PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

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PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
1) Relazione storico-artistica
E’ tradizione che questo ampio complesso fosse in origine la residenza di famiglia dei
Manfredi, che poi divennero Signori della città dal 1313 al 1500. Secondo lo studioso
Ennio Golfieri, un ramo della famiglia Manfredi s’insediò in quest’area nella prima metà del
XII secolo. Studi più recenti svolti da Lucio Donati hanno praticamente destituito di
fondamento tale attribuzione tradizionale, assegnando invece il fabbricato alla famiglia
Bazzolini, oggi estinta. Il primo nucleo del palazzo sorse in angolo fra via Manfredi e via
Comandini, in vicinanza della chiesa parrocchiale di S. Michele e delle mura
altomedioevali. L’edificio tuttavia risalirebbe alla fine del Duecento, come dimostrano il bel
portale gotico su via Manfredi e la finestra archiacuta al primo piano su via Comandini.
Nel Quattrocento inoltrato fu invece edificato il corpo centrale, con ingresso da via
Comandini 2. Forse fu la presenza di un peduccio nell’atrio d’ingresso, riportante la palma
fiorita dei Manfredi, a far nascere l’ipotesi di un’edificazione ad opera della casata stessa.
L’elemento che maggiormente valorizza l’ampia corte è indubbiamente il bel portico a
quattro archi, sormontato da una loggetta archiacuta. Il disassamento dei pilastri rispetto
al corpo del fabbricato, fa però pensare che esso sia frutto di un’aggiunta operata in
seguito, anche se comunque entro il Quattrocento. A conferma di ciò, uno dei capitelli del
suddetto portico porta lo stemma della famiglia Viarani.
Qualche tempo dopo la costruzione del corpo principale, fu aggiunta l’ala lungo via
Manfredi. Essa si estese su tre piani più le cantine, con una pianta rettangolare. A quei
tempi però il confine con il Convento dei Servi era spostato verso sud di circa cinque metri
rispetto all’attuale facciata della Biblioteca, per cui fra i due fabbricati esisteva uno spazio
scoperto. La costruzione dell’ala su via Manfredi comportò anche la ristrutturazione della
vecchia casa-torre duecentesca, di cui non rimasero che il portale d’angolo e la finestra
gotica al primo piano verso via Comandini. I solai interni furono invece rifatti, prova ne è il
soffitto a cassettoni dell’ex latteria (sala d’angolo al pianoterra). Sul lato verso la corte, la
parete sotto la gronda fu affrescata con motivi floreali su fondo rosso. La famiglia Viarani
rimase proprietaria del fabbricato per almeno tre secoli; l’ultima rappresentante della
famiglia fu la contessa Maria Viarani in Pasi, ma proprietario era ormai il conte Antonio
Pasi.
Pochi anni dopo però la famiglia si trasferì in una nuova casa, e l’antica residenza dei
Viarani passò a Vincenzo Caldesi qualche tempo prima del 1781. Lo sciame sismico del
1781 provocò infatti danni notevoli all’edificio, e Vincenzo Caldesi presentò una perizia
tecnica per ottenere un contributo dal Governo Pontificio. Il terremoto fu, probabilmente,
l’occasione per porre mano a diversi lavori nel palazzo. Lo scalone dovrebbe rientrare fra
questi: la semplicità dell’impianto e la presenza della nicchia per una statua sopra al
pianerottolo rimanda allo stile neoclassico, ma la forma della volta richiama ancora la
tradizione barocca nostrana.
Ciò fa propendere per una datazione tardo settecentesca. Lo scalone è a sua volta
strutturalmente collegato ad una porzione di fabbricato oggi staccata da casa Manfredi,
ma che in origine ne faceva parte. Si tratta della casa di via Comandini 4, che ha ingresso
da un grande portale gotico. Osservandone la facciata in mattoni a vista, è possibile
notare che solo il portale risale al Medioevo, mentre il resto del fabbricato è probabilmente
settecentesco, e la quota dei piani è molto diversa da quella di casa Manfredi. Sul
pianerottolo dello scalone vi è però l’impronta di una porta di collegamento, che risolve il
problema della forte differenza di quota dei solai fra i due fabbricati. Tutto ciò fa ipotizzare
che la casa al n. 4 sia sorta nel Settecento occupando un’area prima scoperta.
