Artemis Fowl e l`ultimo guardiano
Transcript
Artemis Fowl e l`ultimo guardiano
Eoin Colfer Artemis Fowl e l’ultimo guardiano 2 © 2012 Eoin Colfer, Artemis Fowl Ltd © 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l’edizione italiana Titolo dell’opera originale Artemis Fowl and The Last Guardian Traduzione di Anna Carbone www.librimondadori.it | www.ragazzimondadori.it 3 Il libro Da: Colfer, Eoin (si pronuncia “Owen”, lo volete capire?) Spedito: nel presente? Nel passato? Nel futuro? A: il Mondo (sopra e sotto, ieri e oggi) Oggetto: Messaggio urgentissimo dal Biografo Ufficiale di un noto genio criminale Non posso non dirvelo: è l’ora dello scontro finale per Artemis Fowl… Opal Koboi, arcinemica di sempre del nostro, progetta di annientare l’umanità e diventare unica e sola regina del Popolo. Se ci riuscirà, gli spiriti dei guerrieri morti e sepolti da secoli sorgeranno dal terreno, prenderanno possesso dei corpi disponibili più vicini e scateneranno la distruzione di massa. Capite l’urgenza di questo messaggio? Provate a pensarci: se fra quei corpi ci fossero anche quelli di corvi, cervi, tassi… o di due bambini di quattro anni che rispondono al nome di Myles e Beckett Fowl? Esatto. I fratellini del genio criminale Artemis Fowl rischiano di essere coinvolti nella distruzione della razza umana. La domanda è d’obbligo: riusciranno Artemis e Spinella Tappo, capitano della polizia elfica, a fermare Opal e a impedire la fine del mondo? I fili di tutte le vicende aperte nelle precedenti biografie parziali saranno raccolti, districati, chiariti. Una volta per tutte. Per sempre vostro, Eoin Colfer. 4 L’autore Eoin Colfer è nato e cresciuto a Wexford, nel sud-est dell’Irlanda. Come sia diventato il biografo ufficiale di Artemis Fowl rimane un mistero. Colfer sostiene di essere stato avvicinato dagli avvocati di Fowl. Artemis Fowl, dal canto suo, giura di non averlo mai sentito nominare finché entrambi i loro nomi sono comparsi sulla copertina della sua biografia non autorizzata. Corre voce che alcuni anni fa i due si siano incontrati nelle segrete del Castello di Dublino. Nessuno sa per certo che cosa sia successo là sotto, ma fonti prossime a Colfer affermano che, al suo ritorno da quell’incontro, aveva i capelli grigi e neanche un soldo. Comunque, che ad Artemis piaccia o no, le biografie di Colfer hanno riscosso un enorme successo, scalando la vetta delle classifiche in tutto il mondo e vincendo numerosi premi. Colfer vive tuttora da qualche parte in Irlanda, però si rifiuta di fornire l’indirizzo esatto, non avendo il minimo desiderio d’incontrare nuovamente Artemis o la sua guardia del corpo, Leale. 5 A tutti i fan di Fowl che hanno viaggiato con me negli Strati Inferiori. Grazie. 6 PROLOGO ÉRIÚ, OGGI I Berserkr, gli antichi guerrieri nordici, giacevano disposti a spirale sotto la pietra runica, scendevano sempre più in profondità nel terreno, con gli stivali verso l’esterno e le teste all’interno, come esigeva l’incantesimo. Ovviamente, dopo diecimila anni passati sotto terra, non si trattava più di stivali o teste materiali, rimaneva solo il plasma della magia nera, che manteneva intatta la loro coscienza; e pure quella andava dissipandosi, contaminando il paesaggio, dando vita a strani tipi di piante e infettando gli animali con un’aggressività fuori dal comune. Nel giro di una dozzina di lune piene sarebbero scomparsi definitivamente, e la loro ultima scintilla di energia sarebbe sprofondata nel terreno. Ma non siamo ancora scomparsi del tutto, pensò Oro di Danu, il capitano dei guerrieri. Siamo pronti ad afferrare il nostro momento di gloria, quando arriverà, e a disseminare il caos tra gli umani. Inviò quel pensiero nella spirale, e fu con orgoglio che sentì i suoi uomini restanti riecheggiare quel sentimento. La loro volontà è affilata com’erano un tempo le loro lame, pensò ancora. Per quanto possiamo essere morti e sepolti, la scintilla della nostra risolutezza sanguinaria arde luminosa nelle nostre anime. Era l’odio nei confronti dell’umanità a mantenere viva quella scintilla; quello, e la magia nera dello stregone Bruin Fadda. Oltre la metà della loro compagine si era già estinta ed era stata attratta nell’aldilà, ma rimanevano ancora cinque manipoli di guerrieri per portare a termine il loro dovere, se fossero stati chiamati a farlo. Ricordate gli ordini, aveva detto loro lo stregone elfico tanti secoli prima mentre già l’argilla si depositava sulla loro carne. Ricordate quelli che sono morti e gli umani che li hanno uccisi. E Oro ricordava, lo avrebbe fatto sempre. Così come mai avrebbe scordato la sensazione delle pietre e della terra che rotolavano sulla sua pelle morente. Ricorderemo: quello fu il pensiero che inviò nella spirale. Ricorderemo e torneremo. Quel pensiero si infiltrò lentamente per essergli restituito dai guerrieri morti, ansiosi di essere liberati da quella tomba e di rivedere il sole. 7 CAPITOLO 1 - UNA SITUAZIONE SPINOSA DAGLI APPUNTI DEL DOTTOR JERBAL ARGON, DELLA PSICOFRATELLANZA 1. Artemis Fowl, già autoproclamatosi “adolescente dalla mente criminale superiore”, preferisce ora l’appellativo di “giovane genio criminale”. Sembrerebbe cambiato. (Nota personale: Bah!) 2. Negli ultimi sei mesi, Artemis è stato sottoposto a sedute settimanali di terapia presso la mia clinica di Cantuccio allo scopo di curare un grave caso di Complesso di Atlantide, un disturbo psicologico sviluppato in conseguenza del suo immischiarsi nella magia del Popolo. (E gli sta proprio bene, stupido Fangosetto!) 3. Ricordare di presentare alla Libera Eroica Polizia un conto indecente. 4. Artemis sembra guarito, e pure a tempo di record. Ma è plausibile? O anche solo possibile? 5. Discutere con Artemis la mia teoria della relatività. Potrebbe diventare un capitolo davvero interessante del mio libro virtuale L’arte di incastrare Artemis: scaccomatto al folle Fowl. (Gli editori adorano questo titolo: tiè!) 6. Ordinare altri antidolorifici per la mia stramaledettissima anca. 7. Redigere un certificato di salute mentale per Artemis. Oggi ultima seduta. STUDIO DEL DOTTOR ARGON, CANTUCCIO, STRATI INFERIORI Il dottor Argon era in ritardo, e Artemis Fowl era sempre più impaziente. Quell’ultima seduta era inutile esattamente come lo era stata l’ultima mezza dozzina. Era completamente guarito, lo era fin dalla diciottesima settimana. Il suo prodigioso intelletto aveva accelerato il processo e non c’era motivo che lui continuasse a girarsi i pollici agli ordini di uno gnomo psichiatra. Artemis si mise a camminare su e giù per lo studio, ma la cascata alle pareti, con le sue luci rilassanti e il loro dolce pulsare, non ebbe su di lui il benché minimo effetto tranquillizzante; quindi si sedette per un minuto nella cabina per ossigenoterapia, ma trovò che quella lo tranquillizzava un po’ troppo. Ossigenoterapia mia nonna, pensò, affrettandosi a uscire dalla cabina con le pareti di vetro. Finalmente la porta scivolò sulle guide con un sibilo, e il dottor Argon fece il suo ingresso nello studio. Il tozzo gnomo puntò dritto alla sua poltrona con la solita andatura zoppicante. Si abbandonò all’abbraccio dei numerosi 8 cuscinetti, armeggiando con i comandi dei braccioli finché il sacco di gel sotto l’anca destra non brillò debolmente. — Ah! — sospirò. — Quest’anca mi sta uccidendo. Non c’è niente che funzioni, davvero. La gente crede di sapere che cos’è il dolore, ma non ne ha neanche un’idea. — È in ritardo — brontolò Artemis parlando in gnomico fluente; nella sua voce non c’era la minima traccia di comprensione. Argon sospirò beatamente un’altra volta mentre il cuscinetto riscaldato della poltrona incominciava a massaggiargli l’anca. — Sempre di fretta, eh, Fangosetto? Perché non ti sei preso una bella boccata d’ossigeno o non hai meditato davanti alla cascata? Perfino i monaci di Ullallà nutrono una fiducia cieca in quelle cascate. — Guardi che io non sono un sacerdote elfico, dottore. Quello che fanno i monaci di Ullallà dopo il primo gong non m’interessa. E adesso possiamo passare alla mia riabilitazione? Oppure preferisce farmi perdere un altro po’ di tempo? Argon sbuffò, poi sporse in avanti la grossa stazza e aprì un sottile fascicolo sulla scrivania. — Mi sapresti spiegare com’è che più diventi sano di mente più sei sgradevole? Artemis accavallò le gambe e per la prima volta il suo linguaggio corporeo lo mostrò rilassato. — Quanta rabbia repressa, dottore. Da dove le viene? — Per il momento concentriamoci su di te, sei d’accordo, Artemis? — Argon estrasse dal fascicolo un mazzo di schede. — Adesso ti mostrerò una serie di macchie di Rorschach e tu mi dirai che cosa ti suggeriscono le loro forme. Artemis si lasciò andare a un gemito prolungato e teatrale. — Macchie di Rorschach, ma per carità! La mia aspettativa di vita è di gran lunga inferiore alla sua, dottore, preferisco non sprecare il mio preziosissimo tempo a fare inutili pseudoesami. Tanto varrebbe che ci mettessimo a leggere le foglie del tè o a divinare il futuro dalle interiora di un tacchino. — Le macchie di Rorschach sono un indicatore molto affidabile della salute mentale — obiettò Argon. — La loro efficacia è sperimentata. — Già, da psichiatri che l’hanno sperimentata per altri psichiatri — sbuffò Artemis. Argon sbatté una scheda sul tavolo. — Che cosa ci vedi in questa macchia? — Ci vedo una macchia d’inchiostro. — Sì, ma la macchia che cosa ti suggerisce? Artemis ghignò in un modo estremamente fastidioso. — Ci vedo la scheda cinquecentotrentaquattro. 9 — Come? — La scheda cinquecentotrentaquattro — ripeté Artemis. — Di una serie di seicento schede standard con macchie di Rorschach. Le ho memorizzate durante le nostre sedute. Non perde neppure tempo a rimescolarle. Argon controllò il numero sul retro della scheda: 534. Ovvio. — Conoscere il numero non è una risposta alla mia domanda. Che cosa ci vedi? Il labbro di Artemis cominciò a fremere. — Ci vedo un’ascia che gronda sangue. E anche un bambino spaventato e un elfo con indosso la pelle di un troll. — Davvero? — Adesso Argon era visibilmente interessato. — No, non proprio. Vedo un palazzo tranquillo, forse un’abitazione, con quattro finestre. Un animaletto domestico e un viale che dalla casa si perde in lontananza. Se consulterà il suo manuale, verificherà che tutte queste risposte rientrano nei parametri di un soggetto perfettamente sano di mente. Argon non ebbe bisogno di controllare: il Fangosetto aveva ragione, come sempre. Magari avrebbe potuto prenderlo alla sprovvista con la sua nuova teoria. Non rientrava nella terapia, ma forse gli avrebbe fatto guadagnare un po’ di rispetto. — Mai sentito parlare della teoria della relatività? Artemis rimase sconcertato. — Mi prende in giro? Ho viaggiato nel tempo, dottore, credo di sapere un bel po’ di cosette sulla relatività. — No, non mi riferisco a quella teoria; la mia teoria della relatività sostiene che tutti gli oggetti magici sono collegati tra loro e subiscono l’influenza di antichi incantesimi o punti di accesso magici. Artemis si sfregò il mento. — Interessante, ma credo che scoprirà che la sua ipotesi dovrebbe essere chiamata piuttosto teoria della correlazione. — Come vuoi — ribatté Argon, non dando peso a quel cavillo. — Ho fatto qualche ricerca e ho scoperto che i Fowl sono stati una spina nel fianco del Popolo a periodi alterni per diverse migliaia di anni. Decine dei tuoi antenati hanno cercato la pentola d’oro, anche se tu sei il solo ad averla trovata. Artemis si rizzò a sedere: adesso sì che era interessato. — E io non l’ho mai saputo perché lei ha sottoposto i miei antenati a uno spazzamente. — Esatto — confermò Argon, felice di essere riuscito a calamitare l’attenzione del ragazzo. — Da piccolo, tuo padre è addirittura riuscito a legare per le gambe un nano attirato nella tenuta. Immagino che sogni ancora quel momento. — Mi fa piacere per lui. — Poi ad Artemis venne in mente una cosa. — E 10 perché il nano sarebbe stato attratto nella tenuta? — Perché lì i residui della magia sono particolarmente abbondanti. Un tempo nella proprietà dei Fowl è accaduto qualcosa. Qualcosa di enorme, dal punto di vista della magia. — E i residui di questa energia impiantano idee nelle nostre menti e ci spingono a credere alla magia — mormorò Artemis quasi fra sé. — Proprio così. Si tratta dell’eterna questione dell’uovo e del goblin: pensavi alla magia e poi l’hai scoperta, oppure è stata la magia a indurti a cercarla? Artemis prese qualche appunto sul suo smartphone. — E a proposito di questo enorme evento magico, non potrebbe essere un po’ più preciso? Argon fece spallucce. — Le nostre registrazioni non vanno così indietro nel tempo. Direi che stiamo parlando dell’epoca in cui il Popolo viveva in superficie, vale a dire oltre diecimila anni fa. Artemis si alzò e si piazzò torreggiante davanti al tozzo gnomo. Si sentiva in debito con il medico per quella teoria della correlazione, che di sicuro meritava di essere approfondita. — Dottor Argon, da bambino lei aveva il piede varo? Argon rimase talmente sorpreso che, cosa del tutto insolita per uno psichiatra, diede una risposta sincera a una domanda personale. — Sì, sì. — E l’hanno costretta a indossare scarpe ortopediche con il plantare? Argon era molto incuriosito. Erano secoli ormai che non pensava più a quelle orrende scarpe, anzi, fino a quel momento le aveva del tutto dimenticate. — Solo una, al piede destro. Artemis annuì soddisfatto, e Argon si sentì come se avessero di colpo scambiato i ruoli e fosse diventato lui il paziente. — Direi che il piede è stato forzato a ritrovare l’allineamento corretto, ma nel farlo il femore ha subito una lieve torsione. Un semplice tutore dovrebbe risolvere il suo problema all’anca. — Artemis estrasse dalla tasca un tovagliolino piegato. — Ne ho abbozzato un disegno mentre mi faceva aspettare in queste ultime sedute. Polledro dovrebbe essere in grado di fabbricarglielo. Ho calcolato le misure a occhio, quindi può essere che abbia sbagliato di qualche millimetro, perciò sarà meglio prenderle come si deve. — Posò le mani sulla scrivania. — Adesso posso andare? Ho completato i miei obblighi? Il medico annuì torvo, pensando che avrebbe fatto bene a omettere quell’ultima seduta dalla cartella. Rimase a guardare Artemis attraversare lo studio e piegarsi per passare dalla porta. Osservò a lungo il disegno sul tovagliolino e istintivamente si sentì certo che 11 il Fangosetto non sbagliasse. O quel ragazzo è la creatura più sana di mente sulla Terra, oppure è talmente disturbato che i nostri test non riescono neppure a scalfirne la superficie, pensò. Prese dalla scrivania un timbro di gomma e applicò la scritta OPERATIVO a grossi caratteri rossi sulla copertina del fascicolo di Artemis. Lo spero davvero. Lo spero davvero. La guardia del corpo di Artemis, Leale, aspettava il suo capo fuori dallo studio del dottor Argon seduto su una grande poltrona dono del centauro Polledro, consulente tecnico della Libera Eroica Polizia. «Non posso vederti appollaiato così su uno sgabello da membri del Popolo» gli aveva detto Polledro. «Mi offende la vista. Sembri una scimmia al gioco delle sedie.» «Benissimo, accetto il dono, se non altro per risparmiare i tuoi occhi» gli aveva detto Leale con la sua profonda voce roca. In realtà, era stato un piacere immenso poter disporre di una poltrona comoda, considerato che in una città progettata per esseri di statura inferiore al metro, lui sfiorava i due. L’eurasiatico si alzò e si stiracchiò appoggiando i palmi delle mani al soffitto, che per gli standard del Popolo era alto il doppio del normale. Grazie a dio, Argon aveva manie di grandezza, altrimenti nella clinica Leale non sarebbe riuscito neppure a stare dritto. Per lui quell’edificio, con i soffitti a volta, la tappezzeria a macchie dorate e le porte scorrevoli in simil-legno di gusto retrò, sembrava più un monastero in cui i monaci avessero fatto voto di ricchezza che non uno studio medico. Solo i dispensatori laser di disinfettante per le mani montati sulla parete e le infermiere elfiche che si affaccendavano nei corridoi lasciavano intuire che quel luogo fosse in realtà una clinica. Sono così contento che questa storia stia finendo, aveva pensato Leale per lo meno una volta ogni cinque minuti nel corso delle ultime due settimane. Era già stato prima in posti piccoli, ma essere costretto in una città avvinghiata al lato inferiore della crosta terrestre gli aveva dato un senso di claustrofobia per la prima volta in vita sua. Artemis sbucò dallo studio di Argon con un ghigno di soddisfazione ancora più pronunciato del solito. Vedendo la sua espressione, Leale seppe all’istante che il suo capo aveva ritrovato il pieno controllo delle proprie facoltà e aveva ottenuto il certificato di completa guarigione dal Complesso di Atlantide. 12 Basta con il conteggio delle parole. Basta con quella paura irrazionale del numero quattro. Basta paranoia e allucinazioni. Grazie al cielo, si disse. Ma comunque, giusto per essere sicuro, gli chiese: — Allora, Artemis, come andiamo? Abbottonandosi la giacca dell’abito di lana blu, il ragazzo rispose: — Andiamo bene, Leale. Il che significa che io, Artemis Fowl Junior, sono operativo al cento per cento, vale a dire all’incirca cinque volte l’operatività di una persona media. O, per dirla in un altro modo, uno virgola cinque Mozart. O tre quarti di un Leonardo da Vinci. — Solo tre quarti? Sei modesto. — Sì, lo so — replicò il ragazzo con un sorriso. Leale diede un sospiro di sollievo. Ego smisurato, estrema sicurezza di sé: il suo capo era decisamente tornato a essere se stesso. — Ottimo. Adesso andiamo a prendere la nostra scorta e ci mettiamo in viaggio, giusto? Ho voglia di sentire il sole sulla faccia. Il sole vero, non quelle lampade a raggi ultravioletti che hanno quaggiù. Artemis ebbe un moto di comprensione per la sua guardia del corpo, un’emozione che provava sempre più spesso negli ultimi mesi. Già era difficile per Leale passare inosservato tra gli umani, ma lì sotto non avrebbe attratto più attenzione se si fosse vestito da clown e avesse incominciato a fare il giocoliere con palle di fuoco. — Benissimo — disse. — Andiamo a prendere la scorta e partiamo. Dov’è Spinella? Leale indicò il corridoio con il pollice. — Dove sta di solito. Con il clone. Il capitano Spinella Tappo, del Reparto Ricognizione della Libera Eroica Polizia, fissava il volto della sua nemica storica e provava solamente pietà. Certo, se quella che aveva davanti fosse stata la vera Opal Koboi e non una sua versione clonata, forse la pietà non sarebbe stata l’ultima emozione del suo elenco, ma di sicuro si sarebbe trovata parecchi gradini sotto la rabbia e il disgusto intenso al limite dell’odio. Quello però era un clone, sviluppato preventivamente per fornire alla folletta megalomane un doppio che le permettesse di sfuggire alla custodia protettiva nella clinica del dottor J. Argon se mai la LEP fosse riuscita a catturarla, come era poi effettivamente accaduto. Spinella aveva pietà per il clone perché era una creatura patetica e muta che non aveva mai chiesto di venire al mondo. La clonazione era una scienza messa al bando sia per motivi religiosi sia per il fatto più che evidente che, senza una forza vitale o un’anima ad alimentarli, i cloni erano destinati a 13 vivere una vita breve, priva di attività cerebrale e afflitta da insufficienza organica. Quel clone particolare aveva quasi esaurito i suoi giorni in un’incubatrice, lottando per ogni respiro da quando era stato tirato fuori dal bozzolo in cui era cresciuto. — Non manca più molto, piccola — bisbigliò Spinella, accarezzando la fronte del clone attraverso i guanti sterili incorporati nella parete dell’incubatrice. L’elfa non avrebbe saputo dire esattamente perché avesse incominciato a fargli visita. Forse perché Argon le aveva detto che nessun altro andava mai a trovarlo. È spuntato fuori dal nulla. Non ha amici, aveva pensato. Adesso ne aveva almeno due. Artemis aveva preso l’abitudine di accompagnare Spinella nelle visite e se ne stava seduto in silenzio accanto a lei, il che era davvero insolito per lui. La denominazione ufficiale del clone era Esperimento-Non-AutorizzatoNumero-14, ma uno degli ingegni della clinica l’aveva ribattezzato Nopal, un nomignolo crudele costruito con la negazione del nome Opal. Crudele o meno, quel nome le era rimasto appiccicato, e adesso lo usava pure Spinella, anche se con affetto. Argon le aveva assicurato che Esperimento-Non-Autorizzato-Numero-14 era privo di facoltà mentali, ma Spinella era certa che a volte gli occhi lattiginosi di Nopal mostrassero una reazione al suo arrivo. Era davvero possibile che la riconoscesse? Guardava i lineamenti delicati del clone e inevitabilmente il suo pensiero correva al suo originale. Quella folletta è veleno puro, pensò con amarezza. Qualunque cosa tocchi, avvizzisce e muore. Artemis entrò nella stanza e si fermò accanto a Spinella, posandole delicatamente una mano sulla spalla. — Si sbagliano, a proposito di Nopal — gli disse l’elfa. — Lei sente le cose, capisce. Artemis si inginocchiò. — Lo so. La settimana scorsa le ho insegnato una cosa. Sta’ a guardare. Appoggiò la mano sul vetro e picchiettò le dita in una lenta sequenza ritmica. — È un esercizio sviluppato dal dottor Parnassus di Cuba. Lo usa per stimolare una reazione nei neonati, anche negli scimpanzé. Continuò a tamburellare, e dopo un po’ Nopal rispose, alzando a fatica la 14 mano verso quella di Artemis e picchiando goffamente il vetro nel tentativo di riprodurne il ritmo. — Ecco, hai visto? Questa è intelligenza. Spinella gli diede un’amichevole spallata, la sua personalissima versione di un abbraccio. — Lo sapevo che prima o poi il tuo cervellone sarebbe tornato utile. Il gruppo di ghiande sul petto dell’uniforme della LEP incominciò a vibrare, e Spinella si portò una mano all’orecchino a tecnologia wi-fi per rispondere. Una rapida occhiata al computer da polso le disse che la chiamata proveniva dal consulente tecnico della LEP, Polledro, e che il centauro l’aveva classificata come urgente. — Polledro, che c’è? Sono alla clinica a fare la baby-sitter ad Artemis. La voce del centauro arrivò nitida attraverso la rete senza fili di Cantuccio. — Ho bisogno che tu torni immediatamente alla Centrale. E porta con te il Fangosetto. Il centauro aveva un tono teatrale, ma lui tendeva a fare il melodrammatico anche quando il soufflé di carote si sgonfiava. — Non è così che funziona, Polledro. Non sono i consulenti a dare ordini ai capitani. — Abbiamo un avvistamento di Koboi sul satellite. È una trasmissione in diretta — ribatté il centauro. — Arriviamo — rispose secca Spinella, interrompendo il collegamento. Passarono a prendere Leale in corridoio. Artemis, Spinella e Leale, tre alleati che avevano affrontato battaglie, ribellioni e cospirazioni e avevano sviluppato un loro personale protocollo per le crisi. Leale capì dalla faccia di Spinella che c’erano guai in vista. — Problemi? L’elfa non si fermò neppure e gli altri furono costretti a seguirla. — Opal — disse. L’espressione di Leale si indurì. — Un avvistamento? — Satellitare. — Origine? — chiese ancora la guardia del corpo. — Sconosciuta. Attraversarono di corsa il corridoio retrò, diretti al cortile della clinica. Leale, che aveva preceduto i compagni, tenne aperta l’antiquata porta a cardini con il vetro colorato su cui era raffigurato un medico premuroso intento a confortare una paziente in lacrime. — Prendiamo l’Asta? — domandò con un tono di voce che lasciava intendere che avrebbe preferito di no. Spinella varcò la soglia. — Mi dispiace, grand’uomo, stavolta ci tocca. 15 Artemis, che non era mai stato tipo da trasporto pubblico, umano o elfico che fosse, chiese: — Che cos’è l’asta? Asta era il nome con cui era conosciuta una serie di nastri trasportatori che correvano su corsie parallele lungo la rete di isolati di Cantuccio. Era un sistema di trasporto antico e affidabile, residuo di un’epoca meno litigiosa, su cui si saliva e si scendeva in corsa come su certe scale mobili negli aeroporti umani. C’erano piattaforme sparse in tutta la città e non si doveva fare altro che saltare a bordo reggendosi a una delle maniglie in fibra di carbonio che sporgevano dal nastro. Da lì il nome di Asta. Ovviamente Artemis e Leale avevano già visto l’Asta prima, ma il ragazzo non aveva mai avuto in programma di usare un mezzo di trasporto così indecoroso, perciò non si era mai curato di sapere come si chiamasse. Conscio che, con la sua leggendaria mancanza di coordinazione, qualsiasi tentativo di saltare con naturalezza a bordo si sarebbe concluso con un umiliante ruzzolone. Per Leale il problema non era tanto la mancanza di coordinazione, quanto, data la stazza, la difficoltà a tenere i piedi dentro la larghezza del nastro. — Ah, sì — fece Artemis. — L’Asta. Ma un taxi verde non sarebbe più veloce? — No — tagliò corto Spinella, spingendolo su per la rampa che portava alla piattaforma e poi pungolandolo nelle reni al momento giusto per farlo salire automaticamente sul nastro, con la mano che atterrava sulla maniglia tonda. — Ehi! — brontolò Artemis: era forse la terza volta in vita sua che usava un’espressione colloquiale. — Ce l’ho fatta! — Prossima fermata, i Giochi olimpici — disse Spinella da dietro. — Su, vieni, guardia del corpo — si voltò a gridare a Leale. — Il tuo capo sta puntando dritto verso una galleria. Leale scoccò all’elfa un’occhiata che avrebbe intimorito un toro. Spinella era una cara amica, certo, però sapeva prenderti in giro senza pietà. Salì sul nastro in punta di piedi, schiacciando le enormi estremità in un’unica sezione e piegando le ginocchia per arrivare a impugnare il minuscolo bastone. Visto di profilo, sembrava la più grossa ballerina al mondo nell’atto di cogliere un fiore. Spinella avrebbe sorriso, se non avesse avuto la mente presa da Opal Koboi. Il nastro trascinò lentamente i passeggeri dalla Clinica Argon lungo il margine di una piazza in stile italiano verso una galleria aperta con il laser nella solida roccia. Alcuni membri del Popolo che pasteggiavano all’aperto si fermarono con la forchetta a mezz’aria al passaggio di quell’improbabile terzetto. 16 Non era così insolito vedere un agente della LEP in uniforme su un’Asta, ma un dinoccolato ragazzino umano vestito come un impresario di pompe funebri e una montagna d’uomo delle dimensioni di un troll e con la testa rasata erano uno spettacolo fuori dal normale. La galleria era alta meno di un metro, per cui Leale fu costretto a stendersi su tre sezioni, appiattendo un buon numero di maniglie. Aveva il naso a poco più di un metro dalla parete del tunnel, istoriata di bellissimi pittogrammi luminosi raffiguranti episodi della storia del Popolo. Così i piccoli del Popolo possono imparare qualcosa della loro storia ogni volta che passano di qui. Fantastico, pensò, ma subito dopo soffocò l’ammirazione, dato che aveva imparato da tempo a disciplinare il cervello per concentrarsi sui propri compiti di guardia del corpo senza sprecare neuroni preziosi per entusiasmarsi per le meraviglie del sottosuolo. Questa risparmiatela per la pensione, si disse. Allora potrai anche ripensare all’arte e ammirarla. La Centrale di Polizia era un crinale sul quale maestri artigiani avevano accuratamente inserito nei ciottoli della pavimentazione il disegno dello stemma a forma di ghiande della Libera Eroica Polizia. Tutta fatica sprecata per quanto riguardava gli agenti della LEP, che per lo più non erano tipi da fissare lo sguardo fuori dalle finestre del quarto piano per ammirare il modo in cui i raggi del simil-sole colpivano il bordo di ogni ciottolo a forma di foglia dorata facendo scintillare l’intero disegno. In quel giorno particolare, poi, sembrava che al quarto piano fossero usciti tutti dalle loro stanzette come sassolini su una superficie inclinata per ammassarsi stretti stretti vicino alla cabina operativa, di fianco all’ufficiolaboratorio di Polledro. Spinella puntò dritto alla sezione più stretta di quella calca e si fece strada a gomitate senza dire una parola. Leale non ebbe da fare altro che schiarirsi la voce e subito la folla si aprì come respinta magneticamente da quell’umano gigante. Artemis si trovò così la strada spianata per la CabOp, dove il comandante Grana Algonzo e Polledro seguivano rapiti lo svolgersi degli eventi davanti a uno schermo a parete. Polledro colse i sussulti che seguivano il passaggio di Leale ovunque andasse a Cantuccio e si voltò a guardare. — I quattro siano con te — bisbigliò ad Artemis. Il saluto scherzoso che aveva adottato negli ultimi sei mesi. — Come ben sai, sono guarito — precisò Artemis. — Che succede qui? Spinella gli fece spazio di fianco a Grana Algonzo, che con il passare degli anni sembrava assomigliare sempre di più al suo ex capo, il comandante 17 Julius Tubero. Il comandante Algonzo trasudava fanatismo da tutti i pori, al punto che il giorno del diploma si era scelto il nomignolo di Grana. Una volta aveva cercato di arrestare un troll per avere sporcato, il che spiegava la toppa in simil-pelle sulla punta del suo naso, che vista da una certa angolazione brillava giallognola. — Bel taglio di capelli, capo — osservò Spinella. — Proprio come quello di Tubero. Il comandante Algonzo non staccò gli occhi dallo schermo. Spinella scherzava per il nervosismo, e Grana lo sapeva. E aveva tutte le ragioni di essere nervosa, anzi, avrebbe fatto bene ad avere vera e propria paura, data la situazione che gli veniva trasmessa. — Ammira lo spettacolo, capitano — disse secco. — Direi che si spiega da solo. Sullo schermo si vedevano tre figure, un prigioniero in ginocchio e i due che lo avevano catturato, ma sulle prime Spinella non individuò Opal Koboi perché cercava la folletta tra le due figure in piedi. Poi con un sussulto capì che Opal era la prigioniera. — Ma è un trucco, deve esserlo per forza. Il comandante Algonzo fece spallucce come a dire: Sta’ un po’ a vedere. Artemis si avvicinò allo schermo studiando l’immagine per carpirne i dettagli. — E siete sicuri che sia una trasmissione in diretta? — Direi di sì — rispose Polledro. — Anche se immagino che potrebbero mandarci una registrazione. — Da dove arriva? Il centauro controllò il rilevatore di posizione sul proprio schermo. La linea partiva da un satellite del Popolo e arrivava fino giù in Sudafrica e da lì a Miami e a un centinaio di altri posti, come gli scarabocchi di un bambino arrabbiato. — Hanno intercettato un satellite e fatto passare il segnale attraverso una serie di ripetitori. Potrebbero essere ovunque. — Il sole è alto — rifletté Artemis ad alta voce. — Dalle ombre direi che è primo pomeriggio. Se si tratta effettivamente di una diretta. — Il che restringe il campo a un quarto del pianeta — commentò caustico Polledro. La confusione nella stanza aumentò mentre, sullo schermo, uno dei due grossi gnomi in piedi alle spalle di Opal estraeva una pistola automatica da umani. L’arma cromata sembrava un cannone in quelle dita di fata. Fu come se nella CabOp la temperatura fosse calata di colpo. 18 — Ho bisogno di silenzio — disse Artemis. — Fate uscire tutti. Di norma, Grana Algonzo avrebbe ribattuto che Artemis non aveva l’autorità di far sgomberare un ufficio e, anzi, avrebbe invitato altra gente ad affollare la stanzetta solo per farsi valere, ma quel giorno non rientrava nella norma. — Tutti fuori! — ringhiò agli agenti assiepati alle sue spalle. — Spinella, Polledro e Fangosetto, voi rimanete qui. — Credo che resterò anch’io — disse Leale, proteggendosi con una mano la sommità del capo dalla lampada accesa. Nessuno ebbe nulla da ridire. Di solito gli agenti della LEP si allontanavano malvolentieri e con virile riluttanza quando ricevevano l’ordine di farlo, ma in quel caso si precipitarono tutti al monitor più vicino, ansiosi di non perdersi neppure un fotogramma degli eventi. Polledro chiuse la porta alle loro spalle con un colpo di zoccolo, quindi oscurò il vetro per evitare distrazioni dall’esterno. Gli altri quattro rimasero in un semicerchio disordinato davanti allo schermo a parete, a osservare quelli che a tutti gli effetti sembravano gli ultimi istanti della vita di Opal Koboi. O comunque, di una delle Opal Koboi. Sullo schermo c’erano due gnomi con indosso maschere integrali anti-raggi UVA programmabili per assumere le fattezze di chiunque. Quelle erano state modellate su Pip e Kip, due popolarissimi mici dei cartoni animati della PPTV, ma sotto di esse erano comunque ben riconoscibili due gnomi, con i robusti torsi a forma di barile e gli avambracci rigonfi. Stavano davanti a un insignificante muro grigio e torreggiavano sulla minuscola folletta inginocchiata sui solchi lasciati nel fango da un qualche veicolo a ruote; l’acqua lambiva i pantaloni della sua divisa di sartoria. Opal aveva i polsi legati e la bocca sigillata con del nastro adesivo, e sembrava davvero terrorizzata. Il distorsore nella maschera dello gnomo con la pistola ne alterava la voce, che sembrava quella del gattino Pip. — Non so come spiegarmi meglio di così — squittiva, e in qualche modo quei suoni da cartone animato lo rendevano ancora più pericoloso. — Noi abbiamo preso una Opal, voi avete l’altra. Voi lasciate andare la vostra e noi non uccideremo questa. Vi avevamo dato venti minuti, ve ne restano quindici. Pip il gattino alzò il cane della sua pistola. Leale diede un colpetto sulla spalla a Spinella. — Ma non ha detto…? 19 — Già. Quindici minuti, o Opal muore. Leale si infilò nell’orecchio una traducimice. Quella faccenda era troppo importante per poter fare affidamento sulle sue zoppicanti conoscenze dello gnomico. Grana Algonzo era incredulo. — Ma che razza di accordo è? O voi ci consegnate una terrorista o noi ammazziamo una terrorista? — Non possiamo permettere che qualcuno venga ammazzato sotto i nostri occhi — disse Spinella. — Assolutamente no — convenne Polledro. — Non siamo mica umani. Artemis si schiarì la voce. — Spiacente, Artemis, ma voi umani siete davvero assetati di sangue — insistette il centauro. — Certo, anche fra di noi ogni tanto salta fuori un folletto assetato di potere, ma in linea di massima il Popolo è pacifico. Il che probabilmente spiega perché viviamo qua sotto. Grana Algonzo se ne uscì con un vero e proprio ringhio, uno dei suoi trucchi da capo che non riusciva a molti, soprattutto se raggiungevano a malapena il metro di altezza in quelli che Artemis era certo fossero stivali col rialzo, ma abbastanza convincente da soffocare la lite sul nascere. — Concentriamoci, gente — disse. — Qui ci servono delle soluzioni. Non possiamo in nessun modo liberare Opal Koboi, ma non possiamo neanche stare a guardare mentre l’ammazzano. Nel frattempo il computer aveva cercato tutti i riferimenti a Koboi e aveva avviato il suo file su uno schermo laterale, giusto nel caso che qualcuno avesse bisogno di una rinfrescatina alla memoria. OPAL KOBOI. Folletta geniale certificata, industriale e inventrice. Ha organizzato il colpo di stato e l’insurrezione dei goblin. Si è clonata per evitare la prigione e ha tentato di guidare gli umani a Cantuccio. Responsabile dell’assassinio del comandante Julius Tubero. Si è fatta impiantare una ghiandola pituitaria umana per produrre l’ormone della crescita (successivamente rimossa). Una versione più giovane di Opal ha seguito il capitano Tappo dal passato, e nell’epoca attuale risulta irreperibile. Si presume che farà un tentativo di liberare il suo alter ego incarcerato e di tornare alla propria epoca. Opal è nella posizione senza precedenti di occupare i posti numero uno e due sull’elenco dei criminali più pericolosi della LEP. Classificata come estremamente intelligente, motivata e psicotica. Mossa audace, Opal, pensò Artemis. E con ripercussioni potenzialmente 20 catastrofiche. Avvertì più che vedere Spinella al suo fianco. — Tu che cosa ne pensi, Artemis? Il ragazzo era scuro in volto. — La mia prima impressione è che si tratti di un bluff, ma i piani di Opal mettono sempre in conto le prime impressioni. — Potrebbe essere un trucco. Forse quegli gnomi le sparerebbero a salve? Artemis scosse il capo. — No. Una mossa del genere non porterebbe alcun frutto, a parte un momentaneo orrore da parte nostra. Opal ha progettato tutto questo in modo da assicurarsi comunque la vittoria. Se la liberate, allora è libera. Se la Opal più giovane muore, allora… Allora cosa? Leale intervenne. — Oggigiorno con gli effetti speciali si può fare di tutto. E se elaborassero al computer lo scoppio della sua testa? Era una teoria che Artemis aveva già valutato e scartato, giudicandola fiacca. — No, Leale. Pensaci: anche in questo caso, non ci guadagnerebbe niente. Polledro sbuffò. — In ogni caso, se la uccidono sul serio, sapremo molto presto se tutta questa faccenda è vera oppure no. Artemis se ne uscì in una mezza risata. — Ah, questo è vero, lo sapremo senz’altro. Leale gemette. Quello era uno di quei momenti in cui Artemis e Polledro discutevano di qualcosa di scienzievole dando per scontato che anche tutti gli altri nella stanza riuscissero a stargli dietro. Erano i momenti come quelli che davano sui nervi a Spinella. — Ma di che cosa state parlando? — gridò infatti l’elfa. — Che cos’è che sapremo? Come sapremo qualcosa, qualunque cosa? Artemis la guardò come appena risvegliato da un sogno. — Dici davvero, Spinella? Hai due versioni dello stesso individuo nello stesso arco temporale e non ti rendi conto delle implicazioni di questo fatto? Sullo schermo, gli gnomi erano immobili come statue alle spalle della folletta tremante. Quello armato, Pip, di tanto in tanto controllava l’orologio da polso scostando il polsino della camicia con la canna della pistola, ma per il resto aspettavano con pazienza. Opal implorava con gli occhi, fissando dritto nell’obiettivo, con grossi lacrimoni che le correvano lungo le guance, catturati dalla luce del sole. I capelli parevano più sottili del solito e sporchi. L’uniforme di Juicy Couture, senza dubbio acquistata nel reparto bambini di qualche grande magazzino esclusivo, aveva strappi incrostati di sangue in diversi punti. L’immagine era a super-alta definizione, talmente nitida che sembrava di vederla attraverso una finestra. Se quella era una minaccia fasulla, allora la giovane Opal non era a parte del piano. 21 Grana Algonzo picchiò un pugno sul tavolo, un gesto ostentato che aveva ripreso da Julius Tubero. — E cosa sarebbero le implicazioni? Spiegati! — Tanto per essere chiari: vuoi che ti spieghi che cosa significa la parola implicazioni? Oppure vuoi sapere quali sono? Spinella gli rifilò una gomitata nel fianco per mettergli fretta. — Artemis, stiamo lottando contro il tempo. — Benissimo, Spinella. Ecco il problema… — Oh, per favore, lascia che glielo spieghi io — lo pregò Polledro. — Questo è il mio regno: sarò semplice e andrò dritto al punto, te lo prometto. — Avanti, allora — disse Algonzo, che era noto per il suo amore per le espressioni “semplice e dritto al punto”. Spinella rise. Un unico latrato secco. Non riusciva a credere che tutti continuassero a comportarsi come se niente fosse anche con una vita in gioco. Siamo diventati insensibili come gli umani, rifletté. Qualsiasi cosa Opal avesse fatto, era ancora una persona. C’erano stati giorni bui in cui Spinella aveva sognato di dare la caccia a quella folletta e di comminare una giustizia come quella dei Fangosi, ma quei giorni erano passati da un pezzo. Polledro si tirò l’eccentrico ciuffo. — Tutti gli esseri sono fatti di energia — esordì con la tipica voce pomposa da quello-che-trasmette-informazioni-importanti che esibiva in momenti come quello. — Quando questi esseri muoiono, a poco a poco la loro energia si dissolve e ritorna alla terra. — Fece una pausa a effetto. — Ma che cosa succede se tutta l’esistenza di un essere viene improvvisamente annullata da un’anomalia quantistica? Grana Algonzo lo interruppe con un gesto della mano. — Piano, piano. Semplice e dritto al punto, ricordi? Polledro riformulò il concetto. — D’accordo. Se la giovane Opal muore, allora la vecchia Opal non può continuare a esistere. Algonzo impiegò un secondo, ma capì. — Perciò sarà come al cinema? Si dissolverà e noi resteremo a guardare perplessi per un momento e poi ce ne dimenticheremo? Polledro rise sotto i baffi. — Questa è una possibilità. — E l’altra quale sarebbe? D’un tratto il centauro impallidì e, cosa insolita per lui, lasciò la parola ad Artemis. 22 — Perché questa parte non la spieghi tu? — gli chiese. — Ho appena intuito ciò che potrebbe effettivamente accadere e devo incominciare a fare qualche chiamata. Artemis annuì. — L’altra teoria è stata avanzata per la prima volta oltre cinque secoli fa dal vostro professor Bahjee, il quale ritiene che se un arco temporale viene inquinato dall’arrivo della versione più giovane di un essere e se quella versione più giovane successivamente muore, allora la versione attuale di quell’essere sprigionerà tutta la sua energia in maniera spontanea e violenta. E non solo, ma qualunque cosa esistente grazie alla Opal più giovane si ridurrà in cenere con lei. “Violenta” e “ridurre in cenere” erano espressioni che il comandante Algonzo capiva benone. — Sprigiona la sua energia? E con che violenza? Artemis fece spallucce. — Dipende dall’oggetto o dall’essere. La materia si trasforma in energia all’istante. Si sprigionerà una forza esplosiva immensa. Si potrebbe parlare addirittura di fissione nucleare. Spinella sentì il cuore accelerare. — Fissione? Fissione nucleare? — Sostanzialmente sì — confermò Artemis. — Per gli esseri viventi. Gli oggetti dovrebbero provocare meno danni. — E qualunque cosa Opal abbia fatto o abbia contribuito a fare esploderà con lei? — No. Solo tutto ciò su cui ha avuto influenza negli ultimi cinque anni del nostro arco di tempo, fra le sue due diverse età, anche se probabilmente su entrambi i lati si verificherà qualche increspatura temporale. — Stai parlando di tutte le armi della sua società ancora in uso? — chiese Spinella. — E ci sono anche i satelliti — soggiunse Algonzo. — Praticamente un veicolo su due in questa città. — Ma è solo una teoria — ricordò Artemis. — Ce n’è un’altra secondo cui non succederà niente a parte la morte di una persona. La fisica avrà la meglio sulla fisica quantistica e tutto proseguirà come sempre. Spinella era paonazza di rabbia. — Parli come se Opal fosse già morta. Artemis non sapeva che cosa dire. — Stiamo guardando nell’abisso, Spinella. Fra poco molti di noi potrebbero essere morti. Ho bisogno di mantenere un certo distacco. Polledro alzò gli occhi dallo schermo del suo computer. — E che mi dici delle percentuali, Fangosetto? — Percentuali? — Teoricamente. 23 — Ah, capisco. Quante probabilità ci sono che si verifichino le esplosioni? — Esatto. Artemis rifletté un istante. — Tutto considerato, direi circa il novanta per cento. Se mi piacesse scommettere e ci fosse qualcuno pronto ad accettare una scommessa del genere, ci punterei sopra fino all’ultima moneta d’oro. Grana Algonzo sembrava un leone in gabbia. — Dobbiamo rilasciare Opal. Dobbiamo lasciarla andare subito. Adesso Spinella era incerta. — Pensiamoci un attimo, Gran. Il comandante si voltò a guardarla. — Non hai sentito che cos’ha detto l’umano? Fissione nucleare! Non possiamo permetterci di avere una fissione nucleare nel sottosuolo! — Sono d’accordo, ma potrebbe sempre essere un trucco. — L’alternativa è troppo terribile. La lasciamo libera e poi le diamo la caccia. Mettimi in linea con Atlantide, subito. Ho bisogno di parlare con il guardiano di Sprofondo. È ancora Vinyàya? Artemis parlò piano, ma con il tono imperativo che faceva di lui un leader naturale fin da quando aveva dieci anni. — È troppo tardi per liberare Opal. Tutto ciò che possiamo fare è salvarle la vita. È quello che ha sempre avuto in mente. — Salvarle la vita? — obiettò Grana. — Ma abbiamo ancora… Il comandante Algonzo controllò il timer. — Dieci minuti. Artemis diede una pacca sulla spalla a Spinella e poi si allontanò da lei. — Se la burocrazia elfica assomiglia anche solo un po’ a quella degli uomini, non riuscirete mai a mettere Opal su una navetta entro quel termine. Al massimo potreste portarla giù al nucleo del reattore. Grana Algonzo non aveva ancora imparato sulla propria pelle a chiudere il becco e a lasciare che Artemis si spiegasse, perciò continuava a fare domande rallentando il processo e sprecando così secondi preziosi. — Il nucleo del reattore? Quale nucleo del reattore? Artemis alzò un dito ammonitore. — Ancora una domanda, comandante, e mi costringerà a ordinare a Leale di farla tacere. Grana Algonzo era lì lì per cacciarlo o per accusarlo di qualcosa, ma la situazione era critica, e se c’era anche solo una possibilità che quell’umano potesse essere di aiuto in un modo o nell’altro… Strinse i pugni fino a far scricchiolare le dita. — D’accordo, parla. — Sprofondo è alimentato da un reattore a fissione naturale in uno strato di minerale di uranio posato su un letto di granito simile a quello di Oklo, nel Gabon — spiegò Artemis, recuperando i fatti dalla memoria. — La 24 Compagnia Elettrica del Popolo raccoglie l’energia in piccoli serbatoi installati nell’uranio. Questi serbatoi sono costruiti con la scienza e la magia per resistere a un’esplosione nucleare di entità moderata. Lo insegnano nelle scuole, qui. Ogni membro del Popolo presente in questa stanza lo sa, dico bene? Tutti quanti annuirono. Tecnicamente era esatto: adesso lo sapevano. — Se riusciamo a mettere Opal dentro un serbatoio prima dello scadere del tempo, allora l’esplosione sarà per lo meno contenuta, e teoricamente, se pompiamo al suo interno una quantità sufficiente di schiuma stopparadiazioni, Opal potrebbe addirittura conservare la propria integrità fisica. Anche se questa invece è un’eventualità su cui non scommetterei fino all’ultima moneta d’oro. A quanto pare, Opal è pronta a correre questo rischio. Grana Algonzo era tentato di puntare il dito contro il petto del ragazzino, ma saggiamente ci ripensò. — Stai dicendo che questo è un elaborato piano di fuga? — Ma certo, e non così elaborato. Opal vi sta costringendo a farla uscire dalla sua cella. L’alternativa è la completa distruzione di Atlantide e di ogni anima al suo interno, che è una cosa impensabile per chiunque tranne che per la stessa Opal. Polledro aveva già tirato fuori le planimetrie della prigione. — Il nucleo del reattore si trova a meno di cento metri sotto la cella di Opal. Mi sto mettendo in contatto con la guardia proprio adesso. Spinella sapeva che Artemis era un genio e che non c’era nessuno più qualificato di lui per cercare di intuire i piani dei rapitori, ma avevano ancora delle possibilità. Guardò le figure sullo schermo, e l’indifferenza degli gnomi davanti a quanto stavano per fare la raggelò. Se ne stavano stravaccati come adolescenti, quasi non degnavano la loro prigioniera di un’occhiata, sicuri di sé fino alla sfacciataggine, incuranti delle maschere a percezione sensoriale che leggevano i loro volti e manifestavano le emozioni corrispondenti nella maniera esagerata dei cartoni animati. Quelle maschere erano molto popolari tra gli amanti del karaoke, i quali potevano assumere le sembianze dei loro idoli oltre a cercare di imitarne la voce. Forse non sanno di preciso che cosa c’è in ballo qui, pensò d’un tratto Spinella. Forse ne sono ignari come lo ero io fino a dieci secondi fa. — Possono sentirci? — chiese a Polledro. — Sì, ma non abbiamo ancora risposto. Basta premere il pulsante. 25 Era un’espressione antiquata; ovviamente, non c’erano più pulsanti veri e propri, solo un sensore sul touch screen. — Ferma, capitano! — le ordinò Grana Algonzo. — Sono addestrata a portare avanti negoziati, signore — ribatté Spinella, sperando che il rispetto nel suo tono di voce le facesse ottenere ciò che voleva. — E una volta sono stata… — Scoccò un’occhiata colpevole ad Artemis, dispiaciuta di dover giocare quella carta. — Sono stata un ostaggio anch’io, perciò so come vanno queste cose. Mi lasci parlare con loro. Artemis annuì in segno d’incoraggiamento, e Spinella seppe che aveva compreso la sua tattica. — Il capitano Tappo ha ragione, comandante — disse il ragazzo. — Spinella ha capacità naturali di comunicazione. È riuscita a convincere perfino me. — Allora fallo — abbaiò Algonzo. — Polledro, tu continua a cercare di metterti in contatto con Atlantide. E raduna il Consiglio, dobbiamo incominciare subito a evacuare le due città. Anche se le facce degli gnomi non erano visibili, adesso le espressioni da cartoni animati erano annoiate, lo si capiva dall’inclinazione del capo e dalle ginocchia piegate. Forse tutta quella faccenda non era così emozionante come avevano sperato. Dopotutto, non vedevano il loro pubblico e nessuno aveva risposto alle loro minacce. Quella che era iniziata come un’azione rivoluzionaria si stava trasformando in due grossi gnomi che se la prendevano con una folletta. Pip agitava la pistola in direzione di Kip, e il significato di quel gesto era chiaro: Ma perché non la facciamo fuori subito? Spinella attivò il microfono con un gesto della mano. — Salve. È il capitano Spinella Tappo della LEP che vi parla. Mi sentite? Gli gnomi alzarono la testa di scatto, e Pip azzardò persino un fischio, che attraverso il truccavoce uscì come una pernacchia. — Salve, capitano Tappo. Abbiamo sentito parlare di te. E ho visto le foto. Non sei niente male, capitano. Spinella trattenne una risposta caustica: mai costringere un rapitore a dare prova della propria determinazione. — Grazie, Pip. Posso chiamarti Pip? — Spinella Tappo, tu puoi chiamarmi come vuoi e ogni volta che vuoi — squittì Pip, allungando la mano libera verso il compagno in un gesto di complicità. Spinella era incredula: quei due erano sul punto di cancellare del tutto l’intero mondo del Popolo e facevano gli scemi come due goblin in discoteca. 26 — D’accordo, Pip — continuò con voce pacata. — E che cosa possiamo fare per te oggi? Pip scosse mestamente la testa rivolto verso Kip. — Ma perché quelle carine sono sempre così stupide? — Poi si voltò verso la telecamera. — Lo sai che cosa puoi fare per noi, ve lo abbiamo già detto. Liberate Opal Koboi o il suo modello più giovane si farà una bella dormitina. E con ciò intendo dire che si buscherà un colpo in piena fronte. — Dovete darci un po’ di tempo come prova della vostra buona fede. Avanti, Pip. Che ne dici di un’altra ora? Lo faresti per me? Pip si grattò la testa con la canna della pistola, fingendo di prendere in considerazione la richiesta. — Sei carina, Spinella, ma non così tanto. Se ti do un’altra ora, riuscirai in un modo o nell’altro a rintracciarmi e a sganciarmi una bella stasi temporale sulla testa. No, grazie, capitano. Avete dieci minuti. Se fossi in te, aprirei quella cella oppure chiamerei l’impresario delle pompe funebri. — Ci vuole tempo per queste cose, Pip — insistette Spinella, ripetendo il nome del suo avversario per creare una certa confidenza. — Ci vogliono tre giorni solo per pagare una multa per divieto di sosta! Pip si strinse nelle spalle. — Non è un problema mio, piccola. E puoi andare avanti tutto il giorno a chiamarmi Pip, ma non diventeremo mai amici per la pelle: non è il mio vero nome. Artemis disattivò il microfono. — Questo è uno tosto, Spinella. Non giocare con lui, digli la verità e basta. L’elfa annuì e riaccese il microfono. — D’accordo, come-ti-chiami. Lascia che ti spieghi come stanno le cose. Ci sono buone probabilità che se spari alla giovane Opal, qua sotto si verifichi una serie di belle esplosioni. Un mucchio di persone innocenti moriranno. Pip agitò noncurante la pistola. — Ah, sì, le leggi quantistiche. Sappiamo tutto al riguardo, vero, Kip? — Le leggi quantistiche — confermò Kip. — Certo che lo sappiamo. — E non vi importa che muoiano elfi buoni o addirittura gnomi che potrebbero essere vostri parenti? Pip inarcò talmente le sopracciglia che sbucarono da sopra la maschera. — Tu vuoi bene a qualcuno dei tuoi parenti, Kip? — Non ho famiglia. Sono orfano. — Davvero? Anch’io. E mentre loro continuavano a punzecchiarsi, Opal a terra tremava, cercando di parlare attraverso il nastro adesivo. Più tardi, se mai ci fosse stato un più 27 tardi, Polledro avrebbe fatto un’analisi vocale di quei mugolii soffocati, ma non ci voleva un genio per capire che stava implorando di avere salva la vita. — Ma ci sarà pur qualcosa che vi serve? — insistette Spinella. — Una cosa ci sarebbe — ribatté Pip. — Posso avere il tuo numero di interfono? Mi farebbe tanto piacere vederci per un simil-cappuccino, una volta finito tutto questo. Certo, potrebbe volerci un po’, con Cantuccio in rovina e tutto quanto. Polledro inserì una scritta sullo schermo. Diceva: Stanno trasferendo Opal in questo momento. Spinella sbatté le palpebre per indicargli che aveva capito, poi riprese i negoziati. — La situazione è questa, Pip. Ci restano nove minuti. Non si può far uscire qualcuno da Atlantide in nove minuti, è impossibile. Bisogna fargli indossare la tuta, se necessario anche pressurizzarla, e poi fargli attraversare i condotti che portano in mare aperto. Nove minuti non sono sufficienti. Le risposte teatrali di Pip incominciavano a diventare un po’ insopportabili. — Be’, allora immagino che un mucchio di gente finirà a bagno. La fissione può aprire un gran bel buco nello scudo. Spinella sbottò: — Ma non vi importa di nessuno? Qual è la tariffa attuale per il genocidio? Pip e Kip scoppiarono a ridere. — Che cosa orribile l’impotenza, non è vero? — disse Pip. — Però ci sono anche sensazioni peggiori. Affogare, per esempio. — O essere schiacciati dal crollo di un palazzo — aggiunse Kip. Spinella picchiò i pugnetti sulla console. Quei due mi mandano in bestia, pensò. Pip si avvicinò alla telecamera finché la sua maschera non riempì tutto lo schermo. — Se non riceveremo una chiamata da Opal Koboi nei prossimi minuti per dirci che è a bordo di una navetta diretta alla superficie, allora io sparerò a questa folletta. Credimi, lo farò. Polledro si teneva la testa tra le mani. — E dire che Pip e Kip mi piacevano così tanto — gemette. 28 CAPITOLO 2 - FAR FUORI IL PASSATO SPROFONDO, ATLANTIDE Opal Koboi stava compiendo un futile tentativo di levitazione quando i secondini andarono a prenderla. Era una cosa che aveva imparato a fare fin da bambina, prima che la strada del crimine le cancellasse ogni forma di magia dalle sinapsi, le minuscole giunzioni fra le cellule nervose in cui la maggior parte degli esperti conviene che la magia abbia origine. Forse avrebbe anche potuto rigenerare i propri poteri, se non fosse stato per la ghiandola pituitaria umana che per un breve periodo si era fatta impiantare nell’ipotalamo. La levitazione era un’arte complessa, soprattutto per le follette dai poteri limitati, e di solito era uno stato raggiunto solamente dai monaci di Ullallà della Terza Loggia, ma Opal era riuscita a padroneggiarla quando ancora portava i pannolini, e quello era stato per i suoi genitori il primo segno che la figlia era in qualche modo speciale. Ma ci si può credere? pensava. Volevo diventare un’umana. Quello è stato un errore per il quale prima o poi troverò qualcuno su cui buttare la colpa. Il centauro Polledro: è stato lui a convincermi. Spero proprio che rimanga ucciso nell’esplosione. Fece un sogghigno compiaciuto. C’era stato un tempo in cui aveva superato la monotonia della prigione ideando trappole mortali sempre più elaborate per la sua nemesi sul centauro, ma adesso si accontentava di lasciare che Polledro morisse con tutti gli altri nelle imminenti esplosioni. Oh, certo, aveva macchinato una sorpresina per sua moglie, ma quello era solo un progettino collaterale, non ci aveva perso dietro troppo tempo. Questo dimostra a che punto sono arrivata, pensava. Sono maturata. Il velo si è sollevato e ora vedo il mio vero scopo. C’era stato un tempo in cui Opal non era stata altro che una spietata folletta affarista con problemi con il padre, ma a un certo punto, nel corso di anni di esperimenti proibiti, aveva lasciato che la magia nera mettesse radici nella sua anima e piegasse i desideri del suo cuore finché non le era più bastato essere ammirata nella sua città. Aveva bisogno che il mondo intero si inchinasse davanti a lei, ed era pronta a rischiare il tutto per tutto e a sacrificare chiunque per vedere soddisfatto il proprio desiderio. Questa volta sarà diverso perché avrò piegato al mio volere dei guerrieri terrificanti. Soldati antichi, che moriranno per me, si diceva. 