Rassegna stampa 12 ottobre 2016

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Rassegna stampa 12 ottobre 2016
RASSEGNA STAMPA di mercoledì 12 ottobre 2016
SOMMARIO
“Senza fraternità tutto crolla” è il titolo della riflessione di Rosanna Virgili, pubblicato
su Avvenire di oggi, sulla “crisi esistenziale dell’Europa”. Ecco le sue considerazioni:
“L’Europa «vive una crisi esistenziale», ha detto recentemente il presidente della
Commissione Ue Jean-Claude Juncker. Un linguaggio sartriano, da salotto intellettuale
primi Novecento, un profumo francese che avvolge il Parlamento di Strasburgo e si
annusa sul Belgio, la Germania, l’Olanda, le Nazioni del vecchio Impero austroungarico fino a giù là, verso Sud Est, seguendo il corso dell’Istro – il Danubio blu – e
giungere al Mar Nero, senza, però, mancare di effondersi anche sull’Italia
mediterranea e sulla Spagna meticcia di antiche chiese, sinagoghe e moschee, aperta
tra barocco e futuro, tra la Mancia e l’America del Sud, e oggi con lo sguardo fisso nel
vuoto, incapace di darsi un governo, dopo una doppia consultazione elettorale. La
crisi esistenziale segnala, normalmente, uno smarrimento, una gigante mancanza di
senso, anzi, un senso gigantesco di vuoto, porta di possibili paralisi, di mancamenti
psichici e intellettuali. Sembra ieri il 1989, il tripudio della caduta del Muro di Berlino
sulle note sconfinate di The Wall, l’estasi musicale dei Pink Floyd. Hey! Teachers!
Leave them kids alone (Ehi, professori, lasciate in pace i ragazzi) cantavano e la
musica era il portale della Libertà dove l’Europa entrava finalmente tutta abbracciata,
nel corpo e nel sorriso, nella Memoria che cicatrizza le ferite e nella Speranza di
crescere come un albero dalle radici antiche e profonde. A distanza di meno di
trent’anni, quelle brecce di Muro gettano tristi germogli materiali e ideali in tutti i
rami dell’albero: dal passo del Brennero a Calais, da Ventimiglia ai 'Prima noi' del
Canton Ticino; per non parlare dell’algida Inghilterra, figlia di un 'dio maggiore'! Oltre
ai muri, il difficile collante sociale, la deriva della frammentazione politica e
culturale, la radicata presenza dei corrotti e la «la morbosità dell’individualismo»
denunciata nella Evangelii Gaudium. «Che cosa ti è successo, Europa umanistica,
paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?», ha chiesto papa
Francesco ai capi di Stato e di Governo europei guidati proprio da Juncker. Una
domanda che non può non colpire chiunque consideri come propria questa cara
'nonna' e la ami davvero. Vedere i politici europei sbandare di fronte alle forze
centrifughe populiste, arrendersi di fronte all’assenza di un’anima e di un progetto
organico e vitale per tutta la 'zona', chiudersi nelle rispettive e private ragion di
Stato, è veramente triste. «Chi percorra la Francia scopre forse con stupore che, fin
dall’ultimo villaggio, su tutti i municipi – inciso sulla pietra, come la legge mosaica – si
trovi il motto risalente alla Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del
1789: liberté, égalité, fraternité», scrive Christoph Theobald in un prezioso libretto
intitolato: Fraternità (Qiqajon, 2016). Il problema sta nel fatto che i tre valori «non si
trovano allo stesso livello. Libertà e uguaglianza dei cittadini, qualora vengano
violate, possono essere rivendicate di fronte a un tribunale; appartengono alla sfera
del diritto, con i suoi effetti e le sue applicazioni concrete. Al contrario la fraternità,
nessuna legge può prescriverla». Senza fraternità è impossibile, però, la coesione
sociale e il rapporto con l’altro – che sia il fratello o l’oriundo, il profugo o il
musulmano – non vive senza 'cuore' e 'compassione'. «Fraternità, parità e libertà – fa
contralto un altro autore, Silvano Fausti –. Pongo prima la fraternità, senza la quale il
resto è vacuità». Di estrema suggestione sono le parole che il noto gesuita italiano
rivolge a Voltaire, in una ideale lettera scritta al 'chiaro di luna': «Caro Voltaire, hai
curato la libertà, ma trascurato parità e fraternità. Libertà e relazione. Se del relativo
fai un assoluto, diventi idolatra. È la morte tua e altrui. Devi coniugare libertà con
parità e fraternità. Ma non solo nelle idee, che è già qualcosa. Non ghigliottinarti: la
tua testa sia con il corpo, il tuo pensare con l’agire. Non togliere all’umanesimo un
Dio ignoto e sempre nuovo. Questi apre l’uomo a libertà senza fine. L’uomo è
immagine di Dio. Senza Dio diventa immagine di sé stesso. Specchio che specchia sé
stesso. Nulla. O forse le cornici». È un piccolo gioiello di prosa poetica (Lettera a
Voltaire. Contrappunti sulla libertà, Áncora) in cui le frasi sono come raggi di musica e
d’intelligenza: «Eccoci al nodo: Allora il Signore disse a Caino: Dov’è tuo fratello? Egli
rispose: Sono forse il responsabile di mio fratello? (Gn 4,9-10). Il resto lo sai già. Basta
questo per capire la responsabilità. Se ignoro l’altro come fratello, crolla il castello di
'libertà, parità, e fraternità'»” (a.p.)
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 18 Anno accademico: docenti e autorità in pellegrinaggio oggi a San Marco
di n.d.l.
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 7 Facce toste
Messa a Santa Marta
CORRIERE DELLA SERA
Pag 45 Come parlare del Papa in tv e sulla stampa (lettere al giornale)
LA REPUBBLICA
Pag 23 Il ritorno degli eremiti: “Noi, ultimo rifugio per chi cerca ascolto” di Paolo
Rodari e Agostino Paravicini Bagliani
Sono 200, in gran parte donne e laici, e vivono in luoghi sperduti. La via estrema
dell’ascesi che passa da Celestino V
Pag 33 Dimmi come preghi e ti dirò chi sei di Vito Mancuso
WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT
Porpore a stelle e strisce, il criterio di Francesco di Andrea Tornielli
Le berrette a Cupich, Farrell e Tobin rendono concreto il discorso che Bergoglio fece ai
vescovi statunitensi a Washington nel settembre 2015
4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XII “Food & Wine”, un master ai Salesiani
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 21 I Paesi dove è meglio nascere bambine. L’Italia (decima) supera Usa e
Francia di Elena Tebano
Save the Children: una sposa sotto i 15 anni ogni 7 secondi. In Africa le situazioni
peggiori
AVVENIRE
Pag 2 La verità non può essere nascosta ai giovani di Maurizio Patriciello
Marcia per la vita: contestata la partecipazione di una scuola
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pagg 2 – 3 Ospedale al Mare, dieci anni d’agonia di Carlo Mion
La struttura abbandonata dal 2006 è rifugio di senzatetto. Vetri e rifiuti ovunque, odore
di urina, calcinacci e siringhe. Il futuro è incerto
8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pagg 10 - 11 Diaspora Nordest, mezzo milione vive all’estero di Giuseppe
Pietrobelli
Treviso e Vicenza le province con più emigranti, i flussi maggiori in America Latina e in
Europa. “Arsiè, il mio comune sparso per il mondo”
LA NUOVA
Pag 12 Gli immigrati stranieri producono il 10,4% della ricchezza veneta
Il report annuale della Fondazione Moressa
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Gay, Lega superata da una donna di Massimiliano Melilli
L’attacco alla sindaca ribelle
Pag 3 Allarme sicurezza di Martina Zambon
Il 70% degli istituti veneti non è ancora a norma. Servirebbero 400 milioni, ne sono
stati stanziati 94
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Il sì, il no e i toni sbagliati di Luciano Fontana
Più razionalità
Pag 5 Il 4 dicembre come prova generale delle elezioni di Massimo Franco
Pag 5 La sinistra e il tormento della scissione infinita di Pierluigi Battista
Pag 9 Incidente o provocazione. I rischi che corriamo quando rullano i tamburi
di Franco Venturini
Pag 19 L’inno bistrattato di Mameli, “provvisorio” da 70 anni di Gian Antonio
Stella
Il canto degli italiani
Pag 26 L’eccesso di decisionismo di Renzi sul referendum di Paolo Franchi
AVVENIRE
Pag 1 La buona strada di Francesco Ognibene
Un bel giorno per tutte e tutti
Pag 3 Il dolore dei dalit cristiani nell’India delle nuove caste di Stefano Vecchia
Violenze ed esclusioni, così colpisce il nazionalismo
Pag 3 Senza fraternità tutto crolla di Rosanna Virgili
Alla radice della crisi esistenziale dell’Europa, e oltre
ITALIA OGGI
Una scuola di suore all'inferno di Angelica Ratti
È aperta a tutte le confessioni. Non fa proselitismo. L'istituto sorge a Baalbek nell'Est del
Libano in una zona controllata da Hezbollah
IL GAZZETTINO
Pag 1 La minoranza Pd che evoca scissioni ma teme il divorzio di Alessandro
Campi
LA NUOVA
Pag 1 Nessuna battaglia di principi di Roberto Weber
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2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 18 Anno accademico: docenti e autorità in pellegrinaggio oggi a San Marco
di n.d.l.
Nell’anno del Giubileo straordinario della misericordia indetto dal Papa il Patriarca
Francesco Moraglia (nella foto), per l’inizio dell'anno accademico, incontrerà oggi nella
Basilica di San Marco il mondo universitario cittadino. Il pellegrinaggio in Cattedrale,
caratterizzato dal passaggio della Porta Santa di San Clemente, prenderà avvio presso la
chiesa parrocchiale di San Moisè dove alle 17 si ritroveranno autorità accademiche,
professori, personale amministrativo e studenti per un momento introduttivo di
catechesi preparato da don Gilberto Sabbadin, direttore dell’Ufficio pastorale della
cultura e dell’università, in collaborazione con l’Iusve (Istituto Universitario Salesiano
Venezia). Dalla chiesa di San Moisè alla Basilica. Qui alle ore 18 il Patriarca Moraglia
presiederà la santa messa giubilare. Gli scorsi anni il rito liturgico veniva celebrato nella
chiesa dei Tolentini, a pochi passi da piazzale Roma. Per la pastorale universitaria la
diocesi offre agli universitari periodici percorsi formativi in città presso la Casa
studentesca Santa Fosca a Cannaregio, Redentore alla Giudecca, Istituto Ciliota di San
Stefano e a Mestre nella Casa studentesca San Michele).
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3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 7 Facce toste
Messa a Santa Marta
«Religione dell’apparire» o «strada dell’umiltà»? Nell’omelia della messa celebrata a
Santa Marta martedì 11 ottobre, Papa Francesco ha indicato una scelta decisiva per la
vita di ogni cristiano: anche nel «fare il bene», infatti, si può incorrere in un pericoloso
fraintendimento, che è quello di mettere avanti noi stessi e non «la redenzione che Gesù
ci ha dato». L’obiettivo è quello di affermare «la nostra libertà interiore» mostrandoci al
mondo come realmente siamo nel nostro cuore, senza facili o furbesche operazioni di
«maquillage» esteriore. La riflessione del Pontefice è partita proprio dal concetto di
libertà. Lo spunto è venuto dalla prima lettura del giorno (Galati, 5, 1-6), nella quale
l’apostolo Paolo Invita a «stare saldi e non lasciarsi imporre di nuovo il giogo della
schiavitù, cioè di essere liberi: liberi nella religione, liberi nell’adorazione a Dio». Ecco il
primo insegnamento: «mai perdere la libertà». Ma quale libertà? «La libertà cristiana ha spiegato il Papa - soltanto viene dalla grazia di Gesù Cristo, non dalle nostre opere,
non dalle nostre cosiddette “giustizie”, ma dalla giustizia che il Signore Gesù Cristo ci ha
dato e con la quale ci ha ricreato». Una giustizia, ha aggiunto, «che viene proprio dalla
Croce». Su questo argomento insiste anche il passo del Vangelo proposto dalla liturgia
(Luca, 11, 37-41). Qui si legge di Gesù che rimprovera un fariseo, un dottore della
legge. Lo rimprovera perché, ha ricordato il Papa, «questo fariseo invita Gesù a pranzo e
Gesù non fa le abluzioni, cioè non si lava le mani»: non compie dunque quelle pratiche
«che erano abitudini nella legge antica». Di fronte a certe rimostranze, il Signore
afferma: «Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto ma il vostro interno è
pieno di avidità e di cattiveria». Un concetto, ha fatto notare Francesco, che Gesù
«ripete tante volte nel Vangelo» mettendo in guardia certa gente con parole chiare: «Il
vostro interno è cattivo, non è giusto, non è libero. Siete schiavi perché non avete
accettato la giustizia che viene da Dio». Che è poi «la giustizia che ci ha dato Gesù». In
un altro passo si legge che Gesù, dopo aver esortato alla preghiera, insegna anche come
si debba fare: «Nella tua stanza, che nessuno ti veda, così soltanto il tuo Padre ti vede».
L’invito, quindi è a «non pregare per apparire», per farsi vedere, come faceva quel
fariseo che - narra sempre il Vangelo - davanti all’altare del tempio diceva: «Dio, grazie,
Signore, perché non sono peccatore». Quelli che agivano così, ha commentato il
Pontefice, erano proprio delle «facce toste» e «non avevano vergogna». Di contro a certi
atteggiamenti, c’è il suggerimento dato da Gesù stesso e che il Papa ha così sintetizzato:
«Quando fate del bene e date l’elemosina non fatelo per essere ammirati. La tua mano
destra non sappia cosa fa la sinistra. Fatelo di nascosto. E quando fate penitenza,
digiuno, per favore guardatevi dalla malinconia, non siate malinconici perché tutto il
mondo sappia che state facendo penitenza». In sostanza: quello che importa «è la
libertà che ci ha dato la redenzione, che ci ha dato l’amore, che ci ha dato la ri-creazione
del Padre». È una libertà interiore, che porta a fare «il bene di nascosto, senza far
suonare la tromba»: infatti, «la strada della vera religione è la stessa strada di Gesù:
l’umiltà, l’umiliazione». Tanto che Gesù - ha ricordato il Pontefice citando la lettera di
Paolo ai Filippesi - «umiliò se stesso, svuotò se stesso». E ha aggiunto: «È l’unica strada
per togliere da noi l’egoismo, la cupidigia, la superbia, la vanità, la mondanità». Di
fronte a questo modello troviamo invece l’atteggiamento di coloro che Gesù rimprovera:
«gente che segue la religione del maquillage: l’apparenza, l’apparire, fare finta di
sembrare, ma dentro...». Per loro, ha sottolineato il Papa, Gesù usa «un’immagine molto
forte: “Voi siete sepolcri imbiancati, belli al di fuori ma dentro pieni di ossa di morti e
marciume”». Al contrario, «Gesù ci chiama, ci invita a fare il bene con umiltà», perché
altrimenti si cade in un fraintendimento pericoloso: «Tu puoi fare tutto il bene che vuoi,
ma se non lo fai umilmente, come ci insegna Gesù, questo bene non serve, perché un
bene che nasce da te stesso, dalla tua sicurezza, non dalla redenzione che Gesù ci ha
dato». Una redenzione che, ha detto Francesco, arriva attraverso «la strada dell’umiltà e
delle umiliazioni»: infatti «non si arriva mai all’umiltà senza le umiliazioni». Tant’è che
«vediamo Gesù umiliato in croce». Ecco allora l’esortazione che ha concluso l’omelia:
«Chiediamo al Signore di non stancarci di andare su questa strada, di non stancarci di
respingere questa religione dell’apparire, del sembrare, del fare finta di...». L’impegno
dev’essere invece quello di procedere «silenziosamente, facendo il bene, gratuitamente
come noi gratuitamente abbiamo ricevuto la nostra libertà interiore».
CORRIERE DELLA SERA
Pag 45 Come parlare del Papa in tv e sulla stampa (lettere al giornale)
Saprebbe spiegarmi - e spiegare ai suoi lettori - per quale motivo la stampa italiana, e
soprattutto la televisione, pubblica e commerciale, danno un così smisurato spazio a
tutto ciò che il Papa fa o dice, anche quando si tratta di cose di normalissima
amministrazione e di scarsissimo interesse obiettivo? Quali sono le ragioni «storiche» di
una attenzione che, fra l’altro, contrasta con la rapida secolarizzazione della società
italiana e con il fastidio di molti per gli scandali e i privilegi vaticani?
