Appendice di testi 2010-11

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Appendice di testi 2010-11
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CORSO LETTERATURA ITALIANA CONTEMPORANEA 2010-11
Appendice di testi
1) lettera a Silvio Guarnieri, 29 aprile 1964
I mottetti, esclusi i primi tre, riguardano la stessa persona, che poi sarà chiamata Clizia. Essa è
presente, p. es. nelle Nuove stanze, nella Primavera hitleriana, nel Piccolo testamento, in Palio,
nell’Orto e più o meno in tutte le Sylvae (nonché in Iride). I primi 3 mottetti riguardano una
peruviana che però era di origine genovese e abitava a Genova. Nel 3° c’è un confronto tra la vita di
sanatorio di lei e la mia vita di guerra. Chiamerò Clizia col numero 1 e quest’altra col numero 2.
Negli Ossi c’è (in In limine, in Casa sul mare e in Crisalide) una donna che chiamerò 3. Nella Casa
dei doganieri e in Incontro c’è la donna che chiamerò 4. Morì giovane e non ci fu nulla tra noi.
Nella Bufera sarà presente anche la donna 5, ma ne parleremo in seguito perché è solo il contraltare
di Clizia ed è meno importante.
[1 = Irma Brandeis (Clizia, 1905-90), 2 = Maria Rosa Solari (1903-84), 3 = Paola Nicoli (18911994), 4 = Anna Degli Uberti (Arletta, 1904-59), 5 = Maria Luisa Spaziani (Volpe, 1924-). Non
viene nominata Drusilla Tanzi Marangoni (Mosca, 1881-1963)]
2) Intenzioni (Intervista immaginaria), 1946
Il libriccino [Finisterre], con quell’epigrafe di d’Aubigné, che flagella i prìncipi sanguinari, era
impubblicabile in Italia, nel ’43. Lo stampai perciò in Svizzera e uscì poco prima del 25 luglio.
Nella recente ristampa contiene alcune poesie “divaganti”. In chiave, terribilmente in chiave, tra
quelle aggiunte, c’è Iride, nella quale la sfinge delle Nuove Stanze, che aveva lasciato l’oriente per
illuminare i ghiacci e le brume del nord, torna a noi come continuatrice e simbolo dell’eterno
sacrificio cristiano. Paga lei per tutti, sconta per tutti. E chi la riconosce è il Nestoriano, l’uomo che
meglio conosce le affinità che legano Dio alle creature incarnate, non già lo sciocco spiritualista o il
rigido e astratto monofisita.
3) Lapo Gianni (XIII-XIV sec.), Amor, eo chero mia donna in domìno
Amor, eo chero mia donna in domìno,
l’Arno balsamo fino,
le mura di Firenze inargentate,
le rughe di cristallo lastricate,
fortezze alte, merlate,
mio fedel fosse ciaschedun latino;
il mondo ’n pace, securo il cammino;
non mi noccia vicino,
e l’aria temperata verno e state;
e mille donne e donzelle adornate,
sempre d’Amor pressate
meco cantasser la sera e ’l mattino;
e giardin fruttuosi di gran giro,
con gran uccellagione,
pien’ di condotti d’acqua e cacciagione;
bel mi trovassi come fu Assalone,
Sansone pareggiasse e Salamone,
servaggi de barone,
sonar vïole, chitarre, canzone,
poscia dover entrare nel ciel empiro:
giovane, sana, allegra e secura
fosse mia vita fin che ’l mondo dura.
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4) Gustavo Adolfo Bécquer (1836-70), Rimas XXII
¿Cómo vive esa rosa que has prendido
junto a tu corazón?
Nunca hasta ahora contemplé en la tierra
sobre el volcán la flor.
[Come vive quella rosa che hai appuntato / vicino al tuo cuore? / Finora non avevo mai visto in terra
/ sopra il vulcano il fiore.]
5) Giosue Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno (Odi barbare, 1877)
Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
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Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tènebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inclinata
pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tocco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi ’l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.
6) William Shakespeare, Sonnets V (1609)
Those hours, that with gentle work did frame
the lovely gaze where every eye doth dwell,
will play the tyrants to the very same
and that unfair which fairly doth excel;
for never-resting time leads summer on
to hideous winter, and confounds him there;
sap checked with frost, and lusty leaves quite gone,
beauty o’er-snowed and bareness everywhere:
then were not summer’s distillation left,
a liquid prisoner pent in walls of glass,
beauty’s effect with beauty were bereft,
nor it, nor no remembrance what it was:
But flowers distill’d, though they with winter meet,
Leese but their show; their substance still lives sweet.
[Quelle ore, che modellarono con arte delicata / l’amabile aspetto su cui ogni occhio indugia, /
saranno inesorabili verso la loro opera / e imbruttiranno ciò che per magia rifulge; / perché il tempo
inarrestabile porta l’estate / all’orrido inverno, e la sommerge; / linfa stretta dal gelo, e vive foglie
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appassite, / bellezza sepolta dalla neve e desolazione ovunque: / se dunque non rimanesse l’essenza
dell’estate, / liquida prigioniera chiusa fra mura di vetro, / l’effetto della bellezza si esaurirebbe con
sé stessa, / e non ci resterebbe altro che il suo ricordo. / Ma i fiori distillati, sebbene colpiti
dall’inverno, / perdono solo l’apparenza; il loro dolce aroma vivrà ancora.]
