe” il valore sinonimico
di “psicodroghe” o di “sostanze psico-attive” ovvero le riferisce a quei:
«composti chimici, naturali o artificiali, in grado di modificare la psicologia
o l’attività mentale dell’individuo...»;
– giuridicamente, il termine “droga” si trasferisce in quello di “stupefacente”
espressivo di illiceità ovvero di illegalità (“droghe illegali” configurantisi
tra i composti tabellati o regolamentati per legge ivi compresi numerosi
farmaci soggetti a controllo da perseguire se assunti fuori del nominale
impiego terapeutico).
Tra queste definizioni, indubbiamente caratterizzate da ben distinte influenze
ed esigenze disciplinari, la più accreditata sembra essere, secondo il parere delle
Commissioni statunitense e canadese, quella farmacotossicologica, capace di
adattarsi al binomio: droga-psicotropismo, introdotto dal Delay, nel 1966, per
distinguere, con il termine “droghe”, particolari «sostanze naturali o sintetiche
capaci di modificare l’attività psichica» ossia di produrre uno stato artificiale
di condizione mentale attraverso la temporanea modificazione di determinati
sistemi neurobiochimici.
L’orientamento quindi di paragonare le “droghe” ai farmaci capaci di produrre modificazioni sulla psiche, sul comportamento, sulle funzioni motorie e/o sulle capacità di giudizio ossia alle “sostanze psicotrope”, tradottesi,
nell’esigenza farmacologica, in “farmaci psicotropi”, ha nuovamente confuso
il pensiero comune, più propenso ad assimilare il concetto di psicotropismo
con quello di terapeuticità nei confronti delle malattie psichiatriche, che non al
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
245
reperimento della nozione di sostanza dotata di attività psichico-mimetica, e
quindi di possibile impiego anche voluttuario.
È un rischio da non correre e che impone, per la pericolosità intrinseca a
tali preparati, di considerare positivamente l’ibridazione definitoria tra versione
giuridica e farmacologica, considerando “stupefacenti”, tutte le sostanze, naturali o artificiali, pericolose sul piano individuale e sociale in quanto capaci di
produrre alterazioni psico-comportamentali, meritevoli di essere assoggettare
al controllo legislativo attraverso la loro catalogazione in apposite tabelle soggette a periodici aggiornamenti, nel rispetto di quanto disposto dagli artt. 13 e
14 del vigente TU.
Definizione di tossicodipendenza
Raccogliere sotto un’unica definizione un concetto così ampio come quello
della tossicodipendenza e renderlo esauriente per le singole esigenze disciplinari, non è compito facile e forse i risultati raggiunti, non sono ancora pienamente soddisfacenti.
Per avere infatti un quadro, seppur teorico, della complessa realtà della
tossicodipendenza e individuarne una giusta definizione, non si possono non
considerare alcune variabili fondamentali che intervengono, con differente
peso, nell’intero fenomeno e che sono rappresentate: dal soggetto, dall’habitat
e dalle caratteristiche farmacodinamiche della sostanza d’abuso. Si tratta di
fattori tra loro completamente diversi che potrebbero erroneamente orientare
verso una analisi separata dei singoli parametri, ognuno dei quali è capace di
esprimere decine di variabili patogene a prevalenza psicopatologica, senza fornire però, da soli, il giusto contributo al globale inquadramento del problema.
Non rimane quindi che la via di ricercare giuste correlazioni tali da raffigurare, come risultato finale, le linee generali del fenomeno della tossicodipendenza: una ricerca complessa che, se riferita alla più grave e classica tossicomania, quella da eroina, deve imporsi di annoverare i dati analitici soggettivi,
contraddistinti da condizioni deficitarie motivazionali (disagio sociale, labilità
psichica, labilità sessuale, diminuzione delle capacità fisiche, immaturità, stati
di angoscia, carenze familiari) e quelli relativi all’habitat circostante, ai fini di
un primo collegamento di sintesi che partendo dal dato dell’uso dello stupefacente, può tuttavia, se privilegia i fattori soggettivi, giustificare, nella sua
246
Manuale della Professione Medica
prima connotazione, atteggiamenti di opposto conformismo, nel senso della
tolleranza in clima di permissività legislativa e della repressione in regime di
contenzioso giudiziario. Lo stato psichico, che ne deriva, appare quindi prevalentemente diverso in rapporto al contesto socio-normativo nel quale l’evento
si compie; e ciò indipendentemente dal beneficio psico-fisico immediato che
ne discende, che non muta se non per l’idea che la gratificazione possa essere
indotta dalla sola e specifica azione farmacologica della sostanza oppure dallo
stato emozionale derivante dalla soggettività della predisposizione all’uso. Si
tratta di steps di un circuito vizioso dove i mezzi estrinseci, mediatori, sono del
tutto irrilevanti rispetto all’effetto primario rappresentato dal primo contatto
con lo stupefacente. Sicché il momento causale fondamentale e primario che
successivamente si traduce in agente patogeno, come tale in definitiva percepito, rimane la sostanza che da sola è in grado di indurre tossicodipendenza
per le conseguenze subentranti delle implicazioni d’uso (resistenza-astinenza),
le quali impongono regimi di vita e frequenza di gruppi adeguati e specifici
(per cultura e ruolo ben definiti) del mondo tossicomanico. Si realizza cioè
un comportamento sempre più autonomo rispetto a ogni schiera nosologica,
contrassegnato da spunti compulsivi e dalla ricerca ciclica dell’effetto farmacologico garantito dalla sostanza.
Siffatti percorsi sono sicuramente diversi da quelli che portano all’uso
delle sostanze “indifferenti” sotto il profilo della dipendenza fisica, seppure
esistano, quanto meno nella prima fase, caratteri di similitudini tipiche del
binomio persona-ambiente. Le motivazioni personali (certamente diverse) e
quelle ambientali, costituiscono infatti il primo gradino che conduce alla porta
di accesso allo stupefacente e alla conseguente alterazione psichica, prodotta
dall’uso intensivo, che può divenire talmente compulsiva da indurre a riprovarne gli effetti o addirittura a spingere il soggetto verso altri stupefacenti
Nell’intento quindi di fornire un primo inquadramento definitorio, della
tossicodipendenza, Tatum e Seeverse la definirono come «una condizione
prodotta dall’uso ripetuto di una sostanza chimica, in modo che essa diventa
necessaria perché l’interruzione dell’uso provoca disturbi mentali e fisici»: formula indubbiamente consona alle esigenze dell’inquadramento farmacotossicologico del fenomeno, ma insufficiente a fronteggiare la dimensione del
problema nelle sue plurime connotazioni della reazione giuridica, della realtà
sanitaria e della devianza sociale. Se ben orientata e pienamente sufficiente a
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
247
definire lo stato indotto dall’uso ripetuto di sostanze d’abuso ovvero a delineare la condizione soggettiva sotto l’aspetto dei meri effetti psicofarmacologici,
la riportata definizione è tutta inadeguata a evidenziare i rapporti dell’individuo
con la società, a motivo dei quali la tossicodipendenza potrebbe apparire come
un fenomeno facilmente solubile con il semplice intervento farmacologico
ovvero attraverso la somministrazione di composti sostitutivi o delle stesse
sostanze d’abuso, semmai idonea a risolvere il personale disturbo fisico e/o
psichico, ma incapace di limitare o eliminare i pericoli, per l’individuo e la collettività, determinati dall’alterazione dello status soggettivo.
Stabilire quindi quale sia la nozione più adeguata per esprimere le circostanze, le condizioni individuali e i rapporti tossicodipendente-società, non
è impresa agevole, anche se, nello sforzo definitorio, compiuto dalle singole
entità scientifiche, la definizione data dall’OMS: «la tossicodipendenza è una
condizione di intossicazione cronica o periodica dannosa all’individuo e alla
società prodotta dall’uso ripetuto di una sostanza chimica naturale o di sintesi. Sono sue caratteristiche: 1) il desiderio incontrollabile ad assumere la
sostanza e di procurarsela con ogni mezzo; 2) la tendenza ad aumentarne la
dose (tolleranza); 3) la dipendenza psichica e talvolta fisica dagli effetti della
sostanza», sembra abbastanza soddisfacente sebbene non affronti la questione intrinseca delle cause motivazionali su cui fonda la scelta tipologica
del tossicodipendente.
Sotto questo aspetto è infatti anche arduo spiegare il sottile parallelismo
tra farmacodipendenza (abuso di composti “legali” ossia farmaci) e tossicodipendenza (abuso indifferente di sostanze illegali o legali) ben vedendo che la
definizione dell’OMS si rivolge indistintamente a condizioni soggettive conseguenti «all’uso ripetuto di sostanze chimiche naturali o di sintesi» non meglio
definite.
Ed è questa una carenza che nemmeno la definizione biologica di Paton
pare colmare: «la tossicodipendenza ha origine quando, in conseguenza della
somministrazione di una sostanza, si attivano forze (fisiologiche, biochimiche,
sociali o ambientali) che predispongono all’uso continuato di quella sostanza»
ignorando essa completamente gli aspetti di pericolosità individuale e sociale
conseguenti all’instaurarsi della dipendenza.
Dalle tante definizioni fornite dai numerosi studiosi, comitati e commissioni nazionali e internazionali, emerge tuttavia il pensiero comune di consi-
248
Manuale della Professione Medica
derare la tossicodipendenza sotto il duplice aspetto del rapporto: individuofarmaco e/o sostanza d’abuso e individuo-società.
Rispetto al primo caso, il nesso nosologico tra le due entità sarà inequivocabilmente rappresentato dalla natura del farmaco e dai suoi effetti traenti
verso una continua assunzione e un progressivo aumento delle dosi per ritrovare le sensazioni tipiche della prima volta. Nel secondo invece, gli elementi,
intrinseci all’individuo, sono rappresentati dalle sanzioni dettate dalla modificazione psichica che agisce sia sul fronte relazionale di gruppo, sia sul suo
comportamento nella società, protesa, a sua volta, a inquadrare il soggetto in
un ruolo ben definito e ben differenziato in ragione del tipo di dipendenza da
cui è affetto. È infatti notevolmente diversa la condizione (etero percepita)
dell’eroinomane da quella del fumatore di tabacco o di cannabis oppure dell’etilista o del farmacofiliaco. Rispetto alla prima figura, la valutazione è infatti
fortemente negativa e la reazione tipica è quella della condanna e dell’emarginazione, mentre per il fumatore di tabacco, l’etilista ed il farmacofiliaco esiste
una sorta di tacita indifferenza e di paziente accettazione seppure tamponate
da un sommesso dissenso. Diversamente accade per la cannabis, per l’ecstasy e
altri composti, talora erroneamente considerati “droghe sicure” o “leggere”
sicché la tossicodipendenza di prevalente matrice giovanile o adolescenziale,
ottiene, dalla società, una avversione mitigata da recondita comprensione a sua
volta giustificata dalla diversità anagrafica.
Aspetto di uniformità del pensiero scientifico, nel definire la tossicodipendenza, è la concorde opinione secondo la quale l’uso prolungato instaura uno
stato di dipendenza che può essere di ordine psichico, fisico o anche psicofisico: stati soggettivi indotti dalle proprietà delle singole sostanze d’abuso e
pertanto differenziati, che Tatum e Seeverse, nel 1931 indicarono come: drug
addiction e drug habituation; siffatti termini caratterizzano, il primo, uno stato
di dipendenza fisica (ivi compresa quindi la crisi da astinenza derivante dalla
sospensione o riduzione dell’uso) e il secondo di dipendenza psichica. Su questa base culturale, nel 1950, l’OMS definiva la drug addiction come «lo stato
di periodica o cronica intossicazione, negativa per l’individuo e per la società,
prodotto dalla ripetuta assunzione dì sostanze farmacologicamente attive,
le cui caratteristiche includono: 1) un desiderio incoercibile ad assumere la
sostanza e a procurarsela; 2) ad aumentare la dose; 3) una dipendenza psichica
(psicologica) e alcune volte fisica degli effetti della sostanza»; mentre la drug
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
249
habituation, sottende «il desiderio di assumere ripetutamente la sostanza senza
che si vengano a creare le caratteristiche negative mostrate dalla addiction, né gli
effetti deterioranti per l’individuo e la società».
Si tratta di definizioni che, nella realtà italiana, sono divenute sinonimi di
“tossicomania” e di “abitudine o di dipendenza comportamentale”, ma che
appaiono già in origine insufficienti a definire lo “stato di dipendenza” meglio
esplicitato, negli anni ’60, dalla definizione di drug dependence esplicativa di
«uno stato psichico e talora fisico, derivante dalla interazione tra farmaco e
organismo, caratterizzato da un particolare comportamento e da altri fattori
che spesso includono un desiderio di assumere la sostanza sporadicamente o
continuativamente al fine di ottenere effetti attivi sulla psiche e a provocare
sconforto per la sua assenza; la tolleranza può essere più o meno presente; un
soggetto può essere dipendente o meno dalla sostanza».
Si intende infine per “tolleranza”: «la necessità di aumentare le dosi per
ottenere gli stessi effetti di quelle iniziali» e per “dipendenza”:
– psichica: l’impulso all’uso per ottenere piacere (la non assunzione provoca
sconforto);
– fisica: l’esigenza di assumere la sostanza (anche in modo continuativo) per
non cadere nella crisi da astinenza.
L’aspetto penalistico
Di grande rilievo medico e medico-legale è la previsione penalistica degli
stati di tossicodipendenza evocati dal Codice penale (1930) come condizioni
che fortemente incidono sulla imputabilità di chi commetta reati in preda
all’azione immediata o cronica di sostanze stupefacenti.
Il problema investe l’area degli artt. 88 e 89 cp (vizio totale o parziale di
mente) per i quali la capacità di intendere e di volere sia perduta o fortemente
scemata tanto da escludere o limitare la imputabilità assimilando così l’azione
di sostanze stupefacenti all’abuso di bevande alcoliche. In questo senso si
esprimono gli artt. 91 (ubriachezza da caso fortuito o da forza maggiore); 92
(ubriachezza volontaria o colposa o preordinata); 93 (fatto commesso sotto
l’azione di sostanze stupefacenti; con rinvio agli artt. 91 e 92); 94 (ubriachezza
abituale di chi «è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato frequente di
ubriachezza»; idem per colui che è «dedito all’uso di sostanze stupefacenti»);
250
Manuale della Professione Medica
95 (cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti; con eventuale
rinvio agli artt. 88 e 89).
A parte il fatto che l’effetto acuto dell’uso di droga, se non dovuto a caso
fortuito o a forza maggiore, non modifica ex lege, al pari della acuta ubriachezza, la imputabilità, di particolare interesse medico è il trattamento penale
riservato all’assuntore abituale non ancora mentalmente compromesso nella
sfera intellettiva o volitiva, la cui imputabilità resta piena e la cui speciale colpevolezza è anzi sanzionata dall’aumento di pena ove il reato sia stato commesso
in stato di ebbrezza, rispetto all’alcolista o al tossicomane cronico affetto cioè
da infermità di mente tale da escludere o da scemare grandemente la capacità
di intendere e di volere, la cui imputabilità viene invece a essere esclusa o solo
parzialmente riconosciuta.
Su tale questione la giurisprudenza è stata ondivaga anche a motivo della
difficoltà di una attendibile diagnosi differenziale, ancorché la Corte Costituzionale (n. 114 del 16 aprile 1998) abbia chiaramente sentenziato che la
imputabilità con l’aggravamento della pena riguarda solo gli assuntori abituali di droga ai sensi del II e III cpv dell’art. 94 (ubriachezza abituale), per
cui «è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato di frequente ubriachezza», assimilato a «chi è dedito all’uso di
sostanze stupefacenti».
È inoltre chiaramente stabilito che l’aggravamento della pena non ricade su
colui che commette un reato per il solo fatto di essere un assuntore abituale,
ma per averlo commesso in preda a una ennesima condizione di intossicazione acuta. Ed è questo un passaggio che vale la pena riguardare con sempre
maggiore attenzione, posto che allude alla sola condizione di ubriachezza o
di intossicazione acuta che non esclude né diminuisce la imputabilità mentre
è la circostanza della abitualità che produce l’aumento della pena. E ciò in
ordine a due distinte e non necessariamente associate contingenze (delle quali
la prima è fondamentale, la seconda eventuale) che sottendono una previsione
penalistica non obbligatoriamente coincidente con la realtà o con la plausibilità
patologica o semplicemente psicologica e comportamentale. L’equilibrio tra
esigenze penalistiche e realtà biologica è comunque e logicamente recuperato
nel trattamento dell’intossicato cronico.
In tal senso, straordinariamente efficace e particolarmente congrua con
le previsioni penalistiche è la distinzione tra abuso e dipendenza tracciata dal
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
251
DSM IV - TR (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Testo
revisionato, ed. italiana. Masson, 1998) per cui:
– l’abuso si riferisce alla modalità d’uso (patologica), che conduce a inadeguatezza sociale, senza ancor aver prodotto vere e proprie compromissioni
intellettive;
– la dipendenza (tolleranza, astinenza) implica invece un grado più o meno
elevato di deterioramento e di compromissione delle attività sociali o professionali.
Mentre l’abuso si limita a produrre un insufficiente senso di responsabilità,
comportamenti incoerenti e impulsivi, espressioni inappropriate di sentimenti
di aggressività, per cui il soggetto può incorrere in reati colposi o dolosi «a
causa dello stato di intossicazione» (incidenti d’auto, risse, furti ecc.), la dipendenza provoca invece una condizione mentale realmente patologica. Pur rifuggendo da ogni approfondimento sulle questioni cliniche e sulla maturazione
del non sopito dibattito specialistico, sembra dunque di poter affermare che
è quanto meno proponibile e non manifestamente infondato un approccio
diagnostico differenziale tra abitualità d’uso e intossicazione cronica, tale da
poterne derivare anche una applicazione peritale ai fini della determinazione
della imputabilità. Il DSM IV propone per l’appunto percorsi, vere e proprie
linee-guide di diagnosi differenziale per l’abuso di alcol, di barbiturici, di oppiacei, di cocaina, di amfetamine, di allucinogeni, di cannabinoidi, a documentare
come la distinzione che qui si ricorda non sia ormai soltanto un frutto più
o meno perverso e arbitrario di una discutibile politica criminale, ma corrisponda invece a condizioni biologiche, almeno in parte oggettivabili.
E a conforto delle possibilità diagnostiche può dirsi che la abitualità è
tributaria di una diagnosi fondata per lo più su elementi circostanziali mentre
per la intossicazione cronica si impone una diagnosi clinica. Definizione di
status cui far seguire adeguati programmi di recupero sociale da svolgersi
presso strutture accreditate e per il comma 10) dell’art. 75, dovrà ora avvalersi, come saggiamente ha sempre sostenuto S.D. Ferrara, di un’autentica
consulenza plurispecialistica, meglio se di struttura. Come scriveva Barni,
l’uso abituale era infatti dimostrabile attraverso un plurimo e convergente
esame documentario, anamnestico, clinico, chimico-tossicologico che può
compiersi in tempi reali solo in strutture specializzate.
252
Manuale della Professione Medica
Il trattamento medico dei tossicodipendenti
Fondamentale è la comunicazione costante che il medico deve mantenere con il soggetto tossicodipendente o semplicemente intossicato anche
in ordine a una concordata definizione del programma terapeutico e socioriabilitativo.
L’impostazione corretta del rapporto, basata sulla illustrazione più completa dei reciproci impegni evita infatti l’instaurarsi di situazioni ambigue o
di compromesso che potrebbero nuocere in rapporto ai suoi eventuali benefici, fermo restando che la responsabilità della conduzione del programma
terapeutico e socio-riabilitativo non può non essere in genere demandata
agli operatori che agiscono nel servizio o nella struttura, pubblica o privata,
che trattano specialisticamente il drogato. Sono i medici curanti coloro che
aiutano ad affrontate le sofferenze psicologiche constatandone i mutamenti,
gli sbocchi.
Solo l’operatore infatti può valutare il giusto rilievo da attribuire a singoli comportamenti nel contesto del complessivo impegno verso il recupero
al punto di cogliere una trasgressione giudicabile da parte dell’osservatore
esterno come grave e incompatibile con il buon andamento del processo riabilitativo, quale invece comprensibile e di scarso valore, e viceversa. Ancora una
volta l’esperienza e la competenza forniscono autorità e serenità di giudizio
all’operatore esperto il quale in tutta scienza e coscienza deciderà se riferire
o meno sulla violazione della regola, valutando se complessivamente il programma è seguito positivamente o meno. Il suo giudizio, ispirato ai principi
fondamentali e alla dignità della professione medica, non potrà subire censure
di ordine deontologico, amministrativo o giudiziario.
Il medico personale ha il dovere del trattamento clinico dei tossicodipendenti, in ragione della fenomenologia tossica passibile di trattamento sintomatico, dell’intervento urgente e spesso drammatico (somministrazione
di naloxone nell’overdose da eroina), delle concomitanti patologie infettive
(virus epatiti, AIDS), delle sindromi da astinenza ecc.
Rinviando alle trattazioni cliniche e alle linee-guida specializzate per ogni
aspetto farmacologico clinico del trattamento e aderendo alla tesi ormai indiscussa che il problema di fondo della tossicodipendenza, la disassuefazione,
non può risolversi con la cosiddetta medicalizzazione del fenomeno, occorre
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
253
far qui cenno al tema dei cosiddetti farmaci sostitutivi, il cui impiego (metadone, in primis per quanto attiene le tossicodipendenze da oppiodi) per ben
note ragioni farmacologiche di affinità, attenua col tempo la dipendenza, evitando i devastanti effetti della astinenza. In effetti, il quesito che più di ogni
altro investe gli operatori sanitari in relazione al trattamento medico dei tossicodipendenti riguarda le incertezze che ancora sussistono sulla liceità non
tanto clinica quanto giuridica delle terapie di mantenimento senza limiti di
tempo con farmaci sostitutivi, in particolare per l’operante col metadone.
La risposta al quesito dipende, come è ovvio, non tanto dal riconoscimento oggettivo della terapeuticità o meno del mantenimento senza limiti di
tempo, quanto dalla utilità sanitaria ed etica e quindi della liceità del trattamento stesso che pure, come ammesso dalla giurisprudenza penale, è avallata
dal consenso quasi unanime della dottrina penalistica.
Questa contrapposizione è particolarmente inquietante posto che pone
in discussione non tanto la possibilità di impiego terapeutico di sostanze
stupefacenti, come il metadone, ma la legittimità del suo uso continuativo.
Come rettamente afferma il Porcella, la nozione clinica di terapeuticità nel
trattamento dei tossicodipendenti non ha nulla di peculiare che la differenzi
dalla nozione comunemente applicata negli altri ambiti della medicina e in
questo senso la terapeuticità del mantenimento con metadone è affermata
nei termini più espliciti dal Newman, uno dei massimi esperti in campo
mondiale, con parole molto semplici: non può essere fatta dipendere da
elementi estranei a valutazioni cliniche; ne è scientificamente comprovato
l’effetto senza limiti temporali di contenimento, e di prevenzione di più
gravi induzioni tossiche o di devastanti casi da sospensione; è deontologicamente assurdo ed estraneo alla scienza il principio, pur autorevolmente
sostenuto in Giurisprudenza, per il quale «compito del medico è quello
di guarire l’ammalato tossicodipendente e non di protrarre la durata della
malattia», in quanto «l’uso di sostanze stupefacenti nella cura dei tossicodipendenti non tende comunque e difficilmente perviene alla disassuefazione
e alla guarigione».
In definitiva, il medico deve riguardare con prudenza, ma senza assurdi
atteggiamenti di medicina difensiva alle terapie sostitutive che peraltro
meglio possono essere garantite da e in centri specialistici pubblici o privati
ormai per legge parificati anche nella competenza certificatoria.
254
Manuale della Professione Medica
Tossicodipendenze e deontologia medica
Il Codice di Deontologia medica (cdm) considera all’art. 79 il particolare rapporto che la società richiede al medico nell’opera di prevenzione del fenomeno
della tossicodipendenza e nel trattamento, non solo “tecnico”, diagnostico e
curativo, dei soggetti in preda agli effetti acuti o cronici delle droghe d’abuso.
In particolare, il nuovo atteggiamento formativo supera, in armonia col
maggioritario stato d’animo degli italiani, ogni indicazione sugli adempimenti
certificativi e in qualche modo particolari (ricette mediche) per richiamare a un
atteggiamento di responsabilità e di solidarietà che tenga conto non solo del
diritto-dovere di tutela della salute della persona ma anche della sua dignità e
della sua libertà e più in generale dell’impegno pubblico nei confronti di un
male e di un disagio sociale.
Non a caso il riferimento codicistico è diretto a tutte le sostanze d’abuso
e non solo ai vecchi e nuovi stupefacenti, quasi a ricordare al medico la complessiva esigenza di difesa individuale nei confronti anche dell’alcolismo e del
tabagismo. Così sembra di cogliere dal Codice deontologico una chiara denuncia della ipocrita se non discriminativa messa a fuoco normativa e (sia pure a
monte) repressiva delle sole droghe tabellate, in armonia con il dato epidemiologico estremamente eloquente sui danni dell’abuso di alcol e di tabacco, sui
quali ultimi si tornerà in appendice al presente capitolo.
L’art. 75 cdm sollecita dunque il medico, al di là dei suoi specifici obblighi di
cura, a porre in essere «senza pregiudizi» e «un aiuto tecnico e umano», sempre
finalizzata al superamento della situazione di dipendanza collaborando a compiti di:
a) prevenzione, partecipando a iniziative pubbliche e private, nella scuola, per
esempio, nei luoghi di lavoro, nel quotidiano rapporto con le famiglie, con
i giovani;
b) cura, ben comprendendo la esigenza di cure tradizionali per le condizioni
patologiche che possono aver indotto la tossicodipendenza (disordini mentali, sindromi dolorose ecc.) o che ne possono esser state la conseguenza
e non trascurando la possibilità di equilibrare pro­gram­mazioni cliniche di
trattamento con farmaci sostitutivi;
c) informazione e indirizzo dei soggetti (il tossicodipendente e la famiglia sia
pur con assoluto rispetto delle regole sulla privacy) sui programmi socioriabilitativi;
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
255
d ) collaborazione senza discriminazioni ideologiche di sorta con le organizzazioni pubbliche e private che si occupano di questo grave disagio sociale.
Ciò premesso, al medico compete pur sempre il dovere di certificare nelle
situazioni seguenti:
1) certificato a richiesta del soggetto per il datore di lavoro al fine di ottenere
l’aspettativa prevista dalla legge (art. 124 DPR 309/1990);
2) certificato e sempre a richiesta dell’interessato, dei motivi di astensione dal
lavoro dovuto allo stato di tossicodipendenza, previsti per le categorie di lavoratori destinati a mansioni che comportino rischi per la sicurezza (mai individuate da apposito decreto), l’incolumità e la salute di terzi (Forze di polizia
ecc.) secondo quanto dispongono specifiche norme (art. 125 DPR 309/1990).
Le comunità terapeutiche
Le comunità sono, nel loro concetto attuale, l’espressione di una organizzazione comunitaria impostata sull’esigenza di raccogliere, all’interno di gruppi, abitudini sociali, ideologie e interessi omogenei capaci di attribuire, all’agire sociale,
finalità determinate per contrastarne le negatività nell’affermazione di principi idealistici di uguaglianza e di fratellanza. È questo un concetto che richiama alle antiche identità di comunità religiose e idealistiche, ma che ha talora assunto, nella identità dei numerosi movimenti giovanili, in particolare degli anni ’70, connotazioni
utopistiche di “provocazione” tese a trasformare l’impostazione sociale attraverso
l’azione anticonformista, antitetica alle abitudini della consumistica e benestante
società “adulta”.
Il fenomeno, è espressivo di determinati movimenti culturali, che sminuisce tuttavia il significato storico ancestrale delle vecchie comunità socialmente
organizzate e basate su principi egualitari.
Attualmente, il concetto di comunità, è invece, in modo prevalente, correlato al
triste problema della droga e assume, nella accezione comune, il restrittivo valore di
risorsa sociale per il “recupero” del tossicodipendente. La sua aggettivazione “terapeutica”, nata nei primi anni ’50, e applicata alla cura delle malattie psichiatriche, è
indicativa della limitazione concettuale operata sul termine, confinato a esprimere
più un luogo di cura e di recupero di “malattie psichiche” o di “devianze sociali”,
che non a significare concetti più profondi di socializzazione e di solidarietà.
256
Manuale della Professione Medica
Le comunità terapeutiche, nate, negli USA, come centri di “riabilitazione”
di soggetti tossicomani con l’intento di favorirne il recupero attraverso la modifica dei parametri ambientalistici e psico-comportamentali, hanno assunto, nei
contesti culturali dei vari paesi, modelli strutturali e operativi spesso marcatamente diversi tra loro e non necessariamente ispirati a quelli della proposta di
Syanon o di Daytop.
In questo settore l’iniziativa è ora assegnata anche a identità private, accreditate a livello regionale, libere di strutturarsi, di scegliere e di eseguire programmi
terapeutici in maniera autonoma purché in uniformità di condizioni con i servizi
pubblici. La corrispondenza richiesta ai requisiti di accreditamento previsti per
legge dovrebbe produrre quindi effetti qualificanti nella gestione dei nuovi centri
di recupero improntati sempre più sull’esperienza pluridiscinare e sulla riqualificazione dei servizi di prevenzione e di intervento. Contesti che dovrebbero contribuire al superamento della lacuna definitoria di “Comunità terapeutica” ovviando
ai disagi assistenziali derivanti dalle eterogeneità strutturali e gestionali. L’attuale
affidamento di compiti di recupero a “gruppi di volontariato” di impronta laica o
cattolica nell’ambito di differenze gestionali ispirate a prototipi di rigidità o strutturate in modo più o meno terapeutico in conformità della modalità riabilitativa autonomamente scelta, difficilmente concordano con i modelli propri della scienza psichiatrica (autoassistenza, responsabilizzazione individuale, abolizione gerarchica,
influssi comunitari positivi ecc.), ma tutti rivolti a favorire l’interiorizzazione, nel
tossicomane, di un nuovo comportamento sociale non deviante. Processo dove
fondamentale diviene il valore attribuito al “gruppo” che può essere condizionato
dalle modalità con cui le singole componenti si rapportano tra loro, nell’ambito
della realizzazione programmatica e dei caratteri connotativi della Comunità terapeutica. Diversi sono infatti i rapporti individuo-comunità nei centri che privilegiano aspetti psicologici rispetto a quelli di impronta repressiva o assistenzialistica.
Per distinguere le diverse iniziative, alcuni Autori hanno proposto diverse
definizioni idonee a differenziare le varie tipologie:
– comunità aperta;
– comunità chiusa;
– comunità gerarchica;
– comunità democratica;
– comunità autoritaria;
e ciò in funzione soltanto delle metodologie dell’intervento di recupero adottate.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
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Appunti su “tabagismo” e “alcolismo”
Il tabagismo
Il vasto panorama delle tossicodipendenze, merita di essere integrato da
uno sguardo ad alcune dipendenze, profondamente e storicamente radicate
nelle presenti abitudini sociali, derivanti dall’assunzione di sostanze d’abuso
“legalizzate”, ma non per questo immeritevoli di considerazione sotto il profilo medico e sanitario.
L’“arte” del fumare, discendente da antiche tradizioni popolari proprie di
numerose civiltà dell’America Latina, ebbe infatti, alle sue origini, un significato magico-religioso ben diverso dalla comune ritualità di costume consumistico assunta nella attuale cultura occidentale.
L’uso di sigarette, ancor oggi in alcuni paesi propagandato e favorito dalle
compagnie produttrici attraverso la martellante opera dei mass-media pubblicitari, ha costituito un momento storico nella diffusione del fumo di tabacco ancora
meritevole di riflessione generale nell’intero versante della salute pubblica. Se pensiamo inoltre che, negli ambienti chiusi, l’inalazione di fumo passivo, rappresentato per il 15% dalle esalazioni del fumatore: “fumo primario” (mainstream smoke)
e per l’85% dalla combustione del tabacco nella parte accesa della sigaretta: “fumo
secondario” (sidestream smoke), può, dopo circa 78 minuti di permanenza, condurre
un non fumatore a elevare le sue concentrazioni urinarie nicotiniche da 10 mg/l
a 80 mg/l, e che sono circa tre milioni i morti, che ogni anno si legano all’uso del
tabacco, ben si giustifica l’interrogativo sul perché si sia dovuto attendere, quasi
un secolo, affinché le autorità sanitarie intervenissero nell’opera legislativa di prevenzione, di controllo e di repressione a tutela dei non fumatori.
L’attuale consapevolezza che il “tabagismo” è collocato tra le tre maggiori
calamità planetarie, assieme alla “fame” e alle “guerre”, ha contribuito al varo
della legge n° 3 del 16 gennaio 2003, art. 51, meglio nota come “legge anti fumo”.
E sull’onda dell’azione repressiva, esercitata dal disposto dell’art 51, la
Corte di Appello di Roma ha, per la prima volta, in Italia, emesso una storica sentenza (1015/05 del 22 marzo 2005) riconoscendo il danno da fumo e
condannando l’Ente Tabacchi al risarcimento di 200.000 euro agli eredi di un
deceduto per cause fumo-correlate.
Nella specie, la Corte di Appello ha infatti sottolineato l’obbligo, da parte
dell’ETI (Ente Tabacchi Italiani), d’informare i consumatori sui rischi per la
258
Manuale della Professione Medica
salute riaffermando, al contempo, che la vendita di tabacchi costituisce attività
pericolosa fonte di responsabilità ai sensi dell’art. 2050 cc.
È infatti noto che i tabacchi, essendo destinati al consumo mediante il
fumo, contengono, per la loro natura e composizione biochimica, «una potenziale carica di nocività, dalla quale ne può discendere un grave danno per la
salute considerata bene primario dell’uomo e tutelata dall’art. 32 della Carta
Costituzionale come diritto fondamentale del cittadino». Tutela per la quale
«l’ente era obbligato a usare ogni cautela per evitare che il rischio si tramutasse
in un danno concreto», contrariamente a quanto invece accaduto.
Ma, al di là degli interventi repressivi, il tabagismo può essere combattuto
con il potenziamento dell’opera di prevenzione esercitata attraverso lo sviluppo dei movimenti salutisti e l’incentivazione e l’evoluzione delle terapie di
gruppo impostate sul modello del FDP (Five-Day Plane).
Su questa linea il GFT (Gruppi di Fumatori in Trattamento) si sta, infatti, prodigando per migliorare i modelli transteorici, di Di Clemente e Prochanzka, con
terapie di gruppo volte a modificare lo status soggettivo, sia sul piano compor­ta­
men­­tale-cognitivo che su quello motivazionale, mediante una tripartizione fasica
del programma riabilitativo che risulta così articolato in una prima fase preparatoria, in una seconda di immersione totale e in una terza di reciproco aiuto.
I risultati confortanti, addirittura superiori alle medie dei successi conseguiti negli USA e pubblicati sullo Smoking Cessation Methods, vedono il follow-up
del primo quinquiennio attestato attorno al valore medio del 50%. Si tratta di
successi incoraggianti che potrebbero essere maggiormente agevolati da un più
stretto coordinamento con l’intervento pubblico di promozione delle attività
educative e formative in ambito scolastico. L’art. 104 del TU 309/1990 attribuisce infatti al Ministero della Pubblica Istruzione precisi compiti in materia di
educazione sanitaria e di informazione sui: «danni derivanti dall’alcolismo, dal
tabagismo, dall’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché dalle patologie correlate»: volontà preventiva pienamente illustrata anche dagli artt. 105 e
106 che prevedono l’attivazione, a livello provinciale, di corsi di studio, per gli
insegnanti, sul tema di cui all’art. 104 nonché l’istituzione di centri scolastici, di
consulenza e di informazione sanitaria, rivolti all’utenza studentesca e cogestiti
dai provveditorati e dai SERT.
L’opera del medico è e resta essenziale, sulla base di una diversa conoscenza
del rischio da tradurre in prescrizioni terapeutiche, in comunicazioni costanti
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
259
relative alla “condotta’’ di vita. E non possono essere liquidate come assurde
o “infantili” le pattuizioni tra medico e paziente nella durata della astinenza,
nel più complesso programma di liberazione dalla dipendenza che è essenziale
per i soggetti a rischio (cardiopatici, broncoasmatici, facilmente predisposti
alle neoplasie).
L’alcolismo
Seppur classificato tra le sostanze d’abuso “legali”, l’alcol etilico si colloca
tra i maggiori responsabili di stati di tossicodipendenza che impongono una
specifica attenzione legislativa in rapporto agli aspetti sociali connessi all’etilismo cronico. La condizione etica e le alterazioni comportamentali dei soggetti
sotto l’influenza dell’alcol sono state e sono oggetto, infatti, del rigore normativo ben espresso nelle riportate norme penali ed esteso al nuovo Codice della
strada, a garanzia della sicurezza stradale.
Le tristi testimonianze, rese dagli organi di informazione ogni fine settimana sui decessi per incidenti stradali, hanno infatti imposto, a tutela degli
utenti, la stretta legislativa e operativa sui controlli diretti ad accertare sia l’idoneità dei conducenti alla guida sia le condizioni psico-fisiche soggettive nelle
fasi di rilascio e di conferma della patente automobilistica.
L’art. 186 del nuovo Codice della strada (modificato di recente con la legge
n. 120 del 29/7/2010), intitolato “Guida sotto l’influenza dell’alcol”, recita
infatti al comma 1: «È vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza
dell’uso di bevande alcoliche» ed è espressivo dell’impegno repressivo da adottare nei confronti di chiunque costituisca pericolo, per se stesso e per l’integrità
altrui, guidando sotto gli effetti dell’alcol.
Tale orientamento meglio si coglie nel n. 2 dello stesso articolo dove, in
caso di accertata positività, ove il fatto non costituisca più grave reato, sono
previste, a fianco delle sanzioni amministrative di ordine pecuniario, sanzioni
penali e sanzioni accessorie.
Inoltre: «Al fine di acquisire elementi utili per motivare l’obbligo di sottoposizione agli accertamenti di cui al comma 4, gli organi di polizia stradale
di cui all’articolo 12, commi 1 e 2, secondo le direttive fornite dal Ministero
dell’Interno, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per
l’integrità fisica, possono sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi
non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili».
260
Manuale della Professione Medica
Nei casi di positività agli accertamenti qualitativi di cui al comma 3 l’art.
186 così recita: «in ogni caso d’incidente ovvero quando si abbia altrimenti
motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione
psicofisica derivante dall’influenza dell’alcol, gli organi di polizia stradale di
cui all’articolo 12, commi 1 e 2, anche accompagnandolo presso il più vicino
ufficio o comando, hanno la facoltà di effettuare l’accertamento con strumenti
e procedure determinati dal regolamento.
Per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico viene effettuato, su richiesta degli
organi di polizia stradale di cui all’articolo 12, commi 1 e 2, da parte delle strutture sanitarie di base o di quelle accreditate o comunque a tali fini equiparate.
Le strutture sanitarie rilasciano agli organi di polizia stradale la relativa
certificazione, estesa alla prognosi delle lesioni accertate, assicurando il rispetto
della riservatezza dei dati in base alle vigenti disposizioni di legge [...]».
Qualora dall’accertamento di cui ai commi 4 o 5 risulti un valore corrispondente a un tasso alcolemico superiore a 0,5 grammi per litro (g/l),
l’interessato è considerato in stato di ebbrezza ai fini dell’applicazione delle
sanzioni di cui al comma 2. In caso di rifiuto dell’accertamento di cui ai
commi 3, 4 o 5 il conducente è punito, salvo che il fatto costituisca più
grave reato, con le sanzioni di cui al comma 2. Con l’ordinanza con la quale
viene disposta la sospensione della patente ai sensi del comma 2, il Prefetto
ordina che il conducente si sottoponga a visita medica ai sensi dell’articolo
119, comma 4, che deve avvenire nel termine di sessanta giorni. Qualora
il conducente non vi si sottoponga entro il termine fissato, il Prefetto può
disporre, in via cautelare, la sospensione della patente di guida fino all’esito
della visita medica. Qualora dall’accertamento di cui ai commi 4 o 5 risulti
un valore corrispondente a un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per
litro (g/l), ferma restando l’applicazione delle sanzioni di cui al comma 2, il
Prefetto, in via cautelare, dispone la sospensione della patente fino all’esito
della visita medica di cui al comma 8.
Considerato quindi che il dato diagnostico ha validità probatoria nella contestazione della contravvenzione e che, in caso di responsabilità penale, potrà
essere utilizzato quale prova processuale, il personale medico o abilitato ai
prelievi dovrà tener massimo conto delle metodologie di prelievo e di conservazione dei reperti in modo da renderli ineccepibili in caso di contraddittorio.
5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente
261
E ciò anche per il fatto che gli accertamenti di rito possono essere utilizzati
anche dal conducente come prova a discolpa.
Raccomandazione che il disposto normativo non rende obbligatoria e che
non è sufficientemente garantita dall’individuazione di una adeguata catena di
custodia e da protocolli operativi sulle modalità di prelievo e sulla scelta dei test
diagnostici dotati di validità forense.
Per il personale medico, esiste inoltre la complessa e annosa problematica del prelievo ematico e del consenso che, negli accertamenti di idoneità
psico-fisica alla guida o nei casi di traumatismi conseguenti a incidente stradale, inducono riflessione sul valore del consenso fornito sotto l’effetto di
elevate concentrazioni alcoliche o sui prelievi eseguiti (sul traumatizzato incosciente senza consenso) per fini curativi e invece utilizzati per scopi giudiziari.
E a complicare ulteriormente l’operatività medica e laboratoristica vi è anche
l’aspetto, non secondario, della mancata individuazione delle strutture abilitate
e dei metodi diagnostici accreditati a livello centrale e periferico.
Come si può pertanto vedere si tratta di brevi richiami, che meritano però
di essere integrati nel segno e nel senso della responsabilità del medico, chiamato non solo a curare il singolo, ma anche a cooperare fattivamente alla tutela
della pubblica salute.
6
Pubblicità e informazione sanitaria
G. Morrocchesi, A. Pagni
Art. 55 - Informazione sanitaria
Nella comunicazione in materia sanitaria è sempre necessaria la massima
cautela al fine di fornire un’efficace e trasparente informazione al cittadino.
Il medico deve attenersi in materia di comunicazione ai criteri contenuti nel
presente Codice in tema di pubblicità e informazione al cittadino.
Il medico collabora con le istituzioni pubbliche al fine di una corretta informazione sanitaria ed una corretta educazione alla salute.
Art. 56 - Pubblicità dell’informazione sanitaria
La pubblicità dell’informazione in materia sanitaria, fornita da singoli e da
strutture sanitarie pubbliche o private, non può prescindere, nelle forme e
nei contenuti, da principi di correttezza informativa, responsabilità e decoro
professionale. La pubblicità promozionale e comparativa è vietata.
Per consentire ai cittadini una scelta libera e consapevole tra strutture, servizi
e professionisti è indispensabile che l’informazione, con qualsiasi mezzo diffusa, non sia arbitraria e discrezionale, ma obbiettiva, veritiera, corredata da
dati oggettivi e controllabili e verificata dall’Ordine competente per territorio.
Il medico che partecipa, collabora od offre patrocinio o testimonianza alla
informazione sanitaria non deve mai venir meno a principi di rigore scientifico, di onestà intellettuale e di prudenza, escludendo qualsiasi forma anche
indiretta di pubblicità commerciale personale o a favore di altri.
Il medico non deve divulgare notizie su avanzamenti della ricerca biomedica e su
innovazioni in campo sanitario, non ancora validate e accreditate dal punto di vista
scientifico, in particolare se tali da alimentare infondate attese e speranze illusorie.
264
Manuale della Professione Medica
La Conferenza internazionale degli Ordini dei Medici di Parigi, nel 1994,
a proposito della pubblicità dei medici, precisò con grande chiarezza, e in termini tuttora utili per il legislatore e per i colleghi, che «l’esercizio della professione non è un’attività artigianale né commerciale. Il medico, sia dipendente
sia libero professionista, può rendere noti al pubblico la propria formazione di
base e specialistica e gli altri elementi necessari all’informazione dei pazienti nel
rispetto dei principi stabiliti dall’Ordine nazionale (o similari) e dalla legge. Tale
informazione va chiaramente distinta dall’annuncio pubblicitario di carattere
promozionale che rischia di trarre in inganno i pazienti e che è considerato
non conforme all’etica dei medici in tutti i Paesi europei. Il medico, inoltre, non
deve consentire ad altri di fargli pubblicità o tollerare che la effettuino nei suoi
confronti».
Gli artt. 55 e 56 e l’allegato Regolamento esplicativo si propongono di
mantenere fede ai principi immutabili dell’etica della professione, chiarendo le
differenze tra informazione e pubblicità in ambito sanitario, per garantire che
la comunicazione tra i medici e i cittadini sia corretta e veritiera.
L’uso ambiguo del termine “pubblicità informativa” può, infatti, ingenerare
confusione dopo che anche il “mercato” sanitario è stato pervaso dalle suggestioni della (pseudo)competizione e del marketing, e la professione del medico,
dal punto di vista giuridico, è divenuta un’“impresa”, sia pure sui generis.
Il termine “pubblicità”, infatti, ha in genere una connotazione, invasiva,
promozionale e reclamistica, propria di messaggi intesi a convincere e persuadere i cittadini ad acquistare le “merci” prodotte dalle aziende.
L’“informazione sanitaria” corrisponde, invece, all’offerta di notizie utili e
funzionali per il “bene” salute delle persone, consentendo loro di scegliere consapevolmente quali competenze professionali corrispondono ai loro bisogni, di
essere aggiornati sui progressi di conoscenze scientifiche praticamente utilizzabili e sulle possibili alternative di cura offerte dalla moderna tecnologia sanitaria.