(lettera
di Carlo Troilo)
Risponde Sergio Romano: Una parte dell’attenzione riservata al Papa mi sembra
giustificata dal suo stile e dalle sue dichiarazioni. Non è facile ignorare un Pontefice che
a proposito della omosessualità dice pubblicamente, parlando con i giornalisti a bordo di
un aereo, «Chi sono io per giudicare». Non è stato il primo e non sarà l’ultimo dei suoi
sorprendenti interventi pubblici. In un libro recente pubblicato da Laterza ( Le parole del
Papa. Da Gregorio VII a Francesco ), Alessandro Barbero ricorda che Francesco, quando
parla ai giovani in spagnolo, li esorta a «hacer lio». È una espressione argentina che
molti traducono prudentemente con «fare chiasso» e che dovrebbe essere tradotta più
correttamente secondo Barbero, con «fare casino». Populismo? Demagogia? O un nuovo
linguaggio per parlare a generazioni postmoderne cresciute fra tweet e Facebook? Un
nuovo stile per riconquistare l’attenzione di coloro che si stavano progressivamente
allontanando dalla Chiesa? Confesso che vi sono stati momenti in cui il Papa mi è
sembrato un caudillo latinoamericano, la versione aggiornata di quella «teologia della
liberazione» che la Chiesa di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI ha combattuto per più
di tre decenni. Ma mi chiedo se sia possibile ignorare lo stile di un uomo che una larga
parte della popolazione mondiale (un miliardo e 270 milioni) considera un capo
spirituale. Sono invece d’accordo con lei, caro Troilo, quando i mezzi di informazione
danno grande spazio a eventi papali che sono soltanto tradizionali cerimonie liturgiche o
impegni pubblici che appartengono agli obblighi sociali di un Pontefice. È davvero
importante sapere che il Papa ha fatto visita a una parrocchia romana e ha ricevuto in
Vaticano un gruppo di sportivi o i rappresentanti di una delle numerose corporazioni
italiane? In questi casi il Papa non viene trattato come un leader spirituale, ma come un
sovrano nei tempi in cui esistevano Gazzette di corte dove la giornata pubblica di un
monarca veniva sempre minuziosamente descritta. Non mi sorprende che questo accada
nella cronaca romana di un giornale. Mi sorprende invece quando questi avvenimenti
sono considerati «notizie» da una televisione nazionale.
LA REPUBBLICA
Pag 23 Il ritorno degli eremiti: “Noi, ultimo rifugio per chi cerca ascolto” di Paolo
Rodari e Agostino Paravicini Bagliani
Sono 200, in gran parte donne e laici, e vivono in luoghi sperduti. La via estrema
dell’ascesi che passa da Celestino V
Firenze. Vivono «come gufi nella notte», così li definì Cristina Saviozzi in un fortunato
libro edito da San Paolo, nascosti in appartamenti anonimi all' interno delle nostre città o
in masi abbarbicati su montagne difficili da raggiungere. Ma tre giorni fa, in via del tutto
eccezionale, hanno scelto di scendere "a valle". E di venire allo scoperto, riunendosi in
una casa di ritiro vicino a Firenze, dove hanno partecipato a un convegno dedicato
esclusivamente a loro e intitolato: «Vivere in disparte per essere al cuore del mondo». A
fare da cornice, una massima di Thomas Merton, religioso e scrittore statunitense:
«Nella mia solitudine sono diventato un esploratore per te, un viandante di regni, che tu
non sei in grado di visitare. Sono stato chiamato a esplorare un'area deserta del cuore
umano». Sono i nuovi eremiti, circa duecento in Italia, persone come tante che a un
certo punto della propria esistenza hanno deciso di lasciare ogni cosa per vivere di
silenzio, solitudine e preghiera. Difficile censirli. Arduo, anche, incontrarli. Amano fuggire
dal rumore del mondo seguendo solo e soltanto il richiamo dello Spirito. Un richiamo
esigente, che porta alcuni di loro - non tutti - a vivere «sulla soglia», come diceva di sé
la filosofa e mistica francese Simone Weil, senza cioè alcun riconoscimento da parte
della Chiesa. Fra loro, molte donne. «Siamo sempre di più - racconta l'eremita Marta
Gatti, che vive nell' entroterra del Garda in un appartamento adiacente a una chiesa - e
il motivo forse è uno: gli eremiti, lo vogliano o no, accolgono tante persone bisognose di
ascolto e attenzione. E in noi donne questa dote dell' accogliere è naturale». A Firenze
non c'era soltanto don Raffaele Busnelli, fino a pochi anni fa semplice prete, a raccontare
della sua nuova vita di ritiro in montagna fra il lavoro in una falegnameria, un
laboratorio di icone, l'orto e alcuni asini. C'erano anche eremiti laici che, come i religiosi,
scelgono il ritiro pur non appartenendo a nessuna congregazione. Non tutti, insomma,
sono come l'alcantarino Carlo di San Pasquale - di lui ha scritto Francesco Lepore in
Seraphica Charitas, Libreria Editrice Vaticana - che da religioso abbracciò l'eremitaggio.
Esiste anche un mondo laico che opta per il silenzio, donne e uomini comuni che
abbracciano una vita di privazione per essere soli con Dio: sveglia a notte fonda, la
preghiera fino all'alba, il silenzio come regola di vita. Poi i lavori manuali in casa,
l'accoglienza della gente che bussa e quindi, al calar del sole, il riposo. Come Paola
Biacino che abita, da sola, in montagna, sopra Cuneo, in una baita di tre metri per tre, e
che per mesi, quando la neve è alta fuori dalla porta di casa, non vede anima viva.
Come Antonella Lumini, eremita a Firenze in un appartamento del centro storico. Oggi in
pensione, si è mantenuta lavorando part time sui testi antichi alla Biblioteca nazionale.
Ogni giorno, terminato il lavoro nel primo pomeriggio, tornava a casa e si apriva al
silenzio. Una stanza, che lei chiama «pustinia» («deserto» in russo), è a esso dedicata.
Qui ancora oggi Antonella ascolta la voce dello Spirito. Qui riceve le persone che
necessitano di aiuto e discernimento nelle difficoltà della propria esistenza quotidiana. In
Val Camonica, in una antica chiesa del XV secolo, vive invece Lucia. Religiosa, ha avuto
il permesso dalla sua congregazione e dal vescovo di fare l'eremita. La chiesa è isolata,
sopra un piccolo paese. Lì, dal 1626 al 1807, c'è sempre stato un eremita, lo
chiamavano «il rumit». Poi per duecento anni non c'è stato più nessuno finché, dice,
«sono arrivata io». «Il luogo mi ha convinto subito. Lo Spirito necessita anche di un
ambiente adatto in cui vivere, esprimersi. Il luogo, per l'eremita, diventa sacramento.
Da quell' eremo non sono più uscita. Scrivo icone, studio e accolgo gente.
Recentemente, ad esempio, ho accolto tre donne che avevano subito violenze da
piccole. L'eremo ha fatto riscoprire la parte più pura, intatta, della loro persona. Spesso
con me le persone fanno dei cammini di liberazione. Mi aiutano anche psicologi e
terapeuti».
Firenze. «Abito, da sola, in montagna, a Pra d' Mill, sopra Cuneo, in una baita di tre
metri per tre. Intorno ho rocce e prati. Prego, lavoro e accolgo chi viene a trovarmi. Non
ho soldi, vivo di carità. D'inverno, quando la neve è alta, non vedo nessuno per
settimane. Chi viene ha ferite esistenziali profonde e desidera risposte».
Paola Biacino, 58 anni, era sposata. Abitava ad Asti, dove ha avuto tre figlie da un
matrimonio finito con l'annullamento. Poi la scelta del silenzio.
Come è diventata eremita?
«Quando ho avuto l'annullamento - mi ero sposata a 17 anni - ho capito che la mia vita
era nella solitudine. Passeggiando con un prete per la montagna ho trovato questa baita.
Ho sentito subito che il mio posto era qui. Sono entrata nella baita e non sono più uscita.
Il primo giorno un frate francescano mi ha raggiunta e mi ha portato il pranzo. Ho pianto
di commozione. Da quel momento tantissima gente mi ha aiutata».
Come vive tutti i giorni?
«Vado a letto ogni sera alle 20 e mi alzo alle 3. Canto tutta la liturgia fino alle 8. Poi
faccio le pulizie, mi lavo, e se viene gente la accolgo. Così ogni giorno».
Firenze. «Fino a pochi anni fa ero un semplice prete, assistente di un oratorio a
Treviglio, poi il richiamo del silenzio mi ha portato sulle montagne dietro a Lecco».
Don Raffaele Busnelli, 44 anni, brianzolo, ha scelto la vita eremitica dopo un confronto
con il cardinale Martini.
Che cosa le disse?
«Mi chiese di elencargli le attività della parrocchia. Capì che avevo preso l'impegno in
modo serio e che, per questo motivo, non volevo fuggire dal mondo. Il richiamo del
silenzio era reale».
Come ha trovato il suo eremo?
«Ero in gita con alcuni ragazzi dell'oratorio. Arrivammo nei monti dietro Lecco.
Scoprimmo dei masi abbandonati. Capii che poteva essere questo il luogo del mio ritiro.
Con la gente dei paesi vicini li ristrutturammo».
Come sono cadenzate le sue giornate?
«Allevo qualche asino, ho una piccola bottega di falegnameria, una cella dove scrivo
icone, un mulino, coltivo la terra a volte visitata dai cinghiali, accolgo gente. Quando ho
deciso di vivere qui, il mondo ha iniziato a inseguirmi.
Nell'ultimo anno sono venute a trovarmi settecento persone. Cercano risposte alla
propria esistenza, cercano la pace».
Eremiti e anacoreti accompagnano la storia del cristianesimo fin dai primi secoli.
Anacoreta è una parola di origine greca che significa «colui che si ritira» (dal mondo). Il
modello è evangelico. Cristo si era ritirato per quaranta giorni nel deserto (Marco 1,1213, Matteo 4,1-11, Luca 4,1-13) per «vincere il male con il bene» (San Paolo, lettera ai
Romani 12,21). L'eremitismo si sviluppa, fin dal III secolo, dapprima in Oriente. Paolo
Eremita (229-342) era un Egiziano benestante. All'età di 20 anni si stabilì nel deserto
dell'Alto Egitto, nella regione Tebaida, che resterà come immagine ideale dell'eremitismo
(Paolo Uccello). Gli eremiti e anacoreti orientali, chiamati Padri del Deserto,
diventeranno in Occidente il modello per coloro che cercavano nell'eremitismo una forma
di vita fondata sull'ascesi estrema. L'eremita fu riconosciuto da San Benedetto come uno
dei quattro tipi di monaco. Eremiti e anacoreti si diffusero in tutte le regioni della
cristianità medievale. Ordini religiosi, come gli eremiti carmelitani, hanno un modello
eremitico che risale a Sant'Elia. Le numerose certose, talvolta urbane o semiurbane
(Pavia, Firenze e così via), sono organizzate per permettere ai monaci di vivere isolati in
celle, in completa solitudine per quasi tutta la giornata. Celestino V, il papa «del gran
rifiuto», aveva vissuto a lungo in un eremo e volle tornare a vivere da eremita dopo la
sua rinuncia al pontificato (1294). In certi monasteri, i monaci seguivano le cerimonie
liturgiche da una piccola finestra, il cosiddetto agioscopio. Anche Filippo II re di Spagna
seguiva, all' Escorial, la celebrazione della messa da un agioscopio. Il desiderio di isolarsi
fece nascere nel Quattro e Cinquecento la figura del principe eremita che si ritirava con i
suoi consiglieri come il duca di Savoia Amedeo VIII a Ripaille, sul lago di Ginevra. Figure
come quella di San Girolamo diventano il modello dell'eremita penitente nel deserto ma
che non è totalmente assente dal mondo. In molte città medievali uomini e donne
vivevano da «reclusi», murati in celle. Erano modelli ideali di vita spirituale che
tentavano di far convivere il desiderio di solitudine (pensiamo al De vita solitaria di
Petrarca) con la vita nel mondo, una testimonianza vivente della lotta tra il bene e il
male. Anche l'attuale codice di diritto canonico (1983) riconosce la vita (can. 603)
eremitica o anacoretica, che deve svolgersi «attraverso il più rigoroso isolamento dal
mondo».
Pag 33 Dimmi come preghi e ti dirò chi sei di Vito Mancuso
Intimo o pubblico: il rapporto con il divino nei saggi di Heiler e di Florenskij tradotti in
Italia «"Pregava?". "Sì, pregava sant' Antonio perché fa ritrovare gli oggetti smarriti".
"Per questo solo?". "Anche per i suoi morti e per me". "È sufficiente" disse il prete». Così
Montale ricorda in "Satura" la moglie scomparsa, ma ciò che per il poeta è minimalismo
della preghiera, in realtà ne è la causa prima: il bisogno e gli affetti. Lo mostra alla
perfezione il libro di Friedrich Heiler, lo studio più ampio finora condotto a livello
mondiale sulla preghiera, pubblicato a Monaco di Baviera nel 1918 ma ancora insuperato
quanto a documentazione e vigore speculativo, e oggi finalmente disponibile per il
lettore italiano: La preghiera. Studio di storia e psicologia delle religioni, a cura di
Martino Doni, Morcelliana, 912 fittissime pagine. Assai curioso che negli stessi giorni
arrivi in libreria un altro grande testo del 1918 sul medesimo tema: La filosofia del culto
di Pavel Florenskij, a cura di Natalino Valentini, San Paolo, 600 pagine, prima traduzione
mondiale fuori dalla Russia. Matematico, filosofo, teologo, storico dell'arte, sacerdote,
denominato "il Leonardo da Vinci russo" per la poliedrica genialità, Florenskij risulterà
assai scomodo all'ateismo comunista che equiparava religione a ignoranza e per questo
sarà deportato nel gulag delle isole Solovki ed eliminato l' 8 dicembre 1937 in uno di
quei crimini di massa detti "purghe staliniane". Sulla preghiera Heiler e Florenskij
presentano idee molto diverse. Con un approccio fenomenologico lo studioso tedesco ne
illustra l'universalità tramite una valanga di documentazione a partire dalle preghiere dei
primitivi, di cui mostra l'origine per lo più da situazioni di malattia, fame, pericolo, e da
sentimenti quali paura, angoscia, ansia. Come mostrano anche l'etimologia (preghiera
viene dal verbo latino precor, infinito precari, da cui precarietà) e il linguaggio quotidiano
("ti prego!"), all'inizio c'è sempre un bisogno. Il bisogno esaudito genera il
ringraziamento e la lode, quello non-esaudito il lamento e la supplica, fino a vere e
proprie tecniche di persuasione, tra cui Heiler menziona gli insulti che talora venivano
rivolti a san Gennaro, da lui accostati a fenomeni analoghi presso i tedeschi. E conclude:
«In nessun altro luogo risulta altrettanto forte ed evidente l'irrazionalità della religione,
anzi della vita in generale». Il punto infatti è proprio questo: l'irrazionalità della
preghiera segue l'irrazionalità della vita. Heiler descrive anche la preghiera col corpo: a
mani giunte, a mani alzate, inchinandosi, prosternandosi, in ginocchio, in posizione
accucciata, scoprendosi o coprendosi il capo a seconda delle religioni e del sesso, con o
senza scarpe. E illustra come si preghi verso l'alto dei cieli, ma anche al cospetto della
natura: della cima di una montagna, di una sorgente, di un albero imponente, del vento
e del fuoco, della pioggia e del fulmine, della potenza del sole e della dolcezza della
luna: ovunque gli esseri umani hanno avvertito e riverito il mistero. A proposito delle
civiltà classiche Heiler scrive: «Pressoché a ogni azione, dalla culla alla tomba, i greci
facevano corrispondere una specifica divinità»; e quanto ai romani: «Ogni singola opera
del lavoro agricolo è sotto il patronato di una specifica divinità». Presenta alcune delle
preghiere più belle (tra cui l'Inno al sole del faraone Akhenaton, l'Inno assiro a
Shamash, l'inno omerico a Gaia, due splendidi inni inca, i salmi di Israele) e analizza la
preghiera dei grandi geni religiosi come Buddha, Geremia, Amos, Gesù, Paolo, Agostino,
Maometto, Francesco d' Assisi, Caterina da Siena, Lutero, Teresa d' Avila. Non tralascia
la preghiera di artisti, tra cui Goethe e Beethoven, e di filosofi come Pascal, Voltaire,
Rousseau. E riporta questa frase di Kierkegaard: «Il senso religioso è qualcosa di così
segreto, che se uno ci scorgesse mentre preghiamo, potremmo arrossire come una
ragazzina». Secondo Heiler infatti la preghiera, che avvenga nel chiuso della propria
camera come auspicava Gesù o nella natura come preferiva Rousseau, con
un'intonazione mistica oppure profetica, nasce dalla solitudine e conduce alla solitudine.