7) Charles Baudelaire, Correspondances (Les fleurs du mal, 1857)
La Nature est un temple où de vivants piliers
laissent parfois sortir de confuses paroles;
l’homme y passe à travers des forêts de symboles
qui l’observent avec des regards familiers.
Comme de long échos qui de loin se confondent
dans une ténébreuse et profonde unité,
vaste comme la nuit et comme la clarté,
les parfums, les couleurs et les sons se répondent.
Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,
doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
- et d’autres, corrompus, riches et triomphants,
ayant l’expansion des choses infinies,
comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,
qui chantent les transports de l’esprit et des sens.
[La Natura è un tempio dove colonne viventi / lasciano talvolta uscire confuse parole; / l’uomo vi
passa attraverso foreste di simboli / che l’osservano con sguardi familiari. / Come echi lunghi che
da lontano si confondono / in una tenebrosa e profonda unità, / vasta come la notte e come la luce, /
i profumi, i colori e i suoni si rispondono. / Ci sono profumi freschi come carni di bambini, / dolci
come gli oboi, verdi come le praterie, / - e altri corrotti, ricchi e trionfanti, / che hanno l’espansione
delle cose infinite, / come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso, / che cantano gli abbandoni
dello spirito e dei sensi.]
8) Agrippa d’Aubigné, Les Tragiques (1616) I 1293-1300
Veux-tu long-temps laisser en cette terre ronde
Regner ton ennemy ? N’es-tu seigneur du monde,
Toy, Seigneur, qui abbats, qui blesses, qui gueris,
Qui donnes vie et mort, qui tüe et qui nourris?
Les princes n’ont point d’yeux pour voir ces grand’ merveilles;
Quand tu voudras tonner, n’auront-ils point d’oreilles?
Leurs mains ne servent plus qu’à nous persecuter;
Ils ont tout pour Satan, et rien pour te porter.
[Vuoi tu lasciare che a lungo in questa terra rotonda / regni il tuo nemico? Non sei signore del
mondo, / tu, Signore, che abbatti, che ferisci, che guarisci, / che doni vita e morte, che uccidi e che
nutri? / I principi non hanno occhi per vedere queste grandi meraviglie; / quando vorrai tuonare, non
avranno orecchie? / Le loro mani non servono più che a perseguitarci; / offrono tutto ciò che hanno
a Satana, e nulla a te.]
9) Gabriele d’Annunzio, La nave (1907)
Subitamente suonano nella gola della donna aride risa che sembrano soffocarla, mentre, riversando
ella il capo e lasciando cader l’arco, le sue braccia tra la nube dei capelli fanno un rapido gesto
verso gli òmeri.
[...]
La Faledra si scuote come dal sonno o dalla morte; scrolla il capo per liberar la fronte dalla nube dei
capelli; e volge gli occhi furiali torcendo il busto che è costretto all’ara pei due polsi legati dietro le
reni.
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10) pseudo-Dante, sonetto a Giovanni Quirini
Nulla mi parve mai più crudel cosa
di lei per cui servir la vita lago,
ché ’l suo desio nel congelato lago,
ed in foco d’amore il mio si posa.
Di così dispietata e disdegnosa
la gran bellezza di veder m’appago;
e tanto son del mio tormento vago
ch’altro piacere a li occhi miei non osa.
Né quella ch’a veder lo sol si gira
e ’l non mutato amor mutata serba,
ebbe quant’io già mai fortuna acerba.
Dunque, Giannin, quando questa superba
convegno amar fin che la vita spira,
alquanto per pietà con me sospira.
Cfr. Ovidio, Metamorfosi IV 169-70 “illa suum, quamvis radice tenetur, / vertitur ad Solem
mutataque servat amorem” [“anche trattenuta dalle radici ella si volge verso il suo Sole e, sebbene
mutata, conserva l’amore”]. Il v. 10 viene ripreso anche da Carducci, A Febo Apolline (Juvenilia)
81-84 “Clizia oceania vergine / per te conversa in fiore / ancor mutata sèrbati / il non mutato
amore”.
11) Gabriele d’Annunzio, La pioggia nel pineto (Alcyone, 1903)
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
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su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo, e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
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ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce dal mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
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o Ermione.
12) Paul Valéry, Le cimetière marin (Charmes, 1922)
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Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!
L’air immense ouvre et referme mon livre,
La vague en poudre ose jaillir des rocs!
Envolez-vous, pages tout éblouies!
Rompez, vagues! Rompez d’eaux réjouies
Ce toit tranquille où picoraient des focs!
[Il vento si leva! Bisogna tentare di vivere! / L’aria immensa apre e richiude il mio libro, / l’onda in
polvere osa sprizzare dalle rocce! / Prendete il volo, pagine abbagliate! / Rompete, onde! Rompete
con acque gioiose / quel tetto tranquillo dove beccavano fiocchi!].