La dizione «pubblicità dell’informazione sanitaria» usata nel Codice è,
infatti, un complemento di specificazione che privilegia il valore e la qualità
del secondo termine, i dati e le informazioni, ai quali subordinare il primo, gli
strumenti e i modi impiegati per la loro trasmissione.
La tecnologia della comunicazione, infatti, anche se non è neutrale, non
è di per se stessa buona o cattiva, ma sono i contenuti, gli scopi e i modi dei
messaggi scelti dagli utilizzatori a determinarne o meno il valore e il significato.
6. Pubblicità e informazione sanitaria
265
L’Ordine dei Medici non ha mai ignorato, nel corso della sua lunga storia,
l’importanza deontologica di un’informazione etica dei sanitari, e ha vigilato,
nei limiti del possibile, affinché il medico non ricorresse a messaggi scorretti,
ambigui o ingannevoli, causa di gravi ripercussioni sulla salute dei cittadini,
di disdoro per l’immagine della professione e di illecita concorrenza da parte
degli abusivi o tra colleghi.
Già nel lontano 1954 l’art. 12 del CDM recitava: «Il medico non deve diffondere nel pubblico notizie di nuovi procedimenti diagnostici o terapeutici
non ancora sufficientemente comprovati o altre notizie di indole sanitaria che
possono suscitare illusorie speranze o timori ingiustificati. Se vi è scopo di
lucro la colpa è ancora più grave».
E nei successivi artt. 69 e 70 dichiarava che «l’uso della pubblicità deve
essere contenuto entro i limiti della serietà scientifica e professionale», elencando i titoli professionali che era lecito iscrivere su «fogli di ricettari, annuari,
guide cittadine, elenchi telefonici, placche murali o targhe».
Nel 1984 il Comitato Centrale (CC) della FNOMCeO emanò un regolamento,
che oggi può apparire anacronistico, con il quale si vietava al medico il ricorso a
pubblicità cinematografiche e radiotelevisive, e si obbligava a riservare i messaggi
pubblicitari esclusivamente ai giornali e periodici destinati alla categoria.
Nonostante queste ferme prese di posizione assunte dagli Ordini dei
Medici, peraltro dotati di poteri istruttori molto limitati, la pubblicità ambigua,
i messaggi degli abusivi e la diffusione di false informazioni non sono diminuiti
nell’epoca postindustriale o della comunicazione di massa.
Anche il DLgs 25 gennaio 1992, n. 74, consapevole dei pericoli della pubblicità ingannevole, ha affidato all’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato compiti di repressione e sanzionatori nei suoi confronti, ma non ha
previsto il risarcimento del danno patito da chi si è fidato del messaggio pubblicitario, lasciandolo alla competenza della giurisdizione ordinaria.
Il problema dell’informazione sanitaria in questi ultimi anni è divenuto particolarmente acuto e complesso.
Si è moltiplicata, infatti, in maniera esponenziale la disponibilità in tempo
reale degli strumenti tecnici di comunicazione, nazionali e internazionali,
parallelamente alla sensibilità, all’interesse e al diritto dei cittadini alle informazioni sui temi della salute, tanto da renderne sempre più difficile il controllo qualitativo.
266
Manuale della Professione Medica
Alle “mutazioni” relativamente recenti della stampa d’informazione e dei
canali radiotelevisivi nazionali e locali in termini di contenuti degli articoli e dei
programmi destinati alle malattie e alla salute, si sono, infatti, aggiunti nel corso
di pochi anni i messaggi telefonici, la posta elettronica, i social network, Internet
e milioni di siti Web e blog, la cui “simultaneità” è in grado di trasformare il
mondo in un “villaggio globale” e di modificare i comportamenti umani.
La legge n. 175/92, scaturita dalla necessità improrogabile di un intervento
legislativo che regolasse con norme più severe la pubblicità sanitaria, reprimendo l’esercizio abusivo della professione, e di potenziare l’azione di sorveglianza degli ordini dei medici, si è rivelata rapidamente superata.
Superata in parte perché ormai “datata” e, poi, perché fino dalla sua promulgazione era stata più attenta alla regolazione “formale” degli strumenti
pubblicitari dei soli medici che alla frequente divulgazione prematura di risultati scientifici parzialmente verificati o francamente ingannevoli e alle iniziative
commerciali, destinate al “benessere” delle persone, che spesso interferiscono
negativamente nella relazione terapeutica tra medico e paziente.
È un dovere degli Ordini preoccuparsi che le informazioni degli iscritti agli
albi siano scientificamente corrette e veritiere, anche perché sono i principali
fornitori delle notizie che i mass media diffondono, ma è anche vero che il cambiamento del paradigma dalla malattia alla salute ha favorito l’ingresso di altri
attori, esterni alla professione, nel campo della pubblicità sanitaria commerciale.
Infatti, i cospicui investimenti delle industrie parasanitarie nell’organizzazione di messaggi promozionali pubblici (non propriamente falsi, ma spesso
privi di riscontri scientifici), destinati al cosiddetto “salutismo” dei cittadini
(che si vogliono capaci di discernere l’affidabilità o meno dei messaggi che
ricevono, in una contrattazione che, tuttavia, rimane inevitabilmente asimmetrica), non mancano di creare nei destinatari attese difficilmente controllabili,
pseudobisogni, sconcerto, suggestioni e credenze, sfiducia nei confronti della
comunità scientifica e, qualche volta, anche danni alla salute.
Un breve accenno merita anche il divieto espresso nel Codice nei confronti
della pubblicità comparativa, basata sul confronto espresso tra beni e servizi
concorrenti.
Il divieto dell’Ordine dei Medici della pubblicità comparativa non è frutto né
del «timore del potere della pubblicità» né per difendere con il silenzio le “magagne” dei concorrenti e l’immagine della categoria, ma soltanto per consentire
6. Pubblicità e informazione sanitaria
267
ai cittadini scelte libere ed autonome sulla base della cultura e dell’esperienza
personale, e per tutelarli da informazioni comparative incontrollate, difficilmente
controllabili e potenzialmente dannose nell’indurre scelte ingannevoli.
Quello sanitario nel SSN è, infatti, un mercato “non mercato”, che privilegia l’offerta pubblica e “amministra” e calmiera la domanda di salute sulla base
delle risorse disponibili; per questi motivi deve essere considerato un settore
specifico e delicato.
Nel nostro paese non sono mai stati definiti per legge i requisiti di qualità
delle prestazioni erogate dalle strutture pubbliche e private, che consentirebbero una rigorosa e obiettiva valutazione “comparativa” dell’offerta disponibile, e soltanto giornali e riviste si sono arrogati, in passato, la pretesa di
scegliere per i loro lettori, con arbitraria discrezionalità, i “migliori” medici e i
“migliori” ospedali italiani.
Le norme del Codice sull’informazione sanitaria saranno, dunque, tanto
più forti quanto più saranno rispettate e condivise consapevolmente da tutti i
medici iscritti all’albo nell’interesse dell’intera categoria, e quanto più celeri ed
efficaci saranno i provvedimenti disciplinari degli Ordini nei confronti di chi,
eventualmente, avrà violato le norme pattuite.
Art. 57 - Divieto di patrocinio
Il medico singolo o componente di associazioni scientifiche o professionali
non deve concedere avallo o patrocinio a iniziative o forme di pubblicità
o comunque promozionali a favore di aziende o istituzioni relativamente a
prodotti sanitari o commerciali.
Le norme contenute nei tre articoli in commento del Capo XI rappresentano l’adeguamento della disciplina deontologica in materia di pubblicità e
informazione sanitaria alle nuove disposizioni dettate dalla legge n. 248/06 al
fine di introdurre misure di liberalizzazione del settore dei servizi professionali.
La legge citata, nell’abrogare, tra le altre, «le disposizioni legislative e regolamentari» – di cui alla legge n. 175/92 e al DM n. 657/94 – che limitavano
fortemente la possibilità di effettuare pubblicità sanitaria, ha stabilito che qualunque messaggio pubblicitario deve rispondere a «criteri di trasparenza e veridicità […] il cui rispetto è verificato dall’Ordine».
268
Manuale della Professione Medica
Con questo inciso, il legislatore ha mantenuto integro e ribadito il potere
di vigilanza e controllo proprio dell’Ordine professionale, unitamente al connesso potere sanzionatorio ogni qual volta accerti, in questo specifico ambito,
un comportamento lesivo della dignità e del decoro della professione.
La stessa legge n. 248/06 ha disposto che le precedenti disposizioni deontologiche fossero adeguate alle nuove norme entro il 1° gennaio 2007, «anche con
l’adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali», salvo,
in caso di mancato adeguamento, la definitiva nullità delle norme in contrasto.
Le nuove norme del Codice deontologico del 2006 ribadiscono, tra l’altro,
che agli iscritti negli albi è fatto espresso divieto di patrocinare iniziative pubblicitarie o promozionali relative a prodotti sanitari o commerciali. Per l’applicazione
di queste norme, è stata contestualmente adottata un’apposita linea-guida, allegata al Codice, contenente la disciplina specifica della pubblicità sanitaria.
Il documento è espressamente riferito «a qualsivoglia forma di pubblicità
dell’informazione, comunque diffusa, compreso l’uso di carta intestata e di ricettari», utilizzata dai prestatori di servizi, tra i quali sono espressamente compresi
tanto il medico o l’odontoiatra che esercitano la professione in forma individuale o
associata quanto le strutture pubbliche o private che erogano un servizio sanitario.
Nel caso di queste ultime – le quali, quand’anche solo private, sfuggirebbero al potere di vigilanza dell’Ordine, trattandosi di soggetti muniti di personalità giuridica autonoma e distinta da quella dei sanitari in esse coinvolti – la
responsabilità verso l’Ordine dell’osservanza della disciplina deontologica in
materia è attribuita direttamente al direttore sanitario. Con questa impostazione unitaria vengono superate le distinzioni della legge n. 175/92, tra pubblicità del professionista singolo o associato e pubblicità della struttura sanitaria,
per quanto concerne sia le forme e gli strumenti sia i contenuti della medesima.
È confermata la facoltà di utilizzare il sito Internet per divulgare la propria
attività professionale e altre informazioni, con l’obbligo, anche in questo caso,
di fornire ogni elemento atto a garantire il controllo di quanto asserito nel messaggio da parte di chiunque vi abbia interesse, oltre che da parte dell’Ordine.
A questo va data comunicazione dell’apertura del sito Internet, nella quale il
sanitario dichiara, sotto la sua responsabilità, che il medesimo risponde alle
prescrizioni della linea-guida.
Per quanto riguarda gli elementi facoltativi, va posta particolare attenzione
agli adempimenti richiesti per il loro inserimento; se riportati nel messaggio,
6. Pubblicità e informazione sanitaria
269
infatti, devono essere sempre verificabili e certificati, quindi devono essere
obbligatoriamente accompagnati da tutte le notizie che ne consentano il
riscontro oggettivo e la conferma in sede competente.
Nel punto 4, tra l’altro, a proposito dell’uso della qualifica di specialista, è
confermata, nei confronti del medico privo del titolo, la possibilità, con l’osservanza delle condizioni già previste dalla legge n. 175/92, di fare menzione
della particolare disciplina specialistica che esercita.
La linea-guida definisce quindi, al punto 5, gli obblighi deontologici che i
liberi professionisti e i direttori sanitari delle strutture sono tenuti a osservare
nella loro pubblicità dell’informazione sanitaria.
Altri contenuti della linea-guida riguardano:
– l’utilizzo della posta elettronica per motivi clinici (punto 7) nei rapporti con
i pazienti e con i colleghi a fini di consulto, che è consentito purché vengano rispettate le condizioni e i criteri di riservatezza dei dati dei pazienti;
– l’utilizzo delle emittenti radiotelevisive nazionali e locali, di organi di stampa
e altri strumenti di comunicazione e diffusione delle notizie (punto 8), che
comporta il divieto di «concretizzare la promozione o lo sfruttamento pubblicitario del suo nome o di altri colleghi» e, comunque, il rispetto degli
obblighi deontologici previsti dalla linea-guida.
Segue, infine, la disciplina della verifica e valutazione deontologica dei messaggi pubblicitari. Il punto 9 fa obbligo agli iscritti all’albo di «comunicare
all’Ordine competente per territorio il messaggio pubblicitario che si intende
proporre onde consentire la verifica sulla veridicità e trasparenza del medesimo, di cui all’art. 56 del Codice».
Inoltre, nell’intento di ridurre l’onerosità delle operazioni di verifica da
parte degli Ordini, è ammessa una specifica autodichiarazione dell’iscritto che
attesti la conformità del messaggio pubblicitario, degli strumenti e dei mezzi
utilizzati alle norme deontologiche e alla linea-guida. L’iscritto potrà inoltre
chiedere all’Ordine una valutazione preventiva della pubblicità che intende
effettuare. In questo caso, l’Ordine rilascia un «formale e motivato parere di
eventuale non rispondenza deontologica».
La linea-guida si conclude con l’avvertenza che «l’inosservanza di quanto
previsto dal Codice secondo gli orientamenti della presente linea-guida è punibile con le sanzioni comminate dagli organismi disciplinari previsti dalla legge».
270
Manuale della Professione Medica
La disposizione conferma che, venute meno, per effetto della legge n.
248/06, le fattispecie illecite di pubblicità, minuziosamente contemplate
per legge nei mezzi, nelle forme e nelle caratteristiche estetiche, l’esercizio
dell’azione disciplinare viene interamente ricondotto in ambito deontologico
secondo la disciplina degli artt. 38 e segg. del DPR n. 221/50.
Giova ricordare che una successiva deliberazione del Comitato centrale
della FNOMCeO (n. 53/2007) ha stabilito che «ai fini della tutela della dignità
e del decoro, i mezzi, le forme e gli strumenti indicati nella legge 175/92 e
nel DM 657/94 per la diffusione dei messaggi pubblicitari conservano piena
rispondenza alle disposizioni del vigente Codice di Deontologia anche a
seguito delle innovazioni legislative introdotte in materia».
S’intende che questo richiamo a divieti, vincoli e limiti giuridici espressamente abrogati può costituire soltanto un’indicazione orientativa di massima
ai fini della verifica di competenza degli Ordini provinciali, considerato che
una rigida applicazione delle norme abrogate, ma ritenute “rispondenti” alla
deontologia medica, significherebbe vanificare del tutto la ratio e le finalità che
la legge n. 248/06 ha inteso perseguire nel settore dei servizi professionali.
La complessità della normativa deontologica in questa materia sta comunque a indicare l’importanza attribuita alla pubblicità sanitaria dagli Organi rappresentativi delle due professioni, che hanno anche costituito un Osservatorio
nazionale sulla pubblicità dell’informazione sanitaria, con compiti di monitoraggio, studio e consulenza su tutti gli aspetti della materia.
Pubblicità dell’informazione sanitaria. Linea-guida inerente
l’applicazione degli artt. 55-56-57 del Codice di Deontologia
medica
1) Premessa
La presente linea-guida in attuazione degli artt. 55-56-57 del Codice di
Deontologia medica è riferita a qualsivoglia forma di pubblicità dell’informazione, comunque e con qualsiasi mezzo diffusa, compreso l’uso di carta
intestata e di ricettari, utilizzata nell’esercizio della professione in forma
individuale o societaria o comunque nello svolgimento delle funzioni di
direttore sanitario di strutture autorizzate.
6. Pubblicità e informazione sanitaria
271
2) Definizioni
Ai fini della presente linea-guida, si intendono:
– Prestatore di servizi: la persona fisica (medico o odontoiatra) o giuridica (struttura sanitaria pubblica o privata) che eroga un servizio sanitario. Nella presente linea-guida si usa la parola “medico” al posto di
“prestatore di servizi”, pur riferendosi ugualmente a persone fisiche o
giuridiche.
– Pubblicità: qualsiasi forma di messaggio, in qualsiasi modo diffuso,
con lo scopo di promuovere le prestazioni professionali in forma singola o societaria. La pubblicità deve essere, comunque, riconoscibile,
veritiera e corretta.
– Pubblicità ingannevole: qualsiasi pubblicità che in qualunque modo,
compresa la sua presentazione, sia idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge, e che, a
causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento.
– Pubblicità comparativa: qualsiasi pubblicità che pone a confronto in
modo esplicito o implicito uno o più concorrenti di servizi rispetto a
quelli offerti da chi effettua la pubblicità.
– Informazione sanitaria: qualsiasi notizia utile e funzionale al cittadino
per la scelta libera e consapevole di strutture, servizi e professionisti.
Le notizie devono essere tali da garantire sempre la tutela della salute
individuale e della collettività.
3) Elementi
costitutivi dell’informazione sanitaria
Il medico su ogni comunicazione informativa dovrà inserire:
– nome e cognome;
– il titolo di medico chirurgo e/o odontoiatra;
– il domicilio professionale.
L’informazione tramite siti Internet deve essere rispondente al DLgs n. 70
del 9 aprile 2003 e dovrà contenere:
– il nome, la denominazione o la ragione sociale;
– il domicilio o la sede legale;
272
Manuale della Professione Medica
– gli estremi che permettono di contattarlo rapidamente e di comunicare
direttamente ed efficacemente, compreso l’indirizzo di posta elettronica;
– l’Ordine professionale presso cui è iscritto e il numero di iscrizione;
– gli estremi della laurea e dell’abilitazione e l’Università che li ha rilasciati;
– la dichiarazione, sotto la propria responsabilità, che il messaggio informativo è diramato nel rispetto della presente linea-guida;
– il numero della partita IVA qualora eserciti un’attività soggetta ad imposta.
Inoltre dovrà contenere gli estremi della comunicazione inviata all’Ordine
provinciale relativa all’autodichiarazione del sito Internet rispondente ai
contenuti della presente linea-guida.
I siti devono essere registrati su domini nazionali italiani e/o dell’Unione
Europea, a garanzia dell’individuazione dell’operatore e del committente
pubblicitario.
4) Ulteriori
elementi dell’informazioni
– I titoli di specializzazione, di libera docenza, i master universitari, dottorati di ricerca, i titoli di carriera, titoli accademici ed eventuali altri
titoli. I titoli riportati devono essere verificabili; a tal fine è fatto obbligo
indicare le autorità che li hanno rilasciati e/o i soggetti presso i quali
ottenerne conferma;
– il curriculum degli studi universitari e delle attività professionali svolte
e certificate anche relativamente alla durata, presso strutture pubbliche
o private, le metodiche diagnostiche e/o terapeutiche effettivamente
utilizzate e ogni altra informazione rivolta alla salvaguardia e alla sicurezza del paziente, certificato negli aspetti quali-quantitativi dal direttore o responsabile sanitario;
– il medico non specialista può fare menzione della particolare disciplina
specialistica che esercita, con espressioni che ripetano la denominazione ufficiale della specialità e che non inducano in errore o equivoco
sul possesso del titolo di specializzazione, quando abbia svolto attività
professionale nella disciplina medesima per un periodo almeno pari alla
durata legale del relativo corso universitario di specializzazione presso
strutture sanitarie o istituzioni private a cui si applicano le norme, in
tema di autorizzazione e vigilanza, di cui all’art. 43 della legge 23 dicembre 1978, n. 833. L’attività svolta e la sua durata devono essere compro-
6. Pubblicità e informazione sanitaria
–
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–
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–
–
273
vate mediante attestato rilasciato dal direttore o dal responsabile sanitario della struttura o istituzione;
nell’indicazione delle attività svolte e dei servizi prestati può farsi riferimento al Tariffario Nazionale o ai Nomenclatori Regionali. L’Ordine valuterà l’indicazione di attività non contemplate negli elenchi di
cui sopra, in modo particolare le cosiddette Medicine e Pratiche non
convenzionali già individuate quale atto medico dalla FNOMCeO e,
comunque, per tali finalità già oggetto di specifiche deliberazioni del
Comitato Centrale. In ogni caso dovranno restare escluse le attività
manifestamente di fantasia o di natura meramente reclamistica, che possono attrarre i pazienti sulla base di indicazioni non concrete o veritiere;
ogni attività oggetto di informazione deve fare riferimento a prestazioni
sanitarie effettuate direttamente dal professionista e, ove indicato, con
presidi o attrezzature esistenti nel suo studio. In ogni caso l’effettiva
disponibilità di quanto necessario per l’effettuazione della prestazione
nel proprio studio costituirà elemento determinante di valutazione della
veridicità e trasparenza del messaggio pubblicitario;
pagine dedicate all’educazione sanitaria in relazione alle specifiche competenze del professionista;
l’indirizzo di svolgimento dell’attività, gli orari di apertura, le modalità
di prenotazione delle visite e degli accessi ambulatoriali e/o domiciliari,
l’eventuale presenza di collaboratori e di personale con l’indicazione dei
relativi profili professionali e, per le strutture sanitarie, le branche specialistiche con i nominativi dei sanitari afferenti e del sanitario responsabile. Può essere pubblicata una mappa stradale di accesso allo studio
o alla struttura;
le associazioni di mutualità volontaria con le quali ha stipulato convenzione;
laddove si renda necessario ai fini della chiarezza informativa e nell’interesse del paziente, il medico utilizza, ove non già previsto, il cartellino
o analogo mezzo identificativo fornito dall’Ordine;
nel caso in cui il professionista desideri informare l’utenza circa le indagini
statistiche relative alle prestazioni sanitarie, deve fare esclusivo riferimento
ai dati resi pubblici e/o e comunque elaborati dalle autorità sanitarie competenti.
274
Manuale della Professione Medica
In caso di utilizzo dello strumento Internet è raccomandata la conformità
dell’informazione fornita ai principi dell’HONCode, ossia ai criteri di qualità dell’informazione sanitaria in rete. Inoltre in tali forme di informazione
possono essere presenti:
– collegamenti ipertestuali purché rivolti soltanto verso autorità, organismi e istituzioni indipendenti (ad esempio: Ordini professionali, Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Servizio Sanitario Regionale, Università, Società Scientifiche);
– spazi pubblicitari tecnici al solo scopo di fornire all’utente utili strumenti per la navigazione (ad esempio: collegamenti per prelevare software per la visualizzazione dei documenti, per la compressione dei
dati, per il download dei files).
5) Regole
deontologiche
Quale che sia il mezzo o lo strumento comunicativo usato dal medico:
– non è ammessa la pubblicità ingannevole, compresa la pubblicazione di
notizie che ingenerino aspettative illusorie, che siano false o non verificabili, o che possano procurare timori infondati, spinte consumistiche
o comportamenti inappropriati;
– non è ammessa la pubblicazione di notizie che rivestano i caratteri di pubblicità personale surrettizia, artificiosamente mascherata da informazione
sanitaria;
– non è ammessa la pubblicazione di notizie che siano lesive della dignità
e del decoro della categoria o comunque eticamente disdicevoli;
– non è ammesso ospitare spazi pubblicitari, a titolo commerciale con particolare riferimento ad aziende farmaceutiche o produttrici di dispositivi o
tecnologie operanti in campo sanitario, né, nel caso di Internet, ospitare
collegamenti ipertestuali ai siti di tali aziende o comunque a siti commerciali;
– per quanto concerne la rete Internet, il sito web non deve ospitare spazi
pubblicitari o link riferibili ad attività pubblicitaria di aziende farmaceutiche o tecnologiche operanti in campo sanitario;
– non è ammessa la pubblicizzazione e la vendita, né in forma diretta,
né, nel caso di Internet, tramite collegamenti ipertestuali, di prodotti,
dispositivi, strumenti e di ogni altro bene o servizio;
6. Pubblicità e informazione sanitaria
275
– è consentito diffondere messaggi informativi contenenti le tariffe delle prestazioni erogate, fermo restando che le caratteristiche economiche di una prestazione non devono costituire aspetto esclusivo del messaggio informativo.
6) Pubblicità
dell’informazione tramite Internet
Per le forme di pubblicità dell’informazione tramite Internet, il professionista dovrà comunicare all’Ordine provinciale di iscrizione (in caso di strutture sanitarie tale onere compete al direttore sanitario) di aver messo in rete
il sito, dichiarando la conformità deontologica alla presente linea-guida.
7) Utilizzo
della posto elettronica
L’utilizzo della posta elettronica (e-mail) nei rapporti con i pazienti è consentito purché vengano rispettati tutti i criteri di riservatezza dei dati e dei
pazienti cui si riferiscono ed in particolare alle seguenti condizioni:
– ogni messaggio deve contenere l’avvertimento che la visita medica
rappresenta il solo strumento diagnostico per un efficace trattamento
terapeutico e che i consigli forniti via e-mail vanno intesi come meri
suggerimenti di comportamento; va altresì riportato che trattasi di corrispondenza aperta;
– è rigorosamente vietato inviare messaggi contenenti dati sanitari di un
paziente ad altro paziente o a terzi;
– è rigorosamente vietato comunicare a terzi o diffondere l’indirizzo di
posta elettronica dei pazienti, in particolare per usi pubblicitari o per
piani di marketing clinici;
– qualora il medico predisponga un elenco di pazienti suddivisi per patologia,
può inviare messaggi agli appartenenti alla lista, evitando che ciascuno destinatario possa visualizzare dati relativi agli altri appartenenti alla stessa lista;
– l’utilizzo della posta elettronica nei rapporti fra colleghi ai fini di consulto è consentito purché non venga fornito il nominativo del paziente
interessato, né il suo indirizzo, né altra informazione che lo renda riconoscibile, se non per quanto strettamente necessario per le finalità diagnostiche e terapeutiche;
– la disponibilità di sistemi di posta elettronica sicurizzati equiparati alla
corrispondenza chiusa, può consentire la trasmissione di dati sensibili
per quanto previsto dalla normativa sulla tutela dei dati personali.
276
8) Utilizzo
Manuale della Professione Medica
delle emittenti radiotelevisive nazionali e locali, di organi di stampa
e altri strumenti di comunicazione e diffusione delle notizie
Nel caso di informazione sanitaria, il medico che vi prende parte a qualsiasi titolo non deve, attraverso lo strumento radiotelevisivo, gli organi di
stampa e altri strumenti di comunicazione, concretizzare la promozione o
lo sfruttamento pubblicitario del suo nome o di altri colleghi. Il medico è
comunque tenuto al rispetto delle regole deontologiche previste al punto 5)
della presente linea-guida. Nel caso di pubblicità dell’informazione sanitaria il medico è tenuto al rispetto di quanto previsto ai punti 3) 4) e 5) della
presente linea-guida.
9) Verifica
e valutazione deontologica
I medici chirurghi e gli odontoiatri iscritti agli albi professionali sono tenuti
al rispetto della presente linea-guida comunicando all’Ordine competente
per territorio il messaggio pubblicitario che si intende proporre onde consentire la verifica di cui all’art. 56 del Codice stesso.
La verifica sulla veridicità e trasparenza dei messaggi pubblicitari potrà essere
assicurata tramite una specifica autodichiarazione, rilasciata dagli iscritti, di
conformità del messaggio pubblicitario, degli strumenti e dei mezzi utilizzati
alle norme del Codice di Deontologia medica e a quanto previsto nella presente linea-guida sulla pubblicità dell’informazione sanitaria.
Gli iscritti potranno altresì avvalersi di una richiesta di valutazione preventiva e precauzionale da presentare ai rispettivi Ordini di appartenenza
sulla rispondenza della propria comunicazione pubblicitaria alle norme del
Codice di Deontologia medica. L’Ordine provinciale, ricevuta la suddetta
richiesta, provvederà al rilascio di formale e motivato parere di eventuale
non rispondenza deontologica.
L’inosservanza di quanto previsto dal Codice secondo gli orientamenti
della presente linea-guida è punibile con le sanzioni comminate dagli organismi disciplinari previsti dalla legge.
La FNOMCeO predisporrà laddove opportuno ulteriori atti di indirizzo e
coordinamento.
7
Gli accertamenti diagnostici
e i trattamenti terapeutici
F. Cembrani, S. Del Vecchio, S. Fucci
edi,
agni
Art. 13 - Prescrizione e trattamento terapeutico
La prescrizione di un accertamento diagnostico e/o di una terapia impegna la
diretta responsabilità professionale ed etica del medico e non può che far seguito
ad una diagnosi circostanziata o, quantomeno, a un fondato sospetto diagnostico.
Su tale presupposto al medico è riconosciuta autonomia nella programmazione, nella scelta e nella applicazione di ogni presidio diagnostico e terapeutico, anche in regime di ricovero, fatta salva la libertà del paziente di
rifiutarle e di assumersi la responsabilità del rifiuto stesso.
Le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche tenuto conto dell’uso appropriato delle risorse,
sempre perseguendo il beneficio del paziente secondo criteri di equità.
Il medico è tenuto a un’adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei
farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e delle reazioni
individuali prevedibili, nonché delle caratteristiche di impiego dei mezzi diagnostici e terapeutici e deve adeguare, nell’interesse del paziente, le sue decisioni ai dati scientifici accreditati o alle evidenze metodologicamente fondate.
Sono vietate l’adozione e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici
non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e
documentazione clinico-scientifica, nonché di terapie segrete.
Art. 23 - Continuità delle cure
Il medico deve garantire al cittadino la continuità delle cure.
In caso di indisponibilità, di impedimento o del venir meno del rapporto di
fiducia deve assicurare la propria sostituzione, informandone il cittadino.
278
Manuale della Professione Medica
Il medico che si trovi di fronte a situazioni cliniche alle quali non sia in grado
di provvedere efficacemente, deve indicare al paziente le specifiche competenze necessarie al caso in esame.
Il medico non può abbandonare il malato ritenuto inguaribile, ma deve continuare ad assisterlo anche al solo fine di lenirne la sofferenza fisica e psichica.
La prescrizione dei farmaci
Il medico, nella sua attività clinica, entra in relazione con singole persone
ognuna delle quali si caratterizza per una complessa identità che ricapitola in
sé non solo la variabilità biologica ma anche altri peculiari elementi della sua
realtà fisica, soggettiva, esistenziale, culturale e sociale. L’idea della vita, i valori
e la spiritualità sono diversi nei vari individui così come il concetto di salute
o di benessere e quello di malessere o di malattia, di guarigione e di trapasso.
Il paziente, nel raccontare al medico la propria “storia di malattia”, descrive
il significato soggettivo che i segni e i sintomi hanno per lui, esprime i suoi
stati d’animo, le sue esperienze interiori, spesso distorte dalla sofferenza, e
comunica le sue aspettative per il futuro. Questi elementi di divaricazione fra
la malattia come viene vissuta dalla persona e quella che il medico si impegna
a indagare e a trattare rendono non univoco il trasferimento della conoscenza
medica nella pratica e obbligano ad una continua rielaborazione dei suoi contenuti attraverso un confronto con il sentire e con la cultura del paziente.
La variabilità dei bisogni e delle aspettative della persona implica la necessità continua di scomposizione e ricomposizione della techne del medico in
un processo di adattamento della conoscenza scientifica alla soggettività delle
persone e alla molteplicità di presentazione delle malattie mantenendo inalterata la capacità relazionale in un rapporto di condivisione esistenziale e di
comunicazione autentica.
La scelta terapeutica
Le attese del paziente
Il paziente percepisce la malattia come una ferita psicofisica irrimediabile e
talora insopportabile della propria integrità che lo rende insicuro e timoroso
perché avverte che su di lui incombono disabilità, sofferenza e morte. Per
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
279
questo, si rivolge fiducioso al medico consapevole delle sue abilità e del fatto
che la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica mettono a disposizione
sempre nuove opportunità per migliorare gli esiti di molte malattie. Al tempo
stesso chiede al medico di essere considerato come una persona sofferente
intensamente bisognosa di compassione, di altruismo e di empatia e non come
un oggetto passivo sul quale riversare il suo sapere scientifico.
Infine, auspica e pretende che il medico pratichi la sua professione senza
condizionamenti e conflitti che compromettano la sua autonomia decisionale.
L’alleanza terapeutica
Gli orientamenti prescrittivi del medico sono influenzati dalla sua preparazione, dall’esperienza clinica, dalle suggestioni scientifiche, dalla mole d’informazioni disponibili, dai nuovi farmaci e dal desiderio di provarli. L’alleanza
terapeutica si stabilisce all’atto della prescrizione di un trattamento, adatto alle
specifiche esigenze del soggetto, allo scopo di migliorare o di ripristinare lo
stato di benessere o di salute. La scelta è resa spesso più complessa dalla concomitanza di più patologie croniche, dai problemi psicologici e relazionali lavorativi e famigliari e dai fattori emotivi e culturali variamente intrecciati e combinati fra loro. Il processo relazionale bidirezionale che instaura con il paziente
vincola il medico a prescrivergli ciò che è più confacente secondo scienza ed
etica alle sue necessità e alla condizione biologica ed esistenziale nella quale si
trova. Per questo tutto quanto appare utile per il bene del paziente diventa per
il medico un mezzo che, rinforzando l’alleanza terapeutica, alimenta il processo di cura e di autocura.
I condizionamenti del medico
Stabilire un rapporto di feconda comunicazione bidirezionale nella fase
di definizione e di successiva gestione della scelta è indispensabile perché
l’esito della prescrizione non dipende solo dai contenuti scientifici ma anche
dall’interazione fra il sistema di valori, verità, sensibilità, convinzioni e credenze del medico con quelle del paziente. La cura, sebbene sia scientificamente definita è, al tempo stesso, culturalmente aperta perché il farmaco deve
essere “pensato” considerando tutti gli aspetti della vita di una persona che
vanno oltre la realtà biologica del corpo vivente e della malattia. Il medico,
attraverso la sua persona fisica, la sua cultura, la sua capacità relazionale ed
280
Manuale della Professione Medica
empatica, diventa prescrizione di se stesso ed elemento decisivo dell’esito del
trattamento. L’attenzione alla personalità del malato, alle condizioni del suo
vivere, alla sua volontà di guarigione e al suo progetto di vita permette di
dispiegare pienamente l’azione del farmaco che diventa mezzo ed espressione
del “prendersi cura” da parte del medico. Il farmaco è un investimento affettivo, una promessa variamente modulata nella cultura delle diverse persone,
una parola “magica”, un incantesimo biologico o un “miracoloso tocco salvifico”. Questo aspetto, difficilmente accessibile alla quantificazione e all’oggettivazione, presenta dei correlati neurobiologici corrispondenti agli effetti
del placebo che, mentre devono essere neutralizzati nell’ambito della ricerca
sulla efficacia dei farmaci nelle popolazioni, diventano un utile elemento che si
genera nel contesto della relazione di cura dei singoli casi. Abdicare alla forza
della comunicazione favorisce invece l’accesso al farmaco come dispendioso
surrogato e scorciatoia puramente chimica della relazione con il paziente e
della cura. La responsabilità condivisa della scelta permette di estendere il processo terapeutico, attraverso il conseguimento del benessere del singolo, al
bene della società. L’atto prescrittivo coinvolge il medico nella responsabilità
della gestione di risorse economiche attribuendo preziose valenze civili ed etiche
al suo operato che, per essere orientato al bene comune, deve considerare l’uso
appropriato delle risorse.
La prescrizione nelle cure primarie
Nell’assistenza primaria prevalgono patologie sfumate spesso autolimitantesi e di breve durata. Il quadro clinico appare spesso caratterizzato da una
costellazione di segni e sintomi indifferenziati e disorganizzati e di disturbi
nei quali elementi fisici, funzionali, psichici, sociali e comportamentali sono
variamente intrecciati ed embricati fra loro. Spesso la malattia è osservata nella
sua fase iniziale prima che il quadro clinico possa mostrarsi in tutta la sua
completezza. Le situazioni più sfumate di malessere o di disagio soggettivo
prevalgono sulle malattie nosograficamente definite. Il paziente ha un suo
“modello profano di malattia” che condiziona il potere di negoziazione che
esercita nel corso della consultazione con il medico. Il medico di famiglia deve
spesso semplicemente comunicare ai pazienti che si aspettano un rimedio per
ogni sintomo, che molti disturbi si autolimitano e non richiedono alcun intervento farmacologico. Le prescrizioni finalizzate a soddisfare il bisogno psicologico e di
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
281
rassicurazione di chi la richiede e di chi la prescrive, sono spesso insoddisfacenti, potenzialmente a rischio di reazioni avverse e fonte di sterile dilatazione
della spesa. Anche quando la diagnosi è accurata e il trattamento univoco e
universalmente accettato, non devono essere trascurati gli aspetti soggettivi del
paziente e la relazione medico-paziente per evitare che una scarsa accettabilità
e adesione al trattamento possano depotenziarne o vanificarne l’efficacia.
La conoscenza scientifica come base della terapia
La terapia fonda preferibilmente le previsioni sugli esiti che i trattamenti
potranno avere nei singoli pazienti sulle conoscenze derivate dalla sperimentazioni clinica.
Il RCT (Randomized Controlled Clinical Trial) ben disegnato e condotto rappresenta lo strumento metodologicamente più valido per ottenere la prova,
entro i limiti di probabilità assegnati, che un trattamento è in grado di modificare favorevolmente il decorso naturale di una malattia in termini di riduzione
della mortalità per tutte le cause e della morbilità causa specifica. La terapia è, al
tempo stesso una disciplina storica o idiografica giacché trasferisce le conoscenze
di carattere generale, ricavate su popolazioni selezionate, al singolo individuo
che è un universo a sé stante, diverso da tutti gli altri, portatore di una storia
localizzata nel tempo e nello spazio. La terapia è pertanto una scienza tecnologica
e storica che realizza una sintesi fra i contenuti della conoscenza scientifica e le
peculiarità della storia e della realtà clinica dell’individuo per decidere qual è la
strada migliore da seguire per lui.
Il RCT si colloca all’apice della gerarchia delle prove di efficacia (Tabella
7.1) perché, rispetto ad altri disegni di studio, si caratterizza per un rigore
metodologico nelle fasi di pianificazione, conduzione e analisi dei risultati che
rendono minimo l’effetto dei bias. Il bias o distorsione, è un errore sistematico
che, introdotto consapevolmente o inconsciamente in qualsiasi stadio dell’inferenza, modifica una o più condizioni dell’esperimento in modo tale da condurre a conclusioni diverse da quelle verso le quali si dirigerebbe se l’unica
differenza fra i gruppi fosse rappresentata dai trattamenti a confronto.
Gli strumenti metodologici adottati nella progettazione degli studi per
tenere sotto controllo e ridurre al minimo gli errori sistematici comprendono la
randomizzazione, la cecità, i criteri d’inclusione e di esclusione, la completezza
del follow-up e l’analisi dei risultati con l’approccio intention-to-treat. La randomiz-
282
Manuale della Professione Medica
zazione è una procedura che garantisce a tutti i pazienti la stessa probabilità
di essere assegnati a uno qualunque dei gruppi di trattamento a confronto.
L’assegnazione casuale, se la numerosità del campione è adeguata, permette
che i fattori che influiscono sulla prognosi (ad esempio sesso, età, gravità della
malattia, fattori di rischio, patologie concomitanti) e tutti gli altri fattori, la cui
natura e identità non sono conosciute, si distribuiscano omogeneamente fra i
gruppi di trattamento. Rappresenta inoltre la conditio sine qua non per l’applicazione delle inferenze statistiche che permettono di stabilire il rapporto causaeffetto fra il trattamento in studio e i risultati ottenuti. Gli studi ben disegnati
e realizzati da ricercatori qualificati in condizioni organizzativo-assistenziali
ottimali che confrontano il trattamento attivo con il placebo o contro il trattamento di riferimento su popolazioni molto selezionate e omogenee (ad es.
limitando l’arruolamento a ristretti ambiti di gravità della malattia, eliminando
i pazienti più “complessi” per comorbilità e/o polifarmacoterapia, oppure i
soggetti in condizioni generali scadute, gli anziani, le donne in gravidanza o
che allattano e i bambini), si caratterizzano per un’elevata validità interna che
dimostra l’efficacia del trattamento in condizioni sperimentali ideali (efficacy).
Le conclusioni degli studi di efficacy sono generalizzabili esclusivamente a
pazienti simili a quelli ammessi allo studio che sono però scarsamente rappresentativi dell’universo dei pazienti affetti dalla malattia. Pertanto la loro validità
esterna , ossia la trasferibilità delle loro conclusioni a popolazioni differenti e
in contesti assistenziali diversi, è molto limitata. Gli studi di effectiveness (Tabella
7.2) valutano invece l’efficacia dei trattamenti in popolazioni molto più simili
a quelle che s’incontrano nelle condizioni assistenziali correnti. I pragmatic trial
si prefiggono di dimostrare se un trattamento dotato di efficacy è anche efficace
in condizioni assistenziali simili al setting dell’assistenza primaria (effectiveness).
Questi studi hanno criteri di inclusione meno selettivi che rendono i pazienti
arruolati molto simili a quelli della pratica corrente, confrontano regimi terapeutici più flessibili e gli sperimentatori che li eseguono operano in modo comparabile a quello che vige nella realtà assistenziale abituale. Le conclusioni dei
pragmatic trial sono però più facilmente generalizzabili ai pazienti esterni agli
studi. È spesso difficile tracciare una linea netta di demarcazione fra studi di
efficacy e di effectiveness. In effetti, quasi sempre coesistono nello stesso studio
caratteristiche di entrambe le metodiche che risultano di volta in volta più o
meno accentuate. Per questo motivo, per valutare la generalizzabilità o validità
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
283
esterna di un trial, è necessario verificare quanto l’eccesso di validità interna ne
restringa l’applicabilità ai pazienti del “mondo reale”. Nella modalità di analisi
dei risultati di uno studio con l’approccio statistico intention-to-treat viene considerato il numero di eventi osservati in ciascun braccio rispetto a tutti i pazienti
randomizzati, senza tener conto dell’adesione al protocollo. In questo modo
viene fornita una valutazione più realistica dell’efficacia del trattamento perché
più attinente alla pratica clinica corrente nell’ambito della quale è frequente
l’inosservanza del programma terapeutico.
Efficienza farmacologica, efficacia clinica
Gli end point degli studi clinici più rilevanti per la pratica terapeutica sono
rappresentati dalla riduzione della mortalità per tutte le cause, dal prolungamento della sopravvivenza, dalla riduzione degli eventi clinici legati alle complicanze indotte dalla malattia di base (ad es. infarto, reinfarto, ictus, fratture
ecc.), dalla capacità del paziente di mantenere uno stile di vita attivo (assenza
di limitazione dell’autonomia e di disabilità), dalla qualità della vita e da un
minore ricorso al ricovero ospedaliero o alla chirurgia. I trials che studiano gli
end point clinici sono definiti terapeutici o di efficacia clinica. Gli studi che adottano
parametri di efficienza farmacologica, surrogati rispetto a quelli primari o clinici,
ad es. l’aumento della massa ossea e non l’incidenza di fratture, la riduzione
della pressione arteriosa o del colesterolo piuttosto che una minore incidenza
degli eventi cardiovascolari fatali e non fatali, sono detti conoscitivi o di efficienza
farmacologica e portano a conclusioni più fragili.
Infatti, nonostante le loro conclusioni appaiano spesso ragionevolmente affidabili alla luce delle conoscenze dei meccanismi fisiopatologici della malattia e
delle osservazioni epidemiologiche, non sempre esiste un rapporto lineare fra
l’end point surrogato e quello primario e quindi non sono necessariamente predittivi della capacità di ridurre l’incidenza degli eventi clinici che s’intende prevenire
o rimandare. Quindi una valutazione della rilevanza di un RCT può essere fatta
considerando alcuni criteri essenziali che sono riassunti nella Tabella 7.3.
Per dimostrare l’efficacia “nel mondo reale”, sono spesso disegnati studi di
tipo osservazionale che, rispetto ai trials, occupano un livello inferiore nella gerarchia delle evidenze (Tabella 7.4). I risultati degli studi osservazionali devono essere
valutati con la dovuta circospezione perché tendono a sovrastimare quasi sempre
l’efficacia dei trattamenti e spesso non sono confermati da studi sperimentali.
284
Manuale della Professione Medica
Terapia ed EBM
La medicina basata sulle prove di efficacia (Evidence Based Medicine, EBM)
propone che le decisioni cliniche, nell’assistenza al singolo paziente, devono
risultare dall’integrazione tra l’esperienza del medico e l’utilizzo coscienzioso,
esplicito e giudizioso delle migliori prove di efficacia scientifiche disponibili,
nel rispetto dell’autonomia del medico e delle preferenze del paziente. L’EBM
vincola il medico a fondare le sue scelte su criteri scientifici, oggettivi e riproducibili per evitare che utilizzi pratiche e cure superate, inutili o più dannose
di quelle che un’accurata analisi della letteratura potrebbe consentire. I risultati
dei RCT possono essere esaminati nella loro globalità in revisioni sistematiche
spesso combinate in una metanalisi che fornisce una stima complessiva e quantitativa dell’efficacia di un trattamento. Questa modalità di analisi non può tuttavia correggere la qualità e l’eterogeneità dei dati che esamina e che include, e,
quindi non tutte le conclusioni delle metanalisi garantiscono il massimo livello
di evidenza (Tabella 7.4). La qualità dei risultati di una metanalisi è condizionata dal rigore metodologico e dai procedimenti statistici adottati. La letteratura
scientifica è pletorica e in larga misura irrilevante per la pratica clinica. Il medico
riceve informazioni spesso discordanti che potrebbe valutare autonomamente
e in modo critico solo se dotato di una preparazione tale da consentirgli di identificare gli articoli scientifici o le metanalisi di buona qualità e di comprendere la
loro rilevanza per la pratica clinica. Non essendo realistico pensare di insegnare
a tutti i medici come ricercare e interpretare RCT e metanalisi, assume grande
importanza pratica la letteratura secondaria rappresentata da sintesi strutturate
e commentate di facile e rapida consultazione dei principali RCT e delle metanalisi più attuali redatte da parte di esperti indipendenti. Da notare che articoli
scientifici, consensus conferences, editoriali, consigli di colleghi, informatori farmaceutici, linee-guida possono contenere in misura maggiore o minore errori
sistematici o essere gravate da pesanti conflitti d’interesse.