29 Opal si era schiarita la mente e aveva inviato una sonda in cerca del suo alter ego. E tutto quello che aveva ricevuto era il rumore bianco del terrore. Lei sa, si era resa conto. Poverina. Quell’attimo di commiserazione per il suo alter ego più giovane non era durato a lungo, perché la Opal prigioniera aveva imparato a non vivere nel passato. Sto semplicemente eliminando un ricordo, si disse. Tutto qui. Che era un modo comodo di vedere la cosa. La porta della sua cella passò dallo stato solido a quello gassoso, e Opal non fu sorpresa di vedere davanti a sé il secondino Tarpon Vinyàya, un malleabile burocrate che non aveva mai passato una sola notte sotto la luna. Si agitava irrequieto sulla soglia, fiancheggiato da due spiritelli giganti. — Guardia — lo salutò la folletta, lasciando perdere il suo tentativo di levitazione. — È arrivata la mia grazia? Tarpon non aveva tempo da perdere per i convenevoli. — Ti trasferiamo, Koboi. Niente discussioni, seguimi e basta. Con un gesto, chiamò i due colleghi. — Impacchettatela, ragazzi. I due spiritelli entrarono decisi nella cella e senza dire una parola bloccarono le braccia della prigioniera lungo i fianchi. Gli spiritelli giganti erano una razza caratteristica di Atlantide, dove la combinazione particolare di ambiente pressurizzato e filtri a base di alghe li faceva saltare fuori con crescente regolarità nel corso degli anni. Di solito la loro forza muscolare andava a scapito delle capacità intellettuali, il che faceva di loro delle guardie carcerarie ideali, dato che non avevano alcun rispetto per qualunque essere più piccolo di loro, esclusi quelli che gli pagavano lo stipendio. Prima che Opal potesse anche solo aprire la bocca per formulare un’obiezione, gli spiritelli l’avevano già ficcata in una tuta foderata stopparadiazioni e le avevano fatto passare attorno al tronco tre pitoncorde. Il capo dei secondini sospirò come se avesse temuto che Opal riuscisse in qualche modo a mettere fuori gioco i suoi compagni. Ed era proprio così. — Ottimo. Ottimo — commentò, tamponandosi la fronte con un fazzoletto di canapa. — Portatela nell’interrato. Non toccate le tubature e, se possibile, trattenete il fiato. Gli spiritelli sollevarono la prigioniera come fosse un tappeto arrotolato e di corsa uscirono dalla cella di Opal, attraversarono il ponticello che collegava il suo cubo alla prigione principale ed entrarono nell’ascensore di servizio. Opal sorrise dietro la pesante visiera di piombo dell’elmetto. Questo deve decisamente essere il giorno in cui le Opal Koboi si fanno 30 strapazzare da energumeni, si disse. Trasmise un pensiero al suo alter ego più giovane in superficie: Mi dispiace per te, sorella. La cabina dell’ascensore schizzò verso il basso attraverso un centinaio di metri di morbida argilla fino a una saletta fatta interamente di materiale ultradenso recuperato dalla crosta di una stella di neutroni. Opal immaginò che fossero arrivati e ridacchiò al ricordo di uno stupido gnomo, alle superiori, che aveva domandato di che cosa fossero fatte le stelle di neutroni. — Di neutroni, ragazzo — era sbottato il professor Leguminosa. — Di neutroni. Lo dice il nome stesso. Quella stanza deteneva il record dell’ambiente più costoso per centimetro quadrato su tutto il pianeta, anche se ricordava un po’ una fornace per cemento. A un capo c’era la porta dell’ascensore, all’altro quelli che sembravano quattro tubi per missili e al centro un nano estremamente irritato. — Vi prendete gioco di me? — chiese, sporgendo in fuori la pancia con aria belligerante. Gli spiritelli giganti scaricarono la prigioniera sul pavimento grigio. — Ordini, amico — disse uno dei due. — Mettila nel tubo. Il nano scosse la testa ostinatamente. — Non intendo mettere nessuno in un tubo. Quei tubi sono stati costruiti per le barre. — Sono sicuro che uno dei reattori è vuoto, perciò anche il tubo deve essere vuoto — ribatté il secondo spiritello, orgoglioso di avere memorizzato quell’informazione. — Avresti anche ragione, grassone, se non fosse per quel “deve essere” in fondo alla frase — ribatté il nano che rispondeva al nome di Kolon Zkopja. — Ma anche se fosse così, ho bisogno di sapere in che modo la conseguenza del non mettere una persona in un tubo possa essere peggiore della conseguenza del farlo. Per digerire una frase di tale lunghezza, a uno spiritello gigante occorrevano parecchi minuti; per fortuna, lo squillo del telefono di Kolon risparmiò loro l’imbarazzo di una risposta. — Un attimo — disse il nano, controllando l’identità del chiamante. — È la guardia. Kolon rispose al telefono con un lungo giro di parole. — Sì, pronto. Qui parla Zkopja, dell’ufficio tecnico. Rimase in ascolto per un lungo istante, in cui riuscì a proferire solo tre “ah ah” e due “D’Arvit” prima di rimettere l’apparecchio in tasca. 31 — Wow — fece tastando con il piede la tuta stoppa-radiazioni. — Direi che fareste meglio a metterla nel tubo. CENTRALE DI POLIZIA, CANTUCCIO, STRATI INFERIORI Pip agitava il telefono davanti alla telecamera. — Senti qualcosa? Perché io invece no. Nessuno che chiami questo numero, eppure ho cinque tacche. Copertura planetaria al cento per cento. Diamine, una volta ho ricevuto una telefonata persino su una navicella spaziale. Spinella sfregò il microfono. — Stiamo facendo più in fretta possibile. In questo momento Opal Koboi è al navettiporto. Ci servono solo altri dieci minuti. Pip incominciò a cantilenare: Guai a mentire solo per riuscire. Non dir menzogna se non cerchi rogna. Polledro si scoprì a canticchiare pure lui. La musica era quella dei cartoni di Pip e Kip. Spinella lo fulminò con un’occhiata. — Scusa — borbottò il centauro. Quei noiosi battibecchi spazientirono Artemis. — Tutto ciò è inutile e francamente imbarazzante. Non hanno la minima intenzione di liberare Opal. Dobbiamo sfollare immediatamente, per lo meno ai navettiporti. Sono costruiti per resistere alle vampe di magma. Polledro non era d’accordo. — Qui siamo al sicuro. Il vero pericolo è ad Atlantide, dove si trova l’altra Opal. Tu hai detto, e io sono dello stesso parere, che le esplosioni serie, quelle teoriche, possono coinvolgere solo gli esseri viventi. — Le esplosioni teoriche sono teoriche solo finché la teoria non viene dimostrata — ribatté Artemis. — E con così tanti… — Lasciò la frase a metà, cosa davvero insolita per lui, considerato che detestava tanto la grammatica zoppicante quanto le cattive maniere. Il colorito della sua pelle passò da pallido a porcellana, e il ragazzo arrivò perfino a darsi dei colpetti alla fronte. — Stupidi. Stupidi. Polledro, siamo due imbecilli. Non che mi aspettassi che un membro della LEP fosse capace di pensare fuori dagli schemi, ma tu… Spinella riconobbe quel tono: lo aveva sentito nelle avventure precedenti, di solito prima che qualcosa andasse catastroficamente storto. — Che c’è? — domandò, già temendo una risposta che sicuramente doveva essere terribile. — Già — concordò Polledro, che il tempo di sentirsi offeso lo trovava 32 sempre. — Perché sarei un imbecille? Artemis puntò l’indice in diagonale verso il basso e a sud-ovest, all’incirca nella direzione che avevano preso di ritorno dalla Clinica J. Argon. — La cabina per ossigenoterapia mi ha annebbiato la mente — disse. — Il clone. Nopal. Lei è un essere vivente. Se esplode lei, potrebbe aver luogo la fissione. Polledro aprì il file del clone sul sito web di Argon, navigando a tutta birra fino ai dettagli sulla paziente. — No. Credo che dovremmo essere a posto. Opal ha prelevato il DNA prima che avvenisse la distorsione temporale. Artemis era comunque furioso con se stesso per avere momentaneamente dimenticato un elemento di tale importanza. — Abbiamo affrontato la crisi per diversi minuti prima che mi ricordassi dell’importanza del clone — disse. — Se Nopal fosse stata creata in un momento successivo, la mia lentezza mentale sarebbe potuta costare delle vite. — Ma ci sono ancora un mucchio di vite in gioco, e dobbiamo salvarne il più possibile — gli ricordò Polledro. Il centauro sollevò un coperchio di plexiglas sulla parete e premette il pulsante rosso sottostante. In un attimo, in tutta la città riecheggiò il suono delle sirene di evacuazione. Quel rumore sinistro si propagò come il lamento di madri che ricevono la cattiva notizia dei loro incubi. Polledro si mangiucchiava un’unghia. — Non possiamo perdere tempo ad aspettare l’approvazione del Consiglio — disse a Grana Algonzo. — Credo che quasi tutti riusciranno a raggiungere i navettiporti, però dobbiamo approntare le squadre di rianimazione. A Leale l’idea di perdere Artemis non garbava per niente. — Non c’è nessuno in imminente pericolo di vita. Il suo principale non sembrava eccessivamente preoccupato. — Be’, tecnicamente, tutti sono in imminente pericolo di vita. — Chiudi il becco, Artemis! — sbottò Leale con un’infrazione senza precedenti alla propria etica professionale. — Ho promesso a tua madre che avrei badato a te, e tu non fai altro che mettermi in una posizione in cui i miei muscoli e le mie doti non contano un bel niente. — Sei ingiusto — ribatté Artemis. — Non puoi incolpare me per l’ultimo scherzo di Opal. La faccia di Leale prese un paio di tonalità di rosso di più di quanto Artemis ricordasse di avergli mai visto. — Oh, sì che credo di poter incolpare te, e lo faccio! Non abbiamo ancora superato del tutto le conseguenze della tua ultima disavventura ed eccoci qui immersi fino al collo in un’altra. 33 Artemis sembrava più scioccato da quello sfogo che dalla faccenda dell’imminente pericolo. — Leale, non avevo idea che ti sentissi così frustrato. La guardia del corpo si sfregò la testa rasata. — Neanch’io — ammise. — Però negli ultimi anni ne sono successe una dietro l’altra. Goblin, viaggi nel tempo, demoni. E adesso questo posto in cui è tutto così… così… piccolo. — Prese fiato. — Va bene, l’ho detto, mi sono sfogato. Adesso sto meglio. Perciò muoviamoci, d’accordo? Qual è il piano? — Procedere con l’evacuazione — rispose subito Artemis. — Smettere di perdere tempo con quelle teste vuote che hanno in mano l’ostaggio, loro seguono soltanto le istruzioni. Chiudere le porte antiscoppio che dovrebbero assorbire in parte le onde d’urto. — Abbiamo già messo in atto le nostre strategie, umano — gli ricordò Grana Algonzo. — L’intera popolazione può trovarsi ai punti di raccolta in cinque minuti. Artemis camminava su e giù, pensieroso. — Dite alla vostra gente di buttare tutte le armi nei pozzi del magma. Di sbarazzarsi di qualsiasi cosa possa avere a che fare con la tecnologia Koboi. Telefoni, videogiochi, tutto quanto. — Tutte le armi prodotte dalla Koboi sono già state ritirate — disse Spinella. — Però qualcuna delle Neutrino più vecchie potrebbe ancora contenere un chip o due. Grana Algonzo ebbe la buona grazia di mostrarsi imbarazzato. — Be’, in effetti solo alcune delle armi prodotte dalla Koboi sono state ritirate — la corresse. — I tagli al bilancio, sai com’è. Pip interruppe i loro preparativi picchiando addirittura sull’obiettivo. — Ehi, voialtri della LEP! Io ci sto invecchiando, qui. Qualcuno dica qualcosa, qualunque cosa. Anche altre bugie, non importa. Artemis si accigliò. Non gli andava a genio quell’atteggiamento così strafottente quando tante vite erano in pericolo. Indicò il microfono. — Posso? Algonzo non si degnò quasi di alzare lo sguardo e continuò con le sue chiamate di emergenza facendo un gesto vago aperto a qualsiasi interpretazione. Artemis decise di interpretarlo come un sì. Si avvicinò allo schermo. — Ascoltami, essere inferiore. Sono Artemis Fowl. Forse avrai sentito parlare di me. Pip fece un largo sorriso e la maschera ricalcò la sua espressione. — Oooh, Artemis Fowl. Il ragazzino prodigio. Certo che abbiamo sentito parlare di te, non è vero, Kip? 34 Kip annuì e accennò una piccola giga. — Artemis Fowl, il ragazzo irlandese che ha dato la caccia ai leprecauni. Sicuro come l’oro che tutti hanno sentito parlare di quel saputello. Quei due sono degli idioti, pensò Artemis. Degli idioti che parlano troppo, e io dovrei saper sfruttare i loro punti deboli. Tentò un trucco. — Credevo di avervi detto di leggere le vostre richieste senza aggiungere altro. Il volto di Pip era letteralmente una maschera di confusione. — Tu ci hai detto? Artemis indurì il tono di voce. — Le mie istruzioni a voi due idioti erano di leggere le richieste, aspettare che scadesse l’ultimatum e poi sparare alla folletta. Non mi ricordo di avervi autorizzato a insultare. La maschera di Pip si accigliò. Come faceva Artemis Fowl a conoscere le loro istruzioni? — Le tue istruzioni? Ma noi non prendiamo ordini da te. — Ah, no? E allora spiegami un po’ come faccio a conoscere i vostri ordini alla lettera. Il software della maschera di Pip non era in grado di gestire cambiamenti di espressione così rapidi e per un attimo si bloccò. — Io… ehm… non… — E spiegami anche come faccio a conoscere la frequenza precisa su cui contattarvi. — Non sei alla Centrale di Polizia? — Certo che no, idiota. Sto aspettando l’arrivo di Opal al punto convenuto. Artemis sentì il polso accelerare mentre la sua mente conscia impiegava un momento per mettersi in pari con quella subconscia e gli diceva che cosa riconosceva sullo schermo. Qualcosa sullo sfondo. Qualcosa di familiare. Il muro dietro Pip e Kip era di un grigio anonimo. Ricoperto di un intonaco rifinito rozzamente, molto comune nelle fattorie in tutto il mondo. C’erano muri così in tutta la tenuta dei Fowl. Bingo! E il suo cuore riprese a battere. Si concentrò sul muro. Grigio ardesia, tranne per una ragnatela di crepe che si aprivano nell’intonaco. Gli tornò alla mente un ricordo di un Artemis di sei anni e di suo padre che facevano il giro della proprietà. Mentre passavano davanti al fienile accanto 35 al pascolo sul confine settentrionale, il piccolo Artemis aveva indicato il muro e aveva osservato: — Hai visto, padre? Quelle crepe disegnano la mappa della Croazia, che un tempo faceva parte degli Imperi Romano, Ottomano e Austro-Ungarico. Tu lo sapevi che la Croazia ha proclamato l’indipendenza dalla Jugoslavia nel 1991? Ecco cos’era. Sul muro alle spalle di Pip e Kip. La mappa della Croazia, anche se adesso l’Artemis quindicenne vedeva che la linea costiera della Dalmazia era interrotta. Sono nella tenuta dei Fowl, comprese. Ma perché? E allora gli tornò alla mente qualcosa che aveva detto il dottor Argon. “Perché lì i residui della magia sono particolarmente abbondanti. Un tempo nella proprietà dei Fowl è accaduto qualcosa. Qualcosa di enorme, dal punto di vista della magia.” Artemis decise di agire in base a quell’intuizione. — Sono alla tenuta dei Fowl in attesa di Opal — disse. — Anche tu sei a Casa Fowl? — sbottò Kip, il che spinse Pip a voltarsi di scatto e a sparare al suo compare dritto al cuore. Lo gnomo, sbalzato all’indietro contro il muro, fece sollevare nuvole di polvere dall’intonaco. Da un foro nel petto gli uscì un rivoletto di sangue che pulsava piano sulla sua corazza, simile a una banalissima goccia di pittura fuoriuscita da un barattolo. La sua faccia da gattino dei cartoni animati sembrava comicamente sorpresa e, quando il calore abbandonò il suo viso, i pixel si spensero, lasciando solo un punto interrogativo giallo. Quella morte improvvisa scioccò Artemis, ma la frase che l’aveva preceduta lo aveva scioccato ancora di più. Aveva avuto ragione su entrambe le cose: non solo dietro tutto questo c’era Opal, ma il punto d’incontro era la tenuta dei Fowl. Ma perché? Che cos’era successo lì? Pip gridò contro lo schermo: — Hai visto che cos’hai fatto, umano? Se poi lo sei davvero, umano. Se sei davvero Artemis Fowl. Non ha importanza quello che sai, è troppo tardi ormai. Pip premette la canna della pistola ancora fumante alla testa di Opal e lei si scostò come se il metallo le bruciasse la pelle, implorando attraverso il nastro adesivo che le tappava la bocca. Era evidente che Pip aveva una gran voglia di premere il grilletto, ma non poteva farlo. Ha ricevuto istruzioni precise, pensò Artemis. Deve aspettare che sia scaduto il tempo prestabilito. Altrimenti non può avere la certezza che Opal sia al 36 sicuro nel reattore nucleare. Il ragazzo disattivò il microfono e si stava già dirigendo alla porta quando Spinella lo prese per un braccio. — Non c’è tempo — gli disse, indovinando giustamente che lui voleva andare a casa. — Devo cercare di salvare la mia famiglia dalla prossima fase del piano di Opal — ribatté secco. — Ci restano solo cinque minuti. Se riesco a raggiungere un pozzo di magma, potremmo anche farcela prima che le esplosioni arrivino in superficie. Il comandante Grana Algonzo soppesò in fretta le opzioni. Poteva ordinare ad Artemis di rimanere sotto terra, ma di certo sarebbe stato strategicamente vantaggioso avere qualcuno capace di rintracciare Opal Koboi, se in un modo o nell’altro fosse riuscita a fuggire da Atlantide. — Va’ — gli disse. — Il capitano Tappo porterà te e Leale in superficie. Rimanete in contatto se… Non finì la frase, ma nella stanza tutti avevano capito che cosa volesse dire: Rimanete in contatto se… ci sarà ancora qualcosa da contattare. 37 CAPITOLO 3 - FUOCO E ZOLFO A Opal non piacque sentirsi spingere giù per il tubo con uno scovolo piatto in cima, però dentro la crosta del neutrone si sentì davvero a proprio agio, avvolta in un morbido strato di schiuma stoppa-radiazioni. Proprio come un bruco nel suo bozzolo, pensò, appena appena infastidita dalla ruvida stoffa della sua tuta stoppa-radiazioni. Sto per trasformarmi in una divinità. Il mio destino sta per compiersi. Inchinatevi, creature, o portate anche voi la vostra cecità. E poi pensò: Portate anche voi la vostra cecità? Non sarà un po’ eccessivo? Un dubbio la tormentava: temeva di avere fatto un errore tremendo a mettere in moto quel piano. Era la manovra più drastica che mai fosse stata compiuta, avrebbe provocato la morte di migliaia di membri del Popolo e umani. E, peggio ancora, lei stessa poteva morire o trasformarsi in un qualche mutante temporale. Poi però decise di affrontare tali preoccupazioni limitandosi a non pensarci. Era un atteggiamento infantile, lo sapeva, ma era convinta al novanta per cento di essere predestinata a diventare il primo Essere Quantistico. L’alternativa era troppo orribile per prenderla in considerazione a lungo: lei, Opal Koboi, sarebbe stata costretta a vivere fino alla fine dei suoi giorni a Sprofondo come una comune prigioniera, oggetto di ridicolo e di derisione, di progetti scolastici e di tediose lezioncine moraleggianti. Uno scimpanzé nello zoo di Atlantide che avrebbe attirato la curiosità del Popolo. Uccidere tutti o perfino morire lei stessa sarebbe stato di gran lunga preferibile. Non che sarebbe morta: il tubo avrebbe contenuto la sua energia, e, se si fosse concentrata abbastanza, sarebbe diventata una versione nucleare di se stessa. Sembra quasi di sentire il destino imminente. Ormai ogni momento può essere quello buono, rifletté. CANTUCCIO Artemis, Leale e Spinella presero l’ascensore espresso per il navettiporto della Centrale, collegato al nucleo terrestre attraverso un pozzo di magma che forniva buona parte dell’energia della città tramite barre geotermiche. Artemis non parlava, continuava a borbottare tra sé e a tamburellare con le nocche sulla parete d’acciaio dell’ascensore. Con sollievo Spinella notò che quel tamburellare non aveva un ritmo, a meno che non fosse troppo complicato 38 per poterlo riconoscere. Non sarebbe stata la prima volta che i processi mentali di Artemis andavano al di là della sua comprensione. L’ascensore era spazioso per gli standard della LEP, per cui Leale aveva abbastanza posto per poter stare in piedi, anche se comunque a ogni scrollone sbatteva il cranio contro la parete della cabina. Finalmente, Artemis disse: — Se riusciamo a entrare nella navetta prima della scadenza dell’ultimatum, avremo una possibilità reale di arrivare nei pozzi in tempo. Artemis aveva usato la parola “ultimatum”, ma i suoi compagni sapevano che quello che intendeva era “assassinio”. Una volta scaduto il termine, Pip avrebbe sparato a Opal, ormai nessuno ne dubitava. E allora le conseguenze di quell’assassinio, quali che fossero, si sarebbero manifestate, e all’interno di una navetta di titanio costruita appositamente per sopravvivere all’immersione totale in un pozzo di magma avrebbero avuto maggiori probabilità di farcela. L’ascensore si fermò con un sibilo sui pistoni pneumatici, e le porte si aprirono su un vero e proprio marasma. Il navettiporto pullulava di membri del Popolo agitatissimi che si facevano largo a fatica tra i controlli di sicurezza, ignorando i consueti protocolli di raggi X e scavalcando barriere e tornelli. Contro ogni legge, i folletti volavano rasoterra sfiorando con le ali i tubi dell’illuminazione. Gli gnomi se ne stavano ammucchiati in formazione da squadra di strozzapalla nel tentativo di superare la fila di agenti della LEP in tenuta antisommossa. — Dimenticano l’addestramento — mormorò Spinella. — Questo panico non aiuterà nessuno. Artemis fissava attonito quella baraonda. Aveva già visto qualcosa del genere una volta, all’aeroporto JFK, quando dagli ARRIVI era sbucata la star di un reality. — Non ce la faremo mai. Non senza fare del male a qualcuno. Leale si caricò in spalla i compagni. — Ce la faremo, eccome! — dichiarò, buttandosi deciso nella calca. L’atteggiamento di Pip era cambiato da quando aveva sparato al suo collega. Aveva messo fine alle chiacchiere e alle sbruffonate e adesso seguiva le istruzioni alla lettera: aspettare finché non fosse squillata la sveglia del telefonino e poi sparare alla folletta. Quel Fowl. Era tutto un bluff, giusto? Ormai non può fare più niente. E poi probabilmente non era neppure lui, pensò. Pip decise che non avrebbe mai raccontato in giro quanto era accaduto quel giorno. Il silenzio era la strada più sicura. Le parole non avrebbero fatto altro 39 che intrecciarsi in una corda che lo avrebbe impiccato. Non c’è bisogno che lei venga a saperlo, rifletté. Però Pip sapeva anche che le sarebbe bastato guardarlo negli occhi per capire tutto. Per un attimo prese in considerazione l’idea di scappare, di svicolare da quel piano complicato per tornare a essere un semplice gnomo. Non posso farlo. Mi troverebbe comunque. Mi troverebbe e mi farebbe qualcosa di terribile. E, per qualche ragione, non voglio liberarmi di lei, si disse. Non c’era altro da fare che seguire gli ordini a cui non aveva già disubbidito. Forse, se la uccidessi, lei mi perdonerebbe. Sollevò il cane della pistola e la premette contro la nuca di Opal. ATLANTIDE All’interno del reattore, la mente di Opal era in preda all’euforia. Doveva mancare poco. Pochissimo. Aveva tenuto il conto dei secondi, ma la corsa in ascensore, con tutti quegli scrolloni, l’aveva disorientata. Sono pronta, pensò. Pronta per il prossimo passo. Premilo!, trasmise, sapendo che il suo alter ego più giovane avrebbe captato il suo pensiero e sarebbe andata nel panico. Premi il grilletto. CENTRALE DI POLIZIA Polledro sentì il ciuffo afflosciarsi per il peso del sudore e cercò di ricordare quali fossero state le parole con cui quel mattino si era accomiatato da Cavallina. Credo di averle detto che la amo. Lo faccio sempre, ma questa mattina gliel’ho detto? L’ho fatto? Gli sembrava della massima importanza. Cavallina sta in periferia. Sarà al sicuro. Bene così, si disse. Il centauro non credeva ai suoi stessi pensieri. Se dietro tutto questo c’era Opal, il suo piano avrebbe avuto ramificazioni complicate che ancora non avevano compreso. Opal Koboi non fa piani, lei scrive libretti d’opera. Per la prima volta in vita sua, Polledro era terrorizzato al pensiero che qualcun altro potesse essere anche solo un filino più intelligente di lui. NAVETTIPORTO DELLA CENTRALE DI POLIZIA Leale procedeva tra la folla, facendo attenzione a dove metteva i piedi. 40 All’interno del navettiporto la sua comparsa non fece altro che aumentare il panico, ma ormai non poteva farci niente. Qualche membro del Popolo avrebbe dovuto sopportare alcuni disagi temporanei, se questo significava arrivare alla navetta in tempo. Gli elfi gli si affollavano attorno alle ginocchia come pesci spazzini; molti di loro lo pungolavano con gli sfrizzagente e un paio gli spruzzarono addosso uno spray repellente ai feromoni, che occluse all’istante i seni nasali dell’eurasiatico. Quando arrivarono al tornello di sicurezza, la colossale guardia del corpo lo scavalcò con naturalezza, mentre la maggioranza della popolazione spaventata si accalcava dall’altro lato. Leale ebbe la presenza di spirito di tuffare Spinella davanti allo scanner retinico in modo da garantirsi l’accesso senza attivare le misure di sicurezza del terminal. L’elfa chiamò uno spiritello che riconobbe al banco della sicurezza. — Ehi, Cicca. Il nostro pozzo è aperto? Un tempo Cicca Verbil era stato il compagno di pattuglia di Spinella, ed era vivo solo perché la collega lo aveva trascinato al sicuro quando era rimasto ferito a un’ala. — Uhm… sì. Il comandante Grana Algonzo ci ha detto di scavare un buco. Tu stai bene, capitano? Spinella smontò dalla spalla di Leale e atterrò sollevando scintille con i tacchi degli stivali. — Benissimo. — Un mezzo di trasporto un po’ insolito — commentò Cicca, fluttuando nervoso a mezzo metro dal pavimento; il suo riflesso scintillava nell’acciaio lucido sotto di lui come uno spiritello intrappolato in un’altra dimensione. — Non preoccuparti, Cicca — lo rassicurò Spinella, dando dei colpetti alla coscia di Leale. — È innocuo. A meno che non senta odore di paura. Leale diede un’annusatina come se avesse colto un debole olezzo di terrore. Cicca si alzò di qualche centimetro agitando all’impazzata le ali da colibrì, quindi picchiettò la tastiera virtuale sul computer da polso. — Va bene. Potete passare. La squadra di terra ha controllato tutte le vostre apparecchiature di emergenza. E, già che c’eravamo, abbiamo aggiunto anche un nuovo cubogeneratore al plasma, perciò dovreste essere a posto per qualche decennio. Le porte antiscoppio si chiuderanno fra meno di due minuti, perciò se fossi in te mi darei una mossa e porterei con me quei due Fangosi… voglio dire, quei due umani. Leale decise che avrebbe fatto prima se avesse tenuto Artemis in spalla finché non fossero entrati nella navetta, perché nella fretta sarebbe sicuramente inciampato in un nano. Imboccò di corsa il tubo di metallo che portava dal 41 banco del check-in alla loro navetta. Polledro era riuscito a far approvare un ordine di ristrutturazione per il porto in modo che a Leale bastasse solo chinare il capo per passare sotto l’architrave. La navetta era in realtà un fuoristrada confiscato dall’Ufficio Sequestri a un contrabbandiere di tonno. La fila centrale di sedili era stata rimossa perché la guardia del corpo potesse allungarsi stando seduto dietro. Viaggiare in fuoristrada era la cosa che Leale preferiva nelle sue visite nel sottosuolo. — Fuoristrada! — aveva grugnito Polledro. — Come se a Cantuccio ci fosse qualche posto in cui non ci sono strade. Solo pacchiani status symbol, ecco cosa sono questi macinini! Il che non gli aveva impedito di sbizzarrirsi a ordinare accessori che trasformassero il veicolo in una specie di Humvee americano in grado di ospitare due umani sul sedile posteriore. E dato che uno dei due umani in questione era Artemis, Polledro aveva fatto le cose in grande ed era riuscito a infilare in quello spazio ristretto qualche piccolo extra in più rispetto a quelli che si trovavano nelle sonde per Marte di serie: sedili a gelatina, trentadue altoparlanti, TV 3D in HD, e, per Spinella, scorte di ossigeno e una taglierina a laser nello stemma sul cofano, che rappresentava uno spiritello che soffiava in un lungo corno. Era quello il motivo per cui la navetta veniva soprannominata Cupido d’argento. Un po’ troppo sdolcinato per i gusti di Artemis, perciò Spinella usava quel nome ogni volta che le era possibile. Il fuoristrada rilevò l’approssimarsi dell’elfa e inviò un messaggio al suo computer da polso per chiedere se dovesse aprire le porte e avviare il motore. Spinella diede conferma senza perdere il passo e le porte ad ala di pipistrello si sollevarono silenziose giusto in tempo perché Leale potesse scaricare Artemis direttamente sul sedile posteriore come un sacco di gattini. Spinella scivolò sull’unico sedile anteriore sul muso della navetta, e prima ancora della chiusura delle porte si agganciò alla rotaia di alimentazione. Artemis e Leale si appoggiarono allo schienale in modo che i dispositivi di sicurezza potessero abbassarsi sulle loro spalle regolandosi automaticamente grazie ai sensori di tensione. Le dita di Artemis tormentavano la stoffa dei pantaloni sulle ginocchia. La lentezza con cui avanzavano sulla rotaia di alimentazione era esasperante. In fondo al tunnel di roccia rivestito di pannelli metallici potevano già scorgere il pozzo, un orifizio luminoso spalancato come le porte dell’inferno. — Spinella, non puoi accelerare? — disse fra i denti. L’elfa tolse dal volante le mani guantate. — Siamo ancora sulla rotaia di 42 alimentazione, Artemis. È tutto automatico. Su uno schermo installato sul parabrezza apparve la faccia di Polledro. — Perdonami, Artemis — gli disse. — Mi dispiace davvero, abbiamo esaurito il tempo. — No! — gridò Artemis, agitandosi. — Rimangono ancora quindici secondi. Almeno dodici. Gli occhi di Polledro corsero ai comandi. — Dobbiamo chiudere le porte se vogliamo avere la certezza che all’interno dei rifugi sopravvivano tutti. Mi dispiace davvero tanto, Artemis. Il fuoristrada si arrestò con un sobbalzo mentre alla rotaia veniva tagliata la corrente. — Possiamo farcela — insistette Artemis con un rantolo prossimo al panico. Davanti a loro la porta dell’inferno incominciò a chiudersi, mentre i giganteschi meccanismi di costruzione nanesca calavano sull’apertura le robuste serrande. Artemis afferrò l’elfa per le spalle. — Spinella? Ti prego… Spinella, esasperata, passò ai comandi manuali. — D’Arvit — sbuffò, premendo l’acceleratore a tavoletta. Il fuoristrada balzò in avanti, sganciandosi dalla rotaia e attivando i fanali girevoli e il clacson. Sullo schermo, Polledro si sfregava le palpebre. — Già, già. Eccoci di nuovo. Il capitano Tappo si appresta a farne un’altra delle sue. Alzi la mano chi ne è sorpreso. Nessuno? Spinella cercò di ignorare il centauro e di concentrarsi per riuscire a far passare la navetta nel varco sempre più piccolo. Di solito questi numeri li faccio verso la fine di un’avventura, pensava. Il climax del terzo atto. Stavolta si comincia un po’ presto. La navetta sfiorò il fondo del tunnel e l’attrito fece sollevare due archi appaiati di scintille che rimbalzarono contro le pareti. Spinella inforcò un paio di occhialoni e regolò automaticamente la visione all’insolita doppia focalizzazione necessaria per inviare comandi palpebrali ai sensori nelle lenti e al tempo stesso guardare davanti a sé. — Un pelo — mormorò. — Ce la facciamo per un pelo. — E poi, prima di perdere il contatto: — Buona fortuna, Polledro. Stammi bene. Il centauro picchiettò due dita sullo schermo. — Buona fortuna a tutti noi. Spinella guadagnò un altro paio di centimetri sgonfiando le sospensioni a cuscinetto della Cupido, e il fuoristrada riuscì all’ultimo secondo a infilarsi sotto le porte antiscoppio ormai già quasi chiuse e a imboccare il camino 43 naturale. Sotto di loro, il nucleo terrestre sputava vampe di magma di dieci chilometri di larghezza, creando correnti di fuoco che lambirono la parte inferiore della navetta, bruciandola e scagliandola a spirale verso la superficie. Spinella regolò gli stabilizzatori e posò collo e nuca al poggiatesta. — Tenetevi forte — disse. — Ci aspetta un viaggio un po’ turbolento. Pip sobbalzò quando sul suo telefonino squillò la sveglia, quasi non se lo aspettasse, quasi non fosse stato a contare i secondi. Ciò nonostante, ora che il momento era finalmente arrivato, parve sorpreso. Sparare a Kip lo aveva privato di tutta la sua impudenza, e il suo linguaggio corporeo era chiaramente quello di un assassino riluttante. Cercò di riguadagnare un po’ del vecchio spirito sprezzante agitando la pistola e rivolgendo sguardi maliziosi alla telecamera, ma è difficile far passare l’assassinio di una folletta bambina per qualcosa di diverso da quello che è. — Vi avevo avvertiti — disse alla telecamera. — È tutta colpa vostra, gente, non mia. Alla Centrale, il comandante Grana Algonzo attivò il microfono. — Ti troverò — ringhiò. — Anche se dovessi impiegarci mille anni, ti troverò e ti sbatterò in galera fino alla fine dei tuoi giorni. In realtà, quelle parole parvero addirittura risollevare il morale dello gnomo. — Tu? Trovare me? Scusami tanto se la cosa non mi preoccupa, sbirro, ma conosco qualcuno che mi fa molto più paura. E senza tanti altri discorsi, sparò a Opal, un colpo solo dritto in testa. La folletta si accasciò in avanti come se l’avessero colpita alla nuca con un badile. L’impatto del proiettile la scagliò a terra con una certa violenza, ma uscì pochissimo sangue, a parte un rivoletto dall’orecchio, come se la piccola Opal fosse caduta dalla bicicletta nel cortile della scuola. Alla Centrale, dove solitamente regnava un gran baccano, calò il silenzio mentre tutto il personale aspettava le ripercussioni dell’assassinio cui aveva appena assistito. Quale delle teorie quantistiche si sarebbe dimostrata esatta? Forse non sarebbe accaduto nulla, a parte la morte di una folletta. — Va bene — disse Grana Algonzo dopo un lungo momento carico di tensione. — Siamo ancora operativi. Quanto ci vuole per uscire dalla cacca di troll? Polledro stava per effettuare qualche calcolo al computer quando lo schermo a parete andò in frantumi da solo, diffondendo un gas verde nella stanza. 44 — Tenetevi forte — consigliò. — Sta per scoppiare il caos. ATLANTIDE Opal Koboi si sentì morire e fu una sensazione curiosa, come un tarlo che la rodeva dentro. E così, è questo che ti fa provare un trauma, pensò. Sono sicura che lo supererò. Il senso di nausea fu presto sostituito da un’euforia effervescente mentre pregustava ciò che sarebbe diventata di lì a poco. Finalmente mi trasformerò. Uscirò dal mio bozzolo come la creatura più potente del pianeta. Non incontrerò ostacoli sulla mia strada. Era tutto molto melodrammatico, ma Opal decise che, date le circostanze, un suo eventuale biografo avrebbe compreso. Non le venne mai fatto di pensare che la sua teoria del paradosso temporale potesse semplicemente essere sbagliata e che uccidendo la sua unica vera alleata si sarebbe potuta ritrovare in fondo a un buco in un reattore nucleare. Sento un pizzicore, pensò. Comincia. Il pizzicore diventò un bruciore fastidioso alla nuca che presto si diffuse a tutta la testa, serrandogliela in una morsa d’acciaio. Mentre tutto il suo essere si trasformava d’un tratto in panico e dolore, Opal non accarezzava più sogni di conquiste future. Ho commesso un errore, pensava disperata. Nessun premio vale un altro secondo di questa sofferenza. Si agitò nella sua tuta stoppa-radiazioni, combattendo contro la morbida resistenza della schiuma che le ostacolava i movimenti. Il dolore si diffuse attraverso il sistema nervoso, aumentando d’intensità da appena insopportabile a inimmaginabile. L’ultimo minimo briciolo di sanità mentale che le era rimasto andò in pezzi come l’ormeggio di una barchetta in un uragano. Opal sentì la magia tornare e sottomettere il dolore in ciò che le rimaneva delle terminazioni nervose. La folletta pazza e vendicativa si sforzò in tutte le maniere di contenere la propria energia e di non farsi distruggere del tutto dal suo stesso potere, che veniva rilasciato anche in quel momento mentre gli elettroni mutavano le loro orbite e i nuclei si spezzavano spontaneamente. Il suo corpo si trasformò in pura energia dorata, vaporizzando la tuta e aprendo buchi nella schiuma, che si dissolveva rimbalzando contro le pareti della camera a neutroni per fare ritorno alla coscienza sfilacciata di Opal. 45 Adesso, pensò. Adesso inizierà l’estasi mentre mi ricostituisco a mia immagine. Io sono il dio di me stessa. E, con il solo potere nella mente, si riassemblò. Il suo aspetto rimase immutato, perché essendo vanitosa si riteneva perfetta, però aprì e ampliò la mente, lasciando che nuovi poteri permeassero i ponti fra le cellule nervose, concentrandosi sugli antichi mantra delle arti oscure in modo da poter usare la sua nuova magia per risvegliare i suoi soldati dal loro luogo di riposo. Un potere come quello era troppo per un corpo solo, avrebbe dovuto reciderlo non appena ultimata la fuga, o i suoi atomi sarebbero scoppiati e sarebbero stati spazzati via come moscerini trasportati dal vento. È difficile ricostruire le unghie, pensò. Può darsi che debba sacrificarle. Gli effetti a catena della morte della giovane Opal in un angolo di una fattoria si propagarono assai più di quanto Artemis non avesse potuto immaginare, anche se in realtà “immaginare” non è il verbo più esatto, in quanto Artemis Fowl non aveva l’abitudine di immaginare alcunché. Anche da piccolo non si era mai immaginato come un cavaliere a caccia di draghi. Lui preferiva visualizzare un obiettivo raggiungibile e poi operare per realizzare lo scopo. Sua madre, Angeline, una volta aveva sbirciato oltre la spalla del figlio quando lui aveva otto anni e disegnava qualcosa nel suo diario. — Oh, tesoro, ma è meraviglioso! — aveva esclamato deliziata nel vedere che Artemis manifestava finalmente un’indole artistica e creativa, sebbene dovesse riconoscere che dal suo disegno traspariva un po’ troppa violenza. — Un robot gigante che distrugge una città! — No, mamma — aveva sospirato il bambino, con il suo solito atteggiamento teatrale da genio incompreso. — È un drone che costruisce un ambiente lunare. Angeline gli aveva arruffato i capelli per vendicarsi del sospiro, e si era chiesta se non fosse il caso di far vedere il piccolo Arty a uno specialista. Artemis aveva ipotizzato la devastazione di vaste proporzioni provocata dall’esplosione spontanea di energia rilasciata da tutti i materiali collegati a Opal, ma neppure lui poteva avere un’idea dei livelli di saturazione che i prodotti della Koboi avevano raggiunto nei pochi anni trascorsi prima della sua incarcerazione. Le Industrie Koboi possedevano molte aziende lecite che producevano qualunque cosa, dai componenti militari alle attrezzature mediche, ma anche numerose compagnie ombra che allungavano illegalmente la loro influenza al mondo umano e perfino allo spazio; e gli effetti dell’esplosione di quelle decine di migliaia di componenti si estesero dal lieve inconveniente alla catastrofe più totale. 46 Nel deposito della LEP, duecento armi assortite, il cui riciclaggio era previsto per la settimana seguente, si sciolsero come barrette di cioccolato, quindi irradiarono una violenta luce dorata che mandò in tilt tutti i sistemi locali a circuito chiuso prima di esplodere con la forza di cento barre di Semtex. Non si arrivò alla fissione, ma i danni furono comunque ingenti. Il magazzino fu sostanzialmente vaporizzato, e molte delle colonne di sostegno della città sotterranea crollarono come mattoncini giocattolo. Il centro di Cantuccio implose, e un milione di tonnellate di crosta terrestre si abbatterono sulla capitale elfica, infrangendo i sigilli pressurizzati e aumentando i livelli di atmosfere di quasi il mille per cento. Tutto ciò che si trovava sotto la roccia venne maciullato all’istante. Si registrarono ottantasette vittime, e i danni alle cose furono inestimabili. L’interrato della Centrale crollò facendo sprofondare i primi tre piani nella voragine. Per fortuna, i piani superiori erano imbullonati al tetto della caverna, che li mantenne al loro posto salvando la vita di tanti agenti che avevano scelto di rimanere al proprio posto. Il sessantatré per cento delle automobili elfiche montava pistoni Koboi, che esplosero simultaneamente, scatenando un impazzimento sincronizzato dei veicoli, parte del quale fu ripreso dalla telecamera di un garage che per qualche misteriosa ragione era sopravvissuta alla compressione e negli anni a venire sarebbe stato il video più cliccato della rete web del sottosuolo. Per anni i laboratori ombra Koboi avevano venduto a società umane tecnologia elfica obsoleta, che ai loro azionisti sembrava all’avanguardia. Quei piccoli chip miracolosi o i loro discendenti erano confluiti in quasi tutti gli strumenti controllati da computer di ultima generazione. Inseriti in portatili, telefoni cellulari, apparecchi televisivi e forni a microonde, saltarono in aria rimbalzando come cuscinetti a sfera carichi di energia cinetica all’interno di lattine. L’ottanta per cento delle comunicazioni elettroniche sul pianeta Terra cessò all’istante. L’umanità si trovò catapultata all’età della carta nel giro di mezzo secondo. I sistemi di supporto vitale sputarono saette di energia e morirono all’istante. Preziosi manoscritti andarono perduti. Le registrazioni finanziarie degli ultimi cinquant’anni vennero completamente cancellate provocando un crollo del sistema bancario. Gli aerei precipitarono. La stazione spaziale Graum II si perse nello spazio, e satelliti della difesa la cui esistenza era sconosciuta cessarono di esistere. La gente si riversò nelle strade urlando in cellulari fuori uso come se potesse riattivarli con la forza della voce. Nei paesi i saccheggi si diffusero come 47 virus di computer, mentre i veri virus informatici morirono insieme con i loro ospiti e le carte di credito diventarono semplici rettangolini di plastica. In tutto il mondo i parlamenti vennero presi d’assalto da cittadini che incolpavano i loro governi per quella serie di inesplicabili catastrofi. Lingue di fuoco e fetidi sbuffi di zolfo fuoriuscirono dalle fessure nel suolo terrestre; provenivano per lo più da tubature saltate, ma per la gente erano un grido dell’Armageddon. Il caos prese il sopravvento e i survivalisti si affrettarono a estrarre le loro balestre dalle pelli di capretto. La fase uno del piano di Opal era terminata. 48 CAPITOLO 4 - L’ULTIMA PAROLA AL TECNICO ZKOPJA Fortunatamente per il capitano Spinella Tappo e i passeggeri della Cupido d’argento, Polledro era talmente paranoico quando c’era di mezzo Opal e così tronfio delle proprie invenzioni che aveva insistito che nell’equipaggiamento della navetta venissero usati solo componenti con tecnologia a marchio Polledro, arrivando al punto da eliminare qualsiasi pezzo Koboi o generico che lui non potesse far risalire a una compagnia sicura. Ma pur con tutta la sua paranoia, gli era comunque sfuggita una chiazza di stucco sul paraurti posteriore contenente una supercolla sviluppata dai LabKob. Per fortuna, quando l’adesivo scoppiò sfrigolando, scelse la strada della minore resistenza e volò via dalla navetta come uno sciame infuocato di api. Nessun sistema operativo ne riportò conseguenze, anche se sull’alettone rimase una sgradevole chiazza di vernice di fondo, ma a bordo della navetta tutti avrebbero convenuto che era di gran lunga preferibile all’essere morti. La navetta si sollevò sopra le correnti, come un seme di dente di leone sopra il Grand Canyon, ammesso che, in barba all’aridità, nel Grand Canyon ci siano denti di leone. Spinella riuscì a infilarsi al centro del vasto camino, per quanto in assenza di una nuova vampa di magma l’eventualità di uno scontro con una parete fosse altamente improbabile. Artemis la chiamò dal retro, ma con il ruggito del vento lei non riuscì a sentirlo. Auricolari, articolò con le labbra, picchiettandosi gli orecchi nell’elmetto. — Mettetevi le cuffie. Il ragazzo prese una coppia di grossi auricolari dal gancio sul soffitto e li indossò. — Hai qualche rapporto preliminare da parte di Polledro sui danni? — le chiese. Spinella controllò l’interfono. — Niente. Tutto tace, non ricevo neppure il crepitio elettrostatico. — Benissimo, ecco la situazione, per come la vedo io. Dal momento che non ci sono comunicazioni, presumo che l’assassinio della giovane Opal abbia gettato l’intero pianeta nello scompiglio più totale. Si scatenerà una baraonda mai vista dall’ultima guerra mondiale. Di sicuro la nostra Opal ha in programma di risorgere dalle ceneri di questo falò globale come una specie di folletta-fenice. Come pensi di farlo non lo so, però c’è di mezzo casa mia, la tenuta dei Fowl, perciò è là che dobbiamo andare. Quanto ci metteremo, Spinella? L’elfa fece un rapido calcolo. — Posso ridurre i tempi di un quarto d’ora 49 rispetto al solito, ma ci vorranno comunque un paio d’ore. Due ore, pensò Artemis. Centoventi minuti per elaborare una strategia plausibile in modo che noi tre riusciamo a contrastare i piani di Opal. Leale si aggiustò il microfono. — Artemis, so che ci avrai già pensato, perché è venuto in mente anche a me. — Amico mio, presumo che tu stia per farmi notare che ci stiamo buttando a capofitto proprio nel luogo in cui Opal è più forte. — Esatto, Artemis — confermò la guardia del corpo. — Oppure, come eravamo soliti dire nella squadra Delta, voliamo dritti nella zona di tiro. Artemis fece una smorfia. La zona di tiro?, pensò. Spinella fulminò Leale con un’occhiata, come a dire: Complimenti, ragazzone. Nella zona di tiro ci vive la famiglia di Artemis. L’elfa fletté le dita e le strinse forte sui comandi. — Forse riesco a ridurre i tempi di venti minuti sul consueto — disse, e regolò i sensori della navetta in modo da rilevare le correnti più forti da sfruttare per raggiungere al più presto la follia che Opal Koboi aveva in serbo per il mondo. ATLANTIDE Opal impiegò qualche istante per congratularsi con se stessa per averci ancora una volta azzeccato in pieno con una sua teoria, poi rimase assolutamente immobile cercando di sentire il panico filtrare dall’alto. In effetti qualcosa si sente, concluse. Ed è decisamente un’ondata generale di paura, con una punta di desolazione. Sarebbe stato bello sdraiarsi e basta, generando energia, ma con tutto quello che c’era da fare era un lusso che non si poteva permettere. Lavorare, lavorare, lavorare, pensò voltandosi a guardare l’imboccatura del tunnel. Devo darmi una mossa. Con un solo fremito della mente emise un’aura di luce e calore intensi che perforarono la schiuma stoppa-radiazioni solidificata in cui era avvolta e levitò verso il portello, che la ostacolò appena un po’ di più della schiuma. Dopotutto, adesso aveva il potere di modificare la struttura molecolare di qualunque cosa su cui si concentrasse. L’energia sta già svanendo, si rese conto. Sto perdendo magia e presto il mio corpo incomincerà a disintegrarsi. Nella camera al di là del portello incenerito trovò un nano, apparentemente impassibile davanti a tutti gli sconvolgimenti che avevano luogo sotto i suoi occhi. 50 — Oggi è la festa di Foglietta — annunciò Kolon Zkopja con il mento in fuori. — E nella festa di Foglietta farei volentieri a meno di tutte queste scemenze rumoreggianti. Prima perdo la ricezione sul mio telefono per cui non ho idea di chi stia vincendo la partita di strozzapalla, e adesso ecco che mi piomba nella stanza una folletta dorata. Perciò, ti prego, mia cara folletta, puoi dirmi che sta succedendo? E dove sono finite le tue unghie? Opal rimase stupefatta nello scoprirsi obbligata a rispondere. — Le unghie sono una cosa difficile, nano. Le ho lasciate perdere per risparmiare tempo. — Sì, capisco, è una cosa sensata — rispose Zkopja, manifestando fin troppa mancanza di rispetto per i gusti di Opal. — Vuoi sapere che cos’è veramente difficile? Restarsene qui a farsi abbrustolire dalla tua aura, ecco cosa. Avrei dovuto spalmarmi una crema solare protezione mille. Bisogna riconoscere che Zkopja non stava affrontando la faccenda con indifferenza da psicotico. In realtà era sotto shock e si era fatto un’idea piuttosto precisa su chi fosse Opal e sul fatto che fosse probabilmente suonata la sua ora, perciò stava cercando di fare buon viso a cattivo gioco. Opal aggrottò le sopracciglia dorate in una ruga che sembrava lava incandescente. — Nano, dovresti essere onorato che l’ultima immagine impressa sulle tue inutili retine sia quella della mia gloriosa… gloria. La folletta non era del tutto soddisfatta di come aveva concluso la frase, ma il nano sarebbe morto di lì a qualche istante, e quella formulazione infelice sarebbe stata dimenticata. Zkopja non era del tutto soddisfatto dell’insulto di Opal nei confronti delle sue retine. — Inutili retine? — sbottò. — Queste retine me le ha date mio padre… Non che se le sia strappate direttamente dalla testa, mi capisci, ma insomma, le ho ereditate da lui. — A suo eterno merito cosmico, Zkopja decise di uscire di scena con stile. — E visto che abbiamo preso a scambiarci insulti, ti avevo sempre creduto più alta. E poi hai le anche asimmetriche. Opal era furiosa e di conseguenza la sua aura radioattiva si ampliò per un raggio di tre metri, polverizzando completamente tutto ciò che incontrò sul suo cammino, compreso Kolon Zkopja. Ma anche se il nano non c’era più, la trafittura del suo commento finale sarebbe rimasta nel cassetto della mente delle questioni in sospeso di Opal per il resto dei suoi giorni. Se la folletta aveva un difetto che era disposta a riconoscere, questo era la tendenza a sbarazzarsi senza pensarci troppo di chi la offendeva. Non devo lasciare che quel nano mi butti giù, si disse mentre risaliva a velocità incredibile verso la superficie. E di certo non ho le anche asimmetriche. 51 La salita di Opal fu spettacolare a vedersi, come una supernova che schizza verso la superficie dell’oceano; il calore violento della magia nera respinse le mura di Atlantide e i flutti dell’oceano con la stessa brutalità, riorganizzando la struttura atomica di qualunque cosa le ostacolasse il cammino. Spinse la sua aura di magia nera sempre più in alto e sempre più avanti, verso la proprietà dei Fowl. Non aveva bisogno di pensare alla sua destinazione, perché era la serratura a chiamarla. La serratura chiamava, e lei era la chiave. 52 CAPITOLO 5 - L’ARMAGEDDON ÉRIÚ, ALIAS PROPRIETÀ DEI FOWL Sepolti in una spirale discendente attorno alla serratura, i Berserkr si agitavano sempre di più via via che la magia si scatenava nel mondo soprastante. È in arrivo qualcosa, comprese Oro, il capitano dei guerrieri nordici. Presto saremo liberi e le nostre spade torneranno ad assaporare il sangue umano. Cucineremo i loro cuori in recipienti d’argilla e richiameremo le antiche forze oscure. Infiltreremo qualunque forma di vita sia necessaria per tenere a bada gli umani. Loro non possono ucciderci perché siamo già morti, tenuti insieme da un groviglio di magia. Il nostro tempo sarà breve. Non più di una sola notte dopo tutto questo tempo, ma prima di raggiungere Danu nell’aldilà ci copriremo di gloria e di sangue. Avvertite il cambiamento? Oro invocò gli spiriti dei suoi guerrieri. Siate pronti ad avanzare non appena la porta si aprirà. Siamo pronti, risposero i suoi soldati. Quando la luce si riverserà su di noi, prenderemo possesso dei corpi di cani, di tassi e di umani e li sottometteremo al nostro volere. Oro non poté fare a meno di pensare: Preferirei abitare il corpo di un umano che quello di un tasso. Perché era orgoglioso, e diecimila anni prima quell’orgoglio gli era costato la vita. Gobdaw, che giaceva alla sua sinistra, trasmise un pensiero fremente che poteva quasi essere una risatina. Sì, disse. Ma meglio un tasso di un ratto. Se il cuore di Oro fosse stato di carne e sangue, si sarebbe gonfiato di un orgoglio nuovo, ma questa volta per i suoi guerrieri. I miei soldati sono pronti per la guerra. Combatteranno finché i loro corpi rubati non crolleranno, e allora finalmente saranno liberi di abbracciare la luce. Il nostro tempo è vicino. Juliet Leale reggeva il forte, e non soltanto nel senso che si occupava di tutto mentre i genitori di Artemis erano via, a una conferenza ecologista a Londra. No, lei reggeva letteralmente un forte. 53 Il forte in questione era una vecchia torre Martello che faceva la guardia su una collinetta affacciata sulla Baia di Dublino. Ridotto a un rudere dalle intemperie, una strana edera nera aveva avvinto i suoi viticci lungo le sue mura come per rivendicare la pietra per la Terra. Gli aspiranti conquistatori erano i fratelli di Artemis Fowl: Myles, quattro anni, e il suo gemello Beckett. I ragazzi avevano preso più volte d’assalto la torre con spade di legno, ma erano stati respinti da Juliet e ricacciati delicatamente nell’erba alta. Beckett rideva a crepapelle, ma Juliet vedeva che Myles era sempre più frustrato dal fallimento dei suoi assalti. Questo qui è proprio come Artemis, pensò Juliet. Un’altra piccola mente criminale. Negli ultimi dieci minuti i ragazzi avevano borbottato dietro un cespuglio, preparando il nuovo attacco. Juliet sentiva le loro risatine soffocate e i comandi secchi: senza dubbio Myles impartiva una serie di complicate istruzioni tattiche a Beckett. La ragazza non poté fare a meno di sorridere. Le sembrava quasi di vedere la scena. Myles doveva sicuramente avere detto qualcosa tipo: “Tu vai da quella parte, Beck, e io da quell’altra. Si chiama manovra di accerchiamento.” Al che Beckett avrebbe probabilmente ribattuto: “Mi piacciono i bruchi.” Si poteva senz’altro dire che i due ragazzi volevano più bene l’uno all’altro che a se stessi, ma Myles viveva in uno stato di costante frustrazione per il fatto che Beckett non potesse, o non volesse, seguire le istruzioni più semplici. Da un momento all’altro, ormai, Beckett si stuferà di questa riunione tattica, pensò la sorella minore di Leale, e se ne uscirà da dietro il cespuglio brandendo la sua spada giocattolo. E in effetti, qualche istante dopo Beckett uscì a passo malfermo da dietro il cespuglio, ma quella che brandiva non era una spada. Insospettita, Juliet buttò una gamba al di là del basso parapetto e gridò: — Beck, che cos’hai trovato? Beckett sventolò l’oggetto. — Mutandine — confessò candido. Juliet guardò un’altra volta per avere la conferma che quel triangolino sudicio fosse effettivamente un paio di mutandine. Considerato che negli ultimi quarantotto giorni il bambino aveva indossato la T-shirt del Diario di una schiappa che gli arrivava fino alle ginocchia, era impossibile stabilire se le mutandine in questione fossero o meno quelle di Beckett, anche se sembrava piuttosto probabile, visto che il piccolo aveva le gambe nude. Beckett era un tipo alquanto indisciplinato, e nei pochi mesi passati come sua 54 baby-sitter/guardia del corpo, Juliet aveva visto ben peggio di un paio di mutandine: per esempio l’allevamento di vermi costruito e personalmente fertilizzato dal bambino nel bagno al pianterreno. — D’accordo, Beck — urlò dalla torre. — Adesso buttale pure per terra, piccolo, te ne vado a prendere un paio di pulite. Beckett non si fermò. — Niente da fare. Beckett è stufo di portare stupide mutandine. Queste sono per te, un regalo. Il visetto del bambino era acceso di entusiasmo innocente, convinto che i suoi slip fossero il regalo migliore per una ragazza… se si eccettua ovviamente un paio di suoi slip con una manciata di coleotteri dentro. Juliet ribatté: — Ma non è mica il mio compleanno. Adesso Beckett era arrivato ai piedi della torre diroccata e sventolava le mutandine a mo’ di bandiera. — Ti voglio bene, Jules, accetta il mio regalo. Mi vuole bene, pensò Juliet. I bambini sanno sempre trovare i punti deboli. Tentò un’ultima carta disperata. — Ma non avrai freddo al sederino? Ma Beckett aveva una risposta anche a questo: — No, io non ho mai freddo. Juliet gli sorrise con affetto. A questo ci credeva: l’ossuto Beckett produceva tanto calore da far ribollire un lago. Abbracciare lui era come abbracciare un termosifone. A quel punto, l’unico modo che le rimaneva per evitare di toccare le mutandine era una bugia innocente. — I conigli adorano le mutandine vecchie, Beck. Perché non le seppellisci come regalo per Peter Coniglio? — Ai conigli le mutandine non servono — ribatté una vocetta sinistra alle sue spalle. — Sono mammiferi a sangue caldo, e alle nostre latitudini la loro pelliccia è un abbigliamento più che sufficiente. Juliet avvertì la punta della spada di legno di Myles contro la coscia e si rese conto che il ragazzo aveva usato il fratello come diversivo mentre lui tornava ai gradini sul retro. Non ho sentito un bel niente, pensò la ragazza. Myles sta imparando a strisciare. — Bravissimo, Myles — lo elogiò. — Come hai convinto Beckett a ubbidire ai tuoi ordini? Myles sorrise compiaciuto; la somiglianza con Artemis era sorprendente. — Non gli ho impartito ordini militari. Gli ho soltanto suggerito che forse gli prudeva il didietro. Questo bambino non ha ancora cinque anni, pensò Juliet. Aspetta solo che il mondo faccia la conoscenza di Myles Fowl. 55 Con la coda dell’occhio vide qualcosa di triangolare veleggiare in aria verso di lei e istintivamente l’afferrò. Non aveva ancora fatto a tempo a chiudere le dita sulla stoffa che si rese conto di quello che stava stringendo. Fantastico, pensò. Fatta fessa da due bambini di quattro anni. — Bene, ragazzi — disse. — Adesso è ora di tornare a casa per il pranzo. Che si mangia oggi? Myles rinfoderò la spada. — Vorrei un toast con succo di pompelmo fresco. — E io vermi — rispose Beckett, saltellando su un piede solo. — Vermi con il ketchup. Juliet si tirò in spalla Myles e saltellò giù dal muretto della torre. — Allora lo stesso di ieri, ragazzi. Devo ricordarmi di lavarmi bene le mani, si disse. I ragazzi erano in mezzo al pascolo quando in lontananza si scatenò il caos. Beckett prestò poca attenzione a quella cacofonia distante, dal momento che la sua colonna sonora interiore prevedeva abitualmente urla ed esplosioni, ma Myles capì subito che qualcosa non andava. Tornò alla torre Martello e si arrampicò su per gli scalini di pietra, esibendo una carenza di capacità motorie che ricordava molto quella di Artemis, cosa che divertiva un sacco Beckett, molto più agile dei fratelli. — È l’Armageddon — annunciò Myles una volta arrivato in cima. — La fine del mondo. Beckett rimase sgomento. — Non anche di Disneyland! Juliet gli arruffò i capelli schiariti dal sole. — No, certo non di Disneyland. — Provava un senso di inquietudine alla bocca dello stomaco. Da dove venivano quei rumori? Sembrava che vicino ci fosse una zona di guerra. La ragazza seguì Myles al piano di terra battuta in cima alla torre. Da là si aveva una visuale chiara sulla città in lontananza. Di solito gli unici rumori portati dal vento fin lassù a nord erano occasionali colpi di clacson delle auto bloccate nel traffico sulla tangenziale. Quel giorno, invece, la superstrada per Dublino sembrava più la via per l’inferno. Anche da lì era chiaro che le sei corsie erano completamente intasate. Sotto i loro occhi, diversi motori saltarono in aria e un furgone venne inaspettatamente scagliato in avanti. Più oltre, all’interno della città, esplosioni più forti rimbombavano da dietro i palazzi, e volute di fumo si levavano nel cielo, un cielo che già aveva i suoi bei problemi, dato che un aereo da turismo era atterrato al centro di un campo da calcio, mentre addirittura un satellite per comunicazioni era piovuto a peso morto dallo spazio nientemeno che sul tetto dell’albergo degli U2. 