È di parere opposto Florenskij. La sua filosofia del culto sostiene che la forma più alta di
preghiera non è quella intima e solitaria dei mistici, ma è la preghiera istituzionale della
comunità, la liturgia fatta di formule e gesti prefissati, incensazioni, accensione di
lampade e candele, canti, adorazione della croce, baci delle icone. È nella liturgia che si
percepisce al meglio «la presenza di realtà misteriose accanto a noi e davanti a noi, di
esseri, eventi e forze misteriose; il che non può che essere terribile, ma è bene che lo
sia». Per Florenskij il culto non produce un distacco dalla vita reale, ma al contrario ne è
il più autentico approfondimento: «La cultura, come risulta chiaro dall'etimologia, è un
derivato dal culto, ossia un ordinamento del mondo secondo le categorie del culto». Per
questo secondo Florenskij le civiltà dotate di un culto hanno anche una cultura condivisa
e risultano coese, mentre l'occidente secolarizzato si avvia verso l'assenza di una cultura
condivisa. Florenskij scrive talora in modo aspro e radicale, ma reagiva così alla
distruzione che si compiva sotto i suoi occhi: «Vorrei dare a queste riflessioni il peso
delle pietre, vorrei che tutte le parole pesassero, 10, 100, 1000 volte di più». Il culto
pubblico, che per Heiler è decadenza della preghiera, per Florenskij è il vertice. Scrive
Heiler: «In origine la preghiera è un contatto intimo e personale con Dio, ma
gradatamente diviene una forma di culto rigida e impersonale». Scrive invece Florenskij:
«Il culto è il punto fermo dell'universo per il quale e sul quale l'universo esiste». Per
Heiler l'uomo si compie nel mistero nella solitudine, per Florenskij è invece il culto
liturgico comunitario «l'attività per eccellenza dell' uomo, dato che l'uomo è homo
liturgicus». Per Heiler la preghiera nasce dal basso dei bisogni umani, per Florenskij
dall'alto della rivelazione divina e della tradizione ecclesiale. Heiler da cattolico divenne
protestante, per Florenskij invece «il protestantesimo è nella sua essenza la negazione
della centralità del culto e la sostituzione del centro della religione con il pensiero». Le
due prospettive convergono sull'essenziale: sul fatto cioè che chi prega ottiene quiete,
fiducia, speranza. La gran parte degli esseri umani prega (se prega) come la moglie di
Montale, per esaudire i propri bisogni. La preghiera però insegna che l'uomo è qualcosa
di più: sete di giustizia e libertà nella profezia, e parentela del proprio intimo sé con
l'infinito nella mistica. Certo, è improbabile che questa esperienza faccia ritrovare gli
oggetti smarriti, ma forse un'eccezione c'è: il proprio posto nel mondo. Per questo chi la
vive ottiene la pace del cuore. Beve, come ricorda Florenskij, "l'acqua di guarigione e di
pace".
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Porpore a stelle e strisce, il criterio di Francesco di Andrea Tornielli
Le berrette a Cupich, Farrell e Tobin rendono concreto il discorso che Bergoglio fece ai
vescovi statunitensi a Washington nel settembre 2015
Le tre berrette rosse che arrivano a vescovi statunitensi nel concistoro del 19 novembre
annunciato da Francesco all'Angelus di domenica 9 ottobre rappresentano un segnale. Il
Papa mostra di non voler penalizzare la grande e potente Chiesa americana, ma al
tempo stesso con la sua scelta dei nomi, indica una strada. La stessa che aveva indicato
nel discorso da lui tenuto davanti ai vescovi degli States nel settembre 2015, nel primo
giorno della sua visita a Washington. Bisogna tornare a quelle indicazioni per
comprendere la scelta di aggregare al collegio cardinalizio tre nuovi porporati che un
tempo si sarebbero considerati di «centro». Quella per Kevin Joseph Farrell, nato in
Irlanda ma per decenni vescovo negli Stati Uniti, appena nominato Prefetto del nuovo
Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, «partorito» dalla riforma della Curia romana,
era in fondo la berretta più scontata e prevedibile. Nel suo caso, l'indicazione
significativa è stata quella di chiamarlo dagli Usa per presiedere il nuovo dicastero. Blase
Cupich, a Chicago da due anni, è stata la prima nomina di Bergoglio in una diocesi di
grande rilievo negli Usa. Mai entrato nelle rose dei candidati, il Papa l'ha scelto per
cominciare a cambiare il modello dei vescivi «cultural warriors» americani. Infine, ancora
più sorprendente, la nomina cardinalizia di Joseph William Tobin, arcivescovo di
Indianapolis, allontanato dalla Curia romana dopo appena due anni da segretario della
Congregazione per i religiosi perché considerato troppo «morbido» con le suore
americane progressiste. Quello nordamericano è apparso uno degli episcopati che più
faticano a entrare in sintonia con Francesco. Negli ultimi decenni, attraverso la selezione
dei nuovi vescovi, a capo delle più importanti diocesi statunitensi erano stati designati
prelati attivissimi nelle pubbliche battaglie pro-life, meno attivi quando si trattava di
alzare la voce di fronte ai problemi della giustizia sociale. Con quel discorso nella
cattedrale di San Matteo a Washington diretto alla Chiesa americana, il Papa chiedeva di
voltare pagina e cambiare sguardo. Il Papa invitava i vescovi a non usare un «linguaggio
bellicoso» né a limitarsi solo ai «proclami». Bisogna invece «conquistare spazio nel cuore
degli uomini» senza mai fare della croce «un vessillo di lotte mondane». È certamente
utile al vescovo, sottolineava Francesco, avere «la lungimiranza del leader e la
scaltrezza dell’amministratore», ma «decadiamo inesorabilmente» se ci affidiamo alla
«potenza della forza». I pastori non devono dunque trasformarsi in manager e guardare
alla Chiesa con i criteri dell'efficienza aziendale. Non devono cioè pensare che
l'evangelizzazione consista nei mezzi economici, negli strumenti di management o nella
potenza dei mezzi di comunicazione. Quanto all'atteggiamento verso la società,
Bergoglio aveva detto: «Guai a noi se facciamo della croce un vessillo di lotte
mondane», dimenticando che per vincere bisogna «lasciarsi trafiggere e svuotare di sé
stessi». I vescovi dunque non possono lasciarsi «paralizzare dalla paura», rimpiangendo
«un tempo che non torna» e reagendo con «risposte dure». Il linguaggio «aspro e
bellicoso» non ha infatti «diritto di cittadinanza» nel cuore di un vescovo, anche se
sembra «assicurare un’apparente egemonia». Divisioni e frammentazione sono ovunque,
ma la Chiesa «non può lasciarsi dividere, frazionare o contendere». Un appello alla
comunione e all'unità rivolto a una Chiesa fortemente polarizzata - come peraltro l'intera
società americana - fra conservatori e progressisti. La via che il Papa suggeriva, per
superare le polarizzazioni, è quella della mitezza, del dialogo umile con tutti. Se non si
agisce così, spiegava, «non è possibile comprendere le ragioni dell’altro» né capire che il
fratello da raggiungere con «la prossimità dell’amore», cioè la persona, conta sempre di
più delle posizioni «che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze».
Francesco elencava infine i temi sui quali non si può tacere: «Le vittime innocenti
dell’aborto, i bambini che muoiono di fame o sotto le bombe, gli immigrati che annegano
alla ricerca di un domani, gli anziani o i malati dei quali si vorrebbe far a meno, le
vittime del terrorismo, delle guerre, della violenza e del narcotraffico, l’ambiente
devastato». Non soltanto, dunque, l'agenda pro-life o contro le nozze gay. Non bastano
«proclami e annunci esterni», non basta cioè fare atti d'accusa riportati dai giornali.
Bisogna «conquistare spazio nel cuore degli uomini e nella coscienza della società».
Come dire che non si evangelizza con le battaglie. Siate «pastori vicini alla gente pastori
prossimi e servitori», era stato l'invito finale del Pontefice. Con le porpore statunitensi
appena annunciate, Francesco concretizza le parole pronunciate a Washington un anno
fa.
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4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XII “Food & Wine”, un master ai Salesiani
Come imparare a comunicare e promuovere i prodotti alimentari e vitivinicoli con un
occhio al futuro. Lo Iusve, l’istituto universitario salesiano, assieme a prestigiosi partner
sta selezionando i nuovi profili per la seconda edizione del master interdisciplinare di
primo livello Food & Wine 3.0 – Web Marketing & Digital Communication, in partenza a
novembre 2016. Un percorso di studi innovativo, che risponde alle attese del mercato
alla ricerca di profili professionali che sappiano utilizzare le nuove leve del marketing
digitale e della comunicazione attraverso i new media. Un master di un anno che,
attraverso 19 weekend di formazione, insegnerà come mettere a tavola il futuro.
Informazioni: via dei Salesiani 15, Mestre, tel. 041 5498580.
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 21 I Paesi dove è meglio nascere bambine. L’Italia (decima) supera Usa e
Francia di Elena Tebano
Save the Children: una sposa sotto i 15 anni ogni 7 secondi. In Africa le situazioni
peggiori
Non c’è sorte peggiore che nascere bambina in un Paese dell’Africa Sub-Sahariana:
Niger, Ciad, Repubblica Centrafricana, Mali, Somalia, Sierra Leone, Malawi, Guinea,
Nigeria, Costa d’Avorio e Repubblica Democratica del Congo sono i più a rischio, secondo
il rapporto stilato da Save the Children per la Giornata internazionale delle bambine e
delle ragazze che si celebrava ieri. Non solo per le precarie condizioni di vita generali,
ma perché le bimbe, costrette a occupare l’ultimo gradino della scala sociale, sono più
esposte alle crisi di ogni tipo. Basti pensare all’epidemia di Ebola che tra il 2014 e il 2015
ha colpito l’Africa Occidentale: solo in Sierra Leone ha portato ad almeno 14 mila
gravidanze tra le adolescenti. Undicimila di loro andavano a scuola prima che il
diffondersi del virus obbligasse a chiudere temporaneamente gli istituti. Diventare madri
prima dei 18 anni spesso non è stata una scelta e per quasi tutte ha significato dover
lasciare per sempre gli studi e quindi anche la possibilità di costruirsi una vita migliore.
Mentre è proprio l’istruzione a garantire la migliore protezione da un futuro rubato. Ne
emerge che i venti Paesi dove le bimbe alla nascita hanno minori possibilità di sviluppo sulla base di cinque indicatori: mortalità materna, tasso di gravidanze tra i 15 e i 19
anni, numero di spose minorenni, tasso di istruzione fino alle scuole medie, percentuale
di parlamentari donne - sono tutti nell’Africa Sub-Sahariana. Al contrario, in testa alla
classifica ci sono i Paesi europei più sviluppati. Prima di tutti la Svezia. E poi Finlandia,
Norvegia, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca, Slovenia, Portogallo, Svizzera e - al decimo
posto - Italia. Nascere femmina in Svezia significa così essere nelle condizioni di
completare gli studi, non essere costrette a sposarsi troppo giovani, avere tra i più bassi
rischi al mondo di morire di parto e praticamente le stesse possibilità degli uomini di
diventare parlamentari. In Niger vuole dire molto probabilmente dover fare la moglie
quando le bimbe europee stanno sui banchi (il 76% delle donne si sposa prima dei 18
anni), avere figli da adolescenti (succede a una su 5), rischiare di morire per una
gravidanza, non studiare. In generale nel mondo ogni sette secondi si sposa una ragazza
sotto i 15 anni (oggi sono più di 700 milioni le donne che si sono sposate prima dei 18),
oltre un milione di ragazze diventano madri prima dei 15 anni, e 70 mila tra i 15 e i 19
perdono la vita ogni anno per cause legate alla gravidanza e al parto. Tra i Paesi
peggiori per le bambine c’è l’India, il primo nella classifica del gender gap (cioè la
differenza di possibilità di sviluppo tra uomini e donne), che ha il più alto numero in
assoluto di ragazze che si sposano prima della maggiore età: oltre 24,5 milioni. Né basta
essere un Paese ricco per garantire buone opportunità alle bambine: l’Australia, seconda
al mondo nella classifica dello sviluppo umano delle Nazioni Unite, è 21esima, per il
basso numero di parlamentari e l’alto tasso di gravidanze adolescenziali. Gli Stati Uniti,
l’economia più grande del mondo (e ottavi per sviluppo umano), sono 32esimi sotto
l’Algeria e il Kazakistan a causa delle molte gravidanze adolescenziali e il rischio di
mortalità materna. Ma cambiare si può: nella zona Sub-Sahariana c’è anche il Ruanda
che grazie a leggi illuminate ha la più alta percentuale di parlamentari al mondo (il 64%)
e ha fatto grandi passi nel prevenire le gravidanze adolescenziali e il fenomeno delle
spose bambine: è al 49° posto della classifica di Save the Children, contro il 107° e 118°
(rispettivamente) dei vicini Burundi e Tanzania. Mentre il Nepal che pure ha un basso
reddito pro-capite riesce a far studiare l’86% delle bambine, una percentuale simile a
quella della più ricca Spagna. A fare la differenza sono le scelte dei governi.
AVVENIRE
Pag 2 La verità non può essere nascosta ai giovani di Maurizio Patriciello
Marcia per la vita: contestata la partecipazione di una scuola
«La verità vi farà liberi». Parola di Gesù. La Verità con la maiuscola – il figlio di Dio
incarnato – e ogni verità che da lui prende corpo. La menzogna, però, non si arrende e
tenta in ogni modo di scimmiottare la verità. La verità genera fiducia. San Paolo,
riferendosi a Gesù: «Io so in chi ho creduto», diceva. E perciò riesco a riposare. Perché
di lui mi fido. Riposare nella verità. Ci sono valori che sono cari a tutti. Sono diventati
veri pilastri del vivere civile. Il valore della vita, per esempio. Chi non sarebbe disposto a
battersi per la difesa di un cagnolino? Chi oggi avrebbe il coraggio di affermare che un
bambino dalla pelle nera è da considerare inferiore a un bambino europeo? Non sempre
fu così e ce ne vergogniamo. Pur tra mille battaglie abbiamo raggiunto traguardi un
tempo inimmaginabili. È un bene, l’umanità avanza. Ma quanto siamo strani! In Sicilia
un vecchio fruttivendolo viene insultato e massacrato da un gruppo di ragazzini. Poi gli
danno fuoco. Disumano. Inorridiamo. Ci chiediamo dove abbiamo sbagliato
nell’educazione dei figli. La comoda storiella che è l’ambiente malsano a generare i bulli
è stata smentita da tempo. A Capri un giovane viene picchiato e oltraggiato da alcuni
coetanei. I bulli sono tutti di via Chiaia, la via dei napoletani benestanti. Che cosa
dunque accade ai nostri giovani? A Caserta, sabato, vengo invitato a parlare ai giovani di
alcune scuole che fanno una marcia per la vita. Stupendo. La vita innanzitutto. La vita
che ci è stata data in dono. Hanno i permessi delle scuole e dei genitori. Prendono
liberamente parte alla marcia. Nessuno è stato costretto da nessuno. Una marcia per la
vita non per la morte. Nessuna paura. Nessun tentativo di indurre i ragazzi alla violenza.
A qualcuno però la parola 'vita' mette paura. Se si parla della vita, pensano, si parlerà
anche della vita nascente e della vita morente? Forse gli studenti saranno invitati a
riflettere su questi temi che addolorano e dividono? Meglio non farlo? Non lo so. So solo
che il ministero dell’ Istruzione ha avviato approfondimenti su questa partecipazione.
Ecco, ci siamo. I bulli ci spaventano. Vogliamo formare giovani capaci di intendere e di
volere. Vogliamo prepararli a essere persone oneste e responsabili. Per farlo occorre il
coraggio di essere di esempio. «Non maestri ma testimoni» ci ricorda papa Paolo VI. Ma
essere testimone non è semplice. Chi ha paura di dire ai giovani che prima di vedere il
sole essi erano già vivi nel grembo della mamma? Questa elementare verità non è
dogma di fede ma evidenza scientifica. Lo diciamo con dolore: il grembo materno è
diventato il posto più pericoloso al mondo. L’unico luogo dove al condannato non viene
data nemmeno una parvenza di difesa d’ufficio. So bene che il diritto alla vita nascente
confligge con altri diritti considerati inalienabili. Capisco i problemi che nascono in chi il
figlio non lo aveva preventivato. Capisco il dramma di chi attende un figlio non sano. I
drammi e i problemi però non potranno mai rendere lecito l’illecito. La verità deve essere
presentata ai giovani senza ipocrisie e senza ambiguità. Non si può chiedere a un
giovane di non maltrattare un gattino e poi far finta di non sapere che il frutto di un
aborto è un essere umano cui è stato negato il diritto alla vita. I giovani chiedono
chiarezza. I bambini accarezzano e baciano il fratellino nel pancione della mamma in
attesa. La verità ci farà liberi. Davvero. L’aborto in una società civile, articolata,
complessa si può solo tollerare. Con le lacrime agli occhi e la morte nel cuore. Cercando
di arrivare quanto prima a eliminarlo dalla società. Rimanendo fermi sul valore immenso
della vita nascente e della esatta informazione. Cambiando le parole nessuno mai sarà in
grado di cambiare la realtà e questo i giovani lo sanno. La vita è sacra fin dal primo
giorno del concepimento. Talmente sacra che finanche la condanna a morte del reo ci
scandalizza. Davanti a un bambino non nato non c’è niente da festeggiare. C’è invece da
gioire e tanto solo stringendo tra le braccia un piccolo essere umano che, in modo
misterioso, viene a ringiovanire la faccia della terra.