L’analisi dei comportamenti prescrittivi indica spesso l’esistenza di una
“sintonia” fra il comportamento prescrittivo e gli obiettivi di mercato delle
industrie. Esiste un’inconsapevolezza diffusa nei medici del fatto che i messaggi promozionali e le ricompense di vario tipo inducono pregiudizi e perdita
dell’autonomia di giudizio. Non tutti conoscono e apprezzano la metafora del
porcospino. Una novella inglese narra la vita di questi animali durante il freddo
inverno. I porcospini, nelle loro tane, si avvicinano l’un l’altro per scaldarsi.
285
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
Sono però consapevoli del fatto che, se l’abbraccio diventa troppo stretto, si
pungono. Anche medici e industria hanno bisogno l’uno dell’altro, ma, se si
avvicinano troppo, rischiano di compromettere la reciproca integrità e libertà.
In molte aree della medicina non esistono ricerche di buona qualità e
numerose e ampie sono le zone grigie nelle quali non è possibile assumere decisioni corroborate da solide dimostrazioni scientifiche. Nella pratica corrente i
trattamenti prescritti sono solo in parte basati su prove di efficacia convincenti
e spesso fanno riferimento a evidenze più fragili o incerte. Trattamenti, basati
su conoscenze di fisiopatologia e di farmacologia, possono essere considerati
efficaci nella pratica clinica se sono stati confermati da un’esperienza diretta
vasta e condivisa. Si tratta di una circostanza (Tabella 7.4) che risponde al
criterio all or none che fa riferimento alle condizioni cliniche nelle quali tutti i
pazienti non trattati muoiono e una parte di quelli trattati sopravvive, oppure,
una parte dei pazienti non trattati muore e tutti quelli trattati sopravvivono
(livello di evidenza 1c). Infine, nelle condizioni in cui non sono disponibili trattamenti in grado di modificare la storia naturale della malattia, tutti gli interventi devono mirare a limitare la sofferenza.
Tabella 7.1. Gerarchia dei disegni degli studi
Disegno
dello studio
Più
forti
Descrizione
Assegnazione casuale
Esperimento
randomizzato, ai gruppi di trattamento
a confronto, follow-up
controllato
prospettico per misurare
gli esiti clinici
Studi clinici
controllati
ma non
randomizzati
Assegnazione non
casuale dei pazienti ai
gruppi di intervento e
di controllo, follow-up
prospettico per misurare
gli esiti clinici
Vantaggi
Svantaggi
Distribuisce le
caratteristiche dei
partecipanti oggetto di
misurazione e quelle non
soggette a misurazione
in modo omogeneo fra
i gruppi a confronto
• Necessita di molto tempo
• Consuma molte risorse
• Difficoltà a ottenere
il consenso alla
partecipazione allo
studio
La misurazione
prospettica degli
outcome rappresenta
un punto di forza
• L’assegnazione
non at random può
rappresentare un bias
• I paziente con maggiori
probabilità di risposta
potrebbero essere
assegnati preferibilmente
nel gruppo intervento
286
Disegno
dello studio
Più
deboli
Manuale della Professione Medica
Descrizione
Vantaggi
Studi di coorte Gruppi di pazienti
prospettici
che ricevono il
trattamento di interesse
o quello di controllo
indipendentemente
dall’intervento attivo
dello sperimentatore,
seguiti prospetticamente
per studiare gli esiti
clinici
La valutazione
prospettica degli
outcome rappresenta
un punto di forza
Studi di coorte Studia gruppi di
retrospettivi
pazienti che hanno
ricevuto il trattamento di
interesse o il controllo
indipendentemente
dall’intervento attivo
dello sperimentatore
e determina
retrospettivamente se
hanno presentato gli esiti
clinici di interesse
Può essere concluso
rapidamente perchè gli
outcome si sono già
verificati.
Svantaggi
• Bias: le caratteristiche
cliniche dei pazienti
influenzano il trattamento
che ricevono
• Spesso presenti fattori
di confondimento
Studi
caso-controllo
Studia 2 gruppi di pazienti
dei quali uno ha avuto
l’outcome di interesse
(casi) e l’altro che non lo
ha presentato (controlli)
valutando la proporzione
in ciascun gruppo di
coloro che hanno ricevuto
il trattamento oggetto di
studio
Serie di casi
Descrizione degli esiti in
•
singoli pazienti o in serie
di pazienti che hanno
•
ricevuto un trattamento
particolare
• Bias: le caratteristiche
cliniche dei pazienti
influenzano il trattamento
che ricevono
• Sono spesso presenti
fattori di confondimento
• La valutazione
retrospettiva degli
outcome è spesso
difficile
• Possibile bias di
• Possono essere
memoria riguardo
ultimati rapidamente
l’esposizione
perché non si
devono attendere
gli esiti
• Utili quando
l’outcome di
interesse è raro
• Assenza del gruppo
di controllo e numeri
piccolo che impediscono
di testare ipotesi
Utili per individuare
le reazioni avverse
Generano ipotesi
di ricerca
287
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
Tabella 7.2. Differenze tra studi clinici di efficacy e di effectiveness
Studio di efficacy
Studio di effectiveness
Disegno
dello studio
RCT
RCT, studi osservazionali caso-controllo
e di coorte
Assegnazione
dei pazienti
Randomizzata
Randomizzata (RCT), decisa dal curante
(studi osservazionali)
Setting
Standard organizzativo-assistenziali
ideali (Università, ospedali, istituti di
ricerca)
Contesto assistenziale “reale”, cure primarie
Professionisti
ricercatori
Specialisti con addestramento ed
esperienza elevati
Medici delle cure primarie
Popolazione
Più omogenea
Più eterogenea
Pazienti
Altamente selezionati e motivati
Esclusione dei pazienti complessi
Praticamente tutti
Criteri di esclusione limitati
Trattamento
di controllo
Placebo o terapia standard
Qualsiasi, anche assenza di trattamento
o trattamento non farmacologico
Modalità di
trattamento
Definite da un protocollo rigoroso
(più standardizzate)
Più variabili e flessibili secondo i criteri della
pratica corrente
Misure di esito
Surrogate (modifiche di parametri
strumentali e di laboratorio) o
clinicamente rilevanti (morbilità
e mortalità)
Cliniche (morbilità e mortalità)
Soggettive del paziente
Costi diretti e indiretti, individuali e sociali
Attendibilità
Elevata per outcomes clinici
Elevata per outcomes soggettivi
Conclusioni
Causalità
Causalità (RCT), associazioni, correlazioni
e stime (studi osservazionali)
Validità interna
Elevata
Inferiore
Validità esterna
Inferiore
Elevata e rilevante per il paziente
Fornisce indicazioni per l’allocazione delle
risorse
Generalizzabilità
Limitata ad una popolazione
specifica e selezionata
Ampia per molti pazienti
Costi di esecuzione Generalmente alti
Variabili, ma relativamente bassi
288
Manuale della Professione Medica
Tabella 7.3. Domande per stabilire la rilevanza terapeutica delle conclusioni di uno studio.
1. Qual è l’obiettivo dello studio (end point clinico o surrogato)?
2. Qual è il disegno dello studio (sperimentale o osservazionale)?
3. Quale intervento o terapia è stata studiato?
4. I ricercatori hanno tenuto sotto controllo i fattori di confondimento?
5. In che modo è stato selezionato il campione studiato?
6. Chi sono i soggetti studiati e sono stati seguiti tutti fino al termine dello studio?
7. I risultati sono stati analizzati per l’intention to treat?
8. I risultati dello studio sono clinicamente significativi?
Tabella 7.4. Livelli di efficacia delle evidenze scientifiche
Livello di
evidenza
1a
1b
1c
2a
2b
2c
3a
3b
4
5
Tipo di studi dai quali è stata ottenuta la validità delle prove di efficacia
Metanalisi di RCT senza eterogeneità*
Singolo RCT con intervallo di confidenza ristretto
Criterio all or none (tutti o nessuno): prima della disponibilità del trattamento tutti i pazienti
morivano o peggioravano mentre con il nuovo trattamento una parte sopravvive o migliora;
oppure: una parte dei pazienti non trattati muoiono o peggiorano mentre nessuno fra quelli
che seguono la nuova terapia muore o peggiora
Una metanalisi con omogeneità* di studi di coorte
Almeno uno studio di coorte di qualità elevata o un RCT di bassa qualità (ad es. quelli con
follow-up in meno dell’80%)
Studi post-marketing di outcome
Una metanalisi con omogeneità* di studi caso-controllo
Singolo studio caso-controllo di qualità elevata
Almeno una serie di casi di qualità elevata
(o studi di coorte e caso-controllo di scarsa qualità)
Opinione di esperti, senza riferimento a una delle evidenze dei livelli precedenti, basata sulla
fisiopatologia o su ricerche di base o su principi generali
*omogeneità: si riferisce a studi numerosi che forniscono stime ampiamente concordanti per l’effetto del trattamento.
Le raccomandazioni basate su quest’approccio si applicano al paziente “normale” e possono essere modificate
alla luce delle caratteristiche individuali e alle preferenze del paziente.
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
289
La prescrizione tra linee-guida ed esigenze di personalizzazione
Le linee-guida (LG), elaborate attraverso un processo di analisi sistematica delle migliori prove di efficacia disponibili in letteratura, sono uno strumento di sintesi delle conoscenze scientifiche che definisce raccomandazioni
di comportamento clinico per assistere il medico nella gestione più appropriata
della prevenzione, della diagnosi e della terapia nel singolo paziente. Le LG di
buona qualità si caratterizzano per la flessibilità e per la buona adattabilità al
contesto clinico e alle peculiarità dei diversi pazienti. Il medico non deve interpretare rigidamente le LG né applicarle senza tener conto delle caratteristiche
e delle esigenze personali dei singoli pazienti. Dato che le raccomandazioni
sono di tipo probabilistico, raramente possono riguardare tutti i pazienti e le
varie situazioni cliniche.
Le LG vanno viste come un aiuto alle decisioni cliniche e non come un
fattore vincolante e limitante la libertà clinica, può essere lecito e doveroso
discostarsi in maniera motivata da quanto suggerito da una LG.
La qualità e l’affidabilità delle raccomandazioni di una LG può essere condizionata dai limiti metodologici o dall’eterogeneità dei risultati degli studi sui
quali si basa. In questi casi deve essere valutato il rischio che sia lasciato troppo
spazio alle interpretazioni fisiopatologiche o alle opinioni e all’esperienza personale dei componenti del gruppo di stesura. Infine, le LG possono essere
condizionate da conflitti d’interesse che possono riguardare in varia misura il
medico, gli amministratori pubblici o le Società Scientifiche. Le LG esistenti
sono di qualità molto diversa, talora sono troppo complicate da seguire e
devono essere sempre adattate al contesto assistenziale nel quale si opera.
Il processo terapeutico
La terapia consiste nell’assegnazione degli interventi – farmacologici, chirurgici, psicoterapeutici o di altra natura (stili di vita, abitudini voluttuarie,
dieta) – convenientemente adattati alle specifiche esigenze e alle caratteristiche individuali, allo scopo di conservare la salute, di ripristinare uno stato di
benessere, di alleviare le sofferenze o di correggere le disabilità. La prescrizione di farmaci è condizionata dal fatto che essi non sono efficaci in tutti i
casi nei quali sono indicati e non sono sempre adattabili alle caratteristiche
del singolo soggetto.
290
Manuale della Professione Medica
La terapia può essere:
1) etiologica o risolutiva: fa ottenere la guarigione eliminando l’agente causale;
2) fisiopatologica e/o patogenetica: modifica la situazione indotta dalla
malattia prevenendo complicazioni e ritardando progressione e ricadute
senza eliminare la causa;
3) sintomatica: risolve o attenua le manifestazioni della malattia senza interferire con le sue cause;
4) profilattica o preventiva: previene l’insorgere o il progredire di una malattia;
5) riabilitativa: corregge le disabilità;
6) palliativa: allevia le manifestazioni della malattia senza influenzarne il decorso.
Il processo decisionale da seguire nella scelta terapeutica prevede una serie
di valutazioni successive e ordinate in una sequenza razionale:
1) Formulare, se possibile, la diagnosi: l’obiettivo è di prescrivere nella
misura maggiore possibile per diagnosi e non per sintomi il cui trattamento
è peraltro più appropriato se avviene dopo averne individuate le cause. Se
una terapia espone a gravi reazioni avverse è necessario avere un livello di
certezza della diagnosi elevato. La soglia di probabilità diagnostica può essere
più bassa nel caso di terapie meno impegnative. In condizioni di gravità clinica può essere necessario iniziare un trattamento senza attendere gli esiti di
ulteriori indagini se il suo prevedibile effetto favorevole supera ampiamente
i rischi o i danni che deriverebbero dalla sua mancata adozione. Lo stesso
atteggiamento è giustificato se un test di conferma diagnostica richiede una
procedura invasiva, di non facile realizzazione o se la disponibilità del risultato richiede un’attesa troppo lunga. Viceversa una diagnosi precisa è indispensabile quando sia disponibile un trattamento altamente specifico ma
inefficace in altre patologie. La definizione della diagnosi consente di sapere
quali sono le probabilità di risoluzione spontanea del quadro clinico, di valutare i rischi che il paziente corre in assenza di terapia e di ponderare i benefici
e i rischi degli interventi terapeutici possibili. Se anamnesi e dati clinici sono
insufficienti a formulare una diagnosi precisa e l’approfondimento diagnostico è di difficile programmazione o d’incerta definizione, si può ricorrere
a un trattamento “ragionato”. L’adozione del criterio dei remedia ex adjuvantibus indica la decisione di intraprendere una terapia non suffragata da prove
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
291
cliniche. La prescrizione di una terapia ex adjuvantibus è lanciata come una
sonda diagnostica per confermare o escludere l’ipotesi formulata. Il medico
aggira l’ostacolo avvalendosi della complicità del paziente al quale espone i
vantaggi possibili e i limiti oggettivi del tentativo proposto che potrebbe rivelarsi inidoneo a formulare la diagnosi e/o a risolvere il problema. Tuttavia, in
caso di successo, l’esito favorevole potrebbe essere attribuito all’efficacia del
trattamento a conferma del sospetto diagnostico, ma potrebbe anche trattarsi di una guarigione spontanea indipendente dalla cura somministrata. Una
risposta favorevole solo sui sintomi potrebbe però procrastinare inutilmente
e pericolosamente la diagnosi vera con possibili ripercussioni negative sulla
prognosi. Questo rischio va attentamente valutato prima di procedere con il
criterio ex adjuvantibus.
2) Definire gli obiettivi del trattamento: significa identificare gli outcomes
clinicamente significativi che permettono di selezionare adeguatamente
i trattamenti capaci di far raggiungere gli esiti attesi. Il requisito chiave
dell’efficacia fa riferimento alla capacità di un trattamento di modificare in
senso favorevole la storia naturale della malattia prolungando la sopravvivenza e/o migliorando la qualità della vita.
3) Definire l’approccio terapeutico: significa decidere qual è il modo migliore
per raggiungere gli obiettivi che si sono stabiliti. In prima istanza deve essere
esaminata la possibilità di adottare un trattamento farmacologico o non farmacologico. L’approccio terapeutico deve sempre ricomprendere l’educazione all’autogestione della malattia, l’allontanamento dei fattori scatenanti,
le modificazioni dello stile di vita (esercizio fisico, uso di sostanze psicotrope,
fumo di sigaretta) e della dieta. Tutti questi interventi possono anche essere
in grado di risolvere da soli il problema senza ricorrere ai farmaci. Anche la
sospensione di farmaci che il paziente sta assumendo può essere utile. Le
probabilità di successo di un trattamento farmacologico sono sempre utilmente integrate dai trattamenti non farmacologici e dalle modificazioni degli
stili di vita. Inoltre gli obiettivi terapeutici sono spesso più efficacemente perseguiti associando al trattamento principale altri farmaci che concorrono a
ridurre il peso degli altri fattori di rischio sugli esiti della malattia.
4) Selezionare la classe di farmaci: per ogni obiettivo terapeutico possono essere disponibili classi farmacologiche diverse. I b-bloccanti,
ad esempio, hanno dimostrato di possedere l’effetto farmacologico di
292
Manuale della Professione Medica
ridurre la pressione arteriosa, ma altri farmaci antipertensivi hanno dimostrato di essere più efficaci nel ridurre l’incidenza di ictus, infarto miocardico e mortalità per eventi cardiovascolari, soprattutto negli anziani.
Pertanto i b-bloccanti non possono essere considerati farmaci di prima
linea nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. Tuttavia, nei soggetti di
età superiore a 60 anni che già assumono altri due o tre farmaci per la
pressione arteriosa elevata e non riescono ad avere un buon controllo,
un b-bloccante può essere aggiunto come terza o quarta molecola se
necessario. Per contro se oltre alla pressione elevata ci si trova di fronte
a pazienti portatori di malattia coronarica o di scompenso cardiaco i
b-bloccanti possono essere farmaci di prima scelta. In un paziente che
presenti ipertensione arteriosa e angina stabile, i b-bloccanti hanno dimostrato di essere superiori ai calcioantagonisti.
5) Scegliere il farmaco più adatto all’interno della classe di appartenenza: sebbene i farmaci siano suddivisi in classi terapeutiche è inesatto
e ingiustificato asserire l’esistenza di un effetto di classe secondo il quale tutti
i componenti di una classe sono equivalenti e quindi intercambiabili. Ogni
classe comprende più farmaci con caratteristiche simili dei quali devono
essere conosciute l’efficacia e la tollerabilità per valutare i benefici attesi e i
rischi da correre per ottenerli. Anche nella scelta di un farmaco all’interno
di una classe, deve essere preferito il criterio dell’efficacia e della tollerabilità della singola molecola documentato da studi su end points clinici di
morbilità e mortalità, spesso disponibili solo per alcuni di essi e solo raramente derivati da studi di confronto. Inoltre, pur essendo molecole simili,
differenze salienti riguardanti gli aspetti farmacocinetici e farmacodinamici
potrebbero influire sugli effetti terapeutici.
6) Definire la dose e il regime terapeutico: sebbene in molti casi si faccia riferimento alle dosi standard come ad esempio nel caso degli inibitori di
pompa protonica o negli antiaggreganti piastrinici, non è bene usare il farmaco alla stessa dose e col medesimo regime terapeutico in tutti i casi ma alla
posologia che garantisca il raggiungimento della concentrazione adeguata nel
sito di azione e per il tempo necessario in modo da garantire la produzione
dell’effetto terapeutico. Per questi motivi la posologia, data la variabilità interindividuale, deve essere adattata al singolo paziente e modificata nel corso
del trattamento, se necessario, per ottenere le risposte desiderate.
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
293
7) Personalizzare il trattamento: la gravità della malattia, la farmacocinetica, la
farmacodinamica e le condizioni individuali (età, gravidanza, allattamento o epoche feconde della vita, rischio lavorativo, stile e ambiente di vita, comorbilità) impongono scelte più personalizzate specialmente in presenza di
alterazioni funzionali dei recettori o degli organi deputati all’escrezione
dei farmaci. Devono, inoltre, essere evitate le interazioni farmacologiche
sfavorevoli e ponderato il rischio di reazioni avverse in relazione alla probabilità che hanno di verificarsi e alla loro potenziale gravità. I benefici
probabili e il profilo di tollerabilità del trattamento devono essere infine
confrontati con l’accettabilità e la fruibilità da parte del paziente. A parità
di efficacia, preferire farmaci con un profilo di sicurezza più favorevole, più
semplici da essere assunti e meno costosi.
8) Modulare la polifarmacoterapia: la presenza di più patologie, disturbi e/o
fattori di rischio può indurre all’impiego concomitante di più trattamenti e
dalla prescrizione di più farmaci di quelli clinicamente indicati. Un’accurata
revisione della polifarmacoterapia si basa su cinque elementi: associare il farmaco con la diagnosi corrispondente, individuare i duplicati terapeutici, interrogare il paziente sui farmaci realmente assunti compresi i prodotti da banco,
gli “integratori” e i prodotti di erboristeria, rivedere i parametri di laboratorio
e l’anamnesi del paziente in relazione all’efficacia e alla tossicità del regime
terapeutico adottato, sforzarsi di escludere i farmaci non necessari.
9) Scegliere gli indici di monitoraggio di efficienza farmacologica, di
efficacia terapeutica e di tollerabilità: il monitoraggio della terapia permette di adeguare la posologia, di rivalutare il piano terapeutico o di evitare
di prolungare i trattamenti quando sono diventati inutili e di contribuire alla
riduzione dell’incidenza delle reazioni avverse. In alcune situazioni il monitoraggio è facilmente ripetibile e di basso costo come ad esempio il controllo
della pressione arteriosa o della glicemia e dell’emoglobina glicosilata. Gli
indici per il monitoraggio degli effetti collaterali vanno invece definiti caso
per caso e possono essere spesso diversi da quelli riguardanti la risposta terapeutica. Il monitoraggio delle concentrazioni plasmatiche dei farmaci con
ristretto margine terapeutico è indispensabile per evitare di incorrere nei due
estremi sfavorevoli e opposti: il mancato raggiungimento della dose minima
efficace e il superamento della soglia di tossicità. Il monitoraggio plasmatico
è essenziale per i farmaci soggetti ad ampia variabilità farmacocinetica inte-
294
Manuale della Professione Medica
rindividuale o in situazioni come gravidanza, infanzia e vecchiaia o di patologie degli organi deputati alla metabolizzazione ed eliminazione dei farmaci.
10)Fornire informazioni chiare e dettagliate, istruzioni e avvertenze al
paziente sulla pianificazione del monitoraggio clinico e di laboratorio e/o strumentale.
11)Valutare lo stato funzionale del paziente e la soddisfazione globale:
le modificazioni funzionali derivate dal trattamento possono indurre una
scarsa adesione o addirittura una sospensione della terapia. Il medico deve
discutere di queste variazioni con il paziente, correggere, se possibile,
quelle più difficilmente sopportabili, e collocare nella prospettiva dei veri
obbiettivi della terapia vantaggi e svantaggi del trattamento per sviluppare
e consolidare l’alleanza terapeutica.
12)Valutare l’adesione alla terapia, rivalutare periodicamente la situazione clinica e i fattori prognostici, attuare gli aggiustamenti necessari, ottimizzare l’adesione alle terapie e consolidare l’alleanza terapeutica: L’adesione al trattamento, che è parte integrante della relazione
medico paziente, può essere definita come la misura del comportamento
messo in atto dal paziente rispetto al programma terapeutico stabilito e
condiviso con il medico. Si stima che l’adesione, anche per trattamenti la cui
prescrizione è solidamente fondata su solide prove di efficacia, sia variabile
fra il 40 e il 50%. Questi livelli poco soddisfacenti compromettono il conseguimento degli obiettivi terapeutici del singolo paziente e di outcome clinici rilevanti nelle popolazioni. La scarsa adesione non può essere imputata
totalmente al paziente, anche il medico deve opportunamente interrogarsi
sulla sua parte di responsabilità. Dato che l’adesione al trattamento non è
prevedibile, assumono un’importanza critica tutti gli interventi orientati ad
abbattere le barriere e gli ostacoli che la rendono di difficile realizzazione.
13)Programmare la durata della terapia e le modalità di sospensione: è
importante preventivare il momento più appropriato per interrompere un
trattamento. L’interruzione deve essere programmata, a seconda del tipo di
farmaco, con una graduale riduzione della posologia per evitare la sindrome
da astinenza nel caso degli oppiacei maggiori e la sindrome da sospensione
dell’antidepressivo paroxetina caratterizzata da capogiri, disturbi del sonno
e turbe comportamentali e i fenomeni di rimbalzo dovuti alla brusca interruzione dei cortisonici o dei b-bloccanti.
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
295
L’appropriatezza prescrittiva
L’irrompere sulla scena della dimensione economica ha messo il sistema
sanitario di fronte alla necessità di coniugare l’ambizione etica di fornire prestazioni di qualità elevata con l’attenzione ai costi imposta dalla scarsità delle
risorse disponibili. L’appropriatezza valuta i benefici attesi o probabili degli
atti medici in relazione ai costi certi che la loro scelta comporta e rispetto
alle risorse disponibili. Comporta anche un confronto con quanto altri interventi avrebbero permesso di conseguire grazie ad una diversa combinazione
nell’impiego dello stesso ammontare di risorse. Persegue quindi l’obiettivo di
raggiungere risultati di salute predefiniti e compatibili con le risorse disponibili
e non il mero contenimento dei costi.
L’appropriatezza clinica definisce il comportamento giusto e congruo del
medico rispetto alle necessità di un individuo allo scopo di attribuirgli e prescrivergli ciò che gli è più confacente nell’ambito di scelte qualitativamente conformi ai processi relazionali intersoggettivi instaurati. Devono essere sempre
soppesati i benefici ragionevolmente conseguibili di ogni trattamento e i rischi
proporzionalmente giustificabili rispetto alla capacità di influenzare favorevolmente il decorso della malattia e la qualità della vita della persona. La prescrizione di un trattamento è il trasferimento dei risultati della ricerca a pazienti
esterni agli studi con caratteristiche cliniche paragonabili nei quali è ragionevole aspettarsi un risultato favorevole, sebbene nessuno sia in grado di prevedere se il singolo paziente rientrerà fra chi ne trarrà reale beneficio. La terapia è
una scienza tecnologica e storica che non garantisce che una legge universale si
ripeta sempre nel particolare e nessuno può essere sicuro che il ripetibile si riprodurrà nel caso che ci apprestiamo a trattare. Il medico, sebbene ricavi preziose
informazioni dalla molteplicità, guarda all’unicità del caso e considera tutto
ciò che gli appare utile secondo scienza ed etica per il bene del paziente come
economicamente giustificato e giustificabile. L’appropriatezza sanitaria prende in
esame, invece, il percorso diagnostico e terapeutico adottato dal medico, i suoi
esiti e i suoi costi. Il medico, come soggetto, è sostituito dal “procedimento”
che ha messo in atto e il malato dai “dati” sui benefici conseguiti. Medico e
malato sono a loro volta valutati con riferimento ai costi sostenuti per cui il
criterio guida dell’appropriatezza sanitaria diventa la rispondenza economica.
Per verificare se i risultati ottenuti sono appropriati rispetto alle risorse impie-
296
Manuale della Professione Medica
gate, sono analizzati indicatori, statistiche e ricerche sugli esiti degli interventi.
L’appropriatezza nella sua dimensione sanitaria rappresenta una delle nuove
“ragioni tecniche” che incombono sulla libertà di scelta del medico quando
decide ciò che è appropriato per il suo paziente. Nell’appropriatezza sanitaria
l’obiettivo è la tutela della salute nella popolazione conformemente alle disponibilità economiche e la sua gestione è delegata a un insieme di competenze
multidisciplinari in grado di rispondere alle complesse e molteplici esigenze del
sistema sanitario (amministratori, ricercatori, epidemiologi, economisti, medici
con funzioni di controllo). L’appropriatezza decisa all’interno di procedure
standard, di percorsi pre-definiti o di LG spesso differisce da quella del clinico
perché diverse sono le inferenze e gli elementi in base ai quali viene formulato
il giudizio sul singolo. Gli enunciati significanti dell’appropriatezza in ambito
clinico sono rappresentati dal risultato congetturale d’inferenze cliniche ed etiche, mentre in ambito sanitario rappresentano una sintesi fra le inferenze statistico-epidemiologiche e le esigenze economiche della collettività. Il problema
nasce nel momento in cui le due inferenze, applicate al singolo caso, divergono e collidono perché basate su concezioni differenti di ciò che è rilevante.
Di fronte alle esigenze dell’appropriatezza sanitaria e alle necessità cliniche del
malato è pertanto necessario chiarire qual è il prezzo (in termini di equità) che
la società è disposta a pagare per ottenere una maggiore appropriatezza e il
costo etico e professionale sopportabile da parte dei medici di medicina generale per garantire un sistema sanitario economicamente più efficiente.
Il medico come prescrittore pubblico
Il Sistema Sanitario rimborsa i trattamenti sulla base della dimostrata efficacia
in studi clinici e di criteri economici. In altre parole sceglie i farmaci che dimostrano un vantaggio su popolazioni selezionate a costi accettabili. Il medico è pertanto chiamato a valutare a norma e a decidere se la soluzione più appropriata per
la sanità pubblica è applicabile alla realtà clinica del singolo malato. Se il paziente
soddisfa queste caratteristiche, il trattamento è prescrivibile e rimborsabile, è cioè
ritenuto giusto e corretto. Sebbene la medicina generale condivida la razionalità
scientifica sulla quale si fonda l’EBM e apprezzi il fatto che sia stata adottata come
metodologia per la selezione dei farmaci e delle loro indicazioni terapeutiche, è
tuttavia ben consapevole che essa costituisce solo uno degli strumenti utili per
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
297
esercitare la sua disciplina. Aspira pertanto a sottrarsi da un’applicazione meccanicistica dei suoi contenuti probanti sia che ciò avvenga per scelta autonoma sia che
derivi dal condizionamento autoritativo della sanità pubblica per evitare di ledere
e deformare il contenuto della sua techne. La variabilità biologica, infatti, si esprime
molto spesso in quadri clinici diversi da quelli dei pazienti arruolati negli studi
clinici che hanno concorso a definire la rimborsabilità di un farmaco e, spesso, il
medico di medicina generale impatta in condizioni e situazioni nelle quali le prove
di efficacia sono troppo fragili o mancano del tutto. I trattamenti di documentata
efficacia sono prescritti per periodi molto più prolungati rispetto alla durata degli
studi clinici in assenza di documentazioni adeguate. L’elevata incidenza di comorbilità spesso porta a utilizzare più farmaci senza che sia dimostrato se l’associazione è benefica e in che misura o se i vantaggi dimostrati dai farmaci impiegati
singolarmente si sommano quando siano utilizzati insieme. Ciò che va bene per
una malattia non è detto che sia sempre la migliore soluzione per il malato e
nessuno è in grado di prevedere se il singolo paziente rientrerà fra chi trarrà un
vantaggio reale. Il paziente ha una sua idea su ciò che potrebbe essergli benefico e
ciò che potrebbe recargli danno che deriva dalla sua personalità e dalla sua cultura.
Può pertanto respingere un trattamento nonostante sia proposto come appropriato dal medico di medicina generale e dal sistema sanitario.
Il medico di medicina generale deve pertanto riservarsi un margine di scelta
clinica qualora i trattamenti rimborsabili non siano applicabili, non siano accettati o siano inefficaci. L’appropriatezza decisa all’interno di procedure standard, di percorsi pre-definiti o di protocolli e note limitative spesso differisce
da quella del clinico, ma l’eventualità che le conclusioni dell’appropriatezza
sanitaria siano in contrasto con quella clinica non è adeguatamente e nemmeno
formalmente riconosciuta.
La terapia: una trama di arcaico e di nuovo
Nella relazione medico-paziente che si suggella con la prescrizione della terapia, la persona non ha solo bisogno di essere sollevata dai suoi disagi, ma aspira
anche a una incondizionata, piena, solidale e altruistica disponibilità del terapeuta. Infatti,
il paziente, afflitto e disperato, tende a tornare all’antico rapporto con il guaritore
nel quale il terapeuta, entrando in contatto con lui in maniera intensa e intima,
“resuscita” con il malato facendolo rinascere a nuova vita o, nel caso dramma-
298
Manuale della Professione Medica
tico del terminale, “muore” con lui e lo accompagna, con premura e tenerezza,
verso il suo destino. Paziente e terapeuta si contrappongono all’entità ostile che
è penetrata nell’organismo attivando un processo reattivo di difesa alimentato da
un’interazione di trame simboliche, parole e suoni che favoriscono un processo
di “autoterapia”. Anche il medico, come il guaritore arcaico, deve favorire l’attivazione delle difese già possedute dall’organismo nella consapevolezza che l’effetto
dei farmaci non dipende solo dalla farmacodinamica del principio attivo e dalla
significatività statistica, ma anche dall’atteggiamento e dalle attese del paziente
e del medico, dall’interazione medico-paziente, dall’effetto placebo e dalla naturale
tendenza alla guarigione della malattia. Con il linguaggio del farmaco il guaritore moderno mette ancora in scena l’antichissima arte della guarigione in modo
molto più convincente ma che, per essere pienamente efficace, si giova anche
delle parole arcaiche. È necessario riappropriarsi pienamente di quell’elemento
essenziale della guarigione rappresentato dall’intesa e dalla solidarietà con la persona realizzando una proficua sintesi fra elementi antichi e nuovi che sono tutti
indispensabili a garantire il bene del paziente. La cura e il suo successo dipendono anche dal suo altruismo e dall’attenzione all’uomo, inteso come persona
con la sua storia, la sua cultura, la sua affettività e le sue credenze.
La medicina clinica si fonda su un insieme di conoscenze teorico-pratiche che forniscono strumenti adeguati per difendere la salute dei cittadini nel
rispetto del valore intrinseco della persona umana.
L’esercizio delle capacità, abilità e competenze del medico implicano tuttavia, direttamente o indirettamente, una responsabilità nella gestione di risorse
che, essendo di tutti, devono essere indirizzate al bene comune. La società
richiede pertanto al medico di tenere in considerazione anche i risvolti civili
e politici della sua professione. Il medico deve scegliere il farmaco più appropriato dopo aver analizzato criticamente i risultati degli studi clinici per valutare
se le loro conclusioni sono applicabili alla realtà clinica del singolo paziente.
Il trattamento con farmaci è importante in molte patologie ad andamento cronico per prevenire o ritardare le complicanze e garantire una migliore prognosi. Il
contenimento dei costi, la somministrazione della migliore assistenza uguale per
tutti e la libertà di scelta del paziente e del medico sono fini che possono entrare
in conflitto fra loro. Infatti, ciò che appare appropriato da un punto di vista strettamente medico potrebbe risultare del tutto inappropriato dal punto di vista del
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
299
costo e della convenienza sociale. Poiché nella realtà le decisioni in campo sanitario sono prese da soggetti che hanno funzioni sociali profondamente diverse
– politici, amministratori, economisti, medici – è indispensabile che ciascuno di
questi attori interpreti coerentemente il ruolo e la funzione che è chiamato a svolgere. Mentre i politici e gli amministratori si devono preoccupare di modulare
la spesa sanitaria in relazione alle esigenze globali della società, il medico deve
prendersi cura prima di tutto delle persone e, pur tenendo nella giusta considerazione le esigenze sociali e la necessità di non favorire gli sprechi, deve adoperarsi
affinché chi si affida a lui riceva la migliore terapia di cui necessita.
La prescrizione di farmaci on-label e off-label
I medicinali disponibili in Italia, prima di poter essere prescritti dal medico.
devono essere autorizzati all’immissione in commercio (AIC) dall’Agenzia italiana del Farmaco (AIFA), del Ministero della Salute, o in alternativa dall’Agenzia europea di valutazione dei medicinali (EMEA).
La procedura per l’autorizzazione al commercio di un farmaco può essere
condotta e conclusa in ambito nazionale oppure, per il principio di reciprocità,
può scaturire da un provvedimento di approvazione attuato in un altro paese
della Comunità europea.
L’autorizzazione al commercio è accompagnata da una Scheda Tecnica
Ministeriale (STM), nella quale è riportata la confezione farmaceutica, le indicazioni terapeutiche, le controindicazioni, la posologia (intervallo/dosaggio),
le proprietà farmacologiche, la via e le modalità di somministrazione e le avvertenze all’uso, per assicurare un impiego del farmaco appropriato (corretta indicazione e comprovata efficacia).
Le Note dell’Aifa, introdotte nel 1994 e continuamente aggiornate e rinnovate nei contenuti, nella forma e nelle finalità, dal Comitato Tecnico Scientifico
(CTS), hanno rappresentato uno strumento regolatorio indispensabile per ridefinire i farmaci ritenuti sicuramente efficaci, e quindi rimborsabili dal SSN, da altri
autorizzati al commercio ma con minore “evidenza” di vantaggio terapeutico.
L’impiego di un farmaco, in possesso di AIC, si può definire:
1. on-label (label, letteralmente etichetta), quando è prescritto per un’indicazione terapeutica, con una diversa posologia (intervallo/dosaggio), ma nel
rispetto di quanto è contenuto nella STM.
300
Manuale della Professione Medica
2. off-label, quando è prescritto per un’indicazione terapeutica e/o secondo
una modalità di somministrazione e/o posologia e/o altro diverse da
quanto è espressamente previste dalla STMe, e autorizzate al momento
dell’immissione in commercio.
La scelta di prescrivere un farmaco, al di fuori delle indicazioni ministeriali (off-label), è largamente diffusa in vari ambiti della medicina, anche perché
spesso riguarda farmaci conosciuti e utilizzati da tempo, per i quali le evidenze
scientifiche suggeriscono un razionale d’uso anche in situazioni cliniche non
approvate da un punto di vista regolatorio.
Questa situazione, complessa e delicata, è stata, tuttavia, più volte oggetto di
regolamentazione legislativa nazionale: L. 648/12/1996, L. 94/04/1998, DLgs
219/4/2006, L. 296/2006 (Finanziaria 2007), L. 244/12/2007 (Finanziaria 2008).
In breve sintesi le leggi, prima del 2007, concedevano al medico curante,
sotto la sua diretta responsabilità, sulla base di documentazione scientifica
pubblicata su riviste qualificate e in mancanza di alternative terapeutiche, di
poter decidere se trattare il proprio assistito con un medicinale autorizzato
per un’indicazione terapeutica, e modalità di somministrazione diverse, dopo
averlo informato e averne ottenuto il consenso.
Dopo la Finanziaria del 2007 l’alternativa di prescrizioni off-label era concessa solo nell’ambito delle sperimentazioni cliniche, sulla base di evidenze
scientifiche documentate nella letteratura internazionale, e individuava nei
direttori sanitari di Azienda i responsabili dei procedimenti applicativi.
La legge finanziaria del 2008 ha, invece, indicato come condizione indispensabile per l’impiego off-label dei medicinali, almeno l’esistenza di studi
favorevoli di sperimentazione clinica di 2a fase già conclusi.
Farmacovigilanza
La farmacovigilanza ha lo scopo di valutare il rischio connesso all’assunzione dei farmaci e di monitorare l’incidenza degli effetti indesiderati (Reazioni
Avverse, ADR), eventualmente associati a un trattamento farmacologico, ma
anche quello di migliorare e ampliare le informazioni su ADR sospette o già
conosciute. Inoltre consente di valutare la maggiore efficacia di un farmaco
rispetto ad altri o ad altri tipi di terapie, rendendo più appropriate le cure. Tale
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
301
monitoraggio inizia durante la sperimentazione clinica pre-marketing sull’uomo,
e prosegue per tutto il periodo nel quale il farmaco rimane in commercio.
Il medico ha il dovere etico di segnalare ogni sospetto di Reazione Avversa,
grave o non prevista nel foglietto illustrativo del farmaco prescritto ai suoi
pazienti, e rischia pene severe in caso di inadempienza.
La scheda, in passato, era fornita dal Ministero della salute, attraverso
il Bollettino di Informazione sui Farmaci (BIF) dell’AIFA inviato a tutti i
medici, che oggi pare avere sospeso la pubblicazione. Essa, tuttavia, può
essere richiesta ai responsabili di farmacovigilanza delle ASL e delle Aziende
ospedaliere, o anche agli Informatori Scientifici del Farmaco. Una volta compilata, la scheda deve essere inviata nel più breve tempo possibile al Servizio Farmaceutico dell’ASL o dell’Azienda Ospedaliera di competenza che
provvederanno a trasmetterla per via telematica al Servizio Farmaceutico del
Ministero della Salute.
Art. 22 - Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica
Il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua
coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, a
meno che questo comportamento non sia di pregiudizievole nocumento per la
salute della persona assistita e deve fornire al cittadino ogni utile informazione
e chiarimento.
L’obiezione di coscienza (dal latino tardo obiecto-onis, derivato del verbo
obicere, gettare contro), ha assunto nella nostra lingua diversi veicoli di senso,
accumunati da un’idea di rifiuto sostenuta da personali convinzioni che possono riguardare situazioni diverse e/o dall’idea di un intervento nella dialettica
del discorso motivato da un’opinione contraria rispetto a quella originariamente proposta da una persona terza.
L’obiezione di coscienza ha una tradizione millenaria ma è una conquista
della civiltà giuridica moderna se si considera che i suoi fondamenti costitutivi
sono presenti nella Carta Costituzionale: nell’art. 2 che garantisce i diritti inviolabili della persona sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la
sua personalità, e negli artt. 19 e 21 che sanciscono la libertà religiosa e quella
di manifestazione del pensiero.
302
Manuale della Professione Medica
Coerentemente a tali diritti costituzionali sono state emanate specifiche
norme che riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza in ambiti comuni
a tutti i cittadini (servizio militare e in campo fiscale), e in quelli peculiari delle
professioni sanitarie.
Limitandoci a queste ultime, le norme vigenti riconoscono il diritto
all’obiezione di coscienza riguardo alla sperimentazione e alla vivisezione sugli
animali (DLgs 27/01/1992 n. 116 e legge 12/10/1993, n. 442), e in due ambiti
distinti connessi con la riproduttività: l’interruzione volontaria di gravidanza e
gli interventi di procreazione medicalmente assistita.
Sono gli artt. 9 e 16 della legge 22 maggio 1978, n. 194 a regolamentare
e disciplinare puntualmente l’istituto dell’obiezione di coscienza rispetto agli
interventi interruttivi, sia nell’oggetto «attività specificatamente e necessariamente
dirette a determinare l’interruzione della gravidanza», che nelle formalità che debbono essere seguite «la dichiarazione dell’obbiettore deve essere comunicata al medico
provinciale e, nel caso di personale dipendente dall’ospedale o dalla Casa di cura, anche
al direttore sanitario, entro un mese dall’entrata in vigore della legge o dal conseguimento
all’abilitazione o dall’assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette all’interruzione di gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali
che comporti l’esecuzione di tali prestazioni». E ancora «L’obiezione di coscienza esonera
il sanitario ed esercente le attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare
l’interruzione di gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento»
e «Può sempre essere revocata o venire proposta al di fuori dei termini […] ma in tale caso
la dichiarazione produce effetto dopo un mese dalla sua presentazione al medico provinciale».
Quanto al personale sanitario ed esercente le attività sanitarie, titolari del
diritto, l’obiezione di coscienza «Non può essere invocata quando, data la particolarità
delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna
in imminente pericolo di vita».
Analogamente, l’art. 16 della legge n. 40/2004 disciplina in maniera chiara
e puntuale l’obiezione di coscienza nell’ambito degli interventi di procreazione
medicalmente assistita.
Il 28 maggio del 2004 il Comitato nazionale per la bioetica, cui l’Ordine
dei Medici di Venezia aveva posto il quesito se il medico potesse appellarsi
all’obiezione di coscienza per rifiutare la prescrizione o la somministrazione di
Levonorgestrel per la contraccezione di emergenza post-coitale in riferimento
ai suoi possibili effetti post-fertilizzazione, espresse il parere che si riconosceva
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
303
al medico la possibilità di rifiutare la prescrizione appellandosi alla cosiddetta
clausola di coscienza (dal latino clausola, e dal verbo claudere, chiudere).
Alquanto discutibile apparve la scelta di sovrapporre le modalità di esercizio del diritto alla clausola di coscienza con quelle previste dalla legge 194/1978
per l’obiezione di coscienza (che, intanto, produce il suo effetto se comunicata
allaAutorità sanitaria un mese prima), anche perché è sembrata avere “ingessato” pericolosamente e voluto “giuridificare” l’esercizio della clausola di
coscienza che è un diritto molto più ampio e flessibile dell’obiezione.
Probabilmente il motivo per cui il Comitato nazionale per la bioetica ha
affiancato e sovrapposto questo lemma alla libertà di coscienza, nel lessico
professionale, questo lemma è da ricercarsi nella difficoltà di rispondere positivamente al quesito dell’Ordine di Venezia sulla “pillola del giorno dopo”.
Non poteva, infatti, condizionare quella prescrizione con il ricorso all’obiezione di coscienza prevista dalla legge 194 sull’interruzione di gravidanza, dal
momento che il mondo scientifico è diviso tra chi attribuisce al meccanismo di
azione di questo tipo di farmaci un effetto “intercettivo”, e non abortivo e chi
lo ritiene decisamente “abortivo”, in base alle differenti convinzioni etiche sul
momento dell’inizio della vita, privo di certezze scientifiche dimostrate.
Tuttavia il ricorso a questa locuzione, che nella lingua italiana ha vari
significati, a proposito della contraccezione post-coitale, «non introduce nessuna ulteriore sovrastruttura rispetto alla libertà di coscienza garantita dalla
Carta Costituzionale e rafforzata dal Codice deontologico, che prevede che
il medico possa rifiutare la propria opera nel caso in cui gli siano richieste
prestazioni che contrastino con la sua coscienza e/o con il suo convincimento clinico (art. 22), nonché il diritto all’obiezione di coscienza in due
distinti ambiti connessi con la riproduttività (artt. 43 e 44)». Tuttavia, è di
tutto interesse osservare come la deontologia professionale, pur non esplicitandola semanticamente, non definisca la libertà di coscienza come una
mera opzione della prassi professionale ma come perno che garantisce l’autonomia diagnostico-terapeutica del medico rafforzata dall’esplicito livello di
responsabilizzazione richiestogli nel fornire comunque alla persona «… ogni
utile informazione e chiarimento».
«Un’autonomia diagnostica-terapeutica necessariamente responsabile che,
evidentemente, pone il medico nel diritto/dovere di agire rispettando la propria coscienza (e i propri valori morali) oltre al suo convincimento clinico, con
304
Manuale della Professione Medica
il solo limite che non provochi un grave e immediato nocumento alla salute della
persona assistita».