56 Beckett salì i gradini e prese Juliet per mano. — È Lama-geddon — annunciò tranquillo. — Il mondo sta per saltare in aria. Juliet strinse a sé i gemelli. Quello che stava succedendo sembrava una faccenda troppo grossa per essere diretta specificamente contro la famiglia Fowl, ma d’altro canto l’elenco di persone che sarebbero state più che felici di distruggere l’intera contea di Dublino solo per catturare Artemis era interminabile. — Non preoccupatevi, ragazzi — disse. — Vi proteggerò io. Si frugò in tasca. In situazioni come quella, in cui le cose andavano brutalmente storte, la prima linea di condotta era sempre la stessa: chiamare Artemis. Fece scorrere l’elenco di reti sul suo cellulare e senza troppa sorpresa constatò che l’unica disponibile era il sistema FOX installato da Artemis per le chiamate sicure nei casi di emergenza. Immagino che Artemis sia l’unico adolescente al mondo ad avere costruito e messo in orbita un proprio satellite, pensò Juliet. Stava per selezionare il nome di Artemis tra i suoi contatti, quando tre metri davanti a lei sbucò un grosso avambraccio, all’estremità del quale c’era una mano che stringeva una Neutrino fatata. — Buon pomeriggio, Fangosa — disse una voce dal nulla, e dalla punta dell’arma sbucò un lampo di crepitante energia azzurrina. Juliet aveva abbastanza familiarità con le armi elfiche da sapere che sarebbe sopravvissuta a un dardo blu, ma che con ogni probabilità avrebbe riportato un’ustione da contatto e che si sarebbe risvegliata dentro un bozzolo di dolore. Spiacente, ragazzi, fu il suo ultimo pensiero. Non sono stata di parola. E poi il lampo dell’arma di Pip la colpì al petto, le bruciò la giacca e la scagliò giù dalla torre. Oro dei Berserkr ebbe un attimo di dubbio. Forse quest’ansia di libertà non è altro che un desiderio, pensò. No. Quello era più di un suo desiderio. La chiave era in arrivo. Sentiva la vampata di energia avvicinarsi alla loro tomba. Radunatevi, comunicò ai suoi guerrieri. Quando la porta si aprirà, assumete qualunque forma dobbiate. Qualunque cosa sia viva o abbia vissuto può essere nostra. Oro sentì la terra tremare per il ruggito dei suoi guerrieri. O forse era solo un suo desiderio. 57 CAPITOLO 6 - SVEGLIATEVI, MIEI BELLISSIMI GUERRIERI NAVETTIPORTO DI TARA, IRLANDA Quando il capitano Spinella Tappo tentò di attraccare al posto assegnatole, scoprì che gli ormeggi elettromagnetici di Tara non erano più operativi e perciò fu costretta a improvvisare un atterraggio nel tunnel di accesso. Questo, per lo meno, fu all’incirca ciò che il supervisore del navettiporto di Tara avrebbe scritto nel suo Rapporto sull’Incidente Straordinario una volta uscito dalla riabilitazione, anche se quelle parole non bastavano a rendere la reale entità del trauma provocato dalla situazione. Durante la manovra di avvicinamento, la strumentazione di bordo di Spinella le aveva assicurato che era tutto perfettamente a posto e poi, proprio mentre faceva ruotare la poppa della Cupido d’argento per attraccare, il computer della torre di controllo di Tara aveva emesso un rumore simile a quello di una polpetta cruda che si spiaccica a tutta velocità contro un muro, e subito dopo si era spento, non lasciando all’elfa altra scelta se non rientrare nel tunnel di accesso e pregare di non trovarvi personale non autorizzato. Il metallo si accartocciò, il perspex andò in mille pezzi e i cavi a fibre ottiche si dilatarono e scattarono con uno schiocco. Lo scafo rinforzato della Cupido d’argento resse il colpo, ma cofano e stemma volarono in aria. Lo stemma sarebbe stato ritrovato tre mesi dopo nella pancia di un distributore di bibite, talmente corroso da risultare quasi irriconoscibile. Spinella pigiò il pedale del freno sollevando una pioggia di scintille e frammenti che si abbatté sul parabrezza. L’imbracatura di sicurezza del sedile aveva assorbito buona parte dell’urto, ma Artemis e Leale erano stati scagliati di qua e di là come le palline di un sonaglino. — Tutti vivi e vegeti? — urlò l’elfa, voltandosi, e l’assortimento di gemiti che le giunse in risposta le confermò che i suoi passeggeri erano arrivati vivi, se non del tutto vegeti. Artemis uscì strisciando da sotto il corpo massiccio di Leale e subito controllò i dati della navetta. Perdeva sangue da una ferita alla fronte, ma sembrava non curarsene. — Devi trovare un modo per farci uscire di qui, Spinella. L’elfa fu lì lì per mettersi a ridere. Fare uscire di lì la Cupido significava distruggere volontariamente un’intera installazione della LEP. E ciò significava non soltanto strappare il regolamento, ma anche farne le pagine in 58 minuscoli pezzetti e poi mescolarli alla cacca di troll, infornare il tutto e gettare i biscotti in un falò. — Biscotti di cacca — borbottò, il che non aveva senso per chi non avesse seguito il filo del suo ragionamento. — Puoi anche ridurre il regolamento a biscotti di cacca, ma dobbiamo fermare Opal a tutti i costi — ribatté Artemis, che a quanto pareva il filo del suo ragionamento lo aveva seguito eccome. L’elfa esitò. E Artemis ne approfittò all’istante. — Spinella, queste sono circostanze eccezionali — le disse. — Non ricordi quello che ha detto Leale? Nella zona di tiro. In questo momento i miei fratelli si trovano proprio lì, nella zona di tiro. E sai di quali sacrifici sarebbe capace Juliet per salvarli. Leale si sporse in avanti, afferrò una maniglia sospesa e così facendo la strappò dall’alloggiamento. — Ragiona tatticamente — le disse, intuendo per istinto come galvanizzare il capitano Tappo. — Dobbiamo partire dal presupposto che noi tre costituiamo l’unico piccolo esercito fra Opal e qualsivoglia forma di dominio del mondo che la sua mente contorta abbia escogitato. E ricorda: lei era pronta a sacrificare se stessa. Lo ha programmato. Dobbiamo andare, e subito, soldato! Leale aveva ragione, e Spinella lo sapeva. — D’accordo — disse, inserendo i parametri nel navigatore della Cupido. — Lo avete voluto voi. Uno spiritello con un giubbetto ad alta visibilità scendeva in volo lungo il tunnel di accesso, talmente di fretta che le ali picchiavano sulle pareti ricurve. Le punte delle ali degli spiritelli sono dotate di sensori a biosonar altamente sensibili che impiegano decine di anni per guarire, perciò per volare con quella spericolatezza, lo spiritello in questione doveva essere davvero sconvolto. Spinella gemette: — È Nander Thall. Mister Regolamento. Thall era un paranoico, convinto che in un modo o nell’altro gli umani sarebbero entrati a Cantuccio contaminandolo o ne sarebbero usciti portando via qualcosa, perciò insisteva a effettuare una scansione completa ogni volta che la Cupido attraccava. — Non ti fermare — la esortò Leale. — Non abbiamo tempo per le fisime di Thall. Nander Thall urlò nel megafono: — Spegni il motore, capitano Tappo. In nome di Foglietta, ma che cosa credi di fare? Lo sapevo che eri una ribelle, 59 Tappo, lo sapevo. Imprevedibile. — Non c’è tempo — insistette Artemis. — Non c’è tempo. Thall fluttuava a un metro dal parabrezza. — Ti sto guardando dritto nelle palle degli occhi, Tappo, e quello che vedo è il caos. Qui siamo in stato di massima allerta. Lo scudo ha fatto cilecca, lo capisci? Basterebbe un solo Fangoso armato di pala per portare alla luce l’intero navettiporto. Tutti devono dare una mano alle fortificazioni, capitano. Spegni il motore. È un ordine preciso. Gli occhi di Nander Thall stavano per schizzare fuori dalle orbite, e le ali sbattevano all’impazzata. Lo spiritello era fuori di sé. — Credi che se chiedessimo il permesso ci lascerebbe andare in tempo? — domandò Artemis. Spinella ne dubitava. Alle spalle di Thall si apriva il tunnel di accesso, con i passeggeri ammassati nelle pozze luminose create dalle striscioluci di emergenza. La situazione sarebbe già stata abbastanza difficile da tenere sotto controllo senza che ci si mettesse anche lei ad alzare il livello di panico. Il computer di bordo incominciò a suonare mostrando sullo schermo la via di fuga ottimale, e fu proprio il suo bip-bip a farla decidere. Scusa, articolò con le labbra rivolta a Nander Thall. — Dobbiamo proprio andare. Le ali di Thall sbattevano rapide e nervose. — E non starmi a sussurrare le tue scuse! Non dovete andare proprio in nessun posto. Ma Spinella era davvero spiacente, e davvero dovevano andare. Perciò andò. Dritto verso il nastro portabagagli, che di solito si trascinava sopra le loro teste, con le valigie fluttuanti su un canale di brillacqua trasparente che mostrava l’identità del proprietario attraverso il perspex. In quel momento il canale trasportatore stagnava e le valigie si urtavano tra loro come barchette alla deriva. Spinella azionò il joystick con il pollice e diresse la Cupido nel canale, che stando alle informazioni del computer era abbastanza largo da poter ospitare il veicolo. E lo era davvero, con un gioco di due centimetri su ogni lato. Incredibilmente, Nander Thall si lanciò all’inseguimento. Ballonzolava lungo il canale, con il riporto dei capelli gonfio come una manica a vento, senza smettere di urlare nel piccolo megafono. Spinella fece teatralmente spallucce. Non ti sento, articolò. Scusa. E lasciò lo spiritello a imprecare contro il tunnel dei bagagli, che scorreva in cerchi dolcemente inclinati verso la sala ARRIVI. Spinella pilotò la Cupido lungo le curve del tunnel; le coppie di fari che 60 illuminavano le pareti di perspex in cui erano incastonati chilometri di circuiti spenti le facevano da guida. Davanti alle scatole degli interruttori si intravedevano sagome confuse che trafficavano, asportando condensatori fumanti e fusibili. — Nani — spiegò. — Sono gli elettricisti migliori. Non hanno bisogno di illuminazione e, anzi, preferiscono gli spazi bui e angusti. E come se non bastasse mangiano i componenti fuori uso. — Davvero? — si meravigliò Leale. — Certo. Bombarda mi assicura che il rame è altamente depurativo. Artemis non prese parte alla conversazione. Era banale, e lui era in piena modalità visualizzazione, intento a ipotizzare ogni possibile scenario da affrontare una volta raggiunta Casa Fowl e a studiare come uscirne vincitore. Sotto questo aspetto, la sua metodologia era simile a quella del campione di scacchi americano Bobby Fischer, capace di calcolare ogni possibile mossa di un suo avversario per poterla contrastare. L’unico problema di quella tecnica era che c’erano alcuni scenari che Artemis, non volendo affrontarli, trascinava in fondo al processo, il quale di conseguenza finiva per risultare difettoso. E così tramava, rendendosi conto che probabilmente era tutto inutile in quanto non conosceva la maggior parte delle costanti di quella equazione, per non parlare delle variabili. Una promessa oscura fluttuava sotto la superficie della sua logica. Se farà del male alle persone cui voglio bene, Opal Koboi dovrà pagarla. Artemis cercava di scacciare quel pensiero che non aveva alcuna utilità pratica, ma l’idea della vendetta non voleva saperne di abbandonarlo. Spinella aveva all’attivo solo alcune centinaia di ore di pilotaggio al timone nella Cupido, troppo poche per quello che aveva in mente di fare; ma, d’altro canto, per un’impresa del genere non sarebbero bastate tutte le ore di pilotaggio di questo mondo. La Cupido procedeva lungo il canale, con i grossi pneumatici che facevano presa nel solco di perspex; il minuscolo razzo era mascherato come un tubo di scarico che sparava una breve scia ribollente nella brillacqua. Schiacciava le valigie sotto i battistrada o le faceva schizzare come colpi di mortaio lungo il nastro, inondando chiunque si trovasse di sotto di una pioggia di abiti, cosmetici e altri ammennicoli umani di contrabbando. Le guardie di sicurezza di turno avevano avuto la presenza di spirito di confiscare la maggior parte di quegli oggetti, ma chi avrebbe mai immaginato che qualcuno potesse infilare in una valigia una sagoma in cartone di Gandalf a grandezza naturale? 61 Spinella avanzava al massimo della concentrazione, gli occhi socchiusi e i denti serrati. Il canale dei bagagli li portò fuori dal terminal, nel substrato roccioso. Salirono a spirale attraverso i vari livelli archeologici, superarono ossi di dinosauro e tombe celtiche, insediamenti vichinghi e mura normanne, finché la Cupido non emerse in una grande sala bagagli dal tetto trasparente esposta alle intemperie, una specie di vera e propria tana del supercattivo alla James Bond completa di rete di montanti metallici e di monorotaia. Di norma, il lucernario sarebbe stato camuffato con scudi e proiettori, ma quelle misure di sicurezza erano state disattivate in attesa di sostituire tutti gli apparati Koboi con una tecnologia ancora intatta. Quel pomeriggio, brandelli di nembi irlandesi gonfi di pioggia sorvolavano i pannelli smussati, e la sala bagagli sarebbe stata perfettamente visibile dall’alto, se qualcuno si fosse preso la briga di fotografare i facchini elfici o i muletti fermi con buchi fumanti nella carrozzeria come vittime di un cecchino. Spinella domandò al computer di bordo se ci fosse qualche altra via di uscita a parte quella suggerita, ma l’avatar la informò con freddezza che sì, ce n’era una, ma si trovava a trecento chilometri di distanza. — D’Arvit — borbottò l’elfa, decidendo che non si sarebbe più preoccupata delle regole o dei danni alla proprietà. Lì c’era un quadro più grande da considerare, e i frignoni non piacciono a nessuno. I frignoni non piacciono a nessuno. Suo padre lo ripeteva sempre. Le sembrava quasi di vederlo: passava ogni momento libero nel suo prezioso giardino per nutrire di alghe i suoi tuberi sotto la luce del simil-sole. “Devi sbrigare la tua parte di faccende di casa, Poppy. Tua madre e io lavoriamo sodo per mantenere la nostra famiglia.” E a quel punto si sarebbe fermato per accarezzarle il mento. “Molto tempo fa i guerrieri nordici hanno fatto il sacrificio supremo per il Popolo. Nessuno ti chiede di arrivare a tanto, però potresti fare la tua parte con un sorriso su quel tuo bel faccino.” Quindi si sarebbe irrigidito, con fare da sergente maggiore. “Perciò, animo, soldato Poppy. I frignoni non piacciono a nessuno.” Spinella scorse la propria immagine riflessa nel parabrezza. Gli occhi erano pieni di malinconia. Nella sua famiglia, alle femmine veniva sempre dato il nomignolo “Poppy”, nessuno ricordava perché. — Spinella — sbraitò Artemis. — La sicurezza si sta facendo sotto. L’elfa ebbe un sobbalzo colpevole e controllò il perimetro. Un gran numero di guardie della sicurezza puntava sulla Cupido nel tentativo di ingannarla con inutili pistole Neutrino, sfruttando la copertura della carcassa fumante di una navetta rovesciata. 62 Una delle guardie sparò un paio di colpi, che centrarono il paraurti anteriore. Un’arma fuori serie, comprese Spinella. Deve essersela fabbricata da solo. I colpi non avevano avuto grande effetto sulle lamiere della Cupido, ma se la guardia si era presa il disturbo di mettere insieme una pistola alternativa, forse aveva anche pensato di montare una canna perforante. Come se stesse leggendole la mente, la guardia incominciò ad armeggiare con la cintura in cerca di un caricatore di munizioni. Ecco la differenza fra te e me, pensò Spinella. Io non armeggio. Diede gas ai propulsori e spinse a razzo la Cupido verso il lucernario, lasciando gli inseguitori a fingere di spararle contro con armi inutili; un paio di loro arrivarono al punto di mettersi a fare bang bang con la bocca, anche se le armi elfiche non facevano più bang bang da secoli. Il lucernario è di perspex rinforzato, rifletté Spinella. O si spezza lui o si spezza la Cupido. Probabilmente un po’ tutti e due. Anche se Spinella non lo sapeva, il suo azzardo sarebbe stato infruttuoso. Il lucernario era stato costruito per resistere all’impatto diretto con qualsiasi cosa eccetto una testata nucleare a corta gittata, fatto che veniva annunciato con orgoglio dagli altoparlanti del terminal centinaia di volte al giorno, cosa che Spinella in qualche modo era sempre riuscita a evitare di sentire. Fortunatamente per il capitano Tappo e per i suoi passeggeri, e soprattutto per il destino del mondo intero, la sua ignoranza, potenzialmente fatale, non sarebbe mai venuta alla luce, in quanto Polledro aveva previsto una situazione in cui una navetta del Popolo poteva dirigersi a tutta velocità verso il lucernario e questo si sarebbe rifiutato di aprirsi. Il centauro aveva anche indovinato che, a causa della legge universale del dislocamento massimo della cacca – che afferma che, quando la summenzionata cacca centra un ventilatore, questo sarà nella tua mano e puntato contro qualcuno di importante nella posizione di poterti licenziare – il lucernario si sarebbe probabilmente rifiutato di aprirsi in un momento cruciale. Perciò aveva escogitato un piccolo organismo di prossimità che funzionava con un proprio cuore bioibrido ricavato dalle cellule staminali di ali di spiritelli dedicati. L’intero processo era quantomeno dubbio e con ogni probabilità illegale, perciò Polledro non si era preso la briga di depositarne il brevetto e si era limitato a installare i sensori di propria iniziativa. Come risultato, il bordo dei pannelli del lucernario era circondato da un gruppo di quei coleotteri di prossimità, e se le loro minuscole antenne avvertivano che un veicolo si stava avvicinando troppo a un certo pannello, secernevano sul vetro uno spruzzo di acido che lo divorava rapidamente. L’energia necessaria per portare a 63 termine in tempo un compito del genere era enorme, perciò quando i coleotteri avevano finito, si accartocciavano e morivano. Era impressionante, ma, proprio come l’uomo con la testa esplosiva, era un trucco destinato a funzionare una volta soltanto. Quando i coleotteri avvertirono l’ascensione della Cupido, si precipitarono in azione come una minuscola compagnia di cavalleggeri e divorarono il pannello in meno di quattro secondi. Una volta compiuto il loro lavoro, lampeggiarono e crollarono come cuscinetti a sfera sul cofano del veicolo. — È stato facile — annunciò Spinella al microfono, mentre la navetta passava attraverso un buco di misura. — Con buona pace del grandioso lucernario di Polledro. L’ignoranza, come si suol dire, di solito è fatale, ma talvolta può essere una benedizione. Spinella azionò lo scudo della Cupido, anche se con tutti i satelliti umani fuori uso non se ne sarebbe dovuta preoccupare, e fece rotta su Casa Fowl. Questo ci dà circa cinque minuti prima che Opal ci abbia esattamente dove ci vuole, si disse. Un pensiero meno che confortante che non espresse a parole. Ma le bastò soltanto un’occhiata alla faccia di Leale nello specchietto retrovisore per vedere che la guardia del corpo di Artemis stava pensando grosso modo la stessa cosa. — Lo so — le disse, cogliendo il suo sguardo. — Ma quale altra scelta abbiamo? SPAZIO AEREO IRLANDESE Opal non sarebbe riuscita a distogliere lo sguardo dalla serratura neppure se avesse impiegato in quel compito tutta la sua potenziata energia di folletta. Lei era la chiave, e le due cose andavano insieme. La collisione era inevitabile come il passare del tempo. La folletta sentiva la pelle del viso tendersi verso la serratura e le braccia che venivano strattonate finché le articolazioni non scricchiolarono. L’elfo stregone era davvero potente, pensò. Anche dopo tutto questo tempo, la sua magia resiste ancora. La sua traiettoria la portò con un arco regolare sulla superficie dell’Atlantico e, attraverso il cielo illuminato dalla luce pomeridiana, fino all’Irlanda. Scese verso la tenuta dei Fowl come una palla di fuoco scagliata da una fionda, senza perdere tempo a chiedersi o a preoccuparsi, ma neppure a rallegrarsi, 64 dell’imminente verifica cui sarebbero state sottoposte le sue teorie. Farò resuscitare i morti, aveva pensato spesso nella sua cella. Neppure Polledro può vantare un successo del genere. Opal centrò la proprietà dei Fowl come un meteorite piovuto sulla Terra, direttamente sul rudere diroccato della torre Martello con il suo rampicante alieno. Come un cane che ha fiutato l’osso, la sua aura di magia distrusse la torre e si aprì una strada, scese a spirale di sei metri, superò secoli di sedimenti, rivelando un’altra torre più antica al di sotto di quella. La magia aveva fiutato la serratura sul tetto, e ci si piazzò sopra come un polpo scintillante. Opal giaceva a faccia in giù, a mezz’aria, e osservava lo spiegarsi degli eventi con aria sognante. Vide le sue dita allargarsi e stringersi, con fiotti di scintille che uscivano dalle punte. L’incantesimo di invisibilità fu strappato via da quello che era sembrato un semplice masso trasformato dal tempo e rivelò che si trattava di una torre di pietra grezza con complicate rune intrecciate incise sulla superficie. L’ectoplasma magico affondò nelle rune, elettrizzandole e inviando rivoli ardenti lungo le loro scanalature. Apriti a me, pensò Opal, sebbene questa non sia che un’interpretazione dei suoi schemi mentali. Un’altra interpretazione potrebbe essere invece: Aaaaaaargghhhhh! Le rune della serratura, pullulanti di magia, si animarono contorcendosi come serpi sulla sabbia rovente, cercando di addentarsi, con quelle più grosse che divoravano i versi di magia più debole finché tutto ciò che rimase fu un semplice distico in gnomico: Ecco la prima di due serrature: guardala aprirsi con mille paure. A Opal rimaneva coscienza quanto bastava per ghignare dentro il suo bozzolo. Poesia elfica medievale. Tipicamente banale, rime scontate e metafore trasudanti melodramma, pensò. Oh, sì che la guarderò aprirsi. E Artemis Fowl ne avrà paura. Ma non per molto. Opal si raccolse e appoggiò il palmo della mano destra sulla pietra, con le dita allargate, e la magia le intorpidì i polpastrelli. La mano sprofondò come la luce del sole nelle tenebre, con le fessure che si irraggiavano a quel contatto. Svegliatevi, pensò. Svegliatevi, miei bellissimi guerrieri. ÉRIÚ, ALIAS TENUTA DEI FOWL 65 I Berserkr vennero espulsi dal terreno sacro e si ritrovarono scaraventati in aria come sparati da un cannone. L’attrazione dell’aldilà diminuì, e i guerrieri si sentirono liberi di portare a termine la loro missione. La morte successiva, lo sapevano, sarebbe stata l’ultima, e finalmente le porte di Nimh si sarebbero aperte anche per loro. Questo gli era stato promesso e questo ambivano. Perché è sempre vero che, sebbene i morti desiderino la vita, le anime sono fatte per il cielo e non troveranno riposo fino a che non lo avranno raggiunto. Questa era una verità sconosciuta all’elfo stregone quando aveva forgiato chiave e serratura. Egli non sapeva di avere predestinato i suoi guerrieri a diecimila anni con le spalle alla luce. E dare le spalle alla luce troppo a lungo poteva costare l’anima. Ora, però, tutte le promesse che erano state bisbigliate al loro orecchio mentre i sacerdoti trascinavano i loro corpi esanimi alla fossa erano sul punto di adempiersi. Tutto ciò che dovevano fare era difendere la porta nei corpi rubati, e la loro morte successiva avrebbe aperto loro le porte del paradiso. I guerrieri avrebbero finalmente fatto ritorno a casa. Ma non prima che venisse versato sangue umano. Il suolo sfrigolò e danzò mentre l’ectoplasma di cento guerrieri del Popolo ne irrompeva all’improvviso per salire verso l’alto, impaziente di rivedere la luce. Essi venivano inesorabilmente attratti verso la chiave posata sulla serratura di pietra, e a uno a uno passarono attraverso il condotto della sua magia. Oro fu il primo. È un folletto, si rese conto sorpreso, in quanto i folletti erano conosciuti per la mancanza di poteri magici. E femmina, per giunta! Ma, nonostante questo, la sua magia è potente. Via via che, uno dopo l’altro, i guerrieri schizzavano attraverso l’essenza di Opal, lei ne avvertiva il dolore e la disperazione e ne assorbiva le esperienze prima di cacciarli nel mondo con un ordine: Ubbidiscimi. Ora tu sei il mio soldato. E così, Oro e la sua truppa di Berserkr vennero sottoposti a un geis, o vincolo elfico, perché seguissero Opal ovunque lei gli ordinasse di andare. Rotolarono in cielo, in cerca di un corpo da abitare all’interno del cerchio magico. In quanto loro capo, Oro aveva la prima scelta fra le entità disponibili e, come molti dei suoi soldati, aveva passato molte migliaia di ore a pensare a quale creatura sarebbe stata l’ospite perfetto per i suoi talenti. Idealmente 66 avrebbe scelto un elfo con un po’ di muscoli e un braccio lungo per tirare di spada, ma era improbabile che lì nei pressi fosse disponibile un esemplare così valido, e anche se ne avesse trovato uno, sarebbe stato un peccato prendere un elfo e sostituirlo con un altro. Di recente aveva optato piuttosto per un troll come suo veicolo di elezione, se ne avesse avvertito la presenza nei dintorni. Un troll con la mente di un elfo. Che guerriero formidabile sarebbe!, pensava. Ma in giro non c’erano troll, e l’unico spiritello disponibile era un debole gnomo con rune protettive tracciate su tutto il petto. No, quello no. C’erano degli umani, tre di quelle odiate creature. Due maschi e una femmina. Avrebbe lasciato la femmina a Bellico, una degli unici due spiritelli femmina nei loro ranghi. Perciò non gli rimanevano che i due maschi. L’anima di Oro volteggiò attorno a loro. Due nanetti curiosi che non manifestavano il rispetto che la situazione sembrava richiedere. Il loro mondo si era dissolto sotto un vortice di magia, per Danu! Non avrebbero dovuto tremare di paura, mettersi a frignare e implorare la pietà che non avrebbero ricevuto? Ma no, le loro reazioni furono sorprendenti. Il maschio dai capelli scuri si era avvicinato in fretta alla ragazza caduta e le stava controllando il polso con fare esperto. Il secondo, che era biondo, aveva sradicato una manciata di canne con una forza sorprendente per uno della sua taglia, e in quel momento si stava avvicinando a quello sciocco gnomo, costringendolo a indietreggiare verso un fosso. Quello m’interessa, pensò Oro. È giovane e piccoletto, però il suo corpo sprizza energia. Prenderò lui. Fu semplice. Oro lo pensò e divenne realtà. Un attimo prima fluttuava sopra Beckett Fowl, e un attimo dopo era diventato lui e picchiava lo gnomo con una manciata di fragilissime canne. Oro rise forte mentre i sensi prendevano d’assalto le sue terminazioni nervose. Sentiva il sudore nelle pieghe delle dita, la levigatezza luccicante delle canne. Avvertiva l’odore del ragazzo, la sua giovinezza ed energia come il fieno e l’estate. Sentiva un giovane battito nel petto come quello di un tamburo. — Ah! — esclamò esultante, e continuò a picchiare lo gnomo solo per divertimento, pensando: Il sole è caldo, sia lode a Belanu. Vivo di nuovo, ma questa volta morirò volentieri per vedere gli umani nella terra accanto a me. Perché è sempre vero che i guerrieri del Popolo risorti sono più che nobili 67 nei loro pensieri e non hanno poi tutto questo gran senso dell’umorismo. — Basta giocare — disse in gnomico, e la sua lingua umana farfugliò le parole che sembrarono piuttosto un grugnito animalesco. — Dobbiamo radunarci. Oro guardò il cielo dove il plasma dei suoi guerrieri schizzava attorno a lui come una schiera di traslucide creature dei fondali marini. — Questo è quanto aspettavamo — disse. — Trovate un corpo all’interno del cerchio. Ed essi si dispersero in un lampo di ozono, perlustrando la tenuta dei Fowl in cerca di contenitori che potessero diventare i loro ospiti. I primi corpi a essere occupati furono quelli degli umani più vicini. Non era una buona giornata per andare a caccia di corpi ospiti nella tenuta dei Fowl. Di norma, nei giorni feriali la proprietà pullulava letteralmente di umani, e a presiedere su tutto quanto c’erano Artemis Senior e Angeline Fowl, padroni di casa. In quel giorno fatidico, però, la casa era praticamente chiusa per l’approssimarsi delle festività natalizie. I genitori di Artemis erano a Londra per prendere parte a una conferenza ecologista con un assistente personale e due cameriere al seguito. Il resto della servitù era stato messo in libertà anticipatamente, dal momento che durante le feste sarebbe stata sufficiente una presenza occasionale per mandare avanti il castello. I due Fowl avevano progettato di trasferirsi con i figli sulla pista di atterraggio dell’aeroporto di Dublino una volta conclusa la terapia di Artemis e quindi di puntare il muso composito del jet Lear di famiglia verso Cap Ferrat per trascorrere il Natale in Costa Azzurra. Quel giorno in casa non c’era nessuno, tranne Juliet e i suoi due protetti. Non un briciolo di umanità da depredare, con grande frustrazione delle anime volteggianti che da tanto e tanto tempo sognavano quel momento. Perciò la scelta fu limitata a diverse forme di vita selvatica, compresi otto corvi, due cervi, un tasso, un paio di cani da punta inglesi che Artemis Senior teneva nelle stalle, e cadaveri contenenti ancora una scintilla residua, che erano più numerosi di quanto non si possa sospettare. Le salme erano ben lungi dall’essere gli ospiti ideali, dal momento che la decomposizione e la disidratazione ostacolavano la rapidità di pensiero e la motricità. E poi, era facile perdere qualche pezzo proprio nel momento in cui se ne aveva più bisogno. Le prime a essere prescelte erano abbastanza ben conservate per la loro età. Nei suoi giorni da malavitoso, Artemis Senior aveva rubato una raccolta di mummie di guerrieri cinesi e non aveva ancora trovato un modo sicuro per rimpatriarle, perciò le custodiva in un interrato segreto a prova di umidità. I 68 guerrieri rimasero più che sorpresi nello scoprire che la loro materia cerebrale si rianimava e si reidratava e che soldati ancora più vecchi di loro si impadronivano della loro coscienza. Entrarono in azione sferragliando con le loro armature arrugginite e infransero il vetro delle teche da esposizione per riappropriarsi delle loro spade e delle alabarde, con le punte di acciaio che un curatore appassionato aveva tenuto in condizioni di luccichio abbagliante. La porta dell’interrato andò rapidamente in frantumi sotto il loro assalto e le mummie sbucarono rumorosamente nel sontuoso atrio del castello e da lì alla luce del sole, fermandosi un istante per avvertirne il caldo tocco sulla fronte rivolta verso l’alto prima di marciare nel pascolo verso il loro capo, costringendosi ad affrettarsi nonostante il risveglio dei sensi, che li spingevano a fermarsi per annusare ogni forma di vita vegetale. Perfino i mucchi di letame. Il successivo gruppo di cadaveri a essere rianimato fu quello di una banda di furfanti sepolti dal crollo di una caverna nel diciottesimo secolo, mentre nascondevano il tesoro che avevano trafugato dallo scafo aperto del Bastimento di Sua Maestà Ottagono per trasferirlo a bordo del loro brigantino, La sciabola. Il temuto capitano Eusebius Fowl e dieci dei suoi marinai, appena un po’ meno temuti, non erano stati maciullati dalla roccia, ma erano rimasti sigillati in una bolla a tenuta stagna che non avrebbe lasciato passare neppure un respiro di passero per fargli riempire i polmoni. I corpi dei pirati tremolarono come sottoposti a una scarica elettrica, si scrollarono di dosso le coperte di alghe e si strizzarono per passare in un buco appena aperto nel muro della loro tomba, incuranti delle conseguenze, vale a dire articolazioni e costole saltate. Ma anche altri cadaveri si trovarono trascinati dai loro luoghi di riposo per diventare complici dell’ultimo tentativo di Opal Koboi di prendere il potere. Per alcuni di loro lo spirito era già passato oltre, ma per quelli morti di morte violenta o con questioni in sospeso rimaneva ancora un accenno della loro essenza che non poté fare altro che lamentare il triste trattamento riservato dai Berserkr ai loro corpi. Opal Koboi si accasciò sulla roccia antica, e le rune che erano strisciate come serpi di fuoco ripresero posto, raccogliendosi attorno all’impronta della sua mano come al centro della chiave magica. La prima serratura è stata aperta, pensò mentre riacquistava i sensi con ondate di nausea. Soltanto io posso richiuderla, ormai. Lo gnomo finora noto come Pip, ma il cui vero nome era l’assai più dignitoso Val Kyria, entrò zoppicando nel cratere, si arrampicò su per i 69 gradini della torre e avvolse attorno alle spalle di Opal uno scialle scintillante. — Il mantello di stelle, Miss Opal — le disse. — Come mi aveva chiesto. Opal ne accarezzò la stoffa e ne fu compiaciuta. Scoprì di avere nei polpastrelli ancora abbastanza magia da poter calcolare il numero dei fili. — Ben fatto, Hal. — Sarebbe Val, Miss Koboi — la corresse lo gnomo, un po’ seccato. La carezza di Opal si arrestò, e la mano strinse un lembo del mantello di seta con tanta forza da farlo fumare. — Sì, Val. Hai sparato al mio alter ego più giovane? Val si raddrizzò. — Sì, padrona, come aveva ordinato. E l’ho seppellita a dovere, come diceva nel codice. Opal si rese conto allora che quello spiritello le avrebbe sempre ricordato che aveva sacrificato il suo io più giovane per la sua sete di potere. — È vero che ti avevo ordinato di uccidere Opal junior, Val, però lei era terrorizzata. L’ho sentito. Val era perplesso. Quella giornata non stava prendendo la piega che lo gnomo si era aspettato. Aveva cullato immagini di elfi soldati con pitture di guerra, di trecce fermate sulla nuca con ossi, e invece si ritrovava circondato da bambini umani e da animali selvatici. — Non mi piacciono quei conigli — sbottò in quella che fu forse l’affermazione più fuori luogo della sua vita. — Mi sembrano strani. Guardi quegli orecchi frementi. Opal non riteneva che una persona del proprio livello dovesse accettare commenti del genere, perciò vaporizzò il povero Val con un fascio di energia al plasma, e del leale gnomo non rimase nulla se non una macchia di pasta nerastra sul gradino. Un uso del plasma di scarso giudizio, si sarebbe constatato in un secondo tempo, perché di sicuro la folletta avrebbe potuto concedersi un momento per accumulare una seconda carica che le avrebbe permesso di occuparsi della navetta corazzata apparsa d’un tratto sul muro di cinta. Era protetta da uno scudo, è vero, ma Opal aveva sufficiente magia nera dentro di sé per vedere nel centro del luccichio che le era apparso davanti. Con una reazione un po’ troppo affrettata, scagliò a gran velocità un debole lampo sulla sinistra, riuscendo soltanto a scheggiare il vano motore e non ad avvolgere l’intero mezzo. La magia erratica si scatenò, rovesciando una torretta del muro della tenuta prima di disintegrarsi in tanti lampi che schizzarono verso il cielo. Anche se la Cupido fu solo scheggiata, il contatto era stato sufficiente a fonderne il motore a razzo, a metterne fuori uso le armi e a farla puntare 70 dritto verso terra in una discesa che nemmeno il pilota più abile sarebbe riuscito a rallentare. Altri avatar per i miei soldati, pensò Opal, stringendosi attorno il mantello di stelle e saltellando agilmente giù per i gradini della torre. Discese la parete del cratere e percorse il solco tracciato nel prato dalla navetta mortalmente ferita. I suoi guerrieri la seguivano, ancora ebbri per le nuove sensazioni, barcollanti nei loro nuovi corpi, sforzandosi di articolare parole con gole sconosciute. Opal guardò sopra di sé e vide tre anime schizzare verso la navetta fumante, che si era fermata con un’angolazione strana al riparo di un muro di cinta. — Prendeteli — ordinò ai guerrieri. — È il mio regalo per voi. A quel punto, quasi tutti i Berserkr avevano trovato ospitalità e stiravano le articolazioni con grande sollievo o grattavano la terra sotto le zampe o annusavano il muschio autunnale. Quando all’interno del cerchio erano arrivati quei nuovi ospiti, erano ormai tutti sistemati, tranne tre anime ritardatarie che si erano rassegnate a una risurrezione da passare strette e infastidite nel corpo di anatroccoli. Due umani e un elfo. L’animo dei guerrieri ne fu risollevato. Letteralmente. All’interno della Cupido, a cavarsela meglio nella caduta era stata Spinella, anche se si era trovata più vicino al punto d’impatto. Cavarsela meglio, in ogni modo, è un’espressione relativa e probabilmente non quella che Spinella avrebbe scelto per descrivere le proprie condizioni. Me la sono cavata meglio, avrebbe probabilmente evitato di dire alla prima occasione. Mi sono ritrovata solo con un polmone perforato e la clavicola spezzata. Avreste dovuto vedere gli altri. Per sua fortuna, ancora una volta gli amici assenti avevano contribuito a non farla morire. Come i biosensori del lucernario di Polledro avevano evitato una collisione fatale al navettiporto, così il suo caro amico, il demonestregone N. 1, l’aveva salvata con la sua speciale magia demoniaca. E come ci era riuscito? Era accaduto due giorni prima, davanti alla tazza settimanale di simil-caffè allo Stirbox, un locale alla moda nel quartiere del jazz. N. 1 era ancora più su di giri del solito grazie al doppio espresso che gli scorreva nel tozzo corpo grigio. Le rune che gli goffravano il pettorale dell’armatura brillavano per l’eccesso di energia. — Non dovrei bere simil-caffè — confessò. — Qwan dice che altera il mio chi. — Il piccolo demone ammiccò, nascondendo per un attimo un occhio arancione. — Avrei potuto dirgli che i demoni non hanno chi, noi abbiamo il qwa, però non credo che sia ancora pronto per questo. 71 Qwan era il maestro di magia di N. 1, e il demone gli era così affezionato che fingeva di non averlo superato già da anni. — E il caffè è ottimo per il qwa, lo fa schizzare alle stelle. Probabilmente, se ne avessi voglia, potrei trasformare una giraffa in un rospo, anche se avanzerebbe un mucchio di pelle, per lo più del collo. — È un’idea inquietante — replicò Spinella. — Se davvero hai voglia di esercitarti con un po’ di magia utile con qualche anfibio, perché non fai qualcosa per le smoccorane? Le smoccorane erano il risultato di uno scherzo di alcuni allievi stregoni di un corso di perfezionamento, i quali erano riusciti a dare a un gruppo di rane il dono della parola. Solo quello delle parolacce, però. Era stato divertente per cinque minuti, finché le rane non avevano incominciato a moltiplicarsi con un ritmo feroce, sputando epiteti infami contro qualunque cosa si muovesse, compresi gli spiritelli dell’asilo e le nonne umane. N. 1 rise piano. — Mi piacciono le smoccorane. A casa ne ho due che si chiamano Bip e D’Arvit. Sono maleducatissime con me, però so che non lo fanno apposta. — Il piccolo demone mandò giù un altro sorso di caffè. — E allora, parliamo un po’ del tuo problema con la magia, Spinella. — Quale problema? — chiese lei, sinceramente perplessa. — Io per la magia ho una vista ai raggi X, e tu hai dei buchi grossi come quelli del formaggio dei nani. Spinella si guardò le mani come per trovarvi una prova visibile. — Davvero? — Il tuo scheletro è la batteria in cui immagazzini la magia, ma del tuo hai abusato una volta di troppo. A quante guarigioni ti sei sottoposta? A quanti traumi? — Un paio — ammise Spinella, con il che intendeva dire “una decina”. — Un paio questo giro — ribatté N. 1. — Non mentire con me, Spinella Tappo. La tua attività elettrodermica è aumentata sensibilmente. Il che significa che ti sudano i polpastrelli, vedo anche questo. — Il demone grigio rabbrividì. — A dire il vero, a volte vedo cose che non ho nessunissima voglia di vedere. L’altro giorno nel mio ufficio è entrato uno spiritello con un mazzo di microscopiche larve di anellivermi che si contorcevano attorno alla sua ascella. Ma che ha la gente? Spinella non rispose, era meglio lasciare che N. 1 si sfogasse. — E vedo che tutte le settimane hai anche regalato una scintilla o due della tua magia al clone di Opal alla clinica di Argon nel tentativo di farla stare un po’ meglio. È solo una perdita di tempo, Spinella: quella creatura non ha uno spirito, la magia non le serve a niente. 72 — Ti sbagli, N. 1 — ribatté calma Spinella. — Nopal è una persona. N. 1 stese in fuori i ruvidi palmi. — Dammi le mani — le disse. Spinella gli mise le dita fra le sue. — E adesso cantiamo una canzonaccia da marinai? — No — ribatté N. 1. — Però potrebbe farti un po’ male. “Potrebbe farti un po’ male” è una frase in codice universale per “Ti farà sicuramente male un sacco”, ma prima che il cervello di Spinella avesse il tempo di fare la traduzione, la runa sulla fronte di N. 1 si avvolse a spirale, cosa che faceva solo quando il demone si sforzava di operare un grosso spiegamento di energia. L’elfa fece appena in tempo a sbottare in un: — Ma… — che quelle che sembravano due anguille elettriche le si avvolsero attorno alle braccia e strisciarono verso l’alto affondandole nel petto. Non fu un’esperienza gradevole. Spinella perse il controllo delle membra e incominciò ad avere spasmi come una marionetta mossa da un burattinaio in preda alle risate. Tutta la faccenda non durò più di cinque secondi, ma cinque secondi di disagio acuto possono sembrare lunghissimi. L’elfa tossì e parlò solo quando la mascella ebbe finito di schioccare. — E dovevi proprio farlo in un caffè? — Pensavo che non ci saremmo rivisti per un po’ e sono preoccupato per te. Sei così imprudente, Spinella. Così ansiosa di aiutare tutti dimenticandoti di te stessa. Spinella fletté le dita, e fu come se le articolazioni fossero state lubrificate. — Wow, ora che quel dolore assurdo è sparito sto benissimo. — D’un tratto, registrò le ultime parole di N. 1. — E perché non ci dovremmo vedere per un po’? Di colpo N. 1 si fece serio. — Ho accettato un invito alla stazione lunare. Vogliono che esamini alcuni microrganismi per capire se posso estrarre un po’ di memoria genetica dalle loro cellule. — Oh-oh! — esclamò l’elfa, che aveva capito perfettamente la prima frase e niente della seconda al di là delle singole parole. — E per quanto starai via? — Due dei vostri anni terrestri. — Due anni — balbettò lei. — Avanti, N. 1. Sei l’unico amico spiritello che mi rimane. Polledro si è fatto imbrigliare. Grana Algonzo si è lasciato accalappiare dal caporale Foglietta, anche se non riesco a capire che cosa ci trovi in quella testa vuota. — È carina e gli vuole bene, ma a parte questo non ne ho proprio idea — ribatté malizioso il demone. 73 — Scoprirà che tipo è davvero quando lei lo pianterà in asso per qualcuno di grado più alto. N. 1 ritenne opportuno non fare cenno ai tre disastrosi appuntamenti di Spinella con il comandante Algonzo, l’ultimo dei quali era terminato con i due cacciati via da una partita di strozzapalla. — Ti rimane sempre Artemis. Spinella annuì. — Già. Artemis è un bravo ragazzo, credo, ma ogni volta che ci vediamo finisce sempre con sparatorie, o viaggi nel tempo o cellule cerebrali che muoiono. Voglio un amico tranquillo, N. 1. Un tipo come te. Il demone le riprese la mano. — Due anni passeranno in un lampo. Magari potresti chiedere un lasciapassare lunare e venire a trovarmi. — Magari. Però adesso basta cambiare argomento. Che cos’è che mi hai appena fatto? N. 1 si schiarì la voce. — Oh, solo un ritocco magico. Ora le tue ossa sono meno fragili e le articolazioni sono lubrificate. Ti ho rafforzato il sistema immunitario e ti ho ripulito le sinapsi che erano un po’ ostruite dai residui magici. Ti ho riempito il serbatoio con una mia personale miscela di energia e ho reso i tuoi capelli un po’ più lucenti di quanto già non siano; poi ho rinsaldato la tua runa protettiva in modo che tu non possa essere posseduta mai più. Voglio che tu sia al sicuro fino al mio ritorno. Spinella strinse le dita dell’amico. — Non preoccuparti per me. Solo operazioni di routine. Solo operazioni di routine, pensò adesso Spinella ancora stordita dall’impatto, con la magia che le scorreva nel sistema riparandole la frattura alla clavicola e ricucendo il reticolo di ferite sulla pelle. La magia avrebbe tanto voluto chiuderla per manutenzione straordinaria, ma l’elfa non poteva permetterlo. Cercò a tastoni il kit di pronto soccorso nella tasca della cintura e si schiaffò sul polso un cerotto di adrenalina; all’istante, le centinaia di minuscoli aghi le rilasciarono la sostanza chimica nel flusso sanguigno. Una scarica di adrenalina l’avrebbe mantenuta all’erta, lasciando che la magia facesse il suo lavoro. La cabina della Cupido era fracassata, e solo il guscio rinforzato del veicolo aveva evitato un crollo totale che avrebbe spappolato i passeggeri. Comunque la navetta aveva cavalcato la sua ultima vampa di magma. Nel retro del veicolo, Leale cercava di ignorare la commozione cerebrale che minacciava di trascinarlo nell’oblio, e Artemis era incastrato nello spazio fra i sedili come un pupazzo gettato via. Ti voglio bene, Artemis, pensò Spinella. Però in questo momento mi serve Leale. 74 E così, la guardia del corpo fu il primo a ricevere la scarica di magia guaritrice, una saetta che lo caricò come un defibrillatore spedendolo con uno spasmo sul prato al di là del finestrino posteriore. Wow!, pensò Spinella. Bell’intruglio, N. 1. Con Artemis ci andò più piano e si limitò a fargli cadere una goccia di magia dal polpastrello al centro della fronte. Il contatto fu comunque sufficiente per increspargli la pelle come l’acqua di uno stagno. Era in arrivo qualcosa. Spinella vedeva le immagini doppiamente distorte attraverso il vetro in frantumi e il visore scheggiato. Un mucchio di cose. Sembravano piccole, ma si muovevano con sicurezza. Non vedo. Non riesco ancora a vedere, si disse. La magia di N. 1 completò il proprio viaggio risanatore nel suo organismo e, mentre il sangue le lasciava l’occhio sinistro, Spinella ebbe modo di dare una bella guardata a quello che le si stava avvicinando. Un serraglio, pensò. Può occuparsene Leale. Ma poi la magia di N. 1 le permise di inquadrare uno scorcio delle anime che fluttuavano nell’aria come logori aquiloni trasparenti, e l’elfa rammentò le storie che il padre le aveva raccontato tante volte. “I più prodi dei prodi. Lasciati a protezione della porta.” Berserkr, comprese Spinella. La leggenda dice il vero. Se catturano Leale, siamo finiti. Strisciò sopra Artemis, uscì dal finestrino posteriore e si trascinò nel solco aperto dallo schianto della Cupido, con la terra arata di fresco che le si sbriciolava sulla testa. Per un attimo provò la paura irrazionale di essere sepolta viva, ma poi le zolle di terra rotolarono giù e fu libera. Sentiva il dolore pulsante lasciato dalla frattura risanata alla spalla, ma per il resto stava fisicamente bene. Ho la vista ancora confusa, si rese conto. Perché? Ma non era la vista: le lenti dell’elmetto erano scheggiate. Sollevò il visore e fu salutata dalla veduta cristallina di una forza d’assalto guidata dai fratellini di Artemis, che sembrava comprendere anche una falange di guerrieri in armature antiche e diversi animali selvatici. Leale stava carponi al suo fianco, intento a scrollarsi di dosso la nebbia della magia come un orso grizzly che si scuote l’acqua di un fiume. Spinella trovò nel pacchetto un altro cerotto di adrenalina e glielo stampò sul collo. Scusami, amico, ma mi servi operativo, pensò. Leale balzò in piedi come se avesse appena ricevuto una scarica elettrica, ma ondeggiò, momentaneamente disorientato. 75 Le figure possedute si fermarono all’istante, disposte a semicerchio, evidentemente ansiose di attaccare ma trattenute per una qualche ragione. Il piccolo Beckett Fowl guidava la carica di quell’armata eterogenea, ma adesso non sembrava tanto un bambino, con quella sua tronfia andatura da guerriero e una manciata di canne insanguinate che sventolava. Grazie al residuo della magia di N. 1, Spinella riuscì a scorgere lo spirito di Oro nascosto dentro al ragazzino. — Sono un elfo — gli disse in gnomico. — Questi umani sono miei prigionieri. Lasciaci in pace. La voce di Opal Koboi si alzò sopra i ranghi: — Prigionieri? Quello grosso non sembra proprio un prigioniero. — Koboi — disse Leale, che finalmente aveva ritrovato un po’ di lucidità. Poi notò la sorella nel gruppo. — Juliet! Sei viva! Juliet si fece avanti, ma in maniera goffa, come se non avesse familiarità con i propri meccanismi interni. — ’Ateuo — biascicò con la voce fessa e uno strano accento. — ’brasciami. — No, amico mio — lo ammonì Spinella, scorgendo il lampo guerriero nel corpo della sorella di Leale. — Juliet è posseduta. L’uomo comprese all’istante. Avevano già avuto a che fare con una possessione di fate quando Artemis era stato colpito dal Complesso di Atlantide. I tratti del viso di Leale si distorsero, e in quel momento i decenni di battaglie gli apparvero tutti scritti in faccia. — Jules. Sei tu? La regina dei guerrieri, Bellico, usò i ricordi di Juliet per rispondere, ma non aveva il completo controllo delle corde vocali. Le sue parole uscirono confuse, come se fossero state pronunciate attraverso altoparlanti di latta, e l’accento era un insolito misto fra lo scandinavo marcato e l’americano del profondo Sud. — Scì, ’ateuo. Sciono io. Sgiuuuliet. Leale comprese la verità: il corpo poteva anche essere quello della sorella, ma di sicuro la mente non lo era. Artemis li raggiunse e posò una mano sulla spalla di Spinella. Aveva una macchia di sangue sulla camicia nel punto in cui aveva tossito. Come al solito, fece la domanda più pertinente. — Perché non attaccano? Spinella sobbalzò letteralmente. Perché no? Certo, perché no? Leale ripeté: — Perché non attaccano? Sono in superiorità numerica e dal punto di vista emotivo noi siamo un disastro. Quell’affare è mia sorella, per 76 amor del cielo! L’elfa ricordò perché fossero stati lasciati in pace: Siamo ospiti all’interno del cerchio. Hanno bisogno di noi. Le anime svolazzanti sopra di loro si impennavano, pronte alla discesa. Posso spiegare quello che sto per fare, pensò Spinella. Oppure posso farlo e basta. Era più facile agire senza tanti complimenti e sperare di avere in seguito l’opportunità di scusarsi. Regolò con mano esperta la messa a punto sulla canna della sua Neutrino e sparò in rapida successione a Leale sul collo e ad Artemis sulla mano. Ora non saremo posseduti, disse fra sé. Ma l’aspetto negativo è che con ogni probabilità i Berserkr ci uccideranno. Le anime calarono sugli ospiti designati come fogli di polietilene bagnato. Spinella sentì che un ectoplasma le si infilava in bocca, ma lo spirito non sarebbe riuscito a possederla per via della runa sotto il colletto. Resisti, si disse. Resisti. Avvertì il sapore di argilla e bile. Udì echi di grida di decine di migliaia di anni addietro e sperimentò la Battaglia di Taillte come se lei stessa si fosse trovata su quella collina in cui il sangue si era riversato sul prato e ondate di umanità erano rotolate sull’erba, annerendola. È avvenuto tutto proprio come mi aveva detto mio padre, si rese conto. Quando perse la presa e si trovò respinta in volo a mezz’aria, l’anima ululò di frustrazione. Due anime di guerrieri cercavano di entrare in Artemis e in Leale, ma vennero respinte. Quando era stato raggiunto dal colpo dell’elfa, l’eurasiatico era caduto riverso come una sequoia abbattuta, e Artemis gli aveva afferrato la mano, esterrefatto nel vedere l’amica elfa bruciare la loro pelle nuda con i raggi della Neutrino. Erroneamente, aveva tratto l’affrettata conclusione che fosse stata posseduta da uno dei guerrieri di Danu, un’esperienza che conosceva bene dopo che un’anima aveva cercato di occupare lui. Cadde in ginocchio e rimase a guardare con gli occhi socchiusi per il dolore i guerrieri nordici che avanzavano verso di loro. Spinella era ancora un’amica o era diventata una nemica? Non poteva esserne sicuro. Sembrava lei, con l’arma puntata contro l’orda. La voce di Opal li raggiunse da oltre la calca, al riparo di quella massa. — Si sono protetti. Uccideteli subito, soldati. Portatemi le loro teste. Artemis tossì. Portatemi le loro teste? 77 Di solito Opal era un po’ più sottile. È proprio vero quello che si dice: la prigione non riabilita l’uomo. O per lo meno, non riabilita i folletti. Perfino i suoi fratellini avanzavano verso di lui con occhi assassini. Due bambini di quattro anni che procedevano con sempre maggiore agilità e velocità. Sono diventati più forti? Myles e Beckett potrebbero davvero riuscire a ucciderci?, si chiese. E se non lo avessero fatto loro, forse ci avrebbero pensato quei pirati con le loro sciabole arrugginite. — Leale — gracchiò. — Ritiriamoci e valutiamo la situazione. — Era la loro unica possibilità. Non ci rimane nessuna opzione proattiva, pensò. Comprenderlo lo irritò moltissimo, perfino in quella situazione di pericolo mortale. — Ritiratevi e cercate di non fare del male a nessuno tranne a quei pirati. Le mummie dei guerrieri cinesi e io non ci seccheremo troppo se farete del male a un paio di animali. Dopotutto, o loro o noi. Ma Leale non poteva sentire lo sproloquio insolitamente nervoso di Artemis perché il colpo di Spinella gli aveva centrato il nervo vago e lo aveva steso secco. Un centro su un milione. Toccava all’elfa difendere il gruppo. Sarebbe andato tutto bene, tutto ciò che il capitano Tappo doveva fare era regolare la Neutrino su un raggio largo per far guadagnare loro un po’ di tempo. Poi nelle dita della mano scheletrica di un pirata incominciò a roteare un manganello che le centrò il naso, ricacciandola addosso a Leale. Artemis vide le creature possedute fare gli ultimi passi verso di lui e con sgomento si rese conto che alla fine tutto si sarebbe ridotto a uno scontro fisico. Ho sempre creduto che la mia intelligenza mi avrebbe tenuto in vita, e invece adesso verrò ammazzato con un sasso dal mio fratellino. La rivalità finale tra fratelli, pensò. E poi il terreno si aprì sotto i suoi piedi e inghiottì l’intero gruppo. Opal Koboi si fece strada sgomitando fra i suoi accoliti fino all’orlo del baratro che si era aperto improvvisamente per strappare le sue nemesi al loro destino. — No! — strillò, i pugni che colpivano l’aria. — Volevo le loro teste. Sulle lance. Voialtri lo fate sempre, no? 78 — Di solito sì — ammise Oro per bocca di Beckett. — E a volte anche le membra. Opal avrebbe potuto giurare che sotto i suoi piedi il suolo avesse ruttato. 