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pagg 2 – 3 Ospedale al Mare, dieci anni d’agonia di Carlo Mion
La struttura abbandonata dal 2006 è rifugio di senzatetto. Vetri e rifiuti ovunque, odore
di urina, calcinacci e siringhe. Il futuro è incerto
Lido. I vetri sono ovunque e il rumore che le scarpe fanno spaccandoli risuona nei
padiglioni vuoti. È l’eco dell’abbandono dell’ex ospedale al Mare del Lido. Il rumore in
questa struttura deserta dal 2006 che accompagna con l’odore di urina lungo i corridoi e
le stanze occupate in passato da letti e ambulatori. Tutto qui crolla, colpa del tempo e
dell’uso che ne fanno vandali, ladri di rame e spesso tossicodipendenti che per entrare
hanno spaccato porte e finestre, suppellettili e mobili e quel poco di macchinari che sono
rimasti qui quando la sanità ha abbandonato il luogo. In questi anni è diventato luogo di
rifugio di sbandati e senzatetto: attualmente c’è una decina di clochard, alcuni sono
veneziani. Periodicamente controllati e allontanati dalle forze dell’ordine. E puntualmente
ogni volta questi disperati ritornano nei loro giacigli. Tubercolosi e malattie acute.
All’inizio qui si curavano i bambini dalla tubercolosi, poi negli anni 50 le malattie acute.
Inaugurato ufficialmente nel 1933, la sua storia ha inizio 63 anni prima. Nel 1870 fu
costruito l’Ospizio Marino sulla spiaggia in zona Quattro Fontane. Inizialmente erano
edifici in legno che potevano ospitare, in riva al mare, alcune centinaia di bambini malati
di tubercolosi. Con il passare degli anni divenne un polo sanitario di tutto rispetto dove
venne costruito pure un osservatorio bioclimatico per lo studio della meteorologia che ha
funzionato dal 1940 al 2003. A metà anni Cinquanta viaggiava con una media di circa 10
mila ricoveri, 1.400 posti letto e 450 mila visitatori. A fine anni degli anni Sessanta ci
lavoravano quasi 1500 persone. Poi il declino che comincia a metà anni Ottanta. Di tutte
quelle persone restano i fantasmi, cartelle cliniche sparse ovunque, bottiglie di vino
vuote sugli scaffali. Non vengono più fatti investimenti per garantire che l’ospedale
rimanga all’avanguardia. Nessun macchinario moderno per la cura e la diagnosi viene
acquistato e scompare la manutenzione. I vari edifici non vengono adeguati alle misure
previste dalla legge, come la realizzazione degli ascensori. Una lenta agonia che termina
nel 2006 con la sua chiusura. Quindi la terra di nessuno. La terra di nessuno. Ben presto
chi vive ai margini di questa società occupa gli spazi lasciati liberi. Inizialmente si insedia
una colonia di polacchi, poi altri comunitari, qualche nordafricano ma anche italiani. Le
siringhe sparse raccontano che in queste stanze trovano la solitudine del buco anche i
tossicodipendenti. Dal lato mare, negli edifici più vicini alla spiaggia qualcuno ha
realizzato l’angolo cottura e il bagno su una terrazza esterna. Sul filo ad asciugare
coperte e cuscini. Poltrone impolverate e rifiuti poco lontano. E poi ancora calcinacci e
vetri rotti coprono il pavimento. Raccontano che siano sparsi volontariamente da chi
trova rifugio per garantirsi un impianto antintrusione: chi arriva, camminando fa rumore
e l’ospite ha il tempo di rendersi fantasma. Qui temono di più i nuovi arrivi che le forze
dell’ordine. Non sanno mai chi arriva e quanto violento possa essere. Sotto, in quello che
un tempo era un giardino, c’è un cimitero di biciclette. O meglio un ossario di telai e
ruote. Cambio di padiglione. In inverno quando il freddo si sente forte anche per colpa
del vento che soffia dal mare, gli ospiti che vivono nei padiglioni in cui c’erano i reparti di
radiologia e ortopedia si spostano negli edifici al centro dell’area o in quelli più vicini alla
strada dell’ospizio Marino. Qui le finestre sono chiuse da pezzi di nylon e di legno. In
quel che resta dei bagni delle varie stanze ci sono escrementi e urina. L’odore è forte
anche se l’aria entra da finestre e porte rotte. Nelle stanze più accoglienti sono ospitati
gli abiti e qualche traccia di toelettatura: specchi, sapone e crema da barba. Mentre nei
corridoi ci sono ancora i resti di macchinari e fotocopiatrici. Le scale di accesso sono
pericolanti ma bastano a chi vive tra queste mura per portare al primo piano pure una
bicicletta. Qua e là nei viali ci sono sanitari staccati dai bagni e lanciati dalle finestre.
L’erba sta vincendo contro la pavimentazione dei viali. Alberi e arbusti oramai crescono
in libertà e lo skyline dell’esterno è disegnato da finestre, grondaie e cavi che penzolano
nel vuoto. Tra gli ospiti anche alcuni gatti che contrastano le pantegane che contendono
lo spazio agli altri esseri viventi.
Lido. Il futuro dell’ex ospedale al mare è ancora incerto, o meglio non è ancora chiaro
quando si troverà una soluzione definitiva per questa area. La Cassa depositi e prestiti,
infatti, si dà due anni di tempo per avviare il recupero dell’ex struttura sanitaria: l’ha
acquistata dal Comune per circa 50 milioni di euro, ma rimane ancora nelle stesse
condizioni - degradate - senza che sia stata ancora avviata alcuna azione di recupero.
Nessuna dichiarazione ufficiale da parte della società, partecipata a larga maggioranza
dal Ministero dell'Economia e che gestisce in Italia circa 2 milioni e 700 mila metri
quadrati di immobili. Ma ciò che ora appare chiaro è che la Cassa non avvierà alcuna
azione di recupero sull’ex ospedale se non avrà prima raggiunto accordi con investitori
privati che garantiscano la redditività dell’operazione. Lo stallo attuale deriva proprio
dalla difficoltà a reperirli nella complicata situazione del mercato immobiliare italiano in
questo momento. La Cassa si lascia aperte tutte le possibilità sulle nuove destinazioni
d’uso dell'ex nosocomio lidense: da quella del termalismo, a quella sanitaria, a quella
prettamente turistica, come nel progetto già predisposto da EstCapital di Gianfranco
Mossetto. In questo momento si pensa in particolare a un grande centro di ospitalità
legato alla terza età, per soggiorni di lunga durata, e annessi servizi di assistenza,
fisioterapia e cure termali, che si leghi in qualche modo a quella che era l’ispirazione
storica del complesso agli inizi del Novecento e lo colleghi in parte anche ai servizi del
distretto sanitario dell’Asl 12 ancora attivi. Ma non si esclude affatto un uso polivalente
della struttura, che compenetri le varie esigenze, viste anche le dimensioni notevoli del
complesso venduto da Ca’ Farsetti e in stato di fatiscenza specie per quanto riguarda gli
ex padiglioni sanitari.
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8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pagg 10 - 11 Diaspora Nordest, mezzo milione vive all’estero di Giuseppe
Pietrobelli
Treviso e Vicenza le province con più emigranti, i flussi maggiori in America Latina e in
Europa. “Arsiè, il mio comune sparso per il mondo”
Prendete tre città venete come Padova, Treviso e Vicenza, sommate i loro abitanti e
avrete più o meno tutti gli emigrati veneti nel mondo. Ovvero, 371.348. Ripetete la
stessa operazione con Udine, Pordenone e Gorizia e ricaverete, come sommatoria, i
friulani che si trovano dispersi nei cinque continenti. Ossia, 172.426. Tutti assieme fanno
oltre mezzo milione di cittadini italiani che risultano iscritti agli elenchi dell'Aire (residenti
all'estero), sintesi numerica della transumanza dal Nordest stratificatasi nel tempo, terra
che non solo accoglie oggi chi viene dall'estero, ma ha distribuito, e continua a farlo,
flussi importanti in senso inverso. Il rapporto “Italiani nel mondo 2016”, redatto dalla
Fondazione Migrantes e reso pubblico alcuni giorni fa, non è solo un arido elenco di
numeri. Al di là delle sintesi in cifre, infatti, descrive un fenomeno molto vario e in
perenne divenire, anche se non tutti gli italiani che vivono all'estero risultano iscritti
all'Aire. Prendiamo il Veneto, che è al quarto posto nella crescita nell'ultimo anno (+
5,7%), dopo Lombardia (più 6,5%), Valle d'Aosta (più 6,3%) ed Emilia Romagna (più
6,0%) a dimostrazione di una forte mobilità giovanile. I cittadini emigrati sono
complessivamente 371 mila, pari al 7,6 per cento della popolazione residente in regione
(4 milioni 915 mila). Ma in Friuli la percentuale raddoppia, perché i 172 mila residenti
all'estero equivalgono al 14,1 per cento della popolazione di un milione 221 mila
residenti. E questa la dice lunga sulla differenza di espatrio tra veneti e friulani. In
Veneto la provincia che sta dando più emigrati è Treviso con 109.479 unità (12.3%
rispetto alla popolazione residente), seguita a distanza da Vicenza con 73.534 (8,5%).
Tre province si attestano in una fascia intermedia, Belluno con 48.534 (ma la sua
popolazione è inferiore alle altre province e quindi la percentuale è del 23,5%), Padova
con 45.571 (4,8%) e Venezia con 45.131 (5.3%). Chiudono la graduatoria Verona con
37.013 (4%) e Rovigo con 12.086 (5%). In Friuli la classifica riflette il peso demografico
delle province: gli emigrati di Udine sono 78.191 (14,7% rispetto alla popolazione
residente), quelli di Pordenone 52.051 (16,7%), i triestini 31.066 (13,2%), i goriziani
11.118 (8). L'America centro-meridionale è la parte del mondo che ha assorbito il
maggior numero di veneti, 166.977, quasi diecimila in più di quelli che sono distribuiti in
Europa (157.634), mentre in America settentrionale le presenze arrivano quasi a 21
mila. I friulani sono per la maggior parte nel Vecchio Continente (90.719), mentre
nell'America centro meridionale sono 56.359 e circa 12 mila in America Settentrionale.
La graduatoria dei paesi-destinazione vede in testa, per il Veneto, il Brasile con 88 mila
emigrati, seguito da Argentina (42 mila), Svizzera (41 mila), Francia (25 mila),
Germania (22 mila) e Regno Unito (16 mila). Al primo posto tra i paesi che ospitano
friulani troviamo invece l'Argentina (39 mila persone), seguita da Francia (quasi 19
mila), Svizzera (oltre 17mila), Croazia (12 mila) e Germania (10 mila). Diverso il tributo
dei singoli comuni. Scontato che in valore assoluto siano i capoluoghi di provincia ad
avere il maggior numero di emigrati: Venezia 14.499 (5,5% della popolazione), Padova
10.641 (5,1 per cento), Verona 10.503 (4,1 per cento), Treviso 6.079 (7,3%), Vicenza
6.015 (5,3), In Friuli i cittadini di Trieste emigrati sono 28 mila (13,9%), a Udine sono
oltre 6 mila (6,4%), a Pordenone 3.728 (7,3%) a Gorizia 3.480 (10%). Ma colpiscono le
percentuali degli emigrati rispetto alla popolazione residente in alcuni centri minori. A
Vittorio Veneto sono il 17%, a Feltre il 15,7, a Cordignano il 39,5, a Longarone il 45,8, a
Volpago del Montello il 23%, a Marostica il 15,8, a Lamon il 76,8, a Fonzaso il 67,4, a
Sedico il 20,4%. In Friuli Gemona arriva al 29,6 per cento, Spilimbergo al 18, Tarcento
al 20,2, Aviano al 18,3, Zoppola al 19,4, Buja al 23,7, Pasiano di Pordenone al 19,9, San
Daniele del Friuli al 18,9, Majano al 24,5 e Rivignano Teor al 22,5 per cento. Ma tra le
due regioni il record è di Arsiè con il 92,2 per cento sulla popolazione residente.
Praticamente un cittadino su due è emigrato.
Arsiè (BL) - Fare il sindaco con metà cittadini nel proprio territorio e metà sparsi nei
cinque continenti. L'esperienza, alquanto singolare, è quella che sta vivendo Luca
Strapazzon, a capo di una lista civica di centrodestra che è primo cittadino di Arsiè. Il
piccolo comune bellunese, a pochi chilometri sia da Feltre che dalla Valsugana, si trova
sulle sponde di un lago e conta 2.368 abitanti residenti. Ma all'estero ne vivono la
bellezza di 2.183. Praticamente un cittadino sta in Italia, un altro in giro per il mondo,
visto che l'incidenza degli emigrati è del 92% rispetto alla popolazione effettivamente
presente in questo lembo ai piedi delle montagne. Un record, per un comune bifronte.
Da dove nasce questo fenomeno unico nel Veneto?
«Dal primo gruppo che partì nel 1870 dalla frazione di Fastro assieme al parroco don
Domenico Munari, Da noi non c'era lavoro sufficiente per vivere, così partirono per
cercarlo in Sud America. Su quella epopea ha scritto un bel libro Egidio Dall'Agnol, che
racconta le fatiche dell'emigrazione».
Ma non c'è solo il Brasile.
«Infatti, aperta la strada, partirono molti altri per mète anche più vicine, quelle
dell'emigrazione tradizionale: la Svizerra, la Francia, il Belgio dove trovarono lavoro nelle
miniere».
Questi suoi cittadini tengono, dall'estero, rapporti con il paese d'origine?
«Durante l'estate molti vengono in vacanza, perché qui hanno ancora casa. Ma ci sono
tanti nipoti che vogliono vedere il luogo dove sono nati i loro nonni o bisnonni. Magari in
Italia non ci sono mai stati prima eppure vogliono avere la doppia cittadinanza, quando
la discendenza italiana lo consente. E la prima conoscenza di Arsiè l'hanno avuta dai
racconti dei loro padri».
Cosa fa l'amministrazione per tenere vivi i legami?
«Nel 2009 abbiamo fatto un gemellaggio con Villaflores di Rio Grande do Sul per favorire
gli scambi culturali tra il Bellunese e il Sudamerica. E' la regione brasiliana dove si
incontrano periodicamente i discendenti dei Dall'Agnol, che si sono moltiplicati e
organizzano una grande festa. Nel 2015 l'hanno fatta per la prima volta a Fastro da dove
era partita la famiglia, un incontro mondiale dei Dall'Agnol in Italia».
Questi italiani, in quanto iscritti all'Aire, esercitano il diritto di voto?
«Quanti siano quelli che votano effettivamente non lo. So soltanto che ad ogni elezione i
miei impiegati devono spedire qualche centinaio di cartelle elettorali in giro per il
mondo».
LA NUOVA
Pag 12 Gli immigrati stranieri producono il 10,4% della ricchezza veneta
Il report annuale della Fondazione Moressa
Venezia. L’immigrazione straniera non costituisce soltanto un costo sul versante
dell’accoglienza (o magari un motivo d’allarme legato ai flussi incontrollati) ma anche
una risorsa importante sul piano della forza lavoro, del gettito Irpef e dei contributi
pensionistici, nonché un significativo contributo al Pil e all’imprenditoria. Anche in
Veneto, storicamente, il tessuto delle piccole e medie imprese ha negli anni beneficiato
della manodopera straniera e oggi circa 500 mila residenti regolari ricoprono un ruolo di
primo piano, anche da un punto di vista economico e fiscale. A documentarlo, è il sesto
Rapporto annuale dalla Fondazione Leone Moressa che ha per titolo «L’impatto fiscale
dell’immigrazione» e si focalizza sul contributo della componente straniera alle casse
pubbliche. In terra veneta, si apprende, i “regolari” sono 497,921 (-2,7% rispetto al
2015, pari all’8,3% della popolazione straniera in Italia) e provengono in gran in gran
parte dall’Est: quasi uno su quattro (23,5%) è romeno. Tra le prime dieci nazionalità
estere in Veneto ben 6 sono dell’Europa orientale e dell’area balcanica; mediamente, più
della metà sono donne, ma la quota rosa cresce tra le nazionalità dell’Est, caratterizzate
dal fenomeno badanti; a seguire, ci sono gli immigrati provenienti da Marocco (49.742,
10%), Moldova (37.247, 7,5%), Albania (37.000, 7,4%), Cina (32.878, 6,6%),
Bangladesh (17.201, 3,5%), Ucraina(16.507, 3,3%), India (15.620, 3,1%). In molti
comuni presenza straniera al 20%. Se a livello regionale gli stranieri rappresentano il
10,1% della popolazione (in lieve calo rispetto al 2014), molti comuni registrano una
presenza molto più alta: Lonigo, San Bonifacio e Arzignano spiccano per un’incidenza
intorno al 19%: quasi un abitante su 5 è straniero. Nel dettaglio, la graduatoria delle
province vede in testa Verona (107.049 unità), seguita da Padova (95.083), Treviso
(94.397), Vicenza (88.515), Venezia (81.650), Rovigo (18.664) e Belluno (12.563).
