sul contrabbando di sigarette - storia breve di un montanaro

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sul contrabbando di sigarette - storia breve di un montanaro
Far girare l’economia del paese
Quante avventure, quanti rischi e quanta fatica a fare il
contrabbandiere. Per circa tre anni, soprattutto dalla primavera
all’autunno ma anche in inverno, quello di contrabbandiere è stato
il mio unico lavoro. Come vi ho già detto, era stato mio fratello
a convincermi, anche se ero titubante. Non che avessi paura dei
finanzieri o dei carabinieri, non era quello. Speravo di avere altre
opportunità e l’idea di camminare per i monti portando sigarette
da Livigno a Isolaccia non mi eccitava. Però guadagnavo una bella
cifra per ogni viaggio e se considerate che in certi periodi facevo
tre, quattro viaggi a settimana, capirete senz’altro che c’erano
buonissimi e validi motivi per farlo. In più, nel gruppo c’erano
diversi amici d’infanzia e senza cadere nella retorica è chiaro come
a Livigno in quell’epoca quasi tutti fossero contrabbandieri, perché
il contrabbando era una forma di sostentamento irrinunciabile e una
fonte di entrata che permetteva di sopravvivere nei mesi invernali.
Questa era la vera forza del tabacco, non la nicotina e la sua capacità
di assuefazione.
Acquistavamo le sigarette nei negozi di Livigno che avevano il
contingente a disposizione e quando i negozi le finivano, andavamo in
Svizzera a comprare qualche altro centinaio di stecche aggiungendo
un rischio ulteriore. In questo caso, infatti, bisognava farle entrare in
paese di nascosto e poi farle uscire ancora da Livigno. Dalla Svizzera
si potevano comprare tutte le sigarette che si volevano, senza limiti.
In più, erano gli stessi svizzeri che le portavano a poche centinaia
di metri dalla dogana La Motta, da Poschiavo. Da lì toccava a noi
e il rischio era tutto nostro perché loro non avevano fatto niente
di illegale. Le sigarette, così, entravano dalla Forcola e uscivano
dopo qualche giorno dal Foscagno. Successivamente, le regole
sull’introduzione dalla Svizzera cambiarono quando si conclusero
un lungo processo e un ricorso in Cassazione, dovuti a un sequestro
di sigarette introdotte illegalmente a Livigno da oltre confine. Il
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contrabbandiere che subì il sequestro dalla Finanza si fece difendere
da un noto avvocato dell’epoca, soprannominato “l’avvocato dei
contrabbandieri”, e riuscì a vincere la causa: la Cassazione stabilì che
le sigarette potevano essere liberamente introdotte dalla Svizzera
in territorio extradoganale. Restava naturalmente salvo il reato di
contrabbando per l’importazione illegale in Italia.
Sulle mie spalle, salendo e scendendo le montagne, avevo quasi
sempre sigarette. Ogni spallone ne portava cento stecche infilate in un
sacco di juta che le conteneva perfettamente, appoggiato sulla schiena
come fosse uno zaino: si chiamava bricolla. Qualche volta mi è capitato
di contrabbandare anche caffè, oppure in un’occasione zucchero e un
paio di volte liquori, ma era troppo rischioso e complicato camminare
per ore con bottiglie di vetro sulle spalle. Con le sigarette, invece,
si andava sul sicuro. Erano loro le regine del contrabbando, non
c’era storia. Prima di tutto perché su ogni pacchetto c’era un grosso
guadagno e poi perché ogni contrabbandiere riusciva a portarne mille
pacchetti a viaggio.
Il gruppo di contrabbandieri di cui facevo parte era formato da
una quindicina di ragazzi, con tre responsabili. Uno di questi era
mio fratello. Loro pensavano a comprare la merce dai negozianti di
Livigno - ci si forniva soprattutto da Compagnoni, da Lorenzo, dalla
Cooperativa e alle volte da don Parenti - ma ogni capo contrabbandiere
aveva, a Livigno e Trepalle, negozi di fiducia, come la Botía Cantoni,
La Botía Nòa, l’Alpina, il San Rocco, il Samdimarket e altri ancora.