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SETTORE FINANZIARIO
Responsabile del procedimento: Dr.ssa Cristina Randi tel. 0546 691180
Termine per la conclusione del procedimento gg. ______ decorrente dal ______________
Ufficio per la visione degli atti Servizio Patrimonio
Referente pratica: Maggi geom Vittorio 0546 691342
* qualora il riquadro non sia compilato: 1) il responsabile del procedimento è il dirigente; 2) la durata del procedimento è di 30 giorni
La stalla del palazzo era collocata nella piccola ala su due piani, posta fra la rimessa e lo
scalone: ancora oggi alle pareti vi sono diversi anelli per legare i cavalli, ed in uno dei vani
vi sono resti di un pavimento in acciottolato e di una cunetta di scolo. Fino alla fine del
Settecento, la parte rinascimentale dell’edificio non dovette subire modifiche sostanziali:
probabilmente le antiche travature furono rivestite d’intonaco, come nella sala d’angolo al
piano nobile, o coperte con volte in cannicciato. Il Catasto del 1798 (AS Faenza, Catasti,
vol. 343), compilato da Giuseppe Pistocchi e Giuseppe Morri, riporta che l’edificio
apparteneva ancora a Vincenzo Caldesi che vi risiedeva. Alla sua morte, nel 1809, le
cospicue proprietà immobiliari del defunto furono suddivise fra i tre figli, ed il palazzo toccò
a Clemente mentre il convento passò ad Antonio (Atto Not. Angelo Bucci del 16 dicembre
1809). Il Catasto del 1814 (Catasti, vol. 267) riporta che la casa era all’epoca destinata
all’affitto, ma non era ancora divenuta residenza di Clemente Caldesi forse perché
bisognosa di consistenti ammodernamenti. Intorno al 1818, Clemente avviò una radicale
ristrutturazione ed ampliamento del fabbricato, per venirvi ad abitare ed adeguarlo alle
esigenze di decoro che derivavano dalla sua importante posizione economica.
Fu facile per lui accordarsi col fratello Antonio, proprietario dell’ex convento dei Servi, per
acquisire lo spazio scoperto che si trovava fra il confine del palazzo ed il muro dell’ex
monastero, più la stalla ed alcuni ambienti che un tempo servivano ai frati come residenza
per i novizi. Clemente poté quindi costruire una nuova ala di fabbricato in aderenza all’ex
convento, erigendo la facciata verso la corte interna sul tracciato del vecchio confine.
Egli realizzò alcune stanze anche nello spazio fra la scaletta seicentesca dei novizi e
vicolo Foschini, ed aprì un nuovo accesso alla stalla dell’ex convento dalla parte del
proprio ingresso carraio coperto.
La costruzione della lunga ala adiacente all’ex convento fu accompagnata da una radicale
ristrutturazione del corpo di fabbrica lungo via Manfredi. Caldesi infatti realizzò un nuovo
portone d’ingresso, che tramite un atrio diede accesso al portico rinascimentale e quindi
allo scalone. Tale trasformazione comportò un’importante modifica dei percorsi interni,
trasportando l’ingresso principale su via Manfredi, che era una strada considerata più
importante e centrale rispetto all’odierna via Comandini. Con la nuova sistemazione,
l’accesso al piano superiore assunse maggiore prestigio: si percorreva tutto il portico e ci
si trovava lo scalone di fronte, mentre prima si entrava nel loggiato lateralmente.
A fianco del nuovo ingresso fu costruito uno scaloncino di servizio per disimpegnare i tre
piani sopra terra, ed un muro portante trasversale andò ad irrobustire il corpo di fabbrica
laterale, dividendo in due parti l’unico grande vano presente originariamente ad ogni
piano.
