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Salvo Toscano
La traversata
(Una fiaba palermitana)
e altri racconti
Novantacento Edizioni
La traversata
(Una fiaba palermitana)
Ore 7:50, viale Regione Siciliana
La mia ragazza sostiene che sarebbe molto meglio se
andassi in bici. Ti servirebbe a far moto, ribadisce a ogni
buona occasione, soprattutto in quei frequenti momenti di trance apparente in cui la vedo posseduta dal
demone di sua madre. Ma io resto dell’opinione che
affrontare le strade di Palermo in bicicletta sia come
spedire un bambino in triciclo sul circuito di Monza
durante il Gran Premio. Meglio aspettare altre quattro o cinque generazioni per concedere il tempo agli
indigeni, piuttosto refrattari alle norme di ogni sorta,
di assimilare il codice della strada. Nel frattempo, io
opto per l’autobus. Almeno finché quei galantuomini
dell’assicurazione non si degneranno di mollarmi i soldi per ricomprarmi il motorino, che qualche distratto,
un giorno che lo avevo parcheggiato davanti alla posta,
deve aver scambiato per il suo.
La gente a Palermo coltiva l’hobby di lamentarsi degli autobus. Ma io sono un ottimista. Riesco a vedere
sempre il bicchiere mezzo pieno e vivo le mie traversate sulle vetture dell’Amat con la disposizione d’animo
dell’apprendista, a scuola di vita. In tanti si ostinano a
non capirlo, ma i viaggi su quei cosi affollati sono come
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degli stage itineranti, ben più istruttivi della lettura di
qualche quotidiano omologato o della frequenza a un
devastante corso di antropologia.
Sono le otto e, come ogni santa mattina da un po’ di
settimane, staziono rintronato dal sonno alla fermata,
aspettando che il 100 intraprenda l’epico attraversamento della circonvallazione.
Bivaccare a una fermata dell’autobus a Palermo può essere un’esperienza ai limiti del mistico. Quando all’orizzonte
vedi materializzarsi la sagoma arancione, quando finalmente
metti a fuoco il numero e capisci che è il tuo numero, quasi
ti vien voglia di agitare ramoscelli d’ulivo e intonare l’Osanna. Almeno è così che la vedo io. Sarà per via di tutti quegli
anni in oratorio a fare il chierichetto, ma a me pare di vedere scene bibliche dappertutto. Di questo, però, con la mia
ragazza evito di parlare, dopo quella volta che ho fatto un
riferimento alle nozze di Cana e lei, con sufficienza, mi ha
chiesto questa Cana con chi mai si fosse sposata.
Per farla breve, stamattina l’attesa messianica per l’autobus è più spossante del solito. C’è già traffico, una coda
più compatta e più incazzata di quelle tradizionali. La mia
esperienza mi fa ritenere con matematica certezza che deve
esserci stato un incidente su viale Regione Siciliana. Un
disastro. Già mi pare di vedere le auto praticamente intatte,
ferme di traverso sulla circonvallazione, gli occupanti immersi in una scena madre tipo Cavalleria rusticana, un orgasmo di clacson tutto attorno e accanto, nella corsia opposta,
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i palermitani sfilare a passo d’uomo per la taliata di rito.
Accanto a me un uomo grasso parla male del sindaco,
da solo. Più in là un ragazzetto con acconciatura rasta, lo
zaino a tracolla, la barbetta incolta, si aliena ascoltando
musica in cuffia a un volume indecente: altri tre anni
così e dovrà vedersi i film coi sottotitoli. Lo fisso perplesso e nemmeno mi accorgo dell’auto. Finché una
voce di donna non mi scuote dal torpore.
“Scusi”, ripete una seconda volta, a volume più alto.
È una bionda ossigenata sui quaranta. Porta occhiali da
sole con montatura rossa, lì per lì mi fa pensare a Shelley Winters travestita da Lolita, perché le scene dei film
di Kubrick sono un’altra cosa che mi sembra di vedere
dappertutto. Ma anche di questo non parlo con la mia
ragazza, da quando una sera abbiamo visto 2001 Odissea
nello spazio e lei si è addormentata prima ancora che lo
scimmione capisse che poteva menare con l’osso. L’indomani l’avevo sentita raccontare al telefono a un’amica
di aver visto un “film di fantascienza coi gorilla… Il Pianeta delle Scimmie? Sì, forse era quello lì”.
“Prego”, rispondo io e mi sporgo verso il finestrino.
Alla guida della Mercedes c’è un sessantenne panciuto
con occhiali da sole di misura abnorme, che rumina una
gomma da masticare con aria svogliata.
“Are we near to Mondello?”, chiede la bionda. Mi pare
americana.
Esito un attimo, incerto se avventurarmi nel mio ingle9
se creativo o rifugiarmi nell’italiano gesticolato che alla
fine gli stranieri capiscono sempre. Mi sono svegliato
pigro stamattina, e opto per la seconda.
“Non proprio. Mondello è dall’altra parte della città.
Dovete attraversare tutta la circonvallazione e poi, in
autostrada troverete l’uscita. Ma oggi c’è un traffico terribile: c’è stato un incidente”.
È evidente che nessuno dei due ha capito nulla. Che
poi, il luogo che devo raggiungere, la miniera la chiamo io, ovvero l’orrendo call center dove lavoro, si trova
proprio lì, dall’altro lato della circonvallazione, di strada
per andare a Mondello. E insomma, la lampadina mi
s’accende, con un po’ di ritardo ma s’accende.
“Non ho capito bene”, dice la bionda, rassegnata all’italiano, sfilandosi gli occhiali.
“Posso accompagnarvi. I come with you”, butto lì con
un’aria ipocrita da buon samaritano.
“Wonderful, get in”, commenta il ruminante alla guida.
Monto in macchina, mentre la coda di auto alla rotonda
di via Oreto si ingrossa.
“Traffic”, telegrafo ai due davanti, indicando il tappeto di lamiere davanti a noi. E lì mi s’accende una seconda lampadina. Meno felice. Sarà questione di geni, ma nei palermitani
è diffusa quella che chiamo la sindrome da scorciatoia. È
l’impulso irrefrenabile di avventurarsi per una serie di strade
alternative, magari allungando il tragitto di diciotto chilometri, perché lì almeno “si cammina”. Ci casco anch’io.
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