Tornando all’assunto iniziale, quello del contributo economico, il Rapporto della
Fondazione Moressa segnala che nel 2015 i 242 mila occupati stranieri in Veneto hanno
prodotto 13,8 miliardi di euro di valore aggiunto, pari al 10,4% della ricchezza regionale
complessiva. Le imprese straniere in Veneto sono 46 mila, il 9,4% del totale e nel
periodo 2010/2015, mentre gli imprenditori nati in Italia sono diminuiti (-7,9%), quelli
nati all’estero hanno registrato un +13,0%. Infine, ma non ultimo, l’impatto fiscale. Nel
2015 i contribuenti nati all’estero rappresentano il 10,8% dei contribuenti in regione e
hanno versato Irpef netta per 716,9 milioni di euro. Il differenziale di reddito medio tra
nati in Italia (21.989 euro) e nati all’estero (14.075) rimane alto, quasi 8 mila euro.
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Gay, Lega superata da una donna di Massimiliano Melilli
L’attacco alla sindaca ribelle
Da mesi era una miccia, pronta a innescare l’ordigno. Ora l’esplosione è avvenuta. La
deflagrazione investe la Lega, travolta da uno temi più roventi nell’agenda del segretario
Salvini: le Unioni civili. Dopo il caso di Quinto, anche a Oderzo, sinistra Piave, la sindaca
del Carroccio Maria Scardellato, eletta a giugno a furor di popolo, ha «sposato» due
uomini, Pasquale e Andrea, compagni da 11 anni che hanno ottenuto il riconoscimento
della loro famiglia davanti alla legge. Immediate le conseguenze per la sindaca. Il
segretario provinciale della Lega Dimitri Coin: «Con questo atto, la Scardellato si pone
fuori dal partito». Gianantonio Da Re, segretario regionale: «Un solo sindaco leghista in
Veneto è andato contro la linea del partito. Poteva evitarlo». Il 10 maggio scorso il
Parlamento ha approvato la legge che regolamenta unioni e rapporti gay. Eravamo ultimi
in Europa: il primo disegno di legge risale a 28 anni fa. Risultato: la corsa nei Comuni di
coppie gay anche da quarant’anni in attesa di «sanare» unioni di fatto. Due i soggetti
che da sempre si oppongono alla legge: la Cei, la Conferenza episcopale italiana e la
Lega. Il cardinal Angelo Bagnasco ammonì: «Ora il colpo finale sarà l’utero in affitto».
«Sindaci della Lega disobbedite» tuonò il segretario del Carroccio Matteo Salvini. Che ieri
ha pesantemente attaccato la trevigiana Scardellato. L’amico e sindaco di Padova,
Massimo Bitonci, lo aveva anticipato: «Da sindaco mi riserverò il diritto di obiettare e
non celebrerò mai matrimoni fra persone dello stesso sesso». Durissima la replica del
premier Matteo Renzi: «Nessuno ha diritto a disapplicare la legge. Di fronte alla legge si
ferma il politico e persino il magistrato». Le associazioni gay: «Salvini incarna un nuovo
fascismo». La verità è che ancora oggi la Lega sconta sulla pelle teorie e prassi di
matrice bossiana e una presunta supremazia delle coppie etero sul resto dell’universo.
Tragicomiche (e irriferibili) alcune uscite di quel periodo di Giancarlo Gentilini. La base
del Carroccio, dalla stagione del Senatur, è sì transitata agli anni di Salvini ma non si
mai affrancata veramente dal richiamo quasi ancestrale alla virilità a tutti i costi
applicata alle dottrina politica. Ecco il leghismo non compiuto e la dicotomia fra pancia e
pragmatismo. Da un lato il ventre della Lega, un elettorato rigorosamente
tradizionalista; dall’altro, il Carroccio del fare, con una potente (e spesso amata)
squadra di amministratori locali. Proprio in termini di «bio-politica», vita e politica, la
Lega che condanna senza appello la sindaca di Oderzo, si pone automaticamente fuori
dalla società. Mentre dentro la società si pone con forza proprio l’amministratrice nel
mirino. Ci voleva una donna, nel Carroccio del celodurismo, ad avere il coraggio di porre
la questione in tutta la sua contemporaneità. Chi è fuori non è lei, ma il partito che l’ha
messa in croce.
Pag 3 Allarme sicurezza di Martina Zambon
Il 70% degli istituti veneti non è ancora a norma. Servirebbero 400 milioni, ne sono stati
stanziati 94
Venezia. Il crollo del controsoffitto alla scuola elementare «De Amicis» di Padova è solo
l’ultimo incidente di questo tipo in Veneto. Sempre nel capoluogo euganeo ci sono stati
crolli al «Duca d’Aosta», al «Bronzetti», al «Selvatico», lo scorso anno al liceo «Curiel» e
l’anno prima al liceo «Marchesi». Per fortuna si è trattato sempre di tragedie sfiorate ma
l’allarme, dopo ogni «incidente», torna alto. Secondo Michele Nudo, della Uil scuola
«almeno il 70% delle scuole in Veneto è fuori norma, basta pensare al centro storico
veneziano in cui non un solo edificio storico è a posto con le normative in materia di
sicurezza. Certo qualche passettino in avanti in questi anni si è fatto ma siamo lontani
dal dire che va tutto bene». Di scuola e sicurezza si parla dopo un crollo o un terremoto.
Resta la disparità fra fabbisogno di finanziamenti e fondi stanziati. Anzi, peggio, si fatica
anche ad avere un quadro chiaro della situazione perché la frammentazione delle
competenze e dei canali di finanziamento cui i Comuni possono accedere è infinita.
Pietra miliare, legata alla tragedia dello studente morto a Rivoli, nel Torinese, è il 2009.
Subito dopo è scattato il «censimento» degli edifici scolastici. Il Veneto contava 1.884
edifici bisognosi di interventi strutturali sui 3.800 totali. Si dichiaravano ammissibili 503
interventi richiesti per un fabbisogno di 443 milioni. Ne sono stati finanziati solo 94 per
186 edifici, il 10 per cento. I provvedimenti della «Buona scuola» hanno cercato di dare
una risposta. L’«anno d’oro» se così si può dire, è stato il 2015 con una novantina di
milioni di euro destinati alle scuole venete. Non si tratta, però, di un’unica linea di
finanziamento. Alla voce «Bella Scuola» sono ascrivibili 2.621.213 euro (per interventi
non strutturali come ridipinture ecc), 15.876.865 euro, sempre per il Veneto (sul totale
nazionale stanziato di 122), appartengono al capitolo «#scuolesicure» e qui si parla di
interventi più corposi, dalla messa a norma del sistema elettrico alla messa in sicurezza
antisismica. La parte del leone, però, sono i quasi 69 milioni di euro (sui 400 totali)
assegnati alla regione attraverso la formula dei «Mutui Bei», cioè soldi che la Banca
Europea degli investimenti presta al Governo italiano e che attraverso diversi passaggi
con Miur, Cassa depositi e prestiti e Regioni, arrivano ai singoli Comuni per interventi
sull’edilizia scolastica. E si premiano in graduatoria i Comuni che chiedono mutui Bei solo
parziali finanziando con altre voci le quote restanti. Al conto vanno aggiunti 1,5 milioni di
euro stanziati nel 2015 dalla Regione Veneto più, proprio due settimane fa, 150mila euro
per le scuole paritarie, lasciando alle associazioni che le rappresentano il compito di
comunicare le priorità di intervento. Una mappa composita e incompleta che non riesce
a comprendere i singoli interventi dei Comuni, soldi che le amministrazioni usano
direttamente ad ogni «finestra» disponibile. Con la condizione del placet europeo, le
deroghe ai «limiti di spesa» dei Comuni si traducono in avanzi di bilancio destinati quasi
sempre proprio a sistemare, pezzo a pezzo, il patrimonio scolastico. «Negli ultimi 20
anni – spiega Pier Antonio Tomasi, consigliere dell’Anci nazionale e già vice presidente di
Anci Veneto - l’incremento demografico si è tradotto in una nuova scuola quasi in ogni
comune. Uno dei settori in cui si è investito molto di più rispetto al passato è la scuola
dell’infanzia. Nel mio comune, Marcon, nel Veneziano, se ne sono costruite 3 in 15
anni». Anche Maria Rosa Pavanello, presidente Anci Veneto riconosce «sono stati fatti
grandi passi avanti negli ultimi 5 anni». «La soluzione, per molti Comuni – spiega
Pavanello – è stato proprio l’accesso a quegli spazi legati allo sblocco dei fondi propri,
l’importante era avere progetti pronti sia per nuove scuole che per ampliamenti o
adeguamenti. Dal 2014 funziona così. Stiamo andando nella direzione giusta tanto più
che la Regione nel 2013 ha realizzato un vero e proprio censimento dell’esistente. I
problemi più grossi naturalmente sono legati alle scuole ospitate in edifici storici come le
ville venete o di epoca fascista». Quindi che fanno i sindaci? Tengono d’occhio le buone
occasioni per così dire, e le acchiappano al volo.
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Il sì, il no e i toni sbagliati di Luciano Fontana
Più razionalità
Una campagna elettorale senza fine. Iniziata addirittura prima delle Amministrative del
giugno scorso e destinata a durare fino a dicembre. I suoi effetti di paralisi sul sistema
politico, parlamentare ed economico li ha illustrati bene Antonio Polito in un suo
editoriale (giovedì 6 ottobre). Un’ulteriore riflessione meritano i toni che questa
campagna ha assunto dal giorno in cui i cambiamenti costituzionali sono stati presentati
come la «madre di tutte le riforme». Quella che avrebbe rivoluzionato il Paese e deciso il
destino del governo e dell’attuale Presidente del Consiglio. Un voto su una riforma
costituzionale imperfetta, con alcuni aspetti positivi e soluzioni a volte pasticciate (sul
nuovo Senato, sul processo legislativo, sull’elezione del Presidente della Repubblica), si è
trasformato così in una guerra di religione. Il merito è svanito in nome della battaglia
politica per abbattere il nemico. La resa dei conti all’interno del Pd ne è la dimostrazione
più evidente: scontro sulla leadership, odi personali e divisioni sull’identità futura del
partito sono ormai un groviglio inestricabile. Il risultato è la contrapposizione di due
fronti variegati in cui le distinzioni classiche destra-sinistra, conservatori-progressisti
sono completamente saltate. Da un lato combattono i custodi di una «Costituzione
intoccabile», anche se nella storia repubblicana è stata toccata più volte. Al loro fianco
chi chiede di votare «No» vagheggiando commissioni bicamerali o legislature costituenti.
Credo sia chiaro che, vista la lentezza della politica italiana, se la riforma sarà bocciata ci
vorrà molto tempo prima che qualcosa di diverso si rimetta in moto. Come è altrettanto
chiaro che questa revisione costituzionale non porterà a una dittatura dell’esecutivo
azzerando il bilanciamento tra i poteri dello Stato. Sull’altro fronte c’è chi afferma che
senza il «Sì» il Paese si paralizzerà: dal 4 dicembre ogni riforma diventerà impossibile.
Un «giudizio di Dio» sul destino dell’Italia. Autorevoli personalità del giornalismo e
dell’establishment internazionale hanno avallato una tesi così spericolata. Anche in
questo caso la battaglia di fazione oscura i fatti e la ragionevolezza. Con la Costituzione
del dopoguerra abbiamo affrontato la ricostruzione, accompagnato il boom economico
degli Anni 60, affrontato l’impresa dell’entrata nell’euro. Sono state votate leggi
importanti che hanno cambiato nel profondo la nostra società. Certamente la vittoria del
«No» impedirebbe una migliore divisione dei poteri tra Stato e Regioni. Ma l’assenza o il
rinvio di riforme decisive (su tasse, burocrazia, tempi e modi della giustizia, ricerca,
investimenti sulla formazione) pesano certamente di più nella mancata modernizzazione
dell’Italia. Allora la speranza, a questo punto flebile, è che i cinquanta giorni di
campagna referendaria siano utilizzati per spiegare e comprendere meglio su che cosa
andiamo a votare. Togliendo dal campo argomenti apocalittici che infiammano le platee
ma creano danni all’immagine del Paese. E permettono, tra l’altro, a qualche speculatore
di guadagnare su mercati in costante fibrillazione. Dopo il 4 dicembre non arriverà la
dittatura e non ci sarà la fine del mondo. Gli italiani devono giudicare una riforma,
punto. Il «Corriere» continuerà a fare la sua parte per aiutare i lettori a decidere con
libertà e consapevolezza.
Pag 5 Il 4 dicembre come prova generale delle elezioni di Massimo Franco
L’unica cosa chiara, nel fumo polemico che si sprigiona dal Pd, è che «dalla mezzanotte
del 4 dicembre tutti penseranno alle elezioni...». Dicendolo, l’ex segretario Pier Luigi
Bersani si riferisce anche a sé. E infatti aggiunge: «Non è detto che, se vince il Sì, il Pd
poi vincerà le elezioni». Ma tutto sembra destinato ad accelerarsi una volta finita la
consultazione: per ognuno dei protagonisti e dei comprimari di questa fase politica.
Congresso dem, eventuale scissione, ruolo di Matteo Renzi, prospettive della legislatura,
rapporti con il M5S: sono problemi che emergeranno subito dopo. Ma non prima. Per
questo la minoranza dem per ora si è limitata a minacciare un’uscita dal partito, e lo
stesso Renzi continua a usare parole di formale apertura alle ragioni degli avversari
interni. Sono gli imperativi di una logica referendaria che cerca di salvare almeno il
simulacro dell’unità interna; ma in realtà ha già un sapore elettorale. Il voto del 4
dicembre viene considerato come un surrogato e un anticipo di quello politico. Il
contorno di ricorsi ai Tribunali amministrativi contro la formulazione dei quesiti, le
accuse al governo di monopolizzare la tv di Stato, e di usare strumentalmente le misure
economiche, ne sono appendici naturali. La stessa decisione di una par condicio tra
fautori del Sì e del No nelle apparizioni televisive ricalca garanzie elettorali. Il tentativo
dei Cinque Stelle è di accreditare una partita truccata: un’operazione imitata da alcuni
settori di Forza Italia che invocano perfino la presenza di osservatori internazionali per
garantire la regolarità del referendum. L’obiettivo è di screditare Palazzo Chigi e il «suo»
referendum, additando tutte le forzature, vere o presunte, che sarebbero compiute dal
premier. Ecco perché, nei giorni scorsi, i sindaci grillini hanno minacciato di abbandonare
l’Anci, l’Associazione dei Comuni italiani. L’accusa è quella di essere «un club del Pd»:
tranne poi precisare che il M5S deciderà a gennaio, quando saranno chiari numeri e
rapporti di forza. E ieri è arrivato l’ennesimo blog velenoso di Beppe Grillo, stavolta
contro il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Renzi, a sentire il leader del M5S, gli
avrebbe «dato mandato di forzare sulle previsioni di crescita. E magicamente il governo
trova i soldi per elargire le solite mancette...». È il tema più controverso e scivoloso, per
un premier alle prese con i vincoli europei e con un’economia che non riesce a dare veri
segnali di ripresa. Per questo i Cinque Stelle martellano su Padoan, facendosi forti delle
perplessità espresse anche a livello istituzionale sui numeri di Palazzo Chigi. E poi,
tenere i toni alti su questo tema serve a Grillo per distogliere l’attenzione dal pasticcio
delle firme false che, secondo l’accusa, sarebbero state scoperte nelle liste presentate
dal M5S in Sicilia nel 2012.
Pag 5 La sinistra e il tormento della scissione infinita di Pierluigi Battista
No, la scissione mai, dicono. Giammai. Neanche per sogno. Ci devono cacciare. Devono
chiamare l’esercito. Eppure nel Pd riaffiora un incubo, un’ossessione, una maledizione
che non abbandona mai la sinistra. Anche in Gran Bretagna i laburisti blairiani sono
tentati dalla scissione con la maggioranza di Corbyn che ha conquistato il Labour. In
Germania i socialdemocratici sono in crisi nera da quando è spuntata la scissione di
Oskar Lafontaine. La sinistra italiana ha la pulsione della scissione. Un impulso
potentissimo che ha costellato la sua storia di rotture, separazioni, frammentazioni. Il Pd
forse non è sull’orlo della scissione, come dicono tutti, e si capisce l’insofferenza di
Bersani verso le voci che ne prefigurano l’ineluttabilità. Eppure c’è sempre quell’ombra.