Le stanze al pianoterra su via Manfredi, con accesso sotto la nuova scala, furono adibite
ad abitazione, e collegate anche con la nuova ala sul retro. Al piano nobile furono invece
realizzate tre ampie sale, l’ultima delle quali fu decorata nel 1820 da Felice Giani (17581823); tale stanza è detta saletta di Latona (ovvero la dea greca Leto, figlia di Ceo e di
Febe, amata da Zeus a cui diede come figli Artemide ed Apollo; presso i Romani divenne
Latona). Nell’ottagono del soffitto è raffigurata Latona ed i gemelli con l’iscrizione SAC
APOLLINE LATONA DIANA, intorno vi sono leggere raffaellesche a monocromo. Alle
pareti, posti sottovetro, tre piccoli pannelli dipinti rappresentanti la Primavera, l’Estate e
l’Autunno coi relativi segni zodiacali, ed un’allegoria della Pace con il verso petrarchesco
E VO GRID(ando) PACE PACE PACE MDCCCXX. Ma se la sala del Giani è la più
preziosa, di maggiore effetto è quella precedente dove Clemente Caldesi (1769-1831)
qualche anno più tardi decorò con scenografie prospettiche; volta e pareti sono decorate a
monocromo, ma con l’inserimento di grandi vedute a colori raffiguranti paesaggi di
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* qualora il riquadro non sia compilato: 1) il responsabile del procedimento è il dirigente; 2) la durata del procedimento è di 30 giorni
fantasia e rovine antiche. Questa sala fu peraltro ristretta in seguito (dopo il 1831),
mediante una parete di legno e cannicciato, per ricavare un corridoio di disimpegno. La
parete posticcia fu dipinta, forse da Antonio Liverani, con un grande paesaggio a colori,
riprendendo anche le linee della decorazione precedente. Verso il 1920-30 il corridoio fu
trasformato in bagno, e gran parte delle decorazioni originarie che erano rimaste in quel
vano furono distrutte o coperte. Restano però ancora due sovrapporta monocromi e la
parte superiore di un riquadro a colori con le rovine di un tempio romano, oltre ai decori
della volta.
La nuova ala adiacente all’ex convento presenta una profondità variabile, non essendovi
parallelismo fra i muri: si parte dagli oltre cinque metri della porzione presso via Manfredi,
poi s’incontra un brusco scarto dovuto alla presenza dell’Emeroteca e del secondo
chiostro, tanto che la larghezza si riduce a soli metri 2,20. Segue un graduale
allargamento, fino alla congiunzione con l’antica ala dei novizi del convento, larga circa sei
metri. In quest’ala incontriamo una serie di ambienti allineati, tutti comunicanti fra loro sia
al pianoterra, sia al primo e secondo piano. A livello del cortile vi sono diverse stanze di
abitazione con soffitto a travi, senza finiture particolari, forse destinate in origine alla
servitù. Al piano nobile incontriamo invece sale di maggiore pregio, tutte soffittate a volta e
pavimentate con quadrelli di cotto. Ben tre stanze presentano volte interamente dipinte,
anche se in condizioni di conservazione precarie. La sala adiacente a quella del Giani ha
un grande emblema ovale al centro, con episodio mitologico purtroppo per metà perduto.
Queste tempere sono attribuibili a Pietro Piani (1770-1841).
Contemporaneamente o poco dopo la realizzazione dell’ala posteriore, si pensò di
disimpegnare meglio la lunga fila di stanze mediante la costruzione di un lungo ballatoio
esterno, sorretto da mensole in pietra. Tale ballatoio, che si prolunga sino al loggiato
quattrocentesco, è ben visibile nella veduta del cortile di casa Caldesi realizzata da
Romolo Liverani (Album n. 10 conservato nella Biblioteca Comunale).
Al secondo piano furono invece realizzate delle soffitte, mentre la parte terminale era in
origine destinata ad altana per stendere il bucato, con ampie aperture verso sud.
Nemmeno il nucleo rinascimentale del palazzo sfuggì alla ristrutturazione: tutta l’ala fu
sopraelevata di un piano, per ricavare ampie soffitte con accesso dal nuovo scaloncino. Il
piano nobile fu invece oggetto di ammodernamenti interni, con modifiche alle aperture ed
altre opere. Al pianoterra, l’ampia sala a sinistra dell’atrio fu divisa in due parti e furono
modificate tutte le aperture. Tra i lavori attribuibili a Clemente Caldesi va infine ascritta la
costruzione di una piccola ala di servizio a fianco dello scalone principale, con accesso dal
pianerottolo intermedio. Essa infatti risulta esistente nella mappa del 1830, anche se è
sicuramente più recente rispetto all’attigua stalla. Dal Catasto del 1830 (Catasti, vol. 259),
apprendiamo che l’edificio apparteneva ancora a Clemente Caldesi e che contava ben 17
stanze al pianoterra e 25 al primo piano; cantine e soffitte allora non erano computate.