Non si deve dimenticare che l’efficacia del metodo è tanto più elevata
quanto prima si inizia il trattamento dopo un rapporto non protetto e che,
pertanto, il farmaco deve essere assunta preferibilmente entro 12 ore dopo il
rapporto sessuale e non oltre le 72 ore.
Le numerose denunce, comparse sulla stampa d’informazione e pervenute
alla FNOMCeO, da parte di cittadine che, specialmente nei giorni prefestivi e
festivi, avevano incontrato difficoltà ad esercitare il diritto di ottenere il farmaco per il rifiuto di prescriverlo opposto da alcuni medici nei Pronto Soccorso ospedalieri, o dagli operatori della Continuità Assistenziale, ha indotto il
Presidente della FNOMCeO, nel dicembre del 2006 a invitare questi colleghi,
«più esposti a eventuali denunce per omissione di atti d’ufficio conseguenti alla mancata prescrizione, a trovare il giusto equilibrio tra il diritto del medico all’obiezione di coscienza e il
diritto delle persone a una prestazione che, peraltro, l’ordinamento giuridico riconosce come
dovuto ai Consultori familiari (art. 1 della legge 405/1975)».
Cembrani F. La clausola di coscienza e l’obiezione: solo una questione di
lessico? Professione, 2008, 2: 14-22.
Art. 15 - Pratiche non convenzionali
Il ricorso a pratiche non convenzionali non può prescindere dal rispetto del
decoro e della dignità della professione e si esprime nell’esclusivo ambito
della diretta e non delegabile responsabilità professionale del medico.
Il ricorso a pratiche non convenzionali non deve comunque sottrarre il cittadino a trattamenti specifici e scientificamente consolidati e richiede sempre
circostanziata informazione e acquisizione del consenso.
È vietato al medico di collaborare a qualsiasi titolo o di favorire l’esercizio di
terzi non medici nel settore delle cosiddette pratiche non convenzionali.
Nel maggio del 2002, in un convegno organizzato dalla FNOMCeO a
Terni, fu votato un documento nel quale si affermava che l’esercizio delle
medicine non convenzionali era da ritenersi a tutti gli effetti un atto medico,
esercitato e gestito esclusivamente dal medico-chirurgo e odontoiatra, con
l’acquisizione dell’esplicito consenso consapevole del paziente, e purché tali
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
305
cure non sottraessero il malato alla disponibilità di terapie scientificamente
accreditate.
Il medico che offre questi trattamenti all’assistito ne risponde, dunque,
in prima persona, dopo averne raccolto personalmente il consenso e avere
illustrato vantaggi e svantaggi di una proposta curativa che, comunque non lo
sottragga a terapie efficaci consolidate.
L’agopuntura, l’omeopatia, la medicina tradizionale cinese, le manipolazioni osteo-articolari, la medicina ayurvedica e altre numerose “pratiche” sono
di volta in volta connotate come: complementari, non convenzionali, integrative, tradizionali, eretiche, non ortodosse, olistiche, naturali o dolci. Esse sono
discretamente diffuse in Italia e nel resto del mondo, anche se non possiedono
alcuna evidenza scientifica a supporto della loro efficacia e, contrariamente
all’opinione diffusa che la loro “naturalità” sia sinonimo di innocuità, non
sono esenti da rischi.
I cittadini, che hanno il diritto di curarsi come meglio credono, spesso vi
ricorrono autonomamente, senza consultare né informare il medico curante, con
conseguenze che possono essere anche gravi, dei quali la cronaca porta numerosi
esempi. I più frequenti sono il ritardo di una diagnosi e l’abbandono o la sostituzione di terapie farmacologiche efficaci con preparati “naturali” non adeguati.
Le preparazioni derivanti da piante medicinali, dotate di proprietà farmacologiche vere e proprie, possono “spiazzare” o neutralizzare l’efficacia dei farmaci convenzionali assunti contemporaneamente, o produrre reazioni avverse
anche gravi.
I rischi derivanti dall’uso delle medicine non convenzionali sono monitorati dal Centro Nazionale di Epidemiologia. Sorveglianza e Promozione della
Salute (Cnesps) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), attivato nell’aprile del
2002.
Le segnalazioni di farmacovigilanza sui farmaci derivanti da piante medicinali, giunte a un Comitato scientifico multidisciplinare sono state oltre 400
da quando il Centro è stato attivato, e quasi sempre hanno riguardato eventi
gravi.
Particolare attenzione deve essere anche rivolta alla sorveglianza di quei
prodotti “salutistici”, “notificati” e “non registrati” al Ministero della Salute
sotto il nome di “integratori alimentari” salutistici, privi cioè di proprietà terapeutiche dimostrate scientificamente, ma vantati come agenti terapeutici.
306
Manuale della Professione Medica
L’ISS ha lanciato recentemente una campagna informativa sul corretto uso
delle medicine non convenzionali, per consentire ai cittadini scelte consapevoli, e alla quale ha dedicato un sito (Per saperne di più. www.iss.it), e diffuso un
poster e un decalogo, condiviso e sottoscritto da numerose società di medicina
non convenzionale.
Art. 29 - Fornitura di farmaci
Il medico non può fornire i farmaci necessari alla cura a titolo oneroso.
Art. 30 - Conflitto di interesse
Il medico deve evitare ogni condizione nella quale il giudizio professionale
riguardante l’interesse primario, qual è la salute dei cittadini, possa essere
indebitamente influenzato da un interesse secondario.
Il conflitto di interesse riguarda aspetti economici e non, e si può manifestare
nella ricerca scientifica, nella formazione e nell’aggiornamento professionale,
nella prescrizione terapeutica e di esami diagnostici e nei rapporti individuali
e di gruppo con industrie, enti, organizzazioni e istituzioni, nonché con la
pubblica amministrazione.
Il medico deve:
– essere consapevole del possibile verificarsi di un conflitto di interesse e
valutarne l’importanza e gli eventuali rischi;
– prevenire ogni situazione che possa essere evitata;
– dichiarare in maniera esplicita il tipo di rapporto che potrebbe influenzare
le sue scelte consentendo al destinatario di queste una valutazione critica
consapevole.
Il medico non deve in alcun modo subordinare il proprio comportamento prescrittivo ad accordi economici o di altra natura, per trarne profitto per sé e per altri.
Il Codice deontologico vieta al medico, all’art. 29, di poter fornire al proprio
assistito farmaci a titolo oneroso; anzi, il sanitario, se può e possiede confezioni
di farmaco idoneo all’uopo nel suo ambulatorio, deve fornirli all’assistito gratuita-
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
307
mente e in assenza prescriverli nella forma più idonea, possibilmente meno onerosa, e comunque dopo aver fornito al paziente spiegazioni sul fatto che molecole
uguali hanno costi diversi nel settore farmaceutico, a seconda della casa farmaceutica produttrice e, quindi, evidentemente, lasciare al paziente, secondo le proprie
possibilità, di acquisire poi il medesimo farmaco sotto denominazione diverse.
Lo chiede anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato al
Governo e al Parlamento, in una segnalazione approvata nella riunione del 9
novembre 2006.
Per l’Autorità questa misura potrebbe ridurre gli effetti del conflitto di
interesse in medicina legato al finanziamento, da parte delle imprese farmaceutiche, delle spese di viaggio e di ospitalità ai medici in occasione di corsi,
convegni, congressi e visite ai laboratori e ai centri di ricerca aziendali.
Contestualmente verrebbe favorita la concorrenza fra farmaci, incentivando l’utilizzo dei farmaci generici o, in ogni caso, di quelli a più basso costo,
facilitando la riduzione della spesa farmaceutica a carico delle famiglie e del
Servizio Sanitario Nazionale.
Secondo l’Autorità dovrebbe in ogni caso essere fatta salva la possibilità,
per il medico, di specificare, per motivi clinici, la non sostituibilità del farmaco.
La segnalazione sottolinea che l’ospitalità dei medici a carico del settore
farmaceutico rappresenta un aspetto rilevante, anche se non esaustivo, del conflitto di interesse in medicina: è un fenomeno da mettere sotto osservazione e
disciplinare, anche per evitare distorsioni della libera concorrenza.
L’art. 30 del CDM, invece, disciplina proprio il conflitto di interesse, intendendosi con esso quell’insieme di condizioni in cui un giudizio professionale
che riguarda un interesse primario tende a essere influenzato in maniera eccessiva da un interesse secondario.
L’interesse primario di un medico è certamente la salute del suo paziente,
così come l’interesse primario di un ricercatore è la conoscenza scientifica.
L’interesse secondario, invece, può essere di natura finanziaria, ma può anche
riguardare il prestigio personale, la carriera professionale, l’ambizione personale.
Il conflitto di interesse è una condizione, non un comportamento e di
questi tempi se ne fa un gran parlare, riferendosi al fatto che oggi la ricerca,
l’informazione e, entro certi limiti, la formazione dei medici, sono finanziate
dalle aziende produttrici di farmaci e di dispositivi sanitari che i medici stessi
prescrivono. Non c’è bisogno che l’opera del medico quale agente del paziente
308
Manuale della Professione Medica
(dettata da scienza e coscienza) sia influenzata in maniera evidente anche da
altri interessi estranei e diventi anche attività di intermediazione tra produttori di beni e fruitori limitati nella loro autonoma capacità di giudizio, quali i
pazienti nel momento del bisogno assistenziale, ma è sufficiente che esista un
legame che possa compromettere l’indipendenza del giudizio del professionista sanitario. Pertanto, come afferma Panti, «non ci si riferisce al conflitto
di interesse sotto il profilo giuridico bensì sotto quello etico, come giudizio
valoriale». Più in generale il conflitto di interesse in medicina è collegato a una
più vasta tela di relazioni tra ricerca scientifica, farmacologia, prevenzione e
cura, industria farmaceutica, e la soluzione del problema va cercata prima di
tutto sul terreno etico e nell’aumento delle risorse pubbliche da destinare alla
ricerca scientifica.
Sul piano concorrenziale, il conflitto di interesse può comportare possibili
distorsioni a favore delle industrie che spendono di più in finanziamenti di
iniziative convegnistiche.
Misure volte a favorire la concorrenza tra imprese e il confronto tra farmaci equivalenti sono dunque senz’altro preferibili a interventi che inducano
le imprese a riduzioni concertate del finanziamento delle spese di viaggio e
di ospitalità per i medici. Ciò almeno fino a quando l’intervento sulle risorse
pubbliche nel settore interessato non sarà adeguato alle necessità.
In senso giuridico infatti il conflitto di interesse si realizza nell’ipotesi di
comparaggio al quale si può resistere, e trionfa la probità intellettuale, o cedere,
e si commette un reato. Il comparaggio, infatti, è vietato (art. 31 CDM), in
quanto reato (confronta anche artt. 170-172 TUSL), e implica un patto, preliminare, diretto a far valere un interesse diverso rispetto a quello etico, e «ha
per oggetto non l’atto professionale nella sua totalità, bensì semplicemente
una modalità di esso, cioè il contenuto della prescrizione da parte del sanitario
si realizzerebbe ugualmente senza l’accordo illecito [che] viene a condizionare
soltanto il contenuto della prestazione […] tale contenuto non è di per sé antigiuridico [lo…] diventa solo in forza dell’accordo illecito» .
In senso etico invece la questione è diversa, in quanto nell’esercizio quotidiano della medicina esistono condizionamenti che pongono in reciproco contrasto gli interessi del terzo pagante, del produttore e del cittadino: tra questi,
il medico dovrebbe essere arbitro attento solo al bene del paziente, pur nella
consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili, invero lo stesso non garan-
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
309
tisce sempre la sua libertà di giudizio. Nella Carta della Professionalità Medica
è scritto che «il giudizio professionale riguardante un interesse primario come
la salute dei cittadini può essere influenzato indebitamente da un interesse
secondario del professionista (guadagno economico, vantaggi di carriera ecc.)»
e si aggiunge che i medici «hanno l’obbligo di riconoscere, rendere pubblici e
affrontare i conflitti di interesse che si presentano nello svolgimento dei loro
compiti o attività professionali».
Si veda sul tema anche l’articolato parere di Barni dal titolo Il conflitto di
interesse: dalla soggezione alla responsabilità medica, recentemente pubblicato sulla
Rivista Italiana di Medicina Legale.
Il problema del conflitto di interesse è poi sempre più di attualità nelle
riviste scientifiche internazionali. Lancet ha esaminato gli eventuali conflitti di
interesse degli autori degli articoli che gli sono stati sottoposti nel 2003, e ne ha
respinto alcuni ad esempio perché il protocollo stabiliva che lo sponsor avesse
il controllo dei dati della sperimentazione e potesse utilizzarli a suo piacere,
naturalmente decidendo di pubblicare solo dati favorevoli ai suoi loro prodotti;
oppure perché il protocollo stabiliva che la pubblicazione dei dati generati dal
trial poteva essere decisa solo di comune accordo fra gli sperimentatori e lo
sponsor e non dal solo sperimentatore; infine perché documentavano un’alta
incidenza di alcune malattie e alcuni autori avevano rapporti di collaborazione
con industrie che producevano farmaci indicati per il trattamento di quelle
stesse malattie e così via.
Certamente gli autori che hanno legami finanziari con compagnie che producono tabacco riferiscono dati costantemente rassicuranti sul fumo passivo,
mentre gli studi sui farmaci contraccettivi di terza generazione finanziati dalle
ditte che li producono sono più rassicuranti sulla trombosi di quelli prodotti da
istituzioni pubbliche, solo per fare alcuni esempi.
Una revisione sistematica di studi sul rapporto fra autori e industria conclude che la ricerca sponsorizzata tende costantemente a raggiungere conclusioni favorevoli ai prodotti delle industrie sponsorizzanti e questo porta le
riviste scientifiche più indipendenti ad adottare la “diffidenza” come regola; in
effetti però le riviste hanno l’obbligo di darsi delle regole anche per tracciare
un confine fra ciò che le riviste stesse possono ospitare e ciò che non possono
ospitare proprio in relazione a questo problema del conflitto di interesse, la
sensibilità verso il quale è emersa specialmente nell’ultimo decennio e sta visto-
310
Manuale della Professione Medica
samente crescendo, anche se meno nel nostro paese rispetto ad altri.
Intanto, in Italia, l’applicazione della ECM pone il problema del conflitto
di interesse proprio nel campo della formazione. Il CIRB (Coordinamento
per l’Integrità della Ricerca Biomedica; www.cirb.it) ha inviato al Ministro e
alla commissione ECM una lettera, nella quale pone il problema della definizione del conflitto di interesse, visto che l’organizzatore deve rispondere a una
domanda che recita: «Le fonti di finanziamento configurano incompatibilità o
conflitti di interesse?»
Il collegato alla legge finanziaria 2003 al comma 25 dell’art. 48 stabilisce
che i relatori e gli organizzatori di convegni devono dichiarare gli eventuali
conflitti di interesse; attualmente, gli organizzatori, alla domanda 29, hanno
finora risposto di non avere mai ravvisato conflitti di interesse.
Ma che cos’è il conflitto di interesse? Chi lo deve dichiarare?
C’è in tutto ciò una parte comica: la Commissione ECM ha chiesto a tutti
gli organizzatori che non hanno ancora ottenuto l’accreditamento per eventi
già avvenuti di farsi rilasciare da ogni relatore un’autocertificazione, nella quale
venga escluso ogni conflitto di interesse, dato che dichiarazioni mendaci sono
punite dal Codice penale. Provocatoriamente qualcuno sostiene che oggi il
conflitto di interesse in medicina non esiste.…
Può sembrare provocatorio, o retorico, o polemico: le etichette, le prassi, le
competenze chiamate in causa sono diverse: dalla bioetica, alla trasparenza, ai
codici deontologici, all’auditing dei pari o dei garanti, ai giuramenti di Ippocrate
rinnovati-riformulati. L’ipotesi che sottende i dibattiti, le raccomandazioni, le
pratiche pervasive e i rituali di autodichiarazione del tipo e del grado di conflitti di interesse è molto semplice: si assume, come postulato, che il sistema
di riferimento per coloro che praticano la medicina sia quello dell’assenza di
interessi che non siano quelli di una professionalità autonoma, responsabile
solo riguardo al benessere dei pazienti e della salute pubblica. Il conflitto di
interesse non potrebbe invero esistere, se cessa il termine di riferimento strutturale della salute come diritto; il conflitto di interesse si capovolge: riguarda
chi pretende di porre come norma operativa principi strutturalmente negati.
È ciò che succede per i diritti umani: sono affermati come “indispensabili e
obbligatori”, ma devono rispettare e mettersi in lista di attesa rispetto a quelli
economici. L’azienda sanità rimanda alla politica globale, che non per nulla ha
tolto al “diritto alla salute” la sua qualifica di “fondamentale universale”.
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
311
Conflitto d’interesse. Linea-guida inerente l’applicazione
dell’art. 30
Premessa
Le situazioni di conflitto di interesse riguardano aspetti economici e non,
e possono manifestarsi nella ricerca scientifica, nella formazione e nell’aggiornamento professionale, nella prescrizione terapeutica e di esami diagnostici e nei rapporti con industrie, enti, organizzazioni e istituzioni, nonché con la pubblica amministrazione.
I medici debbono rifiutare elargizioni che possono interferire con le proprie decisioni di cui i pazienti sarebbero i destinatari non informati; tali
elargizioni possono essere assegnate a strutture pubbliche o a società non
a scopo di lucro.
I medici possono ricevere compensi, retribuzioni o altre forme di elargizione solo attraverso i meccanismi previsti dalla normativa vigente.
L’informazione fornita ai medici deve garantire la massima correttezza
scientifica e la massima trasparenza. È compito dell’Ordine svolgere azione
di supporto e controllo per perseguire tali fini.
È compito del medico acquisire strumenti e metodi per esercitare una continua revisione critica della validità degli studi clinici onde poterne estendere le acquisizioni alla prassi quotidiana.
I medici o le associazioni professionali che effettuano campagne di educazione sanitaria o promuovono forme di informazione sanitaria o partecipano alla diffusione di notizie scientifiche attraverso i mass media
o la stampa di categoria, debbono manifestare il nome dello sponsor e
applicare le norme del presente regolamento, valido anche nei rapporti
eventualmente intrattenuti con industrie, organizzazioni e enti pubblici
e privati.
Norme specifiche
Ricerca Scientifica
a. Il ricercatore deve svolgere un ruolo indipendente nella definizione e
nella conduzione degli studi, assumendo sempre quale fine essenziale
l’interesse dei pazienti, assicurandosi della priorità dell’obiettivo scientifico della ricerca;
312
Manuale della Professione Medica
b. il ricercatore deve dichiarare gli eventuali rapporti di consulenza o collaborazione con gli sponsor della ricerca;
c. il ricercatore deve applicare sempre regole di trasparenza, condurre l’analisi dei dati in modo indipendente rispetto agli eventuali interessi dello
sponsor e non accettare condizioni per le quali non possa pubblicare
o diffondere i risultati delle ricerche, senza vincoli di proprietà da parte
degli sponsor, qualora questi comportino risultati negativi per il paziente;
d. se la pubblicazione, anche quando non sia frutto di specifica ricerca, è
sponsorizzata il nome dello sponsor deve essere esplicitato;
e. chiunque pubblichi redazionali o resoconti di convegni o partecipi a
conferenze stampa deve dichiarare il nome dell’eventuale sponsor;
f. il ricercatore e i membri dei comitati editoriali debbono dichiarare alla
rivista scientifica, nella quale intendono pubblicare, il ruolo avuto nel
progetto e il nome del responsabile dell’analisi dei dati;
g. il ricercatore deve vigilare sugli eventuali condizionamenti, anche
economici, esercitati sui soggetti arruolati nella ricerca, in particolare
rispetto a coloro che si trovano in posizione di dipendenza o di vulnerabilità;
h. il medico non deve accettare di redigere il rapporto conclusivo per la
pubblicazione di una ricerca alla quale non ha partecipato;
i. il ricercatore non può accettare clausole di sospensione della ricerca a
discrezione dello sponsor ma solo per motivazioni scientifiche o etiche
comunicate al Comitato Etico per la convalida.
I medici operanti nei Comitati Etici per la Sperimentazione sui Farmaci
(CESF) e nei Comitati Etici Locali (CEL) devono rispettare le regole di
trasparenza della sperimentazione prima di approvarla e rilasciare essi stessi
dichiarazione di assenza di conflitti di interesse. Le norme di cui sopra si
applicano anche agli studi multicentrici.
Aggiornamento
e formazione
a. I medici non possono percepire direttamente finanziamenti allo scopo
di favorire la loro partecipazione a eventi formativi; eventuali finanziamenti possono essere erogati alla Società Scientifica organizzatrice
dell’evento o all’Azienda sanitaria presso la quale opera il medico;
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
313
b. il finanziamento da parte delle industrie a congressi e a corsi di formazione non deve condizionare la scelta sia dei partecipanti che dei
contenuti, dei relatori, dei metodi didattici e degli strumenti impiegati; la responsabilità di tali scelte spetta al responsabile scientifico
dell’evento;
c. il medico non può accettare ristoro economico per un soggiorno superiore alla durata dell’evento, né per iniziative turistiche e sociali aggiuntive e diverse da quelle eventualmente organizzate dal congresso né
ospitalità per familiari o amici;
d. i relatori ai congressi hanno diritto ad un compenso ragionevole per il
lavoro svolto, in particolare di preparazione, ed al rimborso delle spese
di viaggio, alloggio e vitto;
e. il responsabile scientifico vigila affinché il materiale distribuito dall’industria nel corso degli eventi formativi sia rispondente alla normativa
vigente e che le voci di spesa relative al contributo dello sponsor, siano
chiaramente esplicitate dalla società organizzatrice;
f. i relatori nei mini-meeting, organizzati dalle industrie per illustrare ai
medici le caratteristiche dei loro prodotti innovativi, devono dichiarare
gli eventuali rapporti con l’azienda promotrice;
g. è fatto divieto ai medici di partecipare ad eventi formativi, compresi i
mini-meeting, la cui ospitalità non sia contenuta in limiti ragionevoli o,
comunque, intralci l’attività formativa;
h. nel caso in cui i corsi di aggiornamento si svolgano e vengano sponsorizzati in località turistiche nei periodi di stagionalità, i medici non
devono protrarre, oltre la durata dell’evento, la loro permanenza a
carico dello sponsor;
i. il medico, ferma restando la libertà delle scelte formative, deve partecipare a eventi la cui rilevanza medico-scientifica e valenza formativa sia
esclusiva.
La
prescrizione dei farmaci
La pubblicità dei medicinali effettuata dall’industria farmaceutica tesa a
promuoverne la prescrizione, deve favorire l’uso razionale del medicinale,
presentandolo in modo obiettivo senza esagerarne le proprietà, e non può
essere ingannevole.
314
Manuale della Professione Medica
a. L’Ordine collabora, ove richiesto, alla attuazione e alla verifica dei suddetti precetti e favorisce l’informazione indipendente e la formazione
alla lettura critica della letteratura scientifica;
b. il medico è tenuto a non sollecitare e a rifiutare premi, vantaggi pecuniari o in natura, offerti da aziende farmaceutiche o da aziende fornitrici
di materiali o dispositivi medici, salvo che siano di valore trascurabile
e comunque collegati all’attività professionale; il medico può accettare
pubblicazioni di carattere medico-scientifico;
c. i campioni di farmaci di nuova introduzione possono essere accettati
dai medici per un anno dalla loro immissione in commercio;
d. i medici ricevono gli informatori scientifici del farmaco in base alla loro
discrezionalità e alle loro esigenze informative senza provocare intralcio all’assistenza; dell’orario di visita è data notizia ai pazienti mediante
informativa esposta nelle sale di aspetto degli ambulatori pubblici o
privati e degli studi professionali;
e. il medico non deve sollecitare la pressione delle associazioni dei malati
per ottenere la erogazione di farmaci di non provata efficacia;
f. i medici facenti parte di commissioni di aggiudicazione di forniture non possono partecipare a iniziative formative a spese delle aziende partecipanti.
Le norme che disciplinano la prescrizione dei farmaci, una delle decisioni
più importanti del medico, sono illustrate all’art. 13. Per il conflitto d’interesse in tema di prescrizione terapeutica, l’art. 30 è perentorio: il medico
non deve in alcun modo subordinare il proprio comportamento prescrittivo ad accordi economici o di altra natura per trarne indebito profitto per
sé o per altri. Una circostanza, quest’ultima, nella quale si configura, peraltro, il reato di comparaggio, punibile penalmente oltre che vietato espressamente dal Codice nel successivo art. 31, e che travalica i limiti “morali” di
una personale valutazione di un conflitto di interessi.
Art. 31 - Comparaggio
Ogni forma di comparaggio è vietata.
Quest’articolo nel vietare “ogni forma” di “comparaggio” rimanda, per la
definizione del comportamento che in concreto costituisce illecito disciplinare,
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
315
al corrispondete reato previsto, per quanto riguarda i medici, dall’art. 170 del
RD n. 1265 del 1934. Occorre, dunque, far riferimento alla fattispecie delittuosa in oggetto per verificare anche il contenuto dell’illecito disciplinare.
L’art. 170, che è inserito nel testo Testo Unico delle Leggi Sanitarie (TULS),
pone un preciso divieto, per il medico, di ricevere, per sé o per altri, denaro
o altre utilità ovvero di accettarne la promessa, allo scopo di agevolare, con
prescrizioni mediche o in qualsiasi altro modo, la diffusione di medicinali o
di altri prodotti a uso farmaceutico. Il reato, in seguito alla modifica delle sanzioni introdotta dall’art. 16 DLgs n. 541/92, è punito con la pena congiunta
dell’arresto fino ad un anno e con una ammenda. La condanna in sede penale
comporta anche la sanzione accessoria della sospensione dell’esercizio della
professione per un periodo di tempo pari alla durata della pena inflitta.
Scopo evidente della norma è quello di tutelare la salute pubblica contro i pericoli che possono derivare da prescrizioni operate deliberatamente dai
medici per finalità di lucro e non per esigenze sanitarie. Si tratta, quindi, di un
reato doloso punito severamente, tenuto anche conto della sanzione accessoria
che finisce con l’incidere sulla possibilità di esercitare la professione, sia pure
per un periodo di tempo limitato.
La norma, peraltro, stabilendo che, se il comportamento del medico violi
altre disposizioni di legge, si applicano le relative sanzioni secondo le norme sul
concorso dei reati, impone all’interprete di verificare quale sia il confine tra l’art.
170 TULS e gli reati ipotizzabili che possono essere più gravi, come ad esempio
quello di corruzione di cui all’art. 319 del Codice penale, o considerati di pari
gravità dal legislatore, come quello previsto dall’art. 123 DLgs n. 219/06.
Il medico deve essere consapevole dei diversi rischi che corre violando
queste normative che sono finalizzate a proteggere diversi interessi pubblici
e che, come nel caso della corruzione, sono punite anche con pene di diversa
gravità.
L’art. 123 del DLgs n. 219/06, infatti, al primo comma, vieta – nell’ambito
dell’attività di informazione e presentazione dei medicinali – la concessione o
promessa ai medici di premi o vantaggi pecuniari o in natura da parte dei soggetti a ciò abilitati, salvo che «siano di valore trascurabile e siano comunque collegabili
all’attività espletata dal medico». Nel contempo, al terzo comma di questa norma,
è posto il divieto per i sanitari di sollecitare o accettare dagli informatori scientifici gli incentivi la cui concessione o promessa è vietata nel primo comma.
316
Manuale della Professione Medica
La violazione di questo divieto è punita, ai sensi dell’art. 147 del DLgs
n. 219/06 con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda da quattrocento a
mille euro. Anche in questo caso la condanna in sede penale comporta anche
la sanzione accessoria della sospensione dell’esercizio della professione per un
periodo di tempo pari alla durata della pena inflitta.
L’art. 319 del Codice penale, a sua volta, vieta ai pubblici ufficiali (sono considerati tali dalla giurisprudenza sia i medici che operano nelle strutture del Servizio
Sanitario Nazionale, sia i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta
nell’esercizio della loro attività in convenzione) di ricevere, per sé o per un terzo,
in denaro o altre utilità, retribuzioni che non sono dovute ovvero di accettarne
la promessa, per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio (ad esempio, una
prescrizione di medicinali a carico del Servizio Sanitario Nazionale a soggetto
non affetto dalla patologia per la quale il farmaco è indicato o all’insaputa del
malato che, quindi, non ne viene in possesso, effettuata al solo scopo di favorire
la vendita di questi prodotti in cambio di somme di denaro). La pena prevista per
questo delitto, considerato molto grave dal legislatore perché contro la pubblica
amministrazione, è quella detentiva (da due a cinque anni di reclusione). Ai sensi
dell’art. 31 del Codice penale alla condanna per questo delitto consegue l’interdizione temporanea dal pubblico ufficio ricoperto dall’autore del fatto.
L’interpretazione della Giurisprudenza sui rapporti “di confine”
tra comparaggio e gli altri reati ipotizzabili a carico del medico
La questione dei rapporti tra i reati descritti nelle loro linee generali nel
paragrafo che precede è stata esaminata dalla Giurisprudenza in un caso che
riguardava l’accertato rapporto illecito triangolare tra un informatore farmaceutico, un medico di medicina generale e un farmacista, verificato attraverso
l’uso di intercettazioni telefoniche e di altri accertamenti, anche bancari. In
questa fattispecie, decisa dalla Corte di Cassazione, prima sezione penale, con
sentenza n. 42750/07, emerge, tra l’altro, che un medico di base convenzionato
con il Servizio Sanitario Nazionale e, quindi, pubblico ufficiale, aveva prescritto
un numero elevato di farmaci prodotti dalle case farmaceutiche rappresentate
dall’informatore in questione, prescindendo dalle effettive esigenze terapeutiche degli assistiti, dietro corresponsione di consistenti somme di denaro.
La Suprema Corte, chiamata ad esaminare il rapporto tra l’ipotizzata violazione del norma di cui all’art. 170 TULS in tema di comparaggio e il contestato
7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici
317
delitto di corruzione di cui all’art. 319 del Codice penale, ha stabilito che tra
le due norme non ricorre un rapporto di specialità, attesa la diversità del bene
giuridico tutelato e l’atteggiarsi del dolo, e, quindi, entrambe potevano essere
applicate alla fattispecie in base alla normativa sul concorso dei reati, sussistendone i presupposti di legge.
La Cassazione non ha mancato di sottolineare che questa conclusione era
giustificata dalla riserva contenuta nel secondo comma dell’art. 170 TULS sul
comparaggio («se il fatto violi pure altre disposizioni di legge, si applicano le relative sanzioni
secondo le norme sul concorso dei reati»), nonostante «la labilità della linea di demarcazione
segnata dal legislatore per le distinte fattispecie» della corruzione e del comparaggio.
Questa conclusione deve essere tenuta ben presente dai sanitari perché il
delitto di corruzione prevede sanzioni penali molto più pesanti della contravvenzione di comparaggio, come sopra evidenziato.
La Cassazione con questa decisione ha esaminato anche il rapporto intercorrente tra la violazione dell’art. 123 DLgs n. 219/06 e il mancato rispetto
della disposizione sul divieto di comparaggio contenuta nell’art. 170 TULS.
La Corte, al riguardo, ha affermato che la prima contravvenzione, prodromica rispetto al tradizionale reato di comparaggio, è stata introdotta dal legislatore
a tutela anticipata della correttezza dell’attività promozionale in campo farmaceutico, del mercato e della concorrenza nel settore, e indirettamente anche a
tutela della salute dei cittadini. Se, infatti, la promessa o la dazione di denaro o
altra utilità al sanitario, sono eseguite nel medesimo contesto informativo, ma
allo scopo specifico «di agevolare la diffusione di specialità medicinali o di ogni altro
prodotto ad uso farmaceutico», si configura la diversa e autonoma fattispecie illecita
del “comparaggio” di cui all’art. 170 TULS.
Le condotte tenute dal medico in violazione dell’art. 123 DLgs n. 219/06
ovvero dell’art. 170 TULS o ancora dell’art. 319 del codice penale sono tutte,
comunque, rilevanti sul piano deontologico perché contrastano con i principi
fondamentali dell’etica medica che vieta ai sanitari prescrizioni di medicinali in
cambio di premi o vantaggi indebiti.
8
La sperimentazione
A. Pagni
Art. 47 - Sperimentazione scientifica
Il progresso della medicina è fondato sulla ricerca scientifica che si avvale
anche della sperimentazione sull’animale e sull’uomo.
L’introduzione allo studio della medicina sperimentale, del fisiologo francese C. Bernard, pubblicata nel 1865, rappresentò una tappa miliare nella medicina trasformando una pratica, sino allora empirica, nell’esercizio di una professione che
attingeva la validità delle sue congetture e conoscenze dalla ricerca scientifica.
Le nuove conoscenze derivanti dall’ingresso della sperimentazione nella
medicina, le permisero di rendersi indipendente da ogni specifica concezione
filosofica, con le quali aveva mantenuto uno stretto rapporto lungo tutto il
Medio Evo, e l’epoca rinascimentale, per attenuarsi nel XVII secolo con la
nascita del metodo sperimentale (G. Galilei, Newton, F. Bacone ecc.).
Il metodo sperimentale, genericamente inteso, consta di tre fasi: la prima consiste nell’osservazione dei fatti significativi; la seconda nel giungere a un’ipotesi, che, se vera,
deve spiegare questi fatti; la terza nel dedurre conseguenze, da quell’ipotesi. Se
le conseguenze sono confermate, l’ipotesi è provvisoriamente ritenuta “vera”,
anche se in seguito potrà essere modificata, con la scoperta di altri fatti.
Nel XX secolo, dopo i successi della medicina biologica nell’Ottocento e nella
prima metà del Novecento, il cammino della medicina e della filosofia hanno
cominciato ad incontrarsi di nuovo. Sia perché la scienza stava divenendo un
fattore importante nella determinazione della vita biologica dell’individuo, nelle
forme familiari, negli assetti sociali e nello stesso ambiente naturale.
E sia perché si evidenziava che l’intero sviluppo della conoscenza scientifica, (condizionata da fattori extrascientifici, storici, sociali, pratici e metafisici),
320
Manuale della Professione Medica
aveva un carattere provvisorio e approssimativo (che non offriva “verità” ma
semplici “congetture”), e che i “fatti” ci erano noti solo tramite le teorie all’interno di determinati quadri concettuali (paradigmi).
Le riflessioni post-positivistiche ed ermeneutiche hanno portato un contributo
importante all’analisi epistemologica applicata alla scienza, mentre quelle
fenomenologiche, esistenziali, psicanalitiche e della bioetica si sono occupate, in modo
nuovo, dell’uomo e del valore e significato della vita.
Tuttavia, né le une, né le altre hanno risolto interamente il genuino problema filosofico posto dalla medicina moderna: la conciliazione in un rapporto
dialettico-morale con il malato, in un approccio clinico che “oggettiva” la persona secondo i
canoni della scienza, e uno relazionale che ne deve rispettare l’autonomia soggettiva.
Le prime, identificando l’attività del medico con le sole discipline scientifiche organicistiche, hanno fornito una descrizione insufficiente della metodologia
clinica, che non si configura come ricerca scientifica della verità, ma come applicazione pratica
delle “verità” scientifiche in relazione alle esigenze imposte dal contesto in cui si svolge l’incontro tra il medico e l’assistito.
Le seconde hanno mostrano difficoltà a comprendere le dinamiche della
relazione terapeutica con le persone, che si sviluppa all’interno di una matrice
decisionale carica di valori, ma è insieme tributaria di altre discipline (fisiologia, chimica, fisica, farmacologia, biologia, genetica, ricerca, psicologia, sociologia della salute e
ambiente), calate nella realtà vivente di un uomo, allo scopo di ripristinarne la salute e
curarne le malattie.
Art. 48 - Ricerca biomedica e sperimentazione sull’uomo
La ricerca biomedica e la sperimentazione sull’uomo devono ispirarsi all’inderogabile principio della salvaguardia dell’integrità psicofisica e della vita
e della dignità della persona. Esse sono subordinate al consenso del soggetto in esperimento, che deve essere espresso per iscritto, liberamente e
consapevolmente, previa specifica informazione sugli obbiettivi, sui metodi,
sui benefici previsti, nonché sui rischi potenziali e sul diritto del soggetto stesso
di ritirarsi in qualsiasi momento dalla sperimentazione. Nel caso di soggetti
minori, interdetti e posti in amministrazioni di sostegno è ammessa solo la
sperimentazione per finalità preventive e terapeutiche.
8. La sperimentazione
321
Il consenso deve essere espresso dai legali rappresentanti, ma il medico sperimentatore è tenuto ad informare la persona documentandone la volontà e
tenendola comunque sempre in considerazione.
Ogni tipologia di sperimentazione compresa quella clinica deve essere programmata e attuata secondo idonei protocolli nel quadro della normativa
vigente e dopo avere ricevuto il preventivo assenso da parte di un Comitato
Etico indipendente.
La ricerca biomedica e la sperimentazione sull’uomo comprende la sperimentazione biologica, farmacologica, diagnostica, terapeutica, epidemiologica,
prenatale e genetica, oltre a quella sui dispositivi e le apparecchiature sanitarie.
La storia della sperimentazione sull’uomo è inscindibile da quella della
medicina e condizione necessaria e irrinunciabile per il suo progresso, anche
se è relativamente recente la presa di coscienza del dovere di rispettare i più
deboli, i detenuti e i minorati nella sua effettuazione, e di salvaguardare in
generale i diritti dell’uomo.
L’inizio della riflessione deontologica e legislativa, in tema di sperimentazione sull’uomo, si fa risalire tradizionalmente alle conclusioni del Processo di
Norimberga (1946-1947), che condannò i medici nazisti per gli esperimenti criminali compiuti sui prigionieri nei campi di sterminio. In seguito a questi fatti,
per la prima volta nella storia, una Corte di giustizia riconobbe l’ammissibilità
della sperimentazione sull’uomo, purché rispettosa dei suoi diritti, e indicò nel
cosiddetto Decalogo di Norimberga (agosto 1947) quali principi etici e giuridici
dovessero regolarla per consentire di perseguire gli scienziati e i ricercatori che
avessero compiuto sperimentazione criminali sulle persone.
Da quel documento storico sono scaturiti tre principi indefettibili: 1. Che la
condizione preliminare, “assolutamente essenziale”, allorché si intraprenda una
sperimentazione è il consenso libero e informato da parte di chi vi sottopone. 2.
Che colui che inizia, dirige o si impegna a condurre la sperimentazione stessa è
personalmente responsabile della sua validità scientifica. 3. Che una sperimentazione è giustificata sulla base dei risultati che ci si attende di ottenere, e che il livello
di rischio «non deve mai superare quello determinato dall’importanza che il problema, da risolvere mediante la sperimentazione, ha dal punto di vista umanitario».
Nonostante si ritenesse che con il processo di Norimberga, si fossero definitivamente archiviati i maltrattamenti delle persone indifese, non mancarono
322
Manuale della Professione Medica
negli anni seguenti alcuni episodi di sperimentazioni selvagge, compiute senza
il loro consenso, su pazienti anziani, bambini disabili e braccianti di colore.
Dal 1947 ad oggi oltre trenta tra Memorandum, Convenzioni, Linee-Guida,
Risoluzioni e Raccomandazioni concernenti i diritti dell’uomo e i fondamenti
etici e giuridici della sperimentazione sono stati emanati dall’OMS, dalle istituzioni comunitarie e dallo Stato italiano.
Il ricercatore, tuttavia, oltre a rispettare gli articoli del Codice deontologico dei medici (2006), è tenuto a conoscere in particolare le Direttive etiche
internazionali per la ricerca biomedica condotta sui soggetti umani (CIOMS,
Ginevra, 1993), la versione più recente della Dichiarazione di Helsinki
dell’Associazione Medica Mondiale (2000), le Good Clinical Practice (Direttiva CEE n. 91/507/1991), la Convenzione di Oviedo (1997), la Dichiarazione Universale di bioetica e diritti umani (UNESCO 2005), i documenti
dell’EMEA, del Consiglio d’Europa, del Comitato Nazionale per la Bioetica,
e il regolamento e le Procedure Operative Standards (SOPs) del Comitato
di Bioetica.
Art. 49 - Sperimentazione clinica
La sperimentazione può essere inserita in trattamenti diagnostici e/o terapeutici, solo in quanto sia razionalmente e scientificamente suscettibile di utilità
diagnostica o terapeutica per i cittadini interessati.
In ogni caso di studio clinico, il malato non potrà essere deliberatamente
privato dei consolidati mezzi diagnostici e terapeutici indispensabili al mantenimento e/o al ripristino dello stato di salute.
I predetti principi adottati in tema di sperimentazione sono applicabili anche
ai volontari sani.
Le Good Clinical Practice (GCP) sono uno standard internazionale di etica e
qualità scientifica, per progettare, condurre, registrare e comunicare i risultati
relativi agli studi clinici che coinvolgono soggetti umani.
Nessun farmaco può essere autorizzato al commercio se la sua tollerabilità
ed efficacia non sono state precedentemente documentate da studi clinici controllati e sottoposti a rigide regole etiche e procedurali.
Anche per farmaci già approvati, la richiesta di eventuali nuove indicazioni,
8. La sperimentazione
323
vie di somministrazione, diverso confezionamento e schema terapeutico deve
essere sottoposto a nuovi studi clinici.
Il DM n. 162/7/1997, recependo le linee-guida europee relative alla Buona
Pratica Clinica, ha definito sperimentazione clinica, «ogni sperimentazione condotta su
soggetti umani intesa a identificare o verificare gli effetti clinici, farmacologici e/o altri effetti farmacodinamici di un prodotto in sperimentazione, e/o studiare l’assorbimento, la distribuzione,
il metabolismo e l’eliminazione di un prodotto in sperimentazione con l’obbiettivo di valutarne
sicurezza e/o efficacia. I termini sperimentazione clinica e studio clinico sono sinonimi».
Una sperimentazione clinica nasce, in genere, da un’idea, stimolata dall’osservazione clinica e da motivazioni etiche, e può essere proposta e condotta spontaneamente da uno sperimentatore o da un’organizzazione di cui fa parte, o ideata
progettata e proposta da uno sponsor, sia esso una casa farmaceutica o altro ente.
Una tutela particolare deve essere riservata ai soggetti “vulnerabili” (detenuti, prigionieri di guerra e condannati a morte) che non possono partecipare
volontariamente e liberamente a una sperimentazione, e le leggi disciplinano
in dettaglio i problemi etici presenti nelle sperimentazioni condotte sui minori,
gli anziani, i disabili, le donne in età fertile e gli affetti da gravi malattie mentali.
La ricerca in Italia è promossa prevalentemente dalle aziende farmaceutiche (il 73,7%) perché gli ingenti investimenti richiesti, in termini di tempo,
danaro e di risorse umane, possono essere recuperati con l’immissione sul
mercato dei principi attivi studiati e dei relativi brevetti.
La collaborazione tra industria e ricercatori ha permesso finora la disponibilità di nuovi farmaci efficaci per il miglioramento della salute pubblica, anche se
il recente ingresso dei farmaci generici, e la scadenza dei brevetti, pare minacciare
gli investimenti in nuove ricerche da parte dell’industria del farmaco.
Questo rapporto di collaborazione destinato a coinvolgere esseri umani,
deve garantire la massima trasparenza e credibilità dei risultati, e che il ricercatore non possa essere sospettato di conflitto di interessi.
Una sperimentazione clinica richiede la scelta di un buon disegno statistico, una rigorosa progettazione e conduzione, una raccolta e analisi accurata
dei dati, una corretta e coerente interpretazione e un’utilizzazione efficace dei
risultati., e può essere effettuata in un solo centro (studio monocentrico) o condotta, con un unico protocollo, in più strutture e numerosi sperimentatori
(studio multicentrico). In quest’ultimo caso il centro coordinatore è rappresentato
dal centro promotore dell’iniziativa.
324
Manuale della Professione Medica
In una sperimentazione clinica sarebbe auspicabile il coinvolgimento del
medico curante del paziente, sia perché ne conosce la storia clinica e personale, e
può aiutarlo a dare un assenso consapevole alla proposta di una ricerca, e sia
per evitare il rischio di un’interazione tra il farmaco che il paziente sta assumendo nella sperimentazione e quelli eventualmente prescritti dal medico di
famiglia.
Giova anche ricordare che una sperimentazione terapeutica ha una finalità individuale, la cui rilevanza diagnostico-terapeutica è diretta al paziente stesso e
agli altri partecipanti alla ricerca, mentre la sperimentazione non terapeutica (pura
o di base) ha una finalità sociale, in quanto la verifica delle ipotesi scientifiche
non è direttamente correlata al beneficio di coloro che si sottopongono volontariamente alla ricerca. Infine, gli studi osservazionali rappresentano un metodo
di osservazione e per lo studio epidemiologico dei dati relativi all’efficacia dei
farmaci prescritti nella normale pratica clinica, ma i protocolli adottati, non
potendo essere standardizzati come nella sperimentazione interventistica,
devono essere ugualmente rigorosi e non influenzati dal marketing di eventuali
sponsor.
Conflitto d’interesse
Il conflitto di interesse è ritenuto più una “condizione” che un “comportamento, e diviene «moralmente riprovevole soltanto quando provoca comportamenti riprovevoli».
Questa definizione eticamente è chiara ma realisticamente incerta, per cui
la FNOMCeO ha ritenuto necessario dedicargli oltre a un articolo anche un
allegato esplicativo al Codice (vedi pag. 311).
La sponsorizzazione privata è necessaria e ineliminabile nella ricerca, e sia
l’azienda farmaceutica che il ricercatore, e anche la società, hanno un interesse
legittimo nella sua promozione, purché tra i due contraenti sia stipulato un
contratto pubblico, chiaro e trasparente.