Quel tarlo che corrode da sempre i partiti costruiti su basi ideologiche, e la sinistra, che
lo voglia o no, è la regina della politica ideologica. Scissione, in fondo, non è che la
versione secolare e mondana dello scisma. E colpisce i movimenti fortemente identitari,
quelli più portati a una visione trasformatrice, rigeneratrice, messianica del futuro e
meno i partiti più pragmatici. La Democrazia cristiana, che pure la simbologia religiosa la
portava sin dal nome, non viveva di scissioni, perché al suo interno convivevano
pragmaticamente anime diversissime e addirittura contrapposte tra loro. Quante
differenze tra Moro, Andreotti, Fanfani: ma c’erano le correnti che erano tanti partiti in
un partito e non si separavano mai. Anche Dossetti era molto ideologico, vedeva nella
politica la fonte di una rinascita millenaristica: lui se ne andò ma i dossettiani rimasero e
non pensarono mai di scindersi dai dorotei, o dagli andreottiani, o dai morotei, dalla
destra moderatissima e clericale e dalla sinistra cattocomunista del partito. Lo Scudo
crociato era la corazza comune, ma mai con la scissione incorporata. Anche a destra
l’ossessione della scissione colpiva il partito più ideologico di tutti, il Msi, che infatti visse
numerose, violente separazioni, da Ordine nuovo negli anni Cinquanta, a Democrazia
nazionale negli anni Settanta. Ma la sinistra è stata l’atmosfera propizia, il terreno fertile
di ogni scissionismo. Il Partito comunista nasce a Livorno da una clamorosa scissione e
subito dovette difendersi dalla smania scissionistica dei seguaci di Amadeo Bordiga. Il
Partito socialista ha avuto una vitalità scissionistica molto pronunciata. Finita la guerra, il
frontismo filocomunista di Pietro Nenni scatenò la scissione socialdemocratica di
Giuseppe Saragat, che non voleva la subalternità della sinistra socialista allo strapotere
di quella comunista. Poi, con la nascita del centrosinistra, il socialismo nenniano
seppellisce definitivamente la stagione frontista (grazie anche alla rottura del ’56 con
l’invasione sovietica dell’Ungheria) con il comunismo togliattiano e con l’ingresso nel
governo con la Dc nasce per protesta il Psiup. Si tenta la riunificazione socialista, Psu,
che rimettere sotto lo stesso tetto il Psi e il Psdi, ma alle elezioni è un tracollo, e il Psiup,
dopo una disastrosa prova elettorale nel 1972, confluisce nel Pci. Ma non basta, c’è
ancora un altro capitolo di questa vertigine scissionistica, perché una parte di psiuppini,
capeggiati da Vittorio Foa, non vuole farsi riassorbire dal Pci e dà perciò vita al Pdup, che
con l’unificazione (provvisoria) con Il manifesto prende il nome di Pdup per il
comunismo. Inutile parlare della febbre scissionista dei gruppi della sinistra
extraparlamentare perché uno studioso delle dinamiche politiche a sinistra degli anni
Settanta potrebbe impazzire per individuare qualche differenza significativa tra Pcd’I
linea rossa, Pcd’I linea nera, Servire il popolo e Stella rossa (forse qualcuno era più
stalinista che maoista, qualcun altro più maoista che stalinista, chissà). Ma con la
scissione del Pci dopo la Bolognina il partito della Rifondazione comunista che ne è
scaturito si è a sua volta ripetutamente scisso, prima con Diliberto, poi con Vendola (a
sua volta sostenuto dagli scissionisti Pd di Fabio Mussi) da una parte e Ferrero dall’altra,
senza dimenticare Marco Rizzo. Un’ossessione, un’ombra. Un incubo che, si capisce, si
cerca di scacciare via.
Pag 9 Incidente o provocazione. I rischi che corriamo quando rullano i tamburi
di Franco Venturini
La guerra atomica non è dietro l’angolo, ma Vladimir Putin sfrutta il brusco
aggravamento delle tensioni Est-Ovest per scaricare all’esterno i problemi interni della
Russia e per rafforzare ulteriormente la sua figura di condottiero. Si spiega così il clima
di allarme rosso che prende piede in Russia con la benedizione delle autorità, ma
saremmo pericolosamente miopi se pensassimo che dietro il rumor di sciabole che
continua a crescere in particolare tra Russia e Stati Uniti vi siano soltanto motivazioni
tattiche. Una guerra voluta e prevista non è imminente, è bene ripeterlo. Ma sono
enormemente aumentate le possibilità di una guerra dovuta a incidenti o a provocazioni.
E la politica, in Russia ma anche negli Usa e in alcune contrade europee, non sembra in
grado di controllare fino in fondo il bellicoso arcipelago abitato da militari, da servizi, da
industrie della difesa, da falchi nazionalisti che odiano la diplomazia e adorano il grilletto.
Questa evoluzione, se vogliamo chiamarla così, è in atto su entrambi i fronti da due anni
e mezzo, da quando Putin, assumendosi una pesante responsabilità, decise di annettersi
la Crimea. Ma è in queste ultime settimane che una improvvisa escalation ha avuto
luogo. Le accuse sempre più circostanziate sulle interferenze degli hacker russi nella
campagna elettorale americana, il fallimento della tregua in Siria dopo l’iniziale accordo
tra Kerry e Lavrov, lo schieramento recentissimo di missili Iskander a capacità nucleare
nell’enclave russa di Kaliningrad, la moltiplicazione dei voli militari russi al limite degli
spazi aerei dei Paesi della Nato, e soprattutto l’appoggio russo al selvaggio
bombardamento siriano di Aleppo, sono stati accompagnati da accuse verbali che
nemmeno durante la guerra fredda venivano utilizzate. In Occidente voci autorevoli
suggeriscono che la Russia dovrebbe rispondere di crimini di guerra per la mattanza di
Aleppo. A Mosca, con una espressione che agli intenditori è parsa ancor più minacciosa,
è stato fatto presente che l’aggressività americana pregiudica gli interessi nazionali della
Russia. E se si considera che la probabile (e auspicabile) prossima presidente degli Stati
Uniti ha sempre avuto rapporti a dir poco tesi con Putin, diventa lecito domandarsi verso
quale imminente futuro si stiano muovendo le relazioni russo-americane e dunque
russo-europee. Un rimedio alla tensione tra le due superpotenze nucleari, e al pericolo
terrificante che essa possa andare fuori controllo, potrebbe venire dalla rinuncia alla
propaganda. Prendiamo i missili russi schierati (forse provvisoriamente) a Kaliningrad.
Gli esperti militari occidentali prevedevano questa mossa da quando, l’estate scorsa,
sono cominciati in Polonia i lavori per una base di missili intercettori della Nato. Oppure
guardiamo bene a cosa è accaduto dopo la proclamazione della tregua d’armi in Siria. Il
primo strappo importante è stato un bombardamento della coalizione guidata dagli Usa
contro postazioni militari siriane. Washington ha subito spiegato che si era trattato di un
errore, peraltro poco credibile. Ma è dopo questo episodio che la furia siriana (e russa) si
sono scatenate contro il convoglio degli aiuti Onu, e di nuovo, giorno dopo giorno, contro
la popolazione civile di Aleppo. Non vogliamo dire qui che le colpe «originali» siano
prevalentemente americane. Ed è fuor di dubbio che i metodi alla Grozny appartengano
alla Russia e ai suoi amici siriani, non agli occidentali. Ma in tema di Siria non è forse
risultato chiaro che il Pentagono si opponeva con tutte le sue forze all’intesa che il capo
del Dipartimento di Stato aveva concluso con i russi? È troppo audace supporre che
l’inverosimile «errore» dei bombardieri avesse in animo proprio di far saltare quella
intesa? È infondato constatare (non soltanto sulla Siria, ma anche sull’Afghanistan) che il
presidente Obama ondeggia tra Pentagono e Dipartimento di Stato? Considerazioni non
troppo diverse, malgrado l’apparenza di un Putin onnipotente, possono essere avanzate
sul fronte opposto. I militari russi sono oggi più che mai protagonisti della politica del
presidente. Lo stesso è probabilmente vero per i servizi dai quali Putin proviene, e i
ricambi di personale attuati nel suo «primo cerchio» dal capo del Cremlino prima delle
elezioni legislative, dai più interpretati come mosse tattiche alla vigilia della
consultazione, potrebbero invece essere segnali di debolezza, sintomi di una leadership
meno solida rispetto al periodo pre-Ucraina, pre-Siria e pre-sanzioni. Se si vogliono
evitare conseguenze peggiori nel contrasto ormai frontale tra Est e Ovest, la politica e la
verità devono ritrovare il loro ruolo e i tamburi devono rullar e un po’ meno. Di qua e di
là.
Pag 19 L’inno bistrattato di Mameli, “provvisorio” da 70 anni di Gian Antonio
Stella
Il canto degli italiani
Ombretta Colli e il complesso jè-jè «Gli Ambulanti», una sera stramba di tanto tempo fa
in una discoteca di Como, ne fecero una canzonetta e invitarono tutti a ballarla.
L’orchestra chiamata a suonare gli inni a Wembley per Inghilterra-Italia sbagliò tutto e
intonò la Marcia Reale dei Savoia in esilio. Michael Schumacher ci giocò come fosse una
marcetta mandando in bestia Francesco Cossiga. E in un sondaggio tivù del 1986 gli
italiani riconobbero di amarlo «pur apprezzando» anche «Fin che la barca va» e «Il
materasso». Il povero Goffredo Mameli, però, tornasse in vita masticherebbe amaro per
qualcosa di più offensivo verso il suo inno: da settant’anni esatti il « Canto degli italiani»
, noto come «Fratelli d’Italia» , è provvisorio. Irrimediabilmente provvisorio. Giusto
simbolo, se mai ce ne fosse bisogno, di un Paese che, oltre a San Francesco, riconosce
come patrono San Precario. Da quel 12 ottobre 1946 in cui il Consiglio dei ministri decise
che alla celebrazione del 4 novembre si adottasse «provvisoriamente» quell’inno che già
era «provvisorio» dall’8 settembre 1943, il «Canto» musicato da Michele Novaro e scritto
da Goffredo Mameli (anche se c’è chi, alzando un polverone, ne ha attribuito la «brutta
copia» al padre scolopio Atanasio Canata) non è ancora riuscito a ottenere il marchio di
definitivo. Quattro legislature e 16 proposte di legge, infatti, come spiegava mesi fa
Ferdinando Regis, non sono bastate ancora a portare al traguardo l’idea rilanciata
quando stava al Quirinale da Carlo Azeglio Ciampi, il più deciso a impugnare il vessillo
della canzone risorgimentale, soprattutto dopo le figuracce della Nazionale di calcio che
in varie occasioni aveva fatto scena muta. Per non dire degli insulti leghisti e di
strampalate iniziative come quella di don Gianni Baget Bozzo, il cappellano di Berlusconi,
autore di un estasiato remake: «Fratelli d’Italia, l’Italia s’è destra / Segni e Pannella han
perso la testa / Dov’è la sinistra, ci porga la chioma / che schiava di Silvio Iddio la creò».
Esaltato da Giosue Carducci più per patriottismo che per ammirazione letteraria (parlava
delle poesie del giovane irredentista come di «rigatteria romantica» ma spiegò che quel
canto «gli era balzato fuori dal cuore ardente, nella primavera della sua vita e della
nostra rivoluzione») l’inno di Mameli non ha mai goduto, in effetti, nella sua storia, di
una considerazione artistica pari all’amore dei patrioti. E ha sofferto più volte
l’umiliazione di chi suggeriva di sostituirlo via via con «Addio, mia bella addio», «La
canzone del Piave», «La canzone del Grappa», «La campana di San Giusto», il «Va,
pensiero» dal Nabucco o altro ancora. Senza dar peso alla popolarità conquistata subito
dall’inno. È gonfio di retorica e trabocca di parole obsolete? Sì, quelli erano i tempi.
«Datemi ancor l’eburnea mano, vo’ fare ammenda / Vi credea (perdonate se il mio
pensiero è fello) / quella vil cortigiana che è la sposa d’Otello», dice il libretto di Arrigo
Boito. Eppure nessuno ride dell’Otello e di Giuseppe Verdi. Ma a Goffredo Mameli poco è
stato perdonato. Spiegò anni fa a Jacopo Jacoboni Goffredo Fofi, che pure portava il
nome dell’autore: «Noi dei gruppi extraparlamentari ci sentivamo una retorica
patriottarda, era usato nei film militareschi e parafascisti del dopoguerra… Cantavamo
altro». E Marco Revelli: «Se ce l’avessero chiesto a scuola, Mameli non l’avremmo
cantato. In piazza lo contestavamo in nome dell’internazionalismo. Non sapevamo
neanche che era stato un eroe, e pure radicale, della Repubblica romana…». Ha scritto
Luigi Pintor nel libro «La Signora Kirchgessner»: «Goffredo Mameli ha scritto un inno che
dura da centocinquant’anni e non è poco. Aveva un viso triste e una grande barba, per
sua fortuna non ha avuto biografi». Eppure il ritratto che ne fanno gli storici, per quanto
lontani dall’agiografia, ricostruiscono la vita di un ragazzo che non merita certe ironie
feroci o peggio certi titoli come quello del quotidiano leghista («Mameli, primo ladro della
storia d’Italia») di qualche anno fa. Figlio di un tenente di vascello della marina sarda e
di una signora genovese coltissima con un paio di dogi in famiglia, ammiratore di
Giovanni Prati che rideva degli austriaci giocando sull’anagramma di Italia («Oh, Atilia!
Noi ti torrem la veste dolorosa. / Sarà il tuo crin de’ più bei fiori adorno / e tu
risplenderai novella sposa»), irredentista e mazziniano, il giovane Goffredo cominciò a
scagliare i versi del suo entusiasmo patriottico prima ancora d’avere vent’anni e scrisse il
«Canto degli italiani» due mesi dopo averli compiuti. Forse, se la sorte gli avesse
concesso più tempo, anche la sua arte si sarebbe affinata. Alla prima guerra
d’indipendenza, nel 1848, lui c’era. Con una colonna di mezzo migliaio di ragazzi
genovesi. L’anno dopo era a Roma, a difendere la Repubblica romana al fianco di
Giuseppe Garibaldi. Ferito a una gamba nella difesa della Villa del Vascello sul Gianicolo,
forse da una pallottola «amica», venne in pochi giorni assalito da violentissime febbri.
L’amputazione della gamba, per contenere la cancrena, non servì a niente. Durò oltre un
mese, il calvario di quel ragazzo. Se ne andò il 6 luglio 1849. Non aveva ancora ventidue
anni. E forse perfino chi non crede nei suoi ideali di allora o irride a quelle parole gonfie
di passione guerresca (che solo Roberto Benigni tentò qualche anno fa di spiegare con
parole d’oggi in una straordinaria serata a Sanremo) dovrebbe avere un po’ di rispetto.
Pag 26 L’eccesso di decisionismo di Renzi sul referendum di Paolo Franchi
Dice bene Aldo Cazzullo (Corriere, 5 ottobre): in questi tempi calamitosi è molto
imprudente sotto ogni cielo, per governi e capi di governo, sottoporsi al giudizio
popolare mediante referendum. Tra tutti gli esempi che Cazzullo fa, per compararli al
caso italiano, il più calzante è ovviamente quello di Cameron, che, sul no alla Brexit, ha
puntato tutto in una volta sola e in una volta sola ha perso tutto. Matteo Renzi, come è
noto, aveva fatto la medesima scelta sul referendum costituzionale o, per essere più
precisi, sul combinato disposto tra il referendum e l’Italicum: in caso di sconfitta, non
solo lascio la guida del governo, ma abbandono la politica. Da qualche tempo, si sa, ha
corretto (anche se a giorni alterni) il tiro, un po’ per le autorevoli sollecitazioni del
presidente della Repubblica in carica e del presidente emerito, un po’ perché deve
essersi reso conto di aver imboccato una strada assai perigliosa. Nessun combinato
disposto, per cominciare: alla legge elettorale si può rimettere mano, e fa nulla se il
governo, caso più unico che raro, per approvarla ha posto in più circostanze la fiducia.