Uno dei vani era adibito a bottega, e certamente si affacciava su via Manfredi essendo
segnati nel registro ben tre numeri civici, dal 157 al 159. Nel 1831 Clemente Caldesi morì,
lasciando l’edificio ai figli Vincenzo e Ferdinando Leonida. Vincenzo, importante figura di
patriota risorgimentale (detto anche il leone di Romagna) morì nel 1870, lasciando al
fratello la propria quota del palazzo. Il Catasto del 1875 (Catasti, vol. 246) registra infatti
come proprietario il solo Ferdinando Leonida, ed una quantità di vani notevole: cinque al
piano interrato, 27 al pianoterra, 28 al piano primo e 19 al piano secondo (compresa la
casa in via Comandini, che fu venduta in seguito). Il fabbricato verso vicolo Foschini,
adibito a servizi, fu ampliato mediante la costruzione di una tettoia (ne rimane il pilastro
centrale, incorporato nel muro verso la corte). Il 10 gennaio 1891 Ferdinando Leonida
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* qualora il riquadro non sia compilato: 1) il responsabile del procedimento è il dirigente; 2) la durata del procedimento è di 30 giorni
Caldesi morì, e come da testamento l’edificio passò alla figlia Giulia e ai di lei figli nati e
nascituri, una clausola questa che nell’Ottocento si ritrova spesso. In mancanza di figli,
sarebbero divenuti comproprietari i discendenti di Carlo Caldesi; l’usufrutto di 1/4 fu
riservato alla vedova del Caldesi, Giuseppina Wilmot. Mediante atto del Not. Cesare Berti
di Bologna in data 19 giugno 1894, Carlo Caldesi rinunciò alla quota spettante ai suoi figli,
ed anche la madre fece lo stesso; Giulia rimase così unica proprietaria.
Nel 1905 i Caldesi uscirono definitivamente di scena, dopo un possesso durato oltre 120
anni. Con atto del Not. Angelo Mergari in data 4 maggio, il vasto fabbricato fu infatti
venduto a Pasquale Padovani. Nel 1917, la porzione settecentesca che ha l’accesso dal
grande arco gotico di via Comandini fu venduta a Filippo Frontali (atto Not. Neri del 11
ottobre 1917). Due mesi dopo, il Padovani morì, lasciando eredi i figli Vincenzo ed Alma
con l’usufrutto di ¼ a favore della vedova, Cesira Morelli. Nel 1919 però, il palazzo fu
venduto a Virginia Rossini per la somma di 50.000 Lire mediante atto del Not. Giuseppe
Cantagalli in data 9 agosto 1919.
Una volta acquisito l’immobile, la Rossini avviò un generale ammodernamento, volto a
creare appartamenti da affittare. L’incremento demografico di quel periodo rendeva infatti
particolarmente necessario l’accrescimento del patrimonio edilizio del centro storico, in
quanto l’espansione periferica era appena agli inizi e priva di una seria programmazione.
La casa Manfredi fu così adibita ad appartamenti da affittare, dividendo le vaste sale
mediante sottili tramezzi in mattoni forati e costruendo ovunque cucine e camini. Ciò è
particolarmente visibile nel nucleo rinascimentale: il vasto salone al piano nobile fu
addirittura suddiviso in quattro stanze, mentre l’antica loggia fu parzialmente tamponata
per ricavare una cucina ed una veranda. Anche i locali di servizio con accesso dal
pianerottolo dello scalone furono rammodernati, soffittati e divisi con nuove tramezzature.
Non mancò l’inserimento, più o meno traumatico, dei primi servizi igienici, collocati pure
sui ballatoi.