79 CAPITOLO 7 - A TUTTO SPUTO TENUTA DEI FOWL, PARECCHI METRI SOTTO TERRA Artemis precipitò sempre più giù, urtando con i gomiti e le ginocchia le radici ricurve e gli spigoli aguzzi di roccia che sporgevano come libri mezzo sepolti. Le zolle di terra umida gli rotolavano ai fianchi e il pietrisco gli sbatacchiava sulla camicia e sulle gambe dei pantaloni. Aveva la vista offuscata dal turbinio di strati di terra, però sopra di sé vedeva un bagliore. Ma anche sotto. Com’era possibile? Un tonfo di legno dietro un orecchio e la luce che proveniva dal di sotto lo lasciarono confuso. Ma quello era sotto, giusto? Mi sento come Alice che precipita nel Paese delle meraviglie, pensò. Gliene tornò alla mente una frase: Sarebbe bello se per una volta qualcosa avesse un senso. Nessuna caduta può durare in eterno se c’è di mezzo la gravità, e la discesa di Artemis fu per fortuna graduale via via che il cratere si stringeva a un collo di bottiglia che Leale e Spinella ebbero la decenza di bloccare con un groviglio scomposto di corpi e arti prima di precipitare nel buco. Mani ruvide afferrarono Artemis, trascinandolo in un tunnel sottostante. Il ragazzo atterrò sull’ammasso di corpi e dovette ripulirsi gli occhi dalla terra. Qualcuno o qualcosa stava nudo davanti a lui, una figura eterea che risplendeva di una luce divina dalla testa ai piedi. Stese verso di lui una mano fulgida e gli parlò con una voce profonda da trailer cinematografico. — Tirami il dito. Artemis rilassò i muscoli del collo. — Bombarda. — L’unico e il solo. Venuto ancora una volta a salvare il tuo cervellotico didietro. Ricordami soltanto una cosa: chi è che dovrebbe essere il genio, qui? — Bombarda — ripeté Artemis. Il nano gli puntò contro il dito teso come una pistola. — Ah ah! Ti stai ripetendo. Una volta mi hai detto che ripetersi è un esempio di ridondanza. Be’, chi è ridondante adesso, Fangosetto? A che cosa ti è servito il tuo genio con quei fuori di testa là sopra? — A niente — ammise Artemis. — Ma non potremmo discuterne dopo? — Solo perché hai torto — ribatté Bombarda. — No, perché quei fuori di testa ci stanno alle calcagna. Dobbiamo ritirarci e 80 riorganizzarci. — Non preoccuparti di questo — gli disse il nano, stendendo un avambraccio in un buco della parete del tunnel ed estraendone una grossa radice. — Quando avrò fatto crollare l’imboccatura della galleria, nessuno ci seguirà da nessuna parte, però forse dovresti avere la compiacenza di avanzare di un metro o due. La terra sopra di loro rimbombò come nubi temporalesche che si andassero ammassando sulla cresta di una montagna, e il ragazzo fu colto di colpo dalla certezza che sarebbero stati travolti tutti quanti. Si precipitò in avanti e si schiacciò contro la fredda parete di terra scura come se questo potesse in qualche modo fare la differenza. E invece il tunnel di Bombarda resistette, e a rimanere bloccato fu soltanto il punto in cui fino a pochi istanti prima si era trovato Artemis. Il nano avvolse le dita attorno alla caviglia di Leale e con un certo sforzo trascinò la guardia del corpo priva di sensi lungo il pavimento della galleria. — Tu pensa a Spinella. Fai piano. A giudicare dalla tua mano, deve avere scacciato quegli spiriti e averti salvato la vita. Prima che lo facessi anch’io. E probabilmente subito dopo che lo ha fatto Leale. Ti sembra di riuscire a riconoscere uno schema ricorrente in tutto questo, Fangosetto? Incominci a capire chi è la palla al piede qui? Artemis si guardò la mano: nel punto in cui Spinella gli aveva sparato era marchiata con una runa a spirale. A quella vista, le ultime sfere di ectoplasma dei Berserkr incollate ai capelli gli diedero i brividi. Una runa di protezione. Spinella li aveva marchiati per salvarli. E pensare che aveva dubitato di lei. La prese in braccio e seguì il nano, cercando a tastoni la strada con le punte dei piedi. — Rallenta! — gridò. — C’è buio qui. La voce di Bombarda riecheggiò nel tunnel. — Segui i globi, Arty. Gli ho dato uno strato in più di saliva di nano, la soluzione magica che fa tutto, da brillare al buio a respingere gli ospiti fantasma. Dovrei imbottigliarla e venderla, questa roba. Segui i globi. Artemis sbatté gli occhi davanti al bagliore che si allontanava ed effettivamente riuscì a distinguere due globi intermittenti un po’ più luminosi degli altri. Quando si fu reso conto di che cosa fossero, decise di non seguirli troppo da vicino. Li aveva visti in azione, e di tanto in tanto se li sognava ancora di notte. Il pavimento del tunnel diventò ondulato e poi curvò finché la bussola interiore di Artemis non cedette anche quel poco senso di orientamento che 81 gli era rimasto. Continuò a scarpinare dietro il sedere luminoso di Bombarda, guardando l’amica priva di sensi fra le sue braccia. Sembrava così piccola e fragile, anche se lui l’aveva vista affrontare un’orda di troll per difenderlo. — Le probabilità sono contro di noi com’è accaduto spesso, amica mia — bisbigliò tanto a se stesso quanto all’elfa. Fece un rapido calcolo, tenendo conto delle situazioni disperate che avevano dovuto affrontare nel corso degli ultimi anni, del QI relativo di Opal Koboi e del numero approssimativo di avversari che gli era parso di scorgere in superficie. — Direi che le nostre probabilità di sopravvivenza sono inferiori al quindici per cento. Però l’aspetto positivo è che siamo sopravvissuti, anzi, siamo usciti vincitori, da una situazione ancora peggiore. Una volta. Ovviamente i suoi bisbigli dovevano essere trasportati dal tunnel, perché sentì la voce di Bombarda. — Devi smetterla di pensare con la testa, Fangosetto, e incominciare a farlo con il cuore. Artemis sospirò. Il cuore era l’organo preposto a pompare sangue ricco di ossigeno alle cellule del corpo. Non era in grado di pensare, proprio come una mela non si sarebbe potuta mettere a ballare il tip tap. Stava appunto per spiegarlo al nano, quando il tunnel si aprì in un vano più largo e Artemis si sentì togliere il fiato. Quello spazio aveva le dimensioni di un piccolo fienile, con le pareti che salivano in diagonale e terminavano in una punta. C’erano tunnel di alimentazione a diverse altezze, e sfere di una sostanza viscosa attaccate alla roccia nuda fungevano da sistema di illuminazione. Era un impianto particolare che Artemis aveva già visto prima. — Saliva di nano — disse, indicando con un cenno del capo un grappolo ribassato di sfere grosse come palle da tennis. — Si indurisce quando viene secreta e brilla di una luminescenza che non ha uguali in natura. — Non è solo saliva — ribatté il nano con fare misterioso, e per una volta Artemis non ebbe voglia di andare a fondo della questione, dato che il fondo dei misteri di Bombarda di solito si trovava nelle vicinanze del fondo misterioso di Bombarda stesso. Artemis depositò delicatamente Spinella su un letto di pellicce ecologiche e riconobbe l’etichetta di uno stilista. — Ma sono le pellicce di mia madre! Bombarda lasciò andare la gamba di Leale. — Esatto. Be’, il possesso è nove decimi della legge, perciò perché non riporti il tuo decimo su in superficie e non mi denunci per furto a quella cosa che una volta era Opal Koboi? Era un’ottima argomentazione. Artemis non aveva il benché minimo desiderio di vedersi scacciare da quel rifugio. 82 — Siamo al sicuro qua sotto? Non ci seguiranno? — Possono provarci — ribatté Bombarda, poi sputò un po’ di saliva luminosa sopra uno spruzzo che andava spegnendosi. — Però ci metterebbero un paio di giorni, armati di sonar e trivelle industriali. E perfino allora per buttare giù tutto quanto mi basterebbe una scarica ben piazzata di gas nanesco. Artemis lo trovò difficile da credere. — Non dirai sul serio. Una sola scarica e tutta questa struttura precipiterebbe? Bombarda assunse una posa da eroe, con un piede su una roccia e le mani sui fianchi. — Nel mio settore, devi essere pronto a scappare, a tagliare la corda. Il ragazzo non si sentiva dell’umore di apprezzare l’esibizione. — Ti prego, Bombarda, lascia perdere. Mettiti un paio di pantaloni, piuttosto. Il nano acconsentì brontolando e infilò un paio di brache sbiadite sulle robuste cosce. Era il massimo che poteva concedergli, quindi il petto villoso e il ventre prodigioso rimasero scintillanti e nudi. — I pantaloni me li metto solo per Spinella, ma questa è casa mia, Artemis. Nelle grotte, noialtri Sterro preferiamo il casual. Da una stalattite gocciolava acqua che andava formando una pozza luminosa. Artemis ci tuffò la mano che poi posò sulla fronte di Spinella. Era ancora priva di sensi dopo aver subito due traumi fisici nel giro di altrettanti minuti, e un’unica scintilla di magia ronzava sulla ferita alla testa come un’industriosa ape operaia. L’ape parve notare la mano di Artemis e saltò sul marchio, alleviandogli il bruciore sulla pelle, ma lasciando una cicatrice rigonfia. Una volta finito il suo lavoro, la magia tornò da Spinella e si sparse sulla sua fronte come un balsamo. L’elfa aveva il respiro profondo e regolare e sembrava dormire più che essere priva di sensi. — Da quanto tempo sei qui, Bombarda? — Perché? Vuoi farmi pagare l’affitto arretrato? — No, per il momento sto semplicemente raccogliendo informazioni. Così posso fare un piano dettagliato. Il nano diede un colpetto al coperchio di un contenitore frigorifero, che Artemis riconobbe appartenere a un vecchio set da picnic della famiglia, e ne estrasse un salame color rosso sangue. — Continui a blaterare di piani dettagliati eccetera, e noi continuiamo a finire a capofitto nella cacca di troll senza stivali molleggiati. Era da un pezzo ormai che Artemis aveva rinunciato a chiedere a Bombarda di spiegargli le sue metafore. Aveva assoluto bisogno di qualunque informazione potesse fornirgli uno spunto, qualcosa che potesse aiutarlo a 83 riprendere il controllo di quella situazione disperata. Concentrati, si disse. Ci sono troppe cose in ballo qui. Più che mai. Si sentiva a pezzi. Le fatiche e le guarigioni degli ultimi momenti gli avevano lasciato il petto in fiamme. Cosa insolita per lui, non sapeva che fare se non aspettare il risveglio dei suoi amici. Strisciò da Leale e gli controllò le pupille in cerca di eventuali danni al cervello. Spinella gli aveva sparato al collo e avevano fatto un bel capitombolo. Con sollievo constatò che entrambe le pupille avevano le stesse dimensioni. Bombarda gli si acquattò accanto, brillante come un tozzo semidio, il che era un po’ inquietante se si pensava che cosa fosse il nano in realtà: Bombarda Sterro distava dalla divinità quanto un riccio dal velluto. — Che ne pensi della mia tana? — gli chiese il nano. — Tutto questo è… — Artemis indicò l’ambiente circostante con un gesto della mano. — Straordinario. Lo hai scavato tutto da solo? Ma da quanto tempo stai qui? Il nano fece spallucce. — Un paio d’anni. Di tanto in tanto, mi capisci. Ho una decina di questi rifugi sparsi un po’ dappertutto. Mi sono stufato di fare il cittadino rispettoso della legge, perciò dirotto un po’ di energia da quelle tue barre geotermiche e pirato i tuoi cavi. — Ma perché vivi qua sotto? — Non è che ci viva proprio, di tanto in tanto mi ci rintano, ecco tutto. Quando la situazione si fa scottante. Ho appena portato a termine un lavoretto importante e avevo bisogno di stare nascosto per un po’. Artemis si guardò attorno. — Un lavoretto importante, dici? E allora, dov’è il bottino? Bombarda agitò un dito brillante come un fiammifero. — Ed è qui, come direbbe mio cugino Nordio, che la mia bugia rabberciata viene a cadere. Artemis fece due più due e ottenne uno spiacevolissimo quattro. — Sei venuto qui per derubare me! — No, niente affatto. Ma come osi? — Ti sei appostato qua sotto per scavare un tunnel fino a Casa Fowl. Un’altra volta. — “Appostato” non è una bella parola, mi fa sembrare un serpente marino. Preferisco pensarmi nascosto nell’ombra. Freddo, come un felino. — Tu i felini te li mangi, Bombarda. Il nano congiunse le mani. — D’accordo, lo ammetto. Può essere che avessi in progetto di dare una sbirciatina nel caveau in cui tenete le opere d’arte. Però guarda il lato divertente. Derubare un genio del crimine: non lo trovi 84 ironico? A voi cervelloni l’ironia piace, no? Artemis era sbigottito. — Ma non puoi tenere le opere d’arte qui. È sporco e umido. — Ai faraoni non ha mai fatto male — ribatté il nano. Spinella, distesa a terra di fianco a loro, aprì gli occhi, tossì e poi eseguì una mossa molto più difficile di quanto non sembrasse, balzando in posizione verticale da dove si trovava e atterrando sui piedi. Bombarda ne rimase impressionato finché Spinella non cercò di strangolarlo con la sua stessa barba, al che smise di sentirsi impressionato, troppo preso com’era a soffocare. Era quello il problema dei risvegli dopo una guarigione magica: spesso il cervello rimane perfettamente illeso, ma la mente è confusa. È una sensazione strana, essere svegli e intontiti allo stesso tempo. Se si aggiunge al tutto un rallentamento temporale – e spesso il soggetto incontra difficoltà a effettuare il passaggio dallo stato onirico al mondo vigile – è consigliabile mettere il paziente in un ambiente tranquillo, magari con qualche giocattolo attorno al cuscino. Purtroppo per Spinella, aveva perso i sensi nel bel mezzo di una battaglia all’ultimo respiro e si era svegliata con un mostro luminoso che le torreggiava davanti. Ecco perché, del tutto comprensibilmente, aveva avuto una reazione esagerata. Le ci vollero circa cinque secondi per capire chi avesse davanti. — Oh — borbottò imbarazzata. — Sei tu. — Già — rispose Bombarda, espettorando qualcosa che squittì e sgattaiolò via. — Se per cortesia volessi essere così gentile da lasciarmi andare la barba, ho appena fatto la messa in piega. — Davvero? — Certo che no. Vivo in una caverna e mangio terra, che ti credi? Spinella gli diede una sistematina alla barba con le dita, poi scese dalle spalle del nano. — Ero seduta nella saliva, vero? — chiese con una smorfia. — Non è che sia proprio tutta saliva — ribatté Bombarda. — Ebbene, Artemis — disse l’elfa, sfregandosi il debole marchio rosso sulla fronte. — Qual è il piano? — Ciao anche a te — le disse Bombarda. — No, non dire nulla, non c’è bisogno che mi ringrazi. Salvarti un’altra volta la vita è stato un piacere, solo uno dei tanti servizi offerti dalla Sterro Airlines. Spinella lo fulminò con un’occhiata. — Ho un mandato d’arresto nei tuoi confronti. — E allora perché non mi ammanetti? 85 — Perché al momento le prigioni non sono esattamente operative. Bombarda impiegò un istante per digerire l’informazione, e la spavalderia che era il suo marchio di fabbrica svanì dai suoi tratti marcati, ruga dopo ruga. E sembrò anche che il suo bagliore calasse di un paio di tonalità. — Oh, per tutte le flatulenze — esclamò, tracciando sullo stomaco il sacro segno dell’intestino rigonfio per scacciare il maligno. — Che cos’ha combinato Opal questa volta? Spinella si sedette su un cumulo di terra picchiettando il computer da polso per verificare se funzionasse ancora. — Ha trovato e aperto la Porta dei Berserkr. — E c’è di peggio — continuò Artemis. — Ha ucciso il suo alter ego più giovane, il che ha distrutto tutto ciò che Opal ha inventato o su cui ha avuto influenza da allora. Cantuccio è isolata, e gli umani sono tornati all’Età della Pietra. La faccia di Spinella era tetra alla luce della saliva luminescente. — A dire la verità, Artemis, che abbia trovato la Porta dei Berserkr è davvero la cosa peggiore, perché ci sono due serrature. La prima libera i guerrieri… Nella pausa si intromise Bombarda. — E la seconda? Avanti, Spinella, non abbiamo tempo per la teatralità. L’elfa si abbracciò le ginocchia come una bambina sperduta. — La seconda scatena l’Armageddon. Se Opal riuscirà ad aprirla, tutti gli umani sulla faccia della Terra moriranno. Man mano che la portata sanguinaria del piano di Opal gli si chiariva, la testa di Artemis girava sempre di più. Leale scelse proprio quel momento per riprendere conoscenza. — Juliet è in superficie con i signorini Beckett e Myles, perciò immagino che non possiamo permetterlo. Si sedettero stretti in cerchio attorno a un falò di saliva luminosa, mentre Spinella raccontava loro quella che era stata considerata una leggenda ma che adesso erano portati a ritenere un fatto storico piuttosto preciso. — Buona parte di quanto sto per dirvi probabilmente lo conoscete dagli spiriti che hanno cercato di possedervi. Leale si sfregò il marchio sul collo. — Io no, ero steso secco. Non ho percepito altro che frammenti di immagini. Qualcosa di tremendo, anche per me. Arti smembrati, gente sepolta viva, nani in battaglia a dorso di troll: può essere? — È successo tutto quanto — confermò Spinella. — Esisteva un’armata di nani che cavalcavano troll. 86 — Già — disse Bombarda. — Si chiamavano i trollieri. Forte come nome, eh? Ce n’era un gruppo che usciva solo di notte e si faceva chiamare “i trollieri della notte”. Artemis non poté fare a meno di chiedere: — E quelli che cavalcavano di giorno come si chiamavano? — “I trollieri del giorno” — rispose allegro il nano. — Vestiti di pelle da capo a piedi. Puzzavano come l’interno della vescica di un puzzoverme, però erano efficienti. Spinella avrebbe voluto piangere di frustrazione, ma durante il breve periodo in cui aveva lavorato come investigatrice privata con Bombarda come socio, aveva imparato che il nano chiudeva il becco solo quando era disposto a farlo. Da Fowl, però, non se lo aspettava. — Artemis — lo interruppe secca. — Non incoraggiarlo. Il tempo stringe. Al bagliore della saliva, l’espressione del ragazzo sembrava quasi impotente. — Certo, niente più commenti. Sono un po’ sconvolto, a dire la verità. Va’ avanti, Spinella, per favore. E così, l’elfa continuò il suo racconto, il viso illuminato dal di sotto da quella fonte di luce così poco convenzionale. Leale non poté fare a meno di ripensare alle storie dell’orrore raccontate a lui e ai suoi compagni scout dal capo Prunes nei bivacchi alla grotta di Dan-yr-Ogof, nel Galles. Quella di Spinella era ridotta all’osso, ma le circostanze gli davano comunque i brividi. E non è che io rabbrividisca così facilmente, pensò l’omone, agitandosi a disagio sulla radice fangosa che gli faceva da sedile. — Quando ero bambina, mio padre mi raccontava la storia di Taillte quasi tutte le sere perché non dimenticassi mai il sacrificio compiuto dai nostri antenati. Alcuni pagarono con la vita, ma altri andarono perfino oltre e rimandarono la morte. — Spinella chiuse gli occhi e cercò di riferirla come l’aveva sentita. — Diecimila anni fa, gli umani combatterono per sradicare le famiglie del Popolo dalla faccia della Terra. Non avevano alcun motivo di farlo, il Popolo è generalmente pacifico. Le capacità guaritrici dei suoi membri e il loro legame speciale con la terra erano di beneficio per tutti, ma fra gli umani ci sono sempre quegli individui che vorrebbero avere il controllo su tutto ciò che vedono e che si sentono minacciati da ciò che non comprendono. Artemis si astenne dal far notare l’ovvio, e cioè che lei era proprio un membro di quel pacifico Popolo che in quel momento stava tentando di distruggere il mondo, ma lo stivò nella memoria, da dove lo avrebbe recuperato al momento opportuno. 87 — E così, il Popolo si rifugiò nella nebbiosa isola di Ériú, la patria della magia, dove erano più potenti. E là scavarono i loro pozzi di guarigione e ammassarono il loro esercito sulla collina di Taillte per tentare un’ultima resistenza. Adesso gli altri tre l’ascoltavano in silenzio, vedendo la scena nella loro memoria. — Fu una battaglia breve — continuò Spinella in tono amaro. — Gli umani non mostrarono alcuna pietà e fin dalla prima notte fu chiaro che il Popolo era destinato allo sterminio. E così il Consiglio decise che si sarebbero ritirati nelle catacombe sotterranee donde erano venuti prima dell’alba dell’età dell’uomo. Tutti tranne i demoni, che usarono la magia per trasportare la loro isola fuori dal tempo. — Va bene — la interruppe Bombarda. — Fin qui ti seguivo, ma ora che hai detto “donde” sento il bisogno di fare una scappata al frigorifero. Spinella lo fulminò con un’occhiata e riprese a parlare. Ormai era un fatto noto a tutti che mangiare era il modo con cui Bombarda affrontava le cattive notizie. E anche quelle buone. E pure quelle banali. Tutte le notizie, in pratica. — Però il Consiglio pensò che gli umani avrebbero rappresentato un pericolo anche per il loro rifugio sotterraneo, perciò costruirono una porta con una serratura magica. Se mai tale serratura fosse stata aperta, allora le anime dei Berserkr sepolti attorno alla porta si sarebbero levate e avrebbero preso possesso di qualunque corpo avessero trovato per impedire l’accesso agli umani. Artemis ricordava ancora la puzza nauseabonda che aveva sentito quando lo spirito del guerriero aveva tentato di prendere possesso della sua mente. — E se la Porta dei Berserkr fosse stata aperta dalla mano di un membro del Popolo, allora i guerrieri sarebbero stati suoi schiavi. In questo caso, di Opal Koboi. Fu un incantesimo gettato per durare per lo meno un secolo, finché il Popolo non fosse stato al sicuro e l’ubicazione della porta dimenticata. Spinella arricciò il labbro mentre pronunciava queste ultime parole, e Artemis ne trasse una conclusione. — Però ci fu un traditore? Negli occhi di Spinella si accese un lampo di sorpresa. — Ma come… Sì, certo, non potevi non indovinare, Artemis. Siamo stati traditi dall’infame gnomo Shaden Froide, un tempo noto come Shaden l’Audace, ma da allora conosciuto come Shaden la Vergogna di Taillte. Nella cappella di Ullallà c’è una statua capovolta di Shaden, e non è un complimento, credimi. — Che è successo, Spinella? — la incitò a continuare Artemis. 88 — Shaden Froide si nascose in una nebbia da lui stesso evocata finché i guerrieri morenti non furono sepolti attorno alla porta e il Popolo non fu sceso nel sottosuolo, quindi si mise ad armeggiare con la serratura. Non voleva soltanto aprirla per gli umani, ma anche guidare i guerrieri incantati contro la loro stessa gente. — Quel tipo era un vero tesoro — intervenne Bombarda, il viso inondato dal bagliore del frigo. — Secondo la leggenda, una volta ha venduto sua madre giù per un fiume. E qui non sto parlando per metafore: ha proprio messo sua madre in una barca e poi l’ha venduta al villaggio a valle più vicino. Mi pare che già questo avrebbe dovuto far accendere qualche lampadina. — Ma il piano di Shaden fallì, giusto? — chiese Artemis. — Sì, perché la fase segreta del piano prevedeva che qualcuno rimanesse indietro a far crollare la valle sulla porta. Uno stregone capace di mantenere la nebbia finché la porta non fosse stata sepolta per poi usarla per coprire la propria fuga. Dato che i demoni se n’erano già andati, solo l’elfo stregone Bruin Fadda, che nutriva per gli umani un odio leggendario, poteva portare a termine la missione salendo fino all’imboccatura della valle per mettere in atto il crollo orchestrato da una squadra di tecnici nani. Ad Artemis, Leale e Spinella sembrava di avere quasi vissuto dal vero quanto era accaduto. Forse erano gli ultimi residui del plasma dei Berserkr sulle loro sopracciglia, ma di colpo ebbero come la sensazione di sentire il fiato nella gola di Bruin Fadda che correva giù per la collina, gridando a Shaden di stare lontano dalla serratura. — La battaglia fu feroce, con i due potenti guerrieri che si ferirono mortalmente a vicenda. E alla fine, Bruin, morente e reso furioso dal dolore, dall’odio e dalla disperazione, usando il proprio sangue e la magia nera proibita fece apparire una seconda serratura. Se quella serratura fosse stata aperta, allora Danu, la Madre Terra, avrebbe ceduto la propria magia all’aria in uno scoppio di energia che avrebbe annientato tutti gli umani sulla superficie, e il Popolo sarebbe stato al sicuro per sempre. — Solo gli umani? Spinella si risvegliò dal suo stato di sogno. — Solo gli umani. Gli odiati oppressori. Bruin aveva perso tutti i membri della sua famiglia in un’incursione ed era fuori di sé. Leale si sfregò il mento. — Ogni arma ha una sua data di scadenza, Spinella. Sono passati diecimila anni. Questo incantesimo non potrebbe avere un tempo di dimezzamento o qualcosa del genere? — È possibile, ma i Berserkr sono liberi ormai e la prima serratura ha 89 funzionato alla perfezione. — Ma perché Opal vorrebbe aprire la seconda serratura? Artemis conosceva la risposta a quella domanda. — Si tratta di una questione politica. A Cantuccio c’è una grossa lobby che da anni invoca la guerra totale. Per loro Opal sarebbe un’eroina. Spinella annuì. — Esatto. E poi, Opal è così fuori di testa da credere davvero che il suo destino sia quello di diventare una specie di messia. Avete visto che cos’è stata capace di fare solo per evadere. — Racconta — la esortò Bombarda. — Ha fatto rapire il suo alter ego più giovane e poi ha fatto una finta richiesta di riscatto per il suo vero io perché la mettessimo in un reattore nucleare naturale che l’aiutasse a generare magia nera sufficiente ad aprire la prima serratura. Bombarda sbatté lo sportello del frigorifero. — Adesso mi dispiace di aver fatto questa domanda, davvero. È tipi©o dei pasticci in cui ci ficchi sempre, Artemis. — Ehi — lo rimbrottò Spinella. — Questa volta non è colpa sua. — Grazie — disse Artemis. — Finalmente. — Ci sarà tutto il tempo che vogliamo per incolparlo dopo, quando questa faccenda sarà risolta. Il ragazzo incrociò le braccia sul petto con un gesto esagerato. — Non me lo merito, Spinella. Io qui sono una vittima come chiunque altro. Anche quei guerrieri sono usati per combattere una guerra che è terminata diecimila anni fa. Non potremmo semplicemente dire loro che la guerra è finita? Stanno facendo la guardia a una porta che immagino non conduca nemmeno più da nessuna parte. — Questo è vero, non usiamo quelle vecchie reti da millenni. — E tu non puoi farglielo sapere in qualche modo? — No. Sono sotto un vincolo elfico. Niente di ciò che potremmo dire loro avrebbe il benché minimo impatto. — Quanto tempo abbiamo? — domandò Artemis. — Non lo so — replicò Spinella. — Mio padre mi raccontava questa leggenda come una storia della buonanotte che gli era stata a sua volta narrata da suo padre. Tutta la faccenda era nata dalla mente di un empatostregone entrato in contatto con Bruin Fadda nei suoi ultimi momenti di vita. Tutto quello che sappiamo è che la seconda serratura è una magia complessa. Opal si sta servendo della magia nera, ma quella ha un prezzo altissimo e svanisce in fretta. Vorrà aprirla prima dell’alba, finché la luna elfica è ancora alta. Da 90 quel momento i suoi Berserkr saranno solo un pallido ricordo del loro io precedente e non potranno durare molto di più. Prima di allora qualcuno di loro avrà già ceduto al richiamo dell’aldilà. Artemis si voltò verso Leale per fargli una domanda su una questione tattica. Quello era area di competenza della guardia del corpo. — In che modo Opal dispiegherebbe le forze? — Schiererà attorno a sé la maggior parte dei suoi guerrieri per guardarle le spalle mentre lei armeggia con la serratura magica. Il resto sorveglierà le mura con pattuglie di ronda attorno alla tenuta, senza dubbio armate fino ai denti. Probabilmente con le mie armi. — E noi di armi ne abbiamo? — chiese Artemis. — Io ho perso la Neutrino quando siamo precipitati — disse Spinella. — Io ho dovuto consegnare la pistola all’ufficio immigrazione di Cantuccio — aggiunse Leale. — E non ho mai avuto la possibilità di riprenderla. Bombarda tornò al falò. — Però hai detto che tutti gli umani in superficie saranno uccisi. Vorrei soltanto far notare che voi siete sotto terra. Perciò, sapete, potreste semplicemente rimanere qui. Spinella gli scoccò un’occhiata velenosa. — Ehi, dicevo per dire. È sempre bene esaminare tutte le possibilità. — Se Opal aprirà la seconda serratura, non soltanto ucciderà miliardi di esseri umani, ma scatenerà fra il Popolo una guerra civile senza precedenti. Dopodiché probabilmente si dichiarerà imperatrice suprema. — Perciò stai dicendo che dovremmo fermarla? — Sto dicendo che dobbiamo fermarla, però non so come. Artemis guardò in alto come in cerca di ispirazione divina, ma tutto ciò che gli riuscì di vedere furono le pareti luccicanti del rifugio sotterraneo di Bombarda e il nero inchiostro delle imboccature del tunnel che ne punteggiavano la superficie. — Bombarda — chiese indicando con un dito — dove portano quei tunnel? 91 CAPITOLO 8 - UN’ARMATA ETEROGENEA ISOLA DI DALKEY, CONTEA DI DUBLINO SUD È molto diffusa l’erronea convinzione che i troll siano stupidi. Il fatto è che i troll sono solo relativamente stupidi. In confronto agli astrofisici o ai sommi sacerdoti di Ullallà, i troll potrebbero effettivamente essere considerati un po’ carenti quanto a QI, ma anche un troll sotto la media è capace di risolvere un indovinello più in fretta di qualsiasi scimpanzé o delfino del pianeta. I troll sono conosciuti per la capacità di fabbricare rozzi utensili, imparare il linguaggio dei segni e perfino grugnire un paio di sillabe comprensibili. Agli inizi del Medio Evo, quando gli spettacoli con i troll erano ancora legali, il famoso troll, il conte Amos Moon beam, veniva ricompensato con punch al miele dal suo addestratore di nani finché non riusciva a ruttare una versione più o meno approssimativa della Ballata dei piccoletti frementi. Perciò, i troll sarebbero stupidi? Decisamente no. Piuttosto, sono ostinati. Patologicamente ostinati. Se un troll ha anche solo il sospetto che qualcuno voglia farlo uscire dalla porta A, allora sceglie senza alcun dubbio la porta B, possibilmente dopo essersi scaricato ben bene su tutta la porta A al suo passaggio. E questo rendeva alquanto difficile ai troll integrarsi negli Strati Inferiori. La LEP ha addirittura una speciale divisione anti-troll di esperti che fatturano il maggior numero di ore di straordinari a testa per rintracciare troll vagabondi che rifiutano di farsi incanalare nei tunnel della Cantuccio sotterranea. In qualsiasi momento ci sono più di cento troll che si sono sbarazzati dei loro chip per il rilevamento di posizione e strisciano nelle fessure della crosta terrestre dirigendosi inesorabilmente verso i punti di accesso magici in superficie. I troll sono attratti dai residui di magia come i nani dalla roba che non gli appartiene. Si cibano di quei residui, che li nutrono e accrescono la loro aspettativa di vita. E, invecchiando, diventano più abili. Il più vecchio troll mai registrato è stato conosciuto sotto molti nomi nel corso della sua vita: la madre poteva anche averlo chiamato Rozzo, o forse aveva solo cercato di dirgli “ti strozzo”. Per la LEPtroll, era semplicemente il Sospetto Zero, e per gli umani era l’Abominevole Uomo delle Nevi, Bigfoot 92 o El Chupacabra, a seconda della regione in cui era stato avvistato. Rozzo era riuscito a rimanere in vita per diversi secoli in più tenendosi sempre pronto a viaggiare in tutto il globo in cerca di residui di magia. Non c’era continente che non avesse visitato col favore delle tenebre, e la sua pelliccia brizzolata era solcata da cicatrici e ustioni, ricordo di cento e più scontri con la LEP e diversi cacciatori umani. Se Rozzo fosse riuscito a mettere insieme una frase, probabilmente avrebbe detto: “Potrò anche sembrarvi malridotto, ma dovreste vedere quegli altri.” Attualmente, Rozzo risiedeva in una grotta sull’Isola di Dalkey, al largo della costa meridionale di Dublino, e raggiungeva a nuoto la riva dove attraverso uno scalo privato si serviva di bestiame dalle fattorie circostanti. Un paio di volte era stato avvistato dal proprietario dello scalo, un eccentrico irlandese che adesso tutte le notti gli cantava qualcosa dall’altra parte della baia. Rozzo sapeva che avrebbe dovuto trasferirsi o mangiare l’umano nel giro di un paio di giorni, ma per quella particolare sera gli bastava posare la testa sulla carcassa di una pecora che gli sarebbe servita da cuscino nell’immediato e da colazione in un secondo tempo. Il suo sonno fu interrotto dall’attivazione di un sesto senso che nel suo cervello occupava lo spazio in un qualche punto fra il gusto e l’olfatto. Lì vicino c’era un’attività magica, che gli scatenò all’interno del cranio un pizzicore come se ci fosse rimasto imprigionato uno sciame di lucciole. E dove c’era magia, di sicuro ci sarebbero stati dei residui, almeno quanto bastava per fargli passare il male alla schiena e per asciugare la piaga purulenta all’anca dove lo aveva azzannato un tricheco. Rozzo ingurgitò salsicce di frattaglie dalle interiora della pecora e le mandò giù intere come sostentamento per il viaggio. E mentre si calava in acqua per la breve nuotata che lo separava dalla terraferma, avvertì sempre più forte il richiamo della magia e si sentì tirare su di morale. Rozzo non vedeva l’ora di mettere le mani sul dolce nettare del residuo che gli avrebbe guarito i malanni da cui era afflitto. E quando un troll ha messo il corpulento cuore su qualcosa, non ci sono molti ostacoli su questa Terra in grado di fermarlo. 93 CAPITOLO 9 - IL VELENO AMARO TENUTA DEI FOWL Opal stava sul bordo del tunnel crollato, leggermente contrariata ma per niente abbattuta. Dopotutto, al momento era una vera e propria dinamo di magia nera. Artemis Fowl era sepolto sotto una tonnellata di macerie, se non morto per lo meno ben scompigliato, il che avrebbe irritato il Fangosetto quasi quanto lo era lei. Morto o no, il piano rimaneva invariato. Oro si inginocchiò e raccolse l’arma di Spinella dal terriccio. — Che cos’è questa, padrona? Opal tenne la pistola sui palmi delle minuscole mani e stabilì un contatto con l’energia dell’arma, che acconsentì a trasferirsi su di lei. Non accadde niente di spettacolare, solo un rapido sospiro e un accartocciamento. — Devo aprire la seconda serratura — disse a Oro, rinvigorita da quel rifornimento di energia. — Ho tempo fino all’alba, poi la mia magia evaporerà con la rugiada e rimarrò priva di difese. — La seconda serratura? — chiese Oro con le corde vocali di Beckett che facevano scempio dello gnomico. — Ne è certa, padrona? — Regina — lo corresse Opal. — Ti riferirai a me come alla regina Opal. Aprendo la prima serratura della Porta dei Berserkr ti ho legato a me, però preferirei che mi rivolgessi la parola il minimo indispensabile, giacché la tua stolida laringe umana mi irrita. E smettila di accigliarti, quell’espressione è ridicola su quel visetto da bambino. Mammina avrebbe tanta voglia di darti una bella sculacciata. — Ma la seconda serratura? — insistette Oro. — Quella scatenerà il potere di Danu. — Prima di tutto, che cosa ti ho appena detto su come ti devi riferire a me? E in secondo luogo, dai una sbirciatina nel cervello del tuo umano. Una piccola ondata di Danu è la cosa migliore per questo pianeta. Oro sembrava sconcertato, ma il vincolo gli impediva di discutere, e Opal sapeva che anche se avesse potuto farlo, avrebbe presentato le proprie obiezioni con ampollosa prosa medievale e logica semplicistica. — Lasciami parlare con il ragazzo umano — disse la folletta, pensando che un bambino Fowl, per quanto piccolo, avrebbe apprezzato ciò che aveva realizzato. E poi, sarebbe stato divertente vedere un umano sulle spine. 94 Oro sospirò, rimpiangendo che il suo vecchio amico Bruin Fadda non avesse lasciato un po’ di libertà di azione nel vincolo elfico, e poi rabbrividì quando permise alla propria consapevolezza di cedere temporaneamente il passo a quella di Beckett Fowl. I secoli caddero dal volto di Oro, e Beckett ne emerse sorridente. — Stavo sognando — disse. — Nel mio sogno sembravo me, ma con più dita. Opal allargò le braccia facendo pulsare la magia nera in cavi arancioni fra gli arti. — Non sei terrorizzato, ragazzino? Beckett saltellava come una scimmia nella sua versione di una posa da guerriero ninja. — No, sei tu che dovresti essere terrorata. — Io? — rise Opal. — Tu non puoi farmi del male, il vincolo elfico te lo impedisce. Beckett le rifilò un pugno allo stomaco, scaricandolo dalla spalla, come gli aveva insegnato Leale. — Oh, invece sì, guarda come sono veloce. Più veloce di quel tuo stupido vincolo elfico. Leale dice che sono naturalmente presupposto. Opal rimase momentaneamente senza fiato e barcollò all’indietro, andando a sbattere con il gomito contro la predella rialzata della Porta dei Berserkr. Per sua fortuna, il vincolo si attivò e Oro riprese il controllo del corpo, altrimenti quel bimbetto di quattro anni, Beckett Fowl, avrebbe potuto mettere fine ai suoi piani di dominio del mondo in men che non si dica. Oro si precipitò ad aiutarla a rialzarsi. — Mia regina, si è fatta male? La folletta lo scacciò con un gesto della mano, incapace di proferire parola, e fu costretta a sopportare diversi secondi di tentativi di Oro di pomparle il tronco su e giù come un mantice finché non ebbe ripreso fiato. — Lasciami andare, stupido elfo. Stai cercando di spezzarmi una costola? Oro fece come gli era stato detto. — Quel ragazzino è veloce, ha sconfitto il vincolo. Pochi riuscirebbero a farlo. Opal si sfregò la pancia con una mano magica, tanto per evitare un livido. — Sei sicuro di non avergli dato un aiutino? — gli chiese sospettosa. — Certo che no, mia regina — disse Oro. — I Berserkr non aiutano gli umani. Desidera parlare ancora con il ragazzo? — No! — squittì Opal, che subito si affrettò a ricomporsi. — Cioè… no. Il ragazzo è servito allo scopo. Dobbiamo procedere con il piano. Oro si inginocchiò e prese una manciata di terra. — Dovremmo per lo meno dare la caccia ai nostri aggressori. L’elfa ha doti di combattente, e anche il grosso umano è un avversario formidabile. Sicuramente tenteranno un sabotaggio. 95 Opal era pronta ad ammetterlo. — Molto bene, che elfa fastidiosa. Manda il tuo luogotenente più scaltro con un paio di soldati. Ricordati di includere nella tua piccola armata anche l’altro bambino. Fowl potrebbe dimostrarsi riluttante a uccidere il proprio fratello. — Opal sbuffò, un piccolo atto che rese più che chiaro che lei stessa non avrebbe esitato a uccidere un membro della propria famiglia, se si fosse trovata nella posizione di Fowl. Anzi, avrebbe considerato l’esitazione ad abbattere un parente come un segno di scarsa dedizione al piano. Dopotutto, pensò, non mi sono forse fatta uccidere io stessa per evadere di prigione? Ma il Popolo era debole, e gli uomini lo erano ancora di più. Forse Fowl avrebbe esitato il secondo necessario perché il fratellino gli piantasse un pugnale nel fianco. — Non sprecare troppo tempo o risorse. Voglio un cerchio di guerrieri a guardarmi le spalle quando lavorerò sulla seconda serratura. Ci sono incantesimi complessi da sciogliere. Oro si rialzò e chiuse gli occhi un istante per godersi la brezza sulla faccia. Dall’altra parte delle mura sentiva il crepitio di fiamme enormi, e quando riaprì gli occhi il fumo di una devastazione lontana lambiva le nuvole nel cielo notturno. — Siamo entusiasti ma pochi, mia regina. Incontreremo altri nemici sulla nostra strada? Opal emise un suono simile a una risatina. — Non prima del mattino. I miei nemici stanno incontrando qualche difficoltà. Ci ha pensato mammina. La parte della mente di Oro che ancora apparteneva a lui e non era alla mercé di uno scintillante spiritello arancione pensò: È indecoroso che si riferisca a se stessa come a nostra madre. Si prende gioco di noi. Ma tale è la forza del geis, o vincolo elfico, che perfino quel pensiero ribelle provocò nel capitano dei guerrieri un dolore fisico. Opal notò la sua smorfia. — Che stai pensando, capitano? Niente di sedizioso, voglio sperare. — No, mia regina — la rassicurò Oro. — Questo misero corpo è incapace di contenere la mia sete di sangue. — La bugia gli costò un’altra fitta, ma se l’aspettava e la sopportò senza reagire. Opal si accigliò. Quello spirito aveva idee proprie, ma non aveva importanza. La sua energia stava già svanendo. I guerrieri nordici non sarebbero durati oltre la notte, e per allora la seconda serratura sarebbe stata aperta e l’era Koboi avrebbe finalmente avuto inizio. 96 — Va’, dunque — sbottò. — Metti insieme una squadra di ricerca, ma ricorda che è compito tuo proteggere la porta. Ho disposto che gli umani siano occupati al momento, ma quando il sole sarà sorto, arriveranno in un’ondata devastatrice per distruggere anche l’ultimo della nostra specie. — Opal decise di mostrarsi spietata perché Oro cogliesse il nocciolo della questione. — Muoveranno contro di noi senza alcuna pietà nei loro freddi cuori crudeli. Quel modo di parlare parve fare breccia, e Oro si allontanò con passo pesante per mettere insieme la sua squadra. L’intera situazione, Opal non poté fare a meno di ammetterlo con se stessa, era decisamente perfetta. I Berserkr avrebbero montato di guardia al perimetro, commiserevoli nell’errata convinzione che la loro grossa e tetra porta conducesse realmente da qualche parte. E poi sarebbero semplicemente evaporati nell’aldilà, inconsapevoli dell’inutile genocidio che avevano contribuito a compiere. Gli spiriti sono testimoni così inaffidabili in tribunale, pensò Opal con un sogghigno. Ma per quanto i sogghigni di autocompiacimento potessero essere gradevoli, aveva del lavoro da fare, un lavoro che richiedeva la totalità della sua mente. La serratura rimaneva chiusa, e lei poteva mantenere la magia nera solo per un certo tempo prima che le consumasse il corpo fisico. Sentiva già le vesciche formarsi fra le scapole. La magia l’avrebbe abbandonata presto, ma prima di allora avrebbe mandato in rovina il suo organismo. Il suo potere risanava le vesciche non appena si formavano, ma tutto ciò le costava magia, e le vesciche si riformavano comunque. Perché non posso risolvere il problema facendo fuori qualcuno?, pensò stizzita, e poi si consolò con il mantra che in prigione l’aveva aiutata ad andare avanti. — Presto tutti gli umani saranno morti — continuò a ripetere con tono monotono, alla maniera consolidata dei guru di ogni dove. — E allora Opal sarà amata. E anche se non dovessi esserlo, pensò, almeno tutti gli umani saranno morti. Oro salì con le gambette i gradini segnati dal tempo che correvano tutto attorno alla Porta dei Berserkr, e per un attimo rammentò con chiarezza il giorno in cui aveva contribuito a costruire quella tozza torre. Ma ci era voluta più magia che fatica. Il vecchio Bruin Fadda aveva costretto la sua squadra a riversare in quella serratura ogni singola scintilla di energia su cui erano riusciti a mettere le mani. Un grande cerchio di stregoni che avevano 97 scagliato dardi di energia nella pietra. Chiunque apra questa porta otterrà più di quanto abbiamo speso, gli aveva promesso in seguito, mentre Oro e i suoi uomini giacevano morenti. Bruin si era sbagliato: la regina Opal avrebbe ottenuto esattamente ciò che si aspettava. Come lo sapeva?, si chiese Oro. Io ero quasi certo che il mondo ci avesse dimenticati. I Berserkr friggevano di violenza repressa ed erano ansiosi di far subire danni all’umanità. Cercavano di restare fermi mentre Oro parlava, ma era una lotta, soprattutto per i pirati che non riuscivano a impedire alle proprie ossa nude di sbatacchiare. Oro salì su un tronco d’albero in modo che il piccolo corpo che occupava potesse essere visto da tutti e teneva il pugno sollevato per chiedere silenzio. — Miei soldati! — gridò alle truppe. — Il nostro giorno è finalmente arrivato! Quelle parole furono accolte da un coro di urla, grida, latrati e fischi mentre le varie creature abitate dai Berserkr davano voce alla propria approvazione. Oro non riuscì a nascondere una smorfia. Quelli non erano i guerrieri che ricordava, che avevano combattuto e subito ferite mortali sulla collina di Taillte, ma erano quello che erano, con la voglia, se non la capacità, di combattere. C’erano volpi nei ranghi, per Danu: in che modo una volpe avrebbe potuto impugnare una spada? In ogni caso, era meglio alimentare il fuoco dei suoi guerrieri con un po’ di sana retorica. Oro era sempre stato orgoglioso della propria eloquenza. — Berremo il veleno amaro della sconfitta e lo sputeremo sui nostri nemici! — gridò, e la sua voce fu trasportata per tutto il prato. I suoi guerrieri esultarono, ruggirono e ulularono la propria approvazione, a eccezione di uno. — Come dici? — chiese il suo luogotenente, Gobdaw. — Cosa? — ribatté Oro. Il luogotenente, ospite nel corpo del secondo Fangosetto, aveva un’espressione confusa sul volto cereo. In realtà, qualunque tipo di perplessità era una novità per Gobdaw: di solito era uno che non faceva domande, spaccava le parole con l’accetta. E di solito un po’ di bella retorica gli piaceva. — Ebbene, Oro — disse, e apparve alquanto sorpreso dalle parole che gli uscivano dalla bocca. — Che cosa significa esattamente? Sputeremo il veleno amaro della nostra sconfitta sui nostri nemici? 98 Quella domanda colse Oro di sorpresa. — Be’, significa semplicemente… — Perché – e spero che perdonerai la mia obiezione – usare la parola “sconfitta” in un discorso motivazionale trasmette un messaggio alquanto contraddittorio. Adesso era Oro a essere perplesso. — Motivazionale? Messaggio contraddittorio? Ma che cosa significano queste parole? Gobdaw sembrava sul punto di piangere. — Non lo so, capitano. È il mio ospite umano. È forte. — Concentrati, Gobdaw. Hai sempre apprezzato la mia retorica. — Sì, è vero, capitano. Il giovane rifiuta di farsi zittire. Oro decise di distrarre il luogotenente richiamandolo al dovere. — Hai l’onore di guidare la ricerca dei nemici. Prendi i cani, Bellico e anche quei marinai. Tutti gli altri circondino la porta. La regina Opal lavora alla seconda serratura. Intesi? — Sì, capitano! — ruggì Gobdaw, agitando il pugno. — Ai tuoi ordini. Oro annuì. Così sì che andava bene. Gobdaw, Bellico e i cani da caccia dei Fowl accerchiarono il tunnel crollato. Bellico era piuttosto soddisfatta di sé, rinchiusa com’era nel corpo di Juliet Leale. Era un’ospite migliore di quanto non avrebbe potuto sperare: un perfetto esemplare fisico dotato della conoscenza di numerosi antichi stili di combattimento che, grazie ai ricordi di Juliet, sapeva benissimo come mettere in pratica. Bellico controllò il proprio riflesso nella lama del coltello di un pirata, e ciò che vide le piacque. Non troppo male, per un’umana. È quasi un peccato che la mia forza vitale non possa sorreggermi più di una sola notte. Forse se fossimo stati richiamati nel giro di cinquant’anni da quando siamo stati stesi nella tomba, allora la magia avrebbe potuto sostenerci più a lungo, ma adesso il nostro spirito è indebolito dal tempo. L’incantesimo non era stato gettato per tenerci sotto terra così a lungo, rifletté. La memoria di Bellico conteneva immagini che dipingevano un quadro orribile di Opal Koboi, ma era stata messa in guardia che le visioni che gli umani avevano del Popolo non erano affidabili. L’odio che i Fangosi nutrivano per il Popolo era tale che perfino i loro ricordi sarebbero stati distorti. I pirati erano meno compiaciuti dei corpi che avevano ereditato, che si disintegravano a ogni loro passo. — Mi sta costando tutta la magia solo tenere insieme questo sacco di vermi 99 — brontolò quello che un tempo era il gigante guerriero Kisch Lorenz, ora ospitato nel corpo di Eusebius Fowl, il pirata succhia-polmoni. — Per lo meno tu hai le gambe — grugnì il compagno di battaglia Catch McKaron, che balzellava su un paio di monconi di legno. — Come dovrei fare la mia caratteristica mossa da derviscio con questi affari? Sembrerò un maledettissimo nano ubriaco che non sa stare in piedi. E peggio era per i cani da punta, che con le loro corde vocali potevano emettere solo i suoni più rudimentali. — Fowl — latrò uno di loro, che conosceva bene la traccia di Artemis. — Fowl, Fowl. — Bravo il mio ragazzo — gli disse Gobdaw, accarezzandogli il muso con la manina di Myles, cosa che il cane non trovò affatto divertente: l’avrebbe morsa, quella mano, se non fosse appartenuta a un ufficiale superiore. Gobdaw gridò ai suoi soldati: — Guerrieri. I nostri nobili fratelli all’interno di queste bestie hanno fiutato una traccia. Il nostro obiettivo è trovare gli umani. Nessuno chiese: “E poi?” Tutti sapevano bene che cosa si fa agli umani quando li si trova. Perché, se non lo fai tu a loro, lo faranno loro a te e a tutta la tua specie, e probabilmente anche a chiunque con cui la tua specie abbia bevuto un boccale di birra. — E l’elfa? — chiese Bellico. — Di lei, che ne facciamo? — L’elfa ha fatto la sua scelta — rispose Gobdaw. — Se si farà da parte, la lasceremo vivere. Ma se opporrà resistenza, allora per noi sarà come una Fangosa. — Anche se la notte stava rinfrescando, Gobdaw aveva la fronte imperlata di gocce di sudore e parlava a denti stretti, cercando di ricacciare indietro la coscienza di Myles Fowl, che ribolliva dentro di lui come un’indigestione mentale. La conversazione fu interrotta quando i cani si allontanarono dall’imboccatura del tunnel crollato e attraversarono il prato diretti alla grande dimora umana sulla sommità della collina. — Ah — disse Bellico, partendo all’inseguimento degli animali. — Gli umani sono nel tempio di pietra. Gobdaw cercò di impedirsi di parlare, ma non ci riuscì. — Dice di dirvi che si chiama casa. E che tutte le ragazze sono stupide. Artemis, Spinella e Leale avanzarono a fatica lungo una galleria che Bombarda gli aveva assicurato che sbucava nella cantina, dietro una rastrelliera di Château Margaux del 1995. 100 Quella rivelazione fece inorridire Artemis. — Non lo sai che il tuo tunnel potrebbe influire sulla temperatura della cantina? Per non parlare dell’umidità! Quel vino è un investimento. — Non preoccuparti del vino, stupido Fangosetto — ribatté Bombarda con un tono di voce condiscendente che aveva imparato e utilizzava solo per infastidire Artemis. — L’ho bevuto mesi fa e l’ho sostituito. Era l’unica cosa responsabile da fare: dopotutto, l’integrità della cantina era stata compromessa. — Certo, da te! — Artemis era seccato. — E l’hai sostituito con che cosa? — Vuoi davvero saperlo? — domandò Bombarda, e il ragazzo scosse il capo, decidendo che, considerata la storia del nano, in quel caso particolare l’ignoranza sarebbe stata preferibile alla verità. — Saggia decisione — convenne Bombarda. — Perciò, come dicevo, la galleria corre sul retro della cantina, ma il muro è intasato. — Intasato da cosa? — chiese Artemis, che nonostante tutto il suo genio sapeva essere un po’ tardo di comprendonio. Il nano si passò le dita nella barba. — Ti ripeterò la mia ultima domanda: vuoi davvero saperlo? — Possiamo passare comunque? — chiese Leale, pragmatico come sempre. — Ma certo — rispose Bombarda. — Un umano grande e grosso come te. Nessun problema. Lo farei io per te, ma a quanto pare ho quest’altra missione da portare a termine. Spinella alzò gli occhi dal computer da polso, che ancora non captava alcun segnale. — Abbiamo bisogno che tu vada a recuperare le armi nella navetta, Bombarda. Leale ha un po’ di attrezzi in casa, ma Juliet potrebbe averci già accompagnato i guerrieri. Dobbiamo muoverci in fretta, e su due fronti. Una manovra a tenaglia. Bombarda sospirò. — A tenaglia. Mi piacciono i granchi. E l’aragosta. Mi gonfia un po’ l’intestino, ma ne vale la pena. Spinella si diede una pacca sulle ginocchia. — È ora di andare — annunciò, e nessuno dei due umani ebbe da ridire. Bombarda rimase a guardare gli amici arrampicarsi nel tunnel che portava alla casa e poi ripercorse la strada a ritroso, diretto alla navetta. Non mi piace tornare sui miei passi, pensò. Perché di solito ci trovo qualcuno a darmi la caccia. E così, adesso erano lì, a contorcersi in quel tunnel opprimente, con il greve odore di terra nel naso e l’onnipresente minaccia di una quantità indicibile di terra che incombeva su di loro come una gigantesca incudine. 101 Spinella sapeva che cosa stavano pensando i suoi compagni. — Questa galleria è sicura. Bombarda è il miglior scavatore nel suo campo — disse fra grugniti e rantoli. Il tunnel serpeggiava, e la loro unica fonte di luce era quella di un telefonino fissato con il nastro adesivo alla fronte di Leale. Artemis ebbe la visione improvvisa di loro tre imprigionati là sotto per sempre, come roditori nella pancia di un serpente, che venivano lentamente digeriti finché di loro non rimaneva neppure una traccia. Nessuno verrà mai a sapere che cosa ne è stato di noi, si disse. Era un pensiero ridondante, Artemis lo sapeva, perché se non fossero usciti da quella galleria, allora con ogni probabilità non sarebbe rimasto nessuno a chiedersi che cosa ne fosse stato del loro gruppetto. E lui non avrebbe mai saputo se avesse fallito nell’impresa di salvare i suoi genitori o se fossero già rimasti uccisi a Londra in un modo o nell’altro. Tuttavia, non riusciva a scrollarsi di dosso l’idea che stessero per morire in quella grande tomba senza lapide, e la sua convinzione si rinsaldava ogni volta che allungava la mano, cosa che lo trascinava sempre più in profondità nel sottosuolo. Artemis allungò ancora la mano nell’oscurità e, grattando, le sue dita incontrarono lo stivale di Leale. — Credo che ce l’abbiamo fatta — annunciò la guardia del corpo. — Siamo arrivati all’ostruzione. — È solida? — chiese Spinella dalla retroguardia. Seguì una serie di rumori che non sarebbero sembrati fuori posto in una fabbrica di gelatina e un odore che sarebbe stato perfettamente in tono con lo scoppio di una fognatura. Leale tossì più volte, imprecò, e poi disse poche parole cariche di sottintesi tremendi. — È solida solo la crosta. Precipitarono da un buco abbattendo una rastrelliera di bottiglie di vino che l’ingresso precipitoso di Leale mandò in frantumi. Di norma, l’omone sarebbe entrato con cautela, spostando la rastrelliera un po’ alla volta, ma in quel caso la velocità era più importante della circospezione, perciò piombò nella cantina attraverso la chiusura del tunnel di Bombarda. I suoi due compagni lo seguirono a ruota, felici di sfuggire alla galleria. Artemis annusò il liquido raccolto nelle curve concave dei cocci di vetro. — Di certo questo non è Château Margaux del 1995 — commentò. — Non è neppure vino di riso — convenne Leale, spazzolandosi i vestiti. — Anche se conosco un paio di mercenari che non disdegnerebbero di berne. Spinella salì gli alti gradini di pietra della cantina del diciassettesimo secolo, 102 poi premette l’orecchio alla porta. — Non sento niente — disse dopo un momento. — Il vento all’esterno e nient’altro. Leale aiutò Artemis a rialzarsi dalle rovine della rastrelliera. — Andiamo, Artemis. Dobbiamo recuperare le mie armi prima che la passeggera di Juliet se ne ricordi. Spinella socchiuse la porta e sbirciò fuori. La cantina si apriva su un corridoio, a metà del quale stava appostato un gruppo di pirati forniti di armi automatiche. Stavano perfettamente immobili, forse nel tentativo di impedire alle loro ossa di sbatacchiare. Leale arrivò furtivamente alle spalle dell’elfa. — Come andiamo? — chiese. Spinella trattenne il fiato e richiuse la porta. — Non troppo bene — disse. Si accovacciarono dietro una rastrelliera di rossi californiani degli anni Novanta e bisbigliarono con urgenza. — Che cosa abbiamo? — chiese Artemis. Leale alzò i pugni. — Io ho questi. E basta. Spinella si frugò nelle tasche della tuta. — Delle plastomanette. Un paio di razzi. Non è granché, come inventario. Artemis picchiettò la punta di ciascun dito sul polpastrello del pollice, uno degli esercizi che faceva sempre quando aveva bisogno di concentrarsi. — Abbiamo qualcos’altro — disse. — Abbiamo la casa. 103 CAPITOLO 10 - RIVALITÀ TRA FRATELLI CASA FOWL Gobdaw e Bellico seguirono i cani su per il sontuoso scalone di Casa Fowl e lungo il corridoio che portava allo studio di Artemis. Una volta varcata la soglia, i cani balzarono sul camice bianco di Artemis, appeso a un gancio, e con denti e zampe lo ridussero a brandelli e ne masticarono la stoffa. — Hanno fiutato l’umano — disse Gobdaw, deluso di non avere avuto la possibilità di usare la piccola Glock che si adattava così bene alla manina di Myles. Avevano fatto razzia nell’armeria di Leale, nascosta nelle sue stanze dietro una finta parete. Solo quattro persone erano a conoscenza dell’ubicazione del tastierino e della password da inserirvi, cinque adesso, se Bellico poteva essere contata come un soggetto distinto da Juliet. Gobdaw prese la piccola pistola e diverse armi bianche, mentre Bellico scelse una mitragliatrice e un arco ricurvo in fibra di carbonio con una faretra piena di frecce di alluminio. I pirati arraffarono praticamente tutto il resto, danzando allegre gighe mentre scendevano sbatacchiando di sotto per montare di guardia. — Dovremmo continuare a cercare — aveva proposto Gobdaw. Bellico non era stata d’accordo, avendo dalla sua la conoscenza di Juliet della casa. — No. Lo studio di Artemis è nella stanza a fianco, perciò verranno sicuramente qui. Abbiamo guerrieri nella cantina e nella stanza della cassaforte. Lasciamo che siano i cani e i pirati a spingerli verso di noi. Gobdaw aveva sufficiente esperienza da leader per riconoscere un buon piano. — Molto bene. Aspetteremo qui, ma se non potrò usare quest’arma prima dell’alba ne sarò molto deluso. — Non preoccuparti. Per l’umano grosso ti serviranno tutti i proiettili. Bellico prese i cani per il collare e li allontanò dal camice con uno strattone. — Voi due dovreste vergognarvi — disse. — Non perdetevi dentro quelle bestie. Uno dei due segugi diede una musata al compagno come se fosse stata tutta colpa sua. — Adesso andate — disse Bellico, assestandogli un calcio nel didietro. — E trovateci qualche Fangoso. Gobdaw e Bellico si accucciarono dietro la scrivania, l’una intenta a incoccare una freccia e l’altro a togliere la sicura della pistola di cui si era 104 impossessato. — La casa è una fortezza virtuale — spiegò Artemis. — Una volta inserita nel pannello di controllo la modalità assedio, ci vorrebbe un esercito per penetrare le difese; sono state tutte progettate e installate prima che Opal lasciasse il suo tempo, perciò è impossibile che qualche componente sia esploso. — E dove si trova questo pannello? — s’informò Spinella. Artemis si picchiettò l’orologio. — Di solito posso accedervi da remoto con l’orologio o il telefonino, ma la rete dei Fowl è fuori uso. Di recente ho aggiornato il router e forse si è insinuata qualche componente Koboi, perciò dovremo usare quello del mio ufficio. Leale sapeva che toccava a lui fare l’avvocato del diavolo. — Ma in questo modo non ci ritroveremo chiusi qui dentro con un mucchio di pirati? Artemis sorrise. — Oppure saranno loro a ritrovarsi rinchiusi qui dentro con noi. Kisch Lorenz piangeva la perdita del proprio corpo con il suo compagno Catch. — Te li ricordi i bei bicipiti che avevo? — disse malinconico. — Erano o non erano come tronchi? E adesso guardami. — Mosse a scatti il braccio sinistro per dare una dimostrazione di come i lembi di carne gli penzolassero flosci dalle ossa. — Non riesco quasi a tenere in mano questa bocca di fuoco. — Non è una bocca di fuoco — ribatté Catch. — Si chiama “pistola”. È una parola facile da ricordare, non trovi? Kisch guardò l’arma automatica che teneva fra le dita ossute. — Immagino di sì. Basta mirare e premere, giusto? — Così ha detto Bellico. — Avete sentito, guerrieri? — chiese Kisch alla mezza dozzina di pirati schiacciati nella tromba delle scale alle sue spalle. — Basta mirare e premere. E non preoccupatevi di colpire il compagno davanti a voi, perché tanto siamo già morti. Erano nel corridoio di mattoni rossi e pregavano di veder passare qualche umano. Dopo tutto quel tempo, sarebbe stato un peccato non trovare nessuno da uccidere. Tre metri sotto, nella cantina, Leale prese due bottiglie di Macallan 1926 Fine and rare whiskey. — Tuo padre non sarà per niente contento — disse ad Artemis. — Queste 105 costano trentamila euro a proiettile. Artemis avvolse le dita attorno alla maniglia della porta. — Sono certo che comprenderà, date le circostanze. Leale fece una risatina. — Oh, questa volta pensi di spiegare a tuo padre le circostanze? Sarebbe una novità. — Be’, magari non proprio tutte le circostanze — precisò Artemis spalancando la porta. Leale uscì nel varco e scagliò le bottiglie contro il soffitto, sopra la testa dei pirati. Entrambe andarono in frantumi, annaffiando i guerrieri di una pioggia di liquido ad alta gradazione alcolica. Spinella passò sotto le gambe della guardia del corpo e sparò un razzo: in meno di un secondo, tutto il gruppo di pirati si ritrovò avvolto in un sibilo di fiamme blu e arancioni che dipinsero di nero il soffitto. A quanto pare, la cosa non li preoccupò più di tanto; solo quello con i moncherini di legno in breve si ritrovò senza una gamba a sorreggerlo. Gli altri continuarono la loro esistenza di scheletri e puntarono le armi contro la porta della cantina. — Sarà la casa a salvarci? — chiese Spinella con un certo nervosismo. — Hai detto così. — Tre — incominciò Artemis. — Due… uno. E in quel momento preciso il sistema antincendio della tenuta registrò l’aumento di temperatura e ordinò a otto dei suoi duecento ugelli di inondare le fiamme di una schiuma antincendio gelata. I pirati furono ricacciati in ginocchio dalla forza dello spruzzo e tormentarono i grilletti alla cieca, sparando colpi che rimbalzarono sulle pareti e giù per le scale. I proiettili esaurirono l’energia cinetica sulle ringhiere di acciaio e finirono a terra fumando. Nel corridoio la temperatura delle ossa dei pirati si abbassò di quaranta gradi in meno di dieci secondi, sbriciolandole come foglie secche. — Andiamo — disse Leale, e imboccò le scale schiantando i pirati disorientati come una vendicativa palla da bowling. Gli sfortunati guerrieri si fracassarono al minimo impatto, disintegrandosi in un milione di cristalli d’osso che volteggiarono per aria come fiocchi di neve. Spinella e Artemis sfrecciarono nel corridoio al seguito dell’eurasiatico, frantumando sotto i piedi frammenti di osso senza fermarsi a raccogliere le armi, per lo più esplose nell’incendio e pertanto inutilizzabili. Come al solito, durante la corsa Artemis era fra Leale e Spinella. — Non fermiamoci — disse l’elfa da dietro. — Ce ne saranno altri, statene certi. Nella stanza antipanico trovarono altri pirati, e molto soddisfatti di sé. 106 — Questa è la cosa più furba che abbiamo mai fatto — disse Marty Nidrai nelle sue vesti di comandante. — Loro vengono qui per nascondersi da noi, ma noi ci siamo già. — Raccolse la sua ossuta ciurma attorno a sé. — Ripassiamo il piano. Che cosa facciamo quando li sentiamo? — Ci nascondiamo — risposero i pirati. — E che cosa facciamo quando entrano? — Saltiamo su all’improvviso — gridarono allegri i pirati. Marty puntò un dito ossuto. — E che cosa fai tu, in particolare? Un pirata piccoletto che sembrava indossare i resti di un barile stava appoggiato al muro. — Schiaccio questo bottone qui e faccio scendere la porta di acciaio, così restiamo tutti in trappola qui dentro. — Benissimo — approvò Marty. — Benissimo. Tra i soffitti a volta rimbombò il rumore di spari ripetuti che riecheggiavano lungo il corridoio verso la stanza antipanico. — Arrivano, compagni — annunciò Marty. — Ricordatevi di ucciderli tante volte per essere sicuri. Fermatevi solo quando vi cadono le braccia. Si accovacciarono nell’oscurità, con la luce proveniente dall’esterno che scintillava sulle loro lame. Se Bellico avesse scandagliato un po’ più a fondo i ricordi di Juliet, si sarebbe resa conto che la stanza antipanico era accessibile o sigillabile dall’esterno, da remoto o con un programma di attivazione vocale. Ma anche se lo avesse saputo, non avrebbe avuto senso che gli umani volessero rinchiudersi fuori dal loro rifugio. Sarebbe stata follia pura. Mentre varcava di corsa la porta della stanza, Leale rallentò appena per parlare nel microfonino inserito nel telaio di acciaio. — Leale, D. — pronunciò chiaramente. — Autorizzazione primaria. Blocca. Calò una pesante porta che sigillò completamente la stanza antipanico e chiuse all’interno la ciurma di pirati guerrieri. Artemis ebbe a malapena un secondo per sbirciare sotto. Quello è un pirata con indosso un barile? pensò. Oggi non mi sorprende più niente. Arrivato allo studio, Leale alzò il pugno. Artemis andò a sbattere contro l’ampia schiena della sua guardia del corpo. Per fortuna, il ragazzo non aveva il peso sufficiente per smuoverlo, perché se Leale avesse fatto anche solo un passettino incerto in avanti, di sicuro sarebbe stato infilzato da una delle frecce di sua sorella. — Ah, sì — bisbigliò Artemis. — Pugno alzato significa fermati. Leale si portò un dito alle labbra. — E questo dovrebbe significare che vuoi che stia zitto. Ho capito. 