Quanto alla riforma costituzionale, niente di personale, ci mancherebbe. Di più: aver
messo sul piatto con tanta forza le proprie sorti di premier e di leader di partito è stato
un errore che ha fornito armi propagandistiche ai sostenitori del No. I quali però, lungi
dal prendere cavallerescamente atto della sua pubblica (semi) ammenda, continuano
imperterriti a rinfacciarglielo e a personalizzare una contesa che invece, come insegna il
galateo politico e istituzionale, dovrebbe avere per oggetto il merito dei cambiamenti
introdotti. Lasciamo pure da parte il fatto che in politica la cavalleria non è di casa, e, se
sbagli, anche se è vero che errare è umano, nessuno, neanche chi, come la minoranza
del Pd, ha sbagliato più di te, ti perdonerà l’errore. Ed evitiamo anche di soffermarci,
visto che la percentuale degli indecisi è ancora altissima, su quanto rendono noto i
sondaggi di Nando Pagnoncelli, ripresi da Cazzullo, secondo i quali gli elettori in
maggioranza approvano i singoli capitoli della riforma, ma chiamati a pronunciarsi sul
suo insieme propendono per il No. Forse è proprio la categoria dell’«errore», salita
all’onore delle cronache e delle analisi politiche dopo l’intervento di Giorgio Napolitano
alla scuola di politica del Pd, a funzionare poco. Nei congressi democristiani, quando
eravamo più giovani, si diceva, anche se la realtà sembrava quanto meno più
complessa, che la Dc era «sempre tesa» verso qualche nobile obiettivo; in quelli
comunisti che, «nonostante errori, limiti, ritardi e contraddizioni», la linea del partito si
era rivelata saggia e giusta. Ma erano, appunto, altri tempi, tempi in cui formule come
quella democristiana del «progresso senza avventure» o quella togliattiana del
«rinnovamento nella continuità» avevano un senso, eccome, agli occhi non solo dei
militanti, ma di milioni di elettori. Da allora tutto è cambiato, anche se non
necessariamente in meglio. A nessuno passerebbe per la testa di sostenere che il futuro
ha un cuore antico, anche le decisioni più importanti - comprese quelle che riguardano
non solo i viventi, ma pure le generazioni a venire, come è, o dovrebbe essere, per le
Costituzioni - hanno un orizzonte temporale molto limitato, che grosso modo coincide
con quello politico di chi le prende, e spesso confonde il presente con l’eternità. E la
tentazione di mettere politicamente in gioco la testa per vedere consacrata la propria
leadership in rapporto diretto, anzi, in comunione con il popolo sovrano rischia di farsi
irresistibile, almeno per chi si considera, e vuole essere considerato, un uomo politico di
tipo nuovo, del tutto diverso dai suoi predecessori e dalla gran parte dei suoi colleghi.
Bettino Craxi, alla vigilia del referendum sul decreto di San Valentino sulla scala mobile,
promosso dai comunisti contro di lui, disse che, in caso di vittoria dei No, si sarebbe
dimesso da presidente del Consiglio un minuto dopo aver appreso il risultato: e questa
affermazione, all’epoca, parve a molti troppo forte. Il Renzi di qualche mese fa ha detto
la stessa cosa, ma con una differenza sostanziale: il referendum il presidente del
Consiglio lo ha fortissimamente voluto e, per così dire, improntato di sé, non certo
subito, come fu per il pur «decisionista» Bettino. Nel senso che lo ha caricato della sua
concezione della politica, del potere, dello stile di comando, del rapporto tra governanti e
governati. In una parola, di se stesso. Prendere o lasciare. Se vinco, vinco tutto. Se
perdo, perdo tutto. Un errore? Può darsi. Ma, nel caso, un errore di sostanza, una volta
si sarebbe detto di visione del mondo e di strategia, non certo di tattica elettorale, e
dunque assai difficile da correggere in corso d’opera. Forse è per questo, nonostante la
memoria si sia fatta molto corta, che la grande maggioranza degli italiani che
sostengono Renzi, esattamente come la grande maggioranza di quelli che lo avversano,
faticano tanto ad archiviarlo, e continuano a pensare al referendum come a un giudizio
di Dio. Anche se vengono esortati quotidianamente, e giustamente, a votare da cittadini
responsabili, e non da tifosi.
AVVENIRE
Pag 1 La buona strada di Francesco Ognibene
Un bel giorno per tutte e tutti
Cinque no consecutivi possono bastare per una bocciatura senza più appello?
L’indiscutibile soddisfazione per il successo di chi s’è battuto al Consiglio d’Europa sin dal
primo voto in marzo contro il Rapporto De Sutter, che puntava a far legalizzare la
maternità surrogata nei 47 Paesi membri, deve fare i conti con l’incredibile bizantinismo
di un’estenuante procedura allestita per far passare a ogni costo l’inaccettabile testo
della senatrice ambientalista belga, peraltro personalmente (e pubblicamente)
interessata al mercato della surrogazione di maternità. Così a quel primo, sorprendente
ma perentorio rigetto di sette mesi fa si è riusciti a far seguire ben quattro altri confronti
in commissione e in assemblea, come non dandosi pace per le ripetute battaglie perse
quando si dava per scontata la conquista del nuovo 'diritto' di comprarsi il figlio
'prodotto' e 'selezionato' con le caratteristiche prescelte e portato dal grembo a noleggio
di una donna ridotta a fattrice. Si è andati avanti da una battaglia all’altra, da una parte
chi mai si è rassegnato davanti a ogni nuova sconfitta proponendo riscritture in
sequenza del testo già respinto e aggrappandosi a sofismi apparentemente buonisti
come i «diritti dei bambini» basati sull’accettazione del fatto compiuto, dall’altra la
tenacia di un fronte cresciuto nel tempo e che nella delegazione italiana è stato a viso
aperto e convintamente trasversale, dalle femministe a Fi, dal centrosinistra (Pd in
primis) ai grillini. L’atto finale di ieri a Strasburgo ha visto un nuovo, faticoso ma limpido
successo per quanti credono che l’utero in affitto – in qualunque forma, e senza
eccezioni – sia incompatibile con la dignità della donna, la protezione dei bambini, con la
stessa civiltà umana, certamente d’ora in avanti con quella europea. Il fronte dei
'legalizzatori', che già nel dicembre 2015 si era misurato con il netto rifiuto della
surrogazione espresso dal Parlamento europeo nel voto dell’annuale Rapporto sui diritti
umani, sembra essersi finalmente arreso nell’assemblea politica continentale, che si
intendeva utilizzare per far entrare nelle legislazioni nazionali anche questa
manomissione del diritto e del buon senso. Ma la realtà, che spesso abbiamo raccontato
e denunciato sulle nostre pagine, è lì ad avvertirci che per una disfatta politica – si può
definire altrimenti l’ostinazione a farsi dire di no? – ci sono dieci risultati di tutt’altro
tenore spuntati in giudizio. Diversi tribunali italiani – al pari di alcuni francesi, peraltro –
fanno finta che non viga nell’ordinamento giuridico interno un chiaro divieto di maternità
surrogata, chiudendo entrambi gli occhi «nell’interesse del minore » quando una coppia
di nostri connazionali (eterosssuale od omosessuale) si presenta alla frontiera con un
bebè commissionato a qualche clinica ucraina, indiana o russa e partorito da una donna
affittata in Nord America o nel Sud del mondo. Il doppio binario della surrogazione –
stop politico europeo (oltre che legislativo italiano), via libera giudiziario nazionale – è
da ieri ufficialmente un nodo intollerabile che va sciolto con urgenza anzitutto facendola
finita con le sottigliezze e le ipocrisie che promuovono come esemplari casi del tutto
aneddotici di surrogazione volontaria. Troppo a lungo si è tentato di mescolare le carte –
come ha invano tentato di fare anche De Sutter – lavorando sulla presunta differenza tra
utero in affitto 'commerciale' e 'gratuito'. Ora almeno è chiaro che non si può giocare
con la realtà: i contratti di maternità surrogata, quasi sempre dotati di una selva di
clausole dal sapore schiavistico per la donna-incubatrice, hanno come protagonisti un
bambino e una madre, geneticamente estranei ma inseparabili per la vita in forza di quei
nove mesi di vita all’unisono. Nessun accordo può recidere questo legame naturale. Il
tesoro e il segreto più prezioso della nostra umanità racchiuso nella generazione di una
nuova vita e custodito dalla donna va rispettato senza sovrapporgli le astuzie imposte
dal mercato dei desideri trasformati in pretese pagabili con bonifico bancario. L’Europa,
che al quinto round dice no e basta, impone anche all’Italia di prendere una posizione
chiara. Mozioni e ordini del giorno, pur nobili, non bastano più: è l’ora di un divieto
chiaro e non aggirabile all’utero in affitto. Strasburgo, stavolta, ha indicato con lucidità e
coraggio la buona strada.
Pag 3 Il dolore dei dalit cristiani nell’India delle nuove caste di Stefano Vecchia
Violenze ed esclusioni, così colpisce il nazionalismo
Lo scorso mese di agosto il massimo tribunale del Gujarat ha dichiarato illegittima
l’ordinanza con cui l’esecutivo locale guidato dalla signora Anandiben Patel, nazionalista,
erede nella carica dell’attuale primo ministro indiano Narendra Modi, aveva deciso di
riservare il 10% delle iscrizioni scolastiche a appartenenti a caste tradizionalmente
considerate benestanti o comunque influenti. Una decisione che di fatto riduce le quote
riservate ai gruppi svantaggiati, e che è facilmente leggibile nel senso di garantire invece
privilegi a gruppi da cui esce la maggior parte della leadership del Bharatiya Janata Party
(Bjp), il partito al potere, e dei movimenti dell’induismo militante, ma che è anche
coerente con la situazione che vede le alte caste in arretramento sul piano sociale e
soprattutto economico. Una settimana dopo, però, la Corte suprema indiana ha ribaltato
la sentenza, decidendo di accogliere la richiesta avanzata dal governo del Gujarat. Una
decisione in sé storica, ma che – al di là di quelle che ne saranno le conseguenze
pratiche a livello locale e centrale – solleva perplessità e accentua le molte
contraddizioni dell’immensa India. L’India moderna subisce la sua eredità castale che ha
trovato nei secoli una incredibile capacità di riprodursi e contemporaneamente di
riprodurre la sua necessità culturale. Al punto da affiancarsi a concezioni socio-religiose
d’importazione, anche quando queste - con la dominazione musulmana e britannica l’hanno segregata nell’illegalità e cercato di contenerne il ruolo. La persistenza di
centinaia di caste a base clanica, professionale, geografica è negata dalla Costituzione
del 1950 che nell’articolo 15 proibisce ogni discriminazione basata su religione, razza,
casta, sesso, luogo d’origine, e nell’art. 16 stabilisce pari opportunità tra tutti i cittadini
rispetto agli impieghi pubblici. Come conseguenza, la legge ha garantito a una
complessa serie di gruppi variamente sfavoriti dalla dalla propria condizione socioeconomica impieghi pubblici; accesso a scuole, università, servizi socio-sanitari; tessere
alimentari. Da tempo, anche i gruppi di origine dalit (gli ex 'intoccabili', fuoricasta nel
sistema socioreligioso tradizionale) cristiani e musulmani chiedono che a essi siano
estesi i privilegi previsti per i dalit indù o di fedi minoritarie derivate dall’induismo, ma
inutilmente. La decisione del governo del Gujarat, inoltre, avrebbe come conseguenza
una frammentazione sul piano educativo delle garanzie fornite ai meno privilegiati e su
questo aspetto aveva sentenziato in modo negativo l’Alta corte del Gujarat. La decisione
della Corte suprema, il 9 settembre, ha invece tenuto conto delle reali condizioni di
arretratezza all’interno delle caste più elevate in un contesto che da tempo non
garantisce benessere e privilegi un tempo certi. L’espandersi di nuovi stili di vita ha di
fatto reso inutili molti funzioni e privilegi della casta sacerdotale, ad esempio. Reazione
sfavorevole alla sentenza della Corte suprema è arrivata da diversi esponenti religiosi.
Tra questi, il segretario della Commissione per i dalit e per i popoli indigeni della
Conferenza episcopale cattolica indiana, padre Z. Devasagayaraj. Il sacerdote-attivista
ha indicato come la decisione contrasti con la pretesa di migliorare le condizioni di
settori sfavoriti della società. «Il sistema di quote è a tutela dei più deboli, degli
emarginati, ma chi è di alta casta non è emarginato sociale, ha una posizione certa nella
società», ha commentato padre Devasagayaraj. La comunità cristiana, il 2,3% dell’intera
popolazione di 1,2 miliardi non è a sua volta omogenea e le linee di divisione non solo
solo quelle delle denominazioni di appartenenza. Al cristianesimo si sono convertiti – fino
a diventare maggioritari – molti membri delle comunità tribali e indigene (adivasi) di
origine animista, come pure i dalit di origine indù. Indubbiamente, in parte per sfuggire
al sistema castale e alle sue discriminazioni per nascita. Una situazione che sempre più
spinge anche la leadership cristiana a chiedere migliori opportunità per gruppi meno
favoriti all’interno della comunità. L a costituzione stabilisce la laicità dello Stato e
sostiene il diritto fondamentale di religione o credo che non può essere violato da alcun
governo. Tuttavia esistono leggi che o discriminano in base a religione e/o casta, oppure
sono applicate in modo discriminatorio, oppure ancora deliberatamente non vengono
applicate per alcuni gruppi, come ad esempio i cristiani. Non è un caso che le minoranze
religiose siano nel complesso più povere della media e discriminate socialmente.
Secondo l’ultimo censimento, quello del 2011, solo il 6,5% ha accesso a una qualunque
forma di finanziamento istituzionale, il 40% delle famiglie non dispone di servizi medici,
il 35% non può accedere all’istruzione e il 65,02% vive in abitazioni precarie o
provvisorie. Nell’ultimo quinquennio, inoltre, molti nelle comunità religiose minoritarie,
inclusi cristiani, sono diventati vittime di violenza organizzata. La reazioni non sono
mancate, ma perlopiù si sono dimostrate inefficaci, a maggior ragione dalla presa del
potere centrale oltre due anni fa da parte dei nazionalisti filo-induisti guidati dal
Bharatiya Janata Party. Solo pochi giorni fa, il 16 settembre, rappresentanti di dalit
cristiani si sono associati a una manifestazione di partiti e di gruppi della società civile
per sottolineare all’esterno del Parlamento di New Delhi che la violenza crescente verso
di loro non è più tollerabile e che la sorte di 201 milioni di abitanti della grande India
meritano rispetto e integrazione che passano anzitutto dal riconoscimento della loro
identità. «Questo governo non è interessato alla sorte dei dalit, non li considera come
cittadini a tutti gli effetti», ha indicato il segretario generale del Partiti comunista
dell’India, Sitaram Yechury, durante la manifestazione. Al suo fianco il gesuita A.X.J.
Bosco, sacerdote-attivista per i diritti dei dalit che ha segnalato come il Bjp e gli alleati di
governo non diano alcun valore alle masse degli ex 'intoccabili', «considerate come una
minoranza religiosa e non come parte dell’India». Per questo è tempo di una reazione,
incentivata anche dal rischio che le quote riservate ai gruppi sfavoriti vengano
ulteriormente erose dalla loro attribuzione a caste finora escluse. «È solo l’inizio», hanno
promesso gli organizzatori dell’evento di Delhi entro dicembre in tutto il paese
«mostreremo la nostra forza per ottenere i nostri diritti».
Pag 3 Senza fraternità tutto crolla di Rosanna Virgili
Alla radice della crisi esistenziale dell’Europa, e oltre
L’Europa «vive una crisi esistenziale», ha detto recentemente il presidente della
Commissione Ue Jean-Claude Juncker. Un linguaggio sartriano, da salotto intellettuale
primi Novecento, un profumo francese che avvolge il Parlamento di Strasburgo e si
annusa sul Belgio, la Germania, l’Olanda, le Nazioni del vecchio Impero austro-ungarico
fino a giù là, verso Sud Est, seguendo il corso dell’Istro – il Danubio blu – e giungere al
Mar Nero, senza, però, mancare di effondersi anche sull’Italia mediterranea e sulla
Spagna meticcia di antiche chiese, sinagoghe e moschee, aperta tra barocco e futuro,
tra la Mancia e l’America del Sud, e oggi con lo sguardo fisso nel vuoto, incapace di darsi
un governo, dopo una doppia consultazione elettorale. La crisi esistenziale segnala,
normalmente, uno smarrimento, una gigante mancanza di senso, anzi, un senso
gigantesco di vuoto, porta di possibili paralisi, di mancamenti psichici e intellettuali.
Sembra ieri il 1989, il tripudio della caduta del Muro di Berlino sulle note sconfinate di
The Wall, l’estasi musicale dei Pink Floyd. Hey! Teachers! Leave them kids alone (Ehi,
professori, lasciate in pace i ragazzi) cantavano e la musica era il portale della Libertà
dove l’Europa entrava finalmente tutta abbracciata, nel corpo e nel sorriso, nella
Memoria che cicatrizza le ferite e nella Speranza di crescere come un albero dalle radici
antiche e profonde. A distanza di meno di trent’anni, quelle brecce di Muro gettano tristi
germogli materiali e ideali in tutti i rami dell’albero: dal passo del Brennero a Calais, da
Ventimiglia ai 'Prima noi' del Canton Ticino; per non parlare dell’algida Inghilterra, figlia
di un 'dio maggiore'! Oltre ai muri, il difficile collante sociale, la deriva della
frammentazione politica e culturale, la radicata presenza dei corrotti e la «la morbosità
dell’individualismo» denunciata nella Evangelii Gaudium. «Che cosa ti è successo,
Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?», ha
chiesto papa Francesco ai capi di Stato e di Governo europei guidati proprio da Juncker.