Anche le soffitte al secondo piano furono interamente ristrutturate ad uso abitativo
secondo le stesse modalità, e senza pretese di rifiniture pregiate. La vecchia altana fu
invece tamponata, lasciando solo qualche finestrone, ed adibita a laboratorio di taglio e
cucito con accesso da un esile ballatoio esterno su mensole di ferro. Virginia Rossini
diede incarico all’Ing. Giuseppe Tramontani di curare la ristrutturazione della porzione di
fabbricato prospettante su vicolo Foschini, e grazie alla licenza Prot. 2465 del 28 marzo
1921 fu possibile avviare i lavori. Tale porzione di fabbricato fu infatti soggetta ad una
radicale trasformazione interna, lasciando poco dello stato precedente. La tettoia
ottocentesca affacciata sulla corte fu chiusa con un muro, e sostituita da una serie di
ripostigli. Il solaio del primo piano fu ricostruito, impiegando travi di ferro, e si realizzò un
nuovo vano scale con gradini in cemento. La planimetria molto irregolare del corpo di
fabbrica non impedì di realizzare tre appartamenti spaziosi, ma senza pregio artistico e
con un solo bagno in comune per tutti, posto sul pianerottolo. Lo sforzo di Virginia Rossini
e del marito Massimo Rondinini per rinnovare e rendere redditizia la vecchia casa dei
Manfredi non fu purtroppo ricompensato: per qualche motivo il Rondinini dovette
dichiarare fallimento, e come se ciò non bastasse Alma Padovani, divenuta maggiorenne,
chiese la rescissione del contratto di vendita di casa Manfredi, affermando che il prezzo
pagato era notevolmente inferiore al valore dell’immobile. I periti calcolarono un valore di
143.013,70 Lire, ben più del doppio della cifra pagata nel 1919. Nella seduta del 20
gennaio 1928, il Tribunale di Ravenna stabilì la rescissione del contratto, ed il palazzo fu
assegnato ad Alma e Vincenzo Padovani, con l’usufrutto di ¼ per la madre Cesira Morelli.
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Nel 1946 la Morelli morì, e nel 1949 se ne andò pure Vincenzo Padovani. L’edificio rimase
così per ¾ ad Alma Padovani, e per ¼ a tale Vienna Gaiani Casini, che però cedette la
sua quota dopo pochi mesi (atto Zaccarini 31 ottobre 1949).
Dopo la seconda Guerra Mondiale, che non danneggiò quasi per nulla il fabbricato, non
furono molti gli interventi sull’edificio: alcuni appartamenti furono parzialmente ristrutturati
negli anni Cinquanta e Sessanta sostituendo il cotto con pavimenti in graniglia, oppure
inserendo piccoli bagni. Il lavoro di maggiore impegno fu, nel 1954, l’apertura di tre vetrine
per adibire a negozi altrettanti locali posti al pianoterra lungo via Manfredi (Licenza Edilizia
Prot. 1035 del 31 maggio 1954). La Soprintendenza espresse parere favorevole in data 3
novembre 1953, ma solo per le due vetrine verso la Biblioteca; per valutare la terza chiese
invece un disegno della facciata, probabilmente per accertarsi se la canna fumaria
rinascimentale venisse rispettata. Il nulla osta definitivo porta la data 11 dicembre 1953.
Non fu invece consentita l’apertura di una finestra a destra della canna fumaria. La terza
vetrina su via Manfredi fu però aperta poco tempo dopo, a seguito della Licenza Edilizia n.
308 del 1955. All’estremità della facciata di via Manfredi, erano però ancora ben visibili le
tracce di un antico portale gotico, murato da lungo tempo. Volendo adattare a negozio
anche il salone d’angolo a pianoterra, la Padovani ottenne il permesso per riaprire e
restaurare il portale (Licenza Edilizia n. 428 del 1955). Il salone interno, che ancora
conserva il soffitto quattrocentesco a cassettoni, divenne così una latteria fino agli anni
Settanta. Dopo la scomparsa della Padovani, i successivi proprietari non ebbero molta
cura dell’antico palazzo. Da allora l’edificio è progressivamente decaduto, e si è
lentamente svuotato: guardando i calendari rimasti appesi alle pareti, si deduce che molti
appartamenti furono abbandonati fra il 1975 ed il 1988.
La particolare situazione della proprietà ha fatto sì che negli ultimi anni nessuno abbia più
pensato alla manutenzione del vasto fabbricato, che è stato a lungo richiesto da numerosi
operatori immobiliari, senza che però si arrivasse alla cessione. Solo nel dicembre 2001
un gruppo di privati non faentini giunse ad un accordo con la proprietà, ma la notizia arrivò
in Comune, che subito si attivò per esercitare il diritto di prelazione motivato da interesse
pubblico (ampliamento della Biblioteca Comunale). Come una recente legge prescrive, la
Soprintendenza ai Beni Culturali ha consentito l’esercizio di tale diritto, e nel 2002 il
Comune ha così acquisito l’intero immobile per la cifra di 1.466.000 €.
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