107 Le parole di Artemis furono sufficienti a stimolare una reazione dall’interno dello studio. La reazione prese la forma di una freccia di alluminio che penetrò nella parete divisoria affondando nel cartongesso e facendone schizzare frammenti tutto attorno. Leale e Spinella non discussero una strategia, in quanto erano entrambi soldati esperti e sapevano che il momento migliore per attaccare era subito dopo che era stato sparato un colpo, o in questo caso una freccia. — Sinistra — disse l’eurasiatico, e non ebbe bisogno di aggiungere altro. Tradotto per i profani, intendeva dire che lui si sarebbe occupato degli elementi ostili sulla sinistra della stanza, lasciando la destra a Spinella. Si slanciarono all’interno accucciati, dividendosi in due bersagli mentre attraversavano il pavimento. Leale aveva il vantaggio di avere familiarità con la pianta dello studio, e sapeva che l’unico nascondiglio logico sarebbe stato dietro il lungo banco da lavoro di acciaio inossidabile dove Artemis trafficava con l’ignoto e costruiva modellini sperimentali. Mi sono sempre chiesto quanto questo affare fosse sicuro, pensò prima di caricarlo come un rugbista che entra in una mischia in cui il prezzo di una partita persa sarebbe stato la vita. Sentì il sibilo di una freccia vicino all’orecchio un attimo prima che la spalla prendesse d’assalto l’acciaio, sollevando il banco dai cavi di sostegno in mezzo a una pioggia di scintille e a un sibilo di gas. Gobdaw si arrampicò sul banco con uno spadino e una torcia accesa pronti a colpire, quando il becco Bunsen si chinò a salutare il cavo elettrico, il che provocò scintille e una breve esplosione, ricacciando il guerriero all’indietro, tra le tende di velluto. Bellico valutò in fretta la situazione e schizzò verso l’ufficio. Leale la vide scappare. — Io penso a Juliet — gridò a Spinella. — Tu cattura Myles. Forse il bambino è privo di sensi, pensò l’elfa, ma la sua speranza si spense non appena vide Myles Fowl che si liberava dalle tende di velluto. Il suo sguardo le disse che in quel corpo c’era ancora un Berserkr e che non era disposto ad arrendersi. Ormai era armato solo di uno spadino, ma Spinella sapeva che i guerrieri avrebbero combattuto fino all’ultima goccia di sangue, anche se il sangue non sarebbe stato propriamente il loro. — Non fargli del male — si raccomandò Artemis. — Ha solo quattro anni. Gobdaw sorrise mettendo in mostra i dentini da latte, che Myles puliva religiosamente con uno spazzolino modellato sulla testa di Einstein e con le setole che riproducevano i caratteristici capelli ritti dello scienziato. — Esatto, 108 traditrice. Gobdaw ha solo quattro anni, perciò non farmi del male. Spinella sperava che Artemis si tenesse fuori da quella faccenda. Quel Gobdaw poteva anche avere un aspetto innocente, ma aveva di gran lunga più esperienza in battaglia di quanta lei non avrebbe mai desiderato avere, e, a giudicare dal modo in cui faceva roteare la lama nel palmo, non aveva perso nessuna delle sue abilità. Se questo tizio fosse nel suo corpo, mi farebbe a pezzi, si rese conto. Il problema di Spinella era che in quello scontro non ci metteva il cuore. Anche senza contare il fatto che combatteva contro il fratellino di Artemis, quello era Gobdaw, santo cielo! Gobdaw la leggenda. Gobdaw che aveva guidato la carica di Taillte. Gobdaw che aveva trasportato un compagno ferito su un lago ghiacciato a Bellannon. Gobdaw che dopo l’incursione di Cooley era stato messo con le spalle al muro da due lupi in una grotta e ne era uscito con una pelliccia nuova. I due soldati si giravano intorno. — È vera la storia dei lupi? — chiese Spinella in gnomico. Gobdaw perse il passo, sorpreso. — I lupi a Cooley? Come sai di questa storia? — Stai scherzando? — ribatté l’elfa. — La conoscono tutti. A scuola faceva parte del corteo storico, tutti gli anni. Se devo essere sincera, mi ha pure un po’ stufato. I lupi erano due, giusto? — Sì, due, ma uno era malaticcio. Gobdaw sferrò il colpo a metà frase, come Spinella si era aspettata. La mano armata del Berserkr sfrecciò in avanti, diretta allo stomaco del suo avversario, ma non aveva la portata di una volta, e l’elfa gli centrò il fascio di nervi al deltoide immobilizzandogli il braccio, che adesso gli penzolava inerte dalla spalla. — D’Arvit — imprecò Gobdaw. — Sei un tipo astuto. Le femmine sono sempre infide. — Continua a parlare — gli disse Spinella. — Mi piaci sempre di meno, il che dovrebbe semplificare di molto il mio lavoro. Gobdaw fece tre passi di corsa e saltò su una sedia Regency per strappare due riproduzioni di picche incrociate dalla parete. — Sta’ attento, Myles! — urlò Artemis per forza d’abitudine. — È molto affilata. — Affilata, dici, Fangosetto? È così che mi piacciono le lance. — Il volto del guerriero si contrasse come se fosse sul punto di starnutire, poi Myles fece capolino per un secondo. 109 — Non è una lancia, idiota. È una picca. E poi ti vorresti spacciare per un guerriero. Quindi i suoi lineamenti si contrassero nuovamente, e Gobdaw fece ritorno. — Chiudi il becco, ragazzo. Ho io il controllo di questo corpo. La breve interruzione diede speranza ad Artemis. Suo fratello era là dentro, da qualche parte, e non aveva perso un briciolo della sua lingua tagliente. Gobdaw si infilò la picca nell’incavo del braccio buono e partì all’attacco. Nella sua mano, l’arma sembrava grossa come una lancia da torneo. Ne sventolò la punta da una parte all’altra in un rapidissimo arco e riuscì ad affettare il gomito di Spinella prima che l’elfa avesse il tempo di scansare l’attacco di lato. La ferita non era grave però era dolorosa, e Spinella non disponeva della magia per una guarigione rapida. — Per la chioma di Danu — disse Gobdaw. — Il primo sangue è per i Berserkr. I due si affrontarono una seconda volta, ma ora Spinella era stretta all’angolo con minor spazio di manovra, e il braccio inerte di Gobdaw stava riprendendo energia. Il guerriero afferrò la picca con entrambe le mani, aumentando la velocità e la solidità dell’affondo. Si avvicinò, e questo non lasciò più spazio a Spinella per muoversi. — Non mi fa piacere — disse. — Però non provo neppure troppo dolore. Scegli il tuo scarafaggio, elfa. “Scegli il tuo scarafaggio” era un riferimento al gioco elfico in cui si masticavano scarafaggi. Un gruppo di bambini tirava fuori cinque scarafaggi e ognuno ne sceglieva uno da mettere in bocca. Statisticamente, per lo meno uno scarafaggio sarebbe stato nel ciclo di morte e avrebbe incominciato a decomporsi dall’interno, perciò uno dei bambini si sarebbe trovato con un boccone putrido in bocca. Però non importava, perché le regole del gioco dicevano che dovevi inghiottire il tuo scarafaggio comunque. Un equivalente umano di quel detto sarebbe: “Hai voluto la bicicletta e ora pedala.” Brutto affare, pensò Spinella. Non vedo come potrei sbarazzarmi di Gobdaw senza fare del male a Myles. D’un tratto Artemis agitò le braccia e gridò: — Myles! La punta di quella picca è di acciaio. Dove si trova l’acciaio nella tavola periodica? Di nuovo sul viso di Gobdaw venne a disegnarsi una smorfia e tornò fuori Myles. — Artemis, l’acciaio non è sulla tavola periodica. Non è un elemento, come ben sai. Si compone di due elementi: carbonio e ferro. Verso la fine dell’ultima frase, Gobdaw riprese ancora il controllo, appena in 110 tempo per sentirsi strattonare le braccia dietro la schiena e per udire il rumore delle plastomanette che gli si stringevano attorno ai polsi. — Era un trucco — disse, incerto su come esattamente fosse stato imbrogliato. — Spiacente, Gobdaw — disse Spinella, sollevandolo per il colletto. — L’umano non ha giocato con lealtà. — E da quando in qua gli umani giocano con lealtà? — borbottò Gobdaw, che in quel momento avrebbe avuto una gran voglia di sgomberare dalla mente di Myles Fowl, se solo ci fosse stato un altro ospite a disposizione. Ma proprio allora si rese conto di quanto Artemis fosse stato scaltro. Non è una cattiva strategia, pensò. Forse posso rendergli la pariglia e rivoltare il trucco dell’umano contro di lui. All’improvviso gli occhi di Myles rotearono all’indietro, e il bambino si afflosciò tra le braccia di Spinella. — Credo che Gobdaw se ne sia andato — disse l’elfa. — Artemis, a quanto pare hai riavuto tuo fratello. Leale inseguì Bellico nello studio, dove lei si fermò appena prima di sabotare il quadro comandi. Aveva già tirato indietro il pugno per colpire, quando Leale le agganciò il braccio nella piega del gomito e tutti e due incominciarono a roteare come ballerini, si allontanarono dal pannello di controllo e rotolarono sul tappeto. Bellico liberò il braccio e con una piroetta si diresse verso il muro. — Sei finita — disse Leale. — Perché non liberi mia sorella? — Prima moriremo entrambe, umano! — urlò Bellico, continuando a muoversi cautamente in cerchio. Leale mantenne la propria posizione. — Se hai accesso ai ricordi di mia sorella, vedi di darci una guardata. Non potrai mai sconfiggermi, lei non ci è mai riuscita e non ci riuscirai mai neppure tu. Bellico rimase immobile per un momento per accedere al database della mente di Juliet. Era vero, Leale aveva sconfitto sua sorella senza problemi almeno mille volte. I suoi talenti erano di gran lunga superiori a quelli di lei. Ma… un momento! C’era una visione del grosso umano sulla schiena, con la fronte corrugata dal dolore. Stava parlando: Mi hai davvero inchiodato con quella mossa, Jules. È uscita fuori dal nulla. Come faceva il tuo fratellone a difendersi da una cosa del genere? Gli occhi di Bellico lampeggiarono. Di quale mossa parlava l’umano? Scavò un po’ più a fondo e trovò un kata in cinquantaquattro passi che Juliet Leale aveva ideato da sola, rielaborando gli insegnamenti di Kano Jigoro, 111 l’inventore dello judo. Ho trovato il punto debole dell’umano, pensò. Lasciò che la memoria tornasse completamente alla superficie e trasmettesse istruzioni al corpo. Gli arti di Juliet incominciarono a eseguire il kata. Leale si accigliò e subito si piegò in una posa difensiva da pugile. — Ehi, che stai facendo? Bellico non perse tempo a rispondere. C’era ansia nella voce del Fangoso, e tanto bastò per assicurarle che aveva fatto la scelta giusta. Incominciò a volteggiare per l’ufficio come una ballerina, aumentando la velocità a ogni piroetta. — Fermati! — le disse Leale, faticando a mantenerla nella propria visuale. — Non puoi farcela! E invece Bellico poteva farcela, ne era certa. Quel vecchio non era all’altezza del corpo giovane e forte che lei si era scelta. Volteggiava sempre più veloce, con i piedi che a malapena sfioravano il pavimento e l’aria che sibilava nell’anello di giada che le fermava la coda di cavallo. — Ti darò ancora una possibilità, Juliet, o chi diavolo sei. E poi dovrò farti del male. Bluffava. Un bluff evidente, dettato dalla paura. Vincerò io, pensò Bellico, che ormai si sentiva invulnerabile. Al cinquantaduesimo passo, Bellico si slanciò in volo all’indietro, quindi appoggiò la gamba posteriore al muro, cambiò direzione e aumentò l’altezza. Si abbatté su Leale a tutta velocità, il tallone diretto al fascio di nervi del collo come una punta di freccia. Una volta messo fuori gioco l’umano, distruggerò il quadro comandi, pensò Bellico che già celebrava la sua vittoria. Leale le scostò il tallone con il palmo di una mano e le affondò le dita dell’altra mano nello stomaco, con forza sufficiente a lasciarla senza fiato, e non c’è guerriero sul pianeta capace di combattere se non può respirare. Bellico si accasciò sul tappeto come un sacco di pietre e si rannicchiò in posizione fetale. — Ma come? — ansimò. — Come hai fatto? Leale la sollevò per il colletto. — Quel giorno era il compleanno di Juliet e l’ho lasciata vincere. La scortò verso il pannello di controllo; aveva appena inserito la sequenza di blocco quando sentì un rumore di mascelle simile a un tamburo militare sul pavimento alle sue spalle. Lo riconobbe all’istante. Il cane sta per attaccarmi, si disse. Ma si sbagliava. Il cane si scagliò su Bellico e la trascinò sotto la serranda di 112 acciaio che si stava abbassando e poi attraverso la finestra; l’omone se ne rimase con un brandello di stoffa nella mano a fissare la serranda con sguardo spento, pensieroso. Non l’ho neppure vista atterrare. Non so se mia sorella sia ancora viva, pensò. Corse alla scrivania di Artemis e attivò le telecamere di sicurezza appena in tempo per vedere Juliet accarezzare il cane e allontanarsi zoppicando, in direzione di Opal, suppose. — È viva per il momento — borbottò. E finché c’era vita, c’era speranza. Almeno per un paio d’ore ancora. 113 CAPITOLO 11 - MORTE PER MANO DI CONIGLI SOTTO CASA FOWL, un PO’ A SINISTRA Nessuno, umano o membro del Popolo, era stato dichiarato morto più volte di Bombarda Sterro, ed era un record, questo, di cui lui andava smodatamente fiero. Ai suoi occhi, essere dichiarati morti dalla LEP non era altro che un modo meno imbarazzante per loro di ammettere che gli era sfuggito per l’ennesima volta. Al bar degli evasi, Il Pappagallo Sbronzo, i certificati di morte della LEP erano stampati e affissi sul Muro degli Eroi. Bombarda cullava cari ricordi della primissima volta in cui si era finto morto per sbarazzarsi della polizia. Santo cielo, possono essere già passati più di duecento anni? Il tempo vola più in fretta dell’aria dalla patta posteriore, come soleva sempre dire la nonna, che dio l’abbia in gloria. Era impegnato in un lavoretto con il cugino Nordio, sulla montagna d’oro di Cantuccio, quando il padrone di casa era inaspettatamente rientrato in casa dal convegno di Atlantide, dove sarebbe dovuto rimanere a spese dei contribuenti per altri due giorni. Odio quando tornano a casa prima del previsto, pensò Bombarda. Ma perché la gente fa di queste cose, quando sa benissimo che ci sono ottime probabilità di trovare un rapinatore in soggiorno? Ad ogni modo, il caso aveva voluto che il padrone di casa fosse un ex membro delle forze dell’ordine, con regolare porto d’armi per uno sfrizzagente che aveva usato con gran gusto sui due cugini nani. Nordio era riuscito a scappare passando dal tunnel, ma Bombarda era stato costretto a portarsi le mani al petto e a fingere un attacco cardiaco per poi scaraventarsi dalla finestra e fingersi morto fino all’impatto con il fiume sottostante. Fare il cadavere è stata la parte più difficile, ricordò Bombarda. Non c’è niente di più innaturale che tenere le braccia flosce quando vorrebbero mettersi a roteare in aria. La LEP aveva interrogato il padrone di casa, il quale aveva enfaticamente dichiarato: Sì, l’ho ucciso. È stato un incidente, naturale, volevo soltanto mutilare quel nano e poi prenderlo a calci fino a fargli perdere i sensi, ma quell’idiota potete pure considerarlo morto. Nessuno può fingersi cadavere per un volo di tre piani. E così, Bombarda Sterro era stato dichiarato morto per la prima volta. Ci sarebbero state altre dodici occasioni ufficiali in cui si sarebbe erroneamente 114 creduto che avesse tagliato la corda per l’ultima volta e, a sua insaputa, in quel momento stava strisciando verso un’occasione ufficiosa. Le sue istruzioni, del resto, erano semplicissime: scavare un tunnel parallelo a quello appena crollato, sgattaiolare nei rottami della Cupido e poi rubare tutte le armi conservate nell’armadietto. Scavare, sgattaiolare e rubare, tre dei quattro verbi preferiti di Bombarda. Non so proprio perché lo sto facendo, pensò mentre scavava. Dovrei puntare verso la superficie e trovarmi una bella crepa. Dicono che l’ondata di morte di Opal ucciderà solo gli umani, ma perché correre un rischio così da irresponsabili con il grande dono della vita? Bombarda sapeva bene che quel ragionamento era solo un mucchio di polpette di troll, ma riusciva a scavare meglio se era seccato, anche se l’oggetto del suo fastidio era lui stesso. E così, il nano fumava di irritazione in silenzio mentre avanzava nel sottosuolo verso i rottami della navetta. Sei metri più in alto e trenta metri a sud, Opal Koboi metteva mano ai profondi incantesimi algebrici della seconda serratura dei Berserkr. I simboli le si avvolgevano attorno alle dita come lucciole e cedevano il proprio potere uno alla volta man mano che lei ne scopriva i segreti. Alcuni venivano sottomessi forzatamente con il puro potere della sua magia nera, ma altri dovevano essere persuasi con subdole fatture o solleticamenti magici. Ci sono quasi, pensò. Riesco ad avvertire la forza della Terra. Presumeva che l’ondata di morte avrebbe assunto la forma di energia geotermica, attratta dalle risorse di tutto il pianeta e non solo dai bacini idrotermici più in superficie, e ciò avrebbe intaccato le riserve mondiali e teoricamente avrebbe potuto sprofondare la Terra in una nuova era glaciale. Sopravviveremo, pensò cinicamente. Ho dei bellissimi stivali termici da parte. Il lavoro era impegnativo ma fattibile, e sapere di essere l’unica folletta al mondo ad avere svolto sufficienti ricerche sulle complessità della magia antica per poter aprire la seconda serratura le dava una certa soddisfazione. La prima era stata semplice – aveva richiesto poco più di un lampo di magia nera – ma per la seconda occorreva una conoscenza enciclopedica dell’arte magica. Quel tecnoanalfabeta di Polledro non ci sarebbe mai riuscito, neppure in un milione di anni, gongolava. Opal non lo sapeva, ma in quel momento era così compiaciuta che roteava le spalle e faceva un verso simile a fusa. Sta andando tutto così bene, si diceva. 115 Quel piano era stato fuori dal comune perfino per i suoi standard, ma improbabile o no, tutti gli elementi stavano andando al loro posto. La sua prima idea era stata di sacrificare il suo alter ego più giovane e di usare il potere trafugato per evadere da Sprofondo. Poi però le era venuto in mente che si sarebbe dovuta liberare di quel potere all’istante, se voleva evitare che la divorasse viva. E allora perché non farne buon uso? L’opportunità si era presentata quando l’alter ego più giovane di Opal si era messo telepaticamente in contatto con lei. Una mattina, Opal era nel bel mezzo di un Coma Rigeneratore quando – ping! – a un tratto nella sua testa aveva sentito una voce che chiamava la sorella chiedendo aiuto. Per un attimo aveva temuto di essere impazzita, ma poi, a poco a poco, l’informazione era filtrata. Una Opal più giovane aveva seguito Artemis Fowl dal passato. Non me lo ricordo, si era resa conto Opal. Perciò il mio alter ego più giovane deve essere stato catturato e rimandato indietro dopo uno spazzamente. A meno che… A meno che la linea temporale non si fosse spezzata in due parti. In quel caso, qualunque cosa sarebbe stata possibile. Opal fu sorpresa nel trovare la se stessa più giovane un po’ piagnucolona, perfino noiosa. Davvero pensava sempre e solo a se stessa? Che razza di egocentrica, rifletteva la folletta. È tutto un: Mi sono fatta male alla gamba nell’esplosione; la mia magia sta svanendo; devo ritornare nel mio tempo. Niente di tutto ciò era minimamente di aiuto a Opal, rinchiusa nella sua prigione. Quello che devi fare è aiutarmi a uscire di qui, aveva trasmesso al suo alter ego più giovane. Così potremo occuparci delle tue ferite e rimandarti a casa. Ma come riuscirci? Quel maledetto centauro Polledro l’aveva incarcerata nella cella più tecnologicamente avanzata del mondo. La risposta era semplice: Devo costringerli a liberarmi perché l’alternativa sarebbe semplicemente troppo orribile per poterla anche solo contemplare. La folletta si era baloccata con quel problema per parecchi minuti prima di accettare il fatto che fosse necessario sacrificare la giovane Opal e, una volta messa a posto quella tessera del puzzle, aveva fatto presto a costruirci tutto attorno il resto del progetto. Pip e Kip erano due gnomi non troppo svegli che lavoravano come funzionari pubblici. Qualche anno prima il Consiglio li aveva incaricati di effettuare una revisione di uno dei conti della sua fabbrica, e Opal li aveva 116 ipnotizzati usando rune proibite e magia nera. Era bastata solo una telefonata della giovane Opal per attivare la loro lealtà, anche a costo della vita di uno o di entrambi. Aveva trasmesso le sue istruzioni alla giovane Opal, spiegandole esattamente come organizzare il falso rapimento e come usare le tracce di magia nera rimaste nel suo sistema per trovare la leggendaria Porta dei Berserkr. La porta era la via per ritornare al passato o, per lo meno, quella era la storia che Opal aveva rifilato al suo alter ego. La giovane Opal non poteva saperlo, ma c’era un motivo valido se le istruzioni per Pip e Kip erano così precise. Nelle parole era nascosto un semplice codice che Opal vi aveva inserito insieme con il vincolo di lealtà. Se la giovane Opal avesse pensato di mettere per iscritto tutte le lettere che corrispondevano a numeri primi, avrebbe scoperto un messaggio ben più sinistro di quello che credeva di trasmettere: Quando sarà scaduto il termine, uccidete l’ostaggio. Con i funzionari pubblici era meglio stare sul semplice. Ogni cosa aveva funzionato esattamente come previsto, tranne per l’arrivo di Fowl e del capitano Tappo. Però, in un certo senso, anche quello era stato un colpo di fortuna: adesso avrebbe potuto ucciderli di persona. Non tutto il male vien per nuocere, pensò. Di colpo Opal si sentì aggrovigliare lo stomaco e un’ondata di nausea l’assalì. Il primo pensiero della folletta fu che la magia nera lottasse contro i suoi anticorpi, ma poi si rese conto che l’origine di quel malessere era esterna a lei. Qualcosa offende i miei sensi magici acuiti, pensò. Qualcosa che c’è laggiù. I rottami della navetta stavano al di fuori del cerchio di guerrieri che montavano di guardia alla loro regina. Sotto la navetta. Qualcosa è coperto di una sostanza che mi fa stare male, comprese. Era quel maledetto nano, sempre pronto a ficcare quella sua patta dove non doveva. Opal si accigliò. Quante volte ancora avrebbe dovuto subire le umilianti flatulenze di quel nano? Era inaccettabile. Lo hanno mandato a recuperare le armi, non c’è dubbio, pensò. Opal alzò gli occhi di quindici gradi in direzione della navetta. Per quanto la Cupido potesse essere distrutta, il suo sesto senso riusciva ad avvistare un’aura di energia serpeggiare attorno alla fusoliera come una grossa biscia. Quella particolare lunghezza d’onda non sarebbe stata di aiuto per aprire la seconda serratura, ma di sicuro avrebbe fornito materiale sufficiente per una 117 dimostrazione estremamente chiara del suo potere. Opal ritirò una mano dai deboli rantoli della pietra e curvò le dita ad artiglio, disponendo le molecole in modo da attrarre ogni briciola di energia presente all’interno della Cupido. L’energia lasciò il veicolo in un pantano luminoso, prosciugandolo fino a ridurlo a un rottame avvizzito, e fluttuò nell’aria sopra i guerrieri ammirati. — Guardate che cosa è capace di fare la vostra regina! — gridò con gli occhi accesi. Le minuscole dita si attorcigliarono, manipolarono l’energia fino a farle assumere la forma di un cuneo appuntito che scagliò attraverso la terra verso il punto in cui il nano stava trafficando. Si udì un gran tonfo, e una colonna di terra e pietre schizzò verso il cielo, lasciandosi dietro un cratere annerito. Opal riportò la propria attenzione alla seconda serratura. — Riesci a vedere il nano? — chiese a Oro, che sbirciava all’interno del buco. — Vedo un piede e un po’ di sangue. Il piede si muove, perciò è ancora vivo. Vado a prenderlo e lo porto su. — No — gli disse Opal. — Mammina non vuole perderti di vista. Manda le creature della terra a ucciderlo. Se il vincolo elfico non avesse condizionato così tanto la volontà di Oro, avrebbe richiamato all’ordine Opal per avere ripetutamente mancato di rispetto agli anziani ma, stando così le cose, perfino la sola idea di rimproverare la sua regina gli procurava forti crampi allo stomaco. Quando il dolore fu passato, si portò due dita alle labbra per chiamare i suoi sterratori con un fischio. Scoprì che non era così facile fischiare con dita estranee, e tutto ciò che gli uscì dalla bocca fu uno sbavo rumoroso. — Non conosco quel segnale, capo — disse Yesswi Khen, che un tempo era stato uno gnomo d’ascia piuttosto in gamba. — È l’ora del tè? — No! — urlò Oro. — Mi servono gli sterratori. A rapporto. Una decina di conigli arrivarono saltellando ai suoi piedi. I loro baffi tremavano per l’ansia di vedere finalmente un po’ di azione. — Andate a prendere il nano — ordinò Oro. — Vi direi di portarmelo vivo, ma non è che ne abbiate esattamente le capacità. I conigli picchiarono per terra le zampe posteriori in segno di assenso. — Perciò gli ordini sono semplici: uccidetelo — continuò Oro con un certo rammarico. I conigli si infilarono in massa nel buco, raspando con zelo verso il nano ferito. Morte per mano di conigli, pensò Opal. Non è un bel modo di andarsene. 118 Oro non voleva guardare. I nani facevano parte del Popolo, e in altre circostanze sarebbero potuti essere alleati. Alle sue spalle sentì uno scricchiolio di ossa e lo sbatacchiare di terra che franava. Oro rabbrividì. Avrebbe preferito sempre e comunque affrontare un troll che un mucchio di conigli carnivori. Sulla predella, Opal si sentì levare un peso dal cuore mentre un altro nemico soffriva. Presto sarà il tuo turno, Polledro, pensò. Ma la morte sarebbe troppo facile per te. Forse stai già soffrendo. Forse la tua graziosa moglie ha già aperto il regalo che i miei piccoli gnomi le hanno fatto. La folletta continuò a lavorare alla seconda serratura e intanto, per far passare il tempo mentre lavorava, intonò una canzoncina. Questo, miei cari, è il giorno che tutto andrà come va bene a me. Opal non ne era consapevole, ma era una canzone famosa dello spettacolo di Pip e Kip. 119 CAPITOLO 12 - LA BANDA DEGLI SMANETTONI SUONATI CANTUCCIO, STRATI INFERIORI A Cantuccio le cose non erano mai andate così male. Perfino i gruppi di empatelfi – capaci di percepire con chiarezza le immagini residue di millenni passati e che amavano tenere conferenze agli allievi delle scuole elfiche su come la vita non fosse che un secchio di salsa agrodolce in confronto a quello che era stata ai tempi degli scavi minerari – dovettero ammettere che quello era il giorno più tetro della storia di Cantuccio. Gli abitanti di Cantuccio stavano affrontando la loro notte più buia, resa ancora più cupa dall’assenza di corrente elettrica, il che significava che le uniche luci erano le lampade di emergenza alimentate dai vecchi generatori geotermici. La saliva di nano era improvvisamente diventata un bene molto prezioso, e in giro per l’accampamento degli sfollati sorto attorno alla statua di Foglietta si vedevano molti dei parenti di Bombarda intenti a vendere barattoli di saliva luminescente per un lingotto o due. La LEP cercava di cavarsela come meglio poteva, e nella maggior parte dei casi operava con attrezzature limitate. Il problema principale era quello del coordinamento. La rete di telecamere e centri informatici wireless, sospesa al soffitto della caverna con fili di ragnatela, era stata ammodernata tre anni prima con obiettivi prodotti dai LabKob. L’intera rete aveva preso fuoco e si era abbattuta sui cittadini di Cantuccio, marchiandone molti con un reticolo di cicatrici, il che significava che la LEP doveva operare priva di supporto informatico e facendo affidamento solo su vecchie radio per le comunicazioni audio. Alcuni degli agenti di polizia più giovani non erano mai stati sul campo senza il pieno sostegno dei loro preziosi elmetti, e senza il continuo aggiornamento di informazioni da parte della Centrale si sentivano un po’ troppo esposti. In quel momento, il cinquanta per cento delle forze operative era impegnato nel tentativo di spegnere un grosso incendio scoppiato ai Laboratori Koboi, che erano stati rilevati dalla fabbrica automobilistica Krom. L’esplosione e il successivo incendio avevano provocato il crollo di una grossa sezione della caverna sotterranea, e le perdite di pressione venivano contenute a fatica dai cannoni al gel plastico. La LEP aveva spianato i detriti con i bulldozer e puntellato il tetto con colonne pneumatiche, ma il fuoco continuava imperterrito a liquefare i puntoni metallici, e molti gas tossici diversi 120 fuoriuscivano dai cilindri circostanti il fabbricato. Un altro dieci per cento degli agenti era impegnato nella retata dei prigionieri fuggiti dal Picco dell’Ululo dove, finché il suo campo di contenimento non si era spento, era ospitata la maggior parte dei più grandi goblin del crimine che stavano dietro le bande organizzate di Cantuccio, oltre a malavitosi e ai loro tirapiedi. Adesso quei goblin sgattaiolavano nelle viuzze della città con i prendisonno sottocutanei che non rispondevano ai frenetici segnali ripetutamente inviati dal quartier generale. Alcuni goblin cui il chip era stato impiantato più di recente erano stati così sfortunati da avere modelli di seconda generazione che erano esplosi all’interno della loro testa, aprendo nel cranio buchi abbastanza piccoli da poterli tappare con una monetina, ma abbastanza grandi da risultare fatali per quelle creature a sangue freddo. Altri agenti ancora erano immersi fino al collo in operazioni varie di salvataggio, controllo della folla e caccia agli sciacalli, che non mancavano mai in una catastrofe di tali proporzioni. E il resto degli agenti della LEP era stato messo fuori gioco dall’esplosione dei telefoni cellulari vinti di recente in una lotteria a cui non ricordavano di avere partecipato, sicuramente opera degli scagnozzi di Opal. In questo modo, la malvagia folletta era riuscita a far fuori buona parte del Consiglio, mutilando efficacemente il governo del Popolo in quel momento di emergenza. Polledro e i suoi cervelloni erano rimasti alla Centrale per cercare di riportare in qualche modo in vita una rete che era andata letteralmente a farsi friggere. Il comandante Grana Algonzo aveva impartito istruzioni al centauro praticamente senza fermarsi. — Basta che tu rimetta in funzione le macchine — aveva detto, indossando una quarta fondina. — Il più in fretta possibile. — Tu non capisci! — aveva obiettato Polledro. Algonzo aveva tagliato corto con un gesto secco della mano. — Io non capisco mai, è per questo che paghiamo te e la tua banda di smanettoni suonati. Polledro obiettò un’altra volta. — Non sono suonati! Grana trovò posto per un’altra fondina ancora. — Davvero? Quello lì si porta tutti i giorni un pupazzetto al lavoro. E tuo nipote, Mayne, parla fluentemente l’unicornese. — Be’, ma non sono suonati proprio tutti — si corresse Polledro. — Basta che rimettiate in funzione la città — insistette Grana. — Ci sono vite che dipendono da questo. 121 Polledro bloccò la strada al comandante. — Non lo capisci che la vecchia rete è vaporizzata? Mi stai dando briglia sciolta, per usare un’espressione sgradevole, per fare tutto quello che devo? Grana lo scostò bruscamente. — Fa’ tutto quello che devi. Polledro fu lì lì per sorridere. Tutto quello che devo, ripeté fra sé. Polledro sapeva che il segreto del lancio riuscito di un prodotto spesso stava nel nome. Un nome facile da ricordare ha più probabilità di suscitare la curiosità degli investitori e contribuisce al decollo di una nuova invenzione, mentre un groviglio di lettere e numeri fa addormentare tutti e garantisce un flop. Il nome di laboratorio dell’ultimo progetto preferito di Polledro era Fibra a codice Analogico per la Ricezione delle Onde a Luminescenza Pterygota 2.0. Il centauro sapeva che era troppo lungo per attirare potenziali investitori. Alla gente ricca piace sentirsi in gamba, e mettersi in imbarazzo incespicando su un nome del genere non era certo da persona in gamba, perciò Polledro gli aveva dato il nomignolo di Faro. I Faro erano l’ultimo di una serie di organismi bioibridi sperimentali che Polledro era convinto rappresentassero il futuro della tecnologia. Il centauro aveva incontrato notevole resistenza da parte del Consiglio sulla base di motivazioni etiche, in quanto la sua invenzione accoppiava la tecnologia con gli esseri viventi, sebbene lui avesse contestato che la maggior parte degli agenti della LEP aveva ormai piccoli chip impiantati nel cervelletto che li aiutavano a controllare gli elmetti. La controargomentazione del Consiglio era stata che gli agenti potevano scegliere se farsi impiantare o meno i chip, mentre i piccoli esperimenti di Polledro nascevano così. Perciò il centauro non aveva avuto il via libera per i test pubblici. Il che non stava a significare che non ne avesse fatti, si era semplicemente limitato a non liberare i suoi preziosi Faro in pubblico, o quanto meno non davanti al Popolo. Ma la tenuta dei Fowl, be’, quella era un’altra cosa. L’intero progetto Faro era contenuto in un unico kit all’interno di una logora valigetta nascosta in bella vista sopra un armadietto del laboratorio. Polledro si impennò sulle zampe posteriori per prenderla e la sbatté sul banco da lavoro. Suo nipote Mayne gli trotterellò alle spalle per vedere che cosa stesse facendo. — Dung navarr, zio? — gli chiese. — Oggi niente unicornese, Mayne — lo rimbrottò Polledro, infilandosi la bardatura da laboratorio modificata. — Non ho tempo. 122 Mayne incrociò le braccia sul petto. — Gli unicorni sono nostri cugini, zio. Dovremmo avere rispetto per la loro lingua. Polledro si avvicinò alla valigetta perché lo scanner potesse identificarlo e far scattare le serrature. — Sì che rispetto gli unicorni, Mayne. Ma i veri unicorni non parlano. Quei farfugliamenti che produci sono di una serie TV. — Ma scritta da uno sceneggiatore empatico — sottolineò Mayne. Polledro aprì la valigetta. — Ascolta, nipote, se vuoi piantarti un corno in mezzo alla fronte e andare alle convention di fan nei fine settimana, a me sta benissimo. Però oggi ho bisogno che tu rimanga qui, in questo universo. Intesi? — Intesi — assentì di malavoglia Mayne. Il suo umore migliorò quando vide il contenuto della valigetta. — Ma quelle sono lucciole? — No, le lucciole sono coleotteri — lo corresse Polledro. — Questi sono Faro di ultimissima generazione. A Mayne parve di ricordare qualcosa. — Ma ti avevano rifiutato il permesso di fare i test, non è vero? Per Polledro era un’immensa fonte di irritazione che un centauro del suo genio dovesse essere costretto a giustificarsi con un assistente solo per via del legame con la sorella. — Ho appena ottenuto il permesso, dal comandante Algonzo. È tutto su video. — Wow! — esclamò Mayne. — In tal caso, vediamo quei piccoletti in azione. Forse non è così male, pensò Polledro, inserendo il codice di attivazione in una tastiera manuale di vecchia generazione nella valigetta. Una volta inserito il codice, la valigetta si sintonizzò sullo schermo a parete del laboratorio, dividendolo in una dozzina di riquadri bianchi. Non c’era niente di così speciale, e nessuno si sarebbe messo ad applaudire o a sdilinquirsi per l’ammirazione. Quello che avrebbe suscitato applausi e ammirazione, invece, era lo sciame di libellule in miniatura geneticamente modificate che andavano risvegliandosi all’interno della valigetta. Gli insetti scossero le testoline insonnolite e incominciarono a far vibrare le ali, quindi si alzarono in formazione perfettamente sincronizzata per volteggiare all’altezza degli occhi di Polledro. — Oooh! — fece Mayne, battendo le mani. — Aspetta — gli disse Polledro attivando i sensori. — Guarda e ammira. La nuvola di libellule tremolò come se avesse ricevuto un’improvvisa scarica, e i loro occhietti luccicarono verdi. Undici dei dodici riquadri sullo 123 schermo mostrarono immagini in 3D di Polledro, messe insieme dalla prospettiva di ciascun insetto. Gli insetti erano capaci di leggere non soltanto lo spettro visibile, ma anche i raggi infrarossi, gli ultravioletti e quelli termici. Un flusso costante di dati in arrivo scorreva a lato dello schermo, riportando enormi quantità di informazioni sulla frequenza cardiaca di Polledro, sulla sua pressione sanguigna, pulsazioni ed emissioni di gas. — Questi gioiellini possono andare dappertutto e vedere qualsiasi cosa. Possono ricavare informazioni da ogni microbo. E tutto ciò che si vede è solo uno sciame di libellule. I miei piccoli Faro potrebbero passare i controlli a raggi X di un aeroporto, e nessuno capirebbe che sono imbottiti di biotecnologia. Vanno dove li mando io e spiano chi dico io. Mayne indicò un angolo dello schermo. — Ma quella sezione è vuota. Polledro si schiarì la voce. — Ho fatto un test alla tenuta dei Fowl e, non so come, Artemis è riuscito a individuare ciò che era virtualmente inindividuabile. Immagino che i miei gioiellini siano a pezzi sotto un microscopio elettronico del suo studio. — Non l’ho letto in nessun rapporto. — No, mi sono dimenticato di accennarne. Il test non era stato esattamente un successo, ma questo lo sarà. Le dita di Polledro battevano a tutta velocità sulla tastiera. — Quando avrò inserito i parametri della missione, i miei Faro ripristineranno il controllo in tutta la città nel giro di un paio di minuti. — Polledro ordinò a un unico insetto di atterrargli sul dito indice. — E tu, amico mio, sei speciale perché andrai in casa mia, tanto per assicurarci che la mia amata Cavallina stia bene. Mayne si sporse per guardare l’animaletto. — Puoi farlo? Polledro agitò il dito e l’insetto si alzò in volo, infilandosi lateralmente in un condotto. — Posso fare tutto quello che voglio. Sono perfino codificati sulla mia voce. Sta’ a guardare. — Si appoggiò allo schienale e si schiarì la voce. — Codice di attivazione Faro alpha alpha uno. Qui Polledro. Il mio nome è Polledro. Trasferimento immediato in centro città. Scenario tre. Tutte le sezioni. Disastro a livello globale. Volate, piccole mie, volate. I Faro partirono come un branco di pesciolini d’argento nell’acqua, scivolando nell’aria in un volo perfettamente sincronizzato e poi formando un cilindro compatto che schizzò nel condotto di aerazione. Le ali sfiorarono rapide le pareti, trasmettendo dati da ogni centimetro. La teatralità di quell’operazione affascinò la sensibilità da amante dei fumetti di Mayne. — Volate, piccole mie, volate. Forte. Lo hai inventato tu? 124 Polledro incominciò ad analizzare i dati che già arrivavano dai Faro. — Certo che sì — disse. — Ogni parola è un Polledro originale. I Faro potevano essere guidati manualmente o, se quella funzione era disattivata, si dirigevano verso punti irradiati prefissati sul tetto della caverna. I minuscoli insetti biotecnologici operarono alla perfezione, e nel giro di pochi minuti Polledro si ritrovò con una rete funzionante sospesa sopra Cantuccio che poteva essere manovrata con una parola o un gesto. — E adesso, Mayne — disse al nipote — voglio che tu venga qui e trasmetta le informazioni al comandante Algonzo tramite — e qui rabbrividì — radio. Io voglio controllare un attimo tua zia Cavallina. — Mak dak Jiball, zio — rispose Mayne facendo il saluto militare. Altra cosa che i veri unicorni non fanno. Gli umani hanno un modo di dire: “La bellezza è negli occhi di chi guarda”, che sostanzialmente significa che se tu pensi che una cosa sia bella, allora lo è. La versione del Popolo di questo detto era stata composta dal grande poeta B.O. Selecta, il quale aveva affermato che “Perfino una cagna è degna di regnare”, che i critici avevano sempre trovato un po’ cacofonica. La versione nanesca della stessa massima è invece: “Se non puzza, sposalo”, che è un po’ meno romantico, ma il succo è sempre quello. A Polledro non occorreva rifarsi a nessuno di quei motti, perché nella sua mente la bellezza era personificata dalla moglie Cavallina. Se mai qualcuno gli avesse domandato una definizione della bellezza, avrebbe semplicemente diretto lo sguardo al polso e poi avrebbe attivato il cristallo olografico installato nel suo computer e proiettato in aria un’interfaccia grafica rotante di sua moglie. Polledro era talmente innamorato di Cavallina che sospirava ogni volta che pensava a lei, il che accadeva diverse volte in un’ora. Per quanto lo riguardava, aveva trovato la sua anima gemella. L’amore aveva toccato i garretti di Polledro relativamente in tarda età. Quando tutti gli altri centauri se ne andavano a sgambettare in giro per i simil-pascoli, scalciando il terreno, messaggiando le puledre e inviando alle prescelte carote candite, lui era immerso fino al garrese nelle attrezzature da laboratorio cercando di cavarsi dalla testa le sue invenzioni radicali e di introdurle nel mondo reale. Quando si era reso conto che forse l’amore stava scalpitando al suo fianco, era ormai già scomparso oltre l’orizzonte. Perciò il centauro si era convinto di non avere bisogno di una compagna ed era contento di vivere per il suo lavoro e i suoi colleghi. Poi, quando Spinella Tappo era rimasta dispersa in un’altra dimensione, alla 125 Centrale di Polizia aveva incontrato Cavallina. Per lo meno, questo era quello che aveva raccontato a tutti. “Incontrato” potrebbe essere un termine un po’ fuorviante, in quanto implicherebbe una situazione piacevole, o per lo meno non violenta. Ciò che in realtà era accaduto era che uno dei programmi di riconoscimento facciale di Polledro installato in una banca aveva avuto un malfunzionamento e aveva identificato Cavallina come una goblin rapinatrice di banche. Era stata arrestata all’istante dagli spiritelli giganti della sicurezza e cavalcata alla Centrale. L’ignominia suprema per un centauro. Prima che tutta la faccenda venisse ricondotta a un errore del software, Cavallina era già stata confinata in una cella imbottita per più di tre ore. Si era persa la cena per il compleanno della madre ed era estremamente impaziente di strozzare il responsabile di quel malinteso. Il comandante Grana Algonzo aveva ordinato senza mezzi termini a Polledro di scendere nelle celle e di assumersi la responsabilità di quel pasticcio. Polledro aveva ubbidito a malincuore, pronto a tirar fuori una decina di scuse standard, che però erano tutte quante evaporate non appena si era trovato faccia a faccia con Cavallina nella sala colloqui della Centrale. Non era solito incontrare molti centauri, e di sicuro non gli era mai capitato di conoscerne una più bella di Cavallina, con quei suoi occhi nocciola, il grosso muso robusto e la criniera lucida che le arrivava alla vita. — C’era da scommetterci — era sbottato senza pensare. — La mia solita fortuna. Cavallina si era preparata a fare metaforicamente a pezzi il mantello dell’imbecille responsabile del suo arresto, e magari anche non solo metaforicamente, ma la reazione di Polledro l’aveva bloccata e lei aveva deciso di offrirgli la possibilità di tirarsi fuori dal buco in cui era sprofondato. — E quale sarebbe, la sua solita fortuna? — gli aveva chiesto guardandolo dritto negli occhi e facendogli capire che avrebbe fatto meglio ad avere una risposta buona. Polledro avvertì la pressione e così prima di rispondere rifletté ben bene. — La mia solita fortuna — finì per dire — è che finalmente conosco una centaura bella come lei, e lei ha soltanto voglia di uccidermi. Era stata una risposta discreta e, a giudicare dall’infelicità negli occhi di Polledro, conteneva ben più di un briciolo di verità. Cavallina aveva deciso di muoversi a compassione per quel centauro così depresso che aveva davanti e di smorzare un po’ il proprio spirito di antagonismo, ma era ancora troppo presto per fargliela passare del tutto 126 liscia. — E perché non dovrei avere voglia di ucciderla? Lei pensa che io sembri una criminale. — Non lo penso, non lo penserei mai. — Davvero? Perché l’algoritmo che mi ha identificato come una goblin rapinatrice si basa sui suoi schemi di pensiero. Questa femmina è intelligente, comprese Polledro. Intelligente e bellissima. — È vero — ammise. — Però immagino che ci fossero di mezzo anche fattori secondari. — Tipo? Polledro decise di tentare il tutto per tutto. Si sentiva attratto da quella centaura che gli stava mandando in corto circuito il cervello. Il modo migliore che aveva per descrivere quella sensazione era una prolungata scossa elettrica a basso voltaggio, simile a quelle inflitte sui volontari nei suoi esperimenti di deprivazione del sonno. — Tipo che la mia macchina è incredibilmente stupida, perché lei è esattamente l’opposto di una goblin rapinatrice di banche. Cavallina era divertita, ma non voleva cedere. — E cioè? — E cioè una non-goblin titolare di conto corrente venuta a fare un versamento. — Che è esattamente la verità, idiota. Polledro trasalì. — Come ha detto? — Idiota. La sua macchina è idiota. — Sì, assolutamente. La farò smontare all’istante e la farò rimontare come tostapane. Cavallina si morse un labbro, forse soffocando un sorriso. — È un inizio. Però ne deve fare, di strada, prima che siamo pari. — Capisco. Se ha qualche reato grave sulla sua fedina, posso cancellarlo. Anzi, se per caso volesse sparire del tutto, potrei pensarci io. — Polledro decise di riformulare l’ultima frase. — Be’, sembrava quasi che mi proponessi di farla fuori, il che non è, assolutamente no. L’ultima cosa che vorrei è farla fuori. Anzi, proprio il contrario. Cavallina prese la borsa dalla spalliera della sedia e se la mise a tracolla sulla camicia sfrangiata. — Mi sembra che le piacciano proprio, i contrari, signor Polledro. E quale sarebbe il contrario di farmi uccidere? Per la prima volta, Polledro incrociò il suo sguardo. — Renderla felice e viva in eterno. Cavallina fece per andarsene e Polledro pensò: Stupido somaro. Hai rovinato 127 tutto. Invece lei si fermò alla porta e gli lanciò una ciambella di salvataggio. — In effetti avrei una multa per divieto di sosta che ho già pagato, ma a quanto pare i suoi macchinari ce l’hanno con me e giurano che non è così. Potrebbe dare un’occhiata a quella faccenda. — Nessun problema — la rassicurò Polledro. — Lo consideri fatto e consideri anche la macchina già compattata. — Lo racconterò alle mie amiche — disse Cavallina, che già stava uscendo dalla stanza. — Quando le vedrò alla mostra alla Nitritional Gallery, il prossimo fine settimana. Le piace l’arte, signor Polledro? Polledro rimase immobile per un minuto intero dopo che lei se ne fu andata, a fissare il punto in cui si era trovata la testa di Cavallina l’ultima volta che aveva parlato. In seguito, aveva dovuto rivedere il nastro della sorveglianza per assicurarsi che gli avesse dato una specie di appuntamento. E adesso erano sposati, e Polledro si considerava l’idiota più fortunato del mondo e, anche se la città era in piena crisi, una crisi della quale non si era mai visto prima l’uguale nella metropoli sotterranea, non ebbe alcuna esitazione a prendersi un momento di pausa per controllare la sua splendida moglie, che con ogni probabilità in quel momento era a casa, in pensiero per lui. Cavallina, pensò. Ti raggiungerò presto. Dal loro matrimonio, Polledro e la moglie condividevano un legame mentale simile a quello sperimentato così spesso dai gemelli. So che è viva, pensò. Però non sapeva niente di più. Poteva essere ferita, prigioniera, angosciata o in pericolo, Polledro non lo sapeva. E aveva bisogno di saperlo. Il Faro che Polledro aveva inviato per controllarla era stato creato espressamente per quello scopo e sapeva esattamente dove andare. Mesi prima il centauro aveva dipinto un angolo del soffitto della cucina con un laser capace di attirare l’insetto da centinaia di chilometri di distanza, se necessario. Polledro collegò gli impulsi provenienti dagli altri Faro alla CabOp principale, dove Mayne poteva monitorarli, e si concentrò su Cavallina. Volate, piccole mie, volate, ripeté tra sé. La libellula modificata sfrecciò nel sistema d’aerazione della Centrale e da lì nella città, saettando sopra il caos che regnava per le strade e fra i palazzi. 128 Nella piazza e nella superstrada divampavano incendi, in tutte le vie i cartelloni pubblicitari erano ridotti a telai carbonizzati e l’acqua alluvionale riempiva l’anfiteatro all’aperto sino alla fila H. Può occuparsene Mayne per cinque minuti, pensò Polledro. Arrivo, Cavallina. Il Faro ronzò oltre la piazza centrale fino alla periferia sud, che aveva un aspetto più rurale. C’erano boschetti di alberi geneticamente modificati e perfino quantità controllate di creature selvatiche, che venivano monitorate attentamente e liberate in superficie quando il loro numero raggiungeva un livello fastidioso. Lì le abitazioni erano modeste, meno moderne nell’architettura, e al di fuori della zona di evacuazione. Polledro e Cavallina vivevano in un villino a livelli sfalsati con pareti di mattoni di argilla cotta e finestre curve. I colori erano quelli autunnali, e l’arredamento era sempre stato un po’ troppo ritorno alla natura per i gusti di Polledro, anche se lui non si sarebbe mai sognato di farne parola. Il centauro tirò verso di sé la tastiera virtuale e controllò con fare esperto il piccolo insetto utilizzando coordinate numeriche, anche se sarebbe stato più facile farlo usando un joystick o anche il controllo vocale. Era assurdo che chi aveva la responsabilità di tante innovazioni tecnologiche continuasse a preferire un’antica tastiera virtuale costruita con un telaio di finestra quando era ancora all’università. Il vasistas sopra la porta era socchiuso, perciò Polledro guidò il suo Faro nell’atrio, arredato con arazzi appesi alle pareti che raffiguravano grandi momenti della storia dei centauri, come la scoperta del fuoco a opera del re Thurgood e l’accidentale scoperta della penicillina da parte dello stalliere Zoccolo di Camoscio, il cui nome era entrato nel vernacolo popolare per indicare una persona estremamente fortunata, per esempio: “È la seconda volta che vince alla lotteria, quello zoccolo di camoscio!” La libellula ronzò lungo il corridoio in cerca di Cavallina e la trovò seduta sul suo tappetino yoga, con gli occhi fissi su un cellulare che aveva in mano. Sembrava scossa, ma incolume, mentre faceva scorrere il menu sullo schermo in cerca di una rete cui agganciarsi. Non avrai fortuna, amore mio, pensò Polledro, che poi mandò un SMS all’apparecchio della moglie direttamente dal Faro. C’è una piccola libellula che ti guarda, diceva. Cavallina lo lesse e alzò la testa per cercare l’insetto. Polledro impostò gli occhi su un lampeggio verde per aiutarla. La moglie alzò la mano e la libellula le atterrò sul dito. — Il mio 129 intelligentissimo marito — disse lei con un sorriso. — Che cosa sta succedendo alla nostra città? Polledro mandò un altro messaggio, riproponendosi nel frattempo di aggiungere un altoparlante alla nuova versione dei Faro. A casa sei al sicuro. Ci sono state grosse esplosioni, ma è tutto sotto controllo. Cavallina annuì. — Torni a casa presto? — chiese alla libellula. Non tanto. La nottata potrebbe essere lunga. — Non preoccuparti, tesoro. So che hanno bisogno di te. Spinella sta bene? Non lo so. Abbiamo perso il contatto, ma se c’è qualcuno capace di badare a se stessa, quella è Spinella Tappo. Cavallina alzò un dito e la libellula le fluttuò davanti alla faccia. — Anche tu devi badare a te stesso, Signor Consulente Tecnico. Lo farò, messaggiò Polledro. Cavallina prese dal tavolino una scatola con un fiocco. — Mentre ti aspetto, aprirò questo bel regalo che mi ha mandato qualcuno, centauro romantico. In laboratorio, Polledro provò una fitta di gelosia. Un regalo? Chi poteva averle mandato un regalo? Ma, in breve, la gelosia lasciò il posto alla preoccupazione. Dopotutto, quello era il giorno della grande vendetta di Opal Koboi, e non c’era nessuno che la folletta odiasse più di lui. Non aprirlo, digitò in fretta. Non te l’ho mandato io, e stanno succedendo cose brutte. Ma Cavallina non ebbe bisogno di aprire la scatola, perché questa aveva un codice temporizzato e a DNA, e non appena l’ebbe toccata il sensore totale sul lato scansionò il suo dito e mise in moto il meccanismo di apertura con un ronzio. Il coperchio scattò e andò a sbattere contro il muro. Dentro… non c’era niente. Letteralmente niente. Un vuoto nero che sembrava respingere la luce dell’ambiente. Cavallina scrutò nella scatola. — E questo cos’è? — chiese. — Uno dei tuoi aggeggi? — E fu tutto quello che Polledro sentì, perché il nero, o qualunque cosa fosse, spense il Faro, lasciando il centauro all’oscuro sulla sorte della moglie. — No! — urlò. — No, no! Stava succedendo qualcosa. Qualcosa di sinistro. Opal aveva deciso di prendere di mira Cavallina apposta per torturare lui, ne era sicuro. Il suo complice, chiunque fosse, aveva mandato alla moglie quella scatola apparentemente innocua, che però era ben lungi dall’esserlo; Polledro ci avrebbe scommesso i suoi duecento e più brevetti. 