Nelle ricerche cliniche promosse dall’industria farmaceutica il ruolo del
medico ricercatore può, infatti, assumere carattere subalterno allo sponsor ed
essere influenzato, nella valutazione dei dati raccolti, da una ricerca orientata
al profitto nel mercato, ma anche nelle ricerche non profit possono prevalere
l’ambizione e gli interessi personali del ricercatore, per ottenere finanziamenti
pubblici, piuttosto che il desiderio di conoscere la verità.
8. La sperimentazione
325
La pubblicazione dei risultati di una sperimentazione clinica rappresenta un
momento di cruciale importanza perché quei dati, convalidati da referees autorevoli e accreditati, e pubblicati su importanti riviste scientifiche orienteranno le
scelte terapeutiche facendo la fortuna commerciale di un farmaco, e potranno
avere ripercussioni sulle scelte di politica sanitaria.
In questo ambito si definisce “frode” la diffusione intenzionale di dati falsi o
inesistenti. Il Comitato Nazionale di Bioetica ha individuato nelle ricerche promosse
dall’industria due categorie di conflitti di interesse: quelli diretti e quelli indiretti.
I primi corrisponderebbero a situazioni nelle quali il medico ricercatore riceve
direttamente un compenso per il suo lavoro da parte della committenza industriale.
Gli indiretti si realizzerebbero, invece, quando il ricercatore riceve dall’industria che ha promosso la ricerca non vantaggi in danaro, ma: viaggi e vacanze,
borse di studio, partecipazione gratuita a congressi, o concessioni di apparecchiature “in comodato d’uso”.
Art. 50 - Sperimentazione sull’animale
La sperimentazione sull’animale deve essere improntata a esigenze e finalità di
sviluppo delle conoscenze non altrimenti conseguibili e non a finalità di lucro,
deve essere condotta con metodi e mezzi idonei a evitare inutili sofferenze e
i protocolli devono avere ricevuto il preventivo assenso di un Comitato Etico
indipendente. Sono fatte salve le norme in materia di obiezione di coscienza.
L’utilizzo degli animali nella sperimentazione biomedica appare uno degli
aspetti più controversi e inconciliabili del rapporto uomo/animale. Il dissidio
non riguarda solo la sfera morale di pratiche che provocano sofferenze ad altri
esseri, ma anche la validità scientifica di una ricerca ritenuta da alcuni fallace, e
non predittiva per l’uomo.
Gli antivivisezionisti sostengono infatti che, oltre alle sofferenze e al sacrificio di un alto numero di esseri viventi (12 milioni ogni anno nell’Unione
Europea, senza contare i “non vertebrati” non censiti, usati come cavie), le
differenze genetiche, metaboliche e biochimiche tra specie diverse, la diversità
delle reazioni immunologiche e nosologiche tra uomini e animali e la lunghezza
dei tempi di sperimentazione, condizionerebbero l’attendibilità e la trasferibilità di queste ricerche all’uomo.
326
Manuale della Professione Medica
E qualcuno ha puntato il dito accusatorio anche contro la sperimentazione
animale nella cosmetologia per valutare la tollerabilità cutanea di nuovi prodotti.
L’opinione prevalente nella comunità scientifica che studia l’efficacia e la
tollerabilità dei farmaci, i meccanismi biochimici e fisiopatologici delle malattie, e sperimenta nuove tecniche chirurgiche, sostiene invece che non si possa
rinunciare alle sperimentazioni sull’animale, nella convinzione che finora
abbiano permesso di acquisire una parte notevole delle attuali conoscenze e
risultati altrimenti irraggiungibili nella cura delle malattie. Esse offrirebbero
anche opportunità didattiche non sempre sostituibili con soluzioni tecnologiche alternative: simulatori elettronici, colture in vitro di cellule e tessuti,
microrganismi, tecniche di imaging non invasive e sistemi artificiali..
Queste opinioni scientifiche antitetiche, e gli interrogativi etico-morali
suscitati da questo tipo di sperimentazioni non hanno certamente resa agevole
l’opera del legislatore a livello nazionale, e comunitario.
Anzi, il Parlamento di Strasburgo, dopo due anni di dibattito, di correzioni e
di ripensamenti ha approvato l’8 settembre 2010, tra le proteste di 40 eurodeputati che hanno abbandonato l’aula, una direttiva più arretrata di quella vigente in
Italia (legge del 1992 e seguenti), in tema di sperimentazioni sull’animale.
Le richieste provenienti da un’opinione pubblica sempre più sensibile
all’importanza del rispetto degli animali, imporrebbe la ricerca di un ragionevole equilibrio tra chi rifiuta aprioristicamente la sperimentazione animale,
rivendicando un uguaglianza interspecifica uomo-animale, e chi, altrettanto
decisamente, rivendica la libertà assoluta, e la responsabilità autoreferenziale e
incontrollata del ricercatore.
Questo articolo del Codice si è attenuto al dettato del DLgs n. 116/92, e
alle altre normative nazionali che disciplinano in ogni suo aspetto lo svolgimento di attività scientifiche che prevedano l’uso di animali, (compreso il riconoscimento all’obiezione di coscienza alla vivisezione), senza prendere partito
sulla controversia tra utilità e insostituibilità, eticità e legittimità o meno, di
questo genere di sperimentazioni.
Riserve e prese di posizioni fortemente critiche sulle norme vigenti non
sono mancate, ma allo sperimentatore sarà comunque richiesto di dimostrare,
documentare e sottoscrivere: 1. Che non sono disponibili metodi “alternativi”.
2. Che è necessario il ricorso a una determinata specie animale. 3. Che adotterà
la metodica sperimentale che richiederà il minor numero di animali, e con il
8. La sperimentazione
327
più basso sviluppo neurologico. 4. Che questa provocherà meno dolore, sofferenza, angoscia, o danni durevoli, offrendo le maggiori probabilità di risultati
soddisfacenti. 5. Che non riutilizzerà lo stesso soggetto in altri esperimenti. E,
infine. 6. Che ricorrerà all’anestesia dell’animale, a meno che non risulti più
dolorosa dell’esperimento o non sia incompatibile con il suo fine (necessaria
in questo caso una specifica autorizzazione ministeriale).
9
La documentazione dell’attività medica
S. Del Vecchio, V. Fineschi
Art. 24 - Certificazione
Il medico è tenuto a rilasciare al cittadino certificazioni relative al suo stato di
salute che attestino dati clinici direttamente constatati e/o oggettivamente documentati. Egli è tenuto alla massima diligenza, alla più attenta e corretta registrazione dei dati e alla formulazione di giudizi obiettivi e scientificamente corretti.
Art. 25 - Documentazione clinica
Il medico deve, nell’interesse esclusivo della persona assistita, mettere la documentazione clinica in suo possesso a disposizione della stessa o dei suoi
legali rappresentanti o di medici o istituzioni da essa indicati per iscritto.
Il certificato medico è la forma più diffusa di documentazione dell’attività medica, una testimonianza scritta su fatti e comportamenti tecnicamente
apprezzabili e valutabili, la cui dimostrazione può produrre affermazione di
particolari diritti soggettivi previsti dalla legge, ovvero determinare particolari
conseguenze a carico dell’individuo e della società, aventi rilevanza giuridica
e/o amministrativa.
La certificazione di qualsivoglia condizione deve sempre e comunque
essere preceduta dalla valutazione clinica del paziente ed è inoltre importante
ricordare che il dato clinico deve essere tenuto ben distinto dai sintomi lamentati o comunque da quanto riferito dal paziente.
Il medico, nel redigere certificazioni, deve valutare e attestare soltanto dati
clinici che abbia direttamente constatato. Nella compilazione di un certificato
medico devono essere riportati i seguenti elementi essenziali:
330
Manuale della Professione Medica
– intestazione o timbro del medico certificante;
– generalità del paziente richiedente (nome, cognome, data di nascita, residenza o domicilio);
– oggetto della certificazione con eventuale diagnosi e prognosi di malattia;
– firma del medico certificante;
– data e luogo di redazione del certificato.
Il certificato deve essere redatto con scrittura e termini comprensibili,
senza correzioni e abrasioni che possano far sorgere il dubbio di successive
alterazioni o contraffazioni dell’atto, e, nel caso in cui una correzione si rendesse indispensabile, questa va indicata a chiare lettere e controfirmata con
firma leggibile.
Il rilascio del certificato direttamente al paziente oggetto della certificazione
rende implicita la sussistenza del consenso informato da parte del richiedente.
È importante ricordare la duplice valenza di questo atto in quanto le eventuali irregolarità potranno avere tanto rilievo amministrativo quanto rilievo
giuridico civile e/o penale. Il rilascio di un certificato falso potrà quindi rilevare
un reato ed essere perseguito a livello deontologico, a livello amministrativo, a
livello penale e a livello civile.
La natura giuridica del certificato medico può rientrare in una delle tre ipotesi:
– atto pubblico redatto attraverso la certificazione obbligatoria;
– certificato amministrativo rilasciato nell’esercizio delle funzioni pubbliche;
– scrittura privata rilasciata in regime libero-professionale, durante il quale il
sanitario non svolge funzioni pubbliche.
La distinzione tra atto pubblico (art. 2699 cc) e certificazione amministrativa è stata precisata dalla sentenza n. 257 del 3 luglio 1989 della Cassazione
penale sez. V ed è rilevante per la maggiore severità con cui vengono puniti
gli illeciti nella redazione degli atti pubblici: nell’atto pubblico si attestano fatti
compiuti dal medico con funzioni pubbliche o avvenuti in sua presenza, mentre nella certificazione il medico con funzioni pubbliche attesta fatti da lui
rilevati o conosciuti nell’ambito della sua attività.
Va rilevato che sia l’atto pubblico sia la certificazione amministrativa si
fondano sul presupposto essenziale che il sanitario li rediga nell’esercizio delle
funzioni di pubblico ufficiale (art. 357 cp) o incaricato di pubblico servizio
(art. 358 cp).
9. La documentazione dell’attività medica
331
Sono atti pubblici che presuppongono l’avvenuta visita medica, la prescrizione su ricettario regionale di accertamenti diagnostici (sentenza n. 412
del 14 gennaio 1985 della Cassazione penale, sez. V), il certificato di morte e
dell’identificazione delle relative cause (sentenza n. 8496 del 17 ottobre1983
della Cassazione penale, sez. V) e il certificato di idoneità alla guida di autoveicoli (sentenza n. 9228 del 22 novembre 1979 e sentenza n. 1429 del 15 novembre 1984 della Cassazione penale, sez. V) e quello di idoneità al porto d’armi
(DM 28 aprile 1998 in GU n. 143 del 22 giugno 1998).
Sono considerate certificazioni amministrative: la prescrizione di farmaci
su ricettario regionale (sentenza n. 6752 del 7 giugno 1988 della Cassazione
penale, sez. Unite, e sentenza n. 8051 del 1 giugno 1990 della Cassazione
penale, sez. IV) e le altre certificazioni redatte in qualità di pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico servizio come, per esempio, i certificati di idoneità all’attività sportiva agonistica di cui al DM Sanità 18 febbraio 1992 per gli atleti non
professionisti e di cui al DM Sanità 13 marzo 1995 per gli atleti professionisti.
Va rilevato che i certificati di idoneità allo sport agonistico possono essere
rilasciati solo da medici specialisti o accreditati, ai sensi del DL n. 633/79 convertito in legge n. 33/80.
Ugualmente, i certificati attestanti l’esonero all’uso delle cinture di sicurezza per controindicazione derivante da malattia possono essere rilasciati solo
dai medici dipendenti o incaricati del SSN ai sensi della legge 4 agosto 1989 e
non dai medici di medicina generale, salvo i casi certificanti lo stato di gravidanza o la statura inferiore a cm 150.
Sono considerate scritture private (art. 2702 cc) le certificazioni redatte dal
medico in qualità di libero professionista, definito come esercente un servizio di
pubblica necessità (art. 359 cp). Ad esempio: a) i certificati di assenza di controindicazioni per l’esercizio dell’attività sportiva non agonistica ai sensi del DM Sanità
del 28 febbraio 1983; b) la proposta di ricovero coatto per pazienti psichiatrici di
cui alla legge n. 180/78 (sentenza n. 18341 del 2 dicembre 1983 della Cassazione
penale, sez. V) indirizzata al Sindaco, redatta da medico libero professionista; c) i
certificati per l’interruzione volontaria di gravidanza di cui alla legge n. 194/78; d)
la constatazione di decesso; e) i certificati di malattia per uso assicurativo privato.
Alcuni reati sono tra l’altro previsti nel nostro Codice penale in tema di
certificazioni quali il falso materiale, il falso ideologico, la truffa e la violazione
di privacy e segreto professionale.
332
Manuale della Professione Medica
Il sanitario con funzioni pubbliche risponde di falso materiale (art. 476 cp
in atto pubblico e art. 477 cp in certificazione amministrativa) se nella redazione del certificato commette alterazioni o contraffazioni mediante cancellature, abrasioni, aggiunte successive miranti a far apparire adempiute le condizioni richieste per la sua validità.
Il medico che svolge un’attività libero-professionale risponde invece, in caso
di falso materiale all’art. 485 cp, articolo nel quale sono previste pene meno
severe rispetto a quelle indicate a carico del medico con funzioni pubbliche.
Il medico con funzioni pubbliche risponde di falso ideologico (art. 479 cp
in atto pubblico e art. 480 cp in certificazione amministrativa) se il giudizio
diagnostico espresso nel certificato si fonda su fatti esplicitamente dichiarati
o implicitamente contenuti nel giudizio stesso, che siano non rispondenti al
vero, sempre che ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione, secondo la
sentenza n. 11482 del 24 maggio 1977 della Cassazione, sez. VI.
Il sanitario che svolge attività libero-professionale in caso di falso ideologico
risponde all’art. 481 del cp: anche in questo caso le pene previste sono meno
severe. Ovviamente, il presupposto essenziale di tutti questi reati è il dolo.
La distinzione tra diagnosi falsa e diagnosi errata nel certificato medico ai
fini della legge penale è stata definita dalla sentenza del 18 marzo 1999 della
Cassazione penale, sezione V: è falsa la certificazione che si basa su premesse
oggettive non corrispondenti al vero, è invece errata se risulta inattendibile
l’interpretazione data per motivare il giudizio clinico.
Ricordiamo a tal proposito che la Cassazione con sentenza del 14 dicembre
1977 ha ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 481 cp (falso ideologico) il
medico che compila un certificato di morte senza aver visitato la salma.
Il Tribunale di Modena con sentenza del 15 marzo 1964 ha stabilito la colpevolezza di cui all’art. 481 cp a carico di un medico che aveva attestato il falso per
rimuovere un ostacolo al trasporto della salma di un paziente deceduto, favorendo
così i congiunti, pur senza trarne vantaggio personale, ma eludendo in tal modo
le norme di polizia mortuaria, anche se per un fine apparentemente umanitario.
Il certificato medico, nonché come già sottolineato la ricetta e/o la richiesta
di accertamenti, può determinare la costituzione di diritti a favore del richiedente con possibili oneri risarcitori a carico di terzi, tra cui anche lo Stato,
ed è perciò, per sua propria natura, soggetto a verifica. Di conseguenza false
attestazioni possono costituire anche il reato di truffa.
9. La documentazione dell’attività medica
333
L’ente pubblico può ovviamente esercitare un’azione di rivalsa nei confronti del medico, per il danno patrimoniale: questa procedura si aggiunge a
quella penale ed è forse ancora più temibile di quest’ultima per il medico che
non abbia agito correttamente.
I contenuti del certificato medico sono poi coperti dal segreto professionale ai sensi del CDM e della legge sulla privacy.
La violazione del segreto, in assenza di giusta causa, è punita dall’art. 622 cp,
se compiuta da un medico durante la libera professione, e viene invece punita più
severamente, dall’art. 326 cp, se commessa da un sanitario con funzioni pubbliche.
Va rilevato che lo stesso rilascio di certificazioni o comunque di altra documentazione clinica a soggetti diversi dall’interessato, senza il suo preventivo consenso,
può costituire una forma di violazione del segreto professionale e della privacy.
La gestione della documentazione sanitaria investe un ambito di organizzazione sanitaria insufficientemente regolato dallo Stato tanto in senso normativo quanto in senso organizzativo dagli enti che lo rappresentano. Non vi
è dubbio che la documentazione clinica rappresenta un bene destinato a un
pubblico servizio, in quanto la sua destinazione è direttamente attinente al fine
perseguito, che nel caso delle Aziende ospedaliere o del singolo medico si identifica nella tutela della salute. Ne deriva che la documentazione sanitaria è bene
pubblico e in particolare bene patrimoniale indispensabile; la qualifica di bene
pubblico del resto non può essere disconosciuta, trattandosi non solo di bene
appartenente a un ente pubblico (Azienda sanitaria), ma anche di bene destinato all’immediata soddisfazione di bisogni considerati di importanza sociale.
La normativa generale cui far riferimento è il DPR n. 128 del 1969 che,
all’art. 5, intesta il relativo impegno al direttore sanitario cui è deputato il rilascio agli aventi diritto, in base ai criteri stabiliti dalle singole amministrazioni.
Ne deriva che le copie delle «cartelle cliniche ed ogni altra certificazione sanitaria riguardante i malati assistiti in ospedale» rientrano in tale previsione.
Gli aventi diritto, cui è riservato il rilascio del materiale sanitario, sono individuabili, oltre che nel paziente, nella persona fornita di delega, conformemente alle disposizioni di legge; in tutti i soggetti appartenenti al Servizio Sanitario pubblico, negli enti previdenziali (INAIL, INPS), nell’autorità giudiziaria.
In effetti, la trasmissione di documenti inerenti le condizioni di salute e,
in genere, personali di un soggetto non si sottrae alla disciplina giuridica del
segreto professionale (art. 622), per cui solo l’avente diritto può cementare
334
Manuale della Professione Medica
(per scritto) l’accesso di altri ai dati clinici che lo riguardano, salvo che non
sussista una diversa previsione normativa che ne stabilisce la trasmissibilità.
Art. 26 - Cartella clinica
La cartella clinica delle strutture pubbliche e private deve essere redatta chiaramente, con puntualità e diligenza, nel rispetto delle regole della buona pratica clinica e contenere, oltre ad ogni dato obiettivo relativo alla condizione
patologica e al suo decorso, le attività diagnostico-terapeutiche praticate.
La cartella clinica deve registrare i modi e i tempi delle informazioni nonché i
termini del consenso del paziente, o di chi ne esercita la tutela, alle proposte
diagnostiche e terapeutiche; deve inoltre registrare il consenso del paziente al
trattamento dei dati sensibili, con particolare riguardo ai casi di arruolamento
ad un protocollo sperimentale.
La cartella clinica
La cartella clinica (cc), alla cui compilazione sono tenuti i medici ospedalieri o
dipendenti delle case di cura private, costituisce un documento di grande rilevanza
sanitaria, strumento di lavoro essenziale per una corretta assistenza del paziente (9).
Definizione e normativa
«L’importanza che la cartella clinica ha assunto in ambito sanitario è progressivamente scandita e ben sintetizzata dalla messe di contributi offerti dalla
dottrina medico-legale e dal riscontro giurisprudenziale di decisioni tese a un più
completo assetto giuridico che tale documentazione assume nel contesto della
tutela della salute oltre che della mera assistenza sanitaria» (Fineschi V, 2001).
La cartella clinica (cc) era già stata definita come «il fascicolo nel quale
si raccolgono i dati anamnestici e obiettivi riguardanti il paziente ricoverato,
quelli giornalieri sul decorso della malattia, i risultati delle ricerche e delle analisi effettuate, quelli delle terapie praticate e infine la diagnosi della malattia che
ha condotto il paziente in ospedale» (Merusi F, Bargagna M, La cartella clinica,
Giuffrè, Milano, 1978).
Essa è pertanto un documento eterogeneo, nel quale il personale sanitario
che si avvicenda intorno alla persona assistita cui la cartella si riferisce, registra
9. La documentazione dell’attività medica
335
un complesso di informazioni (anagrafiche, sanitarie, sociali, ambientali, giuridiche) concernenti un determinato paziente allo scopo di poter rilevare ciò
che lo riguarda in senso diagnostico-terapeutico non solo nel momento della
ospedalizzazione ma anche in tempi successivi. Questa infatti rappresenta un
insostituibile strumento tecnico-professionale attraverso il quale garantire e/o
programmare opportuni interventi medici, rilevare dati a fini scientifici, anche
epidemiologico-statistici, oltre a rivestire, come meglio diremo innanzi, un
innegabile ruolo/attributo di natura squisitamente medico-legale.
Infine è nozione acquisita che, come chiaramente scandito dalla circolare
del Ministero della Sanità, 14 marzo 1996, tanto la cartella infermieristica
quanto il registro operatorio costituiscono parte integrante della cc in aggiunta
alla scheda di dimissione ospedaliera, già prevista in ossequio al DM 21 dicembre 1991 e quindi ne rappresentano parte integrante e completante.
Cartella clinica: verso una nuova definizione
La cc è il diario nel quale si raccolgono i dati anamnestici e obiettivi riguardanti il paziente ricoverato, cui il contenuto dello stesso integralmente appartiene, quelli giornalieri sul decorso della malattia, i risultati delle indagini strumentali e laboratoristiche effettuate, quelli inerenti le terapie praticate e infine la
diagnosi della malattia che ha condotto il paziente in ospedale e quindi le conclusioni diagnostiche e terapeutiche cui si è pervenuti al termine del ricovero.
Costituiscono parte integrante della cc, la cartella infermieristica, il registro
operatorio (quando presente) e la scheda di dimissione ospedaliera.
I primi riferimenti normativi relativi alla cc risalgono in Italia alla fine dell’800,
con il RD del 1891 che disponeva la conservazione dei documenti relativi all’ammissione del ricoverato, alla diagnosi, al sommario mensile delle condizioni cliniche e alla dimissione. Il successivo RD del 1909 disponeva che in ogni manicomio doveva essere presente un fascicolo personale per ciascun ricoverato. Nel
1938, con RD n. 1631 (legge Petragnani), all’articolo 34, si prevedeva che la regolare tenuta delle cartelle cliniche e dei registri nosologici fosse compito del primario, principio che viene confermato dal DPR n. 128 del 1969, che all’articolo
7 individua nel primario il «[…] responsabile della regolare compilazione delle
cartelle cliniche, dei registri nosologici e della loro conservazione, fino alla consegna all’archivio centrale […]», quest’ultimo ubicato presso la Direzione sanitaria
così come disciplinato all’art. 2 del medesimo decreto ove si rammenta che la
336
Manuale della Professione Medica
Direzione sanitaria deve essere all’uopo fornita di un archivio clinico e si enuncia
che tra i compiti del direttore sanitario vi è anche quello di vigilare sull’archivio
delle cartelle cliniche e su ogni altra certificazione riguardante i malati assistiti in
ospedale. La legge attribuisce specificamente al primario (oggi responsabile di
Unità Operativa), l’onere della regolare tenuta della cc e dei registri nosocomiali,
sottolineando una responsabilità che ha pertanto chiare implicazioni di natura
giuridica sia in ordine ad aspetti prettamente penalistici (relativi, ad esempio, alla
tenuta e compilazione di atti di natura pubblica) sia in ordine ad aspetti squisitamente civilistici, sotto il profilo dell’onere della prova e della individuazione della
prestazione dovuta da parte di medici e struttura.
Anche la giurisprudenza si è espressa in merito, affermando che: «la cartella
clinica, della cui regolare compilazione è responsabile il primario, adempie alla
funzione di diario del decorso della malattia e di altri dati rilevanti» (Cass. sez.
V penale, 1983).
Oltre al primario, corresponsabile della corretta compilazione della cc nel
quadro delle «attribuzioni riferite ovviamente, e per quanto di competenza, è
l’aiuto [figura oggi scomparsa, ma solo nominalmente] che collabora direttamente con il primario nell’espletamento dei compiti a lui attribuiti e lo sostituisce in caso di assenza o di impedimento», secondo un principio che nel DPR
n. 761 del 1979, all’articolo 63 concretizza una titolarità plurisoggettiva nella
regolare compilazione delle cartelle cliniche, anche in presenza del primario,
poiché l’aiuto svolge funzioni autonome nell’area dei servizi a lui stesso affidata, sulla base delle direttive ricevute dal primario. Già con il DPR n. 225
del 1974, anche l’infermiere professionale diviene responsabile della corretta
conservazione della documentazione sanitaria del paziente, sino al momento
della consegna all’archivio centrale; è inoltre prevista la possibilità di annotare
sulle schede cliniche gli abituali rilievi di competenza. E inoltre la ricerca di
efficienza-efficacia e appropriatezza dei servizi e delle cure nell’ambito delle
più generiche prestazioni sanitarie aziendali ha di fatto definitivamente formalizzato la caratterizzazione “multiprofessionale” di un tale atto che non si sottrae certamente dal controllo di qualità di cui, anzi, rappresenta un indice oltre
che uno strumento atto alla valutazione dello stesso. Infatti all’art.15 del DLgs
n. 229 del 1999 recante le “Norme per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale a norma della legge 30 novembre 1998, n. 419”, in relazione
alla disciplina della dirigenza medica e delle professioni sanitarie viene san-
9. La documentazione dell’attività medica
337
cito il principio secondo il quale: «L’autonomia tecnico-professionale, con le
connesse responsabilità, si esercita nel rispetto della collaborazione multiprofessionale, nell’ambito di indirizzi operativi e programmi di attività promossi,
valutati e verificati a livello dipartimentale e aziendale, finalizzati all’efficace
utilizzo delle risorse e all’erogazione di prestazioni appropriate e di qualità».
A margine di quanto sin qui esposto deve annotarsi, come in relazione alla
custodia della cartella clinica, al di là del frammentario richiamo, la legislazione
attuale manchi di chiare norme che regolamentino in maniera univoca e definitiva la sua compilazione (sin dall’apertura) e la sua archiviazione (sin alla chiusura)
ovvero che ne garantiscano la integrità/inalterabilità (non manomissione, non danneggiamento, non smarrimento), oltre che l’accessibilità ai soli aventi diritto. Un
appiglio lo si trova nella recente norma per la tutela della privacy relativamente al
trattamento dei dati sensibili nella quale il direttore di ogni unità operativa, individuato dall’Azienda quale incaricato, può delegare a propri collaboratori (medici e
infermieri) il compito di curare la diligente custodia della cc e l’osservanza delle
misure minime di sicurezza stabilite dal DLgs 318/1999 articolo 9 punto 4.
Il DLgs 318/1999, art. 9 punto 4
«1. Nel caso di trattamento di dati personali per fini diversi da quelli dell’art.
3 della legge (= fini esclusivamente personali), effettuato con strumenti diversi
da quelli previsti dal capo II (= strumenti elettronici o automatizzati), sono
osservate le seguenti modalità:
– nel designare gli incaricati del trattamento per iscritto e nell’impartire le
istruzioni ai sensi dell’art. 8, comma 5 e 19 della legge, il titolare o, se
designato, il responsabile devono prescrivere che gli incaricati abbiano
accesso ai soli dati personali la cui conoscenza sia strettamente necessaria
per adempiere ai compiti loro assegnati;
– gli atti e i documenti contenenti i dati devono essere conservati in archivi ad
accesso selezionato e, se affidati agli incaricati del trattamento, devono essere
da questi ultimi conservati e restituiti al termine delle operazioni affidate.
2. Nel caso di trattamento di dati di cui agli articoli 22 e 24 della legge, oltre
a quanto previsto nel comma I, devono essere osservate le seguenti modalità:
– se affidati agli incaricati del trattamento, gli atti e i documenti contenenti i dati
sono conservati fino alla restituzione, in contenitori muniti di serratura;
338
Manuale della Professione Medica
– l’accesso agli archivi deve essere controllato e devono essere identificati e
registrati i soggetti che vi vengono ammessi dopo l’orario di chiusura degli
archivi stessi».
Va ricordato come in caso di smarrimento, di distruzione o comunque di
cattiva gestione delle cartelle cliniche, la responsabilità civile di tali evenienze
è sempre riferibile alla amministrazione dell’ospedale, anche se e quando l’illecito sia compiuto dalla persona fisica responsabile direttamente alla conservazione. Quest’ultima può incorrere in responsabilità di natura penale e poi
come soggetto anche a sanzione disciplinare.
Inquadramento giuridico
Dal punto di vista giuridico, il panorama dottrinale risulta sostanzialmente
diviso su tre distinte posizioni. Alcuni considerano il memoriale clinico quale
semplice dichiarazione di scienza; altri quale un tertium genus in posizione intermedia tra la scrittura privata e l’atto pubblico, e assimilabile a una certificazione
amministrativa; altri ancora, la parte più cospicua, si trovano in armonia con le
numerose pronunce della Suprema Corte, in prevalenza orientata nel senso di
riconoscere alla cc la natura di atto pubblico «inidoneo pertanto a produrre piena
certezza legale, non risultando dotato di tutti i requisiti richiesti dall’articolo 2699
cc» e facente quindi fede fino a prova contraria. Viene comunque escluso che
la cc possa qualificarsi come semplice attestazione di verità o di scienza tale da
configurarsi alla stregua di certificazione ai sensi degli articoli 477 e 480 cp.
Differente è l’inquadramento giuridico della cc delle case di cura private,
previsto nel DPCM del 27 giugno 1986 (ex art. 35), che così distingue:
– se inerente prestazioni sanitarie per le quali la casa di cura privata è convenzionata con la ASL, la sua natura giuridica è la stessa della cc degli stabilimenti pubblici;
– se trattasi di casa di cura non convenzionata, la cc ivi redatta rappresenta esclusivamente un promemoria privato dell’attività diagnostica e terapeutica svolta,
non rivestendo pertanto né carattere di atto pubblico, né di certificazione.
Per quanto concerne l’inquadramento penalistico, pur trattandosi di attività
libero-professionale svolta dal medico all’interno della casa di cura privata, di
un servizio di pubblica necessità, la falsità ideologica della cc, in questi casi è
punibile ai sensi dell’articolo 481 cp (“Falsità ideologica in certificati commessa
9. La documentazione dell’attività medica
339
da persone esercenti un servizio di pubblica necessità”), non sussistendo la
natura giuridica di certificazione.
A fronte di un tale variegato panorama dottrinale, la Giurisprudenza si
mostra costante nel riconoscere in capo alla cc natura di atto pubblico.
Doveroso il richiamo alla dissonante e isolata sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Terza penale, n. 30150/2002 ove la cartella assume natura di
atto privato (per di più in un caso di manifesta connivenza degli amministrativi
per soddisfare un interesse privato).
Corte di Cassazione, Sezione Terza penale, sentenza n. 30150/2002:
assolto il marito che aveva avuto copia della cartella clinica della moglie senza
l’autorizzazione della stessa, ricoverata in reparto psichiatrico: «Il Tribunale
di Trapani, in composizione monocratica, con sentenza emessa il 14 marzo
2001, assolveva M.G. dal reato di cui all’art. 35, comma 2° legge 675/1996
in relazione all’art. 23, comma 4° della legge citata, perché il fatto non era
previsto dalla legge come reato. Avverso la citata sentenza, il PM presso il
Tribunale di Trapani proponeva ricorso per Cassazione, deducendo: motivo
unico, violazione di legge. Il fatto doveva essere qualificato quale rivelazione
del segreto di ufficio, ai sensi dell’art. 326 cp, stante la qualifica di incaricato
di pubblico servizi.
Motivi della decisione. Il ricorso è infondato. Ai fini di una completa intelligibilità della vicenda in esame, è opportuno riassumere i termini fattuali della
fattispecie. A M.G. è stato contestato il delitto di cui all’art. 35, comma 2° legge
675/1996, in relazione all’art. 23, comma 4° della legge citata perché, in concorso tra loro e al fine di trarne profitto, lo S., quale soggetto addetto al rilascio
di copia delle cartelle cliniche presso l’Ospedale S. Antonio Abate e il M., quale
soggetto richiedente, comunicavano dati idonei e rilevare lo stato di salute della
D.R.; in particolare, su richiesta del M., lo S. rilasciava al primo copia della cartella clinica relativa al periodo di degenza della D. presso il reparto di psichiatria dell’Ospedale S. Antonio Abate, al fine di consentire al M. di produrre la
predetta documentazione sanitaria nella causa civile di separazione personale
tra i coniugi, instaurata presso il Tribunale di Marsala […]. Il Tribunale di Trapani, con sentenza emessa il 14 marzo 2001, assolveva il M. dal reato ascrittogli
perché, tenuto conto dell’epoca della vicenda in esame, 30 luglio 1997, il fatto
non era previsto dalla legge come reato, ex art. 45 legge 675/1996. Tanto
premesso in fatto, va affermato che nella fattispecie non ricorrono gli estremi
340
Manuale della Professione Medica
del reato di cui all’art. 326 cp. La cartella clinica relativa allo stato di salute di
D.R., pur essendo atto attinente a notizie riservate, non costituiva documento
relativo a notizie di ufficio destinate a rimanere segrete. La cartella clinica,
invero, previo consenso dell’interessata o previa autorizzazione della competente Autorità amministrativa o giudiziaria, poteva essere rilasciata a terzi per
finalità legittime previste dall’ordinamento giuridico. Manca, quindi, l’elemento
obiettivo del reato di cui all’art. 326 cp. Va respinto, pertanto, il ricorso proposto dal PM avverso la sentenza del Tribunale di Trapani del 14 marzo 2001.
PQM La Corte rigetta il ricorso del PM».
Di contro la gran messe di pronunzie della Corte Costituzionale attribuiscono alla cc il possesso dei requisiti propri dell’atto pubblico che, se dotato
di certezza legale, implicherebbe per il giudice un vincolo di verità su ciò che
il pubblico ufficiale ha attestato, salvo che la parte privata che vi ha interesse,
intenti una querela di falso, mirante a porre in questione la falsità del documento.
Cass. pen., sez. V, 21 gennaio 1981: «[…] ha natura di atto pubblico la
cartella redatta dal medico dipendente da casa di cura convenzionata con il
Ministero della Sanità […]». (Concetto ribadito anche per il medico dipendente
da casa di cura convenzionata – Cass. pen. 27 maggio 1992 e Cass. pen. sez.
unite 11febbraio 1992).
Cass. pen., sez. V 17 dicembre 1992: «[…] la cartella clinica rientra nella
categoria degli atti pubblici ove sia redatta dal medico di un ospedale pubblico
essendo caratterizzata dalla produttività di atti costitutivi traslativi modificativi
o estintivi rispetto a situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica
nonché dalla documentazione di attività compiute dal pubblico ufficiale che
redige l’atto […]».
In precedenza, la stessa corte (Cass. pen. 24 maggio 1992) aveva stabilito
che la cc redatta dal medico di un pubblico ospedale non può ritenersi solo e in
toto atto pubblico munito di fede privilegiata dovendo tale particolare efficacia
probatoria intendersi limitata alla sua provenienza dal pubblico ufficiale e ai
fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o essere
stati da lui compiuti. Per atto di fede privilegiata si intende un atto pubblico
redatto nelle forme di legge, che promana da un pubblico ufficiale, cui la legge
riconosca una speciale potestà certificativa, contenente quanto riferito al pubblico ufficiale e quanto da lui attestato come detto o accaduto.
9. La documentazione dell’attività medica
341
Definire la cc come atto pubblico di fede privilegiata comporta una serie di
conseguenze sul piano giuridico di non lieve portata:
a) l’applicazione degli articoli 479 e 476 cp per il falso ideologico e materiale
nella previsione della pena più grave;
b) l’eventuale responsabilità per omissione o rifiuto di atti di ufficio ex art. 328 cp;
c) la rivelazione di segreto di ufficio ex art. 326 cp.
Cartella clinica e segreto professionale
In ambito sanitario, la classica tutela del segreto professionale ex art. 622
cp attiene a tutto ciò che non è comunemente noto, che fa ragionevolmente
parte dell’intimità dell’individuo, del suo modo di vivere e del suo modo di
essere non ovviamente palesi, di cui il sanitario abbia nozione a motivo della
sua attività professionale che si identifica con quanto riportato in cc.
Ben diversa tale accezione dal concetto di tutela della privacy e trattamento
dei dati sensibili, così come regolamentati dall’Istituto del Garante, come più
avanti specificato nella apposita sezione a esso dedicato.
Cartella clinica: segreto (riferimenti):
–
–
–
–
–
–
–
Giuramento di Ippocrate.
Art. 326 cp: “Rivelazione di segreti d’ufficio”.
Art. 622 cp: “Rivelazione di segreto professionale”.
Nuovo Codice di Deontologia medica, artt. 9, 10, 11, 23.
DPR n. 128 del 27 marzo 1968, art. 6 DM 5 agosto 1977 artt. 19, 24.
Legge n. 675 del 31 dicembre 1996 (legge per la tutela della privacy).
DLgs n. 196 del 30 giugno 2003, art. 92.
L’illegittima divulgazione del contenuto della cc può condurre a conseguenze di ordine penale per la violazione del segreto professionale o di quello
d’ufficio e a censure a carico del proprio Ordine o Collegio professionale per
violazione del segreto professionale.
Lo studente frequentatore e il medico tirocinante in quanto non strutturati
sono tenuti al segreto professionale e non a quello d’ufficio.
La trasmissione consiste nel rendere partecipi del segreto altre persone o
enti interessati allo stesso caso, a loro volta vincolati al segreto per ragione di
professione o di ufficio.
342
Le
Manuale della Professione Medica
cause di giustificazione
1. Norme imperative: sono disposizioni di legge che obbligano l’esercente
la professione sanitaria al dovere di informativa mediante denunce, referti, rapporti, certificazioni, dichiarazioni o relazioni concernenti fatti di natura professionale, che altrimenti sarebbero coperti dal segreto più rigoroso.
2. Norme scriminative o permissive: sono previste dal codice penale:
–
–
–
–
–
–
–
consenso del paziente;
caso fortuito o forza maggiore;
violenza fisica;
errore di fatto;
altrui inganno;
stato di necessità;
legittima difesa.
Requisiti formali
Il contenuto della cc può essere variabile in quanto, a tutt’oggi, come ribadito, non esiste una norma che definisca le modalità di strutturazione e di
compilazione della cc.
In particolare, non c’è ancora una vera e propria direttiva di compilazione
specifica, pur parlandosi ampiamente di standard, di cartelle cliniche normalizzate ecc.; il vecchio sistema della cartella con la storia clinica divisa per dati
anamnestici familiari, fisiologici, della patologia remota e della storia clinica
recente nonché dei rilievi clinici scaturiti dalla visita, è ormai superato. Si
impongono, infatti, diversi indirizzi nella compilazione della cc e, la struttura e
le informazioni riportate per ogni sezione dipendono dal tipo di ricovero e di
patologia, oltre che dalle regole di compilazione e della modulistica adottate in
ciascun ospedale e ciò è dovuto ai diversi obiettivi personali o di reparto oltre
che di area.
Cartella clinica: compilazione
Il più delle volte le cartelle cliniche risultano difficili da consultare per differenti motivi:
– quantità eccessiva e ridondante di dati;
– mancanza di un indice;
– mancanza di un sistema esplicito di ordinamento dei dati;
9. La documentazione dell’attività medica
343
– duplicazione e moltiplicazione di cartelle (medica, infermieristica, anestesiologica, riabilitativa, dietologica ecc.);
– fonti parallele e indipendenti di dati (diario clinico, esami, consegne, comunicazioni varie ecc.);
– raccolta dati per analogia (esami, consulenze, procedure ecc.) e non per
problema, fonte, data;
– disordine dei documenti;
– cartella a misura di specialista;
– mancanza di razionale esplicito e documentato per decisioni maggiori o
minori o cambiamenti di strategia;
– differenze non controllate (datazione USA o europea, luogo della datazione, luogo e formato dei dati identificativi);
– dati sparsi qua e là;
– differente formato dei dati (parole, numeri, simboli);
– scarsa chiarezza della tempistica di riscontri, decisioni, esiti;
– datazione non chiara;
– uso irrazionale di formati, simboli;
– scritture illeggibili;
– lista delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati mancante;
– lista delle firme e sigle dei professionisti mancante.
Le cartelle facili da consultare dovrebbero essere lineari, essenziali, scevre da
eccessivi elementi di distrazione (simboli), da definizioni gergali, da abbreviazioni
criptiche o da salti logici, dovrebbero seguire un ordine definito (cronologico,
consequenziale, per problemi, per categorie), obbedendo a regole di omogeneità:
–
–
–
–
–
–
–
evitare annotazioni illeggibili;
scrivere a macchina/computer, evitando un eccesso di fonti, colori, formati;
usare caratteri adeguati;
non comporre righe troppo lunghe o troppo corte;
spaziare adeguatamente le righe tra di loro;
limitare gli elenchi;
usare con moderazione i richiami (stelle, frecce ecc.).
La cc è in effetti un documento che incorpora elementi di carattere clinico (relativo alle parti compilate dal medico), di carattere terapeutico (quelle
a opera dell’infermiere), di carattere amministrativo e gestionale. Ogni attività
344
Manuale della Professione Medica
svolta dal personale sul paziente viene riportata in cc che diventa lo strumento
fondamentale di condivisione del lavoro per tutto il personale.
Ogni figura professionale compila per ogni passaggio terapeutico lo schema
funzionale di propria competenza in tempi e modi diversi a seconda delle proprie necessità ed esigenze. Quando il paziente viene dimesso, le informazioni
raccolte consentono non solo di espletare le procedure di rendiconto previste
per ogni ASL e per gli uffici amministrativi relativi, ma anche di fornire i dati
per permettere alla direzione la possibilità di effettuare bilanci e consultivi.
Il DPCM del 27 giugno 1986 detta principi di compilazione della cc, che
possono servire da generico riferimento e ausilio anche per uno schematico
approccio alla documentazione sanitaria da esibire in ambito pubblicistico.
Nella compilazione della cartella debbono risultare per ogni ricoverato le
generalità complete, la diagnosi di entrata, l’anamnesi familiare e personale,
l’esame obiettivo, gli esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi, la terapia,
gli esiti e i postumi. Le cartelle cliniche, firmate dal medico curante e sottoscritte dal medico responsabile di raggruppamento, dovranno portare un
numero progressivo ed essere conservate a cura della Direzione sanitaria.
Così come già ricordato, traspare in tutta evidenza che la cc deve essere
completa di tutti i dati significativi relativi alla degenza del paziente e deve
riflettere quanto effettivamente è stato per lui fatto.
Una indicazione sul significato contenutistico della cc viene fornito dalla
Suprema Corte allorché ammonisce essere tale documento un «diario diagnostico-terapeutico», nel quale vanno annotati fatti di rilevanza giuridica quali i
dati anagrafici e anamnestici del paziente, gli esami obiettivi, di laboratorio e
specialistici, le terapie praticate, nonché l’andamento, gli esiti e gli eventuali
postumi della malattia (Cass. pen. sez. unite, 27 marzo 1992).
I requisiti formali richiesti nella stesura della cc, possono pertanto essere
così riassunti:
–
–
–
–
–
–
–
intellegibilità della grafia;
descrizione della epicrisi;
precisazione fonte anamnesi;
modalità di acquisizione del consenso;
disposizione cronologica dei rilievi;
indicazione sede dell’accertamento;
correzione adeguata di errori materiali.
9. La documentazione dell’attività medica
345
Così come deducibile dall’art 23 del nuovo Codice di Deontologia medica,
il cui monito deontologico ha l’intento di impegnare il medico alla completezza della documentazione sanitaria, riassumendosi nella raccomandazione
l’obbligo sostanziale della chiarezza e veridicità che è presupposto imprescindibile di ogni attestazione sanitaria e che si compendia di una annotazione formalmente accorta e sostanzialmente corretta, da cui non possono che scaturire
giudizi parimenti accorti e corretti, prudenti, oltreché diligenti e periti.
La cc deve essere redatta chiaramente, con puntualità e diligenza, nel rispetto
delle regole della buona prativa clinica e contenere, oltre a ogni dato obiettivo
relativo alla condizione patologica e al suo corso, le attività diagnostico-terapeutiche praticate. La finalità è quella di rendere utilizzabile la testimonianza documentata a fini di interesse individuale e collettivo, affinché il singolo o le pluralità
degli individui possano valersi dell’atto medico traendo indicazioni comportamentali, organizzative o programmatiche aventi carattere sanitario.
I requisiti formali sono stati oggetto di una decisione dell’Autorità Garante
(n. 165 del 31 marzo-6 aprile 2003): se la cc è illeggibile per la grafia di chi
l’ha redatta, deve essere trascritta in modo che le informazioni in essa contenute risultino chiare per il malato. La leggibilità delle informazioni è la prima
condizione per la loro piena comprensione. Il Garante lo ha precisato accogliendo il ricorso di un paziente che lamentava un riscontro inadeguato da parte
dell’Azienda ospedaliera cui si era rivolto chiedendo la comunicazione in forma
intelligibile dei dati personali contenuti nella sua cc. In risposta aveva ricevuto
copia della cartella che, però, a suo parere, risultava illeggibile per la pessima
grafia degli autori e quindi incomprensibile. Nel ricorso il malato chiedeva che le
spese del procedimento fossero attribuite all’Azienda ospedaliera.
Nel provvedimento il Garante ha sottolineato la specifica tutela che la legge
sulla privacy garantisce alle persone al momento dell’accesso ai propri dati personali, rispetto al diverso diritto di accesso agli atti e documenti amministrativi
disciplinato dalla legge 241/1990. L’articolo 13 della legge 675/1996 prevede,
infatti, che i dati personali devono essere estratti e comunicati all’interessato
in forma intelligibile e il principio viene ulteriormente specificato nel DPR
501/1998, quando in riferimento ad alcune modalità di riscontro al diritto di
accesso, si afferma che la comprensione dei dati deve essere agevole e obbliga
il titolare del trattamento ad adottare opportune misure per agevolare l’accesso
ai dati da parte degli interessati.
