elogio della nudità

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elogio della nudità
ELOGIO DELLA NUDITÀ
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© 2015 Bompiani / RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano
ISBN 978-88-452-8076-4
Prima edizione Bompiani ottobre 2015
IMMAGINARIO E IMMAGINAZIONE
Prefazione di Alberto Oliverio
In seguito alla cacciata dal paradiso, Adamo ed Eva si scoprirono nudi e si vergognarono, un sentimento che fino a quel
momento, secondo il racconto biblico, non avevano provato.
L’arte ha assecondato questa lettura, mostrandoci i presunti iniziatori dell’avventura umana con le nudità più o meno celate
dalle classiche foglie di fico o da rametti compiacenti. Ed Eva,
in genere, porta le mani al volto, in una posa che tradisce imbarazzo e vergogna.
I due temi, nudità e vergogna, sono al centro del piacevolissimo e documentato saggio di Anna Meldolesi, un saggio che
è un crocevia tra analisi di tipo evoluzionistico, cronache storiche, annotazioni psicologiche, fatti di cronaca, citazioni sulla
pervasività del nudo sui media, un aspetto, quest’ultimo, che
contribuisce a rendere gradevole e lieve la lettura. Guardiamo
film, pubblicità, pagine di internet che mostrano corpi svestiti:
ne siamo attratti, catturati da sapienti richiami mediatici che
agiscono anche sul nostro inconscio. Forse mai come oggi la
nudità, porta d’ingresso nella sfera sessuale, ha un continuo
impatto, seduttivo o fastidioso che sia, sulla quotidianità: un
impatto che però è ben diverso rispetto a quello di un corpo in
carne ossa, nudo o in gran parte svestito che sia, perché l’obbiettivo seleziona sapientemente dettagli, Photoshop ritocca accortamente un occhio, un seno, particolari provocanti che sono
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meno “dosati” e penetranti quando abbiamo a che fare con la
realtà, con i corpi reali, quasi sempre meno belli di quelli utilizzati dai pubblicitari. Di conseguenza, il nostro cervello reagisce
a degli stimoli-chiave “sovramassimali”, viene catturato da un
dettaglio che amplifica le nostre reazioni: qualcosa di simile è
stato studiato dagli etologi che hanno notato come sia possibile
accrescere le risposte animali a stimoli già presenti in natura
– le macchie rosse sul becco di un gabbiano, il ventre rosso
di un piccolo pesce d’acqua dolce, lo spinarello – utilizzando,
appunto, dei superstimoli: una macchia più grande, un colore più intenso… L’evoluzione ha stabilito delle regole, risposte adattative che però possono essere amplificate, così come
avviene quando siamo attratti da un dettaglio anatomico reso
più percepibile per catturare la nostra attenzione e coinvolgerci
sessualmente.
Il paradosso è che in un mondo dominato dai richiami sessuali, almeno per quanto riguarda l’Occidente, siamo attratti
– o catturati – dal nudo ma proveremmo anche imbarazzo se
dovessimo esporre il nostro corpo svestito, come avviene in una
spiaggia di nudisti. Cosa è successo, si domanda l’autrice di questo saggio, nel lungo arco di tempo che separa la nostra lontana
antenata Lucy, l’ominide vissuto in Etiopia 3,2 milioni di anni
fa, dagli uomini e donne di questi giorni? Una delle teorie antropologiche più accreditate riguarda la perdita della pelliccia,
che ai tempi di Lucy e di altri nostri progenitori più recenti era
ben folta: la scomparsa di un denso pelame è stato un vantaggio
evolutivo ed ha contribuito all’espansione del nostro cervello
ma ha anche reso visibili i dettagli del nostro corpo, il sesso, le
sue reazioni, contribuendo a un sentimento, quello di vergogna,
che ci ha spinto a vestirci, a nascondere le nudità: e poi, più
banalmente, senza pelliccia è necessario coprirsi per ripararsi
dal freddo, il che contribuisce a generare in noi una diversa
immagine del corpo.
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Il racconto antropologico vi lascia scettici? Forse allora sarete più colpiti dalla descrizione di un recente esperimento, citato
appunto da Anna Meldolesi, in cui uomini e donne appartenenti a un gruppo di volontari devono spogliarsi in laboratorio mentre gli scienziati monitorano il loro comportamento, le
posture corporee, lo sguardo, tutti parametri che tradiscono
diversi livelli di vergogna e/o disagio. Altri dati, in cui vengono
registrate le reazioni dei nuclei cerebrali coinvolti nell’emotività, dimostrano chiaramente come l’osservare un corpo nudo o il
denudarsi di fronte ad altri si accompagni a un’attivazione emotiva non indifferente. In sostanza un vero paradosso: lo spettatore è catturato dai glutei che occhieggiano dagli hot pants
della celebre pubblicità dei jeans Jesus – accompagnati dal messaggio provocatorio “Chi mi ama mi segua” – da un pullulare
di immagini di corpi levigati femminili e maschili e, al tempo
stesso, prova una qualche vergogna a denudarsi.