130 Che cosa ha fatto?, si chiese. Il centauro fu torturato da quella domanda per circa cinque secondi, finché Mayne non fece capolino nella stanza. — Abbiamo qualcosa dai Faro. Credo che dovresti passarlo sul tuo schermo. Polledro pestò uno zoccolo. — Non ora, stupido pony. Cavallina è in pericolo. — Devi vederlo — insistette Mayne. Qualcosa nel tono di voce del nipote, un morso di acciaio che lasciava intravedere che tipo sarebbe diventato, spinse Polledro ad alzare lo sguardo. — Benissimo. Mettimi in collegamento. Gli schermi si accesero all’istante, con riprese di Cantuccio vista da diverse angolazioni, tutte in bianco e nero tranne per un grappolo di puntini rossi. — I puntini rappresentano i rilevatori dei prendisonno dei goblin evasi — spiegò Mayne. — I Faro ne rilevano le radiazioni caratteristiche, ma non riescono ad attivarli. — Ma questa è una buona notizia — sbottò Polledro stizzito. — Manda le coordinate agli agenti sul territorio. — Si muovevano a casaccio, ma qualche istante fa hanno cambiato direzione tutti quanti, esattamente nello stesso momento. E allora, Polledro seppe che cosa aveva fatto Opal, in che modo la sua arma avesse superato i controlli di sicurezza: aveva usato una bomba sonica. — E si dirigono verso casa mia — disse. Mayne deglutì. — Esatto. E a gran velocità. Il primo gruppo sarà là in meno di cinque minuti. Ma ormai Mayne parlava al vento, perché Polledro galoppava già fuori dalla porta. 131 CAPITOLO 13 - UN TUFFO FORTUNATO CASA FOWL Myles Fowl era seduto alla scrivania di Artemis nella poltroncina da ufficio che il fratello maggiore gli aveva regalato per il compleanno. Artemis gli aveva raccontato che era una produzione di serie, ma in realtà proveniva da Elf Aralto, il famoso negozio di design per elfi specializzato in mobili eleganti ma pratici. Myles se ne stava appollaiato lì a sorseggiare la sua bevanda preferita: succo di açaì da un bicchiere da aperitivo. Due cubetti di ghiaccio, niente cannuccia. — Questa è la bibita che mi piace di più — disse, tamponandosi l’angolo della bocca con un tovagliolo su cui era ricamato il monogramma con il motto dei Fowl, Aurum potestas est, l’oro è potere. — Lo so perché sono di nuovo io e non un guerriero del Popolo. Artemis gli stava seduto di fronte in una poltrona simile, solo più grande. — Non fai che ripeterlo, Myles. A proposito, posso chiamarti Myles? — Sì, certo — rispose il bambino. — Perché è così che mi chiamo. Non mi credi? — Certo che ti credo, ometto. So riconoscere la faccia di mio fratello. Myles giocherellava con lo stelo del suo bicchiere. — Ho bisogno di parlarti da solo, Arty. Leale non potrebbe rimanere ad aspettare fuori per qualche istante? Sono questioni di famiglia. — Leale fa parte della famiglia, lo sai, fratellino. Myles mise su il broncio. — Lo so, però è imbarazzante. — Leale ne ha già viste di tutti i colori. Non abbiamo segreti per lui. — Ma non potrebbe uscire soltanto per un momento? Leale stava in silenzio alle spalle di Artemis, con le braccia conserte in un atteggiamento aggressivo, cosa che non riesce poi così difficile se hai avambracci grossi come prosciutti affumicati e maniche che scricchiolano come seggiole vecchie. — No, Myles. Leale rimane. — Va bene, Arty, lascio decidere a te. Artemis si appoggiò allo schienale della poltrona. — Che cosa è successo al Berserkr che c’era dentro di te, Myles? Il fratellino fece spallucce. — Se ne è andato. Prima mi controllava la testa, 132 ma poi se ne è andato. — E come si chiamava? Myles roteò gli occhi, lambiccandosi il cervello. — Uhm… Gobdaw, credo. Artemis annuì come chi conosce benissimo l’argomento Gobdaw. — Ah, sì, Gobdaw. Ho sentito parlare di lui dai nostri amici del Popolo. — Credo che lo chiamassero Gobdaw il Guerriero Leggendario. Artemis ridacchiò. — Sono sicuro che gli piacerebbe che tu la pensassi così. — Perché è vero — insistette Myles con una lieve tensione ai lati della bocca. — Non è quello che abbiamo saputo noi, vero, Leale? Leale non reagì né fece il minimo gesto, ma in qualche modo diede l’impressione di rispondere in maniera negativa. — No — continuò Artemis. — Quello che abbiamo saputo dalle nostre fonti nel mondo del Popolo è che questo Gobdaw era una barzelletta, per dirla tutta. Le dita di Myles stridettero sul collo del bicchiere. — Barzelletta? E chi lo dice? — Tutti — rispose Artemis, aprendo il portatile e controllando qualcosa sullo schermo. — Sta scritto in tutti i libri di storia del Popolo. Ecco qua, guarda. Gobdaw il Grandissimo Grullo, così lo chiamano, carina l’allitterazione. E qui c’è un altro articolo in cui si parla del tuo amico guerriero come di Gobdaw il Puzzoverme, che credo sia un termine usato per descrivere una persona che si prende la colpa di tutto. Noi umani lo chiameremmo capro espiatorio. Adesso Myles aveva le guance arrossate. — Puzzoverme? Puzzoverme, hai detto? Ma perché mi… perché chiamerebbero Gobdaw puzzoverme? — È una storia triste, patetica, ma a quanto pare è stato proprio questo tipo, Gobdaw, a convincere il suo capo a far sì che tutta la squadra dei Berserkr venisse sepolta attorno a una porta. — Sì, ma era una porta magica — ribatté Myles. — Che proteggeva gli elementi del Popolo. — Già, questo è quello che gli avevano raccontato, ma in realtà la porta non era nient’altro che un mucchietto di sassi, una deviazione che non conduceva da nessuna parte. I guerrieri hanno sprecato diecimila anni a fare la guardia ai sassi. Myles si premette una mano sugli occhi. — No. Non è… no. L’ho visto, nei ricordi di Gobdaw. La porta è autentica. Artemis rise piano. — Gobdaw il Grandissimo Grullo. Che crudeltà. Ci hanno fatto anche una 133 canzoncina, sai? — Una canzoncina? — chiese Myles con voce stridula, e i bambini di quattro anni di solito non hanno la voce stridula. — Ah, sì, una filastrocca. Vuoi sentirla? Myles sembrava fare la lotta con la propria faccia. — No. Sì, dimmelo. — Benissimo, fa così. — Artemis si schiarì teatralmente la voce. Gobdaw, il grullo, che grande citrullo, di guardia a un ammasso di sterpi e di sasso. Artemis nascose un sorriso con una mano. — I bambini sanno essere così crudeli. Myles cedette, e in due modi. Prima cedette la sua pazienza, rivelando che in effetti era Gobdaw, e poi fu lo stelo del bicchiere a cedere sotto le sue dita, trasformandosi in un’arma letale. — Morte agli umani! — strillò in gnomico, saltando sulla scrivania e avventandosi su Artemis. Nel combattimento, a Gobdaw piaceva visualizzare i colpi appena prima di eseguirli, trovava che lo aiutasse a concentrarsi. Perciò nella mente saltò con grazia dal bordo della scrivania, atterrò sul petto di Artemis e gli affondò lo stiletto di vetro nel collo. In tal modo avrebbe conseguito il doppio effetto di uccidere il Fangosetto e anche di farsi una bella doccia di sangue arterioso, il che lo avrebbe aiutato ad assumere un aspetto un po’ più terrificante. In realtà, però, le cose andarono in modo leggermente diverso. Leale allungò un braccio e afferrò Gobdaw a metà del salto, gli strappò lo stelo di vetro dal pugno e poi imprigionò saldamente il bambino tra le sue braccia robuste. Artemis si sporse in avanti sulla poltrona. — C’è anche una seconda strofa — gli disse. — Ma forse questo non è il momento. Gobdaw si divincolava come un matto, ma era stato completamente neutralizzato. Preso dalla disperazione, provò con il fascino. — Adesso ordinerai a Leale di liberarmi — intonò. Artemis era divertito. — Ne dubito proprio — disse. — Ti rimane magia solo per tenere sotto controllo Myles. — Allora ammazzami e falla finita — intimò Gobdaw senza il minimo tremito nella voce. — Non posso uccidere mio fratello, perciò ho bisogno che tu esca dal suo corpo senza fargli male. Gobdaw ghignò. — Non è possibile, umano. Se vuoi avermi, devi far fuori il 134 ragazzo. — Sei male informato — ribatté Artemis. — C’è un modo per esorcizzare la tua anima combattiva senza danneggiare Myles. — Voglio proprio vederti — disse Gobdaw con forse un accenno di dubbio negli occhi. — Ogni tua parola è un ordine eccetera eccetera — rispose Artemis premendo un pulsante sull’interfono. — Portalo dentro Spinella, per piacere. La porta dello studio si spalancò e un barile rotolò nella stanza, apparentemente da solo, finché dietro di esso non apparve l’elfa. — Non mi piace, Artemis — disse Spinella nel ruolo dello sbirro buono concordato in precedenza. — Questa è roba pericolosa. L’anima di una persona potrebbe non raggiungere mai l’aldilà intrappolata in questa poltiglia. — Elfa traditrice — sbottò Gobdaw scalciando. — Stai dalla parte degli umani. Spinella fece rotolare il barile fino al centro dello studio e lo parcheggiò sul pavimento, non su uno dei preziosi tappeti afghani che Artemis insisteva sempre a descrivere nei minimi dettagli storici ogni volta che lei veniva a trovarlo lì. — Io sto dalla parte della Terra — ribatté, incrociando lo sguardo di Gobdaw. — Tu sei rimasto sepolto per diecimila anni, guerriero. Le cose sono cambiate. — Ho consultato i ricordi del mio ospite — disse Gobdaw stizzito. — Gli umani sono quasi riusciti a distruggere l’intero pianeta. Le cose non sono cambiate così tanto. Artemis si alzò e andò a sollevare il coperchio del barile. — E vedi anche una navetta spaziale che spara bolle dal tubo di scarico? Gobdaw lambiccò rapidamente il cervello di Myles. — Sì, sì, la vedo. È d’oro, giusto? — Quello è uno dei progetti sognati da Myles — spiegò lentamente Artemis. — Solo un sogno. Il jet a bolle. Se frughi un po’ meglio nella fantasia di mio fratello, troverai un pony robotico che fa i compiti e una scimmia che ha imparato a parlare. Il ragazzino che controlli è molto intelligente, Gobdaw, ma ha solo quattro anni. A quell’età il confine fra realtà e immaginazione è molto sottile. Il petto di Gobdaw si sgonfiò man mano che trovava tutti quegli oggetti nel cervello di Myles. — Perché mi dici questo, umano? — Voglio che tu capisca di essere stato ingannato. Opal Koboi non è la salvatrice che finge di essere. È un’assassina condannata ed evasa di 135 prigione. Vorrebbe mandare a monte diecimila anni di pace. — Pace! — esclamò Gobdaw, che poi latrò una risata. — Umani pacifici? Anche sepolti sotto terra avvertivamo la vostra violenza. — Si agitò fra le braccia di Leale, un Artemis in miniatura con i capelli neri e l’abito scuro. — E questa la chiami pace? — No, e mi scuso per il trattamento che devi subire, però rivoglio mio fratello. — Artemis fece un cenno a Leale, che issò Gobdaw sopra il barile aperto. Il piccolo guerriero rise. — Sono rimasto sotto terra per millenni. Credi davvero che a Gobdaw faccia paura l’idea di essere imprigionato in un barile? — Ma non sarai imprigionato. Tutto quello che serve è un rapido tuffo. Gobdaw abbassò lo sguardo sui piedi ciondoloni: il barile era pieno di un viscoso liquido bianco con una pellicola in superficie. Spinella voltò le spalle. — Non voglio vedere, so che cosa si prova. — Che cos’è? — chiese il Berserkr nervosamente mentre dall’aura di quella roba si levava un’ondata di nausea fredda a lambirgli i piedi. — Questo è un regalino di Opal — spiegò Artemis. — Qualche anno fa ha rubato i poteri di uno stregone usando proprio quel barile. Io lo avevo tenuto da parte in cantina perché non si sa mai, giusto? — Che cos’è? — ripeté Gobdaw. — Uno dei due inibitori naturali della magia — spiegò il ragazzo. — Grasso animale fuso. Una roba disgustosa, lo ammetto, e mi dispiace davvero di doverci infilare dentro mio fratello, perché lui adora quelle scarpe. Un tuffo, e il grasso fuso ti intrappola l’anima. Myles ne esce intatto e tu rimani trattenuto nel Limbo per l’eternità. Non è esattamente la ricompensa che ti saresti aspettato per il tuo sacrificio. Qualcosa sfrigolò nel barile, scatenando piccole scariche elettriche. — Ma che accidente è? — stridette Gobdaw con la voce di un’ottava più acuta per il panico. — Oh, quello è il secondo inibitore naturale della magia. Ho chiesto al mio amico nano di sputarci dentro, giusto per dargli un po’ di brio. Gobdaw riuscì a liberare un braccio e a picchiarlo contro il bicipite di Leale, ma per il risultato che ne ricavò avrebbe anche potuto prendere a pugni un macigno. — Non ti dirò niente — disse con il mento che tremava. Artemis tenne stretti gli stinchi di Gobdaw in modo da puntarli dritti dentro il barile. — Lo so. Myles mi dirà tutto fra un momento. Mi dispiace doverti fare questo, Gobdaw. Sei stato un guerriero valoroso. — Non Gobdaw il Grandissimo Grullo, quindi? 136 — No — ammise Artemis. — Me lo sono inventato per costringerti a rivelare la tua identità. Dovevo avere la certezza. Spinella spintonò via Artemis con una gomitata. — Berserkr, ascoltami. So che sei vincolato a Opal e non puoi tradirla, ma questo umano entrerà nel barile in un modo o nell’altro. Perciò leva le tende dal suo corpo e passa nell’aldilà. Non c’è nient’altro che tu possa fare qui. Questa non è una fine che si conviene a un possente guerriero. Gobdaw si accasciò tra le braccia di Leale. — Diecimila anni. Così tante vite. Spinella gli sfiorò la guancia. — Hai fatto tutto ciò che ti era richiesto. Riposare ora non è tradimento. — Forse l’umano si sta prendendo gioco di me e questo è tutto un bluff. Spinella rabbrividì. — Il barile non è un bluff. Opal mi ci ha imprigionato dentro, una volta. È stato come se mi si atrofizzasse l’anima. Salvati, ti prego. Artemis fece un cenno verso Leale. — Benissimo, basta indugi. Buttalo dentro. Leale spostò la presa sulle spalle di Gobdaw e cominciò a calarlo lentamente. — Aspetta, Artemis! — gridò l’elfa. — Questo è un eroe del Popolo. — Mi dispiace, Spinella, ma non c’è più tempo. Le punte delle dita dei piedi di Gobdaw toccarono il grasso, e subito viticci di vapore gli si avvinghiarono attorno alle braccia. In quell’istante comprese che non era un bluff: la sua anima sarebbe rimasta imprigionata per sempre in quella poltiglia. — Perdonami, Oro — disse, volgendo gli occhi al cielo. Lo spirito di Gobdaw si allontanò da Myles e fluttuò in aria, impresso nell’argento. Rimase sospeso per diversi istanti, apparentemente confuso e in ansia, finché una goccia di luce non gli fiorì in petto e incominciò a roteare come un piccolo ciclone. A quel punto Gobdaw sorrise, e il dolore di secoli gli scivolò via dalla faccia. La luce diventava sempre più grande a ogni rotazione, allargando le sue increspature fino a inghiottirgli gli arti, il tronco e infine il volto, che al momento del passaggio aveva un’espressione che si può definire solamente estatica. Per chi lo osservava, fu impossibile guardare quel volto spettrale senza provare un po’ di invidia. L’estasi, pensò Artemis. Raggiungerò mai quello stato? Myles mandò all’aria quel momento scalciando furiosamente e facendo schizzare gocce di grasso. — Artemis! Tirami fuori di qui! — gli ordinò. — Questi sono i miei 137 mocassini preferiti! Artemis sorrise: il suo fratellino aveva ritrovato il controllo della propria mente. Myles non volle parlare finché non ebbe pulito le scarpe con uno straccio umido. — Quell’elfa mi ha sporcato le scarpe di fango — brontolò, sorseggiando un secondo bicchiere di succo di açaì. — Sono mocassini di capretto, Arty. — Un tipetto precoce, n’est-ce pas? — bisbigliò Artemis a denti stretti. — Senti chi parla, c’est plus facile — bisbigliò di rimando Leale. Artemis prese in braccio Myles e lo mise seduto sul bordo della scrivania. — Benissimo, ometto. Ho bisogno che adesso tu mi dica tutto quello che ricordi della tua possessione. Presto i ricordi incominceranno a dissiparsi. Il che vuol dire… — So che cosa vuol dire dissiparsi, Arty. Non ho mica tre anni, sai? Spinella sapeva per lunga esperienza che inveire contro Myles e Artemis non sarebbe servito ad accelerare le cose, ma sapeva anche che l’avrebbe fatta stare meglio. E in quel momento si sentiva depressa e sporca per il trattamento che aveva dovuto infliggere a uno dei guerrieri più illustri del Popolo. Inveire contro i Fangosetti poteva essere proprio quello che le ci voleva per tirarsi su di morale. Decise per un pungolamento di medio livello. — Non potreste darvi una mossa? Questa operazione non prevede nessun time-out. Presto sarà mattina. Myles la salutò con un gesto della mano. — Ciao, elfa. Hai una voce buffa. Hai mica respirato dell’elio? L’elio è un gas monoatomico inerte, fra parentesi. Spinella sbuffò. — Oh, è proprio tuo fratello. Ci servono tutte le informazioni che ha nella testa, Artemis. Il ragazzo annuì. — Benissimo. Ci sto lavorando. Myles, che cosa ti ricordi della visita di Gobdaw? — Mi ricordo tutto — rispose orgoglioso il bambino. — Ti piacerebbe sentire il piano di Opal per distruggere l’umanità o come progetta di aprire la seconda serratura? Artemis lo prese per mano. — Ho bisogno di sapere tutto, Myles. Comincia dal principio. — Comincerò dal principio, prima che i ricordi inizino a dissiparsi. Myles raccontò tutto quanto in un linguaggio di una decina d’anni in anticipo sulla sua età. Non divagò dal punto e non fece confusione, e nemmeno parve mai preoccupato per il proprio futuro, e questo perché Artemis aveva 138 ripetuto spesso al suo fratellino che alla lunga l’intelligenza vince sempre, e che al mondo non c’era nessuno più intelligente dello stesso Artemis. Purtroppo, in seguito agli eventi delle ultime sei ore, Artemis non nutriva in quella massima la solita fiducia. E, man mano che Myles procedeva con il suo racconto, cominciò a credere che perfino la sua intelligenza non sarebbe bastata per garantire un lieto fine al pasticcio in cui erano finiti. Forse possiamo farcela, pensò. Però non ci sarà nessun lieto fine. 139 CAPITOLO 14 - I NOVE BASTONI CANTUCCIO, STRATI INFERIORI Polledro non aveva in mente questo gran piano. Tutto quello che sapeva mentre galoppava era che in un modo o nell’altro doveva raggiungere Cavallina. A qualunque costo. È questo che fa l’amore, si rese conto, e in quel momento comprese perché Artemis avesse rapito un elfo per trovare i soldi per salvare il padre. L’amore fa apparire irrilevante ogni altra cosa, si disse. Anche con il mondo che cadeva a pezzi attorno a lui, non riusciva a pensare ad altro che al pericolo che correva la moglie. Ci sono goblin criminali che puntano sulla nostra casa, si ripeteva. Opal sapeva che, in quanto consulente della LEP, Polledro avrebbe preteso che d’abitudine tutte le consegne a casa sua venissero passate ai raggi X, perciò aveva mandato un elaborato pacco regalo che agli scanner sarebbe apparso vuoto, mentre di fatto nessuna scatola può mai essere veramente vuota. Quella doveva essere piena di microrganismi che vibravano ad alta frequenza e producevano un ronzio ultrasonico che avrebbe messo fuori gioco la sorveglianza e fatto impazzire i goblin, tanto da indurli a fare qualunque cosa pur di metterlo a tacere. Anche nelle condizioni migliori, i goblin non erano creature sveglie. In passato si era registrato un solo caso di un goblin capace di vincere un premio scientifico, che si era poi rivelato un esperimento genetico che si era iscritto alla gara. La bomba sonica avrebbe cancellato ogni funzione cerebrale superiore dei goblin e li avrebbe trasformati in rettili predatori sputafuoco. Polledro lo sapeva perché aveva proposto una versione in miniatura della bomba sonica alla LEP come deterrente anticrimine, ma il Consiglio aveva rifiutato di sovvenzionarla perché quell’apparecchio provocava epistassi in chi lo indossava. La Centrale era stata abbattuta ormai per l’ottanta per cento. Rimaneva in piedi solo l’ultimo piano, abbarbicato alla roccia come una patella. I piani inferiori erano crollati sui parcheggi riservati sottostanti, formando una piramide di detriti fumante che mandava scintille. Per fortuna, il ponte coperto che portava al parcheggio contiguo era ancora relativamente intatto. Polledro si affrettò ad attraversarlo, cercando di non vedere i varchi nella 140 pavimentazione dove avrebbe potuto infilarsi uno zoccolo e di non sentire il lamento stridente dei puntoni di metallo che si torcevano sotto il peso di quel carico eccessivo. Non guardare giù. Visualizzati sano e salvo dall’altra parte, si ripeteva. Mentre correva, intere sezioni del ponte crollarono alle sue spalle come tessere di un domino. La porta automatica sull’altro lato era bloccata da un danneggiamento nella rotaia e continuava a sobbalzare, lasciando a malapena spazio perché Polledro potesse infilarcisi in mezzo e poi crollare ansante sul pavimento del quarto piano. È melodrammatico, pensò. Ma Spinella se la passa così ogni giorno? Spronato dal crollo dei muri e dal tanfo di macchine bruciate, il centauro attraversò di corsa il parcheggio per raggiungere il suo furgone, fermo in un posto preferenziale vicino al marciapiede. Il furgone era un vecchio catorcio che poteva facilmente essere scambiato per un trabiccolo abbandonato anziché il mezzo di trasporto di elezione del responsabile della maggior parte dei progressi tecnologici della città. Se qualcuno avesse saputo chi ne era il vero proprietario sarebbe probabilmente stato indotto a credere che Polledro ne avesse camuffato l’esterno per scoraggiare potenziali ladri d’auto. E invece no, il furgone era solo un mucchio di ferraglia arrugginito che aspettava di essere sostituito da decenni. Come molti arredatori non si occupano mai delle proprie abitazioni, Polledro, un esperto in progressi automobilistici, non si curava di quello che guidava, e questo costituiva quotidianamente uno svantaggio in quanto la centauromobile aveva un’emissione di rumori di diversi decibel oltre il consentito e faceva regolarmente scattare gli allarmi sonori di tutta la città. Quel giorno, però, il furgone malandato era decisamente un vantaggio, essendo uno dei pochi veicoli in grado di marciare in maniera indipendente dal sistema di rotaie magnetiche automatizzato di Cantuccio e pertanto perfettamente operativo. Polledro aprì con il telecomando la portiera anteriore e indietreggiò fino alla cabina, in attesa che la imbracatura estensibile sbucasse a imbrigliargli il torso equino. I finimenti gli si agganciarono attorno con un bip continuo, quindi lo issarono a bordo. Quando la portiera ad ala di pipistrello si fu richiusa, i sensori rilevarono la presenza del centauro e avviarono il motore. Gli erano occorsi un paio di secondi per salire e avviare il veicolo, ma gli ci sarebbe voluto molto di più per cercare di salire in una macchina con sei arti e una coda, che alcuni equinologi consideravano un settimo arto o quanto meno un’appendice. Polledro estrasse il volante dallo scomparto nel cruscotto e appoggiò lo 141 zoccolo sul metallo, uscendo dal parcheggio con un grido. — A casa! — urlò al navigatore satellitare sospeso davanti al viso con una pitoncorda. In un momento di vanità, aveva sagomato il monitor a propria immagine. — Il solito percorso, bellissimo? — gli chiese il sistema con un ammiccamento affettuoso. — Negativo — rispose Polledro. — Ignora la velocità normale e i parametri di sicurezza, l’importante è arrivare sul posto il più in fretta possibile. Tutti i limiti comportamentali consueti sono annullati per mio ordine. Se il navigatore avesse avuto le mani, se le sarebbe sfregate. — Era un bel po’ che aspettavo di sentirlo — disse, prendendo il controllo del veicolo. Nella meravigliosa scatoletta intarsiata che Cavallina teneva tra le mani stava succedendo qualcosa. Sembrava che all’interno si stesse accumulando una minuscola nuvola temporalesca. Quell’affare vibrava come un alveare, anche se non produceva il benché minimo rumore. Però qualcosa c’era, una sensazione che la faceva rabbrividire e le faceva lacrimare gli occhi, come unghie invisibili che graffiassero una lavagna mentale. Pazzesco, lo so, ma è così che mi sento, si disse. Scagliò il contenitore lontano, ma non prima che la nuvoletta ne fuoriuscisse e le si posasse sulla mano. La scatola rotolò sotto il tavolino del soggiorno – un gigantesco fungo pietrificato che una volta Spinella aveva definito “un tale stereotipo che mi metterei a urlare” – e rimase là, a emettere qualsiasi cosa fosse quella che stava logorando i nervi a Cavallina. — Che succede, tesoro? — si voltò a chiedere al piccolo Faro, ma lo trovò morto sul pavimento con un filo di fumo che si levava in aria dalla testa. È stata la scatola, suppose. Qualunque cosa fosse, non gliel’aveva mandata Polledro, perché aveva qualcosa di sbagliato. E adesso quello sbaglio era sulla sua mano. Non che Cavallina fosse un centauro schizzinoso, ma avvertiva un senso di pericolo che le faceva quasi cedere le zampe. Sta per succedere qualcosa di brutto. Anche peggio di tutte le brutte cose che sono già accadute oggi, pensò. Molti membri del Popolo sarebbero crollati sotto il peso di circostanze così nefaste, ma se l’universo si aspettava una reazione simile da Cavallina Wanderford Paddox Polledro, allora l’universo avrebbe avuto una bella sorpresa, perché una delle caratteristiche della centaura che aveva attirato Polledro era stato il suo spirito combattivo, uno spirito che non alimentava certo solo con la forza del pensiero positivo. Cavallina aveva raggiunto il 142 livello di fusciacca blu nell’antica arte marziale dei Nove Bastoni, che comprendeva tra le armi anche la testa e la coda. Spesso si allenava con Spinella Tappo nella palestra della LEP, e anzi, una volta, ripensando tutto a un tratto a un suo ex, aveva involontariamente scalciato la piccola elfa al di là di una parete di carta di riso. Cavallina trottò a un alto armadio chiuso a chiave in camera da letto e gli ordinò di aprirsi. Dentro c’era la sua fusciacca blu, che si affrettò a drappeggiare intorno al petto. Se i suoi aggressori erano già per strada, la fusciacca non avrebbe avuto alcuna utilità pratica. Quella che le sarebbe tornata utile sarebbe stata la flessibile canna di bambù lì accanto, che fendeva l’aria con un sibilo e, nelle mani giuste, poteva spellare la schiena di un troll. Avere la canna nel palmo la tranquillizzò, e Cavallina finì per sentirsi un po’ sciocca in perfetta tenuta da Nove Bastoni. Non succederà niente di brutto. È solo una reazione eccessiva, la mia, pensò. E poi la porta di casa esplose. Il sistema di navigazione di Polledro guidò all’impazzata, schiamazzando con una felicità che il centauro non ricordava di avere inserito nel suo programma. E anche se era angosciato da visioni da incubo di Cavallina nelle grinfie di goblin sputafuoco, non poté fare a meno di notare la devastazione fuori dal finestrino: intravedeva nubi di denso fumo e lampi arancioni e blu mentre il suo furgone vi sfrecciava accanto. Agenti della LEP smuovevano i detriti in cerca di sopravvissuti e colonne di fumo si levavano da una decina di punti di riferimento familiari. — Vacci piano — disse, picchiando il monitor del navigatore. — Se arriverò morto non sarò di nessun aiuto per Cavallina. — Calmati, amico — rispose la testolina. — Non saresti di grande aiuto comunque. Cavallina conosce i Nove Bastoni. Che cosa pensi di fare? Lanciare una tastiera? Amico?, pensò Polledro rimpiangendo di avere inserito nel navigatore un chip sperimentale di personalità e rimpiangendo ancora di più che il chip non avesse la sua, di personalità. Però aveva ragione: che cos’avrebbe potuto fare? Se Cavallina fosse rimasta uccisa nel tentativo di salvarlo, sarebbe stata una vera tragedia. D’un tratto Polledro si sentì come un bagnino con la fobia dell’acqua. Sarebbe stato utile, nella situazione? Il navigatore parve leggergli la mente, il che era impossibile, ma Polledro decise di brevettarlo nel caso in cui avesse accidentalmente inventato un robot telepatico. — Devi sfruttare i tuoi punti di forza, amico — gli disse. Ma certo, pensò Polledro. I miei punti di forza. Ma quali sono? E dove 143 stanno? Stavano, ovviamente, sul retro del furgone, dove aveva immagazzinato un migliaio di esperimenti e pezzi di ricambio quasi finiti e quasi legali. Riflettendoci sopra, il centauro si rese conto che in quel furgone c’erano cose che avrebbero potuto aprire un varco nel flusso temporale se si fossero scontrate, ragione per cui molto tempo prima aveva deciso di non pensarci troppo su, perché l’alternativa sarebbe stata svuotare il veicolo. — Tu pensa a guidare — ordinò al navigatore; sgusciò fuori dall’imbracatura e passò dalla cabina al vano di carico. — Devo dare un’occhiata qua dietro. — Attento alla testa, amico — rispose allegro il monitor un attimo prima di affrontare a suon di scrolloni un ponte a schiena d’asino fuori da uno studio dentistico per folletti a forma di gigantesco molare. Quel chip di personalità dev’essere guasto, pensò Polledro. Io non sarei mai così spericolato, e non mi sognerei mai di chiamare qualcuno “amico”. Quando la porta di casa esplose, la reazione di Cavallina fu furiosa. Prima di tutto perché il portone era di palissandro antico e proveniva dal Brasile, e in secondo luogo perché era comunque già aperto e solo un idiota avrebbe sentito il bisogno di far saltare in aria qualcosa che era già socchiuso. Adesso avrebbero dovuto sostituirlo e non sarebbe più stato lo stesso, anche se si fossero recuperati tutti i frammenti. Cavallina si precipitò in ingresso, dove trovò un goblin impazzito che strisciava carponi con sbuffi di fumo che gli uscivano dalle narici piatte e la testa da lucertola che ciondolava di lato come se avesse dentro un calabrone. — Come osi! — urlò, rifilando a quella rettilesca creatura un colpo tale sulla tempia da farla schizzare letteralmente fuori dalla pelle prossima alla muta. Ce l’ho fatta, pensò, convinta che l’assalto fosse finito. Ma un secondo goblin apparve sull’uscio annerito con la testa ciondoloni, alla stessa sconcertante maniera del primo. Altri due incominciarono a grattare alla finestra, e qualcosa prese a raspare nel bidone della spazzatura. Non dirmelo. Un altro goblin, si disse. Cavallina diede le spalle al goblin sull’uscio e gli sferrò un calcio con le zampe posteriori, facendogli uscire uno sbuffo di fumo dalla bocca aperta e spedendolo in volo all’indietro oltre il muro di cinta come se fosse stato appeso a un elastico per bungee jumping. Allo stesso tempo, aprì dei buchi nella finestra con due colpi ben assestati della sua canna di bambù e scacciò i goblin dal davanzale, che era appena stato ridipinto. Attraverso il vetro crepato ne vide decine di altri convergere sulla proprietà e avvertì qualcosa di molto simile al panico vero. 144 Spero che Polledro non venga a casa, pensò, piegando le ginocchia in posa da combattimento. Non credo che riuscirei a salvare entrambi. Polledro frugava nel retro del furgone in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse salvare la sua amata. Anche se potessi chiedere aiuto, pensò, sono tutti immersi fino al collo in qualche disastro. Tocca a me. Il furgone era un’accozzaglia di cianfrusaglie, sui ripiani erano impilate custodie di computer, barattoli di campioni, incubatrici, alimentatori e parti del corpo bioniche. Niente armi. Neppure una pistola, si rese conto. Scovò un barattolo di occhi bioibridi che lo fulminarono e un campione di un qualche liquido che non ricordava di avere messo via. — Trovato niente? — gli chiese il navigatore da un altoparlante al gel installato su un pannello a parete. — Non ancora — replicò Polledro. — Quanto manca? — Due minuti — rispose il navigatore. — Non riesci a fare prima? — Potrei, se investissi un paio di pedoni qua e là. Il centauro prese seriamente in considerazione l’idea. — No, meglio di no. Non c’era un cannone al plasma qui dietro, da qualche parte? — No, lo hai donato all’orfanotrofio. Polledro non perse tempo a chiedersi perché mai avesse donato un cannone al plasma a un orfanotrofio, e continuò a scavare in quell’accozzaglia di roba. Se avessi un’ora di tempo potrei mettere insieme qualcosa, ma due minuti…, pensò. Fibre ottiche. Rovesciatori. Bamboline voodoo. Macchine fotografiche. Niente di utile. Sul fondo del furgone trovò un’obsoleta batteria magica a ioni di litio che avrebbe dovuto buttare da anni. Accarezzò affettuosamente il grosso cilindro. Con una serie di voialtre abbiamo attivato quella famosa stasi temporale a Casa Fowl, pensò. Si fermò di botto. Una stasi temporale! Poteva fermare il tempo, e dentro tutti sarebbero rimasti bloccati finché la batteria non si fosse scaricata. Però le stasi richiedevano calcoli complessi e vettori di precisione, non se ne poteva eseguire una in periferia. Di solito no. Queste però non sono circostanze normali, si disse. Doveva rimanere concentrato. Quasi magia pura, con un diametro non più grande della casa. 145 — Vedo che guardi la batteria magica — disse il navigatore. — Non starai pensando di attivare una stasi temporale, vero, amico? Ti occorrerebbe una decina di permessi. Polledro sincronizzò il timer della batteria con il navigatore, una cosa che Spinella non avrebbe saputo fare neppure in un milione di anni. — Io no — disse. — Io non lo farò. Lo farai tu. Cavallina si era bruciacchiata la pelle e aveva segni di morsi sulle zampe posteriori, ma non intendeva arrendersi. Ormai era circondata da una decina di goblin che addentavano l’aria con gli occhi fuori dalle orbite, resi folli da qualcosa. Altri erano sul tetto e si facevano strada a morsi, e non c’era porta o finestra in cui non vi fosse un ammasso di corpi che si contorcevano. Non ho potuto dirgli addio, rifletté, decisa ad abbattere il maggior numero possibile di quei rettili prima che loro la seppellissero sfruttando la superiorità numerica. Addio, Polledro, ti amo, pensò, sperando che il suo sentimento riuscisse a raggiungerlo in un modo o nell’altro. E poi, suo marito si schiantò con il furgone sul lato della casa. Il navigatore comprese le istruzioni all’istante. — È un piano folle — osservò. — Però è quello che farei io. — Bene — disse Polledro, sistemandosi nell’imbracatura del sedile del passeggero. — Perché lo farai tu. — Ti voglio bene, amico — gli disse l’apparecchietto con una lacrima gelatinosa che gli colava sulla guancia. — Calmati, programma — gli ordinò Polledro. — Ci rivediamo fra un minuto. Cavallina non riuscì a comprendere davvero che cosa accadde subito dopo finché la sua mente non ebbe il tempo di scorrere le immagini. Il furgone da lavoro di suo marito squarciò la casa abbattendo una decina di goblin. La portiera del guidatore si aprì con l’imbracatura allungata, e Cavallina non ebbe il tempo di registrare il fatto che già si sentì sollevare, tirare all’indietro e abbattere a faccia in giù nella nicchia per il posteriore. — Ciao, tesoro — la salutò Polledro con un’allegria prontamente smentita dal sudore nervoso sulla fronte. L’asse del furgone andò in pezzi mentre il retro frenava e il davanti si piantava nel muro di fronte. — La mia casa! — gridò Cavallina, mentre calcinacci piovevano contro le portiere e scintille schizzavano sul parabrezza. Polledro aveva programmato di usare i comandi manuali nella cabina per 146 arrestarla gradualmente a distanza di sicurezza dall’edificio, ma le vetture malandate sono imprevedibili, e quella rotolò su un fianco e schizzò in cortile, affondando la ruota nella fossa di riciclaggio di famiglia dove erano conservati parecchi antenati di Polledro. Sul momento i goblin rimasero confusi, poi i loro poveri sensi torturati rilevarono l’odiata firma sonica sulla mano di Cavallina e voltarono la testa verso la cabina del furgone. Sulla casa erano ormai talmente numerosi che sembrava una creatura gigantesca ricoperta di scaglie verdi. Tutti gonfiarono il petto per scagliare una palla di fuoco. — Bel salvataggio, peccato che non sia stato un successo completo — osservò Cavallina. — Però ho apprezzato il gesto. Il marito l’aiutò a tirarsi su. — Aspetta a dirlo. Prima che una sola sfera di fuoco avesse il tempo di partire, dal retro del furgone uscì un lampo di magia blu che schizzò in alto per sei metri per poi aprirsi in una semisfera di ectoplasma gelatinoso che ricadde ordinatamente sulla casa. — Ritiro tutto — disse Cavallina. — È stato un salvataggio spettacolare. Polledro aveva appena chiuso la mano di Cavallina in un guanto isolante e rassicurato i vicini accorsi che l’emergenza era superata che la stasi si esaurì mettendo in mostra un folto gruppo di docili goblin. — Polledro! — gridò Cavallina. — Il campo di forza blu è esaurito. — Non preoccuparti. Era la tua mano a farli impazzire, ma ho smorzato il segnale. Adesso siamo al sicuro. Cavallina protesse il marito con il proprio corpo, mentre i goblin si allontanavano confusi dalle rovine della casa. — Sono comunque dei criminali, Polledro. — Hanno fatto il loro tempo. Quella era una stasi temporale concentrata. Pura quasi al cento per cento. Cinque secondi per noi sono stati cinque anni per loro. — E perciò sono riabilitati? — volle sapere Cavallina. Polledro si fece strada tra i piccoli fuochi e i mucchietti di macerie, tutto ciò che rimaneva della sua casa. — Non potranno mai esserlo più di così — disse, guidando quei goblin confusi verso i pilastri della porta che ancora resistevano. — Andatevene a casa — li invitò. — Tornate dalle vostre famiglie. Del vano di carico del furgone non rimaneva granché, solo l’ossatura dello chassis e dei cerchioni a pezzi. Polledro infilò la testa nel telaio della portiera e una voce gli disse: — Amico, mi sei mancato. Quanto tempo. Come ce la 147 siamo cavata? Polledro sorrise e diede una pacca al navigatore. — Ce la siamo cavata bene — rispose, e poi aggiunse: — Amico. 148 CAPITOLO 15 - ALLERTA GRILLO CASA FOWL Dopo la dura prova con Gobdaw, Myles si sentì improvvisamente spossato e fu messo a letto con la sua copia laminata della tavola periodica stretta al petto. — La possessione può essere davvero faticosa — osservò Spinella. — Credimi, io lo so. Domattina starà benissimo. I tre erano seduti attorno alla scrivania di Artemis come un consiglio di guerra, cosa che in effetti era. Leale fece l’inventario. — Siamo in due a combattere e non disponiamo neppure di un’arma. Artemis si sentì in dovere di obiettare. — Posso battermi anch’io, se necessario. — Ma non fu convincente neppure per se stesso. — Per Bombarda dobbiamo presumere il peggio — continuò l’eurasiatico, ignorando il fiacco commento del ragazzo. — Per quanto, bisogna ammettere che quel nano ha un modo alquanto spettacolare di farsi gioco della morte. — Qual è il nostro obiettivo, con precisione? — volle sapere Spinella. La domanda era rivolta ad Artemis, il pianificatore. — La Porta dei Berserkr. Dobbiamo chiuderla. — Che cosa facciamo? Scriviamo una letteraccia? — Le armi normali non penetreranno la magia di Opal, anzi, lei ne assorbirebbe l’energia. Però, se avessimo un superlaser, quello potrebbe bastare a sovraccaricare la porta. Sarebbe come spegnere un incendio con un’esplosione. Spinella si picchiettò le tasche. — Be’, sai una cosa? Credo di avere lasciato il mio superlaser a casa. — Neppure tu puoi costruire un superlaser in un’ora — disse Leale, chiedendosi perché Artemis avesse sollevato la questione. Per qualche motivo, di colpo il ragazzo assunse un’espressione colpevole. — Potrei sapere dove trovarne uno. — E dove sarebbe, Artemis? — Nel fienile, sul mio aereo a energia solare. Adesso Leale capiva il motivo dell’imbarazzo di Artemis. — Nel fienile dove avevamo installato la palestra? Dove avresti dovuto fare pratica di autodifesa? 149 — Esatto, proprio quello. Nonostante la gravità della situazione, Leale era deluso. — Me lo avevi promesso, Artemis. Mi avevi detto di avere bisogno di privacy. — Ma è così noioso, Leale. Ci ho provato, davvero, ma non riesco a capire come tu faccia. Prendere a pugni un sacco di cuoio per tre quarti d’ora! — E così ti sei messo a lavorare al tuo aereo a energia solare invece di mantenere la promessa che mi avevi fatto? — Le celle erano così efficienti che rimaneva un po’ di energia, perciò nel tempo libero ho progettato un superlaser leggero e l’ho costruito da zero. — Ovvio. A chi non serve un superlaser sul muso dell’aereo di famiglia? — Avanti, ragazze — li interruppe Spinella. — Smettetela di bisticciare per il momento, d’accordo? Artemis, quanto è potente questo laser? — Oh, più o meno quanto un brillamento solare. Alla concentrazione massima dovrebbe avere potenza sufficiente da aprire un buco nella porta senza ferire nessuno a terra. — Vorrei davvero che ce ne avessi parlato prima. — Non l’ho ancora sperimentato — spiegò il ragazzo. — Non scatenerei mai una potenza del genere a meno che non ci fosse assolutamente nessun’altra alternativa. E, da quanto ci ha detto Myles, non abbiamo altre carte da giocare. — E Juliet non ne sa niente? — chiese Spinella. — No, me lo sono tenuto per me. — Bene, in tal caso forse abbiamo una possibilità. Leale li equipaggiò tutti con tute mimetiche trovate nel suo armadio e costrinse Artemis perfino a sopportare l’applicazione di strisce di cerone nero e verde oliva sulla faccia. — Ma è proprio necessario? — brontolò Artemis. — Decisamente sì — rispose la guardia del corpo, applicando energicamente la pasta. — Certo, se preferisci rimanere qui e lasciare che vada io, allora tu e Myles potreste rilassarvi nei vostri mocassini preferiti. Artemis sopportò la frecciata, presumendo correttamente che Leale fosse ancora un po’ seccato per l’inganno del superlaser. — Devo venire anch’io, Leale. Questo è un superlaser, non un fucile giocattolo. C’è di mezzo tutto un sistema di attivazione e non ho tempo di insegnarvi la sequenza. Leale gli buttò un pesante giubbotto antiproiettile sulle esili spalle. — Va bene. Se devi venire, allora è compito mio proteggerti. Perciò facciamo un patto: se tieni per te tutti i fastidiosi commenti sul peso o sull’inutilità di 150 questo giubbotto che di sicuro ti stanno girando per quel tuo gran cervello, allora io non riparlerò della faccenda del superlaser, d’accordo? Questo giubbotto mi taglia davvero le spalle, pensò Artemis. Ed è così pesante che non riuscirei a correre più veloce neanche di una lumaca. Però rispose: — D’accordo. Quando il sistema di sicurezza di Artemis li ebbe rassicurati che il perimetro era libero, il gruppo sgattaiolò in fila indiana dallo studio, poi attraversò la cucina, passò in cortile e scivolò nel vialetto fra le stalle. Non c’erano sentinelle, e a Leale parve strano. — Non vedo niente. Opal ormai dovrebbe sapere che siamo sfuggiti ai suoi pirati. — Non può permettersi di dislocare forze nuove — bisbigliò Spinella. — La porta è la sua priorità e deve mettere il maggior numero possibile di Berserkr a guardarle le spalle. A questo punto, noi siamo una questione secondaria. — E sarà questa la sua rovina — ansimò il ragazzo, che già soffriva sotto il peso del giubbotto. — Artemis Fowl non è mai una questione secondaria. — Ah, e io che credevo che tu fossi Artemis Fowl Secondo — ribatté Spinella. — È diverso. E comunque io credevo che fossimo in missione. — Hai ragione — ammise Spinella, che poi si girò verso Leale. — Questo è il tuo territorio, amico mio. — Hai ragione. D’accordo. Attraversarono la tenuta con prudente velocità, timorosi di qualsiasi essere vivente che incrociavano. Forse i Berserkr avevano preso il controllo perfino dei vermi della terra o dei grossi grilli, così numerosi nella proprietà, che agitavano le ali alla luce della luna come un’orchestra di piccoli falegnami. — Non schiacciate i grilli — si raccomandò Artemis. — A mia madre piace il loro frinire. Quei grilli, che gli entomologi di Dublino avevano identificato con la sigla GP, erano presenti per tutto l’anno solo nella tenuta dei Fowl e potevano raggiungere le dimensioni di topi. A quel punto Artemis immaginò che dovesse essere un effetto delle radiazioni magiche che filtravano dal sottosuolo. Quello che non avrebbe potuto immaginare era che la magia aveva infettato il sistema nervoso dei grilli sviluppando in loro una certa simpatia per i Berserkr, simpatia che non si manifestava in gruppi di grilli seduti in cerchio attorno a falò in miniatura ad ascoltare storie di valorosi guerrieri del Popolo, bensì in un atteggiamento aggressivo nei confronti di chiunque rappresentasse una minaccia per loro. O per dirla in maniera più semplice: se a Opal non piacevi, allora neanche i grilli ti trovavano granché 151 simpatico. Leale avvicinò piano un piede a un gruppetto di grilli aspettandosi che si spostassero. Ma quelli non lo fecero. Dovrei schiacciarli, questi affari, pensò. Non ho tempo di perdermi in gentilezze con questi insetti. Si voltò. — Artemis — disse. — Questi GP mi sembrano un po’ aggressivi. Il ragazzo si lasciò cadere sulle ginocchia, affascinato. — Guardate, non danno il benché minimo segno di naturale prudenza. Sembra quasi che non gli piacciamo. Dovrei davvero fare uno studio di laboratorio. L’insetto più grande del mucchio spalancò le mascelle, diede un balzo e lo morse su un ginocchio. Anche se i suoi denti non penetrarono oltre la stoffa pesante dei pantaloni militari, Artemis indietreggiò bruscamente per lo shock, e sarebbe finito col sedere a terra se Leale non lo avesse afferrato e non fosse partito di corsa con il suo capo stretto sotto l’ascella. — Lasciamo quello studio di laboratorio per un’altra volta. Il ragazzo era incline a concordare. I grilli li seguirono, con le zampe posteriori che andavano su e giù come stantuffi per slanciarli in aria. Saltarono all’unisono, un’animata onda verde che replicava esattamente il percorso di Leale. A quell’onda si unirono sempre più insetti, che sbucavano da avvallamenti nel paesaggio e buchi nel terreno, un’onda che avanzava crepitando tanto i grilli erano fitti. Meno male che non volano, pensò Leale. Altrimenti non avremmo scampo. Artemis trovò un punto d’appoggio, si liberò dalla stretta di Leale e si mise a correre. Aveva il grosso grillo ancora attaccato al ginocchio, impegnato con la stoffa dei pantaloni. Il ragazzo gli rifilò una manata e gli parve di colpire una macchinina giocattolo: il grillo era ancora lì e adesso gli faceva male il palmo. In circostanze simili perfino per lui pensare era difficile, o piuttosto gli riusciva difficile afferrare un pensiero sensato dal vortice che gli sibilava tra i meandri del cervello. Grilli. Grilli assassini. Giubbotto antiproiettile pesante. Troppo rumore. Troppo. Grilli impazziti. Forse ho di nuovo le allucinazioni, si ripeteva. — Quattro! — urlò, tanto per essere sicuro. — Quattro. Leale indovinò cosa stava facendo il suo capo. — Sta succedendo davvero. Non preoccuparti, non è la tua immaginazione. Artemis avrebbe quasi voluto che lo fosse. — È grave! — urlò, cercando di superare il rumore del cuore che gli batteva negli orecchi. — Dobbiamo arrivare al lago — disse Spinella. — I grilli non sono bravi 152 nuotatori. Il fienile era costruito in cima a una collina che dava su un lago conosciuto come “la Pozza Rossa” per il modo in cui lo si vedeva brillare al tramonto dalla finestra del soggiorno della casa. L’effetto era spettacolare, come se le fiamme dell’Ade fossero in agguato sotto il pelo dell’acqua. Di giorno campo da gioco per gli anatroccoli, di notte porta per l’inferno. L’idea che una massa d’acqua potesse avere un’identità segreta aveva sempre divertito Artemis ed era uno dei pochi argomenti in cui lasciava libero sfogo alla sua fantasia. Adesso invece quel lago gli sembrava soltanto un porto sicuro. Probabilmente il peso di questo giubbotto mi tirerà a fondo, rifletté. Spinella gli stava addosso e continuava a rifilargli gomitate nel fianco. — Sbrigati! — gli diceva. — Togliti dalla faccia quell’espressione vacua. Ricordati che ci sono dei grilli assassini che ci danno la caccia. Artemis allungò il passo cercando di correre veloce come aveva visto spesso fare a Leale, apparentemente senza fatica, come se correre per mezza giornata non richiedesse un grande sforzo. Attraversarono in un lampo una serie di orti separati con staccionate di fortuna fatte di paletti e arbusti. Leale travolgeva tutto quello che gli sbarrava la strada. I suoi scarponi schiacciavano le patate novelle aprendo un passaggio per Artemis e Spinella. I grilli non incontravano ostacoli, si limitavano a girarci attorno o a passarci in mezzo senza apparentemente perdere il ritmo. Il rumore che producevano era fitto e sinistro, una cacofonia di borbottii. Insetti infidi. I capifila del gruppo mordevano gli stivali di Spinella e si avvinghiavano alle sue caviglie, dandoci dentro senza posa con le mascelle prepotenti. L’istinto dell’elfa le diceva di fermarsi e di spazzarli via, ma il suo addestramento da soldato le ordinava di continuare a correre sopportando i morsi. Fermarsi in quel momento sarebbe sicuramente stato un errore fatale. Sentiva che le si arrampicavano su per le caviglie, avvertiva i carapaci che si schiacciavano sotto i suoi piedi. Era come correre su un campo disseminato di palline da ping pong. — Quanto manca? — gridò. — Quanto manca? — Leale le rispose alzando due dita. E questo che vuol dire? Due secondi? Venti secondi? Duecento metri?, si chiese. Continuarono a correre in mezzo agli orti e giù per la collina arata verso il bordo dell’acqua. La luna si rifletteva sulla superficie dell’acqua, e dall’altra parte spuntava il dolce pendio della pista dell’aereo di Artemis. Ormai i grilli 153 li avvolgevano, avevano già raggiunto la vita di Spinella. Arrivavano a sciami da ogni parte della tenuta. Non abbiamo mai avuto problemi con i grilli, pensò Artemis. Da dove saltano fuori? Ne avvertivano i morsi sulle gambe, simili a piccole ustioni; correre era diventato quasi impossibile, con i grilli che si contorcevano ricoprendo tutti i loro arti. Spinella fu la prima a soccombere, poi toccò ad Artemis, entrambi convinti che quello fosse senz’altro il peggior modo possibile di morire. Il ragazzo aveva smesso di dimenarsi quando una mano era penetrata in quel ronzio elettrico e lo aveva liberato da quel pantano. Alla luce della luna vide un grillo avvinghiato al suo naso e sollevò una mano per schiacciarlo fra le dita. Il corpo scricchiolò, e per la prima volta Artemis avvertì la scarica di adrenalina della lotta. Avrebbe avuto voglia di spiaccicarli tutti quanti. Ovviamente, a salvarlo era stato Leale, e mentre penzolava dalla morsa della guardia del corpo, il ragazzo vide Spinella che pendeva dall’altra mano. — Fate un respiro profondo — disse Leale, e li buttò nel lago. Cinque minuti dopo, Artemis arrivò ansante sull’altra riva, tutto intero tranne per il giubbotto, cosa sulla quale era certo Leale avrebbe avuto da ridire, ma aveva dovuto scegliere se sbarazzarsi del giubbotto o affogare, e aveva ritenuto che essere invulnerabile ai proiettili non gli sarebbe servito granché sul fondo di un lago. Fu un sollievo per lui ritrovarsi di fianco a Spinella e alla sua guardia del corpo, che sembravano decisamente meno affannati di lui. — Abbiamo seminato i grilli — disse Leale, al che l’elfa scoppiò in una serie di risatine isteriche che soffocò con la manica grondante acqua. — Abbiamo seminato i grilli — ripeté. — Neppure tu riesci a farlo sembrare brutale. L’eurasiatico si sfregò il testone rasato. — Io sono Leale — disse serio. — Tutto quello che dico è brutale. E adesso, fuori dal lago, elfa. Ad Artemis sembrava che i suoi vestiti e gli stivali dovessero avere assorbito metà dell’acqua del lago, a giudicare da quanto pesavano, mentre si trascinava dolorosamente all’asciutto. Spesso aveva notato gli attori negli spot in TV uscire con grazia dalle piscine, ma lui era sempre stato costretto ad arrampicarsi dalla parte con il fondo basso o a lasciarsi cadere sulla pancia sul bordo della vasca. La sua uscita dal lago fu ancor meno aggraziata, un misto fra una contorsione e uno sfarfallamento che avrebbe ricordato a chi lo avesse visto i movimenti di una goffa foca. Alla fine, Leale lo liberò da 154 quella situazione di difficoltà mettendogli una mano sotto un gomito. — Vieni fuori, Artemis, il tempo stringe. Il ragazzo si rialzò, con rivoli di acqua fredda che gli colavano dai pantaloni. — Ci siamo quasi — disse Leale. — Duecento metri. Da tempo il ragazzo aveva smesso di ammirare la capacità della sua guardia del corpo di separare le sue emozioni in compartimenti. A rigore, dopo quello che avevano passato sarebbero dovuti essere sotto shock tutti e tre, ma Leale era sempre stato bravo a rinchiudere i traumi in un cassetto per affrontarli in un secondo tempo, quando il mondo non fosse stato più a rischio di finire da un momento all’altro. Al giovane Fowl bastava stare al suo fianco per sentirsi forte. — Che stiamo aspettando? — chiese dunque, incamminandosi su per la collina. Il frinire dei grilli si attenuò alle loro spalle finché non si confuse con il vento che soffiava tra i pini, e nella breve corsetta su per la salita non incontrarono altri avversari animali. Arrivarono in cima alla collina, dove il fienile era incustodito. E perché non sarebbe dovuto essere così? Dopotutto, che razza di stratega abbandona una roccaforte per nascondersi in un fienile altamente infiammabile? Finalmente un colpo di fortuna, pensò Artemis. Qualche volta è utile essere complicati. Dentro il fienile furono fortunati ancora una volta: Leale recuperò una Sig Sauer da una cassaforte a combinazione inchiavardata al lato cieco di un travetto. — Non sei l’unico ad avere i tuoi segreti qui dentro — disse ad Artemis con un sorriso mentre controllava il funzionamento della pistola. — Fantastico — commentò secca Spinella. — Adesso sì che possiamo far fuori una decina di cavallette. — Grilli — la corresse Artemis. — Ma vediamo di mettere in aria questo aereo e di aprire una falla nei piani di Opal, piuttosto. La fusoliera e le ali del leggero velivolo erano rivestite da pannelli solari che alimentavano il motore per il decollo. Una volta in aria, l’aereo poteva passare dal volo motorizzato al volo a vela, a seconda delle istruzioni del computer. Se un pilota aveva voglia di prendersela comoda e di lasciarsi trasportare dalle correnti, poteva usare il motore solo per il decollo, e alcuni voli potevano addirittura svolgersi senza emissioni di carbonio. — Quell’aereo laggiù — disse Leale. — Oltre il sacco da boxe inutilizzato e i manubri scintillanti con le maniglie nuove. Artemis gemette. — Esatto, quell’aereo. Adesso potresti lasciar perdere i 155 manubri e tirare via i blocchi sotto le ruote mentre io metto in moto? — disse. — Lasciamo chiusa la porta finché non siamo pronti per il decollo. — Ottimo piano — convenne Spinella. — Fammi dare un’occhiata all’interno. Corse dall’altra parte del fienile, lasciando per terra una serie di impronte di fango, e aprì il portellone posteriore dell’aereo. Il velivolo, che Artemis aveva battezzato Khufu dal nome del faraone per cui gli antichi Egizi avevano costruito una chiatta solare, era un leggero apparecchio sportivo radicalmente modificato dal ragazzo nel tentativo di progettare un pratico aeromobile verde per il trasporto di passeggeri. Le ali erano del cinquanta per cento più lunghe di prima, con montanti microfini sopra e sotto. Ogni superficie, compresi i coprimozzo, era rivestita da pannelli solari per ricaricare la batteria in volo. Dal manicotto di coda del Khufu al lato del tetto del fienile rivolto a sud correva un cavo di alimentazione, in modo che l’aereo avesse una carica sufficiente per il decollo ogni volta che Artemis avesse desiderato fare un volo di prova. La testa di Spinella emerse dal buio dell’abitacolo. — Tutto libero — annunciò sottovoce, temendo che un rumore troppo forte potesse mettere fine alla buona sorte. — Ottimo — disse Artemis correndo al portellone, mentre già ripassava dentro di sé la sequenza di messa in moto. — Leale, ti dispiace aprire la porta non appena avvio il motore? La guardia del corpo annuì, scalciando il cuneo bianco di legno da sotto la ruota anteriore. Ne mancavano due. Artemis salì a bordo e comprese all’istante che qualcosa non andava. — Sento un odore. Il profumo di Juliet. Si inginocchiò fra i sedili e strattonò il portello che chiudeva uno scomparto sottostante. La cassetta era piena di spessi cavi e al centro c’era uno spazio rettangolare dove ci sarebbe dovuto essere qualcosa a forma di scatola. — La batteria? — chiese Spinella. — Già. — Perciò non possiamo decollare? Artemis lasciò andare il portello con un tonfo. Ormai il rumore non aveva più importanza. — Non possiamo decollare. Non possiamo fare niente. Leale ficcò la testa nell’abitacolo. — Perché non ci mettiamo a fare rumore tutti insieme? — Un’occhiata alla faccia di Artemis fu la risposta che gli occorreva. — Dunque è una trappola. A quanto pare, Juliet ti teneva d’occhio più da 156 vicino di quanto non credessimo. — Estrasse la Sig Sauer dalla cintura. — Va bene, Artemis, tu resta qui. Adesso tocca ai soldati. Quindi la sua faccia si tese in un’espressione di sorpresa e di dolore mentre un lampo di magia saettava dall’esterno dentro al fienile e gli avvolgeva la testa e il tronco, fondendo in maniera definitiva ogni follicolo capillare sulla testa della guardia del corpo e ricacciandolo nel retro dell’aereo, dove rimase esanime. — Era una trappola — confermò tetra Spinella. — E noi ci siamo cascati in pieno. 