Una domanda che non può non colpire chiunque consideri come propria questa cara
'nonna' e la ami davvero. Vedere i politici europei sbandare di fronte alle forze
centrifughe populiste, arrendersi di fronte all’assenza di un’anima e di un progetto
organico e vitale per tutta la 'zona', chiudersi nelle rispettive e private ragion di Stato, è
veramente triste. «Chi percorra la Francia scopre forse con stupore che, fin dall’ultimo
villaggio, su tutti i municipi – inciso sulla pietra, come la legge mosaica – si trovi il motto
risalente alla Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: liberté, égalité,
fraternité», scrive Christoph Theobald in un prezioso libretto intitolato: Fraternità
(Qiqajon, 2016). Il problema sta nel fatto che i tre valori «non si trovano allo stesso
livello. Libertà e uguaglianza dei cittadini, qualora vengano violate, possono essere
rivendicate di fronte a un tribunale; appartengono alla sfera del diritto, con i suoi effetti
e le sue applicazioni concrete. Al contrario la fraternità, nessuna legge può prescriverla».
Senza fraternità è impossibile, però, la coesione sociale e il rapporto con l’altro – che sia
il fratello o l’oriundo, il profugo o il musulmano – non vive senza 'cuore' e 'compassione'.
«Fraternità, parità e libertà – fa contralto un altro autore, Silvano Fausti –. Pongo prima
la fraternità, senza la quale il resto è vacuità». Di estrema suggestione sono le parole
che il noto gesuita italiano rivolge a Voltaire, in una ideale lettera scritta al 'chiaro di
luna': «Caro Voltaire, hai curato la libertà, ma trascurato parità e fraternità. Libertà e
relazione. Se del relativo fai un assoluto, diventi idolatra. È la morte tua e altrui. Devi
coniugare libertà con parità e fraternità. Ma non solo nelle idee, che è già qualcosa. Non
ghigliottinarti: la tua testa sia con il corpo, il tuo pensare con l’agire. Non togliere
all’umanesimo un Dio ignoto e sempre nuovo. Questi apre l’uomo a libertà senza fine.
L’uomo è immagine di Dio. Senza Dio diventa immagine di sé stesso. Specchio che
specchia sé stesso. Nulla. O forse le cornici». È un piccolo gioiello di prosa poetica
(Lettera a Voltaire. Contrappunti sulla libertà, Áncora) in cui le frasi sono come raggi di
musica e d’intelligenza: «Eccoci al nodo: Allora il Signore disse a Caino: Dov’è tuo
fratello? Egli rispose: Sono forse il responsabile di mio fratello? (Gn 4,9-10). Il resto lo
sai già. Basta questo per capire la responsabilità. Se ignoro l’altro come fratello, crolla il
castello di 'libertà, parità, e fraternità'».
ITALIA OGGI
Una scuola di suore all'inferno di Angelica Ratti
È aperta a tutte le confessioni. Non fa proselitismo. L'istituto sorge a Baalbek nell'Est del
Libano in una zona controllata da Hezbollah
All'ora della ricreazione gli allievi corrono gioiosamente in cortile. Ragazzi e ragazze
giocano insieme e solo qualche ragazza indossa un foulard bianco sopra la camicetta
azzurro cielo della divisa scolastica. Al centro della città di Baalbek, nella piana della
Bekaa, nell'Est del Libano, la scuola della Congregazione delle suore del Sacro cuore di
Gesù e di Maria è una istituzione cristiana dove il 90% degli allievi è musulmana. La
scuola offre prima di tutto un insegnamento di qualità ed è ricercata dalle famiglie
musulmane. La direttrice, suor Emiline, ha una visione molto chiara di quello che deve
essere la sua scuola. «Siamo in terra di Islam e non siamo qui per fare proselitismo
religioso» ha dichiarato a Le Figaro, «il progetto della mia Congregazione è di formare
delle persone responsabili e degli uomini liberi. Cerchiamo di sviluppare uno spirito
critico e l’apertura dello spirito. Anche i genitori musulmani ne sono consapevoli e per
questo iscrivono in massa i loro figli da noi». Nel corso dei secoli Baalbek fu in
maggioranza cristiana e molte vestigia sono lì a ricordarlo. Ma la guerra civile in Libano
ha costretto i cristiani a fuggire e l'impennata demografica dei mussulmani ha messo
fine a questa presenza secolare. I cristiani sono all'incirca 150 su 25 mila abitanti di
Baalbek. La grande maggioranza degli abitanti di Baalbek sono sciti, un ramo scismatico
dell'Islam, a lungo perseguitato con una grande comunità in Libano. Negli anni 80,
durante la guerra civile del Libano la città diventò feudo di Hezbollah, il partito scita
ispirato dalla rivoluzione islamica iraniana. Nel feudo di Hezbollah la scuola cristiana è
aperta a tutte le confessioni, ed è sottomessa alle loro regole: il velo per le ragazze e i
corsi di religione musulmana sono obbligatori, ma piano piano suor Emilina è riuscita a
farne a meno. Solo qualche ragazza porta il velo e il corso di Islam non c'è più.
Resistendo a tutte le pressioni e le intimidazioni suor Emilina e suor Ramona vogliono
che gli allievi imparino a essere delle persone. Le suore rispettano le credenze dei
musulmani ma loro devono rispettare quelle dei cristiani: mettendo dei limiti sono
riuscite a realizzare una coesistenza possibile. Quando suor Emiline arrivò nel 2009 la
scuola era chiusa di venerdì, secondo la tradizione musulmana. La suora scrisse a
Hezbollah per tenerla aperta, e non avendo ricevuto risposta l'ha deciso in autonomia
subendo intimidazioni e minacce per questo, senza piegarsi. E vincendo la sua battaglia.
Insieme a suor Ramona le due religiose hanno fatto della loro scuola una delle migliori
della regione restando ferme sui propri principi. La scuola conta 1.035 allievi tra ragazzi
e ragazze, 35 cristiani e 956 musulmani. Gli sciti sono la maggioranza degli studenti,
816, contro 140 sunniti. Molti degli sciti sono figli di membri di Hezbollah. Alcuni sono
figli dei martiri come vengono chiamati quelli che sono morti in battaglia nel Sud del
Libano un tempo occupato dagli israeliani. In un simile ambiente le tensioni
interconfessionali sono sempre presenti. Dall'inizio della guerra civile in Siria la valle
della Beeka è una linea del fronte. E a una dozzina di chilometri dalla città comincia la
linea degli jihadisti e dello Stato islamico. In questo inferno suor Emiline guarda bene
che il suo istituto resti un terreno neutro.
IL GAZZETTINO
Pag 1 La minoranza Pd che evoca scissioni ma teme il divorzio di Alessandro
Campi
La vicenda della sinistra del Partito democratico somiglia ormai ad uno psicodramma,
peraltro sempre più monotono e ripetitivo. L’ultima direzione nazionale ha confermato
un copione fattosi col tempo noioso. I soliti toni forti della vigilia, che lasciano
immaginare chissà quale drammatico giorno del giudizio, una discussione accesa e dai
toni veementi, ma al momento di votare o ci si allinea docilmente alla maggioranza
(come è successo tante volte in passato) oppure (come in questo caso) si preferisce non
partecipare alla conta. Anche stavolta peraltro è stato adombrato lo spettro di una
scissione data quasi come inevitabile, ma altrettanto puntualmente sono arrivate le
smentite e le precisazioni, non si capisce se dettate da un tardivo buon senso o dalla
paura di dover imboccare sul serio, a furia di minacciarla, una strada senza ritorno. Il
problema, sembrerebbe, è che gli oppositori interni di Renzi, per quanto agguerriti e
pronti (apparentemente) a tutto, non hanno ancora chiarito a se stessi qual è il loro vero
obiettivo politico. Vogliono riprendersi il partito dopo averne perso il controllo, speranza
in sé legittima, o fondarne uno nuovo che sia una versione edulcorata e in miniatura del
vecchio Pci nel quale molti di loro si sono formati e del quale sentono evidentemente una
nostalgia fattasi insopprimibile? Ce l’hanno con la linea politica del segretario, un
riformismo liberale che inclina troppo a destra e al quale sembra vogliano contrapporre
una visione di socialdemocrazia classica, o con il suo modo di essere e di fare, che in
effetti è talvolta tra il cinico e l’irridente verso i propri interlocutori? Hanno un’idea del
governo del Paese alternativa a quella di Renzi o più semplicemente si
accontenterebbero che non fosse quest’ultimo a guidarlo? Al tempo stesso, parliamo di
oppositori che non sembrano uniti e compatti come dovrebbero o come vorrebbero far
credere, visto che uno minaccia le dimissioni e l’altro giura che non lascerà mai il Pd,
uno si dice disposto al confronto mentre l’altro chiude ogni prospettiva di dialogo, uno
media e l’altro insulta. E forse nemmeno sono animati dalle stesse, buone o cattive,
intenzioni. Nessuno ha ancora capito bene, ad esempio, dove finiscano i dissidi di linea
politica o culturale e dove comincino invece i rancori personali e il desiderio di vendetta
privato. Qualcuno, tra gli avversari di Renzi, sarà certamente preoccupato dal suo
disegno politico, giudicato troppo personalistico e accentratore, ma qualcun’altro, per
dirla con franchezza, sembra piuttosto preoccupato di come salvaguardare la propria
(spesso già assai lunga) carriera. Senza contare che a furia di criticare e denunciare
sfracelli, si rischia di trasmettere una cattiva impressione di sé anche ai propri seguaci o
simpatizzanti. Dall’opposizione permanente allo spirito distruttore fine a se stesso il
passo è in effetti assai breve. Si tratta infine di un’aggregazione che non si capisce bene
da chi sia guidata, il che forse ne spiega gli atteggiamenti talvolta ondivaghi,
contraddittori e strumentali. D’Alema ne è l’ispiratore politico dall’esterno, Bersani la
guida morale o il padre saggio, Speranza il coordinatore e l’aggregatore, Cuperlo l’anima
intellettuale e il volto tormentato, Orlando la carta segreta se mai Renzi dovesse avere
un incidente parlamentare, ma troppi capi, reali o potenziali, è come non averne
nessuno. Detto tutto quel che di critico si poteva e doveva dire della minoranza del Pd,
un merito grandissimo le va comunque riconosciuto nel desolante panorama italiano:
quello di esistere. Velleitaria o generosa che la si voglia giudicare, si tratta appunto di
una minoranza che combatte alla luce del sole la sua battaglia politica dentro il partito,
come era un tempo la regola o la normalità. Segno che nel Pd, a dispetto delle
convulsioni che sta vivendo, ancora sopravvive un po' di sana dialettica politica. Non che
negli altri partiti non esistano divisioni e contrasti. Pensiamo solo alle liti recenti che
hanno coinvolto il gruppo di vertice del movimento di Grillo o a quelle scatenatesi tra i
maggiorenti del centrodestra berlusconiano. Ma l’impressione è che in questi casi si tratti
di personalismi, di faide, di lotte sorde dietro le quinte tra piccoli gruppi di potere che
non sono espressione di una cultura o tradizione politica, che non hanno un preciso
disegno politico da affermare, ma semplicemente lottano per la propria affermazione e
sopravvivenza. La scomparsa in Italia dei partiti politici, trasformatisi con passare degli
anni in proprietà individuali del capo, in cartelli elettorali temporanei o in comitati
d’affari, ha significato anche la scomparsa della loro vivacità o pluralità interna, che
implicava la coesistenza sotto lo stesso tetto di posizioni spesso anche assai diverse,
senza che ciò debba necessariamente precludere a scissioni, strappi e abbandoni, o
peggio a epurazioni nei confronti dei dissidenti o dei fuori linea. Era una ricchezza –
culturale e ideale, prima che politica – che in Italia si è totalmente persa e della quale un
barlume sopravvive appunto nell’attuale Pd. Alla cui minoranza, non fosse che per
questa ragione, non si può dunque che augurare una lunga vita.
LA NUOVA
Pag 1 Nessuna battaglia di principi di Roberto Weber
La fine è l’inizio. O meglio, per capire cosa stia accadendo oggi nel Partito democratico,
bisogna partire dalla “fine”, da quanto accadrà la notte del 4 dicembre, data fissata per il
referendum costituzionale. È a quel giorno che sono puntate le speranze, le fortune, i
destini e la sopravvivenza (politica) di chi oggi si confronta all’interno del Pd.
Curiosamente infatti - se Cuperlo, Bersani, Speranza, D’Alema etc - vedessero prevalere
il No, il loro destino politico troverebbe ragionevolmente nuove traiettorie, mentre quello
di Renzi e dei suoi più stretti alleati, si farebbe assai incerto e aldilà della precarietà,
subirebbe una pesante battuta di arresto. Comunque la leadership del toscano ne
uscirebbe dimezzata e non è escluso, come riferiscono alcuni giornali, che si andrebbe al
tentativo di formazione di un nuovo governo, guidato da un nuovo leader (il
confindustriale Calenda, il ritornante Letta o l’inaffondabile Franceschini). Viceversa, se
dovesse prevalere il Sì, assai ragionevolmente la fazione dei Dem che si è schierata per
il No, vedrebbe ridursi in modo drastico il proprio spazio politico. Dunque la “minoranza”
per sopravvivere ha bisogno di una sconfitta del proprio partito, Renzi viceversa per
continuare a governare il Paese deve vincere quel referendum che ha fortemente voluto
e che ha fortemente legato (salvo tardivi ripensamenti) al proprio futuro politico. Fin qui
una vicenda che apparentemente sta tutta dentro lo stretto “politichese” e che offre
chiavi di lettura indubbiamente puntuali, ma al tempo stesso un po’ usurate e di breve
respiro. Non vi sono dubbi, infatti, che qualora si consumasse una sconfitta del Sì, i
principali azionisti del fronte del No - che non sono gli insigni costituzionalisti, né ciò che
resta della sinistra che teme una deriva illiberale, ma sono Grillo e Salvini - ciascuno per
proprio conto ne uscirebbe assai rafforzato. Dunque le conseguenze nel medio termine
sarebbero assai pesanti e tuttavia, alcuni degli uomini che dettero un contributo decisivo
alla fondazione del Pd, non sembrano preoccuparsene. Perché? Essenzialmente per un
motivo: non si credono e non si sentono “minoranza”. Dalla notte dei tempi - e i tempi
per loro iniziano all’epoca di quel grande partito politico che fu il Pci - essi non sono mai
stati all’opposizione. Non hanno fatto parte dei cosiddetti “miglioristi” (per capirci la
corrente di Giorgio Napolitano, di Macaluso, di Sposetti e di tanti altri) ma hanno sempre
giocato un ruolo di “governo” interno del partito, sia nel Pci, che nel Pds, che nei Ds e
infine nel Pd. Inevitabilmente vivono Renzi come un usurpatore e, si sa, con gli
usurpatori tutti i mezzi sono leciti. Dal canto suo, l’attuale presidente del Consiglio con
atti e parole ha costituito non già un deterrente alle pulsioni “distruttive” di questi padri
del Pd, ma un acceleratore. La sua retorica della “semplificazione”, il gusto per la battuta
rottamante, i termini spesso ultimativi nei confronti degli avversari, il piglio demolitorio
nei confronti della storia politica della sinistra, hanno progressivamente acceso i toni. Se
a ciò aggiungiamo il “fattore umano” - la difficoltà per Renzi di trovare un registro di
sobrietà, quel suo tratto di supponenza fiorentina sempre al confine con l’arroganza, la
sua esibita spregiudicatezza - comprendiamo le ragioni profonde dell’impossibile
compromesso. Da un lato quindi abbiamo un gruppo di giocatori che per tutta la loro vita
hanno concepito la dialettica politica interna come “dare le carte” e dall’altro una new
entry che la dialettica interna la legge solo come “prendere le carte”: è quasi inevitabile
che qualcuno alla fine voglia rovesciare il tavolo. Ma ci sta, naturalmente ci sta. È la
politica. Va così da sempre. Quello che non ci sta è la drammatizzazione, il racconto di
una battaglia giocata tutta sul filo dei principi. La presunzione di rappresentare un
popolo - quello della sinistra - che i processi della globalizzazione hanno disarticolato,
disperso e ricollocato in una varietà di aree che vanno dal Movimento 5 Stelle, al Pd, a
Sel (o come diavolo si chiama), alle praterie dell’astensione programmata. Come era
inevitabile che fosse. Dunque rovescino pure i tavoli, ma principi, eroismi, grandi gesti…
per favore no. Il meglio che possiamo aspettarci è il meno peggio.
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