346
Manuale della Professione Medica
Anche nel caso in cui l’estrazione e la trasposizione dei dati su un supporto
cartaceo o informatico dovesse risultare particolarmente difficoltosa, la richiesta di accesso ai dati personali, formulata ai sensi della legge sulla privacy, può
essere sì soddisfatta dall’esibizione o dalla consegna in copia di un documento,
ma la leggibilità delle informazioni è la prima condizione, necessaria anche se
non sufficiente, per la loro comprensibilità.
Riconosciuta, quindi, la legittimità delle richieste del ricorrente, il Garante
ha ordinato all’Azienda ospedaliera di rilasciare, entro un termine stabilito, una
trascrizione dattiloscritta o comunque comprensibile delle informazioni contenute nella cc e di comunicarle all’interessato, come prescrive la legge, tramite
il medico di fiducia o designato dalla ASL.
All’Azienda sono state inoltre imputate le spese del procedimento.
Oltre ai requisiti formali, assumono un ruolo non meno importante nella
compilazione della cc i così detti requisiti sostanziali o essenziali, così riassumibili:
veridicità; completezza; chiarezza; correttezza formale; contestualità, tempestività.
– Veridicità: consiste nella conformità di quanto descritto dal medico (o da
altro operatore sanitario) con quanto da lui constatato in modo obiettivo.
– Chiarezza: consiste nel redigere l’attestazione scritta in modo esattamente
e compiutamente comprensibile per chiunque.
– Contestualità: la cc per «sua natura è un acclaramento storico contemporaneo».
Le annotazioni vanno pertanto fatte contemporaneamente allo svolgersi
dell’evento descritto e cioè senza ritardo né a cose fatte. Deve essere redatta
in pendenza di degenza e secondo la sequenza cronologica della registrazione
di eventi. La contestualità può non essere intesa in maniera rigorosa, ma nel
rispetto di alcuni limiti temporali, quali un equo periodo di riflessione clinica,
il rispetto della sequenza cronologica nella registrazione degli eventi e l’estensione in pendenza di degenza.
Il problema è quello della contestualità tra verbalizzazione ed eventi della
malattia e della definitività della verbalizzazione nel momento stesso in cui
vengono annotati gli eventi di degenza, che ex tunc escono dalla disponibilità
del verbalizzante.
La contestualità tra verbalizzazione ed evento si ritiene possa realizzarsi
nei limiti di tempo compatibili con la riflessione clinica, con le situazioni con-
9. La documentazione dell’attività medica
347
tingenti e, comunque, in pendenza di ricovero, con il rispetto della sequenza
cronologica della registrazione. È da ritenere, quindi, contemporanea anche la
registrazione che avviene qualche tempo dopo in relazione alle contingenze
del caso clinico, alle attività di reparto e, in caso di informatizzazione, della
organizzazione della immissione dei dati nel computer.
La contestualità della registrazione va intesa in senso stretto in alcune
obiettività che possono evolvere e cambiare in breve tempo; al riguardo la
Giurisprudenza ha espresso più volte la necessità di una registrazione rigorosamente contestuale, non postuma, per i «fatti clinici rilevanti».
Giurisprudenza costante afferma che: «la cartella clinica adempie la funzione di diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, per
cui gli eventi devono essere annotati contestualmente al loro verificarsi. Ne
consegue che (all’infuori della correzione di meri errori materiali) le modifiche
e le aggiunte integrano un falso punibile, anche se il soggetto abbia agito per
ristabilire la verità, perché violano le garanzie di certezza accordate agli atti
pubblici» (Cass. pen. sez. V, 11 novembre 1983 n. 9423; Cass. pen. sez. V, 23
marzo 1987, n. 3632).
Ciascuna annotazione presenta, singolarmente, autonomo valore documentale definitivo che si realizza nel momento stesso in cui vengono trascritte
e qualsiasi successiva alterazione, apportata durante la progressiva formazione del complesso documento, costituisce falsità, ancorché il documento sia
ancora nella materiale disponibilità del suo autore, in attesa di trasmissione alla
Direzione sanitaria.
«La cartella clinica acquista il carattere di definitività in relazione a ogni
singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel
momento in cui la singola annotazione viene registrata. Ogni annotazione
assume, pertanto, valore documentale autonomo e spiega efficacia nel traffico giuridico non appena viene scritta, con la conseguenza che la successiva
alterazione da parte del compilatore costituisce falsità punibile, ancorché il
documento sia ancora disponibile materialmente, in attesa della trasmissione
alla direzione sanitaria per la definitiva custodia» (Cass. pen, 1963).
Un ritardo nella compilazione oppure la mancata compilazione può dunque
configurarsi per il medico esercente all’interno di una struttura sanitaria come
una omissione di atti di ufficio, mentre una sua compilazione non veritiera
come falso ideologico e una sua correzione postuma come un falso materiale.
348
Manuale della Professione Medica
«Art. 481 cp: “Falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità” – Chiunque, nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesta
falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità,
è punito con la reclusione fino a 1 anno o con la multa da lire centomila e un
milione.
Tali pene si applicano congiuntamente se il fatto è commesso a scopo di lucro».
«Art. 479 cp: “Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti
pubblici” – Il pubblico ufficiale che ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto
o è avvenuto in sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui
non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque
attesta falsamente fatti dei quali il certificato è destinato a provare la verità,
soggiace alle pene stabilite nell’art. 476».
«Art. 485 cp: “Falso materiale (Falsità in scrittura privata)” – Chiunque, al
fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, forma,
in tutto o in parte, una scrittura privata falsa, o altera una scrittura privata vera, è
punito, qualora ne faccia uso o lasci che altri ne faccia uso, con la reclusione da
sei mesi a tre anni. Si considerano alterazioni anche le aggiunte falsamente apposte a una scrittura vera, dopo che questa fu definitivamente formata».
La falsificazione ideologica si riferisce ai “fatti”, ossia ai dati obiettivi e
controllabili di cui il certificato è destinato a provare l’esistenza. Incide sul
contenuto concettuale dell’atto, dando per autentici fatti non veri, pur essendo
corretta la forma.
La falsificazione materiale riguarda la parte formale dell’atto che può essere
contraffatta in vario modo, ad esempio, apponendovi la firma falsa o alterandone la materia mediante cancellature, raschiature, aggiunte.
«[…] la terapia domiciliare (Verapamil per os) viene confermata da due
medici, con il conforto dello specialista cardiologo. Viene prescritto verbalmente all’infermiera Verapamil 20 milligrammi per tre volte al giorno, prescrizione che viene registrata nella documentazione clinica e riportata come tale
nel “foglio di terapia”. Non risulta specificata la forma farmaceutica da somministrare e l’infermiera somministra il farmaco (inteso per via orale, ma non
9. La documentazione dell’attività medica
349
esplicitamente riportato) per via e.v. Il bambino decede poco dopo l’iniezione
per arresto cardiaco. I medici alteravano la cartella clinica, facendo sparire il
foglio di terapia e aggiungendo nella grafica la dizione “per os”, allo scopo di
far ricadere la colpa solo sull’infermiera» (Cass. pen. 1983).
Cartella clinica: conservazione
Le cartelle cliniche, unitamente ai relativi referti, vanno conservate illimitatamente, poiché rappresentano un atto ufficiale indispensabile a garantire la
certezza del diritto, oltre a costituire preziosa fonte documentaria per le ricerche di carattere storico-sanitario.
La documentazione diagnostica assimilabile alle radiografie, o alla restante
documentazione diagnostica, va conservata almeno 20 anni, non rivestendo
il carattere di atti ufficiali, mentre i referti stilati dal medico specialista radiologo o medico nucleare seguono la sorte della cc, quindi vanno conservati in
maniera illimitata nel tempo.
La documentazione clinica, deve essere custodita dal medico solo durante
la fase di assistenza e cura del paziente, mentre la responsabilità si trasferisce
al direttore sanitario dell’ente, nel momento in cui viene trasferita all’archivio
centrale.
È prevista la possibilità della microfilmatura, sostitutiva, nei casi in cui vi
fosse difficoltà, da parte dei presidi sanitari, nell’allestimento di idonei locali da
destinare all’archivio.
Gli archivi
Il DPR 14 gennaio 1997 n. 37 fornisce le indicazioni di carattere generale
in tema di archiviazione di dati di struttura: il compito di raccolta, elaborazione
e archiviazione dei dati deve far capo alla “Direzione”, che trattandosi di dati
sanitari si identifica nella Direzione sanitaria. Va ricordato che la cc, ai sensi
dell’art. 830 cc è un bene patrimoniale indisponibile, la cui gestione è disciplinata dagli artt. 30 e 35 del DPR 30 settembre 1963, n. 1409 sugli archivi
di Stato. La tempistica della conservazione del materiale, nel caso di specie
delle cartelle cliniche è illimitata, così come previsto nella Circolare n. 61 del
1986, poiché rappresentano atto ufficiale indispensabile a garantire la certezza
del diritto oltre a costituire una preziosa fonte documentale per le ricerche di
carattere storico-sanitario.
350
Manuale della Professione Medica
Per le radiografie e per gli altri esami diagnostici viene stabilito un limite di
20 anni. Il DM 14 febbraio 1997 ha apportato ulteriori chiarimenti, operando
una distinzione tra documenti e resoconti radiologici e di medicina nucleare:
– Documenti: documentazione iconografica prodotta a seguito dell’indagine
diagnostica effettuata dal medico specialista. Possono essere detenuti in un
locale predisposto, in forma di pellicole radiografiche, in forma cartacea,
memorizzati in forma di microfilm o in archivio elettronico in conformità
alle direttive dell’agenzia per l’informatizzazione della pubblica amministrazione (legge 1° aprile 1981, n 121. art. 8: “Obbligo di denuncia per chi
possiede un archivio magnetico”).
– Resoconti diagnostici e di medicina nucleare: referti stilati dal medico
specialista radiologo o dal medico nucleare. Devono essere conservati in
maniera illimitata.
Viene inoltre stabilito che il riferimento di archivio del materiale, deve coincidere con quello riportato nel decreto emanato ai sensi dell’articolo 114 del
DL 230/1995, costituito da caratteri alfanumerici, e indicare in forma diretta
o indiretta il soggetto al quale è stata erogata la prestazione, la struttura che ha
erogato la prestazione e il tipo di prestazione.
La presenza di archivi elettronici, che consente la conservazione delle informazioni per un tempo superiore al regime di ricovero, da una parte determina
ricadute positive (disponibilità per consultazione in caso di successivi esami,
possibilità di eseguire valutazioni di tipo epidemiologico e statistico, necessità
di adempiere a obblighi di legge relativi alle procedure di accreditamento delle
strutture sanitarie), dall’altra configura un conflitto tra l’interesse del singolo
paziente e la società. La nuova normativa sulla privacy prevede che tali archivi
debbano essere segnalati periodicamente (annualmente) al Garante e che
debba essere identificato un responsabile della loro corretta conservazione.
La circolazione della cartella clinica
Conflittualità deontologiche emergono in tema di circolazione della cc
posto che, oltre all’interessato, altri possono aver diritto a ottenerne copia.
Il paziente ha diritto di avere, ogni volta che lo desidera, piena visione e
copia della cc, tuttavia non può farsi consegnare l’originale e portarlo al proprio domicilio.
9. La documentazione dell’attività medica
351
Il problema della circolazione della cc e del trattamento dei dati in essa
contenuti è oggi estremamente collegato a quello della tutela della riservatezza
(privacy), specie se essa inserisce i dati personali cosiddetti sensibili (inerenti
cioè la salute e la vita sessuale) che trovano nella cc la più ampia descrizione.
Questa assoluta tutela di un diritto fondamentale della persona, implica una
cura particolare nella tenuta e nella custodia di un documento che sempre più
e meglio individua nel paziente o nel suo legale rappresentante e (in caso di
paziente minore o incapace) il titolare del diritto rivelare o meno ad altri soggetti (diversi da quelli appartenenti al circuito clinico ove si svolge la vicenda
diagnostico-terapeutica).
La cartella clinica può essere rilasciata:
– al paziente stesso;
– al tutore o a chi esercita la patria potestà in caso di minore o incapace;
– a persona fornita di delega, conformemente alle disposizioni di legge (ivi
compreso il medico curante);
– all’autorità giudiziaria;
– agli Enti previdenziali (INAIL, INPS, ecc.);
– al SSN (obbligo da parte dell’ente ospedaliero di trasmettere copia della cc
a un altro soggetto del servizio sanitario che abbia strumentalmente bisogno della cc per erogare il servizio di sua competenza);
– agli eredi legittimi con riserva per determinate notizie;
– ai medici a scopo scientifico-statistico purché sia mantenuto l’anonimato.
La cartella clinica non può essere rilasciata:
–
–
–
–
a terzi se non muniti di delega (compresi il coniuge o i parenti stretti);
al medico curante senza la autorizzazione del paziente;
ai patronati;
ai Ministeri e all’Autorità di PS solo le notizie a seguito di precisi quesiti di
ordine sanitario.
Il DLgs n. 196 del 30 giugno 2003: “Codice in materia di protezione dei
dati personali”, prevede un articolo, il 92, interamente dedicato alla cc:
«Nei casi in cui organismi sanitari pubblici e privati redigono e conservano
una cc in conformità alla disciplina applicabile, sono adottati opportuni accorgimenti per assicurare la comprensibilità dei dati e per distinguere i dati relativi
352
Manuale della Professione Medica
al paziente da quelli eventualmente riguardanti altri interessati, ivi comprese
informazioni relative a nascituri.
Eventuali richieste di presa visione o di rilascio di copia della cartella e
dell’acclusa scheda di dimissione ospedaliera da parte di soggetti diversi dall’interessato possono essere accolte, in tutto o in parte, solo se la richiesta è giustificata dalla documentata necessità:
– di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria ai sensi dell’articolo
26, comma 4, lettera c), di rango pari a quello dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile;
– di tutelare, in conformità alla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi, una situazione giuridicamente rilevante di rango pari a quella
dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un
altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile».
Numerosi quesiti sull’accesso ad atti e documenti contenenti dati personali idonei a rivelare lo stato di salute, per verificare entro quali limiti persone
diverse dagli interessati possano prenderne visione ed estrarre copia, sono stati
posti al Garante, il quale il 9 luglio 2003 ha emesso dei provvedimenti a carattere generale in merito ai dati sanitari.
I quesiti riguardavano in particolare:
– il caso in cui la richiesta di accesso sia formulata a una pubblica amministrazione ai sensi della disciplina sull’accesso a documenti amministrativi (legge
n. 241/1990 e altre normative in materia di trasparenza);
– l’accesso a cartelle cliniche detenute presso strutture sanitarie;
– il caso in cui la richiesta sia formulata da un difensore in conformità a
quanto previsto dal Codice di procedura penale in materia di cosiddette
indagini difensive (art. 391-quater cpp).
Gestione della documentazione sanitaria
Gli atti e i documenti nei quali vengono riportati dati sulla salute e la vita
sessuale sono a volte predisposti o raccolti non per finalità di cura dell’interessato, ma per scopi amministrativi connessi ad esempio al riconoscimento di
particolari benefici o malattie professionali, all’accertamento di responsabilità
o al risarcimento di danni.
9. La documentazione dell’attività medica
353
I quesiti pervenuti vanno poi affrontati tenendo presente che alcuni di tali
atti e documenti, come le cartelle cliniche, si caratterizzano per la presenza di
diagnosi e anamnesi, nonché per la menzione di patologie riferite a volte anche
a individui diversi dal principale interessato, il che influisce sulla legittimazione
all’accesso alla cartella e sulle modalità di visione o rilascio delle relative copie,
integrali o per estratto (v. ad esempio l’art. 35 del DPCM 27 giugno 1986, in
tema di compilazione di cartelle cliniche presso case di cura private).
Le richieste di accesso di cui si tratta riguardano inoltre documenti per i
quali (specie per le cartelle cliniche) specifiche disposizioni possono prevedere speciali modalità o responsabilità di conservazione che si aggiungono
ai comuni obblighi di rispetto del segreto professionale. È il caso, appunto,
dell’ordinamento interno dei servizi ospedalieri, il quale demanda al primario
di ciascuna divisione il compito di curare la regolare compilazione delle cartelle cliniche e la loro conservazione fino alla consegna all’archivio centrale, e
attribuisce al direttore sanitario il compito di vigilare sull’archivio delle cartelle
e di rilasciarne copia agli aventi diritto, anche in base a criteri “stabiliti” dall’amministrazione (artt. 5 e 7 DPR 27 marzo 1969, n. 128; v., analogamente, il
citato art. 35 del DPCM 27 giugno 1986, per il quale le cartelle cliniche firmate
dal medico curante e sottoscritte dal medico responsabile di raggruppamento
sono conservate a cura della Direzione sanitaria).
Le norme sulla trasparenza amministrativa
Rispetto ai quesiti formulati, non suscitano particolari problemi l’accesso ai
dati personali da parte dell’interessato (art. 13 legge n. 675/1996) e il rilascio di
copia della cc al medesimo interessato a persona munita di specifica delega o,
in caso di decesso, a chi «ha un interesse proprio o agisce a tutela dell’interessato o per ragioni familiari meritevoli di protezione» (art. 13, comma 3, legge
n. 675, come sostituito dall’art. 9, comma 3, del Codice Privacy).
La comunicazione all’interessato di dati personali sulla salute va comunque effettuata solo per il tramite di un medico (art. 23, comma 2, legge n.
675/1996; v., ora, art. 84 del citato Codice).
Rispetto all’accesso ai documenti da parte di terzi, il Garante ha più volte
evidenziato che la legge n. 675/1996 non ha comportato l’abrogazione della
disciplina sull’accesso a documenti amministrativi (art. 43, comma 2, legge n.
675/1996), la cui applicabilità, anche in caso di documenti contenenti dati sen-
354
Manuale della Professione Medica
sibili, è stata confermata dalla successiva disposizione (art. 16, DLgs 11 maggio
1999, n. 135) che in riferimento ai soggetti pubblici ha individuato come di
«rilevante interesse pubblico», i trattamenti di dati sensibili «necessari per far
valere il diritto di difesa in sede amministrativa o giudiziaria, anche da parte di
un terzo» (lett. b) e quelli «effettuati in conformità alle leggi e ai regolamenti per
l’applicazione della disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi» (lett. c).
Il medesimo articolo 16, nel comma 2, ha anche introdotto un’ulteriore
garanzia riferita unicamente ai dati riguardanti lo stato di salute o la vita sessuale, precisando che il trattamento di tali dati da parte del soggetto pubblico
è consentito solo se «il diritto da far valere o difendere […] è di rango almeno
pari a quello dell’interessato».
Quest’ultima garanzia, come meglio specificato nel Codice Privacy (artt. 60,
71, 92, comma 2), riguarda sia il caso in cui il soggetto pubblico debba valutare
una richiesta di terzi di conoscere singoli dati sulla salute o la vita sessuale,
ritenuti necessari per far valere il diritto di difesa (lett. b cit.), sia il caso in cui il
soggetto pubblico riceva una richiesta di accesso ai documenti amministrativi
contenenti siffatti dati. La cosiddetta questione del “pari rango” interessa poi
anche la comunicazione a terzi, da parte di un soggetto privato, di singoli dati
personali sulla salute e la vita sessuale (ad es., casa di cura privata: art. 22, comma
4, lett. c), legge n. 675/1996; art. art. 26, comma 4, lett. c) del Codice Privacy).
La concreta valutazione dei diritti coinvolti
Le disposizioni da ultimo indicate hanno posto l’interrogativo sul comportamento che deve tenere il soggetto pubblico o privato (in caso di richiesta di
un terzo di conoscere dati sulla salute o la vita sessuale, oppure di accedere a
documenti che li contengono), in particolare nello stabilire se il diritto dedotto
dal richiedente vada considerato “di pari rango” rispetto a quello della persona
cui si riferiscono i dati.
Il destinatario della richiesta, nel valutare il “rango” del diritto di un terzo
che può giustificare l’accesso o la comunicazione, deve utilizzare come parametro di raffronto non il “diritto di azione e difesa” che pure è costituzionalmente garantito (e che merita in generale protezione a prescindere dall’”importanza” del diritto sostanziale che si vuole difendere), quanto questo diritto
sottostante che il terzo intende far valere sulla base del materiale documentale
che chiede di conoscere.
9. La documentazione dell’attività medica
355
Ciò chiarito, tale sottostante diritto, come già constatato dall’Autorità e
come ora espressamente precisato dal Codice, può essere ritenuto di “pari
rango” rispetto a quello dell’interessato – giustificando quindi l’accesso o la
comunicazione di dati che l’interessato stesso intende spesso mantenere altrimenti riservati – solo se fa parte della categoria dei diritti della personalità o è
compreso tra altri diritti o libertà fondamentali e inviolabili: v. gli artt. 71, 92
comma 2 e 60 del Codice.
In particolare, la norma da ultimo citata prevede espressamente che
«quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la
vita sessuale, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste
in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e
inviolabile».
In ogni altra situazione riguardante dati sulla salute o la vita sessuale, non
è quindi possibile aderire alla richiesta di accesso o di comunicazione da parte
di terzi se i dati o il documento sono ritenuti utili dal richiedente per tutelare
in giudizio un interesse legittimo o un diritto soggettivo che possono essere
anche di rilievo, ma che restano comunque subvalenti rispetto alla concorrente
necessità di tutelare la riservatezza, la dignità e gli altri diritti e libertà fondamentali dell’interessato: si pensi al caso dell’accesso – in un caso, denegato
dalla Giurisprudenza – volto a soddisfare generiche esigenze basate sulla prospettiva eventuale di apprestare la difesa di diritti non posti in discussione in
quel momento (Cons. Stato sez. VI, n. 2542/2002).
Con una Newsletter del 3-9 gennaio 2005, n. 240 il Garante informa che
anche le foto scattate a fini di interventi chirurgici sono dati personali.
«Una donna ottiene le fotografie dell’operazione di chirurgia plastica grazie
all’intervento del Garante. La donna si rivolge al Garante e riesce a ottenere le
fotografie scattate prima e dopo alcuni interventi di chirurgia plastica ai quali
si era sottoposta e che intendeva produrre in una causa di risarcimento danni
nei confronti del medico che l’aveva operata.
Protagonista una giovane donna che dal 1996 al 2003 aveva subito tre interventi chirurgici al seno per impianti di protesi, successive sostituzioni e riduzione delle cicatrici. Palesemente insoddisfatta dei risultati raggiunti, nel tentativo
di recuperare tutta la documentazione clinica che la riguardava, aveva chiesto
356
Manuale della Professione Medica
direttamente al chirurgo plastico al quale si era affidata le foto che lo stesso le
aveva scattate prima e dopo le operazioni e copia dei moduli di consenso agli
interventi, sottoscritti presso lo studio medico. Di questa documentazione non
vi era traccia nelle copie delle cartelle cliniche rilasciate alla paziente dalla casa di
cura presso la quale aveva subito gli interventi. Di fronte all’assoluto silenzio del
medico, la donna si è vista “costretta” a presentare ricorso al Garante. Iniziativa
che si è rivelata di per sé sufficiente a farle raggiungere l’obiettivo.
Già nella fase di primo esame del procedimento, infatti, il medico, seppure
su invito dell’Autorità, ha dato completo riscontro alle richieste della paziente.
Il ricorso è stato quindi definito con provvedimento di non luogo a provvedere.
Il Garante ha comunque posto a carico del chirurgo plastico le spese del
procedimento, per aver concesso alla donna l’accesso ai propri dati solo dopo
la presentazione del ricorso. La richiesta presentata al medico era, infatti, pienamente legittima, essendo stata presentata ai sensi del Codice, che riconosce
a ognuno il diritto di accedere a tutti i propri dati personali, comprese le fotografie che ritraggono in tutto o in parte il proprio corpo».
Si tratta di una tematica complessa, ancora in evoluzione, che peraltro conferisce al medico curante un ruolo di rappresentante degli interessi clinici del
malato anche in caso di ricovero e di custode primario della relativa documentazione nosologica.
Cartella clinica orientata per problemi (CMOP)
Nel corso degli anni si è sviluppata un’evoluzione concettuale e contenutistica sulla cc con l’obiettivo di poter usufruire di uno strumento che consenta
una valutazione della qualità dell’assistenza medica e fornisca i dati necessari per
la pianificazione orientata per problemi (CMOP), produttiva di una migliore
consultazione e di una più chiara organizzazione, attraverso una compilazione
rispondente alla logica di individuare gli eventi clinici giustificativi del ricovero
e di creare per ciascuno una linea di indagine e di trattamento specifico.
Il principio ispiratore è rappresentato dalla necessità di una assistenza
globale, preventiva in primis e poi assistenziale, fondata su una irrinunciabile
comunicativa fatta di plurimi approcci specialistici o di settoriali équipe cliniche. Tale strumento operativo valorizza il tentativo di crescita e di comunicazione tra il personale paramedico e infermieristico coinvolto nella risoluzione
dei problemi assistenziali. La cartella, così intesa, dovrebbe prevedere una
9. La documentazione dell’attività medica
357
parte dedicata a una breve descrizione delle informazioni fornite al paziente
circa la sua malattia, della loro influenza su ritmi di vita e terapia; dovrebbe
inoltre riportare le domande poste dal paziente o le sue preoccupazioni, nonché il contenuto dei colloqui con i familiari. Un siffatto sistema consentirebbe
di restituire al rapporto medico-paziente, oggi depersonalizzato per l’eccessivo peso dato all’aspetto tecnologico dell’assistenza, un nuovo significato.
Ulteriore risvolto è la esistenza di un sistema di tutela tale da spingere i medici
all’aggiornamento permanente e da impedire a quei sanitari la cui competenza
tecnica non sia più all’altezza della situazione di provocare danni nei potenziali assistiti.
Introdotta negli USA nel 1969, si compone di quattro parti:
1.
2.
3.
4.
la lista dei problemi attivi e inattivi;
i dati di base definitivi;
piani iniziali;
il diario clinico (schema SOVP).
La lista dei problemi dovrebbe contenerli tutti e includere diagnosi già formulate, stati fisiopatologici e inoltre sintomi, segni obiettivi patologici ed esami
di laboratorio, che sono potenzialmente importanti, non collegati a malattie o
sindromi già incluse nella lista, e poi altri importanti fattori connessi alla cura
del paziente, come problemi di ordine psichico o di ordine sociale, fattori di
rischio e malattie già sofferte. Non appena uno dei problemi sarà risolto, la lista
dovrà essere aggiornata.
I dati di base dovrebbero comprendere:
sintomi che costituiscono la ragione del ricovero;
condizione psico-sociale del paziente;
malattia attuale;
revisione dei dati anamnestici per una costruzione più logica dei dati emersi
o riferiti;
– esame obiettivo;
– dati di laboratorio già acquisiti, compresi quelli eseguiti fin dalle prime ore
del ricovero.
–
–
–
–
I piani iniziali dovrebbero favorire l’attuazione di un programma allo scopo
di pervenire alla diagnosi o al chiarimento di ciascun problema e a eventuale
358
Manuale della Professione Medica
intervento terapeutico (Nonis M, Braga M, Guzzanti E. Cartella clinica e qualità
dell’assistenza. Passato, presente e futuro. Il Pensiero Scientifico editore, 1998).
In un diario clinico così strutturato sono previste, oltre all’intestazione del
problema, delle sottosezioni (schema SOVP):
– S = informazioni soggettive: registra i mutamenti della sintomatologia o
l’assenza di una modificazione attesa;
– O = informazioni oggettive: descrive come mutano i dati obiettivi e comprende i risultati delle indagini eseguite per chiarire il problema alla luce dei
nuovi risultati ottenuti;
– V = valutazione sulla base delle precedenti voci: revisione critica del problema alla luce dei nuovi risultati ottenuti;
– P = piano di lavoro: formulazione dei piani di lavoro, che dovrebbe riportare le decisioni prese a riguardo di nuove informazioni da raccogliere per
la diagnosi, la terapia e l’educazione del paziente.
In sostanza la CMOP, introducendo concetti di grande rilievo, quale quello
dell’assistenza globale, facilitando l’impiego di personale sanitario infermieristico
per fini assistenziali, aiutando i medici con una precisa e nitida selezione dei
problemi assistenziali, diventa uno strumento necessario ai fini di verifica delle
cure prestate e attualizza altresì i principi di formazione professionale continua.
Controllo di qualità e cartella clinica
Il DLgs del 30 dicembre 1992, n. 502 ha apportato profonde modifiche e
innovazioni nell’organizzazione del SSN, con l’istituzione delle ASL (art. 3) e
delle Aziende ospedaliere (art. 4), nonché l’introduzione del DRG System (Diagnosis Related Groups) e delle modalità di finanziamento a esso connesso,
introducendo pertanto criteri di verifica e revisione della qualità nell’assistenza
ospedaliera. Con tale sistema si costruiscono gruppi di pazienti omogenei per
consumo di risorse a partire dalle informazioni sulle caratteristiche cliniche e
socio-demografiche dei pazienti presenti nella scheda nosologica ospedaliera. La
costruzione dei DRG si basa non più sulla consultazione del memoriale clinico,
ma deriva dalla scheda di dimissione ospedaliera e la caratteristica principale dei
DRG è quella di essere costruiti sulle procedure cliniche, perché fortemente
influenzati dal tipo di trattamento cui il paziente viene sottoposto dal medico.
Il sistema dei DRG rappresenta uno schema classificatorio che bene si presta
9. La documentazione dell’attività medica
359
anche all’estrazione di dati per la valutazione dell’assistenza sanitaria. Tale classificazione si esprime in 25 categorie diagnostiche principali riferibili alle varie
specialità mediche e chirurgiche e articolata nell’insieme in 489 gruppi.
Per assegnare ciascun paziente a uno specifico DRG sono necessarie le
seguenti informazioni: la diagnosi principale di dimissione, tutte le diagnosi
secondarie, tutti gli interventi chirurgici e le principali procedure diagnostiche
e terapeutiche, l’età, il sesso e lo stato alla dimissione. Nel nostro paese i DRG
vengono utilizzati per procedimenti di verifica e revisione della qualità delle
cure all’interno dell’ospedale, discostandosi dalla realtà nordamericana ove
vengono utilizzati per determinare l’ammontare delle quote di rimborso per
gli ospedali per l’assistenza prestata.
In questa ottica la cc acquisisce una ulteriore connotazione economicoamministrativa, nell’ambito della pubblica amministrazione, diventando documento rilevante a fini epidemiologici, di prevenzione, di valutazione e di controllo di qualità delle cure (VRQ), di contenimento della spesa sanitaria, di
equa distribuzione delle risorse, per cui una buona pratica clinica si realizza e si
documenta in una buona redazione e in una attuale tenuta di tale documentazione. La cc diviene pertanto strumento informativo essenziale per questo tipo
di indagini, fonte di dati privilegiata, facilmente accessibile; tuttavia la cattiva
qualità formale e sostanziale di tale documentazione nel nostro paese rende
difficoltose tali indagini.
Un altro problema strettamente connesso al controllo di qualità della cc è
rappresentato dal fenomeno dell’accreditamento delle strutture ospedaliere,
introdotto negli USA sin dai primi anni del secolo scorso (Joint Commission on Accreditation of Health Care Organizations) e diffusosi nei paesi
più avanzati d’Europa e anche in Italia, favorito dalle nuove disposizioni
normative in materia (DLgs 502/1992, art. 8, comma 7; legge 23 dicembre
1994, n. 721, art. 6; DPR 1° marzo 1994, cap. 8). E anche nel processo di
accreditamento la cc riveste un ruolo importante, essendo, secondo autorevoli autori, la qualità e la riservatezza delle informazioni relative all’utente,
tra i criteri da prendere in considerazione, con particolare riferimento alla
definizione di criteri di qualità per la compilazione della documentazione
sanitaria e una periodica verifica del rispetto di tali criteri. Altri autori sottolineano l’importanza della cc quale strumento di verifica della qualità delle
strutture ospedaliere, delle prestazioni delle stesse. La necessità di sottoporre
360
Manuale della Professione Medica
la cc a un monitoraggio continuo della qualità deriva dall’introduzione dei
sistemi di qualità nella nuova gestione della Aziende sanitarie, deputati alla
valutazione del rapporto costi/benefici delle prestazioni erogate e alla verifica della qualità delle stesse. L’OMS parla di qualità dell’assistenza quando:
«ogni paziente riceve l’insieme di atti diagnostici e terapeutici che portano ai
migliori esiti in tema di salute, tenendo conto dello stato attuale delle conoscenze scientifiche, con il minor costo e i minori rischi iatrogeni, ottenendo
la sua soddisfazione rispetto agli interventi ricevuti, agli esiti ottenuti e alle
integrazioni umane avute all’interno del sistema sanitario».
La cc, “accompagnando” il paziente durante tutta la degenza, diventa fonte
insostituibile per la valutazione della qualità del sistema, mentre la sua corretta
compilazione e tenuta ha sicuramente ricadute positive sulla soddisfazione del
paziente, ulteriore parametro di rilievo nella valutazione della qualità della prestazione.
Il controllo di qualità esige la definizione di rigorosi canoni e criteri osservativi atti a valutare la qualità formale e sostanziale della cc, quali per esempio:
qualità dell’anamnesi familiare, fisiologica e patologica remota;
qualità dell’anamnesi patologica prossima (motivo del ricovero);
qualità dell’esame obiettivo all’accettazione;
qualità del diario clinico (regolare, corretta e dettagliata tenuta del diario
clinico);
– consenso informato;
– corrispondenza scheda di dimissione ospedaliera (SDO)-cartella clinica;
– qualità grafica della compilazione.
–
–
–
–
Cartella clinica e responsabilità secondo il diritto vivente
Il cattivo uso delle cartelle cliniche è abbastanza generalizzato e forse tende
ad aumentare anche per una scarsa coscienza del valore che tale documento
riveste. Infatti, la cc è anche una costante certificazione di ciò che si rileva e di
ciò che si fa. La compilazione della cc riveste grande importanza nella formulazione di un giudizio di responsabilità medica.
Oltre al rilievo penalistico, da attribuirsi alla cc, precedentemente ripercorso,
la scorretta compilazione della stessa ha notevoli ripercussioni anche dal punto
di vista civilistico. Non mancano pronunce che stigmatizzano duramente la lacunosità del memoriale clinico, a rafforzare ulteriormente un già fondato giudi-
9. La documentazione dell’attività medica
361
zio di condanna dell’operato dei medici. Ma non è mancato l’apprezzamento
della omessa (o scorretta) compilazione della cc alla stregua di fattore idoneo a
determinare l’inversione dell’onere probatorio: la mancata indicazione del compimento di una data attività nel diario clinico farebbe sorgere una presunzione
iuris tantum (come tale suscettibile di prova contraria) di mancata effettuazione
della stessa (Tribunale Roma 28 gennaio 2002). Sarà dunque il medico a dover
dimostrare di aver posto in essere tutti quegli atti, imposti dalle leges artis.
Si riportano di seguito alcuni passi significativi estrapolati dalle pronunce
dei Giudici di merito in tema di cartella clinica:
«[…] Inoltre la possibilità che la morte del paziente sia intervenuta per
altre cause, diverse da quelle diagnosticate e inadeguatamente trattate, le quali
non sia stato tuttavia possibile accertare neppure dopo il decesso in ragione di
una difettosa tenuta della cartella clinica o della mancanza di adeguati riscontri
diagnostici (anche autoptici), non vale a escludere il nesso eziologico tra la
condotta colposa dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte,
ove risulti l’idoneità di tale condotta a provocarla […]». (Cass. civ., sez. III, 13
settembre 2000, n. 12103 – Cass. civ., sez. III 8 agosto 2000 n. 10414).
Il caso riguarda una neonata che, nel corso del parto, aveva riportato la frattura dell’omero destro e lesioni del plesso brachiale di sinistra, con conseguenti
menomazioni. Tralasciando la parte circa l’appropriatezza o meno delle manovre effettuate durante il parto, la Corte si esprime in merito alla compilazione
della cartella clinica:
«[…] la cartella clinica non aveva consentito ai consulenti di ricostruire le
concrete modalità di andamento del parto e dell’assistenza prestata dal personale
sanitario. In una situazione siffatta, è possibile presumere che le attività che altrimenti vi sarebbero state documentate siano state omesse e comunque la mancata
segnalazione, nella cartella clinica, di manifestazioni cliniche rilevanti, di trattamenti medicamentosi e di atti operativi, è indice di un comportamento assistenziale costantemente negligente e imperito. Le irregolarità e deficienze della cartella clinica denotavano per sé un corrispondente comportamento di assistenza al
parto manchevole e negligente, segno di un impegno mediocre e disatteso, fonte
certa di responsabilità, perché avevano influito in modo determinante sull’insuccesso medico nelle fasi del parto. Ma ad analoga conclusione si perveniva
quando si valutavano le specifiche, concrete attività svolte dal personale sanitario
che aveva assistito al parto […]». (Cass. civ., sez. III, 8 settembre 1998, n. 8875).
362
Manuale della Professione Medica
La responsabilità del ginecologo era stata riconosciuta in primo grado di
giudizio sia in ordine alla conduzione del parto senz’alcun dubbio produttiva
(per negligenza e imperizia) di anossia fetale, sia per quanto riguarda la inerzia
omissiva successiva (mancato riconoscimento della sindrome asfittica).
In sede di appello il giudizio era stato ribaltato in senso assolutorio, nella
presunzione di una carenza di prove: non risultando in cc neppure la circostanza
che il feto era nato con gravi conseguenze dell’anossia ed essendo per di più le
annotazioni riportate in cartella e nel certificato di assistenza al parto tra loro
contrastanti e oggettivamente lacunose. La Corte di Appello aveva ritenuto che,
comunque, «non fosse stato provato che la situazione era già alla nascita così
grave» da dover imporre al ginecologo il trasferimento del neonato in un ambito
clinico di terapia intensiva. Assumendo che le pur riconosciute vistose omissioni
e contraddizioni, presenti sia in cc che nel certificato di assistenza al parto, fossero destituite di qualsiasi valore anche solo meramente indiziario delle difficoltà
e della cattiva conduzione del parto (nonostante la cc costituisca un fondamentale documento di cui compete al medico la puntuale gestione).
La Cassazione ribalta nuovamente la decisione:
«[…] espongono i ricorrenti – la responsabilità del ginecologo era stata
prospettata sia nella conduzione del parto (nel corso del quale, per sua grave
imperizia e negligenza, si produsse l’anossia cerebrale), sia per quanto riguarda
il comportamento omissivo posteriore alla nascita, concretatosi nell’incapacità
di diagnosticare la sindrome asfittica già in atto e nell’apprestare al neonato
le tempestive terapie, quantomeno per ridurne le conseguenze. Si era in particolare dedotto – affermano ancora – che la colpa grave dell’operatore era
scolpita nell’istruttoria dell’esaurito giudizio, da cui era emerso che, contrariamente a quanto indicato nella cartella clinica, il parto era stato provocato,
aveva prodotto frattura alla clavicola (indice delle difficoltà riscontrate nella
fase espulsiva e di estrazione, volutamente omesse nel documento ufficiale
della sala operatoria) e aveva causato la sindrome asfittica, per fronteggiare
la quale sarebbe stato necessario l’immediato ricovero presso un centro specializzato, mentre il neonato era stato collocato in incubatrice e sottoposto a
ossigenoterapia del tutto inutile; e che l’ipossia anossica era stata gestita con
omissione, negligenza e imperizia […]. Col terzo motivo la sentenza è censurata […] per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione laddove
aveva ritenuto che le vistose omissioni e contraddizioni della cartella clinica e
9. La documentazione dell’attività medica
363
del certificato di assistenza al parto non potessero assurgere, neppure a livello
indiziario, a prova dei fatti causativi del danno lamentato e, in particolare, delle
asserite complicazioni che si sarebbero verificate durante il parto. Era stato in
tal modo disatteso il principio, enunciato in materia di valutazione dell’esattezza della prestazione medica da Cass. n. 12103 del 2000, che le omissioni
imputabili al medico nella redazione della cartella clinica rilevano come nesso
eziologico presunto, atteso che l’imperfetta compilazione della stessa non può,
in via di principio, ridondare in danno di chi vanti un diritto in relazione alla
prestazione sanitaria […]». (Cass. civ., sez. III, 23 maggio 2003, n. 11316).
La Cassazione richiama la propria sentenza n. 12103/2000, secondo cui non
può, in sostanza, tradursi in pregiudizio del paziente, la imperfetta compilazione
della cc (atto di esclusiva competenza del sanitario), nel caso in cui ne derivi
l’impossibilità di trarre utili elementi di valutazione sulla condotta del medico.
La parte veramente importante della sentenza non è tanto quella relativa
alla decisione circa la responsabilità del ginecologo a seguito di una condotta
omissiva (qui i giudici hanno deliberato in base a principi ormai consolidati
in Giurisprudenza), quanto quella relativa all’individuazione degli elementi di
responsabilità a carico del medico. E difatti la Cassazione punta l’indice soprattutto sulle carenze rilevate nella cc, che non fu compilata dal ginecologo nel
modo dovuto, tanto che in essa non furono annotati, come il medico avrebbe
dovuto fare con puntualità, tutti gli atti diagnostici e terapeutici compiuti, né
tanto meno il decorso del parto nelle sue diverse fasi.
«In tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, la difettosa
tenuta della cartella clinica naturalmente non vale a escludere la sussistenza del
nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia
accertata e la morte, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla,
ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la
prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte
contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro
dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova e al rilievo che
assume a tal fine la “vicinanza della prova” e cioè la effettiva possibilità per
l’una o per l’altra parte di offrirla». (Cass. civ., sez. III, n. 11316/2003).
A tale riguardo la Cassazione afferma che la carente compilazione della cc
e del certificato di assistenza al parto non può mai andare a pregiudizio del
paziente. Pertanto, nel caso in cui dalla cartella non correttamente redatta non
364
Manuale della Professione Medica
sia possibile trarre utili elementi di valutazione della condotta del medico, il
giudice – ed è questo il punto nodale – potà fare ricorso “a presunzioni logiche” come fonti di prova.
Quando dalla cc non è possibile stabilire quale siano stati il processo diagnostico-terapeutico attuato dal medico e il decorso della malattia, il giudice legittimamente, attraverso le presunzioni, può risalire a quello che presuntivamente fu il
comportamento positivo oppure omissivo del sanitario e al decorso della patologia.
In buona sostanza, questa sentenza della Cassazione, assegna alla cartella
significato probatorio e addebita a negligenza (produttiva di colpa del sanitario)
la mancata registrazione in cartella di un esame, sanzionando, con molta severità,
un comportamento del medico ritenuto “non conforme a scienza e coscienza”
sulla scorta di indicazioni probatorie presuntive e non certo in base ai dati obiettivi. E tutto perché la cartella clinica non era stata compilata nel modo dovuto.
«[…] Peraltro, poiché la cartella clinica relativamente a una partoriente deve
contenere detti dati, la mancanza degli stessi si risolve in omissione imputabile
al medico nella redazione della cartella clinica».
«Senonché in tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, la
difettosa tenuta della cartella clinica non vale a escludere la sussistenza del
nesso eziologico tra la condotta colposa dei medici in relazione alla patologia
accertata e il danno subito alla salute, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene
in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere
invocato […]». (Cass. civ. sez. III n. 583, 13 gennaio 2005).
Amniocentesi: nella cartella clinica vanno annotati anche i prelievi falliti.
I medici che effettuano l’amniocentesi hanno l’obbligo di annotare nella
cartella clinica tutti i prelievi di liquido amniotico effettuati, compresi quelli
“andati male” che sono da ripetere. La Cassazione conferma la condanna
inflitta a un dottore dell’ospedale di … colpevole di non aver segnalato sulla
cartella di una paziente in gravidanza che il primo prelievo era stato ematico,
segnalando solo il secondo andato a buon fine. La donna aveva perso il bambino. Il medico interrogato si era difeso sostenendo che era “prassi” annotare
soltanto i prelievi riusciti. Di qui il processo e la condanna per falso ideologico.
Per il sanitario era irrilevante annotare il primo prelievo ematico per la sua
inutilità ai fini dell’indagine genetica e perché non aveva comportato l’aumento
9. La documentazione dell’attività medica
365
dei rischi connessi all’operazione. La Suprema Corte invece afferma che «nel
caso di amniocentesi, intervento particolarmente delicato per i rischi connessi,
dato clinico rilevante è anche quello costituito da un prelievo ematico, che,
pur se ininfluente ai fini dell’indagine genetica cui l’intervento mira, acquista indubbia valenza alla luce delle conseguenze che ne possono derivare. Il
trauma fetale da puntura anche se ritenuta evenienza molto rara da quando la
procedura di amniocentesi è guidata dall’ecografia, è pur sempre possibile».
Il medico è pertanto tenuto a documentare le attività compiute delle quali si
“assume la paternità”. Concludono i giudici che la cartella clinica è un «atto
pubblico che esplica la funzione di diario dell’intervento medico e dei relativi
fatti clinici rilevanti, sicché i fatti devono essere annotati conformemente al
loro verificarsi». (Cass. pen. sez. V, sentenza n. 22694 del 16 giugno 2005).
«[…] al Dr. B. vada imputata una colpa professionale, ravvisabile:
a) nella errata valutazione della possibilità di tenuta della protesi nonostante
l’elevato grado di mobilità degli elementi inferiori;
b) nella prematura protesizzazione definitiva;
c) nell’aver omesso di annotare in cartella clinica i dati inerenti lo stato parodontale […] impedendo di fatto la verifica della graduale guarigione del
parodonto […]». (Trib. Modena 9 luglio 1993).
La cc assume quindi un ruolo importante nel contenzioso medico-legale,
quale utile testimonianza per lo stato anteriore (stati patologici, trattamenti preesistenti ecc.), per il trattamento disposto (percorso diagnostico, terapie suggerite, terapie scelte con il paziente, risultati ottenuti ecc.), per gli interventi
successivi (re-interventi, completamento di terapie interrotte ecc.), per gli interventi disposti da altri sanitari (completamento di piani terapeutici compositi,
terapia di mantenimento, semplice successione di più operatori sanitari ecc.).