I capi, inoltre, tenevano i contatti con le persone che avrebbero
acquistato le sigarette a Isolaccia o in altri luoghi, poi organizzavano
il viaggio decidendo a che ora della notte partire e quale fosse la
destinazione. In più si occupavano di ingaggiare gli spalloni necessari,
perché non tutti quelli del gruppo viaggiavano contemporaneamente,
e decidevano quanto e quando pagare.
La cosa più importante durante i viaggi era stare all’erta. Vigili,
cauti, concentrati sui rumori. Bisognava nascondersi dalle luci e
mimetizzarsi nel bosco, essere un tutt’uno con i massi e col terreno e
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con la neve. In alcuni frangenti l’attenzione doveva essere massima:
quando arrivavamo a qualche centinaio di metri dal Foscagno, le
antenne dovevano essere dritte. Camminavamo sul sentiero come
fossimo sulle uova, aggirando la dogana e passando dalla Rocca,
un passaggio roccioso che permetteva di restare nascosti dalla vista
dei doganieri e allo stesso tempo di puntare verso Arnoga. C’era
chi andava in avanscoperta a controllare la situazione, perché in
quegli anni l’Alta Valle - e Livigno in particolare - era piena zeppa
di contrabbandieri. Di conseguenza, le montagne erano piene zeppe
di finanzieri e nelle vicinanze del Foscagno non mancava mai una
coppia di militari in perlustrazione.
Nonostante tutto, riuscimmo quasi sempre a passare senza
problemi e una volta aggirata la dogana dovevamo ancora stare attenti
per un paio di chilometri, poi potevamo camminare a passo svelto
verso il punto d’incontro. Spesso dalle parti di Arnoga ci aspettava
una jeep o un’auto per portarci a Isolaccia o a Bormio, dove dovevamo
consegnare la merce. Altre volte il nostro compito era fare la consegna
ad Arnoga, senza scendere a valle, oppure dovevamo arrivare a piedi
fino a Isolaccia. Lasciata la dogana alle spalle, la preoccupazione era
di non incrociare una pattuglia della Finanza in perlustrazione, ma il
più delle volte non si correva pericolo.
In poche occasioni, invece, ci furono accordi con uno o più
finanzieri al Foscagno: in cambio di pochi soldi o qualche stecca
di sigarette, i contrabbandieri potevano passare senza che nessuno
se ne accorgesse. A questo proposito, per quella che è stata la mia
esperienza, posso dire che mi è capitato solo due notti di passare
sotto il naso dei finanzieri mentre voltavano la faccia dall’altra parte, e
tutte e due le volte trasportavo caffè. Quando di mezzo c’erano cento
stecche di sigarette, preferivo restare come tutti gli altri lontano da
chi indossava una divisa.
Ora, però, prima di raccontarvi alcune avventure della mia vita
da contrabbandiere, preferirei fare una breve premessa per chiarire
meglio il senso di questo lavoro illegale. Intanto, toglietevi dalla
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mente la Livigno di oggi: scordatevi i negozi eleganti e il benessere
diffuso, il turismo e la ricchezza del Comune, l’offerta della skiarea e gli imprenditori potenti del paese. A metà degli anni ’50 era
ancora difficile vivere, nonostante il regime fiscale agevolato e i
contingenti di merce senza I.V.A. Non c’era nulla che assomigliasse
lontanamente a quello che c’è oggi: non c’erano le domeniche dei
lombardi che vengono a fare benzina e a fare la spesa in Cooperativa
o negli altri supermercati, non c’erano le settimane bianche degli
stranieri dove abbinare sci e shopping. Il contrabbando non era uno
sfizio o un modo per fare più soldi. No, niente di tutto questo. Il
contrabbando serviva perché erano i suoi soldi a far girare l’economia
del paese. I commercianti vendevano le sigarette, noi le portavamo
oltre il Foscagno e guadagnavamo ciò che in famiglia si spendeva
per comprare da mangiare e da vestire ai figli, per migliorare le
condizioni di vita e per mantenere le bestie in stalla. Era in questo
modo che si sosteneva l’economia ed era per questo che quasi tutti
i livignaschi furono ingranaggi della “macchina contrabbando”,
traendone beneficio. Fare contrabbando significava vivere con dignità
e mantenne questo senso fino alla fine degli anni ‘60. Nei decenni
successivi - credo siate d’accordo con me - chi ha continuato l’ha fatto
soltanto per avidità.
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