Certo, il setting, come si dice nel linguaggio cinematografico
ma anche in quello psicoanalitico, ha la sua parte: nel giro di pochi anni si sono affermati il topless e, sia a livello femminile che
maschile, costumi da bagno di dimensioni minimali. Ma questo
è lecito sulla spiaggia o in piscina: difficilmente si scoprirebbe
tanta parte della superficie corporea in altre situazioni, anche se
la moda esercita forti pressioni, soprattutto sugli – sulle – adolescenti… L’autrice ci ricorda, in tal senso, come le “regole della
decenza” siano mutate nel tempo, come sia finita l’era di pretori
che intervenivano condannando le offese al pudore pubblico.
La piacevolezza di questo saggio è anche legata al ricorso a
numerosi fatti di cronaca che ci mostrano, appunto, come eravamo e come siamo ben lontani dalla morale bigotta dell’Inghilterra vittoriana ma non così lontani dal mondo illustrato nei
dipinti di Pompei, dalle statue romane di satiri e creature mitologiche dotate di attributi sessuali ben evidenti. Corsi e ricorsi
storici dunque? Il senso del pudore è canalizzato dalla cultura?
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In effetti, come traspare da molte pagine di questo libro, i nuovi media hanno sovvertito le regole del gioco anche perché il
messaggio visivo ha una forte presa sul cervello umano che è in
gran parte dominato dalle funzioni visive. Non voglio sembrare bigotto ma c’è da chiedersi se un eccessivo bombardamento
di nudo non spenga il ruolo dell’immaginazione, il che è in linea con quanto osservato da numerosi sessuologi che indicano
come in numerosi ragazzi si manifesti un’ansia da prestazioni
indotta dal paragone con i corpi perfetti proposti dai media e i
messaggi pornografici osservati in rete.
Il tema della nudità ci propone quindi una riflessione più
generale sulla crescente divaricazione che i media contribuiscono a stabilire tra l’immaginario e la fantasia. L’immaginario,
infatti, è una specie di viaggio organizzato, l’immaginazione
un percorso che va costruito, passo dopo passo, e che mobilita
risorse cognitive. L’immaginario, pur con tutto il suo fascino,
è prevalentemente passivo, l’immaginazione implica un’attività
creativa della mente, si basa sul pensiero simbolico, sulla capacità di saper creare un’immagine di qualcosa, sul saper “far
finta che”. Anna Meldolesi conclude il suo saggio affermando
come il rapporto che abbiamo con la nudità sia “un affascinante
e contraddittorio groviglio. Psicologia, evoluzione, antropologia, sessualità, arte, moda, morale, politica. C’è dentro di tutto”.
E infatti, queste pagine sul nudo e sulla vergogna ci portano
anche a compiere un viaggio più vasto e tortuoso nei meandri
della nostra mente, sui suoi determinanti biologici e sul ruolo
degli stimoli in cui siamo immersi.
* Alberto Oliverio è Professore Emerito di Psicobiologia, Università di
Roma Sapienza.
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Alle mie amiche. Quella che una volta si è tolta
la maglietta in motorino per vedere l’effetto che fa.
Quella che si è appostata per scrivere un articolo sugli
esibizionisti. Quella che sbadigliava di fianco a me
guardando Cinquanta sfumature.
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LUCY
Senza vestiti e senza vergogna
Era bipede Lucy, l’ominide fossile più famoso del mondo.
Con le sue gambe corte e le braccia ciondolanti non doveva avere un’andatura da passerella. Di certo camminava nella zona di
Hadar, in Etiopia, 3,2 milioni di anni fa. Nuda. O meglio, ricoperta dalla sua pelliccia naturale, quella che noi – i suoi discendenti – abbiamo perso fino a mostrare la pelle. È improbabile
che potesse vergognarsi del suo corpo: in quell’epoca remota
non esistevano vestiti né norme sociali sulla decenza. Conducendo una vita da Australopithecus con un cervello da Australopithecus sembra impossibile provare pudore. Quest’emozione
è un’invenzione biologica e culturale che deve essere comparsa
molto tempo dopo nel corso dell’evoluzione. Su quando sia accaduto e a quale scopo è possibile avanzare delle ipotesi. Quel
che è sicuro è che noi umani abbiamo sviluppato un rapporto
complesso e contraddittorio con la condizione che ci appartiene
fin dalla nascita. La nudità.