157 CAPITOLO 16 - UN COLPO DI AVVERTIMENTO Bombarda Sterro non era morto, però aveva scoperto i limiti delle proprie capacità digestive: era davvero possibile mangiare troppi conigli. Era disteso sulla schiena, nel tunnel semicrollato, con lo stomaco teso come la buccia di una pesca matura. — Uuugh! — gemette, rilasciando una scarica di gas che lo scagliò in avanti di tre metri. — Adesso va leggermente meglio. Ci voleva un bel po’ per distogliere Bombarda dal cibo, ma dopo quell’ultima abbuffata di coniglio con pelliccia e tutto, non credeva che sarebbe riuscito a mettere gli occhi sopra un altro per almeno una settimana. Però magari un bel leprotto. Con le carote, pensò. Ma i conigli continuavano ad arrivare, con quel sibilo sinistro, e gli si ficcavano giù per il gargarozzo come se non vedessero l’ora di farsi maciullare la testa. Diavolo, perché non tutti i conigli erano altrettanto spregiudicati? Avrebbero semplificato di molto la caccia. Non sono stati i conigli in sé a restarmi sullo stomaco, si rese conto Bombarda. Sono i Berserkr che hanno dentro. Le anime dei guerrieri nordici non potevano trovarsi troppo a loro agio all’interno del suo stomaco. Prima di tutto, aveva le braccia coperte di tatuaggi runici in quanto i nani avevano un timor panico della possessione e, in secondo luogo, da tempo immemorabile la saliva dei nani veniva usata per tenere lontano gli spiriti. Perciò, non appena i loro ospiti conigli morivano, gli spiriti dei guerrieri si trasferivano nell’aldilà a una velocità mai vista. Non si dirigevano con calma verso la luce, no, piuttosto schizzavano ululando nel cielo. L’ectoplasma lampeggiava sciaguattando nelle viscere di Bombarda, il che gli provocava un gran bruciore di stomaco e gli ustionava dolorosamente la curva inferiore della pancia. Dopo forse un’altra decina di minuti di autocommiserazione e di graduale sgonfiamento, Bombarda si sentì pronto a muoversi. Provò ad agitare mani e piedi, e quando si fu assicurato che lo stomaco non reagisse con troppa violenza, rotolò carponi. Devo andarmene di qui, pensò. Lontano, lontano dalla superficie, prima che Opal scateni il potere di Danu, se una cosa del genere esiste davvero. Bombarda sapeva che se si fosse trovato nelle vicinanze quando fosse accaduto qualcosa di terribile, la LEP avrebbe cercato di affibbiare a lui la colpa di quel disastro. 158 “Guardate, c’è Bombarda Sterro. Arrestiamolo e buttiamo via il chip di accesso. Caso chiuso, Vostro Onore.” D’accordo, magari non sarebbe andata proprio così, però era un fatto che ogni volta che si levava un dito accusatore, in un modo o nell’altro la punta finiva sempre per indicare dalla sua parte e, come aveva detto una volta il suo avvocato: — Il tre o il quattro per cento delle volte il mio cliente non è al cento per cento responsabile del crimine specifico del quale è stato accusato, il che sta a indicare che esiste un numero significativo di casi in cui il coinvolgimento del signor Bombarda nei suddetti incidenti è trascurabile, seppure egli possa essere stato tecnicamente coinvolto in un’infrazione attigua alla scena del crimine in una data lievemente differente da quella riportata sul mandato d’arresto della LEP. — Una tesi, questa, che era rimasta famosa e aveva fatto saltare tre mainframe analitici e lasciato perplessi gli esperti per settimane. Bombarda sorrise nel buio e i suoi denti luminosi illuminarono la galleria. Avvocati. Tutti dovrebbero averne uno. — Oh, be’ — disse ai vermi che si contorcevano sulle pareti. — È ora di andare. Addio, vecchi amici. Noi ci abbiamo provato, ma non si può vincere sempre. La codardia è la chiave della sopravvivenza, Spinella. Non sei mai riuscita a capirlo, disse fra sé. Bombarda diede un gran sospiro che finì con un rutto fragoroso: sapeva che stava solo cercando di imbrogliare se stesso. Non posso scappare, pensò. Perché lì era in gioco molto di più della sua vita, era in gioco la vita stessa. Molta vita, che stava per essere spenta una volta per tutte da una folletta impazzita. Non intendo fare promesse eroiche, si consolò. Voglio solo dare una sbirciatina alla Porta dei Berserkr per vedere in che guaio siamo. Forse Artemis ha già recuperato la situazione e io potrò tornare nelle mie gallerie. Magari portandomi dietro qualche capolavoro di valore inestimabile per tenermi compagnia: non me lo meriterei, forse? Man mano che Bombarda avanzava, il suo stomaco, ancora gonfio e sempre impegnato a emettere strani rumori animali, sfiorava il pavimento del tunnel. Mi rimane abbastanza energia per scavare per altri sei metri, si rese conto. Poi basta, o le pareti del mio stomaco si romperanno. Il nano appurò invece di non dover ingoiare neppure un boccone di argilla del tunnel. Quando alzò lo sguardo, incrociò un paio di scintillanti occhi 159 rossi. E sotto quegli occhi c’erano affilate zanne che spuntavano dal buio e una testa di riccioli irsuti tutto attorno. — Rooozzo — disse il troll, e Bombarda scoppiò a ridere. — Davvero? Dopo tutto quello che ho passato oggi! — Rooozzo — ripeté il troll, avanzando minaccioso mentre stille di veleno paralizzante gli gocciolavano dalle zanne. Bombarda attraversò la fase della paura, poi quella del panico, e arrivò dritto alla rabbia e all’indignazione. — Questa è casa mia, troll! — gridò avanzando. — Io ci abito, qui. Credi davvero di poter catturare un nano? In un tunnel? In effetti, Rozzo la pensava proprio così e dunque accelerò, sebbene le pareti del tunnel ostacolassero la sua andatura naturale. Lui è molto più grosso di un coniglio, pensò Bombarda, e subito dopo i due si scontrarono confondendosi in un’unica macchia di avorio, carne e grasso, e producendo esattamente il rumore che ci si aspetterebbe di sentire quando una leggera macchina da guerra urta un corpulento nano che soffre di flatulenza. Nel fienile, Artemis e Spinella erano in una situazione abbastanza disperata. Gli rimanevano solo due proiettili in una pistola che Spinella riusciva a malapena a sollevare e che Artemis non sapeva usare per colpire la porta del fienile, nonostante lui fosse il più vicino. Si acquattarono sul fondo dell’aereo, aspettando che fossero i guerrieri a sferrare il loro attacco. Leale, privo di sensi, era riverso sui sedili posteriori con il fumo che gli usciva letteralmente dagli orecchi, un sintomo che non era mai stato diagnosticato come positivo da nessun professionista. Spinella gli cullava la testa e gli premeva delicatamente i pollici nelle cavità oculari, spremendo nel cranio della guardia del corpo l’ultima goccia di magia. — Sta bene — disse ansimando. — Però quel fulmine gli ha fermato il cuore per un po’. Se non fosse stato per il Kevlar che ha in petto… L’elfa non finì la frase, ma Artemis sapeva che per l’ennesima volta la sua guardia del corpo era scampato alla morte per un soffio, e “ennesima” è il limite assoluto di vite supplementari che l’universo fornisce a chiunque. — Il suo cuore non sarà più lo stesso, Artemis. Basta scherzi. Resterà privo di sensi per ore — disse l’elfa, controllando il portellone della fusoliera. — E i Berserkr si stanno preparando a fare la loro mossa. Qual è il piano, Arty? — Un piano ce l’avevo — rispose il ragazzo, stordito. — E non ha funzionato. 160 Spinella gli scrollò con violenza una spalla, e lui sapeva che il suo prossimo passo sarebbe stato prenderlo a schiaffi in faccia. — Avanti, Fangosetto, riscuotiti. Avrai tutto il tempo che ti serve per dubitare di te stesso più tardi. Artemis annuì. Quello era il suo compito. Lui era il pianificatore. — Benissimo. Spara un colpo di avvertimento. Non possono sapere quanti proiettili ci restano, e potrebbe indurli a fermarsi, darmi un momento per pensare. Gli occhi di Spinella parlavano chiaro, e quello che dicevano era: “Un colpo di avvertimento? Questo avrei potuto anche pensarlo da sola, genio!” Ma non era quello il momento per prendere a calci la sicurezza già vacillante di Artemis, perciò l’elfa prese la Sig Sauer di Leale e socchiuse un finestrino appoggiando la canna sul telaio. Questa pistola è così grossa e rigida, pensò. Nessuno potrebbe certo biasimarmi se per sbaglio colpissi qualcosa. Negli assedi, è normale mandare qualcuno in ricognizione, dove “mandare” è un modo gentile di dire “sacrificare”. E i Berserkr avevano deciso di fare proprio questo, ordinando a uno dei cani da caccia dei Fowl di andare a dare un’annusata in giro. Il grosso segugio fece una corsetta sotto i raggi di luna che filtravano dalla porta del fienile, con l’intento di nascondersi nel buio. Non così in fretta, pensò Spinella, e sparò un proiettile solo che centrò il cane su una scapola come un colpo di martello, rispedendolo all’esterno, dai suoi compagni. Oops, pensò l’elfa. Avevo mirato alla zampa. Quando il velivolo ebbe finito di vibrare e l’eco dello sparo si fu spenta nella testa di Artemis, il ragazzo chiese: — Colpo d’avvertimento, giusto? Spinella si sentiva un po’ in colpa per il cane, ma se qualcuno di loro fosse sopravvissuto, avrebbe potuto sbarazzarsi del rimorso con un po’ di terapia. — Oh, li abbiamo avvertiti eccome. Ora hai il tuo minuto per pensare. Il cane era uscito dal fienile molto più in fretta di quanto non ci fosse entrato. Bellico e la sua cricca magica furono ben più che un po’ gelose quando videro l’anima veleggiare via dal cadavere dell’animale con un rapido sorriso prima di sparire in un lampo azzurro, diretta all’altro mondo. — Non abbiamo bisogno di entrare — disse Kisch il pirata, richiudendo piano la porta. — Basta che gli impediamo di uscire. Bellico non era d’accordo. — L’ordine è di ucciderli, e da qui non possiamo farlo, giusto? E magari c’è qualcosa là dentro, di cui la mia ospite, Juliet, non sa nulla. Un altro tunnel oppure una mongolfiera. Perciò entriamo. Opal era stata molto precisa quando Bellico le aveva dato le informazioni sul 161 Khufu. — La mia ospite è la custode dei piccoli Fowl — aveva detto Bellico. — Myles è un tipo molto curioso e ha seguito Artemis nel suo laboratorio in collina. E Juliet ha seguito il ragazzo. Là dentro c’è un velivolo alimentato dal sole. Forse è un qualche tipo di arma. Opal aveva interrotto il suo incantesimo. — Artemis non ha altra scelta se non andare a cercarlo. Prendi con te una squadra e togliete la batteria dell’aereo, poi aspettate che arrivino al laboratorio. — Quindi aveva preso Bellico per un braccio e le aveva affondato le unghie nella carne. Un fiotto di energia era passato dal cuore al braccio di Opal, e da lì in quello di Bellico, che provò un’improvvisa ondata di nausea e comprese che la magia era veleno. — Questa è magia nera e ti divorerà l’anima — le aveva detto Opal. — Devi liberartene al più presto. Ce n’è a sufficienza per un lampo. Fattela bastare. La Berserkr si era portata la mano davanti alla faccia, guardando la magia che le si arrotolava attorno alle dita. Un lampo, aveva pensato. Quanto basta per abbattere quello grosso. Spinella camminava avanti e indietro attorno ad Artemis. Il ragazzo era immerso in una delle sue riflessioni e odiava essere interrotto, ma sotto la porta del fienile c’era movimento e si vedevano ombre spostarsi a zig zag alla luce della luna, perciò il suo istinto di soldato le diceva che il loro rifugio stava per essere violato. — Artemis — disse in tono ansioso. — Artemis, hai niente? Lui aprì gli occhi e si scostò un ciuffo di capelli scuri dalla fronte. — Niente. Non c’è un piano razionale che possa salvare anche uno solo di noi, se Opal riuscirà ad aprire la seconda serratura. Spinella tornò al finestrino. — Be’, allora il primo che entra si beccherà un altro colpo di avvertimento. Bellico ordinò ai suoi arcieri di schierarsi in fila fuori dalla porta scorrevole del fienile. — Quando la porta si apre, sparate tutto quello che avete. E poi facciamo irruzione. L’elfa avrà tempo per due colpi, non di più. E se qualcuno di noi dovesse rimanere ucciso, be’, sarà una fortuna per lui. I guerrieri cinesi, con i resti mummificati sigillati dentro i sepolcri di argilla incantati, non potevano parlare, però annuirono rigidamente preparando i loro enormi archi. — Pirati — gridò Bellico. — Piazzatevi dietro gli arcieri. — Non siamo pirati — ribatté stizzito Kisch Lorenz, grattandosi una gamba. 162 — Abbiamo soltanto preso in prestito un corpo da pirata, non è vero, compagni? — Corpo di mille balene, capitano! — urlarono i suoi uomini. — Lo ammetto, possono davvero sembrare un po’ pirateschi, ma è perché ti prende dentro — confessò Lorenz un po’ imbarazzato. — Altri due giorni in questo corpo e potrei guidare un brigantino tutto da solo. — Capisco — disse Bellico. — Presto saremo riuniti ai nostri antenati. Il nostro dovere sarà compiuto. — Bau! — latrò con sentimento il cane restante senza riuscire a resistere al bisogno del proprio ospite di annusare gli altri. La Berserkr strinse le dita di Juliet attorno alla maniglia della porta, valutandone il peso. — Ancora un attacco glorioso, miei prodi guerrieri, e gli umani saranno sconfitti per sempre. I nostri discendenti potranno vivere in pace in eterno. Il momento vibrava per la violenza ormai prossima. Spinella sentiva che i Berserkr si stavano preparando psicologicamente. Tocca a me, si rese conto. Devo salvare tutti noi. — Va bene, Artemis — sbottò secca. — Arrampichiamoci sui travetti. Forse i guerrieri ci metteranno un po’ di tempo a trovarci, tempo che potrai occupare a fare piani. Il ragazzo sbirciò attraverso il portello, sopra la spalla dell’elfa. — Troppo tardi — disse. La porta del fienile scorreva su rotelline ben oliate e nel rettangolo di luce apparvero le sagome di sei implacabili guerrieri d’argilla cinesi. — Arcieri! — mormorò Spinella. — Pancia a terra. Artemis sembrava intontito davanti al crollo totale dei suoi piani. Si era comportato in maniera scontata. Da quando era diventato così prevedibile? Spinella vide che le sue parole non penetravano nella testa dell’amico e si rese conto che Artemis aveva due grossi punti deboli. Il primo: era impedito non soltanto dalle articolazioni, ma anche da una mancanza di coordinazione che avrebbe messo in imbarazzo un bambino di quattro anni. Il secondo: faceva talmente affidamento sulla superiorità del proprio intelletto che raramente preparava un piano B. Se il piano A avesse fatto cilecca, non avrebbe avuto un’alternativa. Come ora. Spinella gli si scagliò addosso, si avvinghiò al tronco e lo atterrò nello stretto corridoio. Un secondo dopo dall’esterno provenne l’ordine. — Fuoco! Era la voce di Juliet. Che ordinava l’assassinio di suo fratello. 163 Come i veterani di ogni guerra sanno fin troppo bene, il bisogno di guardare lo strumento della propria morte è quasi travolgente. E Spinella avvertì quel bisogno in quel momento preciso, e cioè di mettersi a sedere a guardare le frecce che volavano verso il bersaglio. Però resistette, si costrinse a buttarsi giù, schiacciando se stessa e Artemis nel corridoio contro l’acciaio ondulato. Frecce lunghe un metro perforarono la fusoliera, facendo traballare l’aereo sul carrello e conficcandosi nella tappezzeria dei sedili. Una arrivò talmente vicina a Spinella che le passò perfino attraverso la spallina, inchiodandola al sedile. — D’Arvit! — esclamò l’elfa, liberandosi con uno strattone. — Fuoco! — fu il comando dall’esterno, e all’istante l’aria fu satura di fischi. Sembrano uccelli, pensò Spinella. Ma non lo erano. Era una seconda raffica. Tutte le frecce centrarono il velivolo, distruggendo i pannelli solari; una addirittura si infilò tra due finestrini. L’aereo fu spinto di lato e si inclinò sull’ala di dritta. E di nuovo l’ordine. — Fuoco. — Ma questa volta non ci fu nessun sibilo, si udì solo un secco crepitio. Spinella cedette alla curiosità e si arrampicò sul pavimento inclinato fino al finestrino per sbirciare all’esterno. Juliet stava accendendo le frecce dei soldati di terracotta. Oh, pensò l’elfa. Quel tipo di fuoco. Bellico sbirciò all’interno del fienile e fu lieta di vedere il velivolo inclinato su un fianco. La memoria della sua ospite le assicurò che quell’aereo aveva davvero volato in cielo con l’energia del sole ad alimentare il suo motore, ma la Berserkr trovava difficile crederci. Forse i sogni e i ricordi di quell’umana si erano mescolati, e adesso a Bellico le fantasie apparivano realtà. Prima uscirò da questo corpo, meglio sarà, pensò. Arrotolò una matassa di fieno per farne una torcia e le diede fuoco con un accendino trovato nella tasca della ragazza. Questa macchina da fuoco però è reale, pensò. E nella meccanica non è poi così lontana da un semplice acciarino. Una torcia di fieno non avrebbe bruciato a lungo, ma quanto bastava per dar fuoco alle frecce dei suoi guerrieri. Passò in rassegna la fila, toccando appena le punte delle frecce, che erano state intrise di carburante da una tanica forata. D’un tratto il cane alzò la testa liscia e lucente e abbaiò alla luna. Bellico stava per chiedergli quale fosse il problema, quando anche lei avvertì qualcosa. Ho paura, si rese conto. Perché mai dovrei aver paura di qualcosa quando desidero la morte? La Berserkr lasciò cadere la torcia che le bruciava le dita, ma nel secondo 164 prima di calpestarne la brace morente, le parve di scorgere qualcosa di familiare precipitarsi nel pascolo a est. Un’inconfondibile sagoma traballante. No, pensò. Non è possibile. — Ma è… — riuscì a dire indicando con un dito. — Può essere? Il cane riuscì ad avvolgere le corde vocali attorno a una sola sillaba che non si allontanava troppo dalla sua portata canina. — Troll! — latrò. — Trooollll! E non soltanto un troll, si rese conto Bellico. Un troll con il suo cavaliere. Bombarda Sterro era avvinghiato alla nuca del troll con una manciata di riccioli in ciascuna mano. Sotto di lui i muscoli delle spalle del troll si tendevano e si rilasciavano a ogni ondeggiamento. Ora, “ondeggiamento” magari non è proprio la parola più esatta, in quanto implica una certa lenta goffaggine, ma mentre il troll effettivamente sembrava barcollare, lo faceva a una velocità incredibile. E quella non era che una delle numerose armi del considerevole arsenale di un troll. Se la vittima notava un troll arrivare da lontano borbottando, pensava subito: Va bene, sì, vedo un troll, ma sarà a un milione di chilometri di distanza, perciò ho ancora tutto il tempo di finire di mangiare questa foglia, e subito… BAM!, era il troll a mangiare la zampa posteriore della sua preda. Bellico, però, aveva visto spesso la brigata di trollieri in azione e sapeva esattamente a quale velocità potesse muoversi un troll. — Arcieri! — urlò, sguainando la spada. — Nuovo bersaglio. Voltarsi, voltarsi! L’esercito di terracotta si incamminò scricchiolando con una pioggia di polvere rossa che cadeva dalle giunture. Con lentezza, con una lentezza dolorosa. Non ce la faranno, si rese conto la Berserkr, e poi ebbe uno di quei momenti in cui ci si attacca a tutto. Forse quel troll e il suo cavaliere stanno dalla nostra parte. Purtroppo per i guerrieri, il trolliere non stava affatto dalla loro parte, e il troll faceva solo quello che gli veniva detto. Quando emerse dall’ombra della notte al pallido bagliore lunare che inondava il pascolo, Rozzo era effettivamente uno spettacolo spaventoso. Anche per un troll era un esemplare enorme, alto più di due metri e mezzo, con i riccioli che gli balzellavano sulla schiena aggiungendo l’illusione di un altro mezzo metro. La fronte marcata era come un ariete di sfondamento su un paio di occhi scintillanti nella notte. Da una mascella spuntavano due zanne infide rivolte all’insù, con gocce di veleno luccicanti alle estremità 165 appuntite. Un’irsuta sagoma umanoide dotata di muscoli e tendini e di mani con la forza di sbriciolare piccole rocce e grosse teste. Bombarda strattonava i riccioli di Rozzo, rispolverando per istinto una tecnica di guida dei troll vecchia di secoli. Attorno al falò di sputo, suo nonno gli aveva raccontato spesso storie sui grandi trollieri che imperversavano per la campagna facendo quello che volevano visto che nessuno riusciva anche solo a fermarli per discutere. — Bei vecchi tempi — concludeva il nonno. — Noi nani eravamo re. Perfino i demoni facevano dietrofront quando vedevano un nano scendere da una collina a cavallo di un troll coperto di sudore. Questi però non mi sembrano bei tempi, pensò Bombarda. Mi pare più la fine del mondo. Il nano decise per un approccio diretto, anziché cincischiare con tattiche da combattimento, e guidò Rozzo dritto nella calca di Berserkr. — Non tiriamoci indietro — gli urlò all’orecchio. Bellico aveva un nodo alla gola. Disperdetevi!, avrebbe voluto urlare alle sue truppe. Mettetevi al riparo! Ma il troll si avvicinava, si avventava sui guerrieri di terracotta mulinando le braccia massicce, mandandoli in frantumi e abbattendoli come soldatini giocattolo. Quindi scalciò il cane nelle parti basse e colpì di striscio la stessa Bellico, facendola volare in un barile d’acqua. Nel giro di qualche secondo, diversi pirati furono ridotti a cibo per cani e, anche se Kisch Lorenz riuscì ad affondare una spada nella coscia di Rozzo, il massiccio troll non arrestò la propria avanzata: l’acciaio che gli sporgeva dalla gamba non sembrava essergli d’impaccio. Gli alluci di Bombarda localizzarono il fascio di nervi tra le costole di Rozzo, e il nano li sfruttò per guidarlo nel fienile. Io sono un trolliere, si rese conto con uno scatto d’orgoglio. Sono nato per fare questo, e per rubare e per mangiare un sacco. Bombarda decise che se avesse superato la notte, avrebbe trovato un modo per combinare quei tre scopi. Dentro il fienile, il velivolo stava in equilibrio su una ruota e sulla punta di un’ala con frecce che ne trafiggevano la fusoliera. La faccia di Spinella era premuta contro il vetro, con la bocca che disegnava un “oooh” di incredulità. Non capisco perché sia così sorpresa, pensò Bombarda. Ormai dovrebbe averci fatto il callo, a essere salvata da me. Il nano udì il fragore delle truppe che si ricostituivano alle sue spalle e seppe che era solo una questione di attimi prima che gli arcieri scagliassero una 166 salva contro il troll. E per quanto la mia cavalcatura possa essere grande, perfino lui sarà abbattuto da una mezza dozzina di frecce che gli trapassa gli organi vitali, pensò. Non c’era tempo di aprire il portello dell’aereo e di caricare i tre passeggeri, perciò Bombarda diede uno strattone ai riccioli, affondò gli alluci e bisbigliò qualcosa all’orecchio del troll, sperando che il suo messaggio arrivasse a destinazione. A bordo dell’aereo a pannelli solari, Spinella sfruttò i pochi momenti che mancavano prima che si scatenasse quello che con ogni probabilità sarebbe stato un inferno per pungolare un Artemis intontito nel sedile del passeggero. Gli si sistemò a fianco agganciandosi la cintura. — Sto volando? — chiese Artemis. Spinella agitò i piedi. — Non arrivo ai pedali. — Vedo. Era una conversazione banale ma necessaria, dal momento che di lì a un attimo sarebbe stata indispensabile l’abilità di pilota di Artemis. Rozzo raddrizzò il velivolo a suon di spallate, poi si spostò nella parte posteriore e lo sollevò verso la porta del fienile aperta. L’aereo avanzò traballando sul carrello danneggiato, sobbalzando a ogni rotazione. — Non avevo previsto nessuno di questi eventi — disse Artemis battendo i denti, rivolto più a se stesso che al suo co-pilota. Spinella appoggiò entrambe le mani sul cruscotto per puntellarsi in previsione dell’impatto con ciò contro cui stavano rollando a tutta velocità. — Wow! — esclamò, guardando frecce affondare nel muso e nelle ali. — Non avevi previsto un nano a cavallo di un troll che avrebbe spinto il tuo aereo lungo la rampa. Stai perdendo la mano, Artemis. Il ragazzo cercò di riprendersi, ma il momento era troppo surreale. Vedeva i Berserkr farsi sempre più grandi al di là della doppia cornice del parabrezza e della porta del fienile e gli sembrava che fosse solo un film. Un film in 3D molto realistico con poltroncine vibranti, ma comunque un film. Quella sensazione di distacco, unita ai riflessi lenti del vecchio Artemis Fowl, rischiò di costargli la vita mentre se ne stava seduto sognante e guardava la freccia di un guerriero dirigersi contro la sua testa. Per fortuna, i riflessi di Spinella erano straordinari, e riuscì a dare un pugno su una spalla al ragazzo, spostandolo di lato ai limiti consentiti dalla cintura. La freccia trapassò il parabrezza, aprendovi un buco sorprendentemente piccolo, e si conficcò nel poggiatesta, esattamente nel punto in cui si sarebbe 167 trovata la faccia di Artemis. D’un tratto, lui non ebbe più alcun problema a riprendersi. — Posso tentare di avviare l’aereo — disse, manovrando gli interruttori sul cruscotto. — Basta solo che riusciamo a sollevarci in volo. — E non ci vuole coordinazione? — chiese Spinella. — Sì, un tempismo alla frazione di secondo. Spinella impallidì: fare affidamento sulla coordinazione di Artemis era come fare affidamento sulla capacità di Bombarda di trattenersi davanti a una tavola imbandita. Il velivolo avanzò a fatica fra i guerrieri, decapitando un soldato di terracotta. I pannelli solari sferragliarono incrinandosi e il carrello si deformò. Rozzo continuava a spingere, ignorando varie ferite da cui ormai uscivano fiotti di sangue. Bellico radunò le sue truppe e si lanciò all’inseguimento, ma nessuno riusciva a tenere il passo del troll tranne il cane avvinghiato alla schiena del nano, che cercava di disarcionarlo. Bombarda era offeso che un cane volesse interferire in quello che era probabilmente il tentativo di salvataggio più valoroso mai compiuto a memoria di nano, perciò gli serrò la testa con un gomito e gridò sul muso dell’animale: — E smettila, Fido! Oggi sono invincibile. Guardami, sto cavalcando un troll! Quante altre volte ti è capitato di vedere una cosa del genere? Nessuna, ecco quante! Ora, hai due secondi per mollare, oppure sarò costretto a mangiarti. I due secondi passarono. Il cane scosse la testa, rifiutando di cedere, perciò Bombarda lo mangiò. Che spreco tremendo, sputare mezzo cane, avrebbe detto in seguito al suo compare nano evaso Barnet Enigma, proprietario del bar Il Pappagallo Sbronzo di Miami. Però è difficile mantenere un aspetto eroico con il posteriore di un bastardino che ti spunta dalla bocca. Qualche secondo dopo che il cane vivo aveva avuto a che dire con Bombarda faccia a faccia, il cane morto ebbe a che dire con il suo stomaco. Forse fu l’anima del guerriero a provocare l’indigestione, o forse fu per via di qualcosa che il cane aveva mangiato prima che qualcosa mangiasse lui, ma in ogni caso, all’improvviso, Bombarda sentì un crampo alle viscere, come il pugno di un gigante con indosso un guanto di maglia metallica. — Devo limare un po’ il peso — borbottò a denti stretti. Se Rozzo avesse capito che cosa stava per fare Bombarda Sterro, si sarebbe messo a correre tutto attorno gridando come una fatina di due anni per andare a seppellirsi sotto terra finché la tempesta non fosse passata, ma il troll 168 non parlava nanesco, perciò seguì l’ultimo comando che gli era stato impartito, e cioè: Giù per la collina. L’aereo a pannelli solari prese velocità scendendo lungo la rampa con i guerrieri alle calcagna. — Non ce la faremo — disse Artemis, controllando la strumentazione di bordo. — Il carrello è distrutto. Davanti a loro, la fine della rampa curvava come il fondo di un trampolino da sci. Se l’aereo fosse decollato con velocità insufficiente, sarebbe semplicemente precipitato a capofitto nel lago, e si sarebbero ritrovati a fare il bagno fianco a fianco con anatroccoli con ogni probabilità posseduti dai guerrieri che li avrebbero uccisi a colpi di becco. Artemis era quasi venuto a patti con l’idea di dover morire nel futuro immediato, ma non desiderava affatto vedersi frantumare il cranio dal becco di un germano reale posseduto. Anzi, la morte per becco di aggressivo uccello acquatico era appena schizzata in cima alla lista dei suoi modi meno graditi di morire, frantumando il record detenuto dalla morte per gas di nano che aveva tormentato i suoi sonni per anni. — Non le anatre — disse. — Per favore, non le anatre. Ero destinato a vincere il Nobel. Sentivano il trambusto sotto la fusoliera. Grugniti animali e metallo che si stava accartocciando. Se l’aereo non fosse decollato subito, sarebbe caduto a pezzi. Non era un apparecchio robusto, ed era molto spoglio per accrescere il rapporto potenza-peso necessario per un volo sostenibile. All’esterno, Bombarda si contorceva in preda a un dolore fortissimo. Sapeva cosa stava per succedere. Il suo corpo stava per reagire a una combinazione di stress, cattiva dieta e formazione di gas, sganciando all’istante un terzo del suo peso. Un nano yogi più disciplinato avrebbe saputo invocare quella procedura a comando e l’avrebbe definita Disintossicazione Decennale, ma un nano comune la conosce come Limare il Peso. E credete a me, non è una bella cosa trovarsi sulla linea di tiro quando un nano sta per limare il peso. L’aereo arrivò in fondo alla discesa con lo slancio minimo necessario per lasciare la rampa. Ammaraggio, pensò Artemis. Morte per becco di anatra. E poi accadde qualcosa. Da un punto imprecisato arrivò una scarica di energia. Fu come se l’indice di un gigante avesse scagliato l’aereo in aria. La coda si alzò, e Artemis dovette darsi da fare con i pedali per tenerlo sotto controllo. 169 Che cos’è stato?, si chiese guardando perplesso i comandi finché Spinella non gli diede un pugno alla spalla per la seconda volta in altrettanti minuti. — Avviamento ad aria! — gli urlò. Artemis schizzò a sedere diritto come un fuso. Avviamento ad aria! Ma certo, si disse. L’aereo aveva in dotazione un piccolo motore per sollevarlo, e subito dopo subentravano i pannelli solari, ma senza batteria il motore non poteva neppure girare, a meno che Artemis non avesse premuto l’acceleratore al momento giusto prima che il velivolo incominciasse a perdere slancio. Questo avrebbe potuto fargli guadagnare il tempo necessario per incrociare una corrente per un paio di centinaia di metri, quanto bastava per superare il lago e lasciarsi le frecce alle spalle. Artemis aspettò finché non avvertì che l’aereo era al culmine dell’ascesa, quindi diede gas fino in fondo. Bellico e ciò che restava delle sue truppe si precipitarono a tutta velocità giù per la rampa, scagliando contro l’aereo qualunque proiettile presente nel loro arsenale. Era una situazione bizzarra, anche per uno spirito risorto che occupava un corpo umano. Sto inseguendo un aereo mentre viene spinto giù per una rampa da un nano a cavallo di un troll, pensava. Incredibile. E tuttavia era vero, e lei avrebbe fatto meglio a crederci, o la sua preda le sarebbe sfuggita. Non possono andare lontano, pensava. A meno che l’apparecchio non fosse riuscito a volare proprio come doveva. Non volerà. Abbiamo distrutto la batteria, si diceva. Quell’affare vola senza bisogno di energia, una volta in aria. La mia ospite lo ha visto con i suoi occhi. Il suo buon senso le diceva che doveva fermarsi e lasciare che l’aereo precipitasse in mezzo al lago. Se i passeggeri non fossero affogati, allora i suoi arcieri avrebbero potuto colpirli mentre nuotavano. Ma il buon senso non serviva a molto in una notte come quella, in cui sulla terra vagavano guerrieri fantasma e i nani viaggiavano ancora una volta sul dorso dei troll, perciò Bellico decise che doveva fare il possibile per impedire all’aereo di decollare. Accelerò il passo lasciando indietro gli altri Berserkr, sfruttando al massimo le lunghe gambe umane, e si scagliò contro la parte centrale del troll, afferrando ciuffi di pelo grigio in una mano e la spada da pirata nell’altra. Rozzo ululò, ma continuò a spingere. 170 Sto attaccando un troll, pensò lei. Con il mio corpo non ce la farei mai. Bellico alzò lo sguardo fra un intrico di arti e scorse la luna piena brillare sopra di loro. E sotto vide un nano in una situazione di grande disagio, che si aggrappava al corpo dell’aereo, appiattendosi contro la fusoliera. — Va’! — ordinò al troll. — Torna alla tua grotta. Non va bene, pensò Bellico. Non va bene per niente. L’aereo lasciò la rampa e si alzò in volo. In quello stesso istante, Rozzo ubbidì al suo padrone e mollò la presa, spedendo se stesso e la Berserkr a rimbalzare sul lago come sassolini, il che è assai più doloroso di quanto non sembri. Rozzo aveva un mantello di pelo a proteggersi la pelle, ma Bellico coprì quella distanza su un viso che avrebbe riportato ustioni dovute all’acqua per diversi mesi. A monte, Bombarda non riuscì più a trattenersi. Rilasciò un getto di grasso, gas e cibo semidigerito che sollevò l’aereo di qualche altro metro, quanto bastava per farlo librare in alto sopra il lago. Bellico riemerse appena in tempo per farsi centrare in piena fronte da quello che poteva essere un teschio di cane. Non voglio pensarci, pensò, tornando a nuoto verso riva. Artemis diede gas una seconda volta e il motore dell’aereo si avviò. L’elica sul muso scoppiettò, diede uno strappo e poi incominciò a ruotare sempre più veloce, finché le pale non disegnarono un cerchio continuo trasparente. — Che cos’è successo? — chiese il ragazzo ad alta voce. — Che cos’è stato quel rumore? — Ci penserai dopo — gli disse Spinella. — Adesso pensa a pilotare l’aereo. Non era una cattiva idea, dal momento che non erano ancora fuori dai guai. Il motore girava, questo sì, ma nella batteria solare non c’era energia e a quell’altezza potevano planare solo per un tempo limitato. Artemis tirò indietro la cloche salendo a trenta metri e, man mano che sotto di loro vedevano una fetta di mondo sempre più grande, l’ampiezza della devastazione operata dal piano di Opal divenne evidente. Le strade che portavano a Dublino erano illuminate dagli incendi dei motori alimentati dai serbatoi di benzina e da materiali combustibili. La stessa Dublino era al buio, tranne per macchie di luci arancioni nei punti in cui erano stati rappezzati generatori o accesi falò. Artemis vide due grosse navi entrate in collisione nel porto e un’altra spiaggiata come una balena. In città c’erano troppi incendi per riuscire a contarli tutti, e il fumo si levava raccogliendosi come una nuvola foriera di tempesta. Opal progetta di ereditare questa nuova Terra, pensò Artemis. Non glielo 171 permetterò. E fu proprio grazie a quel pensiero che la sua mente tornò a concentrarsi e lo spinse a ordire un piano che potesse fermare Opal Koboi una volta per tutte. Sorvolarono il lago, ma il loro non fu un volo aggraziato, anzi, in effetti, fu piuttosto una caduta prolungata. Artemis armeggiò con comandi che sembravano non volerne sapere di ubbidire, mentre lui faticava per mantenere la discesa il più graduale possibile. Sorvolarono una fila di pini e si diressero alla Porta dei Berserkr dove Opal Koboi trafficava avvolta in un’aura magica. Spinella sfruttò quel momento per fare il punto della situazione delle forze nemiche. Opal era circondata da un cerchio di guerrieri. C’erano pirati, soldati di argilla e altri esseri assortiti. Le mura della proprietà erano pattugliate da altri guerrieri: intravide per lo più animali: due volpi e perfino alcuni cervi che trotterellavano sulla pietra annusando l’aria. Non c’è modo di entrare, pensò Spinella. E il cielo incomincia a schiarire. Opal si era data tempo fino all’alba per aprire la seconda serratura. Forse non ci riuscirà e la luce del sole farà il lavoro per noi, pensò Spinella. Ma era improbabile che Opal avesse sbagliato i calcoli: aveva passato troppo tempo nella sua cella a studiare ogni dettaglio fino all’ossessione. Non possiamo fare affidamento sugli elementi. Se vogliamo che il piano di Opal fallisca, dobbiamo agire noi. Al suo fianco, Artemis pensava la stessa cosa, con la sola differenza che nella sua mente aveva già gettato le basi di un piano. Se in quel momento lo avesse enunciato ad alta voce, Spinella ne sarebbe rimasta sorpresa. Non tanto per la sua genialità – non si sarebbe aspettata niente di meno – quanto per la sua generosità. Artemis Fowl pianificava di attaccare con l’unica arma che Opal Koboi non lo avrebbe mai sospettato di possedere: l’umanità. E per sganciare quel siluro a sorpresa, Artemis avrebbe dovuto sperare che due persone fossero fedeli ai difetti della loro personalità. Polledro avrebbe dovuto essere il paranoico di sempre. E per il suo dilagante narcisismo, Opal Koboi non avrebbe dovuto distruggere l’umanità senza lasciare in vita i suoi nemici a testimonianza della sua gloria. Alla fine, Spinella non riuscì più a rimanere a guardare i goffi tentativi di Artemis di pilotare il velivolo. — Dammi la cloche — gli ordinò. — Quando tocchiamo terra, apri completamente i flap. Ci saranno addosso in un attimo. Artemis cedette i comandi senza discutere. Non era il momento di fare a gara 172 di chi fosse più macho. Spinella era senza dubbio dieci volte migliore di lui come pilota, e anche parecchio più macho. Una volta l’aveva vista fare a pugni con un elfo che si era complimentato per la sua pettinatura solo perché aveva creduto che volesse essere sarcastico, dal momento che proprio quel giorno si era tagliata i capelli a spazzola. Spinella non era una che avesse molti appuntamenti. L’elfa sfiorò la cloche con il palmo della mano, portando l’aereo sul vialetto acciottolato della casa. — Il viale è troppo corto — osservò Artemis. Spinella si inginocchiò sul sedile per vedere meglio. — Non preoccuparti. Probabilmente il carrello cederà comunque con l’impatto. La bocca di Artemis si incurvò in quello che poteva essere un sorriso ironico o una smorfia di terrore. — Grazie al cielo. E io che credevo che fossimo nei pasticci. Spinella battagliava con la cloche come se quella non volesse saperne di bloccarsi. — Pasticci? Far atterrare un aereo malridotto è questione di routine per noi, Fangosetto. Artemis le scoccò un’occhiata e provò un’enorme ondata di affetto per lei. Avrebbe voluto poter riavvolgere gli ultimi dieci secondi e studiare il nastro in un momento meno stressante per poter valutare in maniera accurata quanto fosse fiera e bella la sua migliore amica. Spinella non sembrava mai tanto vitale come quando si trovava in equilibrio precario tra la vita e la morte. I suoi occhi brillavano e la mente era acuta. Quando gli altri sarebbero crollati, lei affrontava la situazione con un vigore che la faceva risplendere. È davvero magica, pensò il ragazzo. Forse le sue qualità mi sono più evidenti ora che ho deciso di sacrificare me stesso. E poi si rese conto di una cosa. Non posso svelarle i miei piani. Se Spinella li conoscesse, cercherebbe di fermarmi. Era un dolore per Artemis che la sua ultima conversazione con Spinella dovesse essere infarcita di bugie e informazioni fuorvianti. Ma è per necessità, si giustificò. Artemis Fowl, l’umano che un tempo mentiva senza preoccuparsene, fu sorpreso di scoprire in quel momento che mentire per necessità non lo faceva stare meglio. — Ci siamo! — gridò Spinella sopra il fragore del vento. — Tieniti forte! Artemis strinse la cintura di sicurezza. — Vai pure — rispose. Appena in tempo. Il terreno parve corrergli incontro, offuscando la visuale e coprendo il cielo. E poi, con un tremendo sferragliare, toccarono terra sotto 173 una pioggia confusa di pietre. Dal parabrezza entrarono fiori in mazzi funerei, e l’elica cedette con uno strido lancinante. Artemis sentì l’imbracatura azzannargli le spalle, impedendogli di piegarsi a sinistra, il che fu un bene perché la sua testa si sarebbe naturalmente inchiodata proprio dove una delle pale dell’elica trapassò il suo sedile. Il piccolo velivolo perse le ali nella sua scivolata lungo il viale e infine si ribaltò fermandosi davanti ai gradini d’ingresso. — Poteva andare molto peggio — osservò Spinella mentre sganciava la cintura. Davvero, pensò Artemis vedendo che il sangue sulla punta del suo naso sembrava gocciolare all’insù. Di colpo qualcosa che gli sembrava una gigantesca pesca arrabbiata scivolò su quello che restava del parabrezza deformando il cristallo temprato e fermandosi un po’ barcollante sull’ultimo scalino. Bombarda ce l’ha fatta, pensò Artemis. Bene. Bombarda strisciò letteralmente su per i gradini della casa, alla ricerca disperata di cibo che andasse a prendere il posto dell’aria sparata via. — Ci credi che le top model lo fanno tutti i mesi? — gemette. Artemis aprì la porta con il telecomando, e il nano scomparve all’interno, diretto alla cucina. Toccò ad Artemis e a Spinella trascinare Leale su per gli scalini, il che, con la guardia del corpo afflosciata ed esanime, equivaleva a trascinare un sacco pieno di incudini. Erano arrivati al terzo scalino quando un pettirosso insolitamente audace atterrò sulla faccia di Leale e si avvinghiò con i minuscoli artigli al naso. Già di per sé la cosa sarebbe stata abbastanza sorprendente, ma il biglietto che portava nel becco rendeva quella creatura ancora più sinistra. Artemis lasciò cadere il braccio di Leale. — Ha fatto in fretta — osservò. — L’ego di Opal non perde tempo. Spinella tirò il rotolo per aprirlo. — Te lo aspettavi? — Sì. Non prenderti neppure la briga di leggerlo, Spinella. Le parole di Opal non valgono la carta su cui sono scritte, e si vede benissimo che è carta da poco. L’elfa invece lesse il biglietto e a ogni parola le sue guance si arrossarono sempre di più. — Opal richiede il piacere della nostra compagnia per le grandi pulizie. Se ci consegneremo, solo io e te, allora lascerà in vita i tuoi fratelli. E promette anche di risparmiare Polledro, una volta che si dichiarerà imperatrice. 174 Appallottolò il biglietto e lo scagliò sulla testa del pettirosso. — Va’ a dire a Opal che non se ne parla neanche. L’uccello fischiò protervo e sbatté le ali in una maniera che parve un insulto. — Vuoi vedertela con me, guerriero? — chiese l’elfa all’uccellino. — Perché io magari me la sarò anche appena cavata da un disastro aereo, ma posso ancora prenderti a calci le piume della coda. Il pettirosso prese il volo con un trillo che sembrava una risatina di derisione per fare ritorno dalla sua padrona. — Sarà meglio che pensi a volare, Titti! — gli gridò dietro Spinella con uno sfogo poco professionale che la fece sentire appena appena meglio. Una volta che l’uccello fu scomparso oltre le cime degli alberi, tornò al suo compito. — Dobbiamo sbrigarci — disse infilando il braccio sotto l’ascella della guardia del corpo. — È tutto un trucco. Opal ci metterà alle calcagna altri guerrieri. Probabilmente siamo controllati da… vermi… in questo momento. Artemis non era d’accordo. — No. In questo momento la cosa più importante è la porta. Opal non rischierà di perdere altri soldati per dare la caccia a noi. Però dobbiamo sbrigarci lo stesso. Manca poco all’alba e ci rimane tempo per un altro assalto soltanto. — Perciò ignoriamo quel biglietto, giusto? — Certo. Opal gioca con le nostre emozioni solo per la propria soddisfazione, nient’altro. Vuole mettersi in una posizione di potere dal punto di vista emotivo. I gradini erano ricoperti da piccoli cristalli di ghiaccio che scintillavano sotto la luna. Finalmente, Artemis e Spinella riuscirono a far superare la soglia a Leale e a depositarlo su un tappeto, che poi trascinarono sotto le scale, sistemandolo nella posizione più comoda possibile, con alcuni dei cuscini che Angeline Fowl amava spargere qua e là sulle poltrone. Spinella si raddrizzò con uno scricchiolio alla schiena. — Va bene. Abbiamo dato scacco alla morte un’altra volta. E adesso che si fa, cervellone? Aveva parlato con naturalezza, ma negli occhi, sgranati, era chiara la disperazione. Erano così vicini a un disastro inimmaginabile che sembrava che perfino Artemis, con la sua capacità di tirare miracolosi conigli fuori dal cappello all’ultimo momento, non avrebbe potuto salvare l’umanità. — Ho bisogno di pensare — disse lui semplicemente, imboccando di corsa le scale. — Prenditi qualcosa da mangiare e magari fai un sonnellino. Ci vorrà almeno un’ora e mezzo. Spinella gli arrancò dietro, faticando su quei gradini a misura umana. — Aspetta! Aspetta, ho detto! — gli gridò, salendo su un gradino più alto per 175 guardarlo negli occhi. — Io ti conosco, Artemis. Ti piace tenere la tua carta da genio stretta al petto fino all’ultimo. E finora ha sempre funzionato, ma questa volta devi mettere al corrente anche me. Posso aiutarti. Perciò dimmi la verità: hai un piano? Il ragazzo sostenne lo sguardo dell’amica e le mentì spudoratamente. — No — le disse. — Nessun piano. 176 CAPITOLO 17 - L’ULTIMA LUCE CENTRALE DI POLIZIA, CANTUCCIO, STRATI INFERIORI La LEP aveva diversi operativi che lavoravano sotto copertura in parchi umani a tema sparsi in tutto il mondo, perché gli umani non battono ciglio alla vista di un nano o di un elfo, purché lo trovino di fianco a un ottovolante o a un unicorno animatronico. Una volta, Polledro aveva visionato il nastro di una ferrovia a Orlando, dove i teorici della cospirazione del Consiglio erano certi fosse installata una base di addestramento per gruppi governativi segreti di assassini del Popolo. In quella corsa particolare, i clienti salivano su un trenino che entrava in una stazione sotterranea, una stazione prontamente funestata da ogni possibile disastro naturale conosciuto a uomini o elfi. Prima un terremoto aveva squassato il tunnel, poi un uragano aveva sollevato una tempesta di detriti, quindi un’inondazione aveva rovesciato i vagoni e infine veri e propri torrenti di lava avevano lambito i finestrini. Quando Polledro era finalmente rientrato in ufficio, aveva guardato le strade di Cantuccio dal quarto piano della Centrale e aveva pensato che la sua amata città gli ricordava quella stazione di Orlando. Completamente devastata tanto da diventare irriconoscibile. Solo che per rimettere in sesto la mia città non basterà premere un pulsante, si disse. Polledro appoggiò la fronte contro il vetro freddo e osservò i servizi di emergenza operare la loro magia. I paramedici gremlin curavano i feriti scagliando rapidi lampi di magia dalle manopole isolanti. Gli gnomi del fuoco tranciavano le travi con i laser ronzanti, liberando la strada per le ambulanze, e i tecnici strutturali si calavano a doppia corda da spuntoni di roccia tamponando le crepe con schiuma elastica. È buffo, pensò Polledro. Ho sempre pensato che sarebbero stati gli umani a distruggerci. Il centauro appoggiò i polpastrelli sul vetro. No, non siamo distrutti. Ci ricostruiremo. Tutte le nuove tecnologie erano esplose, ma c’era ancora un mucchio di roba antiquata che non era stata sottoposta a riciclaggio per via dei tagli al bilancio. La maggior parte dei veicoli dei vigili del fuoco era operativa, e nessuno dei generatori di supporto era stato sostituito negli ultimi cinque anni. Il comandante 177 Grana Algonzo sovrintendeva un’operazione di pulizia su vasta scala mai vista prima a Cantuccio. Atlantide era stata colpita altrettanto gravemente, se non peggio. Per lo meno, la cupola è stata puntellata. Se fosse implosa, il numero dei morti sarebbe stato immenso. Non come quello degli umani, ma comunque piuttosto alto, si disse il centauro. E tutto perché una folletta psicotica voleva governare il mondo. Moltissime famiglie hanno perso qualcuno oggi. Quanti del Popolo saranno in ansia a questo punto?, si chiese. I pensieri di Polledro si rivolsero poi a Spinella, bloccata in superficie, impegnata ad affrontare la situazione senza il supporto della LEP. Ammesso che sia viva. Se qualcuno di loro è vivo, rifletté. Polledro non aveva modo di saperlo. Tutti i sistemi di comunicazione ad ampio raggio erano fuori uso, dato che per la maggior parte erano agganciati a satelliti umani ormai ridotti a rifiuti spaziali. Il centauro cercò di trovare conforto nell’idea che con la sua amica ci fossero Artemis e Leale. Se c’è qualcuno in grado di contrastare Opal, quello è Artemis. E poi pensò: Contrastare? Adesso incomincio a usare parole come “contrastare”? A Opal piacerebbe. La fa sembrare una supercattiva. Mayne gli trotterellò accanto. — Mak dak jiball, zio. Abbiamo qualcosa sugli schermi del laboratorio. Il nipote di Polledro parlava l’unicornese senza difficoltà; quello che gli riusciva difficile, semmai, era andare dritto al punto. — Sono schermi grandi, Mayne. C’è sempre qualcosa. L’altro raspò con lo zoccolo anteriore. — Lo so, ma questa è una cosa interessante. — Davvero. Oggi di cose interessanti ne stanno succedendo un mucchio. Ti dispiacerebbe specificare un po’ meglio? Il nipote si accigliò. — “Specificare” significa identificare la specie di una creatura. È questo che intendi? — No, volevo dire se non puoi essere un po’ più specifico. — A proposito di quale specie? Polledro raspò a sua volta con uno zoccolo, graffiando le piastrelle. — Dimmi solo che cosa c’è di così interessante sullo schermo. Abbiamo tutti da fare oggi, Mayne. — Hai bevuto simil-caffè per caso? — gli chiese il nipote. — Perché zia Cavallina dice che dopo due tazze tendi a diventare un po’ troppo nervoso. 178 — Che cosa c’è sullo schermo? — tuonò Polledro in quello che pensava fosse il suo tono severo, mentre nella realtà era piuttosto acuto. Il nipote arretrò di qualche passo, poi si ricompose e si chiese come mai negli altri suscitasse sempre quel genere di reazione. — Ti ricordi quei Faro che avevi mandato a Casa Fowl? — Certo che me li ricordo. Sono tutti morti. Io li mando, Artemis li trova. È un giochetto che facciamo sempre fra di noi. Mayne alzò un pollice oltre la spalla, a indicare lo schermo dove prima c’era il riquadro bianco. — Be’, uno di quegli affarini è appena tornato in vita. Era questo che cercavo di dirti. Polledro misurò un calcio al nipote, ma il giovanotto era già trotterellato fuori dalla sua portata. CASA FOWL Artemis chiuse a chiave la porta dello studio e lanciò una rapida occhiata alle telecamere periferiche e ai sensori per accertarsi che fossero indenni, almeno per il momento. Era come si aspettava: l’unica attività nella tenuta era a oltre un chilometro di distanza, dove un tempo sorgeva la torre Martello, e ora la Porta dei Berserkr sbucava dal cratere prodotto dall’impatto di Opal. Per precauzione, regolò l’impianto di allarme su ASSEDIO, che disponeva di deterrenti non in uso negli impianti domestici standard, per esempio vetri delle finestre elettrificati e bombe lampo nelle serrature. D’altro canto, Casa Fowl non era una casa standard da quando Artemis aveva deciso di tenere prigioniera l’elfa rapita nella cantina. Una volta accertatosi di essere al riparo da intrusioni, aprì un cassetto con la combinazione nella scrivania e ne tirò fuori una scatola di piombo. Ne picchiettò il coperchio con un’unghia e con soddisfazione sentì qualcosa svolazzare all’interno. Quindi è ancora viva, pensò. Aprì la scatola e dentro, collegata a una batteria a tre volt, c’era una minuscola libellula a biotelecamera. Uno dei giocattolini di Polledro, che di solito venivano messi in corto nei consueti controlli anticimice di Artemis; quella, però, aveva deciso di continuare ad alimentarla, nell’eventualità che gli fosse servita una linea privata per mettersi in contatto con il centauro. Aveva sperato di usarla per annunciare il successo del loro assalto alla Porta dei Berserkr, ma adesso quell’insettino avrebbe trasmesso un messaggio ben più cupo. 179 La mise sul piano della scrivania, dove la libellula svolazzò per un po’ tutto attorno prima che il suo software di riconoscimento facciale identificasse Artemis quale obiettivo primario e decidesse di concentrarsi su di lui. Le minuscole lenti negli occhi vibrarono quasi impercettibilmente, e un paio di microfoni a stelo si allungarono come le antenne di una formica. Avvicinandosi, il ragazzo incominciò a parlare piano, in modo che nessuno potesse sentirlo, anche se i suoi sensori gli garantivano che il suo era l’unico essere vivente di massa significativa nel raggio di sei metri. — Buongiorno, Polledro. So che in questo piccolo mutante non c’è neppure un atomo di tecnologia Koboi, perciò in teoria può trasmettere, e io spero che tu sia ancora vivo per ricevere. Qui le cose si sono messe male, amico mio, molto male. Opal ha aperto la Porta dei Berserkr e sta lavorando alla seconda serratura. Se ci riuscirà, si scatenerà un’ondata di magia terrestre codificata che distruggerà completamente l’umanità. E questa, a mio parere, è una brutta cosa. Per fermare questo imminente disastro, ho bisogno che tu mi mandi al più presto un paio di cose in uno dei tuoi ovodroni da scavo. Non c’è tempo da perdere con permessi e comitati, Polledro. Queste due cose devono arrivare a Casa Fowl in meno di due ore, o sarà troppo tardi. Procurati quello che mi serve. Artemis si avvicinò ancora un po’ alla minuscola telecamera vivente e bisbigliò con impazienza: — Due cose, Polledro. Due cose per salvare il mondo. E comunicò all’insettino ciò che gli occorreva e dove esattamente doveva essere inviato. CENTRALE DI POLIZIA, CANTUCCIO, STRATI INFERIORI Il colore svanì dal viso di Polledro. Koboi lavorava alla seconda serratura. Era una catastrofe, anche se a Cantuccio c’erano molti membri del Popolo che avrebbero ballato per la strada per festeggiare l’annientamento dell’umanità, ma nessuno che avesse un po’ di sale in zucca poteva augurarsi una cosa del genere. Due cose. La prima non era un problema. Era un giocattolo! Credo di averne una sulla scrivania, pensò il centauro. Ma la seconda. La seconda… Questo sì che è un problema. Un problema grosso, si disse, preoccupato. 180 C’erano di mezzo questioni legali e questioni morali. Se ne avesse anche solo fatto parola con il Consiglio, avrebbero preteso di nominare una task force e costituire un sottocomitato. Quello che Artemis chiedeva era tecnicamente possibile. In effetti, nella zona di controllo aveva un prototipo di ovodrone da scavo. Non doveva fare altro che programmare le coordinate giuste nel sistema di navigazione e il drone avrebbe viaggiato fino in superficie. Costruito per prelevare i minatori dai crolli, era in grado di sopportare pressioni enormi e di fare per tre volte il giro del mondo in volo alla velocità del suono. Perciò il limite di tempo fissato da Artemis non costituiva un problema. Polledro si mordicchiò una nocca. Doveva fare quello che Artemis gli chiedeva? Voleva farlo? Il centauro poteva continuare con quelle domande finché non fosse scaduto il tempo, ma ce n’era una sola che contava: Mi fido di Artemis? Il centauro sentì qualcuno respirare dietro di sé e si rese conto che nella stanza era entrato Mayne. — Chi altro è stato qui dentro? — gli domandò. Mayne sbuffò. — Qui dentro? Credi che gli alpha perdano tempo a ciondolare in una stupida centrale quando là fuori c’è una bella crisi in atto? Qui dentro non c’è stato nessuno, e nessuno ha visto questo video. Eccetto me. Polledro attraversò tutto l’ufficio. — D’accordo. Mayne, mio giovane amico, che ne diresti di un impiego a tempo pieno? Il nipote lo guardò con sospetto. — E che cosa dovrei fare? Polledro prese dal cassetto la cosa numero uno e si diresse alla porta. — Il solito — rispose. — Ciondolare in laboratorio e renderti inutile. Mayne fece una copia del video di Artemis nel caso in cui fosse rimasto implicato in un tradimento di qualche tipo. — Potrei farlo — rispose. 