La scheda di dimissione ospedaliera (SDO)
È già dal 1995 che il finanziamento degli ospedali avviene in base a un sistema
tariffario predeterminato, il cosiddetto sistema dei DRG. Nel momento della
dimissione del paziente il sanitario compila la SDO indicando sia la diagnosi principale, motivo del ricovero, che le patologie concomitanti, quando esistenti, gli
eventuali interventi o procedure diagnostiche eseguite oltre un altro considerevole
366
Manuale della Professione Medica
numero di item. A ogni informazione presente sulla SDO corrisponde un numero
di codice cui a sua volta corrisponde una maggiore specificazione nosologica.
In una sanità che per molti versi punta sull’Evidence Based Medicine (EBM), concetto per il quale le prestazioni sanitarie sono ritenute appropriate secondo criteri
scientifici e obiettivi fondati sui dati forniti dalla migliore ricerca possibile, che
esista anche un’Evidence Based Health Care Policy per gestire i servizi sanitari,
dei cui strumenti fanno parte senz’altro la cartella clinica e la scheda di dimissione
ospedaliera è senz’altro un momento di garanzia in più sia per il cittadino utente
che per il medico. Solitamente dopo l’avvenuta codifica, la scheda di dimissione
ospedaliera, istituita con DM del 28 dicembre 1991, successivamente integrato
e disciplinato dal DM del 26 luglio 1993 (che ha precisato analiticamente contenuti e modalità di trasmissione delle informazioni raccolte e ha attivato il flusso
informativo della SDO prevedendo la trasmissione, con periodicità trimestrale,
delle informazioni in essa raccolte dai singoli istituti di cura alla Regione di appartenenza e, da questa, al Ministero della Sanità) e parte integrante della cartella
clinica, viene processata da un apposito software, denominato grouper, che attraverso una sofisticata analisi di parametri (età, patologie associate, procedure ecc.)
attribuisce il tipo di DRG e quindi la relativa valutazione del valore economico del
ricovero. Dal 1° gennaio 1995, la SDO ha sostituito la precedente rilevazione sui
ricoveri attuata con il modello ISTAT/D10. Il DM del 27 ottobre 2000, n. 380, ha
aggiornato i contenuti e il flusso informativo della SDO e ha fissato regole generali per la codifica delle informazioni di natura clinica (diagnosi, interventi chirurgici e procedure diagnostico-terapeutiche), precisando che per tale operazione di
codifica deve essere utilizzato il più aggiornato sistema di codici ICD9-CM (1997)
(codice a 5 cifre) in sostituzione dell’ormai datato sistema ICD9 del 1975 (codice
a 4 cifre). Inoltre tale decreto ha introdotto anche altre innovazioni nel sistema,
quale l’identificazione del paziente attraverso il codice fiscale e l’adeguamento
del flusso ai sensi della normativa sulla privacy e sulle misure di sicurezza per il
trattamento dei dati personali, mediante la gestione separata delle informazioni
anagrafiche e sanitarie. Il procedimento di codifica della SDO coinvolge varie
figure, quindi non solo il sanitario che dimette il paziente (codifica decentrata),
ma anche il personale sanitario della Direzione sanitaria (codifica centralizzata)
e altri operatori. Il sanitario ha ovviamente un ruolo centrale nell’operazione di
codifica, perché deve tener conto di vari aspetti, spesso solo a lui noti, come la diagnosi clinica, la corrispondenza di questa con la nomenclatura del Ministero della
9. La documentazione dell’attività medica
367
salute, l’allocazione delle risorse per un determinato ricovero, le procedure utilizzate per quel caso specifico, la selezione dei codici corrispondenti, e molto altro.
Certo è che la SDO è all’origine di qualsiasi flusso informativo, e fondamentale
è la sua corretta compilazione e codifica, nonché la sua utilizzabilità nell’ambito
del sistema informativo territoriale e ospedaliero, ricordando che le informazioni
raccolte e codificate tramite la SDO sono poi trasmesse alle Regioni e da queste
al Ministero della Salute.
La SDO è quindi lo strumento di raccolta delle informazioni relative a ogni
paziente dimesso dagli istituti di ricovero pubblici e privati in tutto il territorio
nazionale, nel rispetto della normativa sulla privacy, ed è raccolta obbligatoriamente sia in caso di ricovero ordinario sia in caso di Day hospital, non
applicandosi, invece, all’attività ambulatoriale né a quella delle strutture socioassistenziali (salvo disposizioni regionali specifiche). Le informazioni descrivono aspetti del ricovero sia clinici (diagnosi e sintomi rilevanti, interventi
chirurgici, procedure diagnostico-terapeutiche, impianto di protesi, modalità
di dimissione), sia organizzativi (ad esempio: unità operativa di ammissione e
di dimissione, trasferimenti interni, soggetto che sostiene i costi del ricovero).
Di queste informazioni, alcune indispensabili alle attività di indirizzo e
monitoraggio nazionale, vengono trasmesse, come già precisato, dalle Regioni
al Ministero della Salute.
Dalla SDO sono escluse informazioni relative a farmaci somministrati
durante il ricovero o reazioni avverse agli stessi che sono oggetto di altri peculiari
flussi informativi. I dati raccolti attraverso la SDO costituiscono un prezioso
strumento di conoscenza, di valutazione e di programmazione delle attività di
ricovero sia a livello di singoli ospedali che a livello delle istituzioni regionali e
nazionali, e le finalità con le quali si possono utilizzare possono essere sia di
natura organizzativo-gestionale, sia di natura clinico-epidemiologica, purtuttavia tenendo sempre in debita considerazione le limitazioni della banca dati e
l’adozione di precise cautele nella lettura e interpretazione, in quanto possono
verificarsi diversità nella codifica e nella completezza delle informazioni registrate da Regione a Regione. I significativi cambiamenti dell’ultimo decennio
avvenuti nel Servizio Sanitario Nazionale richiedono certamente la disponibilità
di informazioni con l’obiettivo di poter effettuare un sempre migliore monitoraggio degli effetti prodotti dai cambiamenti medesimi e la SDO ne rappresenta
un valido strumento, costituendo il fulcro per la costruzione di un sistema inte-
368
Manuale della Professione Medica
grato tra informazioni anagrafico-gestionali e cliniche all’interno delle strutture
ospedaliere, e all’esterno il tramite per le transazioni di tipo economico e per le
attività di verifica e controllo di eventuali comportamenti opportunistici.
Le Regioni, oltre al contenuto informativo minimo ed essenziale, possono
poi prevedere informazioni ulteriori di proprio interesse.
La SDO, pertanto, che ha le stesse valenze della cartella clinica in quanto
parte integrante della stessa, deve recare la firma del medico curante nonché del
responsabile di divisione, il quale assume la responsabilità della regolare compilazione della stessa e deve contenere sia la denominazione dell’ospedale di ricovero che il numero della scheda, il cognome e nome del paziente, il sesso dello
stesso, la sua data di nascita e il comune di nascita, il luogo di residenza, la cittadinanza, il suo codice sanitario individuale, la regione di appartenenza, l’ASL di
iscrizione, ma anche informazioni sulle modalità di dimissione e sull’eventualità
di un riscontro autoptico nonché sulla diagnosi principale alla dimissione e le
patologie concomitanti o complicanze della patologia principale, e infine notizie
sull’intervento chirurgico principale (o parto) e altri interventi e/o procedure (in
casi di Day hospital motivo del ricovero e giornate di presenza). Le responsabilità medico-legali connesse alla compilazione della scheda di dimissione ospedaliera sono analoghe a quelle della cartella clinica e i dati raccolti attraverso
di essa costituiscono un prezioso strumento di conoscenza, di valutazione e di
programmazione delle attività di ricovero sia a livello di singoli ospedali sia a
livello delle istituzioni regionali e nazionali. Il Ministero della Salute divulga pubblicazioni periodiche, rapporti statistici e studi e i cittadini e gli utenti specializzati
possono avere accesso diretto a una banca dati on-line dove sono archiviate
tutte le informazioni aggregate (quindi solo ai dati di insieme) relative alle SDO,
e rende disponibili alle Regioni dati dettagliati e indicatori relativi alla attività
registrata in ciascuna di esse, in modo da ottenere dal riassunto codificato di ogni
singolo episodio di ricovero la disponibilità per un’analisi fenomenologica, statistica, epidemiologica, di allocazione di risorse a livello sovraospedaliero.
Il registro operatorio
Con la Circolare del Ministero della Sanità del 14 marzo 1996 n. 61 viene istituito il registro operatorio, parte integrante anch’esso della cartella clinica e con
le stesse valenze medico-legali, con finalità di documentare il numero e le moda-
9. La documentazione dell’attività medica
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lità esecutive degli interventi chirurgici. Nella cartella clinica deve sempre essere
compresa una copia di tale verbale qualunque siano le modalità della sua tenuta,
tenuta che però è obbligatoria, in quanto il registro operatorio è un atto pubblico.
Nel registro operatorio non si devono utilizzare simboli o abbreviazioni (a
eccezione di quelli convenzionali), oppure legenda degli stessi. Il registro operatorio è la raccolta dei verbali (ogni verbale è in duplice copia), dell’intervento o
degli interventi o delle procedure invasive eseguite in regime di ricovero ordinario, Day surgery o Day hospital, sul singolo paziente, nella stessa seduta operatoria.
Il verbale deve essere compilato obbligatoriamente in ogni suo campo e
deve essere inserito in originale nella cartella clinica, e come questa conservato
illimitatamente; in caso di procedura informatizzata, per ogni verbale operatorio vanno stampate due copie cartacee, di cui una va inserita in cartella clinica
e l’altra costituisce copia cartacea del registro operatorio.
Ogni unità operativa che effettua interventi chirurgici deve avere un proprio registro operatorio, la cui compilazione deve garantire i seguenti requisiti,
sia formali che sostanziali.
Tra quelli formali, ad esempio, vanno riportati:
– indicazione della data, di ora di inizio, ora di fine dell’atto operatorio;
– indicazione del nome del primo operatore e di quanti hanno partecipato
direttamente all’intervento;
– diagnosi pre-operatoria, denominazione sintetica della procedura eseguita
(codifica ICD9-CM);
– diagnosi finale, post-operatoria;
– tipo di anestesia utilizzata e nome dei sanitari che l’hanno condotta;
– ora di inizio e fine dell’atto anestesiologico;
– descrizione chiara e sufficientemente particolareggiata della procedura attuata;
– sottoscrizione da parte del primo operatore;
– tipologia di intervento dal punto di vista igienico-sanitario;
– tipologia di intervento a seconda dell’urgenza;
– identificazione sala operatoria;
– eventuali indagini complementari intraoperatorie effettuate;
– eventuale esame istologico richiesto, ordinario e/o estemporaneo;
– ora di ingresso e ora di uscita del paziente dalla sala operatoria;
– etichetta di materiale protesico e/o impiantabile, nel caso utilizzato;
370
Manuale della Professione Medica
– etichette identificative dei container e/o buste sterili;
– attestazione dell’esecuzione del conteggio garze/tamponi/strumenti.
Tra i requisiti sostanziali si annoverano, invece:
– la veridicità, cioè l’annotazione puntuale dell’intervento, degli interventi o
delle procedure invasive eseguite;
– la completezza, consistente nel fatto che attraverso ogni registro operatorio
sia possibile identificare in modo univoco l’esecuzione dell’intervento o
degli interventi o delle procedure invasive eseguite in regime di ricovero
ordinario, Day surgery o Day hospital, sul singolo paziente, nella stessa
seduta operatoria e che il verbale deve essere compilato in ogni sua parte;
– la chiarezza, riguardante sia la grafia che l’esposizione: il testo deve essere
chiaramente leggibile e comprensibile da tutti coloro che hanno accesso al
registro operatorio.
Ovviamente la custodia del registro operatorio è obbligatoria, e le modalità
di custodia devono garantire la massima tutela nei riguardi di eventuali manomissioni e nel rispetto della privacy, in luoghi accessibili solo da personale
autorizzato. I registri vanno tenuti presso le sale/blocco operatorio prima della
consegna all’archivio centrale, e sarà cura delle direzioni mediche ospedaliere
indicare il periodo di conservazione, comunque non oltre l’anno corrente.
All’inizio di ogni anno si dovranno utilizzare nuovi registri operatori al fine di
facilitare le modalità di archiviazione.
La scheda sanitaria
La scheda sanitaria è stata introdotta dall’articolo 31 dell’accordo collettivo nazionale per la medicina generale (DPR 270 del 28 luglio 2000) il
quale prevede, a carico del medico di medicina generale convenzionato con
il SSN, un vero e proprio obbligo giuridico di tenuta, compilazione e custodia di questo documento per ciascuno dei suoi assistiti, in quanto strumento
tecnico-professionale finalizzato a migliorare la continuità assistenziale e che
permette di collaborare a eventuali indagini epidemiologiche. Sempre per le
stesse disposizioni normative, il medico di medicina generale deve inserire
nella scheda sanitaria tutti i dati relativi allo stato di salute dell’assistito, provvedendo all’aggiornamento della stessa in caso di variazioni; è inoltre obbli-
9. La documentazione dell’attività medica
371
gato alla conservazione dei dati rispettando le norme sulla privacy (legge 675
del 1996 come modificata dal DLgs n. 196 del 30 giugno 2003 entrato in
vigore dal 1° gennaio 2004). La scheda sanitaria è destinata esclusivamente
all’uso del medico di fiducia dell’assistito contenendo la sua storia clinica e
assumendo rilevanza, sempre per detto sanitario, anche ai fini delle certificazioni richieste dall’assistito. Per contro, la cartella clinica, compilata per ogni
ricovero ospedaliero, è destinata anche ai rapporti esterni e può essere richiesta addirittura da terzi quando particolari esigenze lo impongano, mentre la
scheda, al contrario di quanto avviene per la cartella clinica, che costituisce
un vero e proprio atto pubblico, nonostante sia compilata da un pubblico
ufficiale non acquista un tale valore a meno che, in alcune situazioni, la sua
esibizione sia necessaria, come nel caso di ricovero ospedaliero urgente. In
tale ipotesi, infatti, il medico di medicina generale è tenuto a compilare sia la
richiesta di ricovero sia la scheda di accesso in ospedale in cui deve indicare le
ragioni cliniche della richiesta di ricovero urgente, i dati anamnestici, i provvedimenti terapeutici eventualmente in corso e gli accertamenti diagnostici
effettuati. In questi casi la scheda sanitaria acquista la natura di atto pubblico,
mentre negli altri ha valore di certificazione. La Corte di Cassazione non si
è mai occupata specificamente della problematica relativa alla natura e alla
rilevanza della scheda individuale sanitaria redatta dal medico di medicina
generale. In una decisione ha tuttavia affrontato l’analoga questione della
natura della ricetta medica redatta dallo stesso (Sezioni unite penali della Cassazione, sentenza n. 6752 del 7 giugno 1998). Al riguardo la Suprema Corte
afferma che la ricetta medica non è un atto pubblico, ma una certificazione
amministrativa anche se redatta da un pubblico ufficiale, e ciò in quanto con
essa il sanitario si limita a compiere un’attività amministrativa che attesta il
diritto dell’assistito all’erogazione dei farmaci. Diversamente, nel caso in cui
il sanitario attesti in una certificazione di aver personalmente compiuto una
determinata attività a favore del proprio assistito e di aver accertato la sussistenza di uno stato patologico del medesimo in realtà inesistente, allora in tal
caso detta certificazione assume la natura di atto pubblico. Tutto ciò ha delle
conseguenze, in quanto, nell’ipotesi di ricetta falsa, è applicabile l’articolo 480
cp che prevede il reato di falso in certificazioni amministrative punendolo con
una pena fino a due anni di reclusione, mentre, nel caso di false certificazioni,
sussiste il ben più grave reato di falso in atto pubblico punito dall’articolo 479
372
Manuale della Professione Medica
cp con una pena di gran lunga maggiore (fino a sei anni di reclusione). Applicando questi principi all’ipotesi di compilazione della scheda sanitaria relativa
a un assistito, in cui ad esempio il medico di medicina generale attesti falsamente l’avvenuta prescrizione di determinati farmaci o l’informazione ai fini
del consenso informato, allora tale falsificazione rientrerà nell’ipotesi appena
accennata del falso in certificazione amministrativa (articolo 480 cp), mentre
nel caso in cui ad esempio il medico attesti falsamente nella scheda l’accertamento di uno stato patologico in verità non esistente e poi lo riproduca nella
richiesta di ricovero ordinario e urgente in ospedale, allora sarà prospettabile
l’esistenza del più grave reato di falso in atto pubblico, punito dall’articolo
479 cp. Oggi per il medico di medicina generale è possibile sostituire (DPR n.
445 del 28 dicembre 2000, “Testo unico delle telecomunicazioni”) la scheda
individuale cartacea con una digitale. L’articolo 6 di tale DPR dispone che
le pubbliche amministrazioni e i privati hanno facoltà di sostituire, a tutti
gli effetti, i documenti dei propri archivi e gli altri atti dei quali per legge
sia prevista la conservazione su supporto informatico purché sia garantita la
conformità con i documenti originali. Ma per quanti anni il medico è tenuto
alla conservazione della scheda sanitaria? La norma non specifica al riguardo.
Bisogna, quindi, far riferimento alla cartella clinica, e secondo l’opinione prevalente, convalidata dalla circolare del Ministro della Sanità del 19 dicembre
1986, indirizzata agli assessori regionali della sanità, la sua conservazione è
illimitata rappresentando essa un atto ufficiale destinato a garantire la certezza
del diritto e a costituire fonte per le ricerche in campo sanitario. In effetti la
tesi deve ritenersi avvalorata dal testo unico sulla privacy in cui è prevista
la possibilità per chiunque intenda far valere un proprio diritto innanzi al
giudice, il cui riconoscimento è condizionato all’accertamento del contenuto
della cartella clinica, di poterla acquisire in ogni tempo. E per analogia, ciò
deve intendersi anche per le schede individuali sanitarie redatte dal medico di
medicina generale per il proprio assistito.
10
Assistenza al malato inguaribile
M. Barni
Art. 39 - Assistenza al malato a prognosi infausta
In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale,
il medico deve improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a risparmiare inutili sofferenze psico-fisiche e fornendo al malato i trattamenti appropriati
a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita e della dignità della persona.
In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire
nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando
ogni forma di accanimento terapeutico.
Art. 16 - Accanimento diagnostico-terapeutico
Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse,
deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui
non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato
e/o un miglioramento della qualità della vita.
Art. 17 - Eutanasia
Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte.
Art. 18 - Trattamenti che incidono sulla integrità psico-fisica
I trattamenti che incidono sulla integrità e sulla resistenza psico-fisica del
malato possono essere attuati, previo accertamento delle necessità terapeutiche, e solo al fine di procurare un concreto beneficio clinico al malato o di
alleviarne le sofferenze.
374
Manuale della Professione Medica
Art. 38 - Autonomia del cittadino e direttive anticipate
Il medico deve attenersi, nell’ambito dell’autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi
e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa.
Il medico, compatibilmente con l’età, con la capacità di comprensione e
con la maturità del soggetto, ha l’obbligo di dare adeguate informazioni al
minore e di tenere conto della sua volontà. In caso di divergenze insanabili
rispetto alle richieste del legale rappresentante deve segnalare il caso all’autorità giudiziaria; analogamente deve comportarsi di fronte ad un maggiorenne
infermo di mente.
Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve
tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo
stesso in modo certo e documentato.
Il tema, meglio il dramma “medico” dell’assistenza al malato inguaribile
sembra letterariamente tradursi in una sorta di “ossimoro” rispetto alla medicina terapeutica, ove se ne consideri solo la prospettiva della conservazione
in vita e non, più realisticamente ed in modo eticamente corretto, quella della
qualità della vita stessa che ciascuno ha diritto di far valere finché non venga
meno la vigilanza della coscienza. Ed anche oltre se una opzione non sia stata
in precedenza esplicitata. Sarebbe forse più “scientificamente” corretto riferirsi al trattamento del paziente incurabile; ma l’essenziale è circoscrivere e definire nei giusti termini la mission del medico al tramonto irrevocabile della vita
della persona assistita. Non è ad essa assolutamente pertinente ogni forma di
eutanasia estranea per motivi di incompatibilità finalistica ed etica al concetto
stesso di Medicina.
Una trattazione esaustiva del tema non è qui prospettabile, perché in buona
misura strettamente pertinente alla clinica e perché suscettibile di piegarsi al
soggettivismo e destinata pertanto ad evocare premesse e differenziazioni ideologiche, quelle stesse che diversificano gli approcci e lacerano le coscienze.
Sui molteplici aspetti che la particolare e in massimo grado specializzata funzione della medicina di fine-vita investe e propone, legittimamente si muovono
in effetti la clinica, la deontologia, la legislazione, la Giurisprudenza e si confrontano le varie anime della filosofia morale e della bioetica, sicché una guida
10. Assistenza al malato inguaribile
375
esaustiva, che valga per l’universo professionale, sembra inesperibile e impropria, tanto da far preferire una sintetica trattazione di più utile valenza pratica.
Per essa, occorre un pragmatismo che prudentemente e rispettosamente operi
un doveroso rinvio al riservato dominio di una ben intesa autonomia illuminata
da principi generali oltre che dalle soluzioni e dalle raccomandazioni altamente
specialistiche magari valide solo per particolari settori delle attività impersonati
dai neonatologi, dai rianimatori, dai palliativisti, dai terapeuti del dolore, che
si avvicendano lungo tutta l’ininterrotta parabola statisticamente assegnata alla
vita, dall’alta prematurità sino alla estrema decadenza. Essenziale conto meritano comunque il quadro delle esigenze fondamentali della professione medica
che sono quelle stesse cui autorevolmente si rivolge il Codice di Deontologia
e che in questa Guida sono state riprese e considerate nei precedenti capitoli.
Ne deriva che, anche nelle condizioni di inguaribilità, ogni trattamento di
assistenza e di cura non può prescindere dal principio universale (fondante
anche per la bioetica) delle libertà della persona che la Costituzione della
Repubblica stabilisce come diritto inalienabile alla autonoma gestione della
propria esistenza biologica, la quale non consente deroghe ai paralleli diritti di
discrezionalità e di dignità personali neppure in omaggio alla salvaguardia della
salute e della vita che restano beni disponibili nel novero della sola autonomia
individuale e nel quadro delle condizioni e con le riserve scandite, tra l’altro,
dalla nostra Carta Costituzionale. Per esse il medico, se non ha potestà autonoma alcuna relativamente alla vita di chi a lui si affida (o è affidato), il quale
ne è e ne resta il titolare finché capace di intendere e l’unico legittimo decisore,
conserva invece (e non ne può prescindere) il dovere di garanzia, tanto della
vita, quanto della salute ma sempre in armonia con la volontà della persona,
validamente espressa e/o attestata.
Al di fuori di questa partnership, malamente definita come alleanza terapeutica, vien meno, oltre alla rispettabilità del singolo professionista, la legittimità
stessa dell’attività medica, che altrimenti abdicherebbe dalla sua funzione/missione di tutela della persona sconfinando nella violenza contro la persona psichicamente competente. Ed è appunto nella definizione dell’atto e delle scelte
terapeutiche, anche di fine vita, che si muove e si sviluppa una nuova deontologia medica, promossa e sostenuta dalla bioetica e dal biodiritto, senza venir
meno ai principi pacificamente accolti e perseguiti nel segno dell’autonomia
e avvertiti con i sensori della scienza e della coscienza. Da questo essenziale
376
Manuale della Professione Medica
fondamento etico-giuridico può e deve trarsi ogni ispirazione e segnalazione
alla condotta medica anche nei confronti del malato inguaribile, il cui trattamento
esige un plus di responsabilità professionali ma non esente è dall’autolegittimante partecipazione della persona assistita.
L’assistenza al malato inguaribile: consentita e appropriata
L’unica e democratica direttiva cui ha da ispirarsi l’attività medica (meno
perspicuamente si parla di atto medico che resta ogni singolo momento della
condotta) stabilisce come ogni condotta resti giuridicamente garantita (vedi
la sentenza della Cass. pen. sez. unite 21/1/2009 n. 2437), finché si ispira al
rispetto assoluto, da parte del medico, dei doveri di congrua informazione e di
acquisizione del consenso, momenti preliminari ma irrinunciabili al dispiegarsi
delle procedure e prescrizioni tecniche.
Si deve quindi considerare che anche nel quadro della assistenza al malato
ormai deprivato da ogni suscettibilità di guarigione, non solo, ma soprattutto
ormai prossimo alla fine, non può venir meno ai principi della sacralità (che
significa essenza e mistero di ciascuna vita) e della inviolabile autonomia della
persona, informata, cosciente e responsabile. Ad ogni effetto, essa può essere
surrogata nei casi di immaturità o di non coscienza dalla espressione di consapevolezza e di consenso di chi esercita la tutela, efficace e determinante se
contenuta entro limiti che non contrastino con le irrinunciabili finalità di garanzia
proprie del medico (rispetto della vita e della dignità della persona anche non
competente), che soltanto la libera e diretta scelta del soggetto competente
avrebbe potuto altrimenti delimitare e indirizzare, in un confronto capace di
attingere le ragioni più intime e individuali dell’esistenza. Ma la sua inesperibilità diretta non può, salvo particolarissime condizioni d’emergenza-urgenza,
slatentizzare insindacabili e immotivate potestà.
L’altro requisito da considerare e sottolineare come espressione di un concetto apparentemente ovvio e tanto connaturato all’attività medica quanto inteso
come espressione di una nouvelle vague deontologica è quello dell’appropriatezza
delle scelte, non slogan rivoluzionario rispetto alla classica cultura medica ma
implicito alla vicenda sanitaria se intesa alla stregua di ovvia garanzia di sicurezza, di capacità, di responsabilità. La decisione medica deve essere, in effetti, il
risultato di una serrata logica (che faccia cioè a meno di ogni archetipo e conflitto
10. Assistenza al malato inguaribile
377
di interesse); e logos vuol dire discorso problematico (non verbum che sottende
etimologicamente una presupposta verità): un discorso cioè che si articoli su proposizioni chiave, si colorisca di suggestioni antiche e recenti, sia tributario di un
metodo indefettibile (eco ammonitrice della méthode cartesiana), sia espressione di
una cultura in costante divenire, per quanto possibile, avvalendosi di punti fermi
(le conquiste della scienza) ma non paralizzanti, si rifletta e si rifranga su tutte e
su ciascuna delle contingenze cliniche anche le più esasperate. E ciò attraverso il
ragionamento clinico che può essere definito come il prodotto delle operazioni
razionali che il medico compie per diagnosticare, spiegare e curare i fenomeni
patologici o come il complesso dei processi ermeneutici che il medico anche
empaticamente impegna per spiegare e comprendere la condizione del paziente.
Come saggiamente afferma Pagni, l’appropriatezza sta a significare la scelta «giusta, da parte dell’operatore giusto, nella struttura giusta». Nel quadro della logica
clinica non può quindi che operare tanto la medicina della esperienza, ambiguo
frutto della certezza naturalistica e della osservazione casistica e sperimentale,
quanto la medicina della deduzione, arricchita dal transfer delle evidenze, quanto
infine la medicina della induzione valida sempre se capace di non arrendersi alle
suggestioni statistiche. Si impone così una appropriatezza capace di umanizzarsi,
di individualizzarsi, di confluire nell’alveo della medicina della persona in ogni
fase della vita, di una medicina cioè che si ponga al rispettoso servizio dell’ammalato: la medicina cioè dell’amore, del dolore, della felicità, dell’autonomia e della
dignità di ciascuno, in un amalgama sereno e flessibile, anelante alla simpatia, non
precipitato dalle ideologie e dalle scorciatoie culturali (preconcette).
Ebbene, la decisione medica appropriata, che altrimenti può dirsi scelta,
opzione, indirizzo, costituisce la sintesi finale, operativa o anche desistiva; ed è
qui che si ripropone il senso vero dell’obbligo di garanzia che il medico trae dal
messaggio costituzionale (art. 32 Cost.).
Il comportamento medico autolegittimato rappresenta così non tanto un
dovere (ovvio) quanto una porzione della condotta terapeutica (meglio, direi,
del rapporto medico-paziente) che trae il suo primo fondamento proprio dalla
informazione e dalla esplicitazione del consenso. Se consentito ed eseguito lege
artis, l’atto, in se stesso, gode di compiuta fisionomia e di una sua complessiva
legittimità, sempre che non sia stata la monologante autorevolezza del medico a
orientare e tracciare gli obiettivi terapeutici da perseguire “negligendo” ciò che
il paziente abbia potuto intendere o abbia mal compreso al riguardo. L’atto
378
Manuale della Professione Medica
medico è per contro privo della necessaria dimensione etica e della specifica
copertura costituzionale allorché vi faccia difetto la componente relazionale
che nel caso di persona non competente (minore, incapace di mente) dev’essere entro certi limiti intrattenuta con chi esercita la tutela.
Le scelte mediche: tra desistenza e accanimento
Ad una complessa ispirazione valoriale, e cioè la tutela della salute da perseguire nel rispetto della libertà e della dignità personali, non può dunque non
attenersi la logica clinica che resta ancora il fondamentale, ma non il solo, fattore
delle scelte. Pochi e definiti margini restano in effetti per consentire l’influenza
di pulsioni diverse: da una parte l’interesse pubblico eccezionalmente preponderante se e quando definito dalla legge (malattie infettive, malattie mentali,
ecc.), dall’altra il rispetto degli indirizzi morali del singolo medico da contenere
peraltro entro quei limiti di autonomia traducibili nella obiezione di coscienza
quando ex lege prevista o nella clausola di coscienza deontologicamente corretta e responsabilmente intesa. Il resto può essere oggetto solo di scansione
deontologica e medico-legale: che, in definitiva, rappresenta il parametro della
correttezza “sociale” d’ogni decisione medica, fatta di scienza e di umanità,
concretizzata ed espressa nell’ambito del “logico” protagonismo del medico,
cui non può supplire, a differenza di quanto occorre nel mondo anglosassone,
né la consulenza etica ne l’apporto decisivo di figure professionali diverse. La
decisione è un atto di coscienza e di volontà che unisce medico e paziente. Dall’esterno
può operarsi solo accentuando gli strumenti di conoscenza e di responsabilità
nei protagonisti reali o potenziali della decisione, attraverso la formazione e la
informazione, la crescita scientifica e morale. Le fasi diverse e le competenze
diverse non possono né debbono in effetti scomporre la dialogante unicità di
un percorso, specialmente se obbligato dalle contingenze della incurabilità, ma
semmai porre in luce, a monte della contingenza stessa, la gamma delle opzioni
possibili su cui scienza e morale si confrontino e da cui derivi a valle una armonia tra le varie istanze e prospettive anche quando la scelta non dovrebbe tecnicamente che essere una. Non può in effetti frapporsi tra il medico decisore e
l’atto della decisione una trama di suggerimenti, che non sono, comunque, né
metodologicamente, né scientificamente, né eticamente vincolanti anche ai fini
della scelta (ed è in questo senso giusto il richiamo al limite delle linee-guida) e
10. Assistenza al malato inguaribile
379
tanto meno scriminanti in senso deontologico-giuridico. Altrimenti, l’opera del
medico è destinata a cedere alla inerzia (medicina difensiva) o alla predominante
soggezione ai dogmi (scientifici o etici) incombenti sui giudizi, alla deresponsabilizzazione, cioè, dei soggetti interessati, con il risultato di frantumare così
ogni unitarietà e titolarità del processo decisionale. Esso non deve mai scostarsi
né dalla razionalità scientifica né dal colloquio tra medico curante e soggetto
assistito o suo legale rappresentante che sottende, come si è visto, un dialogo
pregnante, semplice o complesso che sia: non più un soliloqio del medico, da
recitare, come in passato, in riservata e ombrosa solitudine, ma un’impresa plurisoggettiva da perseguire con il paziente, ovvero con chi lo tutela e lo rappresenta,
in una trepida e lucida atmosfera di ascolto anche dei motivi espressi o inespressi
da una sorta di coro eschileo composto dalla famiglia, dalla società, dalla giustizia
tanto distributiva quanto retributiva. La soggettività del discorso viene siffattamente recuperata nel senso profondo di una missione quale è sentita nella
coscienza individuale, ma non fino alla inderogabilità o alla obiezione apodittica.
In questo quadro si sviluppa dunque il percorso prasseologico della medicina c.d. di fine vita, che non può, per quanto sin qui riassunto (e semplicemente
esposto nell’allegato Codice di Deontologia), distaccarsi dal rapporto con la
persona ed ignorarne la autonomia.
La fase fondamentale del comportamento logico, una volta esperito nella
maniera migliore possibile l’approccio diagnostico e prognostico, risiede infatti
nel trattamento o anche nel non trattamento (o nella cessazione del trattamento o
desistenza terapeutica), fasi essenziali che presuppongono una decisione non sempre revocabile e ad un certo punto inflessibile che deve rispettare pur sempre
il fine della medicina, quello di tentare il recupero dello stato di salute migliore
possibile e di salvaguardare la vita o almeno la qualità della vita, ma entro i termini della logica (ragionevolezza) clinica; mai al di fuori della duplice reciproca
potestà individuale di far valere la propria libera volontà e di imporre il rispetto
della propria dignità. E ciò vale tanto per il medico quanto per l’ammalato.
Giova qui ripetere che il paziente competente può accettare o respingere la
intrapresa di un trattamento che sia persino sostitutivo di una funzione essenziale della vita (ventilazione artificiale, emodialisi, emotrasfusione, trapianto,
nutrizione artificiale) e può esigerne la sospensione; ed il medico ha il dovere
essenziale di renderlo edotto dei rischi connessi ad una scelta che può essere
definitiva.
380
Manuale della Professione Medica
Il rifiuto del trattamento
Per quanto peculiarmente riguarda il rifiuto di terapie salva-vita si continua
a discutere (con ricadute bioetiche inquietanti) sulla indisponibilità del substrato
corporeo, oltre che della vita stessa e si revoca, mettendola in dubbio, la legittimità del rifiuto di curarsi. Per converso, si condannano i trattamenti non direttamente correlati a condizioni patologiche, riconducendo così la malattia e la salute
nelle strettoie del mero organicismo. Questa escalation di divieti moralistici non è
tuttavia accettabile, posto che nella temperie civile e democratica, la scelta deve
solo derivare da una effettiva armonia tra libertà di curarsi e libertà di essere
curati: ed è questo un principio basilare della professione medica, un principio
del resto prevalente nella stessa Bioetica, quale è nata e si è nel tempo affermata.
Al di là delle indicazioni normative dirette a soddisfare interessi generali,
non possono che valere in definitiva le potestà della medicina, assolutamente
legittime se indirizzate verso una virtuosa gamma di obiettivi. Esse vanno considerate nella temperie di una responsabilità medica cui fiduciosamente dare
credito ma non possono tuttavia tradursi in obblighi sul se e sul come, tanto per
il medico (di cui tuttavia sono ammessi anche nella terminalità e la obiezione
di coscienza ed il rifiuto deontologicamente corretto) che per il paziente. La
Corte Costituzionale ha d’altronde negato a più riprese allo stesso legislatore la
discrezionalità di intervenire nella materia decisionale delle scelte curative (se
e quando, ad es., siano ammissibili l’elettroshock, il ricorso a medicine alternative, i divieti extrabiologici ed extraterapeutici, la procreazione medicalmente
assistita), ammonendo sulla inesperibilità e la intrasferibilità sul piano tecnico
di prescrizioni normative. Ed è quanto meno improprio che proposte legislative relative al testamento biologico contemplino la indichiarabilità e la inaccettabilità di scelte anticipate relative, ad es., alla nutrizione artificiale dei soggetti
in stato vegetativo. Allorché l’accettazione o il rifiuto di una terapia assumono
la tragica fisionomia delle scelte di vita, per il medico non può venir meno il
rispetto della autonomia della persona. In questa atmosfera d’acceso impegno
morale, si fondano e si identificano le due finalità di scelta (la salute, la vita) e i
problemi che sembrano ancora marcarne la differenza concorrono solo come
occasionali distonie proprie delle evenienze di inesperibilità e di indisponibilità
del consenso o del dissenso al trattamento, direttamente e contestualmente
espressi. Ma sono solo parvenze di alterità, che la medicina legale, la deonto-
10. Assistenza al malato inguaribile
381
logia e il diritto, hanno, col trascorrere di un tempo ben misurabile, del tutto
superate anche grazie alla affermazione, in chiave non solo bioetica, dell’autonomia della persona.
Ove il soggetto non sia competente si pongono tuttavia ulteriori e più articolate esigenze di rispetto dell’autonomia stessa, alternative rispetto alla diretta
esressione di volontà che nel malato, ormai inguaribile, possono considerarsi
non superabili:
a) Informazione e acquisizione del consenso da coloro che esercitano la
tutela, sempre che la scelta di questi soggetti non implichi un trattamento
diretto a provocare la morte (eutanasia attiva).
b) Richiesta di intervento di un amministratore di sostegno in caso di controversia
o di profonda incertezza.
c) Ricorso costante e sereno alla leniterapia e alla sedazione del dolore.
d) Non adozione o sospensione di ogni trattamento (ivi compresa la nutrizione artificiale) quanto incapace di svolgere una effettiva azione e non sia
biologicamente attivo.
Possono così riprendersi questioni particolari che per quanto attiene le scelte
mediche di fine-vita acquistano un significato esemplare. La prima riguarda la
persistenza (o la inesistenza) di un trattamento ormai inutile, futile ed al limite
dannoso: in altri termini chiama in causa il c.d. accanimento terapeutico. E si ripresenta inevitabilmente la domanda che vediamo emergere sempre più distintamente nel dibattito pubblico: fino a che punto il medico può e deve spingersi
con la terapia? Certamente, è dovere del medico non accanirsi, sapersi fermare
quando non c’è più nulla da fare anche se questo può provocare frustrazione
e sconforto, specialmente nei casi, che vorremmo chiamare “estremi”, quando
cioè lo stato del paziente non solo gli impedisce di esprimersi e di relazionarsi col
mondo esterno, ma blocchi la coscienza e riduca la persona ad una anatoma succube della terapia e tale stato si riveli, dopo un attento e prolungato esame, come
irreversibile. Non si tratta solo di eventi riguardanti l’interrogativo dei limiti della
medicina, ma anche di fatti riguardanti per esempio le sfide della sperimentazione e in particolare dei trapianti. In queste situazioni deve recuperarsi e liberarsi una umanità onestamente esperibile nel trattamento dei singoli casi, la quale
non esclude la incombenza di qualche rischio anche drammatico che la responsabilità di ciscuno deve saper assumere quando venga il momento di farlo. È
382
Manuale della Professione Medica
così anche chi sente «il mistero di Dio» pervadere la propria vita potrà porre con
fiducia il proprio dovere di scelta «nelle mani del Padre». Lo afferma con schiettezza
I. Marino e laicamente vorremmo aggiungere che non dovrebbe proprio allora
venir meno la fiducia nel medico, che anche nel mondo giuridico è considerato
l’insostituibile arbitro delle opzioni più drammatiche: una fiducia che riconosce e
rintraccia il senso di umanità, di carità, di responsabilità. Del resto
«Arriva un tempo in cui finisce il tempo
e sempre più si assottiglia e aderisce
alle rughe della terra e dei massi.
La memoria è il velo sottile di muschio
che c’è e non c’è. Lo spazio
non ha confini, è irriconoscibile.
Ogni bagliore è luce dell’eterno,
è riflessione divina.»1
Le direttive anticipate
L’ultimo punto che impone qualche definitiva considerazione è il testamento
biologico ovviamente riferito alle condizioni di fine-vita. Un documento approvato pressoché unanimemente dal Consiglio nazionale degli Ordini dei Medici
(Terni, 12 luglio 2009) ha previsto con chiarezza e lungimiranza la propensione
dei medici italiani per una normazione in tema di testamento biologico, limitata
alle procedure di compilazione e di gestione e non più pervasiva delle scelte
professionali da adottare caso per caso, con scienza e coscienza e in armonia
con le volontà della persona assistita direttamente espresse o consegnate ad
una direttiva anticipata. Naturalmente la essenziale e più dibattuta questione
resta quella dello stato vegetativo e della pertinenza della alimentazione e idratazione
artificiali alle comuni forme di assistenza ovvero all’ambito terapeutico, al quale
deve essere estranea ogni forma di accanimento.
Su quest’ultima tesi è decisamente schierata la comunità clinico-scientifica, a
partire dall’American Medical Association che già il 15 marzo 1986, approvando una
risoluzione del Council on Ethical and Juridical Affairs ha configurato «la somministrazione artificiale di nutrizione ed idratazione tramite una sonda per gastrosto1
Cesare Viviani, Credere all’invisibile, Einaudi 2009.
10. Assistenza al malato inguaribile
383
mia (ma anche tramite sondino naso-gastrico) come una forma di trattamento
medico che può essere interrotta in conformità ai principi e alle pratiche che
regolano il non inizio e la sospensione di trattamenti medici che solo prolungano la vita. Le
fondamentali risoluzioni sono presentate e discusse nel documento pubblicato
da JAMA (263 - 1990, pp. 426-430: Persistent Vegetative State and the decision to withdrow or withold life support), le varie e pressoché conformi linee-guida operanti in
ogni paese meno che in Italia (ove il Ministero della Salute elaborò alla fine degli
anni ’90 il c.d. rapporto della Commissione Oleari, mai peraltro ufficializzato) si
sono attestate sulle stesse conclusioni. Si veda per tutte la esemplare risoluzione
della British Medical Association: Witholding or withdrowing life prolonging medical treatment: guidance for decision making (BMJ Books, London, 1999) che definisce “the
categorization of artificial nutrition and hydratation as a form of medical treatment”, stabilendo anche le più logiche garanzie per la decisione di sospensione terapeutica.
La Giurisprudenza è assolutamente e ubiquitariamente ferma su tali principi. Vedasi per tutti la sentenza sul caso Bland (dicembre 1992 - febbraio 1993)
relativo ad un soggetto in s.v.p. successivo a traumatismo multiplo, esaminato
dalla House of Lords (la Corte Suprema inglese). Per essa i trattamenti life-saving
(nutrizione e idratazione) «costituiscono trattamenti medici soggetti alla valutazione medica di appropriatezza per cui il medico non ha l’obbligo giuridico di
somministrare trattamenti medici quando ormai incapaci di qualsiasi beneficio
(incorrispondenti cioè al best interest); e il medico è tenuto a sospenderli, quando
un paziente non è più in grado di acconsentire o di rifiutare e non abbia precedentemente espresso la sua volontà, pur avendone discusso con la famiglia». Ma
anche la Giustizia italiana ha recentemente sancito (Cass. sez. I civ., 16 ottobre
2007, n. 21745) come «non v’è dubbio che l’idratazione e la alimentazione artificiale
con sondino naso-gastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse infatti
integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, posto in essere da
medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composti chimici implicanti procedure tecnologiche».
Anche la Corte di Appello di Milano, col decreto della sezione I civile del 9 luglio
2008, segue tale linea, elencando i fondamentali presupposti per una ricostruzione “oggettiva”. Una impostazione di tal genere ha d’altronde una sua ragione
etico-giuridica che riconosce una matrice estranea alla competenza medica e tuttavia essenziale per tutte le implicazioni deontologiche (vedi Convenzione di Oviedo
e Codice di Deontologia medica). Il problema del procedimento applicativo o sospen-
384
Manuale della Professione Medica
sivo di idratazione e alimentazione artificiale è invece di natura esclusivamente
clinico-terapeutica e di competenza quindi esclusivamente medica. Ne fa fede,
alla fine, un recentissimo intervento della Corte Costituzionale, che al punto
6.1, penultimo comma della sentenza 151/2009, ha nuovamente posto l’accento
sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e
sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica,
sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere l’autonomia
e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie
scelte professionali (vedi anche le sentenze delle n. 338 e n. 382 del 2002 sulla
incostituzionalità di leggi regionali relative alle terapie elettroconvulsivanti e alle
pratiche non convenzionali). La decisione della Corte del 10 aprile 2009 proietta
così molta ombra sul disegno di legge relativo alle dichiarazioni anticipate di
trattamento, là dove per l’appunto vengono prospettati limiti alle decisioni mediche legittimamente e responsabilmente assunte in armonia con le espressioni di
volontà, anche anticipate, del paziente, che peraltro non possono ritenersi vincolanti per chi abbia espresso specifica obiezione di coscienza.
Per evocare una suggestiva metafora potremmo infine dire che l’autonomia del paziente relativa al trattamento e quindi il rispetto da parte del medico
della libertà personale, anche alla fine della vita, si riconoscono nella idea di
una porta che separa il paziente dal medico. Se il paziente ha taciuto e tace,
il medico vi ha legittimo accesso, mentre se la decisione di non aprirla è stata
presa o anticipata liberamente e consapevolmente dal paziente, essa non può
essere forzata neanche quando, oltre la soglia, si esaurisce ogni speranza2.
Definizioni
Eutanasia
Azione od omissione deliberatamente diretta a provocare una morte non
accompagnata o liberata da sofferenze fisiche e/o morali. È una soluzione finale
assolutamente estranea alla potestà e all’etica medica. Il termine è tuttavia infelicemente utilizzato con aggettivazioni deontologicamente inammissibili: attivapassiva, pietosa (mercy killing), volontaria (invocata cioè dalla persona assistita). La
Chiccoli I.: Brevi note sulla distinzione fra eutanasia attiva e passiva, in «Forum biodiritto 2008: percorsi a
confronto: inizio vita, fine vita e altri problemi» a cura di Casonato C. e coll., Trento, 2008.
2
10. Assistenza al malato inguaribile
385
più esatta definizione ne è offerta dall’art. 17 CDM (vedi). Non è culturalmente
oltre che professionalmente accettabile la inclusione nella dimensione eutanasia
nel processo di desistenza dalla terapia eticamente e deontologicamente legittima, e quando sia richiesta dal paziente competente ovvero espressa dal legale
rappresentante ovvero infine confidata a direttive anticipate (art. 39 CDM).
Accanimento terapeutico
La migliore definizione è quella offerta dall’ultimo comma dell’art. 39
CDM, che ne evidenzia la censurabile e difensivistica pretestuosità e futilità,
ponendo per contro in positiva luce il dovere del medico di proteggere la vita
anche «in caso di compromissione dello stato di coscienza» e di proseguire
«nelle terapie di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile» anche
nel quadro di una equa fruibilità delle risorse e dei presidi.
Direttive anticipate
Espressione di opzioni relative alle scelte diagnostiche o curative desiderate
o rifiutate, manifestate dal cittadino ancora in condizioni di ben intendere, ma
valide anche se derivate da una dichiarazione di volontà quod vitam aut valetudinem dirette a proiettare la propria autonomia decisionale verso una fase o condizione della propria vita nelle quali sia impossibile o inesperibile il consenso
informato. Rinviando ad altra parte della Guida la trattazione del tema, ci si
limita qui ad affermare che il medico è tenuto a soddisfare le volontà siffattamente espresse, sempre che esse non contrastino con l’etica (deontologia) e
la dignità professionale e non contemplino attività eutanasiche ultronee alla
consapevole e motivata desistenza terapeutica.
Leniterapia
Ogni atto medico che, oltre che alla desistenza di ogni inane o straordinaria
iniziativa su soggetti ormai prossimi alla fine, specialmente se sofferenti, sia
diretta a realizzare una qualità dignitosa e serena della vita che si spegne.
Trattamenti incidenti sulla integrità psicofisica
Nel quadro della attività terapeutica sono quelli diretti a lenire il dolore o a consentire salvifici trattamenti. Non sono condannabili ed anzi doverosi se finalisticamente positivi, ancorché inaccessibili di ridurre e/o indebolire le funzioni vitali.
11
Sessualità e riproduzione
E. Turillazzi
Art. 42 - Informazione in materia di sessualità, riproduzione
e contraccezione
Il medico, nell’ambito della salvaguardia del diritto alla procreazione cosciente
e responsabile, è tenuto a fornire ai singoli e alla coppia, nel rispetto della
libera determinazione della persona, ogni corretta informazione in materia di
sessualità, di riproduzione e di contraccezione.
Ogni atto medico in materia di sessualità e di riproduzione è consentito unicamente al fine di tutela della salute.
La contraccezione e la sterilizzazione
La contraccezione
La contraccezione ormonale è una metodica volta alla prevenzione del concepimento
attuata tramite la somministrazione di preparati estroprogestinici variamente
combinati secondo determinati schemi posologici. I metodi contraccettivi meccanici
e di barriera sono, invece, quelli che creano un ostacolo all’incontro fra spermatozoi e ovocita.
V’è da sottolineare un aspetto particolarissimo della contraccezione rappresentato da quelle pratiche che vengono ricomprese nella definizione di
intercezione, termine col quale si definisce la prevenzione della gravidanza prima
o subito dopo il concepimento. I metodi attraverso i quali si può attuare la
intercezione sono:
a) ormonali: tendenti alla inibizione dell’annidamento mediante somministrazione orale di dosi elevate di estrogeni oppure di estroprogestinici con inizio
388
Manuale della Professione Medica
della assunzione idealmente entro le 24 ore dal rapporto presunto fecondante e comunque non oltre le 72 ore (cosiddetta “pillola del giorno dopo”);
b) meccanici: mediante la applicazione di un dispositivo intrauterino nei giorni
immediatamente successivi al concepimento in modo da impedire l’annidamento e quindi l’inizio della gravidanza (cosiddetto “IUD del giorno dopo”).
La pillola del giorno dopo, in definitiva, altro non è che un contraccettivo ormonale usato con particolare sequenza cronologica e con particolare dosaggio
e gravato da effetti collaterali e indesiderati non indifferenti. Si tratta di una
metodica già in uso da lungo tempo e che consistite nella somministrazione di
estroprogestinici variamente combinati e a vario dosaggio utilizzati, appunto, a
scopo di contraccezione d’emergenza. L’introduzione di farmaci nuovi (nel senso
che a sostanze già note e utilizzate è stata data una formulazione farmaceutica
nuova) è stata definitivamente sancita con decreto di autorizzazione del Ministero della Sanità (GU n. 238 dell’11 ottobre 2000) che autorizza la immissione
in commercio di specialità medicinali a base di levonorgestrel, prescrivibili con
ricetta rinnovabile di volta in volta e con la specifica indicazione terapeutica di
«contraccettivo d’emergenza da usare entro 72 ore da un rapporto sessuale non
protetto o in caso di mancato funzionamento di un sistema anticoncezionale».
La prescrizione della pillola del giorno dopo deve rispondere a precisi requisiti
(rispetto delle indicazioni, considerazione delle controindicazioni e degli effetti
collaterali) la cui valutazione spetta in definitiva solo al medico, tenendo ben presente
che essa non può essere considerata tout court una alternativa agli usuali metodi
contraccettivi. Solo quando il sanitario ritenga, sulla base dei dati clinico-anamnestici in suo possesso, la somministrazione della pillola del giorno dopo opportuna, efficace e ragionevolmente priva di prevedibili effetti collaterali, egli è
tenuto alla sua prescrizione, previa ampia informazione al soggetto.
In merito alla possibilità di rifiuto della prescrizione della pillola del giorno
dopo, da parte del sanitario occorrono ulteriori specificazioni.
Tali metodiche esulano dalle previsioni della legge 194/1978. I mezzi intercettivi vengono impiegati prima dell’instaurarsi dello stato gravidico e del suo
accertamento per cui il loro utilizzo non richiede la attivazione delle procedure
previste dalla legge per l’interruzione volontaria della gravidanza nei primi
novanta giorni. Ciò premesso, è evidente che non è applicabile in questa fattispecie la obiezione di coscienza così come prevista dalla legge 194/1978 esplicitamente
11. Sessualità e riproduzione
389
solo nelle ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza. Rimane, tuttavia,
per il medico la possibilità, motivata da contrasti con la sua coscienza o con il suo
convincimento clinico, di un «rifiuto d’opera professionale».
La sterilizzazione
Definizione
Nell’affrontare la questione della sterilizzazione, occorrono, ai fini di un
corretto inquadramento del fenomeno, alcune precisazioni terminologiche. Il
termine sterilizzazione indica «ogni atto (e in particolare ogni atto medico)
volto a provocare la sterilità in un soggetto sessualmente fecondo».
Sterilizzazione terapeutica
Il tema della sterilizzazione terapeutica, volta cioè a “curare” patologie neoplastiche o di altra natura nell’uomo o nella donna, non offre particolari spunti
di indole etico-giuridica, fatto salvo il dovere del rispetto dell’indicazione terapeutica e, soprattutto, dell’obbligo per il medico di assolvere a una informazione am­pia a coprire tutti i molteplici aspetti della procedura (in particolare
i rischi e le possibili complicanze fra cui, appunto, gli esiti sterilizzanti) al fine
di ottenere un consenso veramente informato e consapevole da parte del soggetto che si sottopone a simili procedure terapeutiche mediche o chirurgiche.
Sterilizzazione volontaria
La sterilizzazione volontaria necessita di essere inquadrata sotto il duplice
profilo della liceità etica e della fattibilità giuridica nel contesto del nostro ordinamento giuridico attuale.
Considerata la sterilizzazione volontaria, come fattispecie di intervento
con finalità terapeutiche, occorre procedere al suo inquadramento normativogiuridico, ricordando come l’abrogazione dell’art. 522 cp (procurata impotenza
alla procreazione) ex art. 22 legge n. 194/1978 non ha, ipso facto, aperto la
strada alla liberalizzazione delle ipotesi di sterilizzazione: la causazione della
perdita della capacità di procreare configurerebbe, infatti, una lesione personale gravissima (art. 583 cp).
L’abrogazione dell’art. 522 cp non sembra, quindi, aver risolto definitivamente il problema della liceità penale degli interventi di sterilizzazione umana
volontaria la cui interpretazione giuridica non appare univoca, oscillante com’è
390
Manuale della Professione Medica
fra le opposte posizioni di quanti ravvisano nell’art. 5 cc (che vieta gli atti di
disposizione del proprio corpo quando provochino diminuzioni permanenti
della integrità psico-fisica del soggetto) un limite invalicabile non superabile
nella fattispecie della sterilizzazione nemmeno con il consenso dell’interessato,
e quanti, invece, ritengono che «un soggetto consenta ad atti relativi alla propria integrità fisica, se rispondenti ad una scelta per finalità di salute psichica,
liberamente valutata». In altri termini, la barriera dell’art. 5 cc non opererebbe
nelle fattispecie della sterilizzazione volontaria in quanto non di diminuzione
della propria integrità psico-fisica si tratterebbe, bensì del raggiungimento del
bene salute (seppure latamente estesa) tutelato dalla Costituzione.
La sterilizzazione volontaria sembra, quindi, essere ammessa nel nostro
ordinamento solo se veramente volontaria e suffragata da un consenso realmente informato e consapevole proprio a motivo delle particolari implicazioni
(irreversibilità) dell’atto che si intraprende; ne deriva per il sanitario un obbligo
informativo forte e imprescindibile. La reversibilità degli interventi di sterilizzazione e il conseguente venir meno dell’attributo della permanenza della riduzione della integrità psico-fisica indotta dagli atti di disposizione del proprio
corpo di cui all’art. 5 cc, potrebbe attutire, fino a eliderla completamente e
finalmente, la vetusta ed abusata barriera dell’art. 5 cc. È altresì evidente che
il medico cui venga richiesto di praticare un intervento di sterilizzazione può
legittimamente rifiutarsi di aderire alla richiesta del soggetto, rientrando appieno
tale evenienza nella ipotesi di legittimità del rifiuto di obiezione di coscienza.
Sterilizzazione coattiva
Un cenno, sia pur breve, merita la sterilizzazione coattiva, termine questo
comprensivo di tutte le forme di sterilizzazione attuate senza o contro il consenso dell’interessato, «indipendentemente dal soggetto che ne deliberi l’effettuazione (genitori o tutori, medici, giudici, Stato) o dalle motivazioni (in particolare
quelle di carattere sociale) che possono essere addotte per giustificarle» (CNB).
Ci si riferisce alle forme di sterilizzazione rituale di certe etnie, alla sterilizzazione di soggetti che abbiano compiuto reati di carattere sessuale, a quella
demografica praticata in certe aree del mondo ove consistente è il problema
dell’eccesso numerico della popolazione o a ipotesi di sterilizzazione eugenetica a danno di soggetti disabili. In ogni caso, la sterilizzazione coattiva, eseguita cioè sull’uomo o sulla donna senza il consenso o con consenso viziato
11. Sessualità e riproduzione
391
e non valido, al di là della assoluta esecrabilità etico-morale, costituisce reato
previsto dal nostro ordinamento penale nella fattispecie della lesione personale
gravissima (art. 583 cp).
Il transessualismo e il mutamento di sesso
Il transessualismo e il mutamento del sesso morfologico implicano, ancora
una volta, attività e potestà mediche afferenti a una concezione ampia di salute
che percorre tutte le imprese mediche in ambito di sessualità e riproduzione. Il
rifiuto della propria realtà sessuale biologica può senza ombra di dubbio ingenerare, nei casi di contrasto fra la dimensione psichica della personalità sessuale,
l’assetto cromosomico e la espressione fenotipica dei caratteri sessuali primari e
secondari, gravi ripercussioni negative sulla salute dell’individuo stesso.
Va, allora, inquadrata in questa ottica e solo in essa la potestà conferita al
medico di intervenire con mezzi chirurgici (ma non solo se si pensi alle terapie
ormonali) per adeguare i caratteri sessuali di un individuo a quelli del sesso
opposto.
La legge n. 164 del 14 aprile 1982 che reca disposizioni in materia di rettificazione di attribuzione di sesso rappresenta l’approdo legislativo di un lungo
viaggio intrapreso da dottrina e Giurisprudenza. Accanto, infatti, a posizioni
di formale rigore concettuale e giurisprudenziale per le quali la necessità di
tutelare la certezza dei rapporti giuridici appariva pre­minente (per tutte si citi
Cass., 3 aprile 1980 che rigettava la domanda di rettificazione stabilendo che
l’intervento chirurgico è incompatibile con le esigenze primarie dell’ordinamento poiché i rapporti intersoggettivi devono essere improntati al criterio
della chiarezza e della certezza giuridica), si faceva vieppiù strada un indirizzo
giurisprudenziale sempre più sensibile alla questione del transessualismo e alla
affermazione del cosiddetto diritto alla identità sessuale, intesa come aspettativa di riconoscimento giuridico delle condizioni nelle quali l’aspetto psicologico e umano è predominante e connotato spesso da una forte componente di
dolore e di disagio di ostacolo al raggiungimento di uno stato di pieno benessere che si identifica con la salute.
La attuale normativa viene promulgata nel 1982 in risposta anche a un
chiaro invito del giudice costituzionale (Corte Cost. n. 98, 12 lu­glio-1° agosto
1979) che, investito della questione della legittimità costituzionale della norma
392
Manuale della Professione Medica
civilistica che impediva la rettifica degli atti di stato civile a seguito della modificazione chirurgica degli organi genitali esterni, pur non riconoscendo ancora
fra i «diritti inviolabili dell’uomo quello di far riconoscere e registrare un sesso
esterno diverso dall’originale, acquisito con una trasformazione chirurgica per
farlo corrispondere a una originaria personalità psichica», indicava, tuttavia, la
necessità di una soluzione legislativa per la questione del transessualismo. La
legge introduce di fatto un concetto nuovo di identità sessuale che dà risalto
all’orientamento psichico del soggetto come elemento prevalente sui caratteri sessuali somatici e riconosce il diritto di ciascuno di attribuirsi un sesso
conforme alla propria personalità psichica. Non poche critiche ha sollevato la
legge del 1982 in merito alla liceità dell’intervento di correzione chirurgica del
sesso e delle ripercussioni sull’eventuale matrimonio, sulla famiglia e sulla vita
di relazione del soggetto sottoposto a modificazione artificiale del sesso gonadico. Illuminanti in tal senso sono le parole della Corte Costituzionale che,
chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della legge n. 164/1982,
afferma (Corte Cost., 6 maggio 1985, n. 161) che: «Anche a tacere del rilievo
che il principio dell’indisponibilità del proprio corpo è salvaguardato, nella
legge in esame, dalla necessità del previo intervento autorizzatorio del tribunale, resta comunque che, per giurisprudenza costante, gli atti dispositivi del
proprio corpo, quando rivolti alla tu­tela della salute, anche psichica, devono
ritenersi leciti. La natura terapeutica che la scienza assegna all’intervento chirurgico – e che la legge riconosce – nella fattispecie considerata ne esclude
la illiceità, mentre le norme che lo consentono, dettate a tutela della persona
umana e della sua salute – fondamentale diritto dell’individuo e dell’interesse
della collettività – non offendono per certo i parametri costituzionali invocati».
Le procedure
Ai sensi dell’art. 1, quando siano intervenute modificazioni dei caratteri sessuali o quando le condizioni psico-fisiche del soggetto siano tali da richiederlo,
l’interessato (maggiorenne) può inoltrare domanda per la rettificazione di attribuzione di sesso al tribunale. Il tribunale può, quando necessario (art. 2), nominare
un consulente tecnico per accertare le condizioni psico-fisiche del soggetto. L’art.
3 della legge 164 dispone che: «Il Tribunale quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico,
11. Sessualità e riproduzione
393
lo autorizza con sentenza. In tal caso il Tribunale, accertata la effettuazione del
trattamento autorizzato, dispone la rettificazione in camera di consiglio».
La questione che può porsi, come acutamente è stato sottolineato da parte
della dottrina giuridica, insiste sulla «reale necessità dell’intervento chirurgico
per ottenere la richiesta di rettificazione degli atti dello stato civile di cui all’art.
3 della legge 164». Ebbene, a tale proposito ondivago – e non poteva essere
altrimenti – è l’orientamento della Giurisprudenza che si è espressa in maniera
difforme. Si citano, a mo’ di esempio, la sentenza del Tribunale di San Remo (7
ottobre 1991) per il quale «non può accogliersi la domanda di attribuzione del
sesso maschile formulata da un soggetto, nato con le caratteristiche del sesso
femminile e come tale dichiarato allo stato civile, sul presupposto della mancata
accettazione dell’identità femminile e del possesso di caratteristiche psichiche
di tipo maschile, senza però che il soggetto si sia sottoposto, in mancanza di
una evoluzione naturale, a interventi demolitori degli organi sessuali esistenti
(e successivamente ricostruttivi) per assumere anche solo l’apparenza del sesso
opposto a quello anagrafico, non essendo a tal fine sufficiente la mastectomia
e la disposizione pilifera di tipo maschile, che non incidono sui caratteri sessuali primari della persona, la quale non ha pertanto perduto le caratteristiche
fisiche del sesso originario»; e quella, ben diversa, del Tribunale di Macerata
(12 novembre 1984) secondo il quale «l’adeguamento dei caratteri sessuali da
realizzare mediante trattamento medico-chirurgico di cui all’art. 3 della legge
n. 164 del 1982, si rileva necessario ai fini della rettifica del sesso solo quando
occorre adattare le caratteristiche del sesso medesimo alla personalità psicosessuale del soggetto, in presenza di provata dissociazione fra la psiche dell’interessato e i suoi caratteri sessuali, vale a dire nell’ipotesi che si suole definire di
“transessualismo”. Viceversa, nel caso della cosiddetta “intersessualità” in cui
a un assetto genetico definito corrisponde un fenotipo ambiguo congenito, per
effetto del quale alla nascita si è apprezzata soltanto una definizione apparente
del sesso, va disposta direttamente con sentenza la rettificazione dell’attribuzione del sesso, a termini dell’art. 2 legge n. 164 del 1982».
La sentenza di rettificazione di sesso ha come effetto lo scioglimento
dell’eventuale matrimonio e la cessazione degli effetti civili conseguenti alla
trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso (art. 4). Le attestazioni
di stato civile riferite a persona della quale sia stata giudizialmente rettificata
l’attribuzione di sesso sono rilasciate con la sola in­dicazione del nuovo sesso e
394
Manuale della Professione Medica
nome (art. 5). Rimane insoluta la questione relativa all’affidamento dei figli che
andrà risolta, di volta in volta, a seconda dell’età dei figli stessi e delle situazioni
contingenti.
Art. 43 - Interruzione volontaria di gravidanza
L’interruzione della gravidanza, al di fuori dei casi previsti dalla legge, costituisce grave infrazione deontologica tanto più se compiuta a scopo di lucro.
L’obiezione di coscienza del medico si esprime nell’ambito e nei limiti della
legge vigente e non lo esime dagli obblighi e dai doveri inerenti alla relazione di cura nei confronti della donna.
L’interruzione volontaria di gravidanza
La interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è disciplinata dalla legge n.
194 del 22 maggio 1978.
Tutela della maternità
Necessaria premessa a una corretta lettura della legge 194 è l’articolo 1 che
testualmente recita: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e
responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal
suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge,
non è un mezzo per il controllo delle nascite…». Si tratta, in buona sostanza, di
una dichiarazione chiarissima dei principi sui quali si articolerà poi tutta la legge.
Le procedure della legge 194/1978
La IVG nei primi novanta giorni
L’art. 4 regolamenta le procedure per adire l’IVG nei primi novanta giorni
di gravidanza. In questa ipotesi «la donna che accusi circostanze per le quali la
prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio
pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle
sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito,
si rivolge a un consultorio pubblico […] o a una struttura socio-sanitaria […] o a
11. Sessualità e riproduzione
395
un medico di sua fiducia». Il medico (art. 5) deve compiere gli accertamenti sanitari necessari (alla conferma dello stato gravido) nel rispetto della dignità e della
libertà della donna; valutare con la donna stessa e con il padre del concepito, ove
la donna lo consenta, le circostanze che hanno determinato la richiesta dell’IVG;
informarla sui diritti a lei spettanti e su eventuali interventi di carattere sociale cui
può fare ricorso; aiutare la donna a verificare la possibilità di rimuovere le cause
che l’hanno portata alla decisione di interrompere la gravidanza e promuovere
comportamenti consapevoli nel controllo della fecondità. Prima di rilasciare il
documento che a norma dell’art. 5 deve contenere solo l’attestazione dello stato
di gravidanza e della avvenuta richiesta di interruzione della medesima, il medico
può e deve effettuare solo controlli sullo stato e l’epoca della gravidanza in atto.
In buona sostanza il medico non ha il dovere di accertare l’effettiva esistenza e la
rilevanza delle motivazioni addotte dalla donna, pur essendo opportuno che nel
corso del colloquio egli valuti insieme con la donna le motivazioni che l’hanno
condotta a richiedere la IVG senza che, peraltro, risulti di sua competenza contestarle o dimostrarne la eventuale irrilevanza. Al termine del colloquio il medico
«rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di
gravidanza e l’avvenuta richiesta e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi per ottenere la interruzione della
gravidanza […] presso una delle sedi autorizzate».
In caso di urgenza clinica, «quando il medico […] riscontra l’esistenza di condizioni tali da ren­dere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna
un certificato attestante l’urgenza. Con tale certificato la donna stes­sa può presentarsi a una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione di gravidanza».
Il ruolo del padre del concepito
L’analisi della legge porta inevitabilmente ad affrontare una questione assai
delicata, quella cioè relativa al ruolo decisionale del padre del concepito nei confronti del quale la legge mostra, in effetti, solo una minima apertura (art. 5). La
esclusione, di fatto, dell’uomo dal processo decisionale che prelude alla IVG appare
coerente con l’opzione di fondo ispiratrice della legge la quale ritiene comunque e
sempre prevalente la tutela della salute fisio-psichica della madre; e in questa ottica
il diritto dell’uomo alla paternità non può mai superare né contrastare il diritto alla
salute della donna, fulcro dell’intero sistema normativo sull’aborto.
396
Manuale della Professione Medica
La IVG dopo i primi novanta giorni
Dopo il 90° giorno la IVG può essere praticata (art. 6):
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita
della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti
anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per salute fisica o psichica della donna.
Nessun commento si rende necessario in merito al comma a) essendo evidente come la sussistenza di un grave pericolo per la vita della donna legittimi la possibilità di ricorrere alla IVG dopo i primi novanta giorni. Vale solo
la pena sottolineare come, secondo la più attenta dottrina medico-legale, «il
riscontro di un grave pericolo può essere effettuato anche sulla base di una
ragionevole previsione e in mancanza del requisito della sua attualità. È sufficiente che tale pericolo si prospetti come probabile, attendibile, verosimile
anche a scadenze non immediate».
La valutazione tanto del benessere della madre quanto dell’esistenza di un
nesso causale tra la patologia fetale e il grave pericolo per la madre, rappresenta, in effetti, lo snodo cruciale della normativa che, siffattamente escludendo
la liceità di qualsiasi forma di aborto eugenetico, giustifica in realtà la IVG dopo
il 90° giorno solo alla luce dell’esistenza di una minaccia grave e comprovata per
la salute della madre. Si ritiene, quindi, che non sia determinante la possibilità
o meno di diagnosticare l’esistenza delle malformazioni fetali e anzi che ciò sia
sostanzialmente irrilevante rispetto a quanto il legislatore addita all’attenzione
dei medici cui l’indagine compete. La ratio della norma rispecchia, d’altronde,
l’esclusiva preoccupazione del legislatore di tutelare un effettivo pericolo per la
salute e la vita della donna da qualunque causa possa essere esso determinato.
Ne emerge, come momento di fondamentale rilievo, l’accertamento non tanto
delle anomalie e delle malformazioni fetali, di per sé – giova rammentarlo – non
giustificatrici della IVG, bensì del pericolo grave per la salute materna (fosse
anche solo dell’integrità psichica), unico presupposto che garantisce e dà accesso
al ricorso alle pratiche di IVG dopo i primi 90° giorni di gravidanza.
Le modalità tecnico-procedurali per adire la IVG dopo i primi 90 giorni
sono previste dall’art. 7 della legge cui si rimanda, limitandosi a sottolineare
come «qualora sussista la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione
11. Sessualità e riproduzione
397
della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) – quando
la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna
– e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto».
La obiezione di coscienza da parte di tutti i professionisti sanitari medici e
non medici è specificatamente prevista dall’art. 9 della legge 194. Per quanto
riguarda le prestazioni oggetto della obiezione di coscienza, è esplicitamente
previsto dall’art. 12 che il personale non «è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 e agli interventi per l’interruzione della gravidanza».
Nessun dubbio, quindi, in merito alla possibilità per il personale sanitario di
astenersi solo da quelle procedure che siano «specificamente e necessariamente» dirette a determinare la IVG, mentre non rientrano nella obiezione di
coscienza tutte quelle attività volte alla assistenza, latamente intesa, della donna
nei momenti che precedono e che seguono la IVG.
Anche in merito alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 e suscettibili di rifiuto
da parte degli operatori obiettori sono necessarie alcune precisazioni.
Il primo punto concerne l’incontro e il colloquio di cui all’art. 5 che, per
oramai concorde dottrina medico-legale, rappresenta una prestazione non
suscettibile di opzioni da parte del medico, non rifiutabile, quindi, neppure
attraverso lo strumento della obiezione di coscienza, ma che anzi, proprio per
i suoi contenuti, costituisce una prestazione formativa e informativa doverosa
anche per il medico obiettore.
Maggiori questioni sorgono in ordine alla redazione del “documento” previsto, sempre ai sensi dell’art. 5, al termine del colloquio con la donna. Ebbene,
sull’onda di un intenso e serrato dibattito sviluppatosi sin dai primi momenti
della applicazione della legge 194, si è da più autorevoli voci sottolineata la non
incompatibilità tra la obiezione di coscienza e la compilazione del documento,
giungendosi persino a indicare la obbligatorietà anche per il medico obiettore di
svolgere tale procedura, posto che «siffatto documento è atto medico sin dove
attesta la gravidanza, ma cessa di esserlo là dove registra la volontà della donna».
Più controversa è la questione se il medico obiettore di coscienza possa o
debba rilasciare al termine del colloquio il documento che certifica l’esistenza e
l’epoca della gravidanza qualora si ravvisino condizioni di urgenza (art. 5, penultimo comma). In simili ipotesi il certificato costituisce uno strumento autorizzativo che permette alla donna di adire alle procedure di IVG, immediatamente
398
Manuale della Professione Medica
senza quel periodo di 7 giorni previsto, invece, nei casi non urgenti e sembrerebbe rientrare nelle procedure coperte dall’obiezione di coscienza. In senso
contrario, vi è chi sostiene che anche tale certificato potrebbe essere compatibile
con l’obiezione «tenuto conto che esso si limita a constatare una serie di dati […]
lasciando alla donna la decisione ultima (anche se non più rinviata di sette giorni)
circa l’effettuazione o meno dell’interruzione della gravidanza».
Per quanto attiene, infine, le procedure previste dall’art. 7 non rientrano, sicuramente, nella obiezione di coscienza le attività svolte dagli specialisti volte ad
accertare la esistenza delle ipotesi di un grave pericolo per la salute della donna.
IVG nelle minorenni
La fattispecie è regolata dall’art. 12 sulla base della premessa generale e
imprescindibile secondo la quale «la richiesta di IVG […] è fatta personalmente dalla donna» e che «è richiesto l’assenso di chi esercita sulla donna stessa
la potestà o la tutela», la legge si sofferma su alcune ipotesi particolari:
a) nei primi 90 giorni, quando non si ravvisi nessuna condizione di urgenza
e «quando vi siano seri motivi che impediscono o sconsigliano la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi […]».
Si tratta di ipotesi in cui difetta l’assenso di coloro che esercitano la potestà
o la tutela per impossibilità a ottenerlo, per rifiuto dell’assenso o per seri
motivi che impediscano la consultazione. In tali casi la legge prevede il
ricorso al giudice tutelare attraverso le modalità normativamente indicate:
un intervento che si concretizza nella emanazione di un atto di autorizzazione della minore a decidere da sola, escludendo l’intervento dei genitori
o di chi esercita la patria potestà. Non vi è nessuna sostituzione di volontà
da parte del magistrato nei confronti della minore: il suo operato si traduce solo in un provvedimento che integra la volontà della minore, ma
non autorizza, di fatto, nessun procedimento abortivo, essendo la decisione
finale rimessa unicamente e solo alla responsabilità della donna;
b) nei primi novanta giorni il medico quando ravvisi «l’urgenza dell’intervento
a causa di un grave pericolo per la salute della minore, indipendentemente
dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela e senza adire il giudice tutelare, certifica l’esistenza delle condizioni che giustificano l’IVG. Tale certificazione costituisce titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento […]»;
11. Sessualità e riproduzione
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c) dopo i primi novanta giorni «si applicano anche alla minore le procedure di cui
all’art. 7, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela».
Degna di attenzione è l’ipotesi, assai frequente a verificarsi, del caso di genitori separati. Si ricorda, a mente dell’art. 155 cc (Provvedimenti riguardo ai figli)
come «[…] salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse
per i figli sono adottate da entrambi i coniugi […]»; se ne deduce che nel caso di
genitori separati, entrambi devono essere interpellati riguardo alla richiesta della
figlia minore di adire la IVG anche se la figlia è affidata a uno solo di essi.
IVG nella donna interdetta
Tale fattispecie è regolata dall’art. 13 cui si rimanda per le modalità procedurali: nel caso di donna interdetta la richiesta può essere presentata personalmente dalla donna oppure dal marito o dal tutore, dovendosi in quest’ultimo caso acquisire anche il consenso della donna. L’art. 13 presuppone che
la donna interdetta (si rammenti che, ex art. 414 cc, l’interdizione riguarda la
incapacità di provvedere agli interessi di natura patrimoniale) conservi la capacità di compiere atti di natura personale e, quindi, di richiedere o, comunque,
di consentire alla richiesta di IVG. L’articolo va, dunque, interpretato nel senso
che «la gestante interdetta può essere, in astratto, capace di prendere consapevolmente la decisione sull’interruzione della propria gravidanza: la sua capacità
andrà però verificata, volta per volta, dal sanitario». La decisione finale resta
affidata al giudice tutelare che, a differenza di quanto previsto nella ipotesi
della minore nella quale il giudice si limita ad autorizzare la stessa a decidere
personalmente sulla IVG, nel caso, appunto, di donna interdetta è il giudice che
autorizza di fatto l’intervento abortivo.
La responsabilità medica nella IVG
La legge 194 prospetta questioni del tutto peculiari posto che essa impone
obblighi e doveri ben precisi per i medici coinvolti nelle procedure, dai quali
discendono ben definite ipotesi di reato nel caso di mancata osservanza delle
previsioni di legge.
L’art. 17 contempla le ipotesi di interruzione della gravidanza e di parto
prematuro colposi, reati questi non specifici degli esercenti le professioni sanitarie ma che si vengono a realizzare ogniqualvolta che, in conseguenza di una
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Manuale della Professione Medica
qualsiasi condotta colposa messa in atto da chiunque sulla donna, si realizzi o
la interruzione della gravidanza o il parto prematuro.
Il successivo articolo 18 prevede la fattispecie dell’aborto doloso, messo in
atto, cioè senza il consenso della donna, considerandosi co­me non prestato il
consenso estorto con violenza ovvero carpito con l’inganno e quella dell’aborto
preterintenzionale, ipotesi questa che si concretizza quando l’interruzione della
gravidanza consegua ad azioni dirette a provocare lesioni alla donna.
Infine l’art. 19, di particolare interesse per il medico, che sanziona le ipotesi
di IVG attuate senza il rispetto delle procedure di cui alla legge n. 194/1978,
quali previste in particolare dagli artt. 5, 8, 6, 7, 12 e 13.
L’impiego della RU486: necessità di un aggiornamento normativo
C. Riviello, G.A. Norelli
La storia dell’aborto e dell’intercezione medica
La possibilità di interferire mediante farmaci con l’instaurarsi della gravidanza
(contraccezione d’emergenza mediante levonorgestrel) o con il proseguimento della stessa (“pillola abortiva” RU486) propone sostanziali implicazioni di indole clinica, etica e medico-legale. In particolare, per ciò che attiene
la contraccezione d’emergenza, le annose discussioni investono il meccanismo d’azione del farmaco, non ancora chiarito in tutti i suoi aspetti, evocandosi dubbi nell’ambito della legittimità dell’obiezione di coscienza per i medici
e i farmacisti, della corretta prescrizione e dell’informazione da garantire alla
paziente. Nella più recente questione della pillola abortiva, i dubbi recentemente sollevati, entro i confini dello Stato italiano, sono a proposito della sua
compatibilità con la legge n. 194/1978 oltre che della sua efficacia e sicurezza
in rapporto alla procedura di aborto chirurgico.
È importante notare come il concetto d’intercezione medica (tecnica volta a
impedire l’instaurarsi della gravidanza dopo un rapporto sessuale a rischio)
e d’interruzione farmacologica di gravidanza abbia origine negli anni ’50,
con l’utilizzo di un antagonista dell’acido folico, l’aminopterina, che, tuttavia, ottiene scarsi risultati. Agli inizi degli anni ’70, l’efficacia del metodo
farmacologico è migliorata dall’introduzione delle prostaglandine naturali
(PGE2 e PGF2), gravate, tuttavia, da effetti collaterali superiori a quelli di
11. Sessualità e riproduzione
401
un intervento chirurgico. La svolta nell’aborto medico avviene con la scoperta del mifepristone negli anni ’80 per opera di Emile Baulieu. Il mifepristone è un farmaco con forte affinità per i recettori del progesterone e con
l’aggiunta di dosi di prostaglandine può determinare un aborto completo.
L’efficacia e la sicurezza del farmaco sono state dichiarate dall’OMS e dalle
più accreditate linee-guida [come l’American College of Obstetricians and
Gynecologists (ACOG) e il Royal College of Obstetricians and Gynaecolgists (RCOG)], che attribuiscono al mifepristone un’evidenza di grado A-B,
per quanto riguarda l’efficacia e la sicurezza nel determinare un aborto, se
assunto entro il 56° giorno di gravidanza, e nell’indurre modificazioni della
cervice uterina in caso di interruzione terapeutica di gravidanza o di induzione del parto per morte intrauterina fetale.
In Europa, il farmaco conosce una buona diffusione: in Francia è disponibile
sin dalla fine degli anni ’80; nel decennio successivo viene autorizzato dall’agenzia europea per i farmaci in otto paesi dell’Unione Europea (Austria, Belgio,
Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Spagna, Olanda) e, negli stessi anni,
è utilizzabile in Svizzera, Israele, Norvegia, Tunisia, Sudafrica, Taiwan, Nuova
Zelanda e Federazione Russa; nel settembre 2000 la Food and Drug Administration (FDA) autorizza il farmaco negli Stati Uniti e nel 2005 è inserito nella
lista dei farmaci dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Alla fine
degli anni ’90, il mifepristone viene autorizzato in Italia per il trattamento della
sindrome di Cushing paraneoplastica (grazie alla sua azione di antagonismo sui
recettori dei glicocorticoidi); nello stesso periodo viene approvato il Levonorgestrel, farmaco progestinico che, indicato nella contraccezione di emergenza,
permette di prevenire la gravidanza, in caso di rapporto sessuale non protetto,
con meccanismo d’azione ancora controverso, in quanto secondo alcuni interferirebbe solo con l’ovulazione, secondo altri impedirebbe anche l’impianto
dello zigote. Si sono dovuti aspettare oltre 10 anni prima che l’Agenzia Italiana del Farmaco, il 30 luglio 2009, approvasse la commercializzazione della
RU486, meglio nota come “pillola abortiva”, introducendo in Italia la possibilità dell’aborto medico in linea con altri paesi europei ed extra europei. Questa
decisione, tuttavia, ha suscitato notevoli polemiche e dibattiti politici e religiosi
al punto che è stata indetta un’indagine conoscitiva al Senato, per valutare che
l’utilizzo di tale pillola avvenga nel rispetto della legge n. 194/1978.
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Manuale della Professione Medica
RU486: meccanismo di azione
Il mifepristone è uno steroide sintetico che mostra una forte affinità per i
recettori del progesterone e dei glucocorticoidi, esercitando un antagonismo competitivo a questi ormoni, sia in esperimenti in vitro sia sugli animali.
L’azione competitiva a livello endometriale si traduce in una marcata azione
anti-progestinica, che ha portato a proporre l’uso del mifepristone per
l’interruzione della gravidanza. La sicurezza e l’efficacia del mifepristone
nel determinare l’interruzione della gravidanza è stato approfonditamente
analizzato in molte reviews, molte delle quali concludono che la sua azione
spesso necessita di essere affiancata alla somministrazione di prostaglandine. Il regime combinato con mifepristone e prostaglandine è molto più
efficace del regime con il solo mifepristone.
Come già accennato, il mifepristone è registrato anche con altre indicazioni
in campo ostetrico: è utilizzato per l’induzione della maturazione cervicale
in caso di aborto chirurgico, per accelerare l’espulsione fetale in caso di
aborto nel secondo-terzo trimestre, per il trattamento medico delle gravidanze extrauterine e dell’induzione del travaglio di parto con feto vivo.
A basse dosi può essere utilizzato come contraccettivo di emergenza, per
quanto il levonorgesterl sia il preparato più adatto allo scopo.
Evoluzione politica italiana, dall’indagine conoscitiva del Senato
alla compatibilità della RU486 con la legge n. 194/1978
Per quanto vi sia una consistente letteratura scientifica internazionale che,
forte di dati su un’ampia casistica di popolazione e per un tempo considerevole, abbia dimostrato la sicurezza e i vantaggi dell’utilizzo del farmaco,
l’approvazione del mifepristone da parte dell’Agenzia Nazionale del Farmaco ha determinato molte obiezioni, che a livello politico si sono concretizzate nell’indagine conoscitiva del Senato. Tale indagine si è conclusa
nel mese di novembre 2009 con la decisione di sospendere l’utilizzo del
farmaco e riavviare la procedura di approvazione dall’inizio, includendo
l’obbligatorietà del ricovero ospedaliero per tutta la durata della procedura
come requisito necessario per utilizzare il farmaco dalla sua somministrazione all’espulsione del prodotto del concepimento.
11. Sessualità e riproduzione
403
I punti salienti su cui ruota la decisione di questa indagine sono due: da una
parte la sicurezza del farmaco, dall’altra la modalità di somministrazione
dello stesso; in entrambi i casi si fa ricorso a dubbi di compatibilità con la
legge n. 194/1978.
Per quanto riguarda il primo punto si apprende dal testo dell’indagine conoscitiva che «la Commissione suggerisce di verificare l’esistenza di studi per
superiorità del metodo farmacologico o studi di non inferiorità, al fine di
ottemperare all’articolo 15 della citata legge n. 194».
Nonostante che, come spiegato in precedenza, negli anni ’80 si sia ancora agli
albori della scoperta dell’aborto medico, l’articolo 15 della legge n. 194 contempla la possibilità di un metodo abortivo diverso da quello chirurgico, auspicando
un aggiornamento del «personale sanitario […] sui metodi anticoncezionali […]
sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica
della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza».
Rimane, dunque, da definire se la RU486 sia più rispettosa dell’integrità
fisica, psichica della donna e meno rischiosa.
Per quanto riguarda l’integrità fisica, appare evidente che l’assunzione di un
farmaco per via orale o l’introduzione dello stesso al livello vaginale, come
accadrebbe per le prostaglandine, presenta un’invasività nettamente inferiore
rispetto alla procedura chirurgica, che prevede il ricorso ad anestesia, alla dilatazione spesso meccanica della cervice uterina, all’isterosuzione e al curettage
del materiale endocavitario. Appare evidente che il rispetto dell’integrità fisica
è una caratteristica peculiare dell’aborto medico, rispetto a quello chirurgico.
Più controverso è, invece, definire se questa metodica sia più rispettosa
dell’integrità psichica della donna rispetto al trattamento chirurgico. In
primo luogo è opportuno evidenziare come il processo d’interruzione della
gravidanza, di per sé, determini una ripercussione psicologica importante,
indipendentemente dalla modalità con cui venga eseguito. Dai dati ottenuti
dagli altri stati europei nei quali, ormai da molti anni, le donne possono
scegliere il metodo abortivo, se medico o chirurgico, emerge che esistono
differenti ripercussioni psicologiche nella donna: da un lato la procedura
chirurgica ha il vantaggio di risolversi in un tempo breve e stabilito e la procedura medica ha lo svantaggio dell’imprevedibilità e della maggiore durata
del processo stesso. Inoltre, il suo protocollo di assunzione impegna attivamente la donna per alcuni giorni, per quanto solitamente la fase espulsiva si
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Manuale della Professione Medica
risolva in poche ore nella maggioranza dei casi. Questo implica la responsabilizzazione e il coinvolgimento attivo della donna che controlla il decorso
dell’aborto e che potrebbe avere un contatto visivo con il materiale espulso.
Nonostante questi inconvenienti, in numerosi studi l’80- 90% delle donne
si esprime a favore del metodo medico.
Nei luoghi dove l’aborto medico è routinariamente offerto e la facilità d’accesso è simile a quello chirurgico, la percentuale di donne che lo preferisce è
in crescita: il 61% in Scozia, il 56% in Francia e il 51% in Svezia.
Si potrebbe obiettare che la pratica medica, meno invasiva e apparentemente
più semplice, possa indurre a sottovalutare l’importanza del ricorso all’aborto
e determinarne un incremento. Questo ragionamento suona, tuttavia, alquanto
offensivo per la figura femminile, posto che la scelta è subordinata non tanto
alla difficoltà dell’intervento, quanto a una mancata prevenzione della gravidanza. In altre parole, la vera riduzione del tasso di aborti dovrebbe essere
raggiunta mediante una promozione della contraccezione consapevole, come
d’altronde auspica la stessa legge n. 194/1978, e non con un impedimento al
ricorso ad una tecnica alternativa rispetto all’aborto chirurgico.
Un altro argomento della legge n. 194 consiste nel ricorso a tecniche moderne
e meno rischiose; in tal caso, è sufficiente citare gli studi eseguiti nel corso degli
anni, comprese le reviews della Cochrane, che hanno dimostrato la superiorità o la non inferiorità dell’assunzione della RU486.
I principali effetti collaterali, infatti, riguardano le perdite ematiche dipendenti dall’azione delle prostaglandine, che hanno una durata di circa 9-10
giorni con variabilità da 2 a 32 giorni. La loro entità è solitamente moderata
e il rischio di un curettage è del 2,6%, mentre molto inferiore è il rischio di
trasfusione (0,1- 0,2%); dagli studi effettuati su oltre 4000 pazienti, non è
mai stato riportato alcun intervento di isterectomia per risolvere una problematica di perdite ematiche post aborto medico.
Una non frequente complicanza dell’aborto medico consiste nel fallimento
completo o parziale della metodica, che espone la donna a revisione di
cavità uterina. Appare evidente che il trattamento chirurgico rappresenti
una sorta di necessario atto riparatore al mancato, positivo, esito dell’assunzione del farmaco, per cui non potrebbe discutersi che è indubbiamente da
privilegiare un atto rispetto ad un altro cui si debba ricorrere in caso di mancato successo del primo. A parte questa evenienza, gli effetti collaterali e le
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complicazioni dell’aborto medico sono inferiori rispetto a quelli dell’aborto
chirurgico ed anche a quelli cui la donna potrebbe andare potenzialmente
incontro con il proseguimento della gravidanza. La mortalità e la morbosità
da gravidanza e da parto sono circa dieci volte maggiori rispetto a quelle
dell’aborto, anche nei paesi industrializzati.
Il dolore a carattere crampiforme è un ulteriore possibile effetto collaterale; esso accompagna il periodo espulsivo, è più accentuato con l’avanzare
dell’epoca gestazionale, è sensibile ai comuni analgesici e varia moltissimo
in relazione alla tolleranza e alle esperienze personali.
Effetti collaterali più lievi sono i sintomi gastrointestinali, costituiti da nausea,
vomito e diarrea, che sono presenti in quasi la metà delle donne, dipendono
dalle prostaglandine, sono autolimitanti e spesso si risolvono senza ricorso
alla terapia. Più raramente compaiono cefalea, vertigini e stanchezza.
Le controindicazioni all’utilizzo della RU486 sono rappresentate dal sospetto
di gravidanza extrauterina, dalla presenza di IUD in utero, dall’insufficienza
surrenalica cronica, da coagulopatie e da trattamenti in corso con anticoagulanti e, com’è ovvio, dall’allergia nota verso il mifepristone o le prostaglandine.
In conclusione, sono stati effettuati molti studi e reviews per confrontare la
metodica chirurgica e medica dell’aborto, e spesso le conclusioni raggiunte
propendono per una eguaglianza dei due metodi con vantaggi e svantaggi
diversi a carico di entrambi.
Nel dibattito politico, il nodo centrale di presunta incompatibilità con la
legge n. 194/1978 riguarda la modalità di somministrazione e il luogo nel
quale si verifica l’espulsione del materiale abortivo.
Secondo la legge n. 194/1978, la procedura abortiva deve avvenire in
ambito ospedaliero pubblico, casa di cura o poliambulatorio, strutture,
comunque, regolarmente autorizzate e accreditate; questo concetto è ribadito in più articoli; art. 7: «[…] i processi patologici […] vengono accertati
da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell’ente ospedaliero in
cui deve praticarsi l’intervento, che ne certifica l’esistenza […]»; art. 8: «L’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetricoginecologico presso un ospedale generale tra quelli indicati nell’articolo 20
della legge n. 132 del 12 febbraio 1968, il quale verifi