Ogni giorno ci vestiamo e ci spogliamo nel privato delle nostre abitazioni. Cerchiamo di scegliere un abbigliamento adeguato alle circostanze, soprattutto se apparteniamo al sesso
femminile: andiamo tranquillamente al mare in bikini ma non
usciremmo mai di casa in biancheria intima, anche se i centimetri di pelle coperta sono gli stessi. Tutti, uomini e donne, con11
trolliamo (più o meno consapevolmente) quanto sono vestite le
persone che incontriamo per strada o in ufficio. Basta un’occhiata per posizionare qualcuno, o meglio qualcuna, in un punto preciso dell’asse infagottata-normale-disinvolta-sexy-sfacciata-seminuda. La pelle esposta viene percepita come un segnale
e spesso fraintesa. Guardiamo pubblicità, film, programmi televisivi che mostrano corpi svestiti, da cui ci sentiamo attratti,
ma molti di noi si sentirebbero in imbarazzo in una spiaggia di
nudisti.
Nudo è bello, ma anche brutto. È il simbolo del peccato e
quello dell’innocenza. La verità è nuda, la bugia è vestita. Proprio l’impossibilità di imbrigliare la nudità in una categoria precisa la rende scivolosa e culturalmente pericolosa. I nudi femminili sono usati per rappresentare le allegorie delle virtù, ma se
è una vera donna a essere nuda allora è un’indecenza. Nudo è
pagano ed è sacro, edonista e ascetico. Le streghe delle leggende compiono i loro rituali senza vestiti, san Francesco si spoglia
per avvicinarsi a Dio. Nudo è naturale ma anche sconveniente:
se sogniamo di trovarci nudi in pubblico, di solito è un incubo.
Mostrarsi nudi significa esporre la propria umana fragilità, ma
anche offendere e provocare. Sono tutti questi paradossi che
rendono la nudità una lente interessante per osservare la natura
umana. Che strana specie siamo noi, scimmie nude che vanno
in giro vestite.
Adesso spogliati
Per studiare il nostro rapporto con la nudità la BBC ha organizzato un esperimento che è diventato un documentario.
Difficile pensarlo in onda sulla televisione pubblica italiana.
Immaginate otto persone normali, tra i 20 e i 50 anni, che nella vita fanno lo studente, il poliziotto, la mamma, l’impiegata.
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Non si conoscono tra loro, finché non vengono portati in un
palazzo nel centro di Londra dove passeranno 48 ore assistiti
da un team di psicologi. Qui si sottoporranno ad alcuni test
pensati per mettere alla prova le inibizioni e tentare di superarle. Nessuno di loro ha mai praticato nudismo e non hanno neppure l’aria degli esibizionisti. Non assomigliano ai concorrenti
di certi reality, che gonfiano i bicipiti davanti all’obiettivo o si
atteggiano quando fanno la doccia. Viene da pensare che chi
si offre volontario per un documentario del genere, destinato a
essere trasmesso su un canale nazionale, debba avere una buona
dose di coraggio. Ma prima che tutto cominci confidano i loro
timori: c’è chi si preoccupa di apparire ridicolo, chi teme di
mostrare segni di eccitazione sessuale.
Per il primo test vengono fatti accomodare uno per volta in
una stanza con un falso specchio. Non sanno cosa li aspetta.
Prima si procede alla misurazione dei parametri fisiologici per
valutare il livello di stress. Quindi, dopo una breve attesa, vengono lette le istruzioni. Alcuni dovranno spogliarsi da soli davanti allo specchio, restando in piedi. Altri dovranno guardare
senza essere visti, sempre da soli, ma seduti in poltrona. Una
voce ordina: “Please begin” (“Comincia per favore”). Una delle
volontarie chiamate a spogliarsi è Lucy: 42 anni, lunghi capelli castani, un bel corpo dalle linee morbide, il pube definito
dall’intervento convenzionale di qualche estetista. Lavora come funzionaria per l’edilizia popolare. Ha lo stesso nome della
nostra antenata, ma è un Homo sapiens e il pudore lo conosce
bene. I vestiti se li toglie in fretta e senza grazia, si tocca il viso
con la mano, alza esageratamente le spalle e le riabbassa abbracciandosi da sola. Quando le verrà permesso di sedersi lo farà
incrociando le gambe e stringendo strategicamente un cuscino.
La voce fuori campo chiede quanto è spaventata su una scala da
zero a dieci. L’indice del disagio, dice Lucy, arriva a metà scala.
La ragazza che la osserva è più giovane e ha colori chiari. Sfog13