181 CAPITOLO 18 - L’ANIMA SOPRAVVISSUTA CASA FOWL, NOVANTOTTO MINUTI DOPO Artemis stava ultimando i preparativi nel suo studio: aggiornava il testamento sforzandosi di tenere sotto controllo i propri sentimenti e soffocando un velo grigio di tristezza che minacciava di offuscare la sua determinazione. Sapeva che il dottor Argon gli avrebbe sconsigliato di reprimere le proprie emozioni, cosa che a lungo termine gli avrebbe lasciato degli strascichi psicologici. Ma non ci sarà un lungo termine, dottore, pensò ironico. Dopo tante avventure, sentiva che avrebbe dovuto sapere che le cose non vanno mai esattamente come previsto, eppure l’irrevocabilità di quel passo che si sentiva costretto a compiere non smetteva di sorprenderlo, come pure il fatto di essere disposto anche solo a contemplarlo. Il ragazzo che ha rapito Spinella Tappo tanti anni fa non avrebbe mai preso in considerazione l’idea di sacrificare se stesso, si disse. Ma lui non era più quel ragazzo. Aveva ritrovato i suoi genitori e aveva dei fratelli. E cari amici. Un’altra cosa che Artemis non aveva previsto. Guardò la propria mano tremare mentre firmava il testamento. Quanto sarebbero state valide molte delle sue disposizioni nell’era che stava iniziando non lo sapeva con sicurezza: il sistema bancario era danneggiato in maniera quasi irreparabile, come pure le Borse mondiali, perciò addio azioni, obbligazioni e titoli di stato. Tutto quel tempo passato ad accumulare ricchezza, pensò. Che spreco. E poi: Su, avanti. Non fare il sentimentale. L’oro ti piace quasi quanto a Bombarda Sterro piace il pollo. E, se ne avessi la possibilità, probabilmente rifaresti lo stesso. Era vero. Artemis non credeva nelle conversioni sul letto di morte, erano troppo opportunistiche. Un uomo deve essere quello che è e accettare qualunque giudizio con coraggio. Se esiste un san Pietro, non mi metterò a discutere con lui alle porte del paradiso, promise al suo subconscio, per quanto sapesse bene che se la sua teoria era corretta, il suo spirito rischiava di rimanere bloccato su quel livello proprio come era successo ai Berserkr. Potrei diventare un guardaspalle soprannaturale per Myles e Beckett. Quell’idea gli diede un po’ di conforto e gli strappò un sorriso. Si rese conto 182 di non avere paura, come se ciò che stava per fare fosse una simulazione in un gioco di ruolo invece di un’azione reale. Ma tutto cambiò quando Artemis sigillò il testamento in una busta che appoggiò alla lampada. Rimase a fissare il documento avvertendo la definitività del momento. Non si torna più indietro, disse fra sé. E poi la paura si abbatté su di lui come una tonnellata, inchiodandolo alla seggiola. Sentì un blocco di piombo solidificarsi nello stomaco e all’improvviso gli parve di avere le membra inchiodate e di non poterle più controllare. Fece molti respiri profondi solo per impedirsi di vomitare e a poco a poco ritrovò la calma. Avevo sempre immaginato che ci sarebbe stato tempo per gli addii. Un momento per scambiare parole piene di significato con le persone cui voglio bene, rifletté. Ma non c’era più tempo per quello. C’era tempo solo per agire. La paura era passata, e Artemis era ancora risoluto. Posso farcela, si rese conto. Posso pensare con il cuore. Spinse all’indietro la poltrona color sangue di bue, si diede una pacca sulle ginocchia e si alzò per affrontare la prova. Spinella si precipitò nello studio con occhi di fuoco. — Ho visto quello che è uscito dalla cantina, Artemis. — Ah — esclamò lui. — È arrivato l’ovodrone. — Già, è arrivato. E io ci ho dato un’occhiatina dentro. Il ragazzo sospirò. — Spinella, mi dispiace che tu abbia visto. Bombarda avrebbe dovuto nasconderlo. — Bombarda è anche amico mio, e gli avevo detto che avresti tentato uno dei tuoi trucchi. Si stava scavando un tunnel per una fuga dell’ultimo minuto quando il drone è arrivato con il pilota automatico. Bombarda pensa che sia appunto uno dei tuoi trucchi. — Spinella, non è come pensi. — So che cosa stai tramando, l’ho capito. — Sembra un po’ drastico, lo ammetto. Però è l’unico modo. Devo farlo. — Ah, tu devi farlo! — strepitò Spinella, furiosa. — Artemis Fowl fa scelte per tutti, come al solito. — Forse, ma questa volta sono giustificato dalle circostanze. L’elfa arrivò a tirar fuori la pistola. — No, scordatelo, Artemis. Non succederà. — Ma deve succedere. Forse con un po’ di tempo, e le giuste risorse, potrei sviluppare una strategia alternativa… 183 — Sviluppare una strategia alternativa? Non stiamo parlando di un’acquisizione societaria, Artemis. È la tua vita. Hai intenzione di uscire là fuori e farti ammazzare. E Leale? Lui sospirò. Lo addolorava lasciare Leale privo di sensi, all’oscuro del suo piano, soprattutto dato che sapeva bene che la sua fedele guardia del corpo l’avrebbe considerato per sempre un proprio fallimento. Danno collaterale. Proprio come me, pensò. — No. Non posso dirglielo, e non lo farai neppure tu… Spinella lo interruppe sventolandogli la pistola sotto il naso. — Non prendo ordini da te, signor civile. Sono io l’ufficiale responsabile. E pongo il mio veto a usare questa tattica. Artemis si mise a sedere coprendosi la faccia con le mani. — Spinella, fra trenta minuti sarà l’alba, e poi morirei comunque. E morirebbero pure Leale e Juliet. La mia famiglia. Quasi tutti quelli a cui voglio bene moriranno. Otterrai solo di assicurare la vittoria a Opal. Non salveresti nessuno. Spinella andò al suo fianco e gli appoggiò delicatamente la mano sulla spalla. Di colpo il ragazzo si rese conto che gli elfi hanno un odore caratteristico. Erba e agrumi. Un tempo avrei archiviato questa informazione. — Lo so che non ti piace, Spinella, amica mia, ma è un buon piano — disse. Le dita dell’elfa risalirono sul collo di Artemis, procurandogli un lieve pizzicore. — Non mi piace, Arty — confermò. — Però è un buon piano. Il tampone tranquillante impiegò un paio di secondi per fare effetto e poi Artemis si trovò riverso sul tappeto afghano, con il naso affondato nelle fibre di un disegno raffigurante un albero della vita. Il sonnifero gli annebbiava la mente, e non riusciva a capire esattamente che cosa stesse succedendo. — Mi dispiace — disse Spinella inginocchiandosi al suo fianco. — Opal è una del Popolo, perciò il sacrificio tocca a me. L’occhio sinistro di Artemis si rovesciò, e il ragazzo tentò debolmente di agitare la mano. — Non odiarmi per sempre, Arty, non potrei sopportarlo — bisbigliò l’elfa. Gli prese la mano e gliela strinse forte. — Il soldato sono io, e questo è lavoro da soldati. — Hai ragione — disse Artemis con voce chiara. — Ma questo è il mio piano, e con il dovuto rispetto, sono l’unico cui se ne può affidare l’esecuzione. Spinella era confusa: solo un attimo prima era stato sul punto di perdere i sensi e adesso le faceva la lezione con il suo solito modo presuntuoso. Ma 184 come? L’elfa ritrasse la mano e vide un piccolo cerotto sul palmo. Mi ha drogata!, si rese conto. Quell’infido Fangosetto mi ha drogata. Artemis si alzò e portò Spinella al divano di pelle, dove la depose sui morbidi cuscini. — Temevo che Polledro potesse spifferare tutto, perciò mi sono fatto un’iniezione di adrenalina per contrastare il tuo sedativo. L’elfa combatteva contro la nebbia che le offuscava la mente. — Ma come hai potuto… Come? — A rigor di logica, non hai motivo di essere arrabbiata. Non ho fatto altro che seguire il tuo esempio. Gli occhi di Spinella si colmarono di lacrime che gocciolarono sulle guance, mentre la verità la chiamava da lontano, al di là di un abisso caliginoso. Vuole farlo davvero, pensò. — No — riuscì a dire. — Non c’è altro modo. L’elfa sentì il vuoto della paura stringerle lo stomaco. — Ti prego, Arty — farfugliò. — Lascia che io… — Ma non riuscì a dire altro. Artemis fu lì lì per crollare, lei lo vedeva nei suoi occhi spaiati, uno da umano e l’altro da elfo, ma poi si allontanò dal divano e respirò a fondo. — No. Devo essere io, Spinella. Se la seconda serratura verrà aperta, morirò, ma se il mio piano avrà successo, allora tutte le anime del Popolo all’interno dell’aura magica verranno attirate nell’aldilà. Le anime del Popolo! La mia anima è umana, Spinella, non capisci? Non intendo morire, e c’è una possibilità che sopravviva. Una possibilità minima, è vero, ma pur sempre una possibilità. — Si sfregò un occhio. — Come piano è ben lungi dall’essere perfetto, ma non ci sono alternative. Artemis sistemò qualche cuscino sotto il corpo dell’elfa. — Voglio che tu sappia, mia cara amica, che senza di te non sarei diventato la persona che sono oggi. — Si chinò su di lei e le bisbigliò: — Ero un ragazzo perverso e tu mi hai messo a posto. Grazie. Spinella si accorse di piangere perché aveva la vista offuscata, ma non riusciva a sentire le lacrime sul viso. — Opal aspetta te e me — sentì dire ad Artemis. — Ed è esattamente quello che avrà. “È una trappola!” avrebbe voluto gridare Spinella. “Ti stai infilando dritto in una trappola.” Ma anche se Artemis avesse potuto sentire i suoi pensieri, Spinella sapeva 185 che non sarebbe riuscita a farlo tornare indietro. Proprio quando pensava che il ragazzo avesse lasciato la stanza, lui rientrò nel suo campo visivo con un’espressione pensierosa. — So che riesci ancora a sentirmi, Spinella — le disse. — Perciò voglio chiederti un ultimo favore. Se Opal dovesse avere la meglio su di me e io non potessi uscire da quel cratere, voglio che tu dica a Polledro di nutrire il bozzolo. — Si chinò su di lei e le diede un bacio in fronte. — E dagli questo da parte mia. Il giovane genio se ne andò, e l’elfa non riuscì neppure a voltare la testa per guardarlo. Opal sapeva che i ranghi dei suoi soldati erano decimati, ma non le importava; era arrivata alla fase finale della seconda serratura della Porta dei Berserkr. Nel suo organismo la soddisfazione lampeggiò con una vibrazione che le fece schizzare scintille dalle punte degli orecchi. — Mi serve un po’ di tranquillità — disse al guerriero che la proteggeva. — Se si avvicina qualcuno, uccidilo. — Poi però si corresse: — Tranne l’umano Fowl, e anche la sua amichetta capitano della LEP. Mi hai capito? Oro, nel corpo di Beckett, aveva capito benissimo, ma avrebbe voluto che il vincolo elfico gli lasciasse spazio per suggerire alla sua padrona di scordarsi la vendetta personale. Tuttavia, le regole di Bruin Fadda erano esplicite: ubbidienza totale a chi apre la porta. “Dovremmo snidarli” avrebbe voluto dire. “Se riusciamo a catturare quei pochi umani rimasti, allora non avremo bisogno di aprire la seconda serratura.” Opal si voltò e gli urlò in faccia, sputando schizzi di saliva. — Ho detto: mi hai capito? — Sì — rispose Oro. — Uccidere chiunque tranne Fowl e la femmina. Opal gli picchiettò il grazioso nasino a patata. — Giusto, proprio così. A mammina spiace avere alzato la voce. Mammina è stressata oltre ogni dire. Non crederesti a quello che le cellule cerebrali di mammina stanno dando per questa cosa. Di’ “mammina” ancora una volta, pensò Oro, e vincolo o no… Il massimo che il capo dei guerrieri poté fare contro la morsa del vincolo elfico era accigliarsi leggermente e sopportare i crampi allo stomaco, ma il suo cipiglio non ebbe effetto alcuno, dal momento che Opal gli aveva dato le spalle ed era già tornata al suo lavoro con un’aura scintillante di magia nera tutto attorno. 186 L’ultimo cilindro nella serratura incantata di Bruin Fadda era lo stregone stesso. Bruin aveva sepolto la propria anima nella roccia più o meno allo stesso modo spirituale in cui i guerrieri erano stati conservati nel terreno. Mentre Opal faceva scorrere le dita sulla superficie della roccia, sulla pietra apparve il volto del druido, inciso in maniera approssimativa ma riconoscibile. — Chi mi risveglia dal mio sonno? — chiese con voce roca. — Chi mi richiama dal ciglio dell’eternità? Oh, avanti, pensò Opal. Chi mi richiama dal ciglio dell’eternità? Devo proprio sopportare questa cacca di troll solo per spazzare via l’umanità? — Sono io, Opal Koboi — disse però, stando al gioco. — Del casato dei Koboi. Sovrana reale delle famiglie del Popolo. — Salute a te, Opal Koboi — rispose Bruin. — È bello vedere la faccia di un altro membro del Popolo. E così, non siamo ancora estinti. — Non ancora, potente stregone, ma anche mentre stiamo parlando, gli umani si avvicinano alla porta. Cantuccio è in pericolo. Dobbiamo aprire la seconda serratura. La roccia scricchiolò come una macina mentre Bruin si accigliava. — La seconda serratura? È davvero una richiesta molto grave, la tua. Sei pronta ad assumerti l’onere di questa azione? Opal assunse l’espressione contrita che aveva sviluppato per le udienze per la libertà sulla parola. — Lo farò, per il Popolo. — Sei davvero coraggiosa, regina Opal. I folletti sono sempre stati nobili, nonostante la statura. Opal era pronta a lasciar correre l’osservazione sulla statura perché le piaceva troppo come suonava “regina Opal”. E poi il tempo stringeva: dopo meno di un’ora il sole sarebbe sorto e la luna sarebbe tramontata, e le probabilità di mantenere quel piccolo esercito per un altro giorno, anche con gli umani impegnati a correre in tondo, erano minime. — Grazie, potente Bruin. E ora, è giunto il momento della tua risposta. Il cipiglio dello stregone si accentuò. — Devo consultarmi. I miei guerrieri sono con te? Questo non lo aveva previsto. — Sì. Il capitano Oro è qui al mio fianco e concorda pienamente con me. — Desidero conferire con lui — rispose la faccia di pietra. Certo che quel tipo incominciava davvero a darle sui nervi. Un attimo prima era tutto un regina Opal di qua, regina Opal di là, e adesso desiderava conferire con il suo vice? 187 — Potente Bruin, non credo davvero che ci sia bisogno di un consulto con i tuoi soldati. Il tempo stringe. — Desidero conferire con lui! — tuonò Bruin, e i solchi segnati sulla sua faccia si infiammarono di un potere che scosse Opal fin nel profondo. Non è un problema, pensò. Oro è vincolato a me. Il mio volere è il suo volere. Oro fece un passo avanti. — Bruin, compagno. Ti credevo passato nell’altra vita. Il volto di pietra sorrise e parve avere il sole al posto dei denti. — Presto, Oro Shaydova. La tua vecchia faccia mi piaceva più di questa giovane, anche se riesco a scorgervi l’anima sotto. — Un’anima che anela di essere liberata, Bruin. La luce chiama tutti noi. Alcuni dei miei uomini hanno perso la testa, o ci sono vicini. Non dovevamo rimanere sotto terra così a lungo. — Il momento della liberazione è prossimo, amico mio. Il nostro lavoro è quasi compiuto. E dunque dimmi, il Popolo è ancora minacciato? — È così. La regina Opal dice il vero. Bruin socchiuse gli occhi. — Ma sei sotto vincolo, vedo. — Sì, Bruin. Sono alla mercé della regina. Gli occhi di Bruin lampeggiarono bianchi nella roccia. — Io ti libero dal tuo vincolo perché possiamo parlare sinceramente. Così non va, pensò Opal. Le spalle di Oro si accasciarono e fu come se ognuno dei suoi anni si scrivesse sulla faccia di Beckett. — Adesso gli umani hanno armi — disse Oro, ed era strano vedere quelle parole uscire da una bocca piena di denti da latte. — Mi sembrano miracolose. Nella memoria di questo piccoletto ho visto che, se non li sconfiggeremo al più presto, si uccideranno tra loro a migliaia. Distruggono la Terra e hanno annientato diverse migliaia di specie. La faccia di pietra mostrò turbamento. — Non sono cambiati? — Sono solo più efficienti di prima, tutto qua. — Devo aprire la seconda serratura? Oro si sfregò gli occhi. — A questo non posso rispondere al posto tuo. È vero che la regina Opal ha vanificato i loro tentativi, ma già stanno unendo le forze contro di noi. La porta è stata presa d’assalto due volte, con due dei nostri fra gli aggressori. Un’elfa e un nano, entrambi astuti avversari. La faccia di pietra sospirò e dalla sua bocca sgorgò una luce bianca. — Ci sono sempre stati traditori. 188 — Non possiamo resistere ancora a lungo — ammise Oro. — Alcuni dei miei uomini sono già stati chiamati al fianco di Danu. Il mondo è precipitato nel caos, e se domani gli umani attaccheranno la porta non ci sarà più nessuno a difenderla. Con le loro nuove armi, forse troveranno il modo di smantellare la seconda serratura. Opal gongolava di gioia e se avesse potuto applaudire senza sembrare poco regale, lo avrebbe fatto. Oro stava convincendo quel rozzo idiota meglio di quanto non avrebbe potuto fare lei. — Senza la luce del sole, il Popolo avvizzisce e muore — intervenne con solennità. — Presto scompariremo del tutto. La sofferenza è il nostro rituale quotidiano. Dobbiamo riemergere. Oro non poté che essere d’accordo. — Esatto, dobbiamo riemergere. Bruin rimuginò per un lungo momento, e mentre pensava i suoi lineamenti di pietra stridettero. — Molto bene — disse alla fine. — Aprirò la serratura, ma la scelta ultima spetterà a te, regina Opal. Quando si avvisterà la fine, allora tu dovrai scegliere. La tua anima ne sopporterà le conseguenze come già fa la mia. Sì, sì, sì, pensò Opal che quasi non riusciva a nascondere l’impazienza e l’entusiasmo. — Sono preparata a questa responsabilità — disse gravemente. E anche se non poteva vederlo, alle sue spalle Oro sbuffò, fin troppo consapevole che la folletta non aveva a cuore gli interessi del Popolo. Però le sue motivazioni non contavano, dal momento che il risultato finale, l’estinzione dell’umanità, sarebbe stato lo stesso. D’un tratto i lineamenti di Bruin furono sommersi in una pozza di magma ribollente che si riversò sulla roccia, rivelando due impronte incavate di mani: la chiave originale di Opal e una nuova, scintillante di un cupo color rosso sangue. — Fa’ una scelta disinteressata — la ammonì la voce di Bruin dal profondo della roccia. — La prudenza chiuderà completamente la porta, liberando le anime e distruggendo la via per sempre. La disperazione evocherà il potere di Danu e cancellerà gli umani dalla faccia della Terra. Il Popolo non sarà più confinato nel sottosuolo. Vada per l’impronta B, pensò felice Opal. Ho sempre trovato che la disperazione sia uno stimolo meraviglioso. Ora che finalmente era arrivato il punto culminante, Opal si interruppe per assaporarlo per un eccitante momento. — Questa volta è impossibile che io perda — disse a Oro. — Mammina 189 premerà il pulsante grosso. Oro avrebbe premuto il pulsante lui stesso solo per impedire a Opal di continuare a definirsi “mammina”, ma purtroppo solo chi aveva aperto la porta poteva attivare la seconda serratura. La folletta agitò le dita. — Ci siamo. Mammina è pronta. E poi, una voce parlò dal bordo del cratere: — L’umano si arrende. E ha portato l’elfa con sé. Finora, Opal non si era resa conto che quel momento non era del tutto perfetto. Ma adesso lo sarebbe stato. — Portateli da me — ordinò. — Voglio che assistano anche loro. Artemis Fowl trascinava una figura incappucciata, con i talloni che scavavano solchi nel terreno. Quando raggiunsero il cratere che si era aperto all’arrivo di Opal, uno dei pirati gli diede uno spintone che lo fece rotolare giù per la discesa, procurandogli escoriazioni alla faccia a ogni giravolta. La seconda figura ruzzolò al suo fianco, e quando i due raggiunsero la base della Porta dei Berserkr sembravano quasi coordinati: una coppia lacera e sconfitta. La seconda figura atterrò a faccia in su: era Spinella Tappo. Ed era evidente che non era venuta di sua volontà. — Oh, povera me — ridacchiò Opal dietro il pugno. — Poveri cari, come siete patetici. — La folletta era orgogliosa di se stessa perché dentro di sé trovava compassione per gli altri. Mi dispiace davvero per queste persone, si rese conto. Buon per me. Ma poi Opal ricordò come Artemis Fowl e Spinella Tappo fossero i responsabili degli anni che aveva passato in una cella di massimo isolamento e di ciò che era stata costretta a fare per poter evadere, e la sua compassione evaporò come rugiada al sole. — Aiutali ad alzarsi — ordinò Oro a Juliet che, accovacciata, era impegnata a mangiare un coniglio. — No! — strillò Opal. — Perquisisci il Fangosetto in cerca di armi e poi falli strisciare ai miei piedi. Voglio che il ragazzo implori per l’umanità. Voglio vederlo con le ginocchia insanguinate e lacrime di disperazione sulla faccia. Gli spiriti del Popolo avvertirono che la fine era vicina e che presto le loro anime sarebbero state finalmente sciolte dall’obbligo e avrebbero ottenuto la pace, perciò si radunarono alla base della Porta dei Berserkr nei corpi presi in prestito, formando un cerchio magico serrato. Osservarono Artemis trascinare faticosamente Spinella su per i gradini, la schiena curva per la fatica. Vorrei poterlo vedere in faccia, pensò Opal. Vedere quanto gli costa. 190 Il corpo di Spinella sbatteva floscio sugli scalini, e una gamba penzolava oltre il bordo della torre. Sembrava piccola e fragile e aveva il respiro irregolare. Opal si concesse di immaginare quello che Fowl doveva essere stato costretto a fare all’elfa per sottometterla. Li ho messi l’uno contro l’altra, pensò. La vittoria suprema. E lo hanno fatto per niente, gli sciocchi. Artemis raggiunse la sommità e lasciò cadere l’amica come un sacco di patate. Si voltò verso Opal, con l’odio scritto a caratteri cubitali sui suoi lineamenti normalmente impassibili. — Eccoci qui, Sua Maestà — disse con disprezzo. — Mi arrendo, come mi è stato ordinato, e ho costretto Spinella a fare altrettanto. — E io sono lieta di vederti, Artemis. Davvero lieta. Questo rende tutto semplicemente perfetto. Artemis appoggiò i gomiti sulle ginocchia, ansimando, con il sangue che gli colava dal naso. — Spinella ha detto che non avresti mai mantenuto la parola, ma io le ho assicurato che c’era per lo meno una possibilità, e che finché c’era una possibilità non avevamo altra scelta. Lei non era d’accordo, e io sono stato costretto a somministrare sedativi alla mia amica più cara. — Artemis guardò la folletta dritto negli occhi. — C’è una possibilità, Opal? La folletta fece una risata stridula. — Una possibilità? Oh, cielo, certo che no. Non c’è mai stata. Ti voglio bene, Artemis, sei troppo divertente. — Agitò le dita con una danza di scintille. Il colore svanì dal volto di Artemis. Le sue mani tremavano per la fatica e la rabbia. — Non ti importa delle vite che prenderai? — Non voglio uccidere proprio tutti. Ma affinché io possa avere il comando totale, qualcuno dovrà scomparire: gli umani o il Popolo. Ho scelto il tuo gruppo perché nel sottosuolo ho già un bel po’ di sostegno. Esiste un sito Internet segreto, e ti sorprenderebbe conoscere alcuni dei nomi registrati. I guerrieri restanti alzarono gli occhi dal cratere, ondeggiando piano e borbottando preghiere alla dea Danu. Due pirati si accasciarono all’improvviso con uno sbatacchiare di ossa. — I miei bambini vengono meno — disse Opal. — È ora che mammina li mandi in cielo. Bellico, fa’ arretrare un po’ quel genietto molesto. È improbabile che Artemis Fowl lanci davvero un attacco fisico, ma bisogna riconoscere che ha il dono di mandare all’aria i miei piani migliori. Juliet ricacciò Artemis a terra. Sul suo viso non c’era alcuna emozione; semplicemente, non poteva fare altro. — Devo uccidere il Fangosetto? — chiese impassibile. 191 — Assolutamente no — rispose Opal. — Voglio che veda. Voglio che provi la disperazione suprema. Artemis cercò di mettersi in ginocchio. — Gli umani non sono una minaccia per te, Opal. Per la maggior parte non sanno neppure che il Popolo esiste. — Oh, adesso lo sanno. I nostri navettiporti sono tutti spalancati e privi dei loro scudi. Ho rivelato ai Fangosi la nostra esistenza, perciò adesso non ho altra scelta se non eliminarli. È una questione di logica. Juliet piazzò un piede sulla schiena di Artemis, schiacciandolo a terra. — È pericoloso, mia regina. E se l’elfa traditrice si sveglia, potrebbe farti del male. Opal indicò i soldati di terracotta. — Tu blocca l’elfa e di’ a quelle statue mobili che tengano fermo il ragazzo. Mammina vorrebbe fare una piccola esibizione. Lo so, è un cliché, ma da oggi in poi probabilmente in pubblico dovrò essere regale e altruista. Juliet sollevò Spinella per la collottola, sorreggendola senza difficoltà. Due guerrieri cinesi immobilizzarono Artemis in una morsa di argilla cotta, lasciandogli libertà di movimento solo alle mani e ai piedi. Non può fare niente, pensò Opal soddisfatta. — Portateli qui — ordinò. — Voglio che entrambi mi guardino mentre ripulisco il pianeta. Artemis si divincolò inutilmente, ma la testa di Spinella ciondolava nel cappuccio, e questo infastidì leggermente Opal, che avrebbe preferito vedere l’elfa ben sveglia e terrorizzata. La folletta si sistemò vicino alla predella rialzata, tamburellando con le dita sulla pietra come una pianista. Mentre parlava, lavorava alla Porta dei Berserkr e affondava le dita nella pietra, che si scioglieva al suo tocco. — Un tempo gli umani avevano la magia — incominciò. Forse avrebbe dovuto imbavagliare la boccaccia tagliente di Artemis, nel caso avesse voluto rovinarle l’euforia del momento con qualcuno dei suoi commenti sarcastici. Anche se, a giudicare dall’espressione vacua sulla faccia del Fangosetto, aveva esaurito tutto il sarcasmo. — È così. Gli umani padroneggiavano la magia bene quasi quanto i demoni. Ecco perché Bruin Fadda ha gettato tutti quegli incantesimi su questa serratura. Ha pensato che se un umano fosse diventato abbastanza potente da decifrare gli incantesimi, allora per il bene del Popolo non gli restava altra scelta se non scatenare il potere di Danu. — Opal sorrise affettuosamente rivolta alla Porta dei Berserkr. — Adesso sembra facile, come un gioco da ragazzi — continuò. — Solo due impronte di mani su un piano di pietra. Ma i calcoli che non ho dovuto fare! Polledro non ci sarebbe mai riuscito, te lo 192 garantisco. Quel ridicolo centauro non ha idea di che cosa ci sia voluto per risolvere questo enigma: rune incantate in diverse dimensioni, fisica quantistica, matematica magica. Dubito che esistano quattro persone al mondo che sarebbero riuscite a riportare in vita quel vecchio sciocco di Bruin. E ho dovuto farlo tutto a mente, senza schermi o carta. Una parte per via telepatica, attraverso il mio alter ego più giovane. Quando è morta non ho neppure perso i miei ricordi, e invece avevo creduto di sì. Strano, no? Artemis non rispose. Si era ripiegato in un silenzio imbronciato e offeso. — E così, ecco come funziona — continuò Opal allegra, come se stesse spiegando un problema di matematica a un gruppo di bambini dell’asilo. — Se scelgo la prima impronta, allora chiudo la porta per sempre e tutti gli spiriti del Popolo all’interno del cerchio vengono liberati, tranne il mio ovviamente, perché io sono protetta dalla magia nera. Invece, se scelgo quella spaventosa mano rossa, allora si scatena il potere di Danu, ma solo sugli umani. È un peccato che da qui non riusciremo a vedere granché, però per lo meno io potrò vederti morire e immaginare l’effetto magico su tutti gli altri. Con uno strattone Artemis liberò un braccio dalla morsa del guerriero di argilla strappandogli la manica e uno strato di carne. Prima che chiunque avesse modo di reagire, posò la mano sulla prima serratura della Porta dei Berserkr. Ovviamente non successe nulla. Soltanto Opal latrò una risata. — Non capisci, stupido ragazzo. Solo io posso scegliere. Non tu, non quel patetico centauro Polledro, non la tua amichetta elfa. Solo Opal Koboi. Qui sta il punto. Chi apre la serratura controlla la porta. È codificato fino nel mio DNA. — La faccia di Opal diventò paonazza per la presunzione, e il mento appuntito incominciò a tremolare. — Io sono il messia. E io verserò il sangue perché il Popolo possa venerarmi. Costruirò il mio tempio attorno a questa stupida porta che non conduce da nessuna parte, e allora si organizzeranno visite guidate perché le scolaresche imparino tutto su di me. Ad Artemis rimaneva un solo briciolo di disprezzo. — Avrei potuto chiuderla — borbottò. — Se solo avessi avuto un paio di minuti. Opal rimase sconcertata. — Tu avresti… Tu avresti potuto chiuderla? Ma non mi stavi ascoltando? Non l’ho spiegato in maniera abbastanza chiara? Nessuno può chiuderla al di fuori di me. Artemis non sembrava impressionato. — Avrei potuto scoprire come fare. Mi sarebbe bastata un’altra ora, anche solo dieci minuti. Spinella è un membro del Popolo, ha la magia. Avrei potuto usare la sua mano e il mio 193 cervello. So che avrei potuto farcela. Quanto può essere difficile, se ci sei riuscita tu? Non sei neppure intelligente quanto Polledro! — Polledro! — strillò Opal. — Polledro è un buffone! Perde tempo a giocherellare con i suoi aggeggi, quando ci sono intere dimensioni ancora inesplorate. — Ti chiedo scusa, Spinella — disse Artemis con tono formale. — Mi avevi avvertito e non ti ho voluto dare ascolto. Tu eri la nostra sola possibilità, e io ti ho ingannata. Opal era furiosa. Girò attorno ai guerrieri cinesi e raggiunse Juliet, che teneva Spinella con la testa ancora penzoloni. — Tu sei convinto che questa ridicola cosa sarebbe mai riuscita a ottenere quello che ho ottenuto io? — Questa è il capitano Spinella Tappo della Libera Eroica Polizia — ribatté Artemis. — Mostrale un po’ di rispetto. Ti ha già battuta in passato. — Ma questo non è il passato — esplose Opal. — Questo è adesso. La fine dei giorni per l’umanità. — Afferrò la mano di Spinella e l’abbatté nell’area dell’impronta sulla Porta dei Berserkr. — Oh, ma guarda un po’! La porta non si chiude. Qui Spinella Tappo non ha alcun potere. — Opal se ne uscì in una risata crudele. — Oh, povera piccola Spinella. Pensa, se solo la tua mano potesse attivare la porta, allora le tue sofferenze cesserebbero subito. — Potremmo farlo — borbottò Artemis, ma i suoi occhi erano quasi chiusi e sembrava che avesse perso la fiducia in se stesso. La mano libera tamburellava un ritmo distratto sulla pietra. Finalmente la mente dell’umano aveva capito. — Ridicolo — disse Opal, ritrovando la calma. — E pensare che me ne sto qui a farmi confondere dalle tue ciance. Tu mi irriti, Artemis, e quando sarai morto sarò contenta. Mentre Opal inveiva contro Spinella, erano accadute due cose. La prima fu che la folletta ebbe una serie di pensieri: Certo che la mano di Spinella sembra davvero piccola. Opal si rese conto di non avere esaminato attentamente l’elfa da quando era apparsa sul bordo del cratere. Era sempre rimasta distesa, oppure Artemis ne aveva riparato il corpo con il proprio. Ma la sua faccia. Ho visto la faccia. Era decisamente lei, pensò. La seconda cosa che era accaduta fu che la mano in questione, ancora appoggiata sulla Porta dei Berserkr, incominciò a strisciare spasmodicamente verso l’impronta, a tastoni con i polpastrelli. Opal tirò indietro il cappuccio di Spinella per guardare meglio: vista da vicino, la faccia crepitava. 194 Una maschera. Una maschera programmabile giocattolo. Come quella che ha usato Pip…, comprese. — No! — gridò. — No, non lo permetterò! Le strappò via la maschera da sotto il mento, e ovviamente dietro non c’era Spinella. Opal riconobbe il proprio viso clonato e ne rimase fulminata, come presa alla sprovvista da un colpo violento. — Sono io! — ansimò, quindi scoppiò in una risatina isterica. — E solo io posso chiudere la porta! Seguirono due secondi di sbalordita immobilità da parte di Opal, e questo permise alle dita di Nopal di disporsi alla perfezione sull’impronta, che diventò verde e irradiò una luce calda. Dalla pietra si levò odore d’estate e un canto di uccellini. Artemis ridacchiò, mettendo in mostra i denti sporchi di sangue. — Ora sì che sarai “irritata”, suppongo. La folletta scagliò una maligna pulsazione magica direttamente nel tronco del clone, strappandolo dalla presa di Juliet e facendolo rotolare via dalla porta, ma tutto ciò che ottenne con la sua brutalità fu di far sì che la luce eterea fluisse ancora più in fretta. I raggi color smeraldo salirono a spirale verso l’alto in uno stretto vortice, poi si allargarono formando una semisfera attorno al cerchio magico. Con un sospiro di sollievo, i guerrieri immersero la faccia in quel bagliore verde erba. — Finalmente è finita, Opal — le disse Artemis. — Il tuo piano è fallito. Tu sei finita. La luce era invasa da esseri che sorridevano e facevano gesti. Erano scene di tempi passati, membri del Popolo vissuti in quella stessa valle. Opal non cedette tanto facilmente e si riprese. — No. Ho ancora il potere. Forse perderò quegli sciocchi Berserkr, ma la mia magia mi proteggerà. Ci sono altri del Popolo da gabbare, e la prossima volta non riuscirai a fermarmi. Rifilò un ceffone a Oro per distoglierlo dalla luce. — Assicurati che il clone sia morto — gli ordinò. — La magia potrebbe non prendere una creatura senz’anima. Se necessario, finiscila, e fallo subito. Oro si accigliò. — Ma lei è una di noi. — E che me ne importa? — Ma è finita, maestà. Stiamo andando via. — Fa’ come ti dico, schiavo. Può essere il tuo ultimo atto prima della tua ascesa. E poi con te avrò finito. — Ma è innocente. È una folletta indifesa. 195 Quell’argomentazione mandò Opal su tutte le furie. — Innocente? E a me che cosa importa? Ho ucciso un migliaio di membri del Popolo innocenti e ne ucciderò dieci volte tanti, se lo riterrò necessario. Fa’ come ti dico. Oro estrasse il pugnale, che nella sua mano parve grosso come una spada. — No, Opal. Bruin mi ha liberato dal mio vincolo. Non ucciderai altri del Popolo. E con efficienza militare, affondò il pugnale nel cuore di Opal con un solo colpo. La minuscola folletta si accasciò mentre ancora parlava. E continuò a parlare finché il suo cervello non morì, pronunciando frasi al vetriolo, ancora incapace di credere che per lei fosse finita. Morì guardando con odio feroce la faccia di Artemis. Lui avrebbe voluto ricambiare quell’odio, ma tutto ciò che provava era tristezza per quella vita sprecata. Qualcosa che poteva essere uno spirito, o una scura ombra contorta, lampeggiò per un attimo alle spalle di Opal come un ladro in fuga, e subito si dissolse nella luce magica. Tutto questo tempo. Tutto questo combattere, e non vince nessuno. Che tragedia, pensò il ragazzo. La luce brillò ancora più luminosa. Dall’aura si staccarono frammenti che diventarono liquidi rapprendendosi poi attorno ai guerrieri all’interno del cerchio. Alcuni lasciarono il proprio corpo con facilità, come liberandosi di una vecchia giacca; altri vennero strappati arto dopo arto e salirono in cielo con uno scatto. Oro lasciò cadere il pugnale, disgustato dal gesto che aveva dovuto compiere, quindi abbandonò il corpo di Beckett in un lampo di fuoco verde. “Finalmente” disse forse, anche se Artemis non ne era sicuro. Ai suoi lati, i soldati di argilla si disintegrarono mentre gli spiriti dei guerrieri li liberavano, e Artemis cadde a terra, faccia a faccia con Nopal. Il clone aveva gli occhi insolitamente luminosi e quello che poteva essere un sorriso sulla faccia. Parve concentrarsi sul ragazzo per un momento, poi la luce nei suoi occhi si spense. Alla fine era serena e, a differenza degli altri del Popolo, dal suo corpo non si staccò nessuna anima. Non saresti mai dovuta esistere, pensò Artemis, e poi i suoi pensieri si rivolsero alla propria salvezza: Devo sfuggire alla magia il più in fretta possibile. Le probabilità erano a suo favore, lo sapeva, ma quella non era una garanzia sufficiente. Era sopravvissuto contro ogni speranza tante di quelle volte negli ultimi anni che sapeva che le statistiche non sempre contano. 196 Gli venne fatto di pensare che, in quanto umano, poteva semplicemente scagliarsi contro le pareti di quella semisfera magica, attraversarle e sopravvivere. Con tutto il mio genio, mi salverò con un semplice salto, si disse. Si rialzò a fatica e si diresse verso il bordo della torre. Non erano più di tre metri: difficile, ma non impossibile. Che cosa non darei per un bel paio di ali di colibrì di Polledro, adesso, pensò. Attraverso il liquido verde, Artemis vide Spinella e Leale correre verso il cratere. State indietro, amici, pensò. Arrivo. E saltò. Fu contento che Leale fosse presente per assistere al suo tentativo, perché fu quasi atletico. Da quell’altezza, gli parve quasi di volare. Spinella sfrecciava giù per il pendio, per una volta lasciando indietro Leale. Dalla forma della bocca Artemis vide che stava gridando il suo nome. Le sue mani toccarono la pellicola della bolla magica e ci passarono attraverso, e per lui fu un sollievo enorme. Ha funzionato. Ora tutto sarà diverso. Un mondo nuovo con umani e Popolo che vivono insieme. Potrei fare l’ambasciatore. A quel punto l’incantesimo lo catturò come un insetto in un barattolo, e Artemis scivolò all’interno dell’aura magica come se fosse fatta di vetro. Spinella si precipitò giù per il fianco della collina tendendo una mano verso la luce magica. — Sta’ indietro! — le urlò Artemis, e la sua voce non era del tutto sincronizzata con le labbra. — Questo incantesimo ti ucciderà. L’elfa non rallentò, e il ragazzo comprese che voleva tentare un salvataggio. Non capisce, pensò. — Leale! — urlò. — Fermala! La guardia del corpo stese le robuste braccia e avvolse Spinella in un saldo abbraccio. L’elfa tentò ogni manovra da manuale per liberarsi, ma non c’era modo di sfuggire a una presa del genere. — Leale, ti prego. Non è giusto. Doveva toccare a me. — Aspetta. Aspetta, Spinella. Artemis ha un piano. — Cercò di guardare attraverso la cupola verde. — Qual è il tuo piano, Artemis? Tutto ciò che il ragazzo poté fare fu scrollare le spalle con un sorriso. Spinella smise di divincolarsi. — La magia non dovrebbe avere effetti su un umano. Perché non ti ha ancora liberato? Lui avvertì la magia scorrere sul suo corpo in cerca di qualcosa. E lo trovò, nell’orbita di uno dei suoi occhi. 197 — Ho un occhio di elfo, uno dei tuoi, ricordi? — replicò Artemis, indicandosi l’iride castana. — Avevo creduto che i miei geni umani avrebbero avuto la meglio, ma questa è una magia percettiva. Un potere intelligente. — Vado a prendere il defibrillatore — disse Leale. — Forse sarà rimasta ancora una scintilla. — No — lo fermò il giovane Fowl. — Sarà troppo tardi. Adesso gli occhi di Spinella erano ridotti a due fessure e un pallore mortale si era diffuso sulla sua pelle. Era nauseata e distrutta. — Tu lo sapevi. Perché, Artemis? Perché lo hai fatto? Lui non rispose. Spinella lo conosceva abbastanza bene ormai, più avanti avrebbe capito le sue motivazioni. Gli rimanevano pochi secondi e c’erano cose più urgenti da dire. — Leale, non è stata colpa tua. Ti ho imbrogliato. In fondo, io sono un genio tattico e tu eri privo di sensi. Voglio che tu lo tenga bene a mente, nel caso in cui… — Nel caso in cui cosa? — urlò la guardia del corpo dall’altra parte di quella luce viscosa. Di nuovo, Artemis non rispose. In un modo o nell’altro, Leale lo avrebbe scoperto. — Ti ricordi quello che ti avevo detto? — disse poi toccandosi la fronte. — Me lo ricordo — rispose Spinella. — Però… Non c’era più tempo per le domande. La nebbia verde fu risucchiata dentro la Porta dei Berserkr come aspirata da una macchina del vuoto. Per un attimo Artemis rimase in piedi, incolume, e Leale lasciò cadere Spinella per correre al fianco del suo protetto, ma poi l’occhio da elfa di Artemis brillò di luce verde e quando l’eurasiatico prese fra le sue braccia il ragazzo, Artemis Fowl era già privo di vita. Spinella si lasciò cadere sulle ginocchia e vide il corpo contorto di Opal Koboi vicino alla serratura. I resti della magia nera le avevano consumato la pelle in diversi punti, mettendo in mostra il bagliore d’avorio del suo cranio. In quel momento quella vista non le fece il benché minimo effetto, anche se gli occhi sbarrati della folletta l’avrebbero perseguitata nei suoi sogni per il resto della vita. 198 CAPITOLO 19 - LE ROSE SEI MESI DOPO Il mondo era molto resistente, e così a poco a poco si riaggiustò. Una volta passato lo sbalordimento iniziale della devastazione, si levò un’ondata di opportunismo e qualcuno, vale a dire la maggior parte della gente, cercò di sfruttare l’accaduto. Persone un tempo derise come eco-hippy New Age venivano adesso salutate come salvatrici dell’umanità, mentre si incominciava a capire che i loro metodi tradizionali di caccia e agricoltura avrebbero potuto sfamare le famiglie per tutto l’inverno. Guaritori, predicatori e sciamani agitavano i pugni attorno ai falò e il loro seguito si ingrossava. Accaddero un milione di cose che avrebbero cambiato il modo di vivere dell’umanità sulla Terra, ma forse i due eventi principali verificatisi dopo il Grande Crollo Tecnologico furono la consapevolezza che tutto poteva essere rimesso a posto e la scoperta del Popolo. Dopo i primi mesi di panico, un fanatico della Lanterna Verde a Sydney riuscì a rimettere in sesto Internet, scoprendo che anche se la maggior parte dei componenti della sua antenna erano esplosi, lui sapeva ancora come ripararla. A poco a poco, l’era moderna tornò a prendere il sopravvento mentre le reti della telefonia mobile venivano rimontate da dilettanti e i bambini si occupavano delle stazioni televisive. Ci fu un ritorno in grande stile della radio, e alcune delle vecchie voci di velluto degli anni Settanta vennero richiamate in servizio dai vari ricoveri per infilare CD in disk drive all’antica. L’acqua diventò il nuovo oro, e il petrolio scese al terzo posto nell’elenco dei combustibili dopo l’energia solare e quella eolica. In tutto il mondo si verificarono centinaia di avvistamenti di strane forme di vita che potevano essere creature magiche o alieni. Ovunque, un attimo prima quelle creature non c’erano e un attimo dopo si sentiva un crepitio o uno scoppio e improvvisamente apparivano stazioni di osservazione con dentro degli ometti. Piccole macchine volanti piovvero dal cielo e sottomarini inutilizzabili vennero in superficie al largo di un centinaio di grandi città. Il problema era che tutti quei macchinari si autodistruggevano e che esseri magici o alieni presi in custodia svanivano inspiegabilmente nel corso delle settimane successive. L’umanità sapeva di non essere sola sul pianeta, ma non sapeva dove trovare quelle strane creature. E considerando che l’umanità 199 non era neppure ancora riuscita a esplorare i vari oceani, ci sarebbero volute diverse centinaia di anni prima che sviluppasse la capacità di sondare sotto la crosta terrestre. E così le storie vennero gonfiate finché nessuno ci credette più, e l’unico video sopravvissuto non era convincente neppure la metà di un programma per bambini. La gente sapeva quello che aveva visto e ci avrebbe creduto fino alla morte, ma presto gli psichiatri incominciarono ad attribuire gli avvistamenti di creature magiche alle varie allucinazioni post-traumatiche di massa che già contavano dinosauri, supereroi e mostri come quello di Loch Ness. TENUTA DEI FOWL L’Irlanda era tornata a essere una vera isola. Le comunità si ritirarono in se stesse e incominciarono a coltivare alimenti da consumare direttamente anziché risucchiarne meccanicamente gli elementi nutritivi, imbottirli di additivi e poi spedirli in altri continenti. Molti ricchi proprietari terrieri donarono volontariamente i propri campi inutilizzati a gente affamata e rabbiosa che brandiva attrezzi acuminati. I genitori di Artemis erano riusciti a tornare a casa da Londra, dove si trovavano quando il mondo era crollato, e poco dopo il funerale di Artemis la tenuta dei Fowl era stata suddivisa in più di cinquecento lotti singoli in cui la gente poteva coltivare quello che voleva tra i frutti e le verdure consentiti dal clima irlandese. La cerimonia funebre in sé fu semplice e privata, alla presenza delle sole famiglie Fowl e Leale. Il corpo di Artemis fu seppellito nel pascolo sul confine settentrionale in cui il ragazzo aveva passato tanto tempo a trafficare con il suo aereo a pannelli solari. Leale non vi partecipò perché rifiutava ostinatamente di credere alle prove fornitegli dai suoi stessi occhi. Artemis non è scomparso, ripeteva ostinatamente. Questa non è la fine dei giochi. Juliet o Angeline Fowl si fermavano di frequente al suo dojo per una chiacchierata, ma lui non voleva lasciarsi convincere. E questo fu il motivo per cui la guardia del corpo non diede il benché minimo segno di sorpresa quando una mattina all’alba il capitano Spinella Tappo si presentò alla porta del suo alloggio. — Be’, era ora — la salutò, prendendo la giacca dall’appendiabiti. — Artemis vi lascia istruzioni e voialtri impiegate metà anno per capirci qualcosa. 200 Spinella gli corse dietro. — Le istruzioni di Artemis non erano esattamente semplici da seguire. E, com’era prevedibile, erano del tutto illegali. In cortile, nel bagliore arancione del mattino, si delineava una porta e sulla soglia c’era Polledro, dall’aria decisamente nervosa. — Che cosa credi che possa attirare meno sospetti? — domandò Leale. — Un velivolo dall’aspetto alieno che atterra nel cortile di una casa di campagna oppure una porta fluttuante con un centauro sulla soglia? Polledro scalpitò sulla passerella, trascinandosi dietro un trolley sospeso a mezz’aria. La porta della navetta si chiuse e scomparve dallo spettro visibile con uno sfrigolio. — Possiamo procedere, per favore? — chiese. — Tutto quello che stiamo facendo qui viola le leggi del Popolo e forse è pure immorale. Cavallina pensa che io sia alla cerimonia di Bombarda. Il Consiglio gli ha davvero conferito una medaglia, riuscite a crederci? Quel nanetto cleptomane è riuscito a convincere tutti di avere praticamente salvato il pianeta da solo. E ha firmato un contratto per un libro. In ogni modo, odio mentire a mia moglie. Se mi fermo a pensare a questa cosa per più di dieci secondi, potrei cambiare idea. Spinella assunse il controllo del trolley. — Non cambierai idea. Ci siamo spinti troppo in là per tornarcene a casa a mani vuote. — Ehi, dicevo così tanto per dire — si scusò Polledro. Negli occhi dell’elfa si poteva leggere una fredda determinazione, che non avrebbe ammesso obiezioni. Era un’espressione che aveva avuto praticamente di continuo negli ultimi sei mesi, da quando era tornata a casa dopo gli eventi della Porta dei Berserkr. La prima cosa che aveva fatto era stata andare a cercare Polledro alla Centrale. — Ho un messaggio per te da parte di Artemis — gli aveva detto non appena si era liberata dall’abbraccio soffocante del centauro. — Davvero? E che cos’ha detto? — Ha detto qualcosa a proposito di un bozzolo. Che dovevi nutrirlo. Quelle parole avevano avuto sul centauro un effetto potente. Era trotterellato alla porta e l’aveva chiusa a chiave alle spalle dell’elfa. Poi aveva effettuato un controllo anticimice con una bacchetta che portava sempre con sé. Spinella sapeva che quella parola doveva avere un significato per il suo amico. — Di che bozzolo si tratta, Polledro? E perché ad Artemis interessa tanto? Il centauro l’aveva presa per le spalle e l’aveva messa a sedere su una seggiola. — Perché ad Artemis interessa? Tempo presente? Il nostro amico è 201 morto, Spinella. Non dovremmo lasciarlo andare? L’elfa l’aveva respinto ed era balzata in piedi. — Lasciarlo andare? Artemis non mi ha lasciata andare quando ero nel Limbo. Non ha lasciato andare Leale a Londra. Non ha lasciato andare l’intera città di Cantuccio durante la rivolta dei goblin. E adesso dimmi, che cos’è questo bozzolo? Così Polledro glielo disse, e l’abbozzo di idea di Artemis apparve chiaro, anche se occorrevano altre informazioni. — C’era qualcos’altro? — chiese il centauro. — Ha detto o fatto qualcosa d’altro? Spinella scosse mestamente la testa. — No. Era diventato un po’ sentimentale, il che era insolito per lui, però era comprensibile. Mi ha detto di darti un bacio. Si alzò in punta di piedi e baciò Polledro sulla fronte. — Per ogni evenienza, immagino. D’un tratto il centauro era parso sconvolto, quasi sopraffatto, ma aveva tossito per superare quel momento di debolezza. — Ha detto: «Bacia Polledro». Queste parole precise? — No — aveva risposto Spinella ripensandoci. — Mi ha baciata, e poi ha detto: «Dagli questo da parte mia». Il centauro aveva fatto un gran sorriso, aveva ridacchiato e poi l’aveva trascinata in giro per il laboratorio. — Dobbiamo esaminare la tua fronte al microscopio elettronico — aveva detto. Mentre si dirigevano verso la Porta dei Berserkr, Spinella spiegò a Leale la loro interpretazione del piano di Artemis. Polledro trotterellava davanti ai due, borbottando calcoli fra sé con un occhio pronto a rilevare la presenza di umani mattinieri. — Il bozzolo era quello che Opal aveva usato per sviluppare il suo clone. Era stato consegnato a Polledro che avrebbe dovuto distruggerlo. — Ma lui non lo aveva fatto — indovinò Leale. — No. E Artemis lo sapeva, perché si era introdotto nei registri del riciclaggio della LEP. — Perciò Artemis voleva che Polledro sviluppasse un clone? Anche un vecchio soldato come me sa che ti serve del DNA per farlo. Spinella si diede una pacca sulla fronte. — Ecco perché mi ha baciato. Nella saliva c’era DNA sufficiente perché Polledro potesse ricavarne un esercito, ma agli scanner aeroportuali è sembrato una traccia naturale. — Un genio fino all’ultimo — commentò Leale. Poi però si fece scuro in 202 volto. — Ma i cloni non sono povere creature vuote? Nopal era al limite della sopravvivenza. Polledro si fermò sull’orlo del cratere per spiegare. — Sì, è così, perché non hanno un’anima. È qui che entra in gioco la magia. Quando la prima serratura della Porta dei Berserkr è stata chiusa, tutti gli spiriti del Popolo all’interno del cerchio magico sono stati liberati dai loro corpi, ma è possibile che Artemis avesse sufficiente umanità dentro di sé e abbastanza forza di volontà da rimanere in questo regno anche dopo la morte del suo corpo fisico. In questo momento il suo spirito potrebbe fluttuare liberamente come un ectoplasma, un organismo etereo. Leale rischiò di inciampare. — Stai dicendo che Artemis è un fantasma? — Si voltò verso Spinella in cerca di una risposta diretta. — Sta davvero dicendo che Artemis è un fantasma? Spinella guidò il trolley giù per la discesa. — I Berserkr sono rimasti fantasmi per diecimila anni. Ecco perché l’incantesimo ha funzionato. Se loro sono durati così a lungo, è possibile che Artemis sia riuscito a resistere per sei mesi. — Possibile? — ribatté Leale. — È tutto quello che abbiamo? Polledro indicò un punto vicino alla torre. — “Possibile” è essere ottimisti. Io direi piuttosto “a malapena concepibile”. Spinella sganciò i fermi di un contenitore refrigerato sul trolley. — Sì, be’, l’“a malapena concepibile” è proprio la specialità di Artemis Fowl. Leale sollevò il coperchio, e, per quanto se lo aspettasse, ciò che vide lo lasciò senza fiato. Dentro una tenda di plastica trasparente annebbiata dal suo fiato c’era il clone di Artemis. — Artemis — disse. — È proprio lui. — Ho dovuto lavorare nella serra — spiegò Polledro, sganciando il clone dai sistemi di sopravvivenza. — E non avevo accesso al mio laboratorio, perciò ora sul piede sinistro ha sei dita, però, per essere un lavoro rabberciato, direi che ci somiglia abbastanza. Non avrei mai creduto che lo avrei detto, ma Opal aveva sviluppato una buona tecnica. — E lui… Adesso ha quindici anni, giusto? Polledro nascose la faccia dietro un fascio di sondini per l’alimentazione. — In realtà, i tempi mi sono scappati un po’ di mano, perciò è un po’ più vecchio. Però non preoccuparti, gli ho fatto una trasformazione completa. Contrazione della pelle, levigatura delle ossa, iniezioni di midollo… Gli ho perfino lubrificato il cervello. Credimi, neppure sua madre noterebbe la differenza. 203 Si sfregò le mani e cambiò argomento. — Su, al lavoro. Fatemi vedere dov’è morto Artemis. — Laggiù — indicò Spinella. — Vicino… Era stata lì lì per dire “alla torre”, ma nel vedere le rose incredibili che crescevano in fitti cespugli proprio nel punto in cui Artemis era crollato le rimase il fiato in gola. Le rose della tenuta dei Fowl erano un qualcosa di sensazionale con la loro fioritura in una spirale perfetta ai piedi della torre rotonda, dove non erano mai state piantate. I loro insoliti petali arancione brunito le rendevano visibili anche dagli altri appezzamenti, e a Juliet era stato affidato il compito di far sì che nessuno degli abitanti del paese ne cogliesse anche un solo stelo. A causa delle recenti voci sull’esistenza del Popolo, i lavoranti dei lotti avevano preso a chiamare quei fiori “rose delle fate”, un nome più adatto di quanto non sospettassero. Leale portava il clone nella plastica e d’un tratto ricordò una notte di alcuni anni prima, quando in un prato aveva avuto fra le braccia qualcun altro, con l’erba alta che frusciava nella scia di Artemis. Solo che quella volta trasportavo Spinella, pensò. Polledro lo riscosse dai suoi pensieri. — Leale, devi sistemare il corpo fra le rose, al centro della spirale. Senza un sistema di sopravvivenza, abbiamo solo pochi minuti prima che la degenerazione abbia inizio. Leale depositò delicatamente il clone all’interno della spirale su un tratto morbido privo di spine. L’elfa si inginocchiò per aprire lo zip della tenda. Scostò i lembi e liberò il nuovo corpo di Artemis rivestito di un camice ospedaliero. Il clone aveva il respiro affrettato e la fronte imperlata di sudore. Polledro si mosse rapido attorno, raddrizzandone gli arti e rovesciando la testa all’indietro per liberare le vie respiratorie. — Queste rose sono un segno — osservò. — Qui ci sono dei residui magici. Scommetto che questa formazione riprende all’incirca il disegno della runa originale di Bruin Fadda. — Affidi tutte le tue speranze a un’aiuola in mezzo a un prato? — No, certo che no, Leale. La magia di Bruin Fadda era potente, e una persona con la forza di volontà di Artemis potrebbe tranquillamente resistere un paio di mesi. Leale si teneva la testa fra le mani. — E se non funziona, Spinella? Se ho lasciato morire Artemis? Spinella si voltò di scatto e vide che Leale era sottoposto a un’altissima tensione emotiva. Si era nascosto dietro un rifiuto della realtà per sei mesi, e 204 se Artemis non fosse tornato indietro, si sarebbe rimproverato per sempre. Se non funziona, Leale potrebbe non riprendersi mai, si rese conto. — Certo che funzionerà! — lo rassicurò. — Ora, basta ciance e via con la resurrezione. Quanto tempo abbiamo, Polledro? — Staccato dal sistema, il clone può sopravvivere forse per quindici minuti. Leale sapeva che l’ora delle obiezioni era finita. Avrebbe fatto tutto il necessario per garantire a quel piano una possibilità di successo. — Molto bene, Spinella — disse riscuotendosi. — Io che cosa devo fare? L’elfa si accovacciò a un metro di distanza dal clone, con le dita strette attorno agli steli di rosa, incurante delle spine che le trafiggevano la pelle. — Non ci resta che aspettare. O compare oppure lo abbiamo perso per sempre. E credo che perderemmo anche qualcosa di noi, pensò Leale. Aspettarono, ma non accadde niente fuori dal normale. Gli uccellini cantavano, il cespuglio frusciava e il vento portava attraverso i prati il rumore di un trattore. Spinella, agitata, strappava i fiori, e mentre lei si preoccupava Leale fissava il volto del clone e intanto ricordava episodi del passato insieme al suo capo. Non c’è mai stato nessuno come Artemis Fowl, pensò. Anche se con tutti i suoi intrallazzi non mi ha mai facilitato il lavoro. Leale sorrise. Gli ho sempre guardato le spalle, per quanto fossero piccole in confronto alle mie. — Spinella — mormorò. — Non viene… E poi il vento cambiò, e di colpo Leale sentì il profumo delle rose. L’elfa si alzò esitante. — Sta succedendo qualcosa. Credo che stia succedendo qualcosa. La brezza sollevò un paio di petali e li spinse in alto nel cielo. Molti altri se ne staccarono dai fiori mentre il vento sembrava lambire la curva della spirale arancione, spogliando in fretta tutti i fiori. I petali si levarono come farfalle, svolazzando scintillanti, così numerosi da riempire il cielo e oscurare il sole. — Artemis! — gridò Leale. — Segui la mia voce. Ce l’ha fatta? È arrivato il momento più grande di Artemis Fowl?, si chiese. I petali volteggiarono con un rumore simile a un coro di sospiri e improvvisamente piombarono a terra come sassi. Il clone non si era mosso. Spinella avanzò lentamente, come se stesse imparando a usare le gambe, poi si lasciò cadere sulle ginocchia e strinse una mano del clone. — Artemis — disse, e la sua voce era come una preghiera. — Artemis, ti prego. Ancora niente. Adesso neanche più il respiro. Leale non aveva tempo per le sue solite maniere impeccabili e scostò l’elfa. — Scusami, capitano. Questa è la mia area di competenza. 205 Si inginocchiò accanto al pallido clone e cercò il battito con il palmo. Niente. Gli rovesciò la testa all’indietro, gli pizzicò il naso e gli fece la respirazione bocca a bocca. Avvertì un battito debole sotto la mano e si lasciò cadere all’indietro. — Spinella. Credo… credo che abbia funzionato. L’elfa strisciò sul tappeto di petali. — Artemis — disse. — Artemis, torna da noi. Ci furono altri due respiri, poi molti altri irregolari, quindi gli occhi del ragazzo si aprirono. Entrambi di un azzurro sorprendente. Inizialmente erano sbarrati per lo shock, ma poi le palpebre incominciarono a sbattere piano come le ali di una falena in trappola. — Sta’ calmo — gli disse Spinella. — Sei al sicuro. Artemis si accigliò, cercando di mettere a fuoco. Era chiaro che le sue facoltà non erano ritornate completamente e che non ricordava ancora le persone curve su di lui. — State indietro — disse. — Non sapete con che cosa avete a che fare. Spinella gli prese una mano. — Noi ti conosciamo, Artemis. E tu conosci noi. Cerca di ricordare. Lui cercò di farlo, concentrandosi finché alcune nuvole non incominciarono a diradarsi. — V-voi — chiese un po’ esitante. — Voi siete miei amici? Spinella pianse di sollievo. — Sì, siamo tuoi amici. Adesso dobbiamo portarti dentro, prima che arrivi la gente del posto e veda l’erede da poco scomparso scortato da appartenenti al Popolo. Leale aiutò Artemis a rialzarsi, anche se era ovviamente malfermo. — Oh, avanti — borbottò Polledro offrendo l’ampio dorso. — Solo per questa volta. Leale sollevò Artemis, lo sistemò sulla schiena del centauro e lo tenne fermo con l’enorme mano. — Mi hai fatto preoccupare, Arty — gli disse. — E i tuoi genitori sono distrutti. Aspetta solo che ti vedano. Mentre attraversavano i campi, Spinella indicò alcuni punti in cui avevano vissuto insieme esperienze significative, sperando di stimolare così la memoria dell’amico. — Spiegatemi — disse il ragazzo con la voce ancora debole. — In che modo vi conosco? E così Spinella incominciò la sua storia: — È iniziato tutto a Ho Chi Min, un’estate. Il caldo era soffocante. Inutile dirlo, Artemis Fowl non sarebbe 206 stato disposto a sopportare un disagio tale se non fosse stato in gioco qualcosa di straordinariamente importante